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darwin bimestrale di scienze SARDEGNA SPED.ABB. POST. 45%,ART. 2, C. 20/B, L. 662/96 FILIALE DI VERONA - SUPPLEMENTO A DARWIN N. 14 9 7 7 1 8 2 4 2 4 4 0 1 7 6 0 0 0 1 www.darwinweb.it L’Isola è un crocevia culturale unico nel cuore del Mediterraneo da esplorare alla scoperta di civiltà antichissime e ancora misteriose sospese tra Oriente e Occidente, Roma e Cartagine, terra e mare NUMERO 1 1 EURO 6,00 darwinQuaderni ARCHEOLOGIA IN SARDEGNA

ARCHEOLOGIA IN SARDEGNA · 6 DARWINQ UADERNI ARCHEOLOGIA IN SARDEGNA cuni importanti cantieri archeologici: due erano previsti nel meridione dell’iso-la e almeno uno nel nord. Per

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L’Isola è un crocevia culturale unico nel cuore del Mediterraneoda esplorare alla scoperta di civiltà antichissime e ancora misteriose

sospese tra Oriente e Occidente, Roma e Cartagine, terra e mare

NUMERO 11 EURO 6,00

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SUL TEMA DEI BENI CULTURALI oggi viviamo, ancora una volta, un disagioimportante nelle diverse competenze della Regione, degli assesso-rati regionali. Le sovrintendenze spesso, ancora oggi, hanno un at-

teggiamento, ormai superato dai tempi, da “prefetture dei beni cultura-li”, totalmente separate dai processi e dalle esigenze della nostra regione.A me non sembra che si possa dire che anche negli ultimi anni lo Stato,che pure ne ha competenza, si sia preso particolarmente a cuore i nostribeni culturali, li abbia tutelati e li abbia valorizzati nel migliore dei modipossibili. Spesso ci sono delle norme, anche nazionali, del tutto incom-prensibili. Noi dobbiamo persino pagare allo Stato il diritto di pubblica-re una foto, la foto di un bene culturale, di un monumento, del nuraghedi Barumini, sulle nostre brochure divulgative. E mi pare che da solo que-sto fatto racconti l’arretratezza della legislazione in materia.

Noi vogliamo prenderci a cuore e prenderci cura, fortemente, deinostri beni culturali. Vogliamo tutelarli, vo-gliamo valorizzarli, vogliamo renderli im-portanti per la cultura mondiale, nel modoin cui meritano. Si tratta dello sviluppoeconomico di questo territorio: di questoabbiamo parlato fin dall’inizio, dalla cam-pagna elettorale del 2004. Le nostre idee

sono state scritte: ruotano attorno all’identità e alla valorizzazione ditutto quello che attiene alle diversità e alle specificità, ai valori culturalidella nostra regione. Attorno ai vecchi saperi diffusi, alla tradizione. Pro-prio oggi che in questo modello di turismo globale, dove sembrano con-tare solo il numero e il prezzo, ci troviamo a competere con paesi dove ilcosto del lavoro è molto più basso del nostro, dobbiamo puntare sullanostra ricchezza culturale. La stessa che fa trovare al visitatore 3.000 an-ni di storia, una civiltà nuragica che noi non abbiamo ancora compreso:non abbiamo ancora capito cosa doveva essere la Sardegna popolata da

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4 ■ D A R W I N Q U A D E R N I A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A

Una storia millenaria segnatada piccoli capolavori d’arte

Vogliamo prenderci cura

dei nostri beni culturali

e valorizzarli come meritano

RENATO SORU

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circa 8.000 torri nuragiche, altissime, dappertutto, in un mondo così di-sabitato com’era quello di allora. Abbiamo la storia millenaria di una re-gione in cui migliaia di anni fa si facevano piccoli capolavori di arte: bel-lissimi, modernissimi ancora oggi. Ci sono centinaia di chiese romani-che in Sardegna, altrettanto belle, che appaiono all’improvviso nellacampagna; c’è un paesaggio antropizzato fatto di muretti a secco edifi-cati in centinaia di anni; ci sono i piccoli paesi con i loro centri storici; cisono le chiese, le statue dentro le chiese, i retabli del Rinascimento; c’èuna lingua, anzi ce ne sono diverse; c’è una musica; c’è una ricchezza dimille cose che fanno la differenza.

La Regione sta mettendo “a sistema” tutto ciò che riguarda i beniculturali: lo scorso mese di aprile è uscito SardegnaCultura, il portale deibeni culturali della Sardegna, che ha visto un grande lavoro di coordina-mento e di messa a sistema di tutti i monumenti, dei luoghi, delle im-prese, delle case editrici, delle cooperativedella cultura della Sardegna. Tutto questo perfare in modo che i beni culturali creino lavoroe che siano un’attrattiva per il turismo. Lo ab-biamo proposto a Bruxelles, di recente, per-ché è assolutamente in linea con un progettoche la Commissione Europea porterà avantientro il 2008. Noi lo abbiamo già realizzato in maniera superiore all’o-biettivo della Commissione Europea fissato per quell’anno. È uno stru-mento accessibile innanzitutto all’amministrazione regionale, alle pro-vince, agli enti locali, in maniera che tutti siano consapevoli del grandepatrimonio che c’è nei nostri territori e nei nostri comuni. Ma è uno stru-mento accessibile anche a tutti quelli che non sono in Sardegna, e che inquesta maniera hanno la possibilità di conoscerla stando a casa.

Renato Soru, presidente della Regione Autonoma della Sardegna

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Le nostre idee ruotano attorno

alla diversità e alla specificità

culturale della nostra Regione

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cuni importanti cantieri archeologici:due erano previsti nel meridione dell’iso-la e almeno uno nel nord. Per i primi lascelta era caduta sul complesso nuragicodi Barumini, ora patrimonio dell’umani-tà nella lista dell’Unesco, e quindi sullacittà punico-romana di Nora, mentre peril terzo sito archeologico l’intervento fuvoluto dal “palazzo” e in particolare dal-l’allora ministro della Pubblica Istruzio-ne, un sardo che sarebbe divenuto poipresidente della Repubblica. Infatti, ilprofessor Antonio Segni, insigne studiosodi diritto ma anche appassionato di ar-cheologia, si era persuaso che una miste-riosa collinetta che sorgeva in un terrenoadiacente a una sua proprietà, a una de-cina di chilometri da Sassari, altro nonfosse che un tumulo etrusco o qualcosa disimile, e per questo ne aveva caldeggiatolo scavo e facilitato il finanziamento.

Per realizzare questa impresa occor-reva tuttavia un archeologo, cosa nonsemplice in quegli anni in quanto per latutela di un territorio vastissimo la Sarde-gna poteva contare su un’unica Soprin-tendenza alle Antichità, con sede a Ca-gliari, e su due funzionari archeologi. Fupertanto necessario richiamare dalla So-printendenza di Bologna, ove prestava

L A SCOPERTA DI MONTE D’ACCODDI risa-le ai primi anni Cinquanta del se-colo scorso e avvenne nell’ambito

di un più ampio programma di interven-ti promossi dalla ancor giovane RegioneAutonoma della Sardegna, mirati sia allaripresa delle attività di ricerca interrotte acausa delle vicende belliche sia per favo-rire l’occupazione in quei giorni difficilidel dopoguerra che nell’isola tardava aconcludersi.

Il progetto prevedeva l’apertura di al-

T E C N O L O G I E N E O L I T I C H E

Gli altari a terrazzadi Monte d’AccoddiIl complesso di età prenuragica ospitava un santuario e un villaggioche non trova riscontri in Europa e nell’intera area del Mediterraneo

ALBERTO MORAVETTI

L'altare-terrazza di Monte d'Accoddi nel suoprimo impianto: ricostruzioneideale da Santo Tinè (dis. Francesco Carta).

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servizio, un giovane archeologo sardo –Ercole Contu – destinato a diventare so-printendente alle Antichità per le provin-ce di Sassari e Nuoro e ora professoreemerito di Antichità Sarde all’Universitàdi Sassari. Contu racconta di essere rien-trato nell’isola malvolentieri: infatti eraconvinto che il cosiddetto “tumulo” altronon fosse che la rovina di uno dei tantinuraghi, circa settemila, che caratteriz-zano il paesaggio isolano e che sono nu-merosi nella Nurra, la regione storica ovesorgeva la collina di Monte d’Accoddi.

Posizione dominanteMa gli scavi rivelarono che tutti, archeo-logi e no, si erano sbagliati. Infatti le in-dagini dimostrarono che la collina nonsolo non nascondeva alcun nuraghe maera stata prodotta dalle rovine di un ecce-zionale e finora unico monumento prei-storico, molto più antico dei primi nura-ghi. Purtroppo, per la sua posizione do-

minante in un territorio per lo più pia-neggiante, l’altura venne prescelta du-rante l’ultima guerra per impiantare agliangoli delle batterie contraeree, raccor-date da una trincea circolare: interventiche hanno gravemente danneggiato glistrati superiori del monumento.

L’esplorazione di Monte d’Accoddi èavvenuta in due periodi distinti, con unintervallo di circa vent’anni; tuttavia l’in-dagine è ben lontana dal considerarsi

L'altare-terrazza di Monte d'Accoddi nel suo primo impianto (dis. Francesco Carta).Sotto, Santuario preistorico di Monte d'Accoddi: la rampaper la sommità del tempio,l'omphalòs, e la lastra con fori. (foto Moravetti)

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tuario. In questi stessi anni vennero poiindividuate le numerose e importanti ne-cropoli a grotticelle artificiali – ipogei chenella tradizione popolare sono noti comedomus de janas (casa delle fate) – chequasi a ventaglio si dispongono con i re-lativi villaggi intorno al santuario preisto-rico a indicare un territorio fittamenteabitato. Dopo circa vent’anni, dal 1979 al1989, i lavori furono ripresi ed estesi daSanto Tinè, dell’Università di Genova, alquale si devono nuove significative sco-perte che hanno meglio chiarito la fun-zione della struttura riportata alla lucedagli scavi precedenti, ribadendo con

conclusa. Agli inizi, come si è detto, l’in-dagine era volta a definire la natura e il si-gnificato di una modesta collinetta, chia-ramente artificiale, denominata Monted’Accoddi che, unica e isolata, si elevavaancora per circa 6-7 metri rispetto al pia-no di campagna su un’ampia piana calca-rea. I primi scavi, diretti dal Ercole Contu,ebbero inizio nel 1952 e proseguirono si-no al 1958. In questi anni vennero alla lu-ce una costruzione tronco-piramidalepreceduta da una lunga rampa, un men-hir, due tavole d’offerta, un settore del vil-laggio e altri importanti elementi cultura-li dispersi per largo tratto intorno al san-

colta» (accoddi) o da corno (la corra). Solo di recente si è potuto

accertare che il nome più antico documentato nelle carte catastali

è «Monte de Code», che significava «Monte, collina delle pietre».

Il riferimento alla pietra si ritrova anche nella traduzione spagno-

la, risalente al ‘600, del condaghe medievale di San Michele di Sal-

vennor, nel quale la collina viene chiamata «Monton de la Piedra».

E infatti, prima degli scavi, le poche pietre ancora affioranti dava-

no proprio questo aspetto alla “misteriosa” collinetta.

Il nome Monte d’Accoddi risultava, al pari della collinetta, piutto-

sto misterioso. E di esso si avevano anche altre versioni, come

Monti d’Agodi o Monti d’Agoddi o Monte d’Acode o Monte La

Corra (sulle carte dell’I.G.M.). Intanto, non stupiva la denomina-

zione di “monte” a un modesto rilievo dal momento che in Sar-

degna viene data anche alle colline. Meno agevole, invece, appa-

riva l’interpretazione della seconda parte del nome, che venne fat-

ta derivare da un’erba (kòdoro, cioè terebinto) o da «luogo di rac-

Il mistero del nome

La "collina" di Monte d'Accoddi in fase di scavo, 1952 (Archivio Ercole Contu).

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nuovi dati l’interpretazione di luogo diculto già proposta da Contu. Inoltre, nelcorso di questi ultimi interventi sono sta-te individuate fasi edilizie distinte e si èrealizzato il restauro e una parziale e con-troversa restituzione del monumento.

Prime ipotesiNell’affrontare lo scavo del “tumulo”, laconvinzione che si trattasse di un nura-ghe o qualcosa di simile aveva spintoContu a ricercare l’ingresso alla torre op-pure la camera a tholos che caratterizzal’interno delle torri nuragiche. Solo dopoavere definito l’intero profilo perimetraledel monumento, poté constatare chenon vi erano ingressi o vani, ma che il tu-mulo altro non era che una singolare edel tutto sconosciuta struttura delimitatada un semplice muro a secco. Questomuro, piuttosto rozzo nella fattura, avevala funzione di foderare una sorta di piat-

taforma tronco-piramidale a base trape-zia, preceduta, nel lato sud, da una lungarampa d’accesso ascendente: cioè eraqualcosa di simile a quello che in ambitomesopotamico viene definito “altare aterrazza” o ziggurat.

Alla ripresa degli scavi Santo Tinèipotizzò a sua volta che il tumulo potessenascondere una tomba megalitica o ipo-

Non si trovano né l’ingresso né i vani e tramontal’ipotesi che il tumulo nascondesse una struttura nuragica

Sopra, l'altare di Monted'Accoddi durante gli scaviContu, 1952-58 (Archivio Ercole Contu).Sotto, veduta aereadell’altare-terrazza di Monte d'Accoddi primadegli interventi di Santo Tinè.

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tura ad alveare aveva ammorsato in qual-che modo il riempimento e impedito chevi fosse una spinta verso l’esterno, evi-tando in tal modo lesioni irreparabili allepareti di contenimento del monumento.Ma soprattutto si scoprì che l’altare mes-so in luce da Ercole Contu era stato pre-ceduto da un altro edificio – del tutto si-mile nella forma ma di minori dimensio-ni – e successivamente inglobato in quel-lo che ora possiamo ammirare. Inoltre,sul piano di svettamento di questo edifi-cio più antico – Tempio A – vennero allaluce i resti di una struttura rettangolare,punto di arrivo della rampa e sacello deltempio. Pertanto, il monumento attual-mente visibile (Tempio B) include unaziggurat di minori dimensioni (TempioA) o meglio ancora si può dire che l’alta-re a terrazza più antico è stato rifasciato eingrandito nelle forme attuali.

L’altare a terrazza più recente pre-senta una base di 37,50 x 30,50 metri, ri-

geica destinata a ospitare la sepoltura diun personaggio distinto, e per questo de-cise di affrontare lo scavo del riempimen-to della terrazza fino a raggiungere la ba-se della costruzione, a una profondità dicirca 8 metri. Va detto che anche Contuaveva tentato l’esplorazione del cuore delmonumento, ma si era dovuto arrestare acirca tre metri di profondità per mancan-za di mezzi tecnici adeguati e sicuri. L’in-dagine, condotta stavolta con larghezzadi risorse, non sortì i risultati sperati: l’al-tare non custodiva alcuna tomba, mal’intervento rivelò nuovi e interessantielementi architettonici e culturali.

Intanto si mise in luce un particolaretecnico-costruttivo assai sofisticato cheaveva consentito di contenere quellamassa enorme di terra e di pietrame, de-limitato in apparenza da un esile para-mento murario. Infatti era stato creatouna sorta di reticolato a “cassoni” forma-to da un solo filare di pietre: questa strut-

Gli scavi mettono in luce un sofisticato sistemadi contenimento che sostiene l’enorme massa di pietre

In primo piano la tavola per offerte con fori (a destra,un particolare) e sullo sfondol'altare a terrazza dopo il restauro. Nella paginaseguente, pianta e sezionidella stessa tavola.

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spettivamente nel lato nord e in quelloest, mentre la rampa ha una lunghezza di41,50 metri ed è larga da un minimo di 7metri nella parte iniziale sino a un massi-mo di 13,50 nel punto di raccordo con illato meridionale della terrazza: la lun-ghezza dell’insieme misura 75 metri. Lemurature del monumento, che si conser-vano ancora a sud-est per un’altezza di5,4 metri, sono costituite da grossi bloc-chi poliedrici di calcare, appena sbozzatie disposti con scarsa cura in filari irrego-lari. Queste murature, fortemente incli-nate per ragioni di statica, erano costitui-te dalle sole pietre a vista e avevano, co-me si è detto, la funzione principale di so-stenere un ammasso stratificato di terra epietrame. La rampa, costruita con la stes-sa tecnica, fu aggiunta alla struttura tron-co-piramidale poco dopo il primo filare eper questo motivo aveva anche esercita-to funzione di piano inclinato per edifi-care il resto dell’edificio principale. Lacostruzione occupa una superficie di2.513 metri quadri, mentre il suo volumerisulta di 7.590 metri cubi.

