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Apocrifo e blasfemo

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La crisi della fede può far compiere delitti anche ai più insospettabili. Tocca a Don Gregorio Ferro, ex inquirente Vaticano, risolvere l'ultimo e forse il più efferato dei peccati, che ha inizio con la scomparsa di un bambino un po' speciale...

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DESCRIZIONE:

La crisi della fede può far compiere delitti anche ai più insospettabili. Tocca a Don Gregorio Ferro, ex inquirente Vaticano, risolvere l'ultimo e forse il più efferato dei peccati, che ha inizio con la scomparsa di un bambino un po' speciale...

L'AUTORE:

Davide Trombini è nato a Ferrara nel 1973 e svolge l'attività di Vigile del Fuoco permanente con il grado di "Esperto", presso il distaccamento di Codigoro, dove risiede. Nel 2008 pubblica il suo primo romanzo, "L'Iniziato di Agarthi" per "Imago" della Casa Editrice Il Filo (Viterbo). www.liniziatodiagarthi.it

Titolo: Apocrifo e blasfemo Autore: Davide Trombini

Editore: 0111edizioni Collana: SelezionePagine: 160 Prezzo: 13,00 euro

11,05 euro su www.ilclubdeilettori.com

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA

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Horror Narrativa Poesia Sentimentale Altri generi

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Davide Trombini

Apocrifo & Blasfemo

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

APOCRIFO & BLASFEMO 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Davide Trombini

ISBN 978-88-6307-242-6 In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009 da

Digital Print Segrate - Milano

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a Stefania e Serena miracoli della mia vita

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Santo Padre Colui che può creare il figlio di Dio, può considerarsi Dio stesso? Se così fosse, allora a cosa dovremmo credere? Le ho fatto pervenire questo resoconto in via ufficiosa e riservatissima, per metterla subito al corrente dell'indagine che ho svolto su richiesta di Sua Eminenza Clemente Perlazzi, Vescovo di Torino e custode della Sacra Sindone. Si starà chiedendo per quale motivo ho deciso di scavalcare le normali correnti di informazione; ebbene, ciò che ho scoperto è talmente eclatante che se qualcuno al di fuori del nostro ordine dovesse venirne a conoscenza, le colonne che reggono la Santa Chiesa crollerebbero come divelte da Sansone. Come Lei ci ha insegnato, ogni uomo di fede, durante il suo cammino, incontra un ostacolo che mette in discussione il proprio credo e che lo interroga sul fatto che la strada intrapresa sia davvero quella giusta. Questa indagine è il mio ostacolo. Con questa lettera, colgo quindi l'occasione per chiederLe udienza, Santo Padre, in modo che le sue parole possano far smettere di vacillare la mia fede e possano altresì rigenerala.

Dalla missiva di Don Gregorio Ferro al Santo Padre

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I Il mattino successivo al giorno in cui ricevetti la lettera di Sua Eminenza Perlazzi, partii alla volta dell'orfanotrofio di San Adolfo che sapevo essere curato da Madre Alfonsa Turatti, suora dell'ordine Orsolino. Misi poche cose in valigia in quanto sapevo che mi sarei trattenuto un giorno o due al massimo; e sapevo inoltre che le tracce lasciate da coloro che si erano introdotti furtivamente all'interno dei locali, erano assai poche o almeno così era scritto sulla richiesta di Sua Eminenza. Credevo di dover svolgere una piccola inchiesta, ben più semplice di quella che ebbi modo di curare durante il mio vecchio incarico in Vaticano; tuttavia, le mie sensazioni erano oscure, inconciliabili con quello che all'inizio traspariva come una banale formalità e nient'altro. Era una bella giornata di sole e il viaggio fu breve e piacevole. Il treno locale che mi portò alla stazione di P. era un mezzo comodo, dall'aspetto caldo e generoso, e il panorama variopinto dei campi e delle candide cime alpine, assopì per un poco le mie equivoche sensazioni nei confronti dell'indagine che mi accingevo a compiere. Quando scesi dal treno, mi ritrovai in una piccola stazione fatta di mattoni rossicci e ombreggiata dai tigli in fiore. Dal fitto assieparsi dei rami occhieggiavano tante piccole figure dorate il cui dolce profumo unito al cinguettio dei passeri, scaldava il cuore anche di chi, come me, era lontano da casa. L'orfanotrofio di San Adolfo distava poco meno di due chilometri e decisi di percorrerli a piedi, approfittando della bella giornata che l'estate mi regalava. Le Alpi Graie si affacciavano all'orizzonte belle come i bastioni del paradiso, e il chiarore lontano delle nevi perenni sfumava dietro ai nembi striati. La strada era coperta da asfalto vecchio e bitorzoluto, e fiancheggiata da un fosso colmo di acque brillanti, dove di tanto in tanto sfrecciava la figura argentata di un pesce seguita da un ribollio. Camminai per poco più di mezz'ora, il caldo era notevole e quando giunsi di fronte ai cancelli dell'orfanotrofio ero accaldato e assetato. Oltre ai cancelli arrugginiti, si levava un vecchio edificio di

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due piani, ristrutturato grazie alla generosità dei paesani che avevano offerto un po' di denaro e tanta manodopera. Era bianco e azzurro col tetto granata e con tante finestre. L'ingresso si affacciava davanti a un verde giardino e ai lati del viottolo si stendevano due abbondanti cipressi prostrati i cui rami appiattiti si sfaldavano come i petali di una grande rosa. Il lato destro dell'edificio era ombreggiato da una verde macchia di abeti e sul lato sinistro, un'alta siepe di bosso attraversava il giardino in senso ortogonale, partendo dalla parete per giungere alla recinzione. Oltre quel muro verde, probabilmente si nascondeva un piccolo parco giochi, lo intuii grazie alle vocine festose che si udivano oltre la siepe. Suonai il campanello e alcuni istanti dopo vidi attraverso il vetro satinato della porta d'ingresso, una sagoma corpulenta che correva impacciata. La porta si aprì e spuntò una suora che mi chiese cosa volessi vociando un sonoro «Sì?». La sorella ansava e sul suo viso c'erano i residui di un sorriso che stentavano a reprimersi. Salutai e mi presentai, e quando finii di pronunciare il mio nome, il sorriso scomparve dal viso della suora lasciando il posto a un misto di paura e meraviglia. Udii il ronzio metallico del meccanismo che apriva il cancello, e percorsi il viottolo fino alla porta d'ingresso dove la suora mi aspettava ancora ansante; e guardando quel volto paffuto e occhialuto mi accorsi che non ero l'unico a essere accaldato. «Benvenuto, Padre Gregorio e che il Signore sia con lei» disse con evidente sollievo, «sono Suor Giovanna. La prego mi segua, Suor Alfonsa la sta aspettando...» Dopo aver ricambiato il saluto la seguii fino a un piccolo atrio. Suor Giovanna si fermò lì e mi guardò timidamente. «Attenda qui, Padre, corro ad avvertire Suor Alfonsa.» Alla mia sinistra, una porta lasciata aperta per il caldo portava al parchetto dove tante piccole figure esili di fanciulli correvano e giocavano allegramente. Sulla soglia c'era un bambino che mi fissava, con un pallone sotto il braccio. Prima che Suor Giovanna potesse andare, alcune vocine la chiamarono in coro, lei si affacciò un istante alla porta e ad alta voce disse: «Torno subito, non fatevi male» imboccò quindi un corridoio e scomparve. Decisi di attendere nel parco e come mi voltai verso la porta, il bambino sulla soglia corse via, sperai per timidezza e non per timore di me.

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Nel parchetto, gli alberi e la siepe generavano un'ombra gentile che si stendeva sul verde come la mano di Dio. Alcune bambine giocavano saltando la corda, due di loro ne tenevano le estremità e la facevano ruotare mentre un gruppetto stava al centro e saltava ritmicamente. Altri bambini più piccoli giocavano sulle altalene e sullo scivolo, accompagnati da altre suore che palesavano un'aria divertita; e un altro folto gruppo di bambini aveva allestito un piccolo campo da calcio usando dei giubbotti come pali per le porte. Il mio sguardo cadde subito sul bambino che avevo visto sulla soglia e che stava giocando a calcio. Carezzava il pallone con buona maestria e si destreggiava in mezzo al campetto come un piccolo fuoriclasse; era senz'altro il più bravino di tutti. Mi avvicinai per vedere meglio e in quel momento un tiro maldestro fece partire il pallone nella mia direzione. Da buon vecchio giocatore di Promozione, mi esibii in un suadente stop e presi a palleggiare in modo elegante finché non avvertii un doloroso scrocchio alla base della rotula sinistra che mi costrinse, con rammarico, a sospendere l'esibizione. Cercando di nascondere l'espressione di un uomo dolorante, fermai il pallone sotto il piede sinistro in attesa che un bambino mi chiedesse di fare un lancio. Ma il piccolo fuoriclasse mi venne in contro e mi fissò con aria curiosa, come se il pallone non gli interessasse più. «Sei bravo» mi disse meravigliato. «Ho sentito Suor Giovanna che ti ha chiamato padre. Sei qui perché cerchi un bambino?» Non avevo affatto l'aspetto di un sacerdote, indossavo un paio di vecchi e polverosi mocassini, pantaloni di tela nera e una camicia azzurra con qualche alone di sudore. Non fui sorpreso che quel bambino non avesse capito cosa fossi. «Sono Padre Gregorio» gli dissi. «Suor Giovanna mi ha chiamato così perché sono un prete.» «Io mi chiamo Marco, e sono qui perché non ho più i genitori» mi disse con tono apatico. «Tu perché sei qui? Per Nazareno?» «Non sono qui per fare un'adozione, noi parroci non possiamo diventare genitori. Sono qui per parlare con Suor Alfonsa.» Il visino di Marco divenne basito. «Lo so che voi preti non potete adottare noi bambini. È per questo che ho pensato che tu sei qui per aiutare Nazareno.» Il viso innocente di quel bambino mi aveva confuso. Mi sentivo come di fronte a un angelo che mi vuole comunicare qualcosa e che lo fa in una lingua a me sconosciuta. Stavo per parlare di nuovo, quando una voce alle mie spalle mi chiamò. Mi voltai. Era Suor Alfonsa. Era

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così magra da sembrare consumata, ma il suo viso era gentile. Gli occhi grigi le donavano uno sguardo amorevole ma lasciavano permeare un velo di disperazione. La bocca era sottile, le labbra quasi inesistenti e dal copricapo fuggivano alcuni sottili fili grigi. Avanzai di un paio di passi. Il ginocchio mi tradì nuovamente strappandomi un espressione stizzita; Suor Alfonsa mi vide zoppicare, accennò un sorriso e scosse il capo come se davanti a lei vi fosse un bambino incorreggibile. Evidentemente aveva assistito al mio pomposo palleggio e vedermi ora zoppicante a causa di quel gesto di vanteria, la faceva sorridere di gusto. Avanzai ancora. Il dolore non passava ed emisi un crocidio. L'espressione della suora allora cambiò, divenne impensierita, i suoi occhi acuti caddero prima sulla mia articolazione e poi tornarono a incrociare il mio sguardo precario. «Si sente bene? Posso fare qualcosa?» Chiese avvicinandosi a me nel tentativo di sorreggermi. Io scossi la testa e cercai di tornare eretto. «Non si preoccupi, è solo il mio vecchio ginocchio che fa i capricci.» La suora tornò a sorridere. «Alla sua età, Don Gregorio, dovrebbe riguardarsi un po' di più.» Il dolore al ginocchio cessò improvvisamente, forse perché quell'affermazione mi aveva ferito nell'animo e il fuoco che ardeva nell’articolazione era salito al cuore. Sentivo i miei cinquantadue anni come se fossero la metà, avevo ancora i capelli neri e la sclera degli occhi candida, tuttavia, le vene azzurrognole che comparivano sulle mie caviglie indicavano che la gioventù stava scemando. Fortunatamente, quella flebile traccia poteva ancora restare nascosta, ma il dolore al ginocchio, causato da un vecchio infortunio sul campo di calcio, a volte tornava a rammentarmi che il mio tempo stava passando ineluttabile. Suor Alfonsa non badò minimamente al malumore che attraversava il mio volto. Pensavo che mi avrebbe condotto nel suo ufficio, invece si voltò e s'avviò placidamente lungo il marciapiede che costeggiava l'edificio, con le movenze di un'anima in pena. «Vuole seguirmi, Don Gregorio?» Mi disse con un filo di voce. Io la seguii silenzioso e quasi sorpreso. Giungemmo sul retro dell'orfanotrofio. Il sole era cocente, batteva con violenza e i muri bianchi lo riflettevano come specchi. Un grande recinto di assi di legno appuntite circondava un orticello ben curato; dal terreno, scuro e forte, spuntavano file ordinate di ciuffi variopinti e castelli di canne incrociate da cui occhieggiavano lucide sfere rosso vivo.

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«Le piace la nostra casa, Don Gregorio?» Mi chiese svogliatamente. Il suo tono era quello di una persona che, per diffidenza, non sa come esternare le proprie emozioni e prende tempo con un antipasto di domande disinteressate. «Certo» le risposi asciutto. «È molto grande e l'avete reso così accogliente...» «Questo edificio era una vecchia scuola. È stato ristrutturato grazie alla generosità della gente di questo paese.» «Quanti bambini ospitate?» La suora si voltò verso di me e mi guardò sorpresa. «Ventisette.» Disse dopo una pausa; ma a un tratto si mostrò depressa e si corresse «No, aspetti, ora sono ventisei.» Il suo sguardo divenne poi acuto e interrogativo. «Il Vescovo Perlazzi non le ha spiegato il motivo per il quale si trova qui?» «È stato molto vago» le risposi io con sufficienza. «Mi ha detto soltanto che cinque giorni fa qui c'è stata un'effrazione.» Suor Alfonsa mi guardò con sospetto, come se le nascondessi qualcosa; infine si voltò e mi fece segno con la mano di seguirla. La seguii sconcertato, mentre le sensazioni cupe che mi avevano attanagliato durante il viaggio si rifacevano vive. Camminammo lungo il marciapiede, e passammo davanti a un basso portone che io giudicai l'ingresso di una cantina; era chiuso saldamente da un catenaccio tutto arrugginito, ma il lucchetto che lo imprigionava era nuovo e ben oliato. Girato l'angolo, ci ritrovammo sotto l'ombra cordiale degli abeti. Suor Alfonsa mi condusse di nuovo all'interno dell'istituto, attraverso una posterla; imboccammo quindi un lungo corridoio e raggiungemmo insieme il suo ufficio. Era piccolo, ma essenziale. Un vecchio mangianastri dal suono cupo, riproduceva la sinfonia Pastorale di Beethoven e l'unico ornamento era un crocefisso appeso al muro da cui Gesù pareva guardarci con severità. La suora si sedette faticosamente alla sua vecchia scrivania e mi fece segno di accomodarmi di fronte a lei; posò quindi le sue mani nodose sul legno e mi guardò con circospezione. Non capivo il perché di tanto distacco, quell'atteggiamento mi spiazzava. Fu a quel punto che iniziai ad attribuire nuove dimensioni alla mia indagine. «Non si tratta solo di un'effrazione, non è vero suor Alfonsa?» Le chiesi imperturbabile. «È molto strano che lei non sappia nulla, la notizia è apparsa anche sui giornali locali» mi disse lei con tono di rimbecco.

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L'aria divenne ancor più pesante, mi sentivo come un pregiudicato sotto interrogatorio, era il momento di mostrare un po' di mordente. «Senta, io non so per quale motivo lei usi quell'atteggiamento con me. Che ci creda o no, io non so nulla di quello che è accaduto qui, a parte un'effrazione, se fosse così gentile da delucidarmi renderebbe le cose un po' più facili.» Così dissi, la mia voce non fu troppo alta, ma cercai di usare un tono saldo. Ma Suor Alfonsa non si fece intimidire, lessi nei suoi occhi l'intenzione di analizzare il mio animo, e forse lo fece perché mi guardò intensamente e in modo strano. I suoi occhi penetrarono i miei come la lama di un bisturi e fu faticoso per me sostenere quello sguardo. Forse, alla fine di quell'analisi interiore, lei capì che ero sincero e la diffidenza svanì lasciando il passo a un nuovo e più tenue atteggiamento di prudenza. «Uno dei nostri bambini è scomparso, rapito!» Disse seccamente. A quell'affermazione, nella mia mente si smossero dubbi e considerazioni. Non ero sorpreso che quella notizia fosse arrivata e subito svanita come una meteora nel cielo, e che solo poche testate locali ne avessero parlato; al giorno d'oggi, il giornalismo che conta è talmente cinico da considerare il rapimento di un orfano meno importante dell'eliminazione di un concorrente dal reality show del momento. I miei dubbi si riferivano invece al Vescovo: perché mi aveva tenuto nascosta quella notizia? Forse temeva che la lettera che mi aveva spedito finisse in mani sbagliate. Pensai di contattarlo subito per chiedergli una spiegazione, ma Suor Alfonsa riprese a parlare e io ad ascoltare basito. «Era con noi da due mesi soltanto, lo avevano abbandonato davanti al cancello una notte di aprile.» Mentre parlava si stringeva forte le dita e le vene sui dorsi stropicciati delle sue mani divennero turgide. La sua voce era atona, come quella di una madre che ha esaurito le lacrime e che racconta la tragedia del figlio senza riuscire più a piangere. «Si chiama Nazareno» proseguì. «Il suo nome è scritto sulla lettera che lo accompagnava. La lettera dice anche che è nato in aprile dell'anno scorso e che è affetto da una grave malattia: Leucodistrofia metacromatica.» Suor Alfonsa fece una pausa, come se avesse pronunciato un'orrenda bestemmia e cercasse di rimettere i suoi peccati a Dio

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ripetendo mentalmente l'atto di dolore; ma io ero ormai preso da quel resoconto e l'incitai a proseguire. «Di che si tratta?» Le chiesi con una certa insistenza. «È una malattia genetica conseguente al deficit di un enzima deputato al metabolismo dei sulfatidi.» «Se non sbaglio, i sulfatidi fanno parte della guaina che avvolge il sistema nervoso e i neuroni...» Commentai senza velleità. «Esatto. Il soggetto che ne è affetto subisce un progressivo e inesorabile deterioramento delle funzioni mentali e neurologiche.» La suora arricciò il naso, le parole uscivano dalla sua bocca come un parto sofferto «La malattia compare solitamente fra il sesto mese e il secondo anno di vita, e si manifesta con ipotonia, convulsioni, cecità, sordità... il soggetto muore generalmente entro tre-cinque anni dall'esordio dei sintomi.» «Terribile!» Esclamai «Avrete senz'altro svolto un'indagine medica, analisi e contro analisi?» «Certo che lo abbiamo fatto!» Vociò lei, come se l'avessi accusata ingiustamente di negligenza «Lo abbiamo portato in due ospedali diversi per le analisi!» «E gli esiti?» La Suora fece scivolare sul tavolo una busta gialla. «L'esito è positivo.» Concluse sconsolata. «L'esito di entrambi gli esami?» A quella domanda mi guardò in modo interrogativo, come se non capisse, o fingesse di non capire. «Ha detto che lo avete portato in due diversi ospedali» incalzai. «Ciò significa che sono state svolte due serie di analisi; dov'è il secondo esito?» «Non è ancora arrivato, lo stiamo aspettando.» Disse frettolosamente. «...E la polizia cosa ne pensa?» Prima di rispondere fece un sospiro, come se avesse rivangato un ricordo spiacevole. «Hanno controllato tutto l'orfanotrofio ma senza trovare alcuna traccia. La situazione stava diventando grottesca, pensavano addirittura che il rapimento fosse una mia messa in scena. Ma prima che potessero mettermi sotto torchio, il vero rapitore si è fatto vivo con una telefonata al vescovo chiedendo un cospicuo riscatto, da consegnare da lì a una settimana in un luogo non ancora stabilito.»

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La suora non seppe dirmi altro sulle indagini della polizia e quello fu il punto in cui mi sembrò più sincera. Ma i miei dubbi si acuirono. Perché qualcuno aveva interesse a rapire un bambino destinato a morire? Il vescovo mi aveva tenuto nascoste troppe cose e il comportamento strano di Suor Alfonsa mi dava a intendere che lei conoscesse i motivi di tanta segretezza. Prima di uscire dall'ufficio, mi porse una lettera chiusa in una vecchia busta stropicciata. Era la lettera trovata assieme al bambino. La lessi, era succinta: si limitava a dare al bambino un nome e una data di nascita, e a informare della malattia. Mi si gelò il sangue; quella lettera sembrava la bolla di accompagnamento di un comune pacco spedito per posta. I motivi che inducono un genitore ad abbandonare il figlio possono essere molteplici, ma non ne esiste una valido e questo mi sembrava il più disumano di tutti: che muoia da solo! Passai il resto della mattinata a controllare la stanza da letto da cui era stato sottratto Nazareno, ma non trovai nulla. Del resto nemmeno la polizia aveva trovato tracce, cosa mi aspettavo di scoprire io arrugginito com'ero? Il pranzo fu servito a mezzogiorno in punto. Il refettorio era un'ampia stanza dagli alti soffitti, con una porta a due ante che portava all'attigua cucina. Le suore sedevano a un unico e lungo tavolo circondato da sedie rigide prive di cuscino di paglia, particolarmente adatte ad appiattire le natiche e a fermare la circolazione degli arti inferiori. Il tavolo degli orfani era più basso, i bambini sedevano su piccole panche turchesi e due suore sedevano accanto ai più piccoli pronte per imboccarli. Suor Alfonsa mi aveva ceduto il posto di capotavola. Davanti a me fumava un piatto di minestrone di verdura; col caldo che faceva, avrei di certo preferito un'insalata di riso, ma il profumo era buono e l'aspetto invitante. Era fatto con fagioli, fave, piselli e porro e il brodo era denso e ricco. Prima di affondare il cucchiaio nel piatto ci raccogliemmo tutti in preghiera. Il brusio di voci scomparve come spento da un interruttore e poi si riaccese allegro, assieme al tintinnio delle stoviglie. Ripartii subito dopo pranzo. Secondo gli accordi avrei dovuto passare il pomeriggio a setacciare tutto l'istituto, e se mi fossi dilungato, avrei trascorso lì anche la notte; ma qualcosa mi diceva che gli indizi per il proseguo delle indagini erano altrove. Suor Alfonsa mi chiese di restare, ma la sua svogliata insistenza mi spinse ancor più ad

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andarmene. Mentre mi congedavo, notai sul suo viso un velo di sollievo. Naturalmente portai con me la “bolla d'accompagnamento”.

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II Quella notte dormii poco e male. La casa parrocchiale della chiesa di San Grato ove prestavo la mia opera, era avvolta da uno strano silenzio. Ogni volta che i miei occhi si chiudevano, la mia mente proiettava sulle palpebre chiuse un film: un furgone postale fermo davanti all'orfanotrofio, l'autista che getta un pacco sull'erba del giardino e mentre si leva il pianto di un bambino, Suor Alfonsa che firma la bolla di consegna sorridendo come se niente fosse. Mi alzai molto presto, ed espletate le Lodi Mattutine, aprii rumorosamente la persiana; fuori era ancora buio. La casa parrocchiale aveva una piccola cucina con pensili bianchi e un vecchio fornello dagli spigoli bombati; misi la moka sul fuoco e, nell’attesa, guardai di nuovo la busta spiegazzata che Suor Alfonsa mi aveva lasciato. La luce tenue della cappa metteva in risalto le pieghe della carta. Fu allora che notai quei solchi. Sembravano lettere, come se qualcuno avesse posato un foglio sulla busta per scrivervi sopra e i tratti della penna si fossero impressi al disotto, simili a piccoli canali. Li osservai attentamente e distinsi soltanto quattro lettere, una vicino all'altra:

IRET Sembrava un acronimo, ma non ne capii subito il significato. In quel momento la moka gorgogliò. Mi serviva proprio un bel caffè forte! Un'ora più tardi chiamai il vescovo. La sua voce era calda e solenne come sempre, anche attraverso la cornetta. Gli chiesi subito i motivi per cui mi aveva nascosto il rapimento di Nazareno; egli mi rispose di getto, con tono logico e disteso, come se da tempo avesse preparato una precisa risposta a quella domanda. Si giustificò dicendo che se mi avesse raccontato tutta la verità io non avrei mai accettato di iniziare quell'indagine. Aveva ragione. Stavo per dirgli che avrei abbandonato l'incarico ma non ne ebbi modo; il vescovo mi interruppe. Mi disse, cambiando discorso, che non avrei potuto contattarlo per