Pareti intonacateLa ziggurat più antica (A), scoperta daSanto Tinè all’interno della costruzioneportata alla luce da Ercole Contu, era asua volta costituita da una piattaformaquadrangolare sulla quale era stata co-struita una struttura rettangolare, rag-giungibile grazie a una rampa ascenden-te. Il paramento murario di questa terraz-za si distingueva per una particolare curae raffinatezza: infatti, le pareti erano sta-te intonacate e dipinte di rosso. Le paretidel sacello, ove si ipotizza venisse officia-to il culto, erano anch’esse intonacate eaffrescate con colore rosso ocra, da qui ladenominazione di tempio rosso, così co-me il pavimento. Della struttura rimane ilmuro perimetrale, alto ora circa 70 cm.

L’ingresso al vano era segnato ai lati dadue buche di palo riferibili a un piccoloportico: altre buche per contenere i por-tanti del tetto a doppio spiovente eranoforse presenti nel piano pavimentale del-lo stesso sacello. A differenza del resto de-gli scavi, totalmente a cielo aperto, que-sta cella è ora protetta da una strutturametallica.

La superficie occupata da questo pri-mo monumento è di 1.491 metri quadri,mentre il volume complessivo è stato sti-mato in 4.133 metri cubi. La differenzafra i volumi dei due edifici, di 3.457 metricubi, costituisce la dimensione di cuba-tura necessaria per rifasciare il primo al-tare andato distrutto.

Restano delle perplessità sulla formaoriginaria dell’altare a terrazza più recen-te. Infatti, il restauro di Tinè è stato realiz-zato ritenendo che ci fossero elementisufficienti per credere che la costruzionefosse a gradoni, mentre Contu ritiene, in-vece, che le pareti esterne avessero solo

Qui in basso la facciaanteriore e nella paginaprecedente quella posterioredi una stele trovata nei pressi della parete norddella terrazza.

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stra, disseminata di coppelle e interpre-tata come tavola per offerte, è ritenutacontemporanea all’altare a terrazza piùrecente. Una seconda tavola per offertein trachite (ignimbrite presente in affio-ramenti distanti almeno 6 km dal santua-rio), di minori dimensioni e più semplicenella sua forma irregolare fu trovata sullostesso lato, quasi a ridosso della rampa.

Un menhir in calcare micritico, diffe-rente dai litotipi affioranti sul posto, gia-ceva rovesciato sul lato opposto dellarampa: si tratta di lunga pietra calcareasquadrata. Sia la lastra di trachite che ilmenhir sembrano appartenere a un mo-mento antecedente rispetto al lastronecalcareo, e sono la conferma che il luogoera considerato sacro forse ancor primadella costruzione del primo altare. Vicinoal grande lastrone, ma del tutto fuori po-sto perché proveniente da oltre il muroorientale di recinzione della zona ar-cheologica, si trova una pietra sferoidale,in arenaria grigiastra, rifinita accurata-mente e con la superficie punteggiata dipiccole coppelle. È verosimile che abbiaavuto valenza sacra, forse con lo stessosignificato dell’omphalòs di Delfi ritenu-to l’ombelico del mondo; non è tuttaviada escludere, come qualcuno ha prospet-tato, l’ipotesi di una simbologia astrale.Un’altra pietra sferoide in quarzite, di mi-nori dimensioni, rinvenuta nella stessazona da cui proviene il cosiddetto om-phalòs, è stata sistemata accanto allostesso.

Fra gli elementi di sicura valenza cul-tuale, a parte numerosi idoletti femmini-li, frammentari, di tipo cicladico, forse in-dicativi di un culto della Dea-Madre, so-

due inclinazioni diverse e due diversemurature: pietre più grosse e meno incli-nate nella parte inferiore, pietrame mol-to più piccolo e profilo più inclinato neifilari superiori.

L’interesse del sito di Monte d’Ac-coddi, già eccezionale per la singolaritàdel monumento sopra descritto, non siesaurisce con l’edificio a ziggurat, ma è

accresciuto dal villaggio-santuario e daicopiosi ritrovamenti di cultura materiale.In prossimità della rampa, a est e a circa5 m di distanza dalla stessa, è visibile unlastrone trapezoidale in calcare che pog-gia su tre supporti piuttosto irregolari. Ibordi presentano sette fori passanti, si-mili a buche di biliardo, forse creati perlegarvi degli animali per sacrifici. Al disotto della lastra vi è un inghiottitoio na-turale d’incerto significato, forse legato aculti del mondo sotterraneo. Questa la-

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Il luogo era forse considerato sacro ancor prima della costruzione del primo altare

Veduta dell’omphalòs,della rampa e della terrazza dopo i lavori di restauro e restituzione.

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no da segnalare almeno due stele: la pri-ma, in pietra calcarea e frammentaria,presenta un disegno con losanga e spira-li e fu recuperata entro la grande rampa;la seconda, in granito e di forma rettan-golare, è decorata in entrambe le facce epresenta una figura femminile filiformestilizzata in rilievo: fu trovata nei pressidella parete settentrionale della terrazzapiù antica. Da ricordare, infine, una pie-tra di forma piatta ellittica, segnata datredici scanalature parallele di incerto si-gnificato e attraversate da almeno altredue perpendicolari: proviene dall’angolosud-est della seconda terrazza e forse, aparere del Contu, era in relazione conuna sepoltura di cui si dirà più avanti.

Sia negli scavi Contu che in quellisuccessivi si rinvennero fondi di capannae materiali riferibili a un momento, dettofacies di S. Ciriaco – Neolitico Recente

iniziale, 3500-3300 a.C. – che ha precedu-to la costruzione del monumento e forseanche quella dell’area sacra con il men-hir. Si è stimato che l’area abitativa siestendesse per circa 22.000 metri quadri,ma in realtà la parte indagata è ancoramolto modesta per poter trarre conclu-sioni sulla densità dei nuclei abitativi che

L'omphalòs e la pietrasferoide in quarzite.Sotto, la superficiedell’omphalòs disseminata di piccole coppelle.

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Monte d’Accoddi era fatto con brecciamefino di calcare. Nella Capanna dd, postatra le due tavole di offerta, era ancoraconservato il focolare rettangolare in ar-gilla con bordo in rilievo. Situata vicinoall’angolo nord-est dell’altare si trova laCapanna p-s, indubbiamente quella piùinteressante e più ricca di reperti: è dettaanche Capanna dello Stregone per il fat-to che entro una brocca capovolta sonostate rinvenute una punta di corno bovi-no e alcune conchiglie marine bivalve. Sitratta di un struttura pluricellulare, di for-ma trapezoidale e con l’interno suddivi-so in cinque ambienti di varia forma: iltetto doveva avere un unico spiovente,dato che un muro perimetrale risulta piùrobusto degli altri. Questa capanna, ab-bandonata in seguito a un incendio, con-servava ancora in situ tutto il suo anticodeposito, costituito soprattutto da reper-ti fittili: un centinaio circa fra vasi grandie piccoli – persino un tripode ancora inpiedi sul focolare – un idoletto femmini-

si sono succeduti nel tempo. Per la faserelativa alla cultura di Ozieri, ad esempio,Tinè ha ipotizzato un villaggio di 150 ca-panne, abitate ciascuna da 5 unità, se-condo una stima convenzionalmente ap-plicata agli ambiti neolitici. In realtà sonoancora estremamente scarsi i resti dellestrutture che hanno preceduto la costru-zione dell’altare più antico, mentre siconservano con sufficiente nitidezza iprofili murari di alcune capanne costrui-te intorno all’altare e alla rampa, ricon-ducibili a una fase tarda dell’abitato.Questi resti murari sono ridotti a un solofilare di pietre, rozze e di media grandez-za, che doveva costituire la base della ca-panna. Si è ipotizzato l’utilizzo di matto-ni crudi o di canne o frasche con intona-co di fango, e si sono trovate varie im-pronte su argilla bruciata. Anche i tetti, auno o due spioventi, dovevano avere untelaio realizzato con legni e coperturastraminea.

Il pavimento di queste capanne di

Una capanna rimasta abbandonata dopo un’incendioaveva un tripode ancora in piedi sul focolare

Due immagini del menhirriferibile a una faseprecedente la costruzionedell'altare a terrazza.

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le, un peso da telaio decorato da dischipendenti, numerose macine litiche e al-tre cose ancora. In tutta l’area intorno algrande altare, a indicare l’intensa fre-quentazione del santuario, sono stati rin-venuti mucchi di conchiglie, forse resti dipasti sacri, accanto a ceneri e carboni;ma erano abbondanti anche i resti di pa-sto di altro tipo, comprendenti più o me-no gli stessi mammiferi attuali, domesti-ci e selvatici, lumache, ricci di mare, coz-ze, orate e persino grandi bocconi conicidi mare o Charonia, usati anche comestrumento per suono a fiato, cioè comebùccina.

Si è recuperato, inoltre, un numeroinsolito di punte di freccia e lame in selcee ossidiana, e di accette in pietra levigata.All’interno di un vaso si trovarono ottopesi reniformi riferibili a un primitivo te-laio verticale. Strettamente legati alla sfe-ra del sacro sono altri materiali rinvenuti

vicino all’altare, come statuette in pietrafemminili, di tipo cicladico, e forse ancheil frammento di un ciotolone emisfericocon incisa una scena di danza. Intornoall’altare, per largo tratto, ad accrescere lastraordinaria importanza del complessocultuale, sono presenti tracce copiose divita che documentano i numerosi nucleiabitativi che gravitavano sul santuario. Aun centinaio di metri dal lato orientaledell’altare a terrazza, oltre un muro re-cente che segna il confine della zona de-gli scavi, non lontano dal luogo di prove-nienza dell’omphalos, sono stati rinve-nuti due menhir rovesciati sul terreno.Uno è di arenaria, mentre l’altro è di cal-care: di colore bruno-rossastro il primo ebianco il secondo, forse a voler distingue-re rispettivamente l’uomo e la donna,corrispondenti forse a principi divini oantenati «eroizzati» oppure ancora allaforza generativa della natura espressa dal

L’altare visto dallla rampa.

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possibili portano verso il Vicino Oriente.Si tratta, è bene precisarlo, di raffronti deltutto generici che non sono indicativi dicontatti diretti di cui, almeno finora,mancano le prove. Le piramidi a gradoni– tipo quella notissima di Sakkara – por-terebbero all’Egitto, anche se l’edificiosardo sembra ricordare le mastabe, an-ch’esse delle piramidi tronche. Ma le ma-stabe sono tombe e non presentano alcu-na rampa esterna a piano inclinato perraggiungere la spianata superiore, e la sa-lita doveva rivestire un forte significatosimbolico quale ascesa verso la divinità.Più suggestivo, invece, il richiamo con iltipo più elementare di torri sacre, provvi-ste di rampe e gradoni della Mesopota-mia: le ziqqurat. La più famosa, oltrequella di Ur, è meglio nota dalla Bibbia co-me torre di Babele, cioè torre di Babilonia.Sono ziqqurat piuttosto complesse, comeanche quelle analoghe di Assur e Korsa-bad, appartenenti al III millennio, mentre

fallo. Nella stessa zona da cui provienel’omphalòs fu trovato anche un bacile-frantoio, sporco di ocra rossa, in trachite.

I due altari a terrazza sco-perti a Monte d’Accoddi, siaquello più antico sia quellopiù tardo che lo ha ingloba-to, presentano entrambi unastruttura del tutto scono-sciuta nel panorama del me-galitismo occidentale. Citroviamo di fronte a un im-ponente edificio cultuale in-torno al quale si estendeva

un vasto villaggio: un santuario al quale ifedeli dovevano accorrere, data la sua ri-levanza, da un territorio molto vasto e dalontano, forse da tutta la Sardegna comeipotizzato da qualcuno. Si è già detto del-l’unicità architettonica di questo monu-mento che non trova finora riscontri siain Europa sia nell’intero bacino del Medi-terraneo, e per questo i soli confronti

Qui sotto, pesi da telaioreniformi rinvenuti nel corso degli scavi Contu.In basso, frammento di steledecorata a losanghe e motivispiraliformi rinvenuta durante gli scavi Tinè.

Ricostruzione ideale del villaggio di cultura Ozieri con area sacraprovvista di menhir,nell’area ove sorgerà la terrazza-altare(dis. Francesco Corni).

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quella di Aqar Quf è addirittura del secon-do. Ma il raffronto che pare più significa-tivo, almeno per la maggiore semplicità, èquello con la ziqqurat di Anu, a Uruk, co-struita in tempi non troppo lontani dal-l’altare di Monte d’Accoddi.

Architettura ineditaLa ziggurat di Monte d’Accoddi ricordainoltre – ma soltanto come puro richia-mo letterario – l’altare che Javeh imponedi costruire a Mosé: doveva essere di pie-tre rozze o terra e accessibile a mezzo diuna rampa senza gradini, e questo affin-ché, per la corta tunica, non si generassescandalo. E siamo intorno al 2200 a.C.Forse, come avveniva nelle ziggurat me-sopotamiche, anche la piramide troncadi Monte d’Accoddi era destinata alle fe-ste sacre legate al ciclo agrario, alla fera-cità dei campi, ai riti propiziatori della

fertilità per uomini e ani-mali e altro ancora.

Fin dai primi inter-venti era apparso chiaroche Monte d’Accoddi eraun monumento anterioreall’età dei nuraghi, nonsolo per la sua inedita ar-chitettura ma per i mate-riali che si andavano ritro-vando, riferibili ai tempi delle culture diOzieri, di Filigosa, di Abealzu, Monte Cla-ro e Campaniforme, fra il Neolitico Re-cente e l’Età del Rame. A ribadire l’altaantichità del complesso archeologico sidispone di numerose datazioni radiome-triche, fra le quali risultano di particolareinteresse cinque datazioni non calibratedal Laboratorio di Utrech. In conclusio-ne, sulla base dei dati finora disponibili sipossono determinare in qualche misura

Il santuario di Monte D’Accoddi era dedicatoalle feste sacre legate al ciclo agrario e alla fertilità

Strumenti litici in ossidiana.

Restituzione graficadell’altare-terrazza a gradoni di Monte d'Accoddisuccessivo al tempioprecedente inglobato al suo interno (dis. Francesco Corni).

Sotto, frammento di ciotoloneemisferico con figurefemminili in atto di danza.

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soni radiali, e quindi venne eretto unnuovo sacello, rialzato di vari metri, men-tre anche la piramide e la rampa veniva-no ricostruite e ampliate.

La seconda piramide – costruita aitempi di Filigosa ma per altri durante lacultura di Abealzu (2700 a.C.) – rimase inuso nell’Eneolitico, come attestano i ma-teriali delle culture di Filigosa, Abealzu,Monte Claro e Campaniforme rinvenutinelle capanne che sorgono ai piedi dellapiramide, ma già ai tempi della cultura diBonnanaro, nel I Bronzo (1800-1600a.C.), il santuario doveva essere in ab-bandono anche se non mancano traccedi frequentazioni più recenti come quel-

le fasi costruttive della “ziggurat” e i di-versi momenti di frequentazione di Mon-te d’Accoddi. L’area ove ora sorge la “zig-gurat” e il villaggio-santuario è stata perla prima volta occupata ai tempi dellacultura di San Ciriaco (3500-3200 a.C.)agli inizi del Neolitico Recente, come do-cumentano ceramiche e i resti di capan-ne circolari seminterrate. Su questo pri-mo impianto si sovrappose un nuovo nu-cleo abitativo riferibile alla cultura diOzieri (3200-2900 a.C.), provvisto di un’a-

rea di culto segnata da un menhir,dalla lastra con fori passanti.Successivamente, nella fase fi-nale della stessa cultura di Ozie-ri – ma per altri nella successivacultura eneolitica di Filigosa –l’area del menhir venne parzial-mente occupata dalla costru-zione del primo altare a terraz-za, munito di rampa e spianatacon sacello intonacato e dipintodi rosso. I dati di scavo hanno ri-velato che la prima piramidecon il sacello venne distrutta daun incendio, dopo il quale fu ri-coperta da terra e pietrame benassestato con un sistema di cas-

Il santuario preistorico di Monte d’Accoddi è situato a 11 km da Sassari,

all’altezza del km 222,35 della Superstrada 131, Sassari-Portotorres, sul

lato sinistro. Al monumento, a circa 800 metri dalla superstrada, si ac-

cede da una strada lastricata: a metà del percorso, all’interno di una ca-

va abbandonata è stato ricavato un ampio parcheggio. Nell’area ar-

cheologica esiste un piccolo Antiquarium ove sono esposti pannelli di-

dattici che illustrano i risultati degli scavi. Sono invece esposti al Museo

Archeologico Nazionale G. Antonio Sanna di Sassari altri pannelli didattici, un bel plastico di tipo tradizionale, un mo-

derno ologramma e una scelta dei copiosi materiali ritrovati durante gli scavi.

Come arrivare al Santuario

Ricostruzione grafica dei due tempietti riferibili alla due fasi costruttive.

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le molto rare nuragiche, fenicio-puni-che, di età romana e medioevale. A testi-moniare che già durante il Bronzo Anti-co il santuario aveva perduto la sua fun-zione di luogo di culto, va segnalata la se-poltura di un fanciullo di sei anni, rinve-nuta all’interno del riempimento del-l’angolo sud-est della “ziggurat”. Si trattadi un seppellimento di tipo secondario,costituito dal solo cranio – brachicefalo eaffetto da appiattimento congenito della

volta cranica (platicefalia) – coperto,quasi come un elmo, da un vaso a tripo-de di terracotta e con accanto una cioto-la. Le ceramiche di corredo attestano chesi tratta di una tomba della cultura diBonnanaro (1800-1600 a.C.), quando ilgrande altare era già da tempo abbando-nato e in rovina, luogo di frequentazionisporadiche e occasionali.

Alberto Moravetti, Università di Sassari

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La “Capanna dello stregone”dopo lo scavo;nella pagina precedente,la sua planimetria,

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dato avvio al suo popolamento.Sa pedra crobina, alla lettera “la roc-

cia nera come il corvo” è l’espressionepiù usata in lingua sarda per denominarel’ossidiana. Si tratta di un vetro vulcanicoscuro e lucente che si forma sulla super-ficie terrestre per il raffreddamento rapi-do di lave dalla composizione acida: lacaratteristica omogeneità della strutturadi questa roccia e la sua durezza, consen-tendo un elevato controllo della frattura eun’ottima lavorabilità all’applicazione didiverse tecniche di scheggiatura, l’hannoresa una delle materie prime più apprez-zate fin dall’antica età della pietra per larealizzazione di utensili d’uso quotidianodalle forme e funzioni disparate, quali ar-mature di proiettili, lame, perforatori, ra-schiatoi. Più raramente l’ossidiana veni-va anche levigata per ottenere monili eoggetti di ornamento.

In alcune aree continentali dell’Afri-ca e dell’Asia come a Melka Kunture, inEtiopia, o a Chikiani, Djraber-Fontan-Kendarasi e Arzni in Georgia e Armenia, ètestimoniata la produzione di manufattiin ossidiana da parte di cacciatori del Pa-leolitico inferiore, in tempi compresi tra1.500.000 e 200.000 anni fa. Tuttavia, oltreche alle caratteristiche tecnologiche in-

A EST DELL’AMPIO GOLFO di Orista-no, nella Sardegna centro-occi-dentale, il complesso vulcanico

del Monte Arci di 812 metri campeggiacol suo compatto rilievo a scudo estesoper circa 150 kmq. Questo massiccio, for-matosi essenzialmente tra la fine dell’Eraterziaria e l’inizio del Quaternario, haesercitato un forte condizionamento sulprimo insediamento umano di questa re-gione ma non solo per la netta improntache conferisce al paesaggio. Infatti per iversanti del monte, sotto i boschi secola-ri di lecci, roverelle e corbezzoli o tra ladensa macchia di lentisco, erica e cisto, sidisperdono in diverse località come inuna vasta miniera a cielo aperto le ossi-

diane formatesi da circa 3,25 milionidi anni. Esse hanno avuto notevo-

le importanza per le popolazio-ni preistoriche del Mediterra-neo occidentale e sono stateuno dei fattori di attrazioneper le prime comunità neo-litiche: approdati circa set-temila anni fa in un’isola chele attuali evidenze archeolo-giche spingono a ritenere di-

sabitata e coperta di foreste,questi coloni-pionieri hanno

T E C N O L O G I E N E O L I T I C H E

La montagnadella roccia neraDa cinque anni un progetto di ricerche archeologiche e archeometriche indagasullo sfruttamento e la distribuzione dell’ossidiana del Monte Arci nella preistoria

CARLO LUGLIÈ

Ciottolo di ossidiana del gruppo SC da depositosecondario di lunga distanza.

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dicate e all’efficienza dei margini taglien-ti delle sue schegge, si deve a prerogativeestetiche come la colorazione scura bril-lante e la traslucenza il fatto che l’uomosia stato affascinato e conquistato dal-l’ossidiana in diverse regioni della terra efin dai primordi del suo cammino evolu-tivo. Col passaggio alla preistoria recentee all’epoca neolitica, la progressiva istitu-zione di reti di scambio delle materie pri-me ha promosso una più vasta diffusionedi questa risorsa, che ha raggiunto ancheterritori nei quali per la produzione distrumenti erano disponibili e sfruttaterocce alternative altrettanto efficienti.Questa circolazione per notevoli distan-ze è indizio di un’elevata considerazionedell’ossidiana per l’uomo neolitico, ac-cresciuta dal numero limitato delle areesorgenti: tutto questo ha spinto talora a

considerarla alla stregua di un vero e pro-prio bene esotico, carico di valenze sim-boliche e indicatore di elevato status so-ciale per chi lo possedesse.

Il Mediterraneo occidentale è una re-gione dove il fenomeno della concentra-zione e marginalizzazione delle fonti diossidiana risulta più evidente, perchéquelle effettivamente sfruttate a partiredal Neolitico antico (VI millennio a.C.),sono tutte localizzate su isole distanti dalcontinente. Oltre che in Sardegna l’ossi-diana si trova infatti circoscritta all’isoladi Lipari nell’arcipelago delle Eolie, aquella di Palmarola nelle Isole Ponziane ea Pantelleria, tra la Sicilia e la costa nord-africana. Il loro reperimento periodicodoveva senz’altro implicare il possesso diconsolidate capacità di navigazione d’al-tura e una forte motivazione.

Veduta occidentale del complesso vulcanico del Monte Arci.

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ed economica delle comunità che nehanno promosso e curato la ricerca, latrasformazione e la diffusione.

Le prime analisiNella prima metà dell’800 il capitano difanteria dell’Esercito Sardo, Alberto Fer-rero de La Marmora, con le sue appas-sionate indagini geologiche, topografi-che e storiche in Sardegna portò all’at-tenzione del mondo scientifico il feno-meno ossidiana. Egli descrisse estesi de-positi sul versante orientale del MonteArci, facendo seguire numerose altre se-gnalazioni relative a diverse località del-l’isola. Ben più tardi, al principio delventesimo secolo, furono pubblicate leprime analisi petrografiche su pochicampioni esaminati dal geologo ameri-cano H. S. Washington. Ma è solo allametà degli anni ‘50 che prese piede

L’attuale interesse degli archeologi perl’ossidiana è incentrato, oltre che sui si-stemi di produzione che contraddistin-guono le diverse comunità preistoricheche la impiegarono, anche sugli aspetticonnessi alla circolazione di questa ma-teria prima. Grazie alla “firma composi-zionale” che ne caratterizza l’origine eche si conserva inalterata nel tempo,questa roccia è studiata da decenni conlo scopo di localizzarne la provenienza edi delineare le forme di contatto e intera-zione tra le comunità preistoriche nellepiù disparate regioni della Terra. Così, afronte di rocce più diffuse o di più diffici-le caratterizzazione geochimica, l’ossi-diana è divenuta a partire dagli anni ‘50 lacartina di tornasole privilegiata delle in-terazioni tra popolazioni culturalmentedistinte, oltre che uno strumento per in-dagare i livelli di organizzazione sociale

Area degli affioramentiossidianacei occidentali sul Monte Arci.

L’ossidiana serve a mappare gli scambi tra le comunità preistorichee a ricostruire le relative strutture sociali ed economiche

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un’indagine specifica sull’ossidiana delMonte Arci in quanto risorsa di interessearcheologico, grazie all’edizione dei ri-sultati delle ricerche condotte sul terre-no dal sardo Cornelio Puxeddu. Le sueprospezioni estensive portarono all’in-dividuazione di 272 località sul monte incui era presente ossidiana: tuttavia, aldi-là della segnalazione di numerose offici-ne con abbondanti scarti di lavorazione– la cui interpretazione funzionale è og-gi soggetta a revisione – questo studiopionieristico ebbe il merito di identifica-re tre distinte località, denominate giaci-menti originari, in cui l’ossidiana appa-riva nella sua posizione di formazione.In breve tempo queste scoperte hannostimolato l’interesse della ricerca ar-cheometrica applicata a questa materiaprima e, sulla scia delle prime indaginisu larga scala formulate nel 1953 da J.Garstang per l’Anatolia meridionale, dapiù parti fu compresa a pieno l’impor-tanza dell’identificazione dell’origine diuna materia prima dalla diffusione bencircoscrivibile. Si era agli albori della sta-

gione di studi preistorici che in campoeuropeo sperimentavano l’applicazionesu materiali archeologici di diversi me-todi fisico-chimici di caratterizzazionedelle materie prime: l’obbiettivo era laformulazione di modelli interpretativi difenomeni sociali generalizzati presso lecomunità di interesse paletnologico,quali l’organizzazione della produzione,l’interazione, la reciprocità. È proprio inquesto settore che le indagini sulle pro-

Formazioni ossidianacee delgruppo SB2 in località BruncuPerda Crobina (Morgongiori).Sotto, le quattro fonti di ossidiana del Mediterraneo Occidentale e le loro aree di diffusione (VI-IV millennio a.C.).

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Trent’anni di studi di caratterizzazione dell’ossidiana

del Monte Arci hanno portato all’individua-

zione di quattro gruppi chimici discreti sot-

to l’aspetto composizionale, denominati

SA, SB1, SB2 ed SC e individuati in situ nel-

le loro specifiche località di formazione.

Ciascun gruppo può essere in parte ri-

conosciuto anche in base a prerogative macroscopiche come la

variabilità del colore - dal nero cupo omogeneo al grigio e al ros-

so, con tessiture a bande, venature o chiazze più o

meno distinte dal colore dominante - la maggiore

o minore lucentezza, la trasparenza o totale opa-

cità, la presenza di inclusioni più o meno grandi e

frequenti. Tuttavia, alcuni di questi caratteri si ri-

presentano associati all’interno di più gruppi com-

posizionali, per cui il riconoscimento visuale, che pure

necessita di molta esperienza, non può mai sostituire per intero la

determinazione strumentale.

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T E C N O L O G I E N E O L I T I C H E

ai meccanismi di sfruttamento della ri-sorsa, della produzione, della circolazio-ne e dell’uso dei prodotti non hanno se-gnato un progresso corrispondente.

Il prossimo traguardoPer proiettare una luce sul sistema di pro-duzione e consumo dell’ossidiana delMonte Arci in epoca preistorica, ricerca-tori delle Università di Cagliari, Pavia eBordeaux e del CNRS, coordinati dallaprofessoressa Giuseppa Tanda, hannostrutturato un progetto di ricerca che in-tegrasse appieno indagini archeometri-che di determinazione delle provenienzee analisi tecnologica della manifattura.

In primo luogo si è inteso procederealla definizione degli stadi iniziali delprocesso di acquisizione e prima trasfor-mazione della materia prima in Sarde-gna, per estendere successivamente l’at-tenzione all’analisi di reperti provenientida contesti chiave della preistoria del Me-diterraneo occidentale.I risultati preliminari sono incoraggianti:in relazione al primo obbiettivo, sul Mon-

venienze dell’ossidiana sono diventateuna palestra per l’affinamento e l’impie-go sempre più sistematico delle tecnichearcheometriche.

Su queste basi, gli archeologi hannovolto l’attenzione all’analisi della circola-zione della materia prima del Monte Arcisu vasta scala geografica. Come per le al-tre sorgenti del Mediterraneo occidentalesono stati dunque costruiti schemi de-scrittivi delle direttrici e delle reti di scam-bio strutturate a partire dalla Sardegna,facendo segnare di recente un forte incre-mento delle analisi composizionali su os-sidiane “archeologiche” rinvenute in Cor-sica, nell’Italia centrosettentrionale e nel-la Francia mediterranea. Attualmente so-no oltre mille gli insediamenti dai qualiprovengono ossidiane, scaglionati per unlungo arco di tempo, tra il VI e il III mil-lennio a.C. Con l’applicazione sistemati-ca delle analisi di determinazione si è an-data formando una consistente bancadati sulla composizione chimica dellamateria prima dei singoli manufatti, male conoscenze relative agli aspetti sociali,

Sono stati studiati oltre mille insediamenti che coprono un’ampiaregione geografica e un lungo intervallo temporale

Nel riquadro, blocco di ossidiana rossa a chiazzenere da deposito colluviale in territorio di Pau.

Origine e diffusione della materia prima: un problema complesso

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te Arci e nella regione circostante sonostate classificate tre differenti tipologie didepositi di ossidiana: ai già noti giaci-menti primari e sub-primari, dove il vetrovulcanico è inglobato nella matrice diformazione originaria o si presenta di-sgregato in contigui accumuli colluvialilungo i versanti, oggi si possono affianca-re numerosi e consistenti giacimenti se-condari, distanti fino a 20 km in linea d’a-ria dalle corrispondenti formazioni. Que-sti depositi secondari, con ciottoli fluitatia superfici esterne fortemente alterate,sono dislocati nei terrazzi alluvionali enegli antichi corsi fluviali della pianuradel Campidano, fossa tettonica colmatada sedimenti quaternari che corre a sud-ovest del Monte Arci. Delle aree di giaci-tura secondaria è stata realizzata una pri-ma mappatura, con definizione dellacomposizione geochimica e della relativasorgente di provenienza.

Cartografare le aree di dispersionedelle ossidiane, classificarne corrispetti-vamente le morfologie e le caratteristichedistintive macroscopiche di colore, traslu-cenza e tessitura delle superfici, è di capi-tale importanza quando si lavora compa-rativamente sulle collezioni archeologi-che al fine di individuare i meccanismi e lestrategie di reperimento della materia pri-ma da parte dei primi gruppi umani inse-diati nella regione tra VI e IV millennio a.C.

Si tratta di aprire una finestra su que-sti comportamenti e di ricostruire i mo-delli di organizzazione economica e so-ciale di comunità che hanno svolto unruolo rilevante nell’avviare il processo dicircolazione dell’ossidiana nell’isola e aldi fuori di essa, contribuendo in tal modoa collocare precocemente la Sardegna alcentro di una vicenda di contatti e di rela-zioni tra culture dal seguito plurimillena-rio, fino al suo definitivo ingresso nellastoria per effetto dell’interazione con po-

poli organizzati secondo le dimensioniurbana e statale. In particolare, per inter-pretare la distribuzione insulare ed ex-trainsulare dell’ossidiana del Monte Arciè necessario individuare nell’evidenzaarcheologica i criteri di selezione prefe-renziale della materia prima applicatinella preistoria, ora legati alle prerogativetecniche o estetiche di ciascun gruppogeochimico, ora conseguenti a difficoltà erestrizioni nell’accesso a specifici deposi-ti della materia prima dovute a fattori na-turali o umani. Solo sulla base di questielementi, infatti, è possibile fare precise

Sopra, affioramento di ossidianedel gruppo SA in matriceperlitica da località Conca ‘eCannas (Masullas); sotto,affioramento di ossidiane delgruppo SB1 in matrice perliticada località Monte Sparau(Marrubiu).

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la loro organizzazione sequenziale inmetodi riconosciuti caratteristici di spe-cifiche aree regionali e riferibili a epochecircoscritte. Si tratta di uno strumentoeuristico indispensabile per riconoscereeventuali limitazioni tecniche insite nel-le qualità di roccia meglio documentatenei siti archeologici (SA, SB2 ed SC) e percontribuire a interpretarne la rappresen-tatività statistica. La pratica di scheggia-

valutazioni dell’investimento economi-co, corrispondente al tempo e all’energiadi trasporto richiesti per l’acquisizione diuna specifica qualità di ossidiana.

Saggi di qualitàA questo punto entra in campo il contri-buto dell’attività sperimentale, cioè del-la pratica di riproduzione dei gesti tecni-ci della scheggiatura dell’ossidiana e del-

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T E C N O L O G I E N E O L I T I C H E

zione variabile, quali l’analisi della composizione isotopica dello

stronzio, la Spettroscopia Mössbauer, lo studio delle proprietà

magnetiche e l’analisi delle patine di idratazione dell’ossidiana.