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almeno tre giorni, in quanto doveva recarsi a Milano per partecipare a un programma televisivo sulla rete nazionale; uno di quegli inutili talk show di seconda serata, dove le parole scorrono a fiumi e non sfociano mai da nessuna parte. Il tema della trasmissione doveva trattare la crisi della fede, accentuata dalla pubblicazione ormai continua di libri che avevano l'impudenza di avanzare nuove teorie sulla nascita del Cristianesimo, e l'arroganza di spacciarle per verità assodate e ineluttabili. Gli feci i miei auguri, non mi restò altro da dire perché il crepitio che udii subito dopo sancì la fine della conversazione. Quella stessa mattina avevo appuntamento per una visita ortopedica presso la clinica privata Torpinia di Torino. Avevo contato troppo sul mio ginocchio malandato, e l'incidente calcistico all'orfanotrofio era solo l'ultimo dei numerosi segnali d'allarme proferiti dalla mia articolazione. Uscii di casa stiracchiandomi, e respirando l'aria fresca e ritemprante di Saluggia, una bella cittadina del vercellese di quattromila anime, sorta in un ripido argine scavato dalla Dora Baltea, e mio rifugio ormai da nove anni. Montai sul mio osso, una vecchia e generosa Alfa 33 grigio metallizzato (o forse avrei dovuto dire grigio e marrone ruggine), appena tornata dall'officina per un piccolo problema agli ammortizzatori risolto alla meno peggio. Nonostante i vent'anni suonati il motore non mi aveva mai tradito, nemmeno dopo 234.799 Km. I ragazzi dell'oratorio l'avevano battezzata con l'epiteto di Leopard, per via del rombo del motore e degli esosi consumi che, con un po' di fantasia, richiamavano ironicamente il celebre carro armato in forze presso l'Esercito Tedesco; e così anche per me venne naturale appellarla in quel modo. Come girai la chiave il rombo fu generoso e aggressivo, tipico delle vecchie Alfa Romeo; la retromarcia grattò leggermente ma lo faceva anche da nuova, e il fumo espulso dal tubo di scappamento aveva lo stesso identico colore di quando avevo avviato il motore per la prima volta: non bruciava nemmeno un grammo d'olio. Amavo quel ferro! Imboccai la strada provinciale di Torrazza Piemonte sotto un cielo spalmato di nuvole bianche e distese, come la glassa su di un croissant. Il sole sbirciava lievemente, senza riuscire a disegnare ombre, e di se stesso lasciava permeare soltanto una corona sbiadita. Dopo circa un'ora varcai le porte di Tornio entrando da corso Vercelli. Non era facile destreggiarsi nel traffico con la mia auto, il volante del Leopard era durissimo, come la manovella di un paranco

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arrugginito mentre si solleva una tonnellata; pensai che era la giusta penitenza di un peccatore che per vanteria si è giocato il ginocchio sinistro; “ma il dolore che scavava sotto la mia rotula ogni volta che premo la frizione, non è una punizione sufficiente?” Mi chiesi. Mentre ancora cercavo una soluzione a quel quesito, mi ritrovai di fronte alla rotonda di corso Duca degli Abruzzi e dopo un paio di faticose svolte, posteggiai il Leopard proprio di fronte alla clinica Torpinia, alla fine di via Amerigo Vespucci. Diedi una robusta accelerata, spensi subito il motore e scesi sul marciapiede zoppicando. Le porte automatiche della clinica si aprirono davanti a me come un sipario e scoprirono un atrio ampio ed elegante, simile alla hall di un albergo a cinque stelle. Al centro del soffitto faceva capolino un grande rosone circolare di vetri azzurrati, e la luce del giorno carezzava i pavimenti scuri e lucidi, rendendoli cangianti come opali. Un intreccio elegante di piante ornamentali inverdiva le pareti, e al centro della sala, una sorta di chiosco circolare, simile a una grande colonna ionica monca, fungeva da reception. Oltre a una serie di sedie disposte come nella platea di un teatro, trovai il corridoio che attraversava il fondo della sala. A ogni angolo di quel labirinto di corridoi c'erano cartelli che indicavano luoghi poco allettanti. Iniziai così a scorrere le numerosi voci in cerca dell'ortopedia: Angiologia, Andrologia... Chirurgia vascolare, Endocrinologia... Gastroenterologia, Ginecologia... Ricerca e Sperimentazione..?! A quest'ultima voce mi soffermai un momento, basito. Ripresi poi a scorrere le voci e finalmente trovai l'ortopedia; era al terzo piano. Vagai per quel dedalo di scale e corridoi come fosse un viaggio al centro della terra; chiesi un paio di informazioni a un'infermiera e a un'inserviente, entrambe notarono la mia andatura precaria e mi offrirono una sedia a rotelle, ma rifiutai per via dell'orgoglio. Finalmente, dopo un quarto d'ora, entrai claudicante nel reparto di ortopedia, e ne uscii un'ora più tardi, abbattuto come un uomo che ha perso tutto giocando a carte. Senza esami, l'ortopedico non si era pronunciato, ma era certo di una grave patologia al ginocchio e i sospetti da lui esternati erano oltremodo preoccupanti: probabile lesione del legamento crociato e del menisco. Se così fosse stato nessuno mi avrebbe più salvato dal finire sotto i ferri chirurgici; ma per il momento il medico mi aveva prescritto un adduttore e una risonanza magnetica. Ripresi a vagare sconsolato per quei corridoi lattescenti; il soffitto di pannelli di polistirolo scorreva sopra di me come un cielo piovoso, mentre i miei pensieri mi trasportavano in una cupa e umida

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prigione dove un chirurgo della Santa Inquisizione mi apriva il ginocchio come un'ostrica, usando i suoi ferri roventi. Non ho mai avuto paura della morte in sé, ma di soffrire prima di esalare l'ultimo respiro, quello sì. Quei pensieri foschi avvolsero la mia mente come bruma, e più cercavo una direzione e più mi sentivo disorientato, come quando si è immersi in un banco di nebbia e di istinto si accendono gli abbaglianti, e la nebbia sembra acuirsi. Quando mi resi conto che l'uscita della clinica era da tutt'altra parte, vidi una scritta sul muro. Qualcuno aveva tentato di cancellarla con della vernice bianca, ma era ancora leggibile. Diceva: Ricerca e Sperimentazione. Pensai di girare i tacchi e cercare l'uscita, ma in fondo al corridoio notai una grande porta dai vetri opachi. Quello che mi colpì fu la scritta nella parte alta del vetro:

I.R.E.T. Un brivido. Due brividi. Non era il freddo dell'impianto di climatizzazione, era il campanellino d'allarme delle mie emozioni che a modo suo mi avvertiva. Mi avvicinai alla porta e a fianco della maniglia vidi un'altra piccola scritta: Istituto Ricerca Embrionale Torino. Mi chiesi cosa ci facesse quell'acronimo sulla busta lasciatami da Suor Alfonsa e prima che potessi darmi una risposta, notai che la porta era socchiusa. La mia mente gelò. Entrai. La luce del corridoio filtrava attraverso il vetro opaco mettendo in risalto la polvere sospesa nell'aria e illuminando flebilmente un ampio e sorprendente laboratorio colmo di strumenti, alcuni dei quali mi erano in un certo qual modo familiari. Durante il mio precedente incarico presso il Vaticano, infatti, ebbi spesso l'occasione di visitare il laboratorio di ricerca degli archivi segreti, e la continua collaborazione col direttore, Dottor Giovanni Chiavazza, aveva acceso fra noi una buona amicizia. In quel sofisticato laboratorio venivano utilizzati strumenti molto simili a quelli che ora s'immergevano nella caliginosa penombra davanti ai miei occhi. La sala era rettangolare, corta e larga, e il grigio della polvere che si stendeva ovunque lasciava intendere che fosse abbandonata da almeno due mesi. Sulla parete di destra c'erano tre armadi metallici alti circa due metri con grandi ante sormontate da un display. Probabilmente erano frigoriferi. La parte centrale del locale era attraversata da due lunghi tavoli da lavoro paralleli. Sul primo notai due microscopi binoculari identici, un agitatore, vetrini vari, provette di ogni genere e puntali Eppendorf-Gilson. Sull'altro tavolo riconobbi un lettore per

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micropiastre Radim-Alisei, uno strumento per elettroforesi automatica, un forno per la sterilizzazione e una piastra con mescolatore magnetico. Un altro tavolo si stendeva lungo la vasta parete di fondo, sul quale si posavano una cappa di aspirazione, uno strumento per fotometria a fiamma e un analizzatore chimica clinica BT 3000 Plus. All'estrema sinistra, oltre ai tavoli, c'era la scrivania con l'immancabile computer dotato di monitor piatto e pile malferme di scartoffie. La lunga parete che si stagliava alla mia sinistra, era invece coperta interamente da una lunga fila di schedari: almeno dieci metri di mobili di metallo alti come un uomo e dotati di cassettoni, alcuni dei quali erano socchiusi. Mi avvicinai incuriosito. I cassetti erano colmi di schede, miriadi di schede. Passai in rassegna ogni schedario finché giunsi di fronte all'ultimo; provai a aprirne i cassetti ma era chiuso a chiave. Il mio sguardo cadde poi sul pavimento dove notai un biglietto. Mi chinai e lo raccolsi. Fu in quel momento che notai alcune impronte di scarpe nella polvere sul pavimento, e mentre mi rendevo conto che quelle impronte non erano certo le mie, anche il lieve bagliore che illuminava la sala venne meno, lasciandomi nelle tenebre; mi ritrovai steso a terra senza ricordare com'ero caduto e mentre un dolore lancinante mi spegneva il cervello, ebbi modo di udire un rumore effimero di passi veloci, che si attenuò fino a scomparire assieme alla ragione. Passò un tempo indefinito. Nella mia mente aleggiavano fonemi incomprensibili, una cacofonia di fischi e fruscii fra cui si distingueva una nota dai toni incalzanti, sempre più chiara, sempre più forte. Il mio corpo prese improvvisamente a vibrare, come scosso da un sisma, e fu in quel momento che il rumore divenne discernibile. Era una voce femminile, una voce che mi chiamava ora da un orecchio, ora dall'altro: «Reverendo! Riesce a sentirmi? Reverendo!» Aprii gli occhi, la luce era accesa. Ero in posizione prona con la testa di lato. Davanti a miei occhi, una scatola metallica grande come un forno a microonde schiacciata al suolo; era uno dei macchinari caduto dallo scaffale. Due mani mi aiutarono a mettermi seduto e davanti a me potei osservare un'infermiera, la stessa a cui avevo chiesto un'informazione qualche tempo prima. Nella mia mano sentii ancora la sagoma del biglietto che avevo trovato a terra e lo misi in tasca con disinvoltura. «Cosa ci fa qui dentro, reverendo?» Mi chiese l'infermiera con tono irritato.

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Mi passai una mano sulla nuca e sentii un grosso bernoccolo. Mi tornò poi alla mente il ricordo dai contorni onirici di quell'equivoco rumore di passi, ma decisi di tenerlo per me. «Non lo so» risposi sornione ostentando smarrimento, cosa che mi riuscì benissimo. «Cercavo l'uscita e sono arrivato qui per sbaglio, mi sono chinato e...» «...e si è tirato addosso quella cappa di aspirazione» concluse lei sospettosa. La donna mi aiutò ad alzarmi, l'odore acre delle sue ascelle ebbe su di me lo stesso effetto dei sali, perfino il mio ginocchio malandato si risvegliò pur di allontanarsi da lei. «Venga con me» disse con fare premuroso. «Dobbiamo mettere subito qualcosa su quel bernoccolo.» Mi prese a braccetto e ci avviammo lungo il corridoio come due sposini anziani. La sua chioma rossa e riccioluta si muoveva come un'onda proiettando verso di me l'atmosfera asprigna. Si staccò dal mio braccio solo quando giungemmo in un ambulatorio vuoto, e lì presi di nuovo a respirare. Mentre mi adagiavo sul lettino, lei aprì un armadietto metallico colmo di presidi medici. Il cigolio dell'anta mi penetrò l'encefalo come un ferro da calza. Sentivo il cervello come una poltiglia di cellule che pulsava e aumentava nel mio cranio ormai troppo piccolo per fare da contenitore. L'infermiera prese dall'armadio una busta di plastica grande come il palmo della sua mano, la colpì forte al centro col pugno e me la passò dicendo di premerla sulla nuca. La busta divenne fredda tutta d'un tratto e provai un po' di sollievo. «Quel laboratorio è in disuso ormai da tempo, lei non poteva entrare lì» disse l'infermiera mettendosi a braccia conserte, come in attesa di una mia improbabile spiegazione. I suoi occhi verdi dardeggiavano verso di me come fari e la pinguedine del suo stomaco sorreggeva il seno e le braccia come uno scaffale. «Che ci posso fare?» dissi io con tono incerto. «Cercavo l'uscita, non ero molto lucido, sa, il mio ginocchio...» «La porta era chiusa a chiave» mi rimbeccò lei. «Come ha fatto ad aprire?» Aggrottai le sopracciglia. Quel movimento fece acuire il mio dolore alla testa e mi sfuggì un rantolo. «La porta era socchiusa, è per questo che sono entrato. L'avrete scordata aperta.» Il mio rantolo scosse l'animo dell'infermiera, nei suoi occhi balenò una patina di compassione, e mi sorrise.

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«Coraggio, ora l'accompagno io fuori» disse con un misto di dolcezza e sarcasmo. «Perché è in disuso quel laboratorio?» le chiesi approfittando del suo nuovo atteggiamento dall'apparenza disponibile. «Sembrava tutto in ordine e le apparecchiature sembrano oltremodo costose per essere messe prematuramente fuori servizio. Che tipo di ricerche si svolgevano là dentro?» «Era tutto in ordine prima che arrivasse lei» disse l'infermiera in tono ironico. La donna si voltò poi per chiudere l'armadio e, dandomi le spalle, prese a parlare in modo dispersivo. «In quel posto svolgevano, per lo più, inseminazione artificiale. Un nuovo metodo a detta del Dottor Costogni.» L'infermiera chiuse poi l'armadio e si voltò verso di me pensando di aver concluso il resoconto, ma io insistetti. «E perché ora è chiuso? Hanno forse sbagliato qualche cura?» La donna si stizzì e ripose di getto, cercando di controbattere la mia insinuazione. «Hanno svolto molte inseminazioni, con grande percentuale di successo, ma a un tratto capitò qualcosa di terribile.» L'infermiera fece un sospiro. «L'unico figlio del Dottor Costogni si ammalò, di un male incurabile.» Io sgranai gli occhi. Forse l'infermiera lesse incredulità nel mio sguardo e si atteggiò con biasimo. «Lei non può capire, non ha figli e non sa cosa significhi star male per loro. Tutta la vita va a rotoli e non importa più di nulla.» Annuii imbarazzato. «A quella notizia, la moglie del Dottor Costogni non ha retto» proseguì l'infermiera. «Il dottore la trovò impiccata nel box auto e quando, poco tempo dopo, il figlio morì, il Dottor Costogni uscì completamente di senno e il laboratorio fu chiuso. Ora il Dottor Costogni è in cura presso una clinica.» «Dove?» le chiesi asciutto. «Non lo so, non ricordo.» «Che tipo di male aveva il bambino?» «Nessuno di noi lo ha mai saputo con certezza, ma quando si parla di male incurabile lei sa benissimo qual é la prima cosa a cui si pensa...»

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III Il rumore di quei passi fluttuava nella mia testa come i rintocchi di un orologio nel silenzio della notte. Ero sicuro che la porta del laboratorio fosse stata aperta furtivamente e che quella piccola cappa di aspirazione sfasciata sul pavimento fosse una messa in scena per far credere a me e a qualcun altro che ciò che mi era successo era solo un banale incidente. Mentre guidavo il Leopard lungo la strada di ritorno, quel sospetto divenne assillante, e prese a mordermi la curiosità di sapere i motivi per i quali qualcuno doveva introdursi clandestinamente dentro quel laboratorio in disuso, dove ora aleggiava un'aura ferale. Tornato a Saluggia feci una capatina all'oratorio Mazzetti per controllare il lavoro di pulitura che un paio di operai del comune stavano svolgendo sulla statua di Don Bosco. Tornai poi presso San Grato ed entrai subito nella casa parrocchiale dove la mia fidata Marta, una vedova in pensione che si era offerta di farmi da Perpetua, aveva già apparecchiato la tavola; l'acqua per la pasta ribolliva sul fuoco dentro una nube di vapore. Sentivo un certo appetito e staccai un crostino dal sacchetto del pane e lo sbocconcellai. «Già di ritorno, Don Gregorio?» mi disse Marta all'improvviso dietro le mie spalle. Sussultai e mi voltai di scatto facendo cadere un mare di briciole. Marta, era una sessantenne dallo spirito giovanile, ma un po' sorda, e la sua voce era spesso stentorea. Partecipava a tutte le messe della domenica e la sua voce roboante diventava una guida per tutti quei fedeli che avevano difficoltà a ricordare bene i salmi; il suo vociare surclassava anche i diffusori. Teneva i capelli grigi tirati indietro e raccolti in una cipolla, portava sempre abiti scuri e un grembiule bianco, e il suo aspetto era quello di una madre premurosa anche se non aveva mai avuto figli. I suoi occhi erano vicini, il viso paffuto e sempre arrossato, e quando non parlava teneva sempre l'angolo della bocca spostato di lato in una specie di smorfia d'impazienza. Aveva passato tutta la sua vita a custodire il marito malato e dopo la sua morte aveva deciso di custodire me. Mia madre si

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era spenta che ero ancora piccolo, e ora, la presenza in casa mia di quel genere di figura materna alternativa mi faceva sentire bene. «Cosa le ha detto il dottore?» mi chiese in tono grave, come un medico che nel suo paziente sospetta qualcosa di nefasto. «Mi ha prescritto una risonanza magnetica...» risposi io con voce gutturale; il resto lo tenni per me, non volevo che Marta si preoccupasse ancora di più. Marta annuì e aggiunse: «L'amatriciana è nel frigo, ci pensa lei Don Gregorio? Io devo fare alcune commissioni.» «Certo, Marta» le risposi bonariamente. «Ci vediamo domani, grazie.» «Ah, Don Gregorio...» disse all'improvviso sulla soglia. «...volevo avvertirla che riesumare il proprio passato può riportare alla luce cose spiacevoli.» La guardai con occhi interrogativi; Marta si era già accorta che la richiesta inoltratami dal Vescovo aveva a che fare col mio passato. Avrei voluto ignorare l'esortazione della mia Perpetua, ma la saggezza di Marta non era cosa da sottovalutare. «Grazie, lo terrò presente» annuii ostentando fiducia. Non appena Marta fu uscita, aprii il frigo, presi la pentola appannata contenente il sugo e in quel momento sentii un intenso e avido languore salire dall'epigastro fino a contorcere le meningi, come un desiderio di masticare in fretta e mandare giù tutto prima del tempo, per introdurre il più possibile. Non ho mai creduto alla fame nervosa, l'ho sempre considerata una banale scusa usata dalle persone obese per giustificare la loro ingordigia; ma ora, mentre mantecavo la pasta, quel languore mi attanagliava sempre di più e gli spaghetti che s'impregnavano di passata di pomodoro e di amore di guanciale e pecorino romano, sembravano troppo pochi per colmare il mio appetito. Era davvero fame nervosa, provocata forse dalla mattinata grama che avevo trascorso. Non amavo la TV durante i pasti, preferivo sfogliare un quotidiano; e mentre gli ultimi spaghetti si avvolgevano sinuosi e languidi attorno alla mia forchetta, notai nelle ultime pagine del giornale un piccolo trafiletto dedicato alla Sacra Sindone. Confermata la datazione del sudario di Cristo, diceva il titolo in grassetto. In sostanza, il Vaticano, nella persona del vescovo Perlazzi, aveva accondisceso alla richiesta di alcuni scienziati di svolgere una nuova datazione sulla discussa reliquia; e gli esiti ne avevano confermato la collocazione in un periodo compreso fra il 1295 e il 1360, mettendo

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così nuovamente in discussione la sua origine mistica. Questi scienziati, pensai, pur di dimostrare che Dio non esiste, sarebbero disposti a vendere l'anima al diavolo! Sfogliai l'ultima pagina e davanti ai miei occhi comparve la facciata degli annunci personali, ovvero, rifugi precari di persone sole che sperano di immergersi in una storia d'amore e che finiscono per annegare in un rapporto occasionale, per nulla costruttivo e spesso anche spiacevole, che rende quella solitudine simile a un vestito incollato addosso. Quella sfilza di numeri di telefono, indirizzi e verità storpiate, mi rammentò che in tasca portavo ancora il biglietto che avevo trovato nel laboratorio. Lo sfilai e lo guardai con pacata curiosità. Era un biglietto da visita, e riportava tre nomi coi rispettivi recapiti telefonici. Il primo era il direttore dell'IRET Dottor Jacopo Costogni, e di seguito i suoi due assistenti: i Dottori Mosè Focòpari e Angelo Iannocco. Indussi in tentazione e decisi di chiamare immediatamente partendo dall'ultimo della lista, del resto era mia abitudine iniziare le cose partendo dalla fine; quando sfoglio un album di foto inizio sempre dall'ultima pagina, e dò sempre una rapida scorsa ai titoli di coda prima di vedere un film in DVD. Nel mio alfabeto, la prima lettera è la Z. Composi il numero di cellulare del Dottor Angelo Iannocco. Era libero e stetti in attesa. La monotonia del segnale reiterato era rotta da un brano rock di Ligabue che usciva dalla cornetta per infilarsi nel mio orecchio in un fruscio distorto e sgradevole. Il fastidioso fonema fu interrotto qualche istante dopo dalla voce sintetica della segreteria telefonica che mi chiedeva di lasciare un messaggio dopo il bip. Non seppi se era più forte la delusione di non aver avuto risposta, o il sollievo di non aver più nei timpani quella cacofonia frusciante. Dopo il segnale acustico lasciai comunque un messaggio chiedendo di essere richiamato. Composi quindi il numero dell'altro assistente. Dopo una breve attesa udii la voce ansante del Dottor Focòpari che estrapolò dalle sue corde vocali un affannoso “Sì? Pronto?”, seguito da alcuni sospiri sempre più lontani, come una eco. «Buongiorno, parlo col Dottor Focòpari?» Chiesi con una patina di dubbio. La risposta fu debole e riluttante. «Si, chi lo desidera?» «Sono un sacerdote, mi chiamo Gregorio Ferro, gestisco la parrocchia di Saluggia. La chiamo perché sto svolgendo una piccola

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indagine per conto della Curia e avrei bisogno di farle alcune domande riguardo all'IRET.» «Guardi, ora non ho tempo» mi disse seccato. «Perché non chiama gli altri miei ex-colleghi?» «Perché il Dottor Iannocco non mi risponde...» dissi in tono asciutto «e il Dottor Costogni, come lei ben saprà, è in clinica e non è possibile disturbarlo.» «Ovvio, ha ragione. Comunque ora non ho proprio tempo» disse con un velo di imbarazzo, come per cercare una scusa credibile. «Devo uscire...» Decisi di insistere. «Le devo fare solo un paio di domande, non ci vorrà molto, comunque se ora non ha tempo potremmo... incontrarci magari. Sarebbe così gentile da dedicarmi qualche minuto? Quando e dove vuole lei.» Udii uno sbuffo. «Ma a che proposito?» «A proposito di fecondazione assistita e...» Il dottore mi interruppe con sgarbo. «...in internet, su Wikipedia, troverà tutto quello che cerca sull'argomento...» Io continuai come se nulla fosse. «...e di un bambino scomparso da un orfanotrofio che ho il sospetto sia nato grazie a voi.» Decisi poi di colorire il finale della frase. «...Così almeno mi ha detto la polizia...» L'altra parte del filo rimase silenziosa per alcuni secondi. «Dottore? È ancora lì?» Chiesi. «Venga da me stasera, alle nove. Cercherò di risolvere tutti i suoi dubbi.» Il dottore fece lo spelling del suo indirizzo e la comunicazione si chiuse di colpo, di seguito a un crepitio. Le menzogne non si addicono a un sacerdote, anche se sono pronunciate a fin di bene. Feci allora un nodo al fazzoletto per ricordarmi di aggiungere un Atto di Dolore alle preghiere dell'Ora Media.

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IV Raggiunsi la periferia di Torino al crepuscolo. Il sole già si nascondeva dietro l'orizzonte ma lasciava ancora tracce di sé, sotto forma di un rossore cangiante che si fondeva al blu della notte attraverso archi violetti; e i massicci montuosi riflettevano quell'iridescenza sulla poca neve rimasta, come l'eco di un altro cielo. Vagai per qualche tempo lungo le vie di una zona residenziale di fresca costruzione, simile a una foresta di pietra dove al posto degli alberi spuntavano villette a schiera e piccoli condomini. Dopo aver voltato l'ennesimo angolo, un'auto scura di cui non riconobbi il modello, piombò verso di me come impazzita e dopo aver sfiorato l'unica fiancata ancora immacolata del mio Leopard, svanì oltre gli edifici lasciandosi dietro un rombo sempre più lontano. Frenai di colpo e ripartii soltanto qualche istante più tardi, il tempo necessario per ricacciare giù le imprecazioni che risalivano dal mio stomaco come demoni dall'inferno. Cinquanta metri più avanti trovai la casa di Mosè Focòpari. Era l'appartamento di testa di un complesso di villette a schiera rosate, coi balconi in ferro battuto e grandi imposte di legno scuro alle finestre. Parcheggiai davanti al cancello dell'auto dove occhieggiava il cartello di passo carraio, pensando che mi sarei trattenuto ben poco tempo. Poco più avanti c'erano sull'asfalto i chiari segni di una sgommata. Pensai subito all'auto che mi aveva quasi investito, e rimasi perplesso. Suonai quindi il campanello e mi guardai attorno: il rione era deserto, del resto, molte case erano ancora in vendita come si notava dalle insegne appese qua e là sulle sbarre dei cancelli. Suonai una seconda volta ma nessuno mi rispose. Il cancellino era aperto e decisi quindi di entrare nella piccola corte. Sulla porta d'ingresso c'erano le chiavi. Bussai più volte senza ricevere risposta, afferrai allora le chiavi e aprii. La casa era buia, si vedeva soltanto il led di stand by del televisore e c'era un odore oltremodo sgradevole, un lezzo nauseabondo come di materia organica. Posai la mano sulla parete a fianco della porta in cerca dell'interruttore e riuscii ad accendere la luce. La casa era vuota.