Alla metà degli anni ‘80, dimostrata grazie al lavoro di V. Fran-

caviglia la possibilità di caratterizzare le sub-sorgenti del Monte Ar-

ci anche attraverso la distribuzione percentuale degli elementi

maggiori, mediante la tradizionale analisi in Fluorescenza a Raggi

X (XRF), lo sviluppo di applicazioni fisiche a scopi archeometrici per

l’attribuzione di provenienza dell’ossidiana si è volto alla messa a

punto di metodi rapidi, economici e poco invasivi o non distruttivi,

considerata l’esigenza di preservare l’integrità dei manufatti ar-

cheologici per ulteriori repliche analitiche e per garantirne la mu-

sealizzazione. In questo campo è stata fondamentale la ricerca di

R. Tykot, grazie all’impiego della microsonda elettronica associata

alla Spettrometria di Raggi X a Dispersione di Lunghezza d’Onda

(WDS = Wavelenght Dispersive x-ray Spectrometry). Precisione e ra-

pidità del metodo hanno consentito di implementare in breve tem-

po la banca dati sulle ossidiane del Monte Arci. Un procedimento

non distruttivo e in certa misura alternativo è stato messo a punto

in Italia da G. M. Crisci e A. M. De Francesco con l’introduzione di

una tecnica di analisi per Fluorescenza a Raggi X in grado di ovvia-

re alle aberrazioni determinate da campioni non polverizzati e con

superfici non perfettamente piane come i manufatti archeologici.

Negli ultimi anni, nell’ambito della ricerca in corso sul Mon-

te Arci, è stata valutata con successo dall’équipe del Centre de Re-

cherche Physique Appliqué à l’Archéologie-UMR 5060 del CNRS

di Bordeaux, coordinata da G. Poupeau, un’ampia serie di meto-

di analitici non distruttivi tra i quali l’Emissione di Raggi X Indotta

da Particelle (PIXE) e la Spettroscopia MicroRaman.

A metà degli anni ‘60 i ricercatori inglesi J. R. Cann e C. Renfrew

presentarono la prima applicazione di metodiche analitiche in gra-

do di distinguere la “firma” di ciascuna tra le varie fonti di ossi-

diana nel Mediterraneo: fu impiegato il metodo della spettrosco-

pia a emissione ottica per l’individuazione di alcuni elementi in

tracce (rilevabili in parti per milione) ritenuti di riferimento, quali

bario, zirconio, niobio e ittrio. Il presupposto teorico era fondato

sulla capacità di differenziare le fonti in quanto ritenute sostan-

zialmente omogenee al loro interno ed eterogenee tra loro. In

realtà i manufatti analizzati rivelarono per lo stesso Monte Arci la

presenza di almeno due sub-fonti la cui precisa localizzazione tar-

dò a essere determinata per effetto dell’imprecisione nella loca-

lizzazione delle campionature. Nel successivo decennio si speri-

mentarono numerosi metodi di analisi delle composizioni chimi-

che sia su manufatti archeologici sia su campioni geologici, come

l’Attivazione Neutronica Strumentale (INAA). In alternativa fu im-

piegato il parametro discriminante dell’età di formazione geolo-

gica di ciascuna fonte, mediante metodi di datazione assoluta

quali il Potassio-Argon (K/Ar) e le tracce di fissione. Un numero più

consistente di campioni rese possibile individuare tre gruppi dis-

creti all’interno dell’ossidiana del Monte Arci, tanto che negli an-

ni ‘70 la ricerca in Sardegna si presentava più avanzata rispetto ad

altre regioni, nel momento in cui nasceva la necessità di conte-

stualizzare le fonti e valutarle in termini più problematici che se si

fosse trattato di affioramenti omogenei.

L’edizione della carta geologica del Monte Arci del 1976 con-

tribuì a chiarire il problema dell’esatta mappatura dei diversi

gruppi geochimici delle ossidiane sarde, dando impulso alla spe-

rimentazione di diverse metodiche con potenziali di discrimina-

Impronte digitali sulle rocce: le analisi sulla provenienza dell’ossidiana

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A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A D A R W I N Q U A D E R N I ■ 2 7

tura sperimentale sull’ossidiana delMonte Arci ha rivelato che tutte le quali-tà sono ugualmente adatte all’applica-zione delle tecniche e delle sequenzeoperative che si riscontrano archeologi-camente nell’area medio-tirrenica e, piùin generale, nel Mediterraneo occidenta-le durante il Neolitico.

Pertanto la selezione nell’approvvi-gionamento della materia prima si deli-nea in relazione ad altri fattori e secondosistemi più complessi, variabili su scaladiacronica. Nel corso del VI millennio,infatti, all’incremento progressivo di os-sidiana nei siti della Sardegna e dellaCorsica non sembra corrispondere unaprecisa selezione delle varietà di ossidia-na. Queste, facilmente disponibili intor-no agli accampamenti dislocati nellapianura ai piedi del Monte Arci, appaio-no sfruttate secondo comportamentifortemente opportunistici, senza rivela-re strategie di acquisizione-trasforma-zione fortemente strutturate sul pianoorganizzativo e su scala cospicua. Inol-tre, sulla base della banca dati disponibi-le per i siti di questa fase antica della Cor-sica e dell’area tirrenica, non sembranooperare funzioni di filtro nella circola-zione delle diverse qualità, come sembraavvenire successivamente nel corso delNeolitico medio (V millennio a.C.). Inquesta fase le reti di approvvigionamen-to sono sicuramente rafforzate, come at-testa l’incremento quantitativo dell’ossi-diana in Corsica e, soprattutto, nella Pro-venza e nel Mezzogiorno della Francia,laddove il materiale sembra essere diprovenienza quasi esclusivamente sardae prevalentemente della qualità SA.

Oggi lo studio della produzione litica neinumerosi siti del Neolitico antico di-slo-cati intorno al Monte Arci, in quella che èdefinibile come la zona di approvvigio-namento diretto, rivela un sistema di rac-colta della materia prima in apparenzaasistematico e non selettivo, con un ruo-lo chiave giocato soprattutto dai depositisecondari di ossidiana.

Tale schema sembra estensibile an-che a insediamenti ben più distanti dallefonti, nei quali, pur in una tendenzialeprevalenza della qualità SA, le collezionidi manufatti rivelano una buona rappre-sentatività dei tipi SB2 ed SC e un ricorsotalvolta maggioritario a rocce locali diffe-renti come la selce. Per questa fase anti-ca, e successivamente nel V millennioa.C., non sono stati documentati centri dilavorazione specializzati sul Monte Arci,finalizzati a sfruttare su scala maggiore i

Distribuzione dei gruppigeochimici di ossidiana del Monte Arci.

I vari tipi di ossidiana sono ugualmente adatti alla scheggiaturaperciò la scelta della materia prima rispondeva a criteri diversi

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2 8 ■ D A R W I N Q U A D E R N I A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A

T E C N O L O G I E N E O L I T I C H E

laminare, in quest’epoca maggiormenteorientati verso la produzione di pezzi re-golari e allungati.

I primi atelierAllo stato attuale delle indagini si devecollocare alla fine del Neolitico (IV mil-lennio a.C.) l’impianto di veri e propricentri di lavorazione sul Monte Arci, op-portunamente posizionati presso i depo-siti primari, di cui sono sfruttati i mate-riali in affioramento senza realizzare atti-vità di cava. Non sembra casuale che i piùestesi e consistenti tra questi centri di la-vorazione sfruttino i gruppi geochimiciSC ed SA, per i quali nella fase matura econclusiva del Neolitico si registra il pri-mato quantitativo della distribuzione in-

cospicui depositi primari e sub-primari.Le attività di scheggiatura per l’uso im-mediato e per lo scambio sembrano ri-solversi perlopiù nei siti d’abitato. Anco-ra nel Neolitico medio per la regione diapprovvigionamento diretto non si ri-scontrano variazioni evidenti nella sceltadelle località di raccolta e delle qualità diossidiana: appare diversa peraltro la di-stribuzione dell’ossidiana in direzionedella Corsica e ancor più della Provenza,per le quali sembrano operare forme difiltro a favore di alcune qualità, ancora dadefinire nei contorni e nel significato. Ciòsi verifica anche in concomitanza di unprogressivo affinamento delle capacitàtecniche e di una maggiore standardizza-zione dei procedimenti di scheggiatura

Coltri di scarti di lavorazionenell’officina di scheggiaturadi Sennixeddu (Pau).Sotto, schegge laminari in ossidiana del gruppo SA da officina di lavorazione.

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terna ed esterna all’isola. La più grandeconcentrazione di questi atelier, talora dinotevole estensione, si registra nel terri-torio del comune di Pau lungo il versanteorientale del Monte Arci, in corrispon-denza degli affioramenti della qualità SC.Qui sono state localizzate e delimitate ol-tre venti officine di scheggiatura, la piùestesa delle quali, in regione Sennixeddu,ricopre una superficie di oltre venti ettari.Dagli studi in corso su centinaia di mi-gliaia di scarti di lavorazione pertinentiverosimilmente a lunghi e ripetuti perio-di di attività delle officine, ci si attende dipoter definire i criteri di organizzazione eil livello di specializzazione della produ-zione; i risultati preliminari costituisconoun indizio di una generale tendenza allastandardizzazione dei metodi e dei pro-dotti della scheggiatura, seppur di gradovariabile. La presenza di errori tecnici fre-quenti e ricorrenti indica un basso investi-mento tecnico, una competenza nonsempre elevata e la presenza di apprendi-sti in seno ai gruppi di lavoro. In assenza didati complementari sugli stadi avanzati econclusivi della sequenza di riduzione,

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renze, 25-27 novembre 2004): 461-481. Firenze, IIPP.

apparentemente assenti, èpossibile identificare l’o-biettivo della produzione diqueste officine in supportisbozzati e semilavorati, daimmettere nelle reti di distribu-zione interregionale. A questa faseconclusiva del Neolitico può infatti essereriferita con sicurezza l’installazione diun’attività di riduzione più sistematizzatae di scala, indizio di una mutata funzionee organizzazione della produzione e del-l’instaurarsi di un principio di specializza-zione per alcune attività artigianali. L’in-cremento esponenziale della stessa scaladi produzione segna un forte mutamentonella valutazione del bene e nella sua fun-zione sociale: questo è il momento in cuinella richiesta della materia prima sembraprevalere un’esigenza pratica e l’ossidianarisulta presente in quantità dominanti neivillaggi di un territorio regionale di piùstretta affinità culturale rappresentato dalblocco insulare sardo-corso.

Carlo Lugliè, Università di Cagliari, Dipartimento

di Scienze Archeologiche e Storico-Artistiche

Strumento foliato (metà IVmillennio) e blocco naturale del gruppo SB2 con medesimicaratteri macroscopici.

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I primi abitanti della SardegnaIl fossile umano più antico risale a 22.000 anni fa, ma l’evoluzione della fauna e i reperti litici indicano che la prima colonizzazione è avvenuta 500.000 anni prima

P R E I S T O R I A

Panorama della Valle di Lanaittu,Oliena (Nuoro).

MARIO SANGES

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3 2 ■ D A R W I N Q U A D E R N I A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A

P R E I S T O R I A

attuali con quelle sottomarine ed esten-dere, fino al limite inferiore delle regres-sioni dei periodi glaciali, il quadro deipaesaggi che sono andati evolvendosinelle varie condizioni climatiche. Di talievoluzioni sono più significative quellelungo le coste, in cui, alla fine del Pleisto-cene medio, tra 160 e 150 mila anni fa(tardo glaciale di Riss) e nel Pleistocenesuperiore, tra i 70 e i 50 mila e intorno ai20 mila anni fa, si sono avuti momenti dimassima regressione marina, con un ab-bassamento del livello del mare di circa130 metri rispetto a quello attuale. Tali re-gressioni sono avvenute ovviamente an-che nel corso delle precedenti glaciazio-ni, durante il Pleistocene inferiore e me-dio. In questi momenti regressivi quindiil Tirreno ha subito importanti modifica-zioni. La Sardegna e la Corsica sono uni-te e fronteggiano l’arcipelago toscano, asua volta diventato un’articolata peniso-la. Fra le due terre si è creato un canalelargo mediamente una ventina di miglia,che, ridossato dai venti dominanti di po-nente, diventa un vero e proprio mare in-terno, godendo di lunghi periodi di cal-ma dal moto ondoso.

A Nord, fra Capo Corso e Capraia, ladistanza fra le due terre si riduce a circa 5miglia, determinando un contatto “a vi-sta” tra le due sponde opposte. Tali condi-zioni paleogeografiche hanno favorito ilverificarsi di una particolarissima evolu-zione delle faune insulari, che sarà deter-minante per la colonizzazione umanadelle isole nel Pleistocene medio e supe-riore. In situazioni geografiche così favo-revoli, con brevissimi bracci di mare consponde a vista, si verificano migrazioni difaune dalla terraferma verso le isole. Lamaggior parte delle specie, come adesempio i grandi carnivori predatori, nonsono adatte a tali migrazioni: solo i bravinuotatori, a condizione che siano anima-

U NA SERIE DI STRAORDINARIE SCOPERTE

riguardanti la geomorfologia, lapaleontologia, la paleobotanica,

la paleoantropologia e l’archeologia prei-storica hanno rivoluzionato, nel corsodell’ultimo quarto di secolo, il quadro co-noscitivo della Sardegna nel Quaternario.Sono stati acquisiti nuovi dati riguardan-ti la morfogenesi della piattaforma conti-nentale e del massiccio Sardo-Corso ed èquindi possibile correlare le linee di riva

Il bandito Giovanni Corbeddu di Oliena, vissuto a fine ‘800,che elesse a suo rifugio la grotta che porta il suo nome.

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Stanza 4

Stanza 2Stanza 1

5 metri

Entrata

N

A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A D A R W I N Q U A D E R N I ■ 3 3

li da branco, e fra questi solo gli individuipiù dotati, raggiungono la meta. Quandoqueste specie giungono in un’isola, a cau-sa del territorio limitato e quindi dellascarsità di cibo a disposizione, e soprat-tutto in assenza di predatori naturali, siverificano profonde e rapide modificazio-ni nel loro organismo: la taglia si riducenotevolmente e le zampe diventano piùcorte e più robuste, al fine di accedere an-che ai pascoli più interni e accidentati.

In Sardegna, nella prima metà delPleistocene è ben documentata una fau-na nana, denominata “Nesogorale”, in cuisono presenti una piccola antilope (Neso-goral melonii), una piccola scimmia (Ma-caca maiori), un piccolo maiale (Sus son-daari) e un roditore della famiglia dei la-gomorfi (Prolagus sardus). Nella secondametà del Pleistocene, in un momento dimassima regressione marina, questa fau-na si estingue rapidamente e viene sosti-tuita da un’altra, denominata “Tyrrenico-la”, la quale conserva inalterati icaratteri che l’hanno distintanell’area continentale. Fannoparte di essa un piccolo topo(Tyrrenicola henseli), un cer-vo (Megaceros cazioti) e un

piccolo canide (Cynotherium sardous).Della vecchia fauna sopravvive solo ilProlagus sardus, che svolgerà un ruolofondamentale nella dieta dell’uomo plei-stocenico isolano.

La repentina estinzione della faunanana Nesogorale dell’isola e la mancataevoluzione della nuova fauna Tyrrenicolaverso forme endemiche nane insulari pre-suppongono il contemporaneo arrivo diun grande predatore, il quale, per il solofatto di cacciare e nutrirsi delle due fauneinsulari, ha determinato l’estinzione dellaprima e impedito alla seconda di evolver-si verso le forme nane già note. Tale pre-datore secondo le evidenze paleontologi-che può essere stato soltanto un uomopleistocenico, giunto nell’isola appuntointorno alla seconda metà del Pleistocene.

L’ingresso della grotta Corbeddu.

Planimetria generale della Grotta Corbeddu.

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3 4 ■ D A R W I N Q U A D E R N I A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A

P R E I S T O R I A

ferirsi gli altri strumenti litici scopertinella stessa regione, che si ricollegano altipo di industrie su scheggia, privo di bi-facciali, detto genericamente “clacto-ta-yaziano”. Essi sono stati rinvenuti in stra-to su un terrazzo fluviale la cui genesi è ri-ferita alla glaciazione rissiana, con pedo-genesi e alterazione durante l’ultimo in-terglaciale, in località “Sa Pedrosa-Pan-tallinu”, sempre nei pressi di Perfugas.

Uno studio analitico preliminare hapermesso di correlare tipologicamentequesto complesso con altre industrie pe-ninsulari, soprattutto con l’aspettoabruzzese di Madonna del Freddo e conalcuni complessi “tayaziani” della Fran-cia meridionale. Resta, al momento, inso-

L’uomo pleistocenico sardoNegli ultimi anni le teorie che vedevanola Sardegna colonizzata dall’uomo sol-tanto a partire dal Neolitico Antico sonoprofondamente mutate. Al momento, in-fatti, le fasi più antiche di frequentazioneumana sono state accertate nel nord del-l’isola, in Anglona, in cui ricerche siste-matiche che durano da oltre un venten-nio hanno consentito di mettere in luceuna notevole quantità di manufatti liticisu selce locale riferibili al Paleolitico Infe-

riore. Lungo il corso del Rio Al-tana (a Perfugas, in provin-cia di Sassari) è documenta-to un complesso di industrie

litiche su scheggia, ingiacitura secon-

daria, attribui-bile al cosiddet-

to Clactoniano arcai-co con elementi Protole-

valloisiani. Il quadro tipologicodei manufatti ha permesso un confrontocon i complessi protolevalloisiani garga-nici in particolare, ma anche con altri indiverse aree peninsulari. Recentementeanaloghe industrie sono state rinvenutein giacitura primaria in località “Sa Coade Sa Multa” (Laerru-Sassari). La crono-logia di questa particolare facies è da farrisalire a un momento antico del Pleisto-cene medio (fasi finali del Mindel, data-bili intorno a 500.000 anni da oggi), in ac-cordo con l’ipotesi, già avanzata su basipaleontologiche, dell’arrivo dell’uomo inSardegna al momento della sostituzionefaunistica “Nesogoral-Tyrrenicola”, data-ta alla prima parte del Pleistocene medio.A un momento più avanzato sono da ri-

Sotto, osso temporale umano,dalla sala 2 della GrottaCorbeddu. A destra, la sezionestratigrafica della stessa sala,con resti di fauna preistoricain primo piano.

Al momento le evidenze più antiche di presenza umana sono state trovatenel nord dell’Isola, in Anglona, dove le ricerche durano da oltre vent’anni

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A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A D A R W I N Q U A D E R N I ■ 3 5

luto il problema di questa differenziazio-ne di fasi clactoniane arcaiche ed evolutepresenti nel Paleolitico Inferiore sardo. Lasi potrebbe spiegare con una derivazionefiletica tra le due o con l’arrivo di nuovigruppi umani dal continente. La ricerca èancora in corso e, se opportunamente al-largata ad altre aree dell’isola, potrà in fu-turo fornire risposte esaurienti anche sualtre problematiche che emergono daquesto nuovo straordinario capitolo dellapreistoria sarda. Al momento non si ha inSardegna alcuna testimonianza riferibileal Paleolitico Medio, e non poche decinedi migliaia di anni intercorrono tra le in-dustrie più recenti del Nord dell’Isola e ilivelli riferibili al Paleolitico Superiore, ve-nuti alla luce nella Grotta Corbeddu diOliena, nella valle di Lanaiddu. Secondole evidenze paleontologiche, l’assenzadell’uomo come predatore, per un tempocosì lungo, avrebbe fatto scattare il pro-

cesso di riduzione della taglia anche nel-la fauna Tyrrenicola, che invece restainalterata fino alla sua estinzione, alla fi-ne del Pleistocene. Si può dedurre quindiche forse si tratta più di una lacuna nellaricerca che di effettiva assenza di popola-mento umano. Al Paleolitico Superioresono invece da riferire le tracce di inse-

Grotta Corbeddu, sala 2, vedutagenerale dello scavo.Sotto, la relativa tabellacronologica dei vari livelli con ledatazioni al Carbonio 14.

livello 1

livello 2

livelli litostratigrafia fauna datazione C14

2,00

2,50

1,50

argillamarrone

argillarossa

C. sardous

M. cazioti

P. sardus

P. sardus

M. cazioti

Homo

Animali addomesticati

P. sardus6.490 ± 90

8.040 ± 1807.860 ± 1308.160 ± 130

8.750 ± 140

9.820 ± 14011.040 ± 130

11.980 ± 14013.530 ± 17014.370 ± 19013.510 ± 18013.620 ± 180

Neo

litic

oP

re -

Neo

litic

o

argillanera

argillarossaconangularelimestonepebbles

livello 3

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3 6 ■ D A R W I N Q U A D E R N I A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A

P R E I S T O R I A

degna. Inoltre per la prima volta l’uomocompare in associazione alla fauna ende-mica insulare preneolitica. Per certi carat-teri la morfologia di questi fossili umani,in particolare del mascellare, sembra es-sere estranea alla variabilità dell’Homosapiens in generale e dell’Homo sapienssapiens europeo in particolare. Questamorfologia anomala può essere segno diendemismo, il risultato cioè dell’isola-mento in Sardegna di un gruppo umano.

Un sondaggio stratigrafico della po-tenza di sei metri è stato successivamen-te effettuato nella sala 2 della grotta Cor-beddu nel corso di una delle ultime cam-pagne di scavo, e ha consentito, attraver-so una meticolosa successione stratigra-fica sostenuta da seriazioni radiometri-che ed esami pollinici per ciascun livello,di ricostruire tutte le variazioni climati-che degli ultimi 40.000 anni, e quindi lemodificazioni del paesaggio con le diver-se specie vegetali. In un livello datato in-torno ai 22.000 anni fa è presente unframmento di falange umana: il più anti-co fossile umano dell’isola e dell’ambien-te insulare mediterraneo.

Un clima alpinoLa presenza di pollini di Pinus silvestris edi mirtillo (Vaccinum sp.), oggi non piùpresenti in Sardegna e relegati nelle zonealpine, attesta che, quando l’uomo plei-stocenico era presente nell’isola, il clima

era particolarmente freddo, datoche queste specie ora presenti inalta quota potevano vegetare an-che a quote molto basse. Partico-larmente interessante è la situa-zione osservata nella grotta. Le

ossa di cervo appaiono in giacitura nonnaturale ed è evidente una loro selezioneintenzionale; alcune presentano tracce diusura per una possibile utilizzazione co-me strumenti e sono osservabili sulle su-

diamenti umani “in situ” venuti alla lucenella Grotta Corbeddu di Oliena (Nuoro)nella Sardegna centro-orientale, oggettodi scavi sistematici dal 1982 al 2000. Par-ticolarmente significativa appare la situa-zione della sala 2 della grotta, in cui, innetta successione stratigrafica, sono pre-senti uno strato con fauna olocenica econ livelli riferibili al Neolitico Medio eAntico, uno strato di breccia con abbon-danti resti di Prolagus sardus e un terzostrato di argilla con migliaia di resti di fau-na Tyrrenicola, per la maggior parte diMegaceros cazioti. Anche la microfaunapresente negli strati 2 e 3 è rappresentatada specie pleistoceniche.

Dallo strato 2 della sala 2, in asso-ciazione stratigrafica confauna Tyrrenicola, pro-vengono un temporale eun mascellare superioreumani. La datazione ra-diometrica ottenuta su

ossa di Prolagus raccolte nello stessolivello dei fossili craniali umani, è di

8.750 ± 140 da oggi. Questi reperti sono quindi fra i più

antichi resti fossili umani rinvenuti in Sar-

Sopra, industria litica su supporti naturali di calcarelocale proveniente dalla grottaCorbeddu (Paleolitico superiore).

Veneretta in basalto proveniente dal riparosottoroccia di S’Adde(Paleolitico superiore).

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A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A D A R W I N Q U A D E R N I ■ 3 7

perfici i cosiddetti “cut-mark” e “tool-mark” (segni di taglio e di strumenti) do-vuti ai processi di scarnificazione e disar-ticolazione.

Alla grande quantità di resti faunisti-ci fa riscontro un’industria litica poco co-piosa che utilizza supporti naturali di cal-care marnoso locale e fa scarsissimo usodella tecnica detta del “debitage” (la pro-duzione di schegge dalla pietra). Si trattaessenzialmente di raschiatoi e bulini, conscarso ritocco marginale, che al momen-to sembrano avere un aspetto indifferen-ziato, privo di elementi tipologici ca-ratterizzanti, confrontabili con lecoeve industrie peninsulari.

Sulla base delle datazio-ni radiometriche dei livellidi provenienza, tuttal’industria litica nelsuo insieme è inqua-

drabile tra 14.600 e 12.500 anni fa circa. Al momento, quindi, in accordo con i

dati antropologici, paleontologici e palet-nologici, l’ipotesi più attendibile è quellache vede in Sardegna in questo periodo, efino all’avvento dei neolitici, un uomocon caratteristiche fisiche particolari, conun regime alimentare basato sulla raccol-ta e sulla caccia a una fauna insulare en-demica, che ha prodotto probabili stru-menti su osso poco specializzati, per oranon segnalati nelle coeve fasi continenta-li, e un’industria litica al momento non

Cranio fossile di Macaca majoriproveniente dal MonteTuttavista (Pleistoceneinferiore e medio).

I Sardi del Pleistocene avevano caratteristiche fisiche particolari, vivevanodi raccolta e di caccia, disponevano di tecnologie poco specializzate

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P R E I S T O R I A

la presenza tra le pochissime specie dimammiferi di un roditore di media taglia,quale il Prolagus sardus, estremamenteprolifico e facilmente cacciabile, che haconsentito alle popolazioni della Sarde-gna, e forse della Corsica (in quest’isola lericerche sono ancora in corso), una so-stanziale integrazione della dieta, in ter-mini di proteine necessarie alla sopravvi-venza, a differenza delle altre isole delMediterraneo, ma in accordo e analogiacon modelli similari in altri ambienti qua-li gli arcipelaghi indonesiani e australiani. Alla luce di queste nuove emergenze ar-

raffrontabile con i contemporanei com-plessi della terraferma. Resta aperto ilproblema della denominazione di questicomplessi industriali, paleolitici e meso-litici per età, ma, almeno fino a ora, nonper i caratteri tecno-tipologici, mentre iregimi economici richiedono ulterioristudi e approfondimenti.

Il termine “preneolitico” adottato perle industrie coeve corse sembra per ora lamigliore definizione provvisoria. È co-munque fondamentale, ai fini della conti-nuità di presenza di nuclei umani in unambiente insulare per tutto il Paleolitico,

1. Mascellare inferiore di Sussonaari, Monte Tuttavista(Pleistocene inferiore e medio).2. Cranio di Nesogoral melonii,Monte Tuttavista (Pleistoceneinferiore e medio).3-4. Scheletro e ricostruzionedi Prolagus sardus, GrottaCorbeddu (Pleistocene inferiore,medio e superiore).

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cheologiche trova ora un corretto inqua-dramento cronologico e culturale il pic-colo idoletto femminile in basalto, ritro-vato nei primi anni ‘50 del ‘900 nel riparosotto roccia di “S’Adde” presso Macomer,erroneamente considerato neolitico eche ora può essere definitivamente collo-

cato nell’ambito della grande correntedelle rappresentazioni plastiche femmi-nili che nel Paleolitico Superiore ha inte-ressato l’intero continente europeo.

Mario Sanges, Soprintendenza per i Beni Archeo-

logici per le province di Sassari e Nuoro

5 6

7 8

5-6. Scheletro e ricostruzione di Megaceros cazioti, sala 2,Grotta Corbeddu (Pleistocenemedio e superiore).7-8. Ricostruzione e scheletrodi Cynotherium sardous, sala 2,Grotta Corbeddu (Pleistocenemedio e superiore).

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4 0 ■ D A R W I N Q U A D E R N I A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A

verso tali tematiche è certamente possi-bile annoverare il moltiplicarsi delle oc-casioni di contatto tra esponenti di diffe-renti culture, determinato dalla globaliz-zazione, e la conseguente preoccupazio-ne che il contatto si trasformi in contami-nazione. Ora, nei casi in cui questo feno-meno venga percepito come un pericoloper la salvaguardia della propria cultura equindi per la propria identità, non è in-frequente che a esso ci si opponga ricer-cando in un passato più o meno remotole ragioni culturali della propria fisiono-mia identitaria. Il passato, rivissuto attra-verso il filtro selettivo della memoria – in-dividuale o collettiva che sia, la memoriaè infatti sempre, per definizione, selettiva– in questi casi viene ad assumere la fun-zione di argine da contrapporre a ognipotenziale pericolo di cambiamento.

Derive identitarieAccanto a quest’uso del passato e del ri-cordo come strumenti di difesa dai peri-coli di derive identitarie, però, si assisteall’affermarsi anche di un altro atteggia-mento, che appare in qualche misuraspeculare al primo. Si tratta di un atteg-giamento che affiora tra i membri digruppi o comunità che per varie ragioni

N EL DIBATTITO CULTURALE contem-poraneo, la riflessione sulla me-moria e sul ricordo intesi come

temi culturali ha assunto un posto di pri-mo piano. Tra le varie ragioni che posso-no spiegare questo rinnovato interesse

L E S C U L T U R E D I M O N T I P R A M A

Le tombe degli eroinella necropoli di Monti PramaLe statue sembrano ribadire che l’identità culturale dei nuragici non era stataintaccata dal profondo mutamento che si verifica nella prima Età del Ferro

ROBERTO SIRIGU

Testa di “arciere”.

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aspirano ad acquisire una propria auto-nomia rispetto a una qualche macroco-munità dalla quale ci si vuole affrancare.In questi casi, la memoria culturale, se-condo la definizione elaborata dall’egit-tologo tedesco Jan Assmann, la “storiadelle origini mitiche e degli eventi posti inun passato assoluto” a cui i membri diuna determinata comunità attribuisconoun valore fondante nel processo culturaleche ha portato alla formazione della pro-pria identità culturale, diventa lo stru-mento attraverso cui determinare il cam-biamento che si intende perseguire: la le-gittimazione delle proprie rivendicazioniidentitarie e la separazione dal gruppo odalla comunità di appartenenza originaridi cui non ci si sente parte integrante. Al-l’interno di queste dinamiche il “discorsoarcheologico”, per usare un termine del fi-losofo Michel Foucault, viene non di radoimpiegato come strumento di persuasio-ne retorica. In realtà la lettura interpreta-tiva dei dati archeologici viene richiama-ta a fondamento giustificativo di scelte osituazioni del presente.

Atteggiamenti e volontà di questo ti-po si manifestano anche in Sardegna, in-fatti una parte non secondaria del mondoculturale dell’isola, che ha fatto delle ri-

vendicazioni indipendentiste un nucleoprogettuale finalizzato a creare intorno asé aggregazione identitaria, ricorre all’ar-cheologia nel tentativo di trovare nei datiarcheologici un sostengno scientifico perla legittimità delle proprie rivendicazioni.

Testa di “pugilatore”.

Ricostruzione graficadelle figure interedi un “pugilatore”e di un “arciere”.

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L E S C U L T U R E D I M O N T I P R A M A

per una nuova verifica , che porta alrinvenimento di altri frammenti

di statue e di altri elementi litici.L’intervento di scavo sistemati-co del sito di rinvenimento del-le statue ha luogo nel corso del1979, per conto della Soprin-tendenza Archeologica per leprovince di Cagliari e Oristano,sotto la guida dell’archeologoCarlo Tronchetti.

La necropoliDopo il rinvenimento, le statue vengonoportate nei magazzini del Museo Archeo-logico Nazionale di Cagliari e successiva-mente alcuni frammenti vengono espo-sti in una sala dello stesso Museo. Recen-temente, infine, i frammenti scultorei so-no stati affidati al laboratorio di restaurodi Li Punti della Soprintendenza per i Be-ni Archeologici delle Province di Sassari eNuoro, che ne sta seguendo il restauro incollaborazione con la Soprintendenzaper i Beni Archeologici delle Province diCagliari e Oristano. Come ribadisce lostesso Tronchetti in una recentissimapubblicazione sull’argomento 1, lo scavoriporta alla luce una necropoli compostada 33 tombe a pozzetto irregolare, cia-scuna delle quali sigillata da un lastronein arenaria gessosa di circa 1 metro didiametro per 14 cm di spessore. Questeultime risultano del tutto prive di corre-do, a eccezione della tomba n. 25, al cuiinterno viene rinvenuto uno “scaraboideegitizzante tipo Hyksos” databile nonprima della fine del VII sec. a.C., e delletombe 24, 27 e 29 che restituiscono fram-menti di vaghi di collana in pasta vitrea.