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«È permesso?» Chiesi con riluttanza. Ancora nessuna risposta. Visitai il piano terra senza trovare nessuno e quando salii la scala a giorno notai alcuni segni rossi sulla parete. Sembrava davvero sangue e le tracce erano senza dubbio lasciate da una mano sporca. La mano di qualcuno che forse aveva sceso quella scala molto in fretta. Mentre salivo i gradini, pensai di nuovo all'auto impazzita, e le ansie presero ad attanagliarmi. Giunto al piano di sopra, accesi subito la luce del corridoio. Sul pavimento vidi con orrore una scia rossa simile a un binario che entrava in una stanza buia. Avanzai con circospezione e raggiunsi la porta della stanza stando attento a non pestare il sangue. Lì, l'odore era forte e rivoltante. Feci un breve sospiro e con la mano tremante spinsi il tasto dell'interruttore. Ebbi solo il tempo di fare un segno della croce; l'aroma acido dei succhi gastrici m'inondò la gola, riuscii a stento a trattenere i conati di vomito, ma al terzo sfogo avvertii un fiotto di bile risalire lungo l'esofago, e la cena che avevo consumato si mescolò al sangue ancora fresco spalmato sul pavimento. L'immagine riflessa nelle mie pupille mi aveva raggelato. Mentre mi strofinavo la bocca con la manica, la realtà sembrava distorta e il tempo scorreva a rallentatore. Un corpo, probabilmente quello di Mosè Focòpari, era seduto sul pavimento della sua camera da letto, con la schiena contro il muro, fermo in un lago di sangue. Le braccia erano aperte come ali, e i polsi erano inchiodati alla parete con due grossi chiodi. La testa chiomata di nero pendeva in avanti, dalla gola tagliata guizzava ancora il sangue che si coagulava sulla camicia bianca e dai polsi cianotici cadevano a terra deboli stille rossastre, producendo un suono tanto sottile quanto atroce. Rimasi per qualche infinito momento a fissare ansante quello spettacolo orribile, sperando che tutto sfumasse al più presto nella penombra della mia camera da letto, quando la luce del mattino filtra dalla persiana socchiusa annunciando la fine della notte e anche la fine degli incubi. Ma la sagoma crocefissa di Mosè Focòpari restava lì, fissa e ineluttabile davanti a me. Mi accorsi di essere sconvolto. Arretrai, e le mie suole pattinarono sulle strisce di sangue. Scesi le scale più in fretta che potei, ignorando il dolore al ginocchio. Uscii fuori e cercai di togliere il sangue dalle suole sfregandole sull'erba umida del giardino, come per pulire gli escrementi di un cane; e a causa di quel gesto istintivo provai ripugno di me stesso. Estrassi infine il cellulare e composi il 113.

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La polizia mi raggiunse con lo stesso impeto dell'armata di Garibaldi durante l'Impresa dei Mille. Giunsero con quattro volanti a sirene spiegate da cui scesero almeno dieci poliziotti, che con le loro divise così uguali sembravano tutti cloni. Uno solo di loro era in borghese, il burattinaio della squadra. Subito dopo arrivò anche l'ambulanza. Fu una lunga serata. Le strobo dei lampeggianti blu davano alla notte un tono inconsueto e innaturale, e illuminavano i volti preoccupati delle persone giunte dal vicinato, assiepate oltre il nastro segnaletico che arginava a stento la scena del crimine. Il poliziotto in borghese si qualificò come ispettore Rossi. Era un uomo alto sulla quarantina, dalla testa completamente rasata e lucida. La pelle del viso era tesa come tirata da un lifting, e uno strano segno, forse il rimasuglio di uno sfregio reso quasi invisibile dalla chirurgia estetica, gli scendeva dalla fronte come un rivolo fino ad accarezzare la palpebra destra, leggermente più chiusa dell'altra. L'uomo mi parlò con un accento tronco, vagamente teutonico. Mi tempestò con le stesse domande per almeno un'ora: perché ero lì, a che ora ero entrato, a che ora ero uscito, se conoscevo bene il Dottor Focòpari, il modello della macchina che quasi mi aveva investito... e per un attimo pensai di essere l'indiziato numero uno; ma presto mi resi conto che anche il più stupido dei poliziotti non pensava minimamente che un sacerdote impaurito come me potesse aver commesso un reato tanto cruento. Tuttavia, il fatto che fosse stata la mia indagine a portarmi lì aveva incuriosito oltremodo l'ispettore, il quale mi chiese di presentarmi l'indomani presso il commissariato di Dora Vanchiglia a Torino per lasciare un'accurata deposizione al suo diretto superiore: il commissario Andrea Minolfi. I tecnici della scientifica, giunti sulla scena poco più tardi, ultimarono i rilievi che era notte fonda. Il corpo di Focòpari fu portato fuori chiuso in una cerata, e caricato sul furgone scuro dell'impresa di pompe funebri per il trasporto immediato nei locali di competenza, dove il medico legale avrebbe subito svolto l'autopsia. Solo dopo la partenza del furgone potei rincasare. Mi misi a letto dopo una stentata Compieta. Non è difficile immaginare che quella notte non chiusi occhio. Non era un semplice dramma umano quello che mi aveva colpito; l'odore intenso del sangue che ancora perseverava sotto il mio naso, non era l'unica cosa che mi turbava. Quella moderna crocifissione, fatta probabilmente per insania

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mentale, si contrapponeva in modo assoluto al simbolo cristiano della mia fede; non era un sacrificio per salvare l'anima dell'uomo, era qualcosa che dimostrava senza dubbi l'esistenza di luoghi dove Dio non è ancora arrivato. Il diavolo aveva deciso impunemente di usare proprio quel simbolo per testimoniare ancora una volta la sua perfidia; e qualcosa mi diceva che quello era solo l'inizio.

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V Il mattino seguente, quando uscii di casa reduce da una lunga notte in bianco, il mondo che mi circondava sembrava perfino troppo consueto. Nulla destava più il mio interesse; mi sentivo refrattario, indifferente a ogni cosa. Per tutta la notte il mio pensiero si era immerso in un mondo virtuale troppo simile alla realtà per distinguerne la differenza, e quel mattino, quando infilai le chiavi nel quadro, l'odore del mondo mi stomacava e la luce del giorno sapeva di già visto. Nel mio passato in Vaticano, avevo già avuto a che fare con un omicidio, e pensavo di poter ancora affrontare situazioni del genere; ma quando chiudevo gli occhi vedevo il sangue scorrere sulle braccia del Dottor Focòpari. Ero ancora sconvolto. Mi sentivo vecchio, e debole. Durante quella nuova odissea a bordo del Leopard, diretto verso Torino, cercai di costruire un discorso da presentare al commissario che filasse perfettamente, in modo che la mia deposizione si svolgesse il più in fretta possibile. Alla fine del viaggio, quando imboccai via Porta Palatina, il resoconto era completo in ogni dettaglio, fisso nella mia mente come il Credo. Transitai per via Pietro Egidi dove al civico 12 si trovava il commissariato di Dora Vanchiglia, ma non c'era posto per parcheggiare, e fui costretto a proseguire. Dopo un breve giro dell'isolato, mi ritrovai di nuovo in via Porta Palatina, nei pressi di piazza Cesare Augusto, dove parcheggiai fra una BMW serie 5 rossa fiammante e una grintosa Audi TT grigio perla. Mi avviai quindi verso il commissariato, ma prima di allontanarmi troppo, mi voltai un istante a guardare con indulgenza la mia generosa automobile ferma fra quei due colossi. Sulla mascherina frontale, sembrava scolpirsi un'immagine nostalgica e sconsolata: anche la mia auto, forse, si sentiva vecchia e stanca. Mentre passeggiavo per piazza Cesare Augusto, mi ritrovai sotto l'ombra dell'imponente Porta Palatina, le cui torri a sedici lati si elevavano maestose come i pezzi di una immane scacchiera. Soltanto una delle due torri era merlata, e il corpo centrale che le univa lasciava filtrare l'azzurro del cielo attraverso due file di finestroni ad arco oltre

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ai quali c'era il vuoto; i raggi del sole s'insinuavano generosi dalle finestre e disegnavano sul porfido della piazza bizzarri rombi allungati. Quell'antica costruzione romana, chiamata anticamente Porta Principalis, fu edificata a cavallo fra il primo secolo a.C. e il primo secolo d.C., ovvero, nello stesso periodo a cui risale la costruzione di Augusta Taurinorum, la città romana che oggi prende il nome di Torino. La Porta Palatina fu utilizzata anche come carcere e una leggenda narra che vi fosse stato richiuso nientemeno che Ponzio Pilato. Nel vangelo di Luca si legge infatti che Pilato cadde in disgrazia perché propugnatore di numerose stragi, l'ultima delle quali ai danni dei Samaritani. Per questo motivo, nel 36 d.C. Pilato fu inviato al cospetto dall'imperatore Tiberio per essere giudicato. Secondo Eusebio di Cesarea, ovvero, un autore cristiano del quarto secolo che scrisse un resoconto completo sulla storia della Chiesa a partire dai tempi di Gesù, Pilato giunse a Roma che l'imperatore era già morto, e si suicidò. Tuttavia, un'altra versione sosterrebbe che Pilato fu mandato in esilio in Gallia e che sostò come prigioniero proprio a Torino, nella Porta Palatina. Questa leggenda non ha però molto seguito fra gli storici, i quali la ritengono una delle tante fantasie nate nel cinquecento a causa dell'enfasi generata dalla Sacra Sindone, custodita nel Duomo poco distante. Voltato l'angolo, giunsi di nuovo in via Egidi che percorsi fino al civico 12 dove trovai l'ingresso del commissariato. Quando varcai la soglia, vidi davanti a me il finestrone incorniciato della guardiola il cui aspetto si palesava come una sorta di quadro del Caravaggio intitolato “Poliziotto teso con cornetta del telefono”. Oltre quel vetro infatti, si stagliava la figura di una recluta imberbe che occupava il posto di guardia con febbrile tensione, come se tutti l'avessero abbandonato lì durante il primo giorno di servizio. Quando mi vide vicino al vetro posò la cornetta, sgranò gli occhi e si avvicinò frettolosamente. «Posso aiutarla?» mi chiese efebico attraverso la fessura del vetro. «Sì. Mi chiamo Gregorio Ferro, dovrei presentarmi al commissario Minolfi per una deposizione.» «Capisco...» disse inarcando le sopracciglia, «ma è arrivato un po' in anticipo...» Udita quell'affermazione, sbirciai il mio triviale orologio al quarzo; un arnese di plastica di scarso valore ma preciso come il più lussuoso cronografo svizzero, rinvenuto anni fa, come un naufrago, nel mare di granellini bianchi che riempiva un fustino di detersivo. L'avevo

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sincronizzato con l'orologio del televideo sul televisore di casa e da allora spaccava il minuto. Erano le otto e quattordici precise. «...Il commissario, di solito, arriva verso le nove. Se vuole può attenderlo lì» concluse, pronunciando il mento verso alcune sedie poste lungo il corridoio. Ringraziai, mi infilai fra il leggero viavai dell'ampio corridoio, e raggiunte le sedie indicate dal giovane piantone, mi sedetti sconsolato ad aspettare. Lungo quelle pareti dipinte di vernice lavabile, si affacciavano le porte dei vari uffici e dai vetri opachi trasparivano sagome umane, grigie e anonime. Fra una porta e l'altra, occhieggiavano quadri ritraenti immagini fotografiche di automezzi della polizia vecchi e nuovi, che non contribuivano affatto ad alleviare la mia seccante attesa. Impaziente, invertii più volte l'accavallamento delle gambe, cercando una posizione che potesse giovare al mio ginocchio dolente. Ma circa mezz'ora più tardi, i tendini della mia articolazione malandata si raffreddarono, limitandone il movimento e costringendomi ad alzarmi per sgranchirmi. Fu in quel momento che quasi mi scontrai con una donna che attraversava altezzosa il corridoio, come fosse in passerella. Aveva un faldone blu sotto il braccio e si muoveva pavoneggiandosi davanti ai saluti delle poche persone che incontrava lungo l'androne. Vedendola così a proprio agio, decisi di fermarla per chiederle se per caso sapeva quanto ancora sarebbe durata la mia barbosa attesa. «Scusi, signorina» la chiamai in tono asciutto. «Saprebbe dirmi, per caso, quando arriverà il commissario Minolfi? È più di mezzora che aspetto.» La donna mi squadrò, e quando realizzò chi fossi schiuse la bocca e alzò il capo, come se nella sua mente fosse affiorato un ricordo lontano. Tornò poi a guardarmi in viso e appiattì le labbra in un sorriso di circostanza. «Ancora cinque minuti di pazienza e potrà raggiungere il commissario nel suo ufficio.» Annuii, ma la donna mi guardò in tralice, forse perché il mio viso, dando retta al mio animo turbato, aveva contorto i muscoli in un espressione dura. La donna, infine, scomparve dietro l'angolo come una dea dopo un'apparizione mistica. Non mi ero accorto della sua bellezza, che ben presto avrei notato; tuttavia, avvertii in lei qualcosa di famigliare.