Ora, appare legittimo chiedersi, si-no a che punto può essere consideratocorretto un simile uso dell’archeologia?Riflettere sulla riscoperta delle sculture diMonti Prama da parte della comunità cipuò aiutare a dare una risposta a questointerrogativo: il rinnovato interesse perquesti reperti appare infatti collocarsiesplicitamente nel filone del dibattitoidentitario isolano, come è facile verifica-re attraverso una semplice ricognizionetra i vari blog dedicati al tema di questesculture. Partiamo allora da un breve rias-sunto delle tappe principali che hannosegnato la storia recente di queste opere.

Nel marzo del 1974, nella località diMonti Prama, nel Comume di Cabras inprovincia di Oristano, un contadino rin-viene, nel corso di lavori di aratura, unatesta di scultura in pietra e altri elementiscultorei di considerevoli dimensioni. Lasegnalazione del ritrovamento desta l’im-mediato interesse della stampa e infattiLa Nuova Sardegna ne riferisce il 31 mar-zo del 1974. La segnalazione determinaun primo intervento di scavo da partedella Soprintendenza alle Antichità, con-dotto tra il 1974 e il 1975 dagli archeologiAlessandro Bedini e Giovanni Ugas. Nelgennaio del 1977 gli archeologi GiovanniLilliu ed Enrico Atzeni si recano sul posto

La necropoli è stata scoperta nel ‘74 nel comune di Cabrase forse ospitava i corpi di una famiglia di ordine militare

Planimetriadella necropolidi tombe a pozzettoal di sopra delle qualivennero rinvenutii frammenti di statue.

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In base a questi elementi, Tronchetti da-ta la realizzazione della necropoli – che asuo avviso sarebbe stata utilizzata da piùgenerazioni – nel corso del VII secolo a.C.

A nord della necropoli costituita dal-le tombe a pozzetto era dislocata un’altraarea funeraria di tombe a cista litica rea-lizzate con pietra differente dall’arenariaimpiegata nelle tombe a pozzetto. A circa20 metri a sud-ovest della necropoli silegge ancora la presenza di una capannanuragica e altre strutture sono visibili neidintorni.

Le sculture vengono ritrovate esatta-mente al di sopra della necropoli: più di2.000 frammenti di statue scolpite nell’a-renaria gessosa, riconducibili a circa 25esemplari. La disposizione dei frammen-ti al di sopra delle tombe consente di af-fermare che essi erano stati gettati già inframmenti a formare un cumulo informedi materiali. A dimostrare questa tesi sa-rebbe in particolare il rinvenimento tra iframmenti di un torso di arciere rotto intre pezzi rinvenuti in situ.

Le statue si possono suddividere in

tre gruppi: il primo rappresenta figureumane, il secondo modelli di nuraghe e ilterzo betili. Le figure umane sono rappre-sentazioni di arcieri e di “pugilatori”, ov-vero figure di guerrieri che si proteggonoil capo con lo scudo. Dal punto di vistadello stile iconografico queste figure ap-paiono pienamente coerenti con la picco-la statuaria in bronzo, i famosi bronzettiper intenderci. Di grande interesse ap-paiono poi anche i modelli di nuraghe,raffiguranti sia il tipo di nuraghe mono-torre che il tipo complesso e i betili.

Ma a quale periodo deve essere ri-condotto questo insieme di opere sculto-ree? Tendenzialmente gli studiosi sem-brano orientati a collocarle cronologica-mente nelle fasi intorno all’VIII-VII sec.a.C., basandosi soprattutto sulla datazio-ne della necropoli proposta da Tronchet-ti e sull’ipotesi che tra le sculture e la ne-cropoli esistesse una stretta correlazione.L’importanza archeologica di questeopere sarebbe dunque notevolissima:basti pensare che queste opere sarebbe-ro da collocarsi in un contesto mediterra-neo che le vedrebbe cronologicamentecoeve con le produzioni della statuariaarcaica greca.

Busto di “arciere”(a sinistra)e frammento di unbraccio di “arciere”che impugna l'arco(a destra).

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L E S C U L T U R E D I M O N T I P R A M A

ci, di Fenici e di Greci Euboici. Il dato pe-rò più significativo consiste nel fatto chela convivenza tra gli esponenti di questidifferenti mondi culturali sembra esserestata pacifica e proficua sia sul pianocommerciale che, più in generale, sul pia-no culturale. Da queste ricerche emergeun quadro storico d’insieme decisamen-te differente da quello ritenuto attendibi-le anche solo qualche anno fa. La Sarde-gna della prima Età del Ferro appare es-sere un’isola intensamente frequentatada genti e culture differenti, capaci di in-contrarsi attraverso forme di contattotanto intenso quanto pacifico.

Il mito delle originiIl rinvenimento archeologico di MontiPrama sembra inserirsi dal punto di vistacronologico-culturale proprio in questoarticolato e movimentato quadro d’insie-me, offrendoci un’immagine efficace dicome i processi culturali in atto in Sarde-gna in quel periodo dovevano essere vis-suti dai sardi nuragici. Se infatti i contattie gli inevitabili scambi tra culture diffe-renti si svolsero in un clima sostanzial-mente pacifico, ciò non significa che unsimile processo non abbia in qualche mi-sura determinato paure e tensioni sul pia-no più squisitamente identitario. Anzi, lestatue di Monti Prama starebbero a dimo-strare il contrario. Sarebbero infatti il se-gno tangibile del fatto che i sardi nuragiciavvertissero la necessità di mostrare – equindi al tempo stesso di ribadire – che lapropria identità culturale non era stataintaccata dall’insieme di fenomeni di ine-vitabile mutamento che erano in atto inSardegna in quel periodo. Se queste ipo-

Il problema ovviamente non è solo crono-logico: a seconda della fase di attribuzionevaria notevolmente la funzione simbolicache appare possibile attribuire alle scultu-re. Connessa alla datazione all’VIII-VIIsec. a.C. è l’interpretazione delle sculture edella necropoli come una sorta di heroon,termine greco che designa un sepolcro incui si ritiene sia stato deposto il corpo diun personaggio eroico. È questa l’ipotesiformulata da Giovanni Lilliu, che immagi-na la necropoli come luogo di sepoltura diuna sorta di gens, una famiglia di ordinemilitare distintasi per particolari motivi equindi degna di ricevere sepoltura in tom-be singole, non più nelle tradizionali e col-lettive tombe dei giganti. In accordo conquesta interpretazione appare anche laproposta di lettura avanzata da CarloTronchetti, che interpreta la necropoli e lestatue come un organico testo simbolico:“una necropoli-santuario in cui viene glo-rificata una famiglia, o una famiglia allar-gata o un clan”, attraverso una eclatantemanifestazione di simboli culturali – l’im-magine degli eroi, del monumento-sim-bolo e del segno della sacralità – da pro-porre come propria immagine identitariaalle nuove entità culturali, Fenici e Greci,che si affacciano in questo periodo sulsuolo sardo.

È questo un momento cronologicosul quale le ricerche archeologiche si so-no ultimamente intensificate, producen-do risultati di grande interesse. Vari sitinuragici – ricordiamo quello certamentepiù noto: il nuraghe di Sant’Imbenia, nelterritorio di Alghero – stanno restituendoattestazioni archeologiche della presen-za, oltre che ovviamente dei sardi nuragi-

La convivenza tra gli esponenti di differenti mondi culturali sembraessere stata pacifica e proficua sul piano commerciale e culturale

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tesi risultassero fondate, il sistema scultu-re-necropoli sarebbe dunque da interpre-tarsi come una esplicita manifestazionedella memoria culturale, un insieme disegni culturali attinti da un passato in cuila cultura nuragica collocava la propriaorigine mitica e che, nel presente caratte-rizzato da profondi mutamenti culturali,doveva esercitare la funzione di arginecontro il pericolo di derive identitarie cheappaiono analoghe, per certi versi, a quel-le a cui abbiamo fatto cenno all’inizio.

Alternativa a questa ipotesi è invecequella che vede nelle sculture rappre-sentazioni non legate al passato, anchese più o meno prossimo, ma immaginitratte dal presente a cui appartenevano icommittenti di queste opere. Questaipotesi si lega a cronologie più vicine alIX, se non addirittura al X sec. a.C. Co-munque sia, il dibattito appare quantomai aperto su queste e su altre questioniinterpretative connesse con lo studiodella civiltà nuragica.

Da questo insieme di fattori, e da altrielementi, nasce il notevole valore scienti-fico di queste opere. Le sculture di MontiPrama, lo abbiamo appena ricordato,sembrano aver svolto già in antico la fun-zione di segni della memoria culturale,quindi identitaria, dei sardi nuragici. Maquesto è sufficiente per fondare su queisimboli, e quindi su quel passato, le scel-te olitico-culturali del presente? Si sentespesso parlare di queste opere come dimanifestazioni di una presunta superio-rità della cultura nuragica rispetto a quel-le coeve, una superiorità che viene altret-tanto spesso evocata per riscattare i sardida secoli di dominazioni e di subalternità.Ma può mai un breve scorcio del passatoriscattarci dalle insoddisfazioni che susci-ta il nostro stesso presente? In ogni casol’elezione di quei simboli identitari nonriuscì a impedire che la civiltà nuragica si

trasformasse, prima o poi, in qualcosad’altro. È una riprova del fatto che nessunsimbolo identitario, nemmeno se trattodal passato, può arginare con efficacia imutamenti che inevitabilmente investo-no qualunque sistema culturale. L’ar-cheologia, come del resto la storia, nonpuò fornire alcun aiuto scientifico in talsenso: nessuna scoperta archeologica po-trà mai né legittimare né delegittimare lenostre scelte identitarie di oggi. Perché l’i-dentità non è un dato naturale, ma sem-mai una scelta culturale.

Roberto Sirigu, Università di Cagliari

1 C. Tronchetti, “Le tombe e gli eroi. Conside-

razioni sulla statuaria di Monti Prama”, in P.

Bernardini, R. Zucca (a cura di), Il Mediterra-

neo di Herakles. Studi e ricerche, Roma, 2005,

pp. 145-167.

Ricostruzione plasticadelle figure interedi un “pugilatore”e di un “arciere”.

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perti, infatti, presso luoghi di culto, neitempli «a megaron», nelle fonti e pozzisacri; altri ritrovati in nuraghi e villagginuragici, mentre sono rari i bronzetti ve-nuti in luce nelle sepolture del tipo «tom-be di giganti». Infine, numerosi pezziprovengono da ripostigli e fonderie, que-ste ultime non di rado realizzate nell’am-bito di complessi cultuali.

La produzione dei bronzetti testimo-nia una grande maestria nella tecnicadella cera persa che consiste nel realizza-re un oggetto in cera che viene avvolto dauna guaina di argilla, che costituisce unguscio o matrice. L’insieme viene quindisottoposto all’azione del calore finché lacera, resa liquida, defluisce grazie a deipiccoli canali predisposti nell’argilla efunzionali anche all’eliminazione dell’a-ria e dei gas, nonché al troppo pieno delmetallo fuso. Dopo la colata del metallofuso e il raffreddamento, sarà sufficienterompere la matrice per recuperare l’og-getto ultimato, che riproduce fedelmenteil modello di cera iniziale.

Tra i soggetti più frequentemente ri-prodotti vi sono i guerrieri, rappresentaticon le loro armi da cui è facile distinguereruoli specializzati quali arcieri, lancieri,frombolieri. Molti indossano delle coraz-

U NO DEI TRATTI PIÙ CARATTERISTICI e si-gnificativi delle manifestazioni ar-tigianali e artistiche della civiltà

nuragica è, senza alcun dubbio, costituitodai bronzetti, miniature di persone, ani-mali, edifici e oggetti d’uso quotidiano.La loro produzione si colloca in paralleloa quella altrettanto ricca di armi, utensi-

li, oggetti d’uso comune (brocche, reci-pienti, specchi), ed elementi decorativiquali braccialetti, spilloni e bottoni.

Sono noti più di 600 bronzetti, maquesta cifra è in costante aumento, non

solo grazie alle scoperte che avven-gono nell’ambito di regolari atti-

vità di ricerca ma anche per lefrequenti «riscoperte» in rac-

colte private, a causa delgrande interesse che

queste piccole scultu-re suscitano nei nu-merosi collezionisti

che le commercializza-no, e che incrementano il

grave e deprecabile feno-meno della decontestualizza-

zione di questi straordinari documenti. Tali oggetti appaiono strettamente

correlati alla sfera del sacro: numerosibronzi figurati sono stati sco-

A R T E N U R A G I C A

4 6 ■ D A R W I N Q U A D E R N I A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A

Il mondo in miniaturadei bronzetti votiviUna straordinaria varietà di soggetti anima oltre 600 sculture, che testimonianogrande maestria nella tecnica della cera persa e appaiono legate alla sfera del sacro

ANNA DEPALMAS

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Guerrieri con stocco da Abini, Teti (NU);nella pagina precedente,essere fantastico con quattroocchi e quattro braccia da Abini, Teti (NU).Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.

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4 8 ■ D A R W I N Q U A D E R N I A R C H E O L O G I A I N S A R D E G N A

A R T E N U R A G I C A

di stendardo piumato, fissato su delle lun-ghe lance. Alcuni «fanti» portano sullespalle, o tengono in mano, uno scudo diforma circolare con un elemento appunti-to al centro, talvolta decorato da motivi li-neari.

Le figurine di guerrieri rappresenta-no più frequentemente persone singole,in posizione statica e solo raramente sce-ne di lotta con un guerriero che domina ilsuo avversario disteso sul dorso, evocan-do l’azione e il movimento. Infine, vi so-no anche raffigurazioni di guerrieri cheriportano a un ambito mitico o fantasti-co, come il noto guerriero a quattro brac-cia e quattro occhi, o un altro, il cui corporichiama la figura del Minotauro.

Il saluto dei capotribùSe i guerrieri costituiscono la maggiorparte delle raffigurazioni umane, nume-rosi soggetti, comprese le figure femmi-

ze che sembrano ricoperte di borchie, esotto le quali si intravedono tuniche piut-tosto corte; le gambe sono nude, protetteda gambali. Alcuni individui possiedonouna sorta di giubba a placche o a borchie;altri hanno delle corazze decorate sul pet-to o sull’addome da fasce, probabilmentemetalliche. Alcuni sono equipaggiati conuna daga, molti hanno un pugnale a lama

triangolare e ad elsa «gammata» sospe-so sul petto tramite una tracolla; gliarcieri mostrano sulle spalle la fare-tra. Tutti portano un elmo, in formadi calotta semplice o ornato da cor-na spesso di grandi dimensioni. Learmi più rappresentate, oltre ai pu-

gnali, sono le spade, le lance egli archi. Certi guerrieri

impugnano una sorta

Guerriero con spada e arco da Monte Arcosu, Uta (CA).Museo ArcheologicoNazionale di Cagliari.

A fianco,la “madre dell'ucciso”da Sa Domu ’e S’Orku,Urzulei (NU).Museo ArcheologicoNazionale di Cagliari.

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nili, sono rappresentati senza attributimilitari e sembrano corrispondere a dif-ferenti mestieri o stati sociali. Tra questisi distinguono personaggi maschili, in-terpretati come capi tribù o individui im-portanti, che indossano un lungo e am-pio mantello, impugnano un lungo ba-stone nodoso e sono spesso raffiguraticon una mano alzata, a palmo aperto, inatteggiamento di saluto. Lo stesso gestosi ravvisa in altre figurine che indossanolunghe vesti e copricapi di varia foggiaquali calotte emisferiche, cappelli conicio a larghe falde, caschi o acconciature atrecce. È probabile che si tratti anche inquesto caso di personaggi con un ruolo

sociale importante, capi, sacerdoti o co-munque raffigurazioni di un élite.

Molto ben documentata è la catego-ria degli offerenti, figure femminili e ma-schili variamente vestite che protendonocon la mano un recipiente o una focac-cia; ad essi sono accostabili le figure cheimpugnano un bastone forcuto o porta-no un ovino sulle spalle.

Tra gli altri soggetti vi sono artigianiassisi su uno sgabello intenti a lavorare suun manufatto, probabilmente di cuoio;suonatori di corno e di flauto a tre canne;donne, con i capelli sciolti sulle spalle oraccolti, che portano dei recipienti sullatesta o tra le mani.

Volpe da Santa Vittoria,Serri (NU) e cervo da Iglesias (CA).Museo ArcheologicoNazionale di Cagliari.

I soggetti raffigurati senza attributi militari corrispondono amestieri e stati sociali diversi, dai sacerdoti agli artigiani

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Tutte queste raffigurazioni umane mo-strano l’esistenza di almeno due correntistilistiche, una caratterizzata da un’illu-strazione rigorosa e vicina alla realtà, l’al-tra da una riproduzione più schematica,talvolta quasi caricaturale.

Gli animali non sono trascurati e so-no note numerose riproduzioni di speciedomestiche, come bovini, ovini, maiali,cani, o selvatiche quali cinghiali, cervidi,

mufloni e volpi. Anche alcuni oggetti del-la vita quotidiana sono ugualmente ri-prodotti in miniatura; si tratta di pugnali,anfore, cestini con coperchio, sgabelli,contenitori rettangolari, lampade, fiac-cole e carri. Tra i soggetti raffigurati rive-stono un grande interesse le rappresen-tazioni miniaturistiche dei nuraghi e del-le imbarcazioni.

Le prime illustrano gli edifici nellaloro interezza, fornendo una precisa in-formazione sull’aspetto della parte supe-riore, mai conservata nella realtà odier-na. Le seconde costituiscono i soli ele-menti di cui noi disponiamo per cono-scere il tipo di imbarcazione utilizzatodalle popolazioni protostoriche dellaSardegna. Si conoscono circa centocin-quanta navicelle di bronzo che riprodu-cono imbarcazioni prodotte dalle offici-ne sarde che appaiono caratterizzate daun corpo realizzato in forma di scafo dinave terminante, in corrispondenza del-l’estremità anteriore, con una protomeanimale.

Una flotta di bronzoNell’ambito di questa «flotta» si ricono-scono essenzialmente due fogge, una ascafo largo, tendente al circolare ma conl’estremità posteriore ogivale, che si puòdefinire «cuoriforme», l’altra a scafo piùstretto, con simmetria antero-posteriore,o «fusiforme».

Le navicelle a scafo fusiforme sono lepiù numerose e all’interno di questa clas-se è possibile individuare almeno quattroraggruppamenti tipologici, definiti sullabase dei criteri distintivi dei margini del-lo scafo, del sistema di sospensione e del-

Offerente con gruccia da Santa Vittoria, Serri (NU).Museo ArcheologicoNazionale di Cagliari.

Si distinguono almeno due correnti stilistiche, una riproducefedelmente la realtà e l’altra ne fa una sorta di caricatura

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A fianco, capotribù da MonteArcosu, Uta (CA);sotto, offerente con focacciada Abini, Teti (NU).Museo ArcheologicoNazionale di Cagliari.

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gavoni, alberi, coffe, chenischi, elementiche ci riportano a un’attenta osservazio-ne e riproduzione delle imbarcazionireali e che fanno emergere un’evidentefamiliarità dei sardi nuragici con il mezzodi trasporto marino.

È possibile che le navicelle a scafocuoriforme siano riconducibili a un tipodi chiatta a scafo largo con fondo piatto abasso pescaggio, probabilmente realiz-zata con giunchi, canne o ferula adatta auna navigazione nelle acque poco pro-fonde dei fiumi o degli stagni.

Per i tipi a scafo fusiforme è ipotizza-bile, invece, l’esistenza di almeno duedifferenti modelli di riferimento idoneialla navigazione marina, entrambi conprua e poppa a spigolo acuto e a scafo piùo meno slanciato, allargato al centro, ca-ratterizzati da strutture costituite dall’in-castro di tavole. Un modello sembrereb-be riconducibile a imbarcazioni senzachiglia e a carena piatta, con rinforzi dicordame esterno, teso sui fianchi per rin-forzare e sostenere il corpo dello scafo.

le modalità di unione della protome alloscafo. Lo studio delle navicelle nuragichepermette di riconoscere insieme a ele-menti funzionali all’utilizzo dell’oggettominiaturistico (peducci, anello per ap-pendere) e a motivi decorativi e fantasti-ci, particolari rispondenti a elementi fun-zionali a un mezzo di navigazione. Si trat-ta di scalmi, sartie, legature, battagliole,

Navicella rinvenuta in una località sconosciutadel Sinis (OR).Collezione privata.

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L’assenza, inoltre di qualsiasi elementoaccessorio e quindi del timone porta a ri-tenere che la funzione direzionale fossesvolta dal remo.

La presenza nell’estremità anterioredi una protome animale (o chinisco) col-legata allo scafo mediante un filo metal-lico avvolto a spirale attorno al collo epresso l’orlo della prua è senz’altro ricon-ducibile all’esistenza di una protome fis-sata sulla prua, presumibilmente me-diante cordame. Differenti potrebberoessere le imbarcazioni rappresentate daun altro gruppo di navicelle con fiancatesemplici, prive di nervature esterne, con-traddistinte da un margine a listello spor-gente che orla tutto lo scafo. Ricollegabi-le alla presenza del margine è anche labase triangolare del collo della protomeche determina una piccola nicchia inter-pretabile, dal punto di vista funzionale,come un gavone di prua più o meno svi-luppato. All’interno di questo raggruppa-mento si individuano soprattutto navi-celle con scafo a sezione trapezoidale efondo piatto anche se ve ne sono altre,più rare, con sezione curvilinea e fondoconvesso. Lo scafo di queste navicelle èregolare e simmetrico e non è possibile

notare alcuna distinzione di forma trapoppa e prua, ma quest’ultima si ricono-sce per la presenza della protome. Lapoppa non mostra mai un’alta ruota néuna deriva, la prua non ha un’appendicea sperone o l’estremità rivoluta e non visono sporgenze su entrambe le estremitàcome di frequente si osserva in molterappresentazioni di imbarcazioni villa-noviane o egee. Le murate di queste navi-celle sono, in genere, piuttosto basse an-che se sono documentati esemplari conalti fianchi o con fianchi di altezza mediasu cui si imposta una sorta di impavesataa muro semplice o traforato che potevaavere una funzione protettiva e, al tempostesso, costituire una sorta di murata fe-

Navicella dal nuraghe Badde Rupida, Padria (SS).Museo Nazionale G.A. Sanna di Sassari.

In assenza di una documentazione navale diretta, è difficilericostruire tutti i dettagli strutturali delle piccole imbarcazioni

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Navicella da MonteLecchesinus, Mores (SS).Museo Nazionale G.A. Sanna di Sassari.

nestrata per il controllo della visibilità eper l’alloggiamento dei remi.

La presenza in alcune navicelle di unalbero al centro dello scafo appare unchiaro riferimento all’uso, in queste im-barcazioni, di un mezzo propulsivo alter-nativo ai remi, strumenti questi comun-que indispensabili data l’incapacità degliantichi naviganti di virare di bordo e di ri-salire il vento. L’albero è sempre coronatoda un anello di sospensione che, aldilà del-la funzione di appiccagnolo, potrebbe ri-collegarsi anche a un karkesion di bronzo,un dispositivo adottato per incapellare glistragli e per far scorrere le drizze del pen-none della vela, ricorrente in molte raffi-

gurazioni di ambito egeo. Molti degli albe-ri delle navicelle terminano con una sortadi capitello a «gola» che rientra tra i motividecorativi propri di una produzione tipicasarda ma che, al tempo stesso, in alcuniesemplari sembra ricordare una coffa.

Questo elemento accessorio all’albe-ro oltre alla funzione principale di con-trollo e di avvistamento poteva anche es-sere utilizzato per aiutare dall’alto le ma-novre dell’issare e ammainare una vela-tura di grandi dimensioni e di notevolepeso giacché la vela, realizzata in fibra dilino o di canapa, a contatto con l’umiditàmarina doveva risultare ancora più pe-sante e di difficile manovrabilità. Nienteci è dato sapere di preciso sul tipo di velautilizzata nelle navi nuragiche, anche sesi può ragionevolmente ipotizzare unelemento di forma quadrangolare che,orientato trasversalmente allo scafo o lie-vemente obliquo, consentiva un tipo dinavigazione con andatura di poppa o, almassimo, di gran lasco.

Il problema della ricostruzione deidettagli strutturali di queste imbarcazio-ni è per ora irrisolto, considerata anche lamancanza di una qualsiasi diretta docu-mentazione navale. Potremmo ipotizza-re che il prototipo di riferimento fosse co-struito mediante l’incastro di tavole di di-mensioni più o meno piccole, come lenaves sutiles della tradizione classica(Plinio, Naturalis Historiae, XXIV, 65) ca-ratterizzate da una struttura tenuta insie-me grazie a cuciture e tenoni lignei e

Disegni di alcune navicelleconservate in diversi musei.

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comprovata oltre che dalle fonti anche danumerosi relitti.

Problemi di datazioneL’impiego funzionale dell’oggetto comelucerna votiva è ipotizzabile sulla basedel confronto con l’analoga classe di ma-nufatti realizzati in ceramica, per la qualeè ampiamente documentato un uso co-me lampade all’interno di vani utilizzatiper scopi cultuali. Il valore religioso del-l’oggetto, oltre che dalla collocazione neiluoghi sacri, era poi accentuato dal valo-re di ex-voto di particolare prestigio e im-portanza e dall’utilizzazione della navi-cella come lucerna votiva per l’illumina-zione degli ambienti interni dei santuarie dei sacelli, poggiata su un piano o so-spesa per mezzo dell’appiccagnolo.

Anche gli altri oggetti miniaturisticidi bronzo dovevano avere valenza di ex-voto, come sembra confermato dagli am-biti di rinvenimento, prevalentemente dicarattere cultuale.

La datazione dei bronzetti è stata ed èoggetto di grande dibattito, in particolareperché gran parte delle scoperte risalgo-no ai primordi della ricerca archeologica,molte provengono da collezioni private,quindi senza alcun dato di origine, o dacontesti difficilmente databili. Infatti leindicazioni cronologiche più sicure pro-vengono dalla penisola italiana dove al-cuni bronzetti sardi, presenti come mate-riale d’importazione, sono stati scopertiall’interno di tombe. Si tratta di tombe vil-

lanoviane, come quelle di Cavalupo diVulci (VT) (inizio IX sec. a.C.) o della ne-cropoli di Pontecagnano (SA), datate dal-la seconda metà del IX sec. a.C., o ancoradi tombe etrusche come quella del Duceo del circolo delle tre navicelle a Vetulonia(GR), inquadrabili tra la metà dell’VIII se-colo e l’inizio del VII sec. a.C. Tuttavia, sequeste datazioni più tarde possono indi-care l’epoca nella quale le popolazionicontinentali hanno importato questo ti-po di oggetti, certamente i ritrovamentidella prima età del Ferro (IX sec. a.C.) cor-rispondono ancora al loro periodo di pro-duzione, che verosimilmente origina nelperiodo del Bronzo finale (XII-XI sec. a.C.)nell’ambito delle espressioni artigianali eartistiche che caratterizzano e rappresen-tano l’aspetto culturale nuragico.

Anna Depalmas,

Università di Sassari

Bibliografia

A. Depalmas, «Les nacelles en bronze de la Sar-

daigne: problems de reconstruction des archeti-

pes», Préhistoire Anthropologie Méditerranéen-

nes, Tome 5, 1996, pp. 39-55.

A. Depalmas, «Imbarcazioni, rotte e traffici nella

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tro di studi Preistoria e Protostoria in Etruria, Mi-

lano 2000, pp. 201-213.

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G. Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, Torino

1966.

Modellino di nuraghecomplesso quadrilobato da Olmedo (SS).Museo Nazionale G.A. Sanna di Sassari.

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una visione inaspettata ma non colpisceper la sua imponenza a dispetto delle di-mensioni. La vicinanza a un centro abita-to e a una strada già nota in età romanane ha fatto l’ideale cava per materiale dacostruzione, le pietre per le chiese e per lozoccolo delle case, la terra per realizzare iladirii, i mattoni crudi per i muri, con iquali sono realizzati tutti i paesi del Cam-pidano. E proprio all’interno del nuragheè la prova dello spoglio, una cava ben vi-sibile nello spazio di quello che dovevaessere il cortile e una discarica di terra,pietrame minuto e reperti archeologici –nuragici, fenici e romani – che copre peruno spessore di circa due metri le mura-ture del monumento. L’assenza di un no-me specifico, si chiama infatti semplice-mente s’Urachi, il nuraghe, ci dice che fi-no agli anni trenta del secolo scorso erainvisibile, una collina dalla quale affiora-vano pochi e sparsi massi, esattamentecome nel più famoso monumento di Ba-rumini che non a caso si chiama Su Nu-raxi, il nuraghe, appunto. La mancanzadi imponenza significa, anche, che inbuona parte è ancora sepolto, da scavare,e noi piano piano – i fondi sono scarsi – lostiamo riportando alla luce, sfogliandogli strati della sua lunghissima storia.

A LL’ESTREMO MARGINE settentriona-le della più ampia pianura dellaSardegna, il Campidano, una

decina di chilometri più a nord di Orista-no, sorge il nuraghe s’Urachi che con lesue 15-16 torri è uno dei più grandi in as-soluto. Per chi percorre la provinciale nu-mero 10 che porta i turisti da San Vero Mi-lis alle sue splendide spiagge del Sinis,proprio alle porte del paese il nuraghe è

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La bella etàdei giganti di pietraViaggio tra i monumenti simbolo dell’Isola, per sfatare leggende e luoghi comunisulle colossali torri del II millennio e aprire uno scorcio sulla vita dei loro artefici

ALFONSO STIGLITZ

Sotto, una veduta dall’alto del nuraghe S’Urachi (San VeroMilis). Nella pagina seguente,il nuraghe Òrolo (Bortigali).

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da uno spesso strato di sabbie e limi tra-sportati dal vento, e così è avvenuto pertutti i nuraghi della sua regione, il Sinis.Sugli altopiani e sui monti, invece, lospessore del terreno agricolo è ridotto equindi manca la materia prima per arri-vare a ricoprirli, mentre nelle valli monta-ne una maggiore presenza di terreno ri-produce il fenomeno della pianura. L’e-sempio più noto è quello del nuragheNolza, di Meana Sardo, nella Barbagia diBelvì, totalmente coperto, pur trovandosia 739 metri di quota. Ma per i nuraghi dipianura e di costa è stato determinanteun altro fattore, l’intenso popolamento.In montagna, poco popolata già nell’an-tichità, i nuraghi sono stati riutilizzati, neisecoli successivi fino a oggi, quasi esclu-sivamente per attività pastorali, con po-che modifiche alle strutture; in pianura ilcostante riutilizzo, già a partire dalla tar-da età nuragica, ha portato a continue ri-strutturazioni e riempimenti che hannocausato il sollevamento progressivo deipiani di calpestio. A s’Urachi, ad esempio,una stratigrafia di circa tredici strati di fre-quentazione diversi, ha portato, da etàtardopunica a età romano repubblicana,a rialzare il terreno di circa due metri.

Il nostro nuraghe ci guida in un viag-gio alla scoperta di queste costruzioni. Lofaremo alla moda dei giornalisti ponen-doci le cinque fatidiche domande cheguidano ogni archeologo: chi, dove,quando, come e perché?

La struttura baseI nuraghi sono delle torri a forma di tron-co di cono, realizzate con pietre lavorate dimedie e grandi dimensioni. Le pietre, più

È curioso come l’attuale percezione deinuraghi soffra di una distorsione di pro-spettiva; se chiedete di quale parte dellaSardegna siano caratteristici, nella mag-gior parte dei casi vi verrà risposto: deimonti. Perché in effetti nelle aree di alto-piano e montane sono visibili numerosinuraghi mentre nella pianura, nel Cam-pidano, sembra quasi che non ve ne sia-no. In realtà i nuraghi sono dappertutto,solo che nelle aree elevate non sono staticoperti e resi invisibili. Perché? La rispo-sta è semplice e si rifà a due fattori, il pri-mo dei quali è la terra: nella pianura lospessore del terreno è importante e l’agri-coltura lo smuove e lo rende mobile, ilvento fa il resto. Lo scavo del villaggio nu-ragico ritrovato sotto il tophet fenicio del-la vicina Tharros ci dice che dopo l’ab-bandono le capanne sono state ricoperte

Nuraghe S’Urachi.

In realtà i nuraghi sono dappertutto, solo che nelle aree elevatenon sono stati coperti e resi invisibili come nella pianura

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grandi e sommariamente sbozzate quelledella base, più piccole e spesso lavorate inmodo più raffinato quelle più in alto, sonomesse in opera a secco in filari circolari adoppio paramento, che vanno riducendo-si di diametro in altezza sino a chiudere al-l’interno con una falsa cupola, la tholos.