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Passarono cinque minuti esatti, e da una delle porte uscì l'ispettore Rossi che, dopo avermi salutato, mi indicò con la mano aperta l'angolo dietro a cui era scomparsa la donna. «Prego, da questa parte» mi disse con fare gentile. «E scusi se l'abbiamo fatta aspettare» aggiunse poi. L'ispettore mi accompagnò di fronte a una porta diversa dalle altre. Non era a vetri, e sul legno c'era una targa che diceva Commissario Andrea V. Minolfi. Bussò, aprì senza attendere risposta e insieme entrammo. «Prego, Don Gregorio, si accomodi» disse una voce femminile. Guardai la scrivania e rimasi perplesso, tanto da non accorgermi che nel frattempo l'ispettore Rossi era uscito dall'ufficio chiudendo la porta dietro di se. La donna che avevo incontrato poc'anzi era in piedi dietro la scrivania del commissario, in attesa che mi sedessi. Fu in quel momento che mi accorsi della sua bellezza. Il viso ovale, era impreziosito da una bocca morbida e delicata e da due occhi scuri e profondi, brillanti come cristalli di quarzo. I capelli, sottili come seta, formavano un elegante caschetto nero, e il chiarore del giorno proveniente dalla finestra, risaltava l'amaranto dei colpi di luce, in un tono di sofisticazione che non seppi subito giudicare. Indossava una leggera giacca blu su di una camicia di lino candida, che si pronunciava leggermente all'altezza del seno. Allibito, avanzai di qualche passo e quando raggiunsi la sedia davanti alla scrivania, la donna mi porse gentilmente la sua mano, che io strinsi senza esitazione. «Piacere di conoscerla Don Gregorio, sono il commissario Minolfi» mi disse affabile. La donna si sedette subito dopo di me porgendomi uno sguardo compassionevole. «L'ispettore Rossi l'ha trovata molto turbato ieri sera; la cosa è comprensibile. Come si sente oggi?» Il mio sguardo cadde sulla scrivania. Il faldone blu che la donna portava sotto il braccio ora era aperto sul tavolo, lasciando intravvedere alcuni documenti dall'aspetto funereo. «Mi sento come un prete che ha appena assistito a una crocifissione.» risposi con velata ironia. Il commissario mi guardò con aria dolente. «Mi spiace davvero di averla scomodata.» «Certo...» intervenni spazientito. «Tanto più che ho già detto tutto ciò che dovevo, ieri sera, all'ispettore Rossi.»

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La donna sospirò e fece schioccare la lingua. «Vede, Don Gregorio, il motivo per cui l'ho convocata riguarda l'indagine che sta svolgendo.» «Credete forse che esista un legame tra l'omicidio e la mia indagine?» «È ciò che vorrei scoprire. Per intanto, se la può consolare, le posso dire in via ufficiosa che lei non è nella lista dei sospettati.» La parola “ufficiosa” non mi consolò affatto. «Perché? Avete già una lista di sospettati?» «No nessuna lista, ma speravo di ottenere un po' di aiuto da lei. Su cosa sta indagando esattamente?» Provai qualche timore e abbassai lo sguardo temporeggiando per cercare le parole giuste; poi, la guardai dritto negli occhi. «Mi dica prima com'è morto esattamente quel poveretto.» Il commissario posò una mano sul faldone aperto. «Ho proprio qui, in via straordinaria, i primi risultati dell'autopsia.» Feci un sospiro propiziatorio, per preparami ad ascoltare quel drammatico resoconto. «È morto per dissanguamento» continuò imperturbabile la donna. «Ma quello che sorprende maggiormente è il metodo inusuale e oltremodo efficace con cui l'atto è stato perpetrato.» I clacson delle auto, le voci della gente, il cinguettio dei passeri, tutti i rumori consueti del mondo esterno che entravano dalla finestra aperta, si spensero all'improvviso, lasciando spazio a un silenzio avvolgente e tangibile. «Secondo la ricostruzione, l'assassino, o forse dovrei dire lo psicopatico, ha tentato di crocifiggere il Dottor Focòpari al muro dello studio, nella stanza alla sinistra del corridoio. Ma la macabra azione ha trovato un ostacolo: in quel punto, la parete contiene un pilastro di calcestruzzo pressoché impenetrabile da quei chiodoni di ferro. Non avendo con se un trapano, l'assassino lo ha trascinato nella camera da letto, dove lei lo ha trovato ancora caldo, lasciandosi dietro una scia di sangue. Dopo di che, ha completato la sua opera e per finirlo più in fretta ha praticato una profonda incisione alla gola, avendo cura di recidere la giugulare...» «Ma com'è possibile? Focòpari non ha reagito? Non esistono segni di colluttazione?» la interruppi stranito. «No. Nessun segno che dimostri il benché minimo tentativo di difesa da parte di Focòpari. Lei conosceva il Dottor Focòpari?» mi chiese cambiando tono.

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«Il suo ispettore mi ha già fatto questa domanda» sbuffai, «e ho risposto di no. Ci eravamo sentiti una sola volta, al telefono per darci appuntamento a casa sua. Avevo bisogno di fargli alcune domande.» «Be’, se le cose stanno davvero così, allora tutto combacia» affermò compiaciuta. «Ah davvero?!» «Certo! Nel sangue di Focòpari sono state trovate tracce di bromuro di curaro, chiamato anche Pavulon; una sostanza somministrata ai condannati a morte per iniezione letale, che serve a paralizzare i muscoli inducendo una sorta di morte apparente. Riteniamo che il dottore abbia fatto entrare l'assassino credendo che fosse lei» disse indicandomi con l'indice. «Focòpari, probabilmente, si è voltato per fargli strada e l'assassino lo ha punto con una siringa.» Il commissario diede poi una rapida occhiata ai documenti nel faldone. «In effetti, nella parte posteriore del trapezio di Focòpari, è stato individuato il segno di una brusca iniezione, circondato da un brutto livido: lo ha preso alle spalle, capisce?!» «Doveva essere davvero potente quell'intruglio, e di rapido effetto» affermai sbigottito. «L'effetto è stato immediato. I muscoli si sono bloccati nel giro di due secondi, impedendo a Focòpari ogni movimento. Ma la cosa più terribile di quella sostanza è che blocca tutto tranne il segnale di allarme del nostro corpo...» «...Il dolore...» opinai. La donna annuì. «Recenti studi medici condotti negli stati dell'Oklahoma e del Tennessee hanno evidenziato che il condannato a morte a cui viene somministrato il Pavulon rimane paralizzato, ma è perfettamente cosciente e sensibile al dolore; prigioniero del proprio corpo. Durante le inchieste condotte nell'università dello Yale, nella Columbia University e dalla professoressa Deborah Denno della Fordham University, sono emersi casi agghiaccianti come l'esecuzione di Steve McCoy che ebbe una reazione talmente violenta al Pavulon da riuscire a divincolarsi dalle cinghie; tre testimoni svennero per l'orrore. E il caso di Ricky Rector, il deficiente clinico che Bill Clinton ordinò di giustiziare comunque per motivi elettorali. Rector si ritrovò in una situazione a dir poco demenziale: gli infermieri che dovevano somministrargli il Pavulon erano improvvisati, senza titoli né diplomi, contrariamente a quanto dice la legge, e il povero condannato dovette suo malgrado aiutarli a trovare la vena.» Ci fu una pausa durante la quale la donna si passò una mano fra i capelli. «Quella sostanza serve

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solo a evitare che i testimoni che assistono all'esecuzione vedano il condannato contorcersi per il dolore mentre muore.» Il commissario chiuse il faldone e e si appoggiò allo schienale della sedia. «Mentre quel macellaio lo inchiodava alla parete, Focòpari non poteva nemmeno gridare per il dolore. Ecco perché non ha reagito!» concluse. Ci fu una pausa, e mentre la tensione che mi stringeva il corpo iniziava a scemare, quel vuoto silenzio sfumò gradualmente permettendo ai rumori della città di rifarsi vivi con la loro banale consuetudine. «Allora, Don Gregorio, facciamo qui pro quo.» disse a un tratto il commissario, ricordandomi Hannibal Lecter. «Che tipo di indagine sta svolgendo? E da quando in qua i sacerdoti acquisiscono la mansione di detective?» «È più semplice di quanto pensa» esordii. «Come lei già saprà , e come io non sapevo dapprima di iniziare la mia, chiamiamola così: “Indagine”, nell'istituto di San Adolfo è stato rapito un orfano.» «Sì, lo so bene. Se ne stanno occupando i colleghi di un altro commissariato.» «Ecco, lo immaginavo.» Mandai giù e dopo una breve pausa ripresi. «Siccome il rapitore, o presunto tale, si è manifestato con una telefonata al Vescovo Perlazzi e siccome la scena del reato è un orfanotrofio gestito da persone di chiesa, sua Eminenza Perlazzi mi ha chiesto, in via straordinaria, di svolgere un'indagine autonoma a nome della Curia, naturalmente senza intralciare l'operato della polizia.» «E cosa l'ha portata a casa di Focòpari?» chiese il commissario, posando un gomito sul tavolo e adagiando una guancia rosea sul Pugno. «Forse una banale coincidenza. Sulla lettera che accompagnava il bambino quando è stato abbandonato davanti all'istituto, ho trovato la parola: IRET. Un acronimo che significa...» «Istituto di Ricerca Embrionale di Torino» completò la donna, con mia grande sorpresa. «Paradossalmente, anche l'IRET è coinvolto in una strana faccenda; già chiusa ormai, ma comunque strana.» «Si riferisce forse alla storia del Dottor Costogni, della malattia del figlio e del suicidio della moglie che lo hanno costretto al ricovero in una clinica?» «Vedo che è informato» disse compiaciuta. «Il Dottor Focòpari faceva parte dello staff di Costogni e volevo fargli qualche domanda riguardo all'IRET. Ecco tutto.» «Capisco...» disse la donna, passandosi delicatamente una mano fra i capelli. Quei colpi di luce amaranto che continuavano a

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esaltarsi fra la seta nera, la facevano sembrare un tantino più vecchia, tuttavia, la giudicai non più di una trentenne; e quel suo look era un tentativo di sembrare più matura. «Mi tolga una curiosità» disse poi, destandomi da quel pensiero. «Perché Perlazzi ha scelto proprio lei? Non credo che lo abbia fatto solo perché è una persona sveglia. Cosa si nasconde nel suo passato, Don Gregorio?» I suoi occhi si erano stretti in uno sguardo acuto. «Forse è meglio che tolga il disturbo» dissi raggelato, facendo per alzarmi dalla sedia. «E perché invece non resta e cerchiamo di collaborare un po'? Se è vero che i due casi sono correlati, lei potrebbe aiutarmi a trovare il mio assassino e io potrei aiutarla a trovare il suo bambino rapito.» «Quel bambino è molto malato; è probabile che muoia prima che io riesca a liberarlo!» sbottai. «Già, ho saputo. Ragione in più per accelerare i tempi; così, quel bambino, se non potrà essere curato, potrà almeno vivere i suoi ultimi momenti vicino a persone che gli vogliono bene.» La bellezza di quella donna mi aveva turbato, ma ancor più mi aveva colpito la sua capacità di assomigliare a qualcosa e dimostrarsi poi tutto l'opposto. Mi aveva sbattuto in faccia quell'agghiacciante resoconto di morte, fredda e priva di umanità come un automa, mettendo così a dura prova la mia emotività. E ora era mutata in una persona filantropica e sensibile, disposta ad aiutarmi e a farsi aiutare. Stentai per un attimo a crederle, ma la sua voce armoniosa e le sue chiare parole s'intonavano in un suono libero di bieca ampollosità. Era una donna dal fascino mutevole, che giudicai di animo sincero. «Perché vuole avere notizie sul mio passato? Cosa le fa pensare che ci sia qualcosa di interessante?» «Intuito» rispose di getto. «Intuito femminile e, perché no, un pizzico di curiosità.» Il suo sguardo mi turbò, tuttavia decisi di placare la sua sete di notizie sul mio conto. «È stato tanto tempo fa...» esordii dopo una breve pausa. «Non sono sempre stato un comune parroco. Il mio precedente incarico nell'ambito della Chiesa era presso il Vaticano. Operavo come ricercatore presso gli Archivi Vaticani.» «Caspita!» esclamò affascinata. «Allora ha potuto vedere l'Ipogeo! Come l'invidio. Ho sempre sognato di maneggiare quei vecchi

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manoscritti pieni di segreti, che la Chiesa conserva fin dal secondo secolo.» Scossi il capo e feci un sorrisetto sarcastico. «Signorina, malgrado la quantità abnorme di notizie riportate dalla narrativa moderna, l'Ipogeo è solo finzione letteraria per colorire storie altrimenti piatte e banali. Gli Archivi Vaticani conservano materiale risalente a non più di otto secoli fa, quello che ha potuto sentire, è solo sensazionalismo creato appositamente per vendere libri e alzare gli ascolti televisivi.» «Se lo dice lei...» assentì con sufficienza. «Comunque non capisco cosa centrano gli Archivi Vaticani con la sua indagine poliziesca.» In quel momento, sentii un irritante prurito al mento intonso, e dopo essermi tolto quel fastidio, ripresi. «Vede, analizzare manoscritti è un lavoro che si avvicina molto all'indagine poliziesca. I manoscritti riportano storie del passato spesso colorite di soprannaturale. È necessario indagare, esaminare accuratamente tutti quei manoscritti che riportano la stessa storia in versioni diverse, in modo da togliere il superfluo per fare emergere, per quando possibile, la verità assoluta.» Lo sguardo della donna era perplesso. Sembrava avere difficoltà a paragonare un'indagine per omicidio con una ricerca storica. Effettivamente, anche se le due cose sembrano alquanto distanti, in entrambi i casi tutto il lavoro si incentra nella ricerca della verità attraverso prove tangibili. «Le faccio un esempio» annunciai con un sorriso. «Secondo lei Gesù è nato a Nazareth o a Betlemme?» «Credo a Betlemme, almeno così dice la tradizione.» «Ma allora perché nei loro vangeli, Matteo e Giovanni collocano la nascita di Gesù presso Nazareth?» ribattei sornione. «Forse perché è quella la verità.» «E come possiamo capire che quella è davvero la verità?» La donna si spazientì. «Uffa, non saprei, non sono così ferrata sulle sacre scritture.» «Come in un crimine, per giungere alla verità servono prove. Naturalmente non si parla di impronte digitali o esami del DNA; si tratta invece di cercare fra le righe e vedere chi fantasticava o meglio ancora chi aveva interesse a mentire; come spesso accade in un omicidio. In casi come questi, si è arrivati alla conclusione logica che: “ciò che contrasta aiuta”. Mi spiego meglio» dissi dopo aver notato

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l'espressione confusa del commissario. «Secondo la tradizione, il Messia sarebbe dovuto arrivare da Betlemme sul dorso di un asino. Che interesse avevano allora i cristiani nel dire che Gesù era originario di Nazzareth? Sarebbe stato come affermare che Gesù non era il Messia. Questo entra quindi in contrasto con l'interesse dei cristiani. Senza contare, inoltre, che, prima dell'avvento del cristianesimo, Nazareth era un minuscolo villaggio la cui esistenza era sconosciuta dalla quasi totalità delle persone. Nessun cristiano avrebbe quindi voluto e potuto inventare una storia del genere; chi l'ha scritta si è probabilmente ispirato a fatti reali. Concludiamo quindi che, effettivamente, il luogo dove nacque Gesù fu proprio Nazareth.» Lo sguardo della donna era cambiato, sembrava meno perplesso. «Comincio a capire; quindi, il motivo per cui le è stato chiesto di indagare sulla scomparsa del bambino, si riconduce alla suo talento nel trovare verità storiche dentro antichi manoscritti?!» «Più o meno» assentii accavallando la gamba dolente su quella ancora sana. «I miei talenti, è giusto precisarlo, erano piuttosto comuni a quelli dei miei collaboratori; ciononostante fui preso in considerazione per un incarico parallelo. Anche lo stato Vaticano, come qualsiasi stato che si rispetti, ha il suo corpo di polizia, incentrato nelle Guardie Svizzere. Tuttavia, esiste un altro tipo di difesa, un corpo meno celebre di... chiamiamoli inquirenti vaticani; ovvero, una sorta di servizi segreti che hanno il compito di monitorare tutto ciò che accade all'interno del nostro piccolo stato, ovviando così a ogni anomalia. Quello era il mio compito alternativo al “topo di archivio”.» «Il Vaticano è molto piccolo» disse la donna con tono deprecabile, come se sottovalutasse la difficoltà di quel mio vecchio lavoro. «Non credo che lei abbia avuto a che fare con crimini così gravi, e poi stiamo parlando di un luogo considerato santo...» «Lo stato del Vaticano è fatto di persone, e come lei ben sa, non esistono persone perfette.» «Cosa vorrebbe dire con ciò?» Mi morsi la lingua. «Semplicemente che il Vaticano non è un luogo così perfetto» conclusi. Ci fu una pausa. A un tratto, il commissario prese un respiro, come per iniziare un nuovo dialogo, ma io l'anticipai. «Prima mi ha detto che dobbiamo collaborare, che è disposta ad aiutarmi. E in che modo?»

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La donna dovette fare un breve balbettio per sostituire ciò che stava per dirmi con la risposta alla mia domanda. «Mi chiedevo se ha provato a contattare la clinica in cui è ricoverato il Dottor Costogni...» disse asciutta. Scossi la testa. «Purtroppo non so nemmeno in quale clinica si trovi, ma qualcosa mi dice che lei sta per togliermi questa curiosità.» La donna fece un tenue sorriso. «È ricoverato presso la casa di cura Villa Cristiana, qui a Torino. Ma per entrare dovrà essere accompagnato da un parente.» L'atteggiamento sornione del commissario mi fece intuire che aveva una soluzione anche a quel problema. «Continui» l'incitai. «Una vecchia conoscenza della polizia, un uomo attualmente in libertà vigilata, si dà il caso essere l'unico parente rimasto al Dottor Costogni. È il fratello della moglie, ma non credo che sarà così facile convincerlo ad accompagnarla in clinica. È un tipo alquanto introverso.» In quel momento un motivo musicale dal suono sintetico prese a echeggiare per tutto l'ufficio e quando il commissario portò all'orecchio la cornetta del telefono, l'importuno fonema cessò. Dopo una breve conversazione, la donna si rivolse a me con aria dispiaciuta. «Mi scusi Don Gregorio, ma ho un impegno urgente col prefetto.» «Non c'è problema, tolgo subito il disturbo, ma prima mi dica per cortesia il nome del cognato di Costogni.» La donna mosse il mouse del suo portatile, che si risvegliò subito dalla modalità di stand by. Operò quindi per qualche secondo e ricopiò su di un post-it alcuni dati presi dal monitor. Ci alzammo, poi, contemporaneamente e la donna mi accompagnò fino alla porta. «Si chiama Matteo Guida» disse in tono fermo. «E se dovesse rifiutare di accompagnarmi?» «Faccia come coi suoi vecchi manoscritti. Non ha detto che ciò che contrasta aiuta? Sono sicura che il signor Guida sarà volentieri disposto a sprecare parte del suo precario tempo libero per accompagnarla alla clinica; e se non lo farà, entrerà in contrasto con la mia ordinanza di revocare la sua libertà vigilata.» Trovai quella strategia ridicola. «E lei sarebbe davvero disposta a una simile follia?» chiesi, con le vocali di quella mia domanda che sobbalzavano sugli accenti di una risata.

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«Certo che no, ma un bluff del genere potrebbe funzionare» disse porgendomi il post-it. Aprii la porta e guardai il nome del commissario inciso sulla targa. «Per che cosa sta quella “V” puntata?» ficcanasai. «Vittoria.» rispose lei, con una patina d'imbarazzo. «È un bel nome» le dissi sorridendo. «Spero che sia di buon auspicio per il mio bluff.» Mentre i miei mocassini pestavano il marciapiede diretti un passo dopo l'altro verso il vetusto Leopard, non potevo smettere di pensare al commissario Minolfi, o meglio a Vittoria; mi veniva già tremendamente naturale chiamarla per nome, non so perché, anche dopo quell'unica e formale conversazione. Ma uno strano rimorso risaliva dal mio stomaco come un boccone indigesto; forse perché, parlando degli Archivi Vaticani, non avevo detto la verità; e anche se era dovere di qualsiasi uomo di Chiesa tenere nascoste certe cose per il bene ecclesiastico, mi ero rivolto a quella donna proferendo menzogne e ciò non mi aggradava affatto. Ma non potevo dire a Vittoria che l'Ipogeo esiste veramente. Un luogo segreto situato a diversi piani sotto gli Archivi Vaticani, il cui accesso è consentito soltanto a pochi eletti. Un luogo di massima sicurezza, mantenuto ad atmosfera controllata e scarsamente illuminato, dove gli oltre venti chilometri di scaffali posti nei suoi meandri, danno l'idea dell'immensa mole di documenti ivi conservati, le cui origini cronologiche vanno ben più a ritroso nel tempo rispetto agli otto secoli ufficialmente dichiarati. Pergamene, papiri e tomi di ogni genere sono prigionieri da secoli sotto la Santa Sede, così antichi che un semplice raggio di sole unitamente ad altri fattori esterni, potrebbero ridurli in polvere in pochi attimi, cancellando così i segreti di un passato lungo oltre duemila anni. Apprendere queste notizie durante la lettura di un romanzo potrebbe far credere al lettore che si tratti di finzione narrativa, ma sentirle da un uomo di Chiesa, che per giunta ha lavorato presso quei misteriosi archivi, non lascerebbe alcun dubbio in proposito.

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VI Durante il viaggio di ritorno, contravvenendo alle norme del codice della strada, estrassi il cellulare e composi il numero riportato sul post-it. La risposta fu quasi immediata. La vociona di Matteo Guida giunse al mio cellulare avvolta in un tono depresso, come se a parlargli fosse un esattore delle tasse intento a reclamare pagamenti insoluti. Per fortuna, non ci fu bisogno di usare il bluff architettato da Vittoria; fu sufficiente qualificarmi per avere l'attenzione del cognato di Costogni. «Buongiorno, sono Don Gregorio Ferro, parroco di Saluggia; posso rubarle un paio di minuti?» Udii di seguito un sospiro. Di certo, il fatto che a parlare non fosse la polizia l'aveva un tantino risollevato. «Non ho molto da fare ultimamente, a parte restare chiuso in casa durante gli orari stabiliti dal magistrato. Cosa vuole da me reverendo?» «Sto svolgendo una piccola indagine per conto della Curia e avrei bisogno del suo aiuto» dissi con aria diplomatica. Il silenzio che seguì denotava perplessità. «Signor Guida? È ancora lì?» «Certo!» esclamò in tono logico. «Mi stavo solo chiedendo cosa c'entro io con la Curia.» «Vede, sto indagando su di un'effrazione avvenuta presso un orfanotrofio, e le mie tracce mi hanno portato all'IRET...» «Non ne so nulla» mi interruppe stranito, come se invece conoscesse bene quell'acronimo, tanto da esserne infastidito. «Ovvio» assentii distaccato. «Tuttavia, so che suo cognato, il Dottor Costogni, era direttore dell'IRET, e so anche che ora è ricoverato presso una clinica. L'IRET era un...» «So cos'era l'IRET!» m'interruppe seccato. «E allora?» «Allora avrei bisogno che lei mi accompagnasse presso quella clinica. Devo parlare con suo cognato.» «Può risparmiarsi la fatica, Don Gregorio...» affermò con sufficienza. Al termine di quell'asserto, lo immaginai grande e grosso mentre scuoteva il capo.

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«...Mio cognato è matto da legare, reverendo, non credo che riuscirà a cavargli alcunché di interessante.» «Capisco, ma lei sarebbe comunque disposto a farmi questo favore?» Udii un nuovo sospiro. «E va bene, ma sarà tutta fatica sprecata» disse prevenuto, e mi diede appuntamento presso la clinica quello stesso pomeriggio. Quando riattaccammo, il mio cellulare emanò il segnale acustico di batteria scarica. Lo riposi allora sul sedile e mi dedicai completamente alla guida. Dopo qualche minuto il mio vecchio Motorola 8700 si spense. Varcai la soglia della casa parrocchiale che non era ancora mezzogiorno. Marta era in cucina intenta a sviscerare una grossa trota, maneggiando accuratamente un coltello affilato. Sul piano del lavandino c'era una teglia di acciaio piena di patate e pomodorini mondati, pronta a ospitare la trota pulita e a essere infornata coperta di stagnola. Mi avvicinai compiaciuto alla mia fedele Perpetua, che ancora non sapeva dei fatti agghiaccianti di cui era stato partecipe, e le posai una mano sulla spalla. «Mia cara Marta, tu mi vizi un po' troppo.» Marta fece un largo sorriso, mostrando la sua bianca dentiera, ma non rispose. La cucina era il suo mondo, e quando era assorta nell'arte culinaria sembrava Alice persa dentro un paese delle meraviglie fatto di spezie e manicaretti. Mi voltai e sul tavolo, di fianco a due tubetti di maionese ancora chiusi in scatola, notai uno strano oggetto plumbeo, corto e piatto. Lo raccolsi e lo osservai incuriosito. In quel momento, Marta infornò la trota, chiuse lo sportello del forno a gas e si voltò verso di me. «Hanno aperto un nuovo negozio di caccia e pesca in centro» mi disse guardando l'oggetto che stringevo in mano. «Il proprietario è passato di qui per chiederle se nel pomeriggio può passare a benedirlo, e ha portato quell'omaggio.» Premetti l'oggetto sul palmo della mano usando le quattro dita e spinsi col pollice la piega di metallo che usciva da quella sorta di manico, e sfilai così una diabolica lama seghettata. Era un coltello a serramanico, piuttosto comodo in quanto si poteva far sortire la lama usando una mano sola; sul manico c'era incisa la scritta Spiderco.