La parte terminale esterna della torreera costituita da un terrazzo sostenuto dagrandi mensoloni, anch’essi di pietra.Questi terrazzi, che sporgevano sul filodella torre, erano la parte strutturalmentepiù debole per cui nessuno di essi ci è per-venuto intatto e li conosciamo attraversomodellini di nuraghe realizzati, in pietra oin bronzo, dagli stessi nuragici in epochepiù recenti. In rari casi è possibile vederequalche mensolone ancora in opera co-me nei nuraghi Albucciu di Arzachena,Corte di Nuoro, Orgono di Ghilarza, Losa

di Abbasanta, Tiloriga di Bultei; i casi piùstraordinari sono quello del nuraghe Alvodi Baunei, con dodici mensole ancora inopera e Su Nuraxi di Barumini, nel qualegravi problemi strutturali portarono i nu-ragici a rifasciare l’intera struttura verso lafine della sua vita; il rifascio, fortunata-mente per noi, ha inglobato parte deglispalti permettendoci di vedere diretta-mente la loro messa in opera.

I nuraghi possono essere costituiti dauna sola torre (nuraghi monotorri), comeil Succoronis di Macomer o da più torri(nuraghi complessi), articolate in mododiverso, dalle due del nuraghe Santa Bar-bara di Villanovatruschedu alle sei del nu-raghe Genna Corte di Laconi. Nei casi mol-to complessi il nuraghe vero e proprio puòessere pentalobato – torre centrale piùcinque torri laterali – come l’Orrubiu di

Nuraghe Nuraxeddu (Seulo).

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ra nel corridoio di accesso e sale fino alterrazzo sovrastante, ormai non più con-servato. In altri casi, generalmente piùantichi, la scala elicoidale manca e la ca-mera di base è più alta con i piani realiz-zati in legno, oggi scomparsi. Il caso piùbello è quello della tholos del nuraghe IsParas di Isili, dove la parte alta era rag-giungibile con scale in legno che portava-no a una porta aperta a 4 metri di altezza,che immette nella scala per il terrazzo.

Risulta ancora da definire nei parti-colari il metodo di costruzione. L’ipotesitradizionale è quella dell’utilizzo dei pia-ni di terra inclinati per favorire il traspor-to e sollevamento delle pietre per realiz-zare gli anelli concentrici che si restrin-gono man mano che la costruzione sale;il lavoro è facilitato dalle dimensionisempre più piccole dei blocchi in funzio-ne dell’altezza. La presenza in alcuni nu-raghi, Corbos di Silanus e Succoronis diMacomer, di incavi nella muratura ester-na ha portato a ipotizzare l’esistenza diponteggi lignei.

Origini megaliticheL’origine architettonica dell’edificio nu-raghe, che caratterizza il secondo millen-nio sardo, affonda le sue radici nelleesperienze megalitiche di quello prece-dente – testimoniate dalle grandi mura-glie della Cultura di Monte Claro che ca-ratterizza l’età del Rame (seconda metàdel terzo millennio a.C.), poste a fortifi-care colline, tra le quali la più nota è quel-la di Monte Baranta di Olmedo – e nellecapanne-torre con funzione di vigilanzasul territorio, come quella di Sa Corona diVillagreca, visibile a poca distanza dalla

Orroli e, forse, s’Urachi di San Vero Milis, oquadrilobato – torre centrale più quattrotorri laterali – come Su Nuraxi di Barumi-ni. In questi casi recinge il nuraghe unagrande muraglia con dodici torri a Orroli,dieci a San Vero Milis, sette a Barumini,creando quindi una complessa strutturaturrita rispettivamente di 18, 16 e 12 torri.

I nuraghi possono raggiungere altezzeconsiderevoli, come ad esempio la torrecentrale del Santu Antine di Torralba (SS),uno dei più raffinati in assoluto, che svet-ta ancora oggi a 17,55 metri, ma che do-veva arrivare almeno a 20: un edificio piùalto di un palazzo di sette piani, con undiametro alla base di 10,75 metri. In que-sto caso la torre era articolata in tre pianisovrapposti, ognuno costituito da unastanza, di dimensioni minori man manoche si sale; i vari piani sono raggiunti tra-mite una scala elicoidale ricavata nellospessore murario, che inizia al piano ter-

Possono avere una complessa struttura turrita e raggiungerealtezze considerevoli sviluppandosi in piani sovrapposti

Dettaglio costruttivo della torre centrale del nuragheSantu Antine (Torralba).

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superstrada che unisce Cagliari con Sas-sari. Si tratta di esperienze architettoni-che locali, ma in sintonia con fenomenisimili in tutto il Mediterraneo, legate aiprocessi di cambiamento che vedono ilconcludersi delle società neolitiche, ba-sate su estesi villaggi di piccole capanne.Al loro posto sorge una nuova organizza-zione nella quale si fanno sempre piùevidenti le distinzioni sociali e le gerar-chie di status, e i mezzi di produzione, inparticolare terra e bestiame, non sonopiù collettivi ma vengono progressiva-mente accentrati. Ciò produce tensionisociali all’interno delle comunità tra cetiemergenti e massa produttiva, e tensioniterritoriali per la necessità dei vari grup-pi di acquisire spazio per la crescita eco-nomica. Da qui il sorgere di strutture di

tipo difensivo e di avvistamento, lo svi-luppo sempre più ampio della metallur-gia e il parallelo emergere del ceto milita-re come dominante; la tomba collettivadi S. Iroxi di Decimoputzu, databile alBronzo Antico 2 (1700-1600 a.C. [Cal.2000-1700 a.C.], caratterizzata dalla pre-senza di 13 spade e vari pugnali in ramearsenicato, può essere un indizio di que-sta evoluzione. Un processo durato seco-li e certamente non lineare ma che vedràun deciso salto di qualità agli inizi delBronzo Medio (1600-1300 a.C. [Cal. 1700-1375 a.C.]) 1 con il sorgere dei nuraghi.

In questa fase coesistono due tipolo-gie di costruzioni, quella classica a troncodi cono con volta a tholos, in circa 7-8.000esemplari, e quella a corridoio, talvoltadefinita come protonuraghe o pseudo-

Nuraghe Su Nuraxi (Barumini).

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to è indubbiamente insidioso data la maggiore facilità di distruzio-

ne e scomparsa delle tombe rispetto ai nuraghi, ma la sproporzio-

ne numerica è indubbiamente elevata. D’altra parte l’assenza, in-

spiegabile rispetto alle contemporanee società orientali, di tombe

«principesche» ha portato a ipotizzare che le tombe dei giganti,

appunto, fossero riservate ai gruppi dominanti.

La storia delle tombe dei giganti, così chiamate per le loro di-

mensioni imponenti, inizia agli albori della civiltà nuragica, in con-

nessione con i nuraghi a corridoio, e accompagna i nuraghi a tho-

los in tutta la loro vicenda. Con il Bronzo finale e la fine dei nura-

ghi anche le tombe dei giganti esauriscono la loro storia lasciando

il posto a tombe a corridoio di minore dimensione e prive di ese-

dra e poi a tombe individuali a fossa rivestite di lastre litiche, come

negli esempi di Sa Costa di Sardara, di Antas di Fluminimaggiore

e soprattutto della necropoli con 33 tombe individuali di Monte

Prama di Cabras, dai pressi della quale provengono le note statue

nuragiche.

Le tombe dei giganti

Si tratta di strutture megalitiche di forma allungata e absidata con

all’interno un lungo (fino a 30 m) vano rettangolare pavimenta-

to destinato a sepoltura collettiva di numerosi defunti. La fronte

si presenta a forma di esedra realizzata in modi differenti: con la-

stre a coltello e con al centro un’alta stele centinata, preferen-

zialmente nel centro-nord Sardegna ma con qualche sporadica

presenza nel sud, e di cui l’esempio più noto è quella di Li Longhi

di Arzachena, con una stele alta 3,75 m; mentre nel centro-sud

dell’isola la fronte è costituita da un’esedra a filari sovrapposti con

al centro un ingresso architravato privo di stele, come nel caso

della tomba di Is concias di Quartucciu. Il primo tipo pare legger-

mente più antico del secondo.

Desta qualche meraviglia che una società che mostra chiari in-

dici di gerarchizzazione sociale e territoriale avanzata utilizzi forme

funerarie collettive e che il numero sostanzialmente ridotto di que-

ste strutture – ne sono note circa 500 – non sia sufficiente a co-

prire per secoli le esigenze dei numerosi insediamenti. L’argomen-

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nuraghe, di forma ovale o rettangolare,attraversata da uno o più corridoi e co-perta a piattabanda, di cui si conservanopoco meno di 400 esemplari. Si discute suuna maggior antichità del tipo a corridoioe su una possibile filiazione di quello atholos da questo. Si ipotizzata una filia-zione con il comparire di vani circolari ecopertura tronco-ogivale come nel Fria-rosu di Mogorella, Sa Fogaia di Siddi e SaJacca di Busachi. Una sequenza di crono-logia relativa è data dal caso del nuraghea corridoio di Su Mulinu di Villanovafran-ca, che nel Bronzo recente (1300-1150a.C. [Cal. 1365-1200 a.C.]) viene circonda-to da una struttura complessa a tholoscon antemurale turrito, o da quello delCuccurada di Mogoro dove un nuraghecomplesso a tholos ingloba uno a corri-doio. Allo stato attuale delle conoscenzele due tipologie paiono essere contempo-ranee con una certa anteriorità di quellaa corridoio.

Alcune datazioni come quella alBronzo medio 1 (1600-1500 a.C. [Cal.1700-1600 a.C.]) del nuraghe a corridoioTalei di Sorgono, e al Bronzo medio 2(1500-1400 a.C. [Cal. 1600-1500 a.C.]) deinuraghi a tholos Santu Antine di Torralbae Nolza di Meana sardo, possono darciun’idea della differenza cronologica.

Alcune datazioni più alte, come quel-le dei nuraghi a corridoio Brunku Madu-gui di Gesturi (2125-1625 a.c. [cal. 2770-1745 a.c.]), del monotorre Noeddos di Ma-ra (cal. 1750-1500 a.C.) e della Torre A delnuraghe Duos Nuraghes (cal. 2000-1800a.c.) destano generali perplessità per gliampi margini di errore e, soprattutto nelprimo caso, per la totale difformità ri-

spetto ai dati restituiti dallo scavo e dallostudio del materiale e delle strutture.

Montagne e pianurePer buona parte dell’età dei nuraghi ledue tipologie convivono probabilmenteall’interno di un’organizzazione territo-riale articolata, nella quale è indubbio ilmaggior successo della forma a tholos,più funzionale dal punto di vista architet-tonico e del controllo del territorio. I nu-raghi a corridoio, infatti, sembrano pre-diligere le zone subpianeggianti mentrequelli classici non hanno limiti di collo-cazione. Come detto uno dei luoghi co-muni più diffusi vuole i nuraghi relegatinel nucleo interno della Sardegna, conuna visione distorta dall’attuale stato diconservazione delle torri. In realtà i nura-ghi erano presenti ovunque, dalle altemontagne, dove sono meno numerosi,

Parco Sette Fratelli (Sinnai),nuraghe.

Per buona parte dell’età dei nuraghi convivono due tipologiema quella classica a tholos si è dimostrata più funzionale

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Che cos’erano i nuraghi? Abbandonategià da molto tempo le fantasiose inter-pretazioni di chi li vedeva come tombe otempli, in questo caso scambiando gli usisuccessivi delle torri con quelli originari,e rivista quella militarista dei nuraghi-fortezza o castello, essi oggi sono inter-pretati come strutture complesse di usopubblico; cosa significa?

Sebbene molto resti ancora da inda-gare si può affermare che il nuraghe siauna struttura con una pluralità di funzio-ni, da quella abitativa, anche se non pri-maria, a quella, più significativa, di luogodi espressione dei rapporti sociali e dellestrutture di potere, in particolare quellelegate all’accumulazione di beni comealimenti e materie prime e alla loro redi-stribuzione sociale. Resta ovviamenteanche una funzione militare da non in-terpretare come risposta a uno stato di

come il nuraghe Ruinas di Arzana a 1.200m s.l.m., alle coste; qui le regioni del Sinis(Oristanese) e della Nurra (Alghero-Sas-sari) presentano, assieme agli altopianicentrali, le più alte densità di nuraghi (nelSinis sono visibili nuraghi complessi di-stanti 150 metri l’uno dall’altro); torri so-no presenti anche nelle isole come a San-t’Antioco, a San Pietro e nell’isola graniti-ca di Mal di ventre al largo del golfo diOristano, a controllo di uno dei canali piùpericolosi per la navigazione. Fantasiosaè l’affermata presenza di nuraghi fuoridalla Sardegna; si può parlare, invece, diinfluenze, in particolare dei nuraghi acorridoio, sulle strutture architettonichedella Corsica, le Torri, e delle Baleari, i Ta-laiots, ma si tratta di costruzioni diverseda quelle sarde. Molto dubbia, invece, l’i-potizzata derivazione dei sesi di Pantelle-ria dalle costruzioni sarde.

nario è quello del pozzo di Cuccuru Nuraxi di Settimo San Pietro,

realizzato in cima a una collina ristrutturando un precedente nu-

raghe, composto da un piccolo atrio dal quale parte una ripida

scalinata che porta a una camera a tholos di circa sei metri di al-

tezza, sul cui fondo lastricato si apre, al centro, un pozzo profon-

do oltre 20 metri con un diametro di circa m 1,50, tutto rivestito

in tecnica microlitica. In altre parole gli artefici dovettero scende-

re quasi trenta metri per trovare l’acqua.

In altri casi sono realizzate fini strutture idrauliche connesse

con esigenze di culto come nel caso di Su Romanzesu di Orune e

di Gremanu di Fonni.

I pozzi e le fonti sacre hanno svolto un ruolo di edifici pub-

blici legati al culto ma anche all’accumulazione e redistribuzione

di beni di prestigio, soprattutto con il venir meno del nuraghe; la

loro vita infatti giunge sino all’età del Ferro (I millennio). Sono que-

ste strutture, assieme ad altre forme templari, come i templi a me-

garon e le rotonde, che hanno restituito la maggior parte dei

bronzetti, delle navicelle e degli altri manufatti metallici.

I pozzi e le fonti sacre

A partire dal Bronzo medio iniziano a essere noti culti legati al-

l’acqua come attestato dalla fonte di Sos Malavidos di Orani, ma

è solo con i periodi successivi e in particolar modo nel Bronzo fi-

nale che si diffondono monumenti di alta complessità architetto-

nica, di cui si conoscono oltre 150 esempi. Si tratta in generale di

edifici composti da un atrio quadrangolare, che introduce a una

scalinata più o meno profonda alla fine della quale si apre la poz-

za d’acqua; nel caso delle fonti la scalinata è assente. La pozza

d’acqua è coperta da una camera con volta a tholos simile a quel-

la dei nuraghi ma ipogea.

Gli edifici si distinguono sostanzialmente per la tipologia del

paramento murario, in alcuni casi, come quello di Funtana Co-

berta di Ballao, con filari a blocchi sbozzati come nei nuraghi, in

altri con blocchi squadrati finemente lavorati, in opera isodoma,

come nel noto pozzo di S. Cristina di Paulilatino. Esternamente

dovevano essere coperti con strutture a tetto a doppia falda; la

prova ci viene dallo stupendo pozzo di Su Tempiesu di Orune che

conserva ancora una parte della copertura. Un esempio straordi-

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guerra continua, ma come strutture volteal controllo del territorio, delle sue risor-se e a definire le gerarchie di potere tra ivari gruppi. Non va infine dimenticato ilgrande valore ideologico di queste strut-ture, che sopravviverà alle stesse, comedimostrano i modellini in scala, realizza-ti in pietra o in bronzo, che li riproduco-no anche in tempi ormai lontani dallagrande stagione delle torri.

Una società complessaLa realizzazione di strutture colossali e ingran numero presuppone una societànella quale i singoli gruppi siano organiz-zati in ampi territori, con pluralità e ab-bondanza di risorse integrate e in gradodi garantire il necessario surplus di pro-duzione che permetta di distogliereun’ampia forza lavoro dalle attività pri-marie. Si discute se questa forza lavorosia di tipo servile o di liberi soggetti a cor-vée, da qui l’immagine dei nuraghi comecentri politici legati al controllo e allacentralizzazione delle risorse e del pote-re. Non trova invece conferma, sinora, l’i-potizzata struttura di tipo monarchico: inuraghi, ritenuti da alcuni autori – comeLilliu e Ugas – vere e proprie regge o abi-tazioni del monarca, non hanno, infatti,ancora restituito tracce tangibili di que-st’uso, e l’assenza di sepolture regali,nonché la mancanza di palazzi di poteredel tipo di quelli micenei o vicino-orien