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«Forse era più appropriato se mi avesse regalato uno di quei gilè pieni di tasche» dissi sotto tono, come per parlare a me stesso. «Eh?!» vociò Marta, dal capezzale della sua sordità. Ripetei a voce alta, e lei tornò rivolta al tagliere. «Don Gregorio, a caval donato non si guarda in bocca» mi ammonì. «E poi quell'uomo mi ha detto che si tratta di un portafortuna. Se fossi in lei, vista e considerata la sua rinnovata vocazione poliziesca, lo porterei con me... non si sa mai» concluse goliardica. «Bene, allora lo terrò in tasca; comunque oggi ho già un impegno, devo incontrare una persona presso la clinica Villa Cristiana. Al negozio ci andrò domani.» «Stia attento quando decide di incontrare degli estranei» si raccomandò Marta, acuendo lo sguardo. «E si ricordi: mai fidarsi delle persone con le sopracciglia unite.» Annuii perplesso. «Ah, quasi dimenticavo» ansimò lei dopo una pausa. «Ha chiamato sua Eminenza Perlazzi, ha lasciato un numero di telefono chiedendo di essere richiamato.» «Quando? E perché non mi ha contattato sul cellulare?» chiesi sorpreso. «Ha chiamato circa venti minuti fa, ha detto che il suo cellulare non era raggiungibile.» «Giusto, la batteria è scarica» mi dissi alzando gli occhi al cielo. Dopo aver collegato il cellulare alla rete elettrica per la ricarica, mi accinsi subito a contattare il vescovo usando il telefono fisso. «Pronto, è lei Don Gregorio?» rispose Perlazzi, con voce da tenore. «Sì, Eminenza.» Stavo per metterlo al corrente dei recenti fatti, ma la notizia dell'omicidio di Focòpari era già sui quotidiani. «Santo cielo! Don Gregorio, ho letto dell'omicidio a cui ha assistito, è terribile! Come si sente?» «Il peggio è andato al povero Dottor Focòpari, Eminenza...» risposi cercando di sminuire. «La polizia ha idea di chi sia stato? E lei... cosa ci faceva là?» «Le indagini della polizia sono ancora in alto mare, e io ero là perché ho motivo di credere che il Dottor Focòpari sapesse qualcosa riguardo al bimbo scomparso; vede, credo che c'entri in qualche modo

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l'IRET, dove lavorava Focòpari, ovvero, un istituto di ricerca per fecondazioni assistite.» «...E Focòpari le ha detto qualcosa a riguardo?» mi chiese con un inaspettato tono da sornione. «Non ha fatto in tempo, sono arrivato che era già morto.» «Capisco...» disse il vescovo, apparentemente risollevato. «Ora purtroppo devo andare, fra qualche minuto inizieremo la registrazione del programma. Se tutto va bene tornerò a Torino domani, grosso modo a quest'ora. Mi tenga informato, Don Gregorio...» «No, aspetti!» intervenni ad alta voce. «Mi dica almeno se il nostro rapitore si è rifatto sentire.» lo pregai. «Purtroppo no.» «Ma la polizia non ha scoperto da che numero è partita la chiamata?» «Le spiegazioni tecniche non sono il mio forte» ammise il vescovo frettolosamente. «Spero di essere chiaro. A quanto mi hanno spiegato, il presunto rapitore ha chiamato tramite internet, attraverso una di quelle società che offrono un servizio telefonico a costi irrisori. Il credito residuo viene pagato mediante carta di credito o mediante bollettino postale; il rapitore ha usato un bollettino compilato con falso nome, inoltre si è iscritto alla società usando un’identità fittizia: la persona che ha rivendicato il rapimento apparentemente non esiste. Le indagini continuano, ma pare sia una strada molto difficile da seguire.» «Sì, deve esserlo davvero» confermai. «Ora devo proprio salutarla, a presto Don Gregorio» e riattaccò. Rimasi a fissare quella cornetta sorda con sguardo inebetito, finché un aroma fragrante di trota al cartoccio prese a riempire la casa risvegliando il mio appetito. La pietanza succulenta che Marta mi aveva preparato era come sempre straordinaria. L'assaporai accompagnandola con un Picolit friulano, che aprii a malincuore perché lo tenevo in serbo in attesa di un'occasione speciale. Ero indeciso se stapparlo durante la consueta cena di Natale in oratorio, o per festeggiare la vittoria della mia squadra giovanile di calcio che militava nel campionato allievi, oppure per il settantesimo compleanno di Marta. Ma in quel momento, il mio cuore aveva bisogno di essere scaldato e non c'era nulla di meglio di quel buon vino dal colore giallo paglierino, che scendeva giù garbatamente lasciando al palato uno straordinario aroma di pesca e vaniglia, ma che non dava alcun sentore dei suoi tredici gradi abbondanti se non quando ci si alzava dalla sedia.

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Spolpai la mia trota, scolai la bottiglia per metà e dopo aver sparecchiato e recuperato il cellulare parzialmente carico, decisi di avviarmi immediatamente verso Villa Cristiana. Spesi gli ultimi contanti per fare il pieno al mio povero Leopard assetato, e mi avviai verso la periferia sud di Torino, dove a poca distanza da Moncalieri, in una zona di aperta campagna, sorgeva la clinica dov'era ricoverato il Dottor Costogni. Il sole era alto sopra di me, velato di nubi leggere e una lieve brezza pomeridiana rendeva l'afa sopportabile. La radio non trasmetteva nulla di buono. Affondai allora la mano destra fra il disordine del cruscotto in cerca di qualche cassetta di musica, e afferrai per caso un vecchio e polveroso nastro TDK, di quelli con l'involucro grigio, che subito infilai nel mangianastri. Riconobbi immediatamente quella musica: era il White Album dei Beatles, che il mio caro amico Giovanni Chiavazza mi aveva registrato dal vinile. Il nastro non era riavvolto e la prima canzone a essere riprodotta dalla mia vecchia Grundig fu Everybody's Got Something To Hide Except Me and My Monkey, gridata dalla voce di John Lennon come un ammonimento da prendere in seria considerazione. John Lennon mi era sempre stato simpatico, a maggior ragione dopo la scioccante intervista che rilasciò nel luglio del 1966, quando dichiarò che il suo gruppo era più famoso di Gesù, e affermando altresì di non sapere se sarebbe uscito di scena prima il Rock and Roll o il Cristianesimo. Naturalmente la Chiesa mal sopportò quell'atteggiamento; un pastore di Cleveland annunciò addirittura che avrebbe scomunicato tutti i fedeli che avessero assistito a un concerto dei Beatles. In tutta l'Inghilterra i dischi del quartetto di Liverpool furono bruciati in pubblici falò e le radio ne misero al bando la musica. Ma il successo dei Beatles rimase comunque travolgente. Le parole di John erano state estrapolate da un contesto, e a rileggerle oggi tutto quel chiasso pare ridicolo. Quell'affermazione era la palese testimonianza di quanto Lennon fosse impudente, ma anche coraggioso e senza peli sulla lingua, e devo riconoscere che lo sventurato musicista non aveva poi tutti i torti: effettivamente, a quel tempo la musica dei Beatles era esplosa ovunque raggiungendo luoghi come l'India, dove la religione cristiana non si è diffusa. E al di là della cortina di ferro, quella stessa musica si diffondeva incarnando speranza di libertà, nello stesso modo in cui i canti dei primi cristiani si contrabbandavano nelle lugubri prigioni dell'antica Roma. Ma la cosa non è durata a lungo, a tutt'oggi, i Beatles rimangono un ricordo lontano che sopravvive nella memoria degli appassionati.

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Alla sola vista di Villa Cristiana provai una sensazione inconsueta; come se un inedito clima di distensione mi avesse avvolto similmente a un fresco lenzuolo in una tiepida notte d'estate. Oltre le sbarre del cancello, circondato da uno spesso muro di cinta, sorgeva uno splendido complesso vittoriano immerso in un verde parco, dove si levavano maestosi alberi secolari dai rami grossi e sinuosi e dalle chiome verdi e fitte. Le latifoglie si agitavano flebilmente sotto la brezza pomeridiana, in un insolito ossequio di benvenuto carico di ipocrisia. Restai in attesa per qualche tempo, puntellato alla carrozzeria precaria della mia fedele automobile, ferma di fianco al cancello; finché vidi avvicinarsi una vecchia Volvo scura che si fermò proprio a fianco del Leopard. La portiera si aprì scricchiolando e scese un uomo alto e nerboruto che si avviò minaccioso a passi pesanti, diretto verso di me. Quando mi si palesò davanti il suo aspetto ingombrante mi rammentò la figura di Bastianazzo, come l'avevo immaginata mentre leggevo il Verga sul librone di antologia del liceo. «Don Gregorio?!» chiese sottovoce, lisciandosi i pochi capelli neri e unti. «Sono io, signor Guida» risposi, certo che fosse davvero lui. «Grazie per essere venuto.» «Per quello che ho da fare...» disse con sufficienza. Matteo Guida si avvicinò al citofono e premette il tasto luminoso a fianco del ricevitore. Dopo essersi qualificato, parlando in modo asciutto alla voce metallica uscita dall'altoparlante, udimmo uno scalpiccio smorzato e il cancello si staccò leggermente dal battente. Seguii Matteo Guida lungo uno dei bianchi selciati che serpeggiavano per quell'immenso giardino, come piccole autostrade in una mini prateria, fra panchine di marmo levigato, cespugli curati, fontanelle e statue lattescenti. Il silenzio era infranto solo dal cinguettio degli uccelli, dallo scroscio dell'acqua e dallo stormire delle fronde. Erano da poco passate le quattro del pomeriggio ed era orario di visita. Le minuscole autostrade di acciottolato erano battute da un traffico flemmatico di figure bianche che vagavano senza meta apparente, come fantasmi, seguite a un passo da parenti ansiosi e infermiere premurose. I loro volti erano smunti e spettrali, e lo sguardo smarrito, come per chi ha perso ogni scopo vitale. Lungo la strada incontrammo un'infermiera. Il suo viso era bianco e rosso con al centro un grosso naso cavalcato da occhiali

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leggeri. Dalla tasca superiore del camice azzurro spuntavano i cappucci di tante penne Bic. «Buongiorno signor Guida, è un po' che non la si vede. Suo cognato è nel solito posto a prendere il tè, le faccio strada.» Matteo Guida assentì, e seguimmo la donna fin sul retro della clinica, dove su di in una panchina davanti a uno stagno, sedeva Jacopo Costogni. Ci avvicinammo; il Dottor Costogni teneva in mano una tazza di tè fumante, e sotto l'altro braccio stringeva avidamente una scatola da scarpe. «Buongiorno Jacopo, come stai oggi?» chiese Matteo Guida in tono disinteressato, come se quel saluto gli fosse costata fatica. «Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie» rispose Costogni, di getto, con tono ruvido. Matteo Guida gli voltò le spalle sgarbatamente, fra i due non correva certo buon sangue, e mi si avvicinò. «Gliel'ho detto che è matto da legare» mormorò sotto voce. «Posso restare solo con lui?» chiesi all'infermiera, ignorando le parole del cognato. «Il Dottor Costogni è una brava persona, certo che può, se vuole. Basta però che il signor Guida sia d'accordo.» Lanciai un'occhiata di circostanza a Matteo Guida che annuì disinteressato. Si allontanò, poi, seguito dall'infermiera. Mi avvicinai lentamente a Costogni, cercando di capire se i versi di Ungaretti, che aveva enunciato come risposta al cognato, rispecchiassero il suo vero stato d'animo. Lo sguardo era perso, mi ignorava, o forse nemmeno si era accorto che ero lì. «Dottor Costogni, posso sedermi qui?» gli chiesi indicando la panchina dove sedeva. Non mi rispose. Era chiuso in se stesso, come se stesse rimuginando da una vita intera senza trovare soluzione al suo malessere interiore. Serviva una chiave per aprire la porta del suo animo, ammesso che fosse davvero chiusa e che quell'atteggiamento non fosse un bluff. CONTINUA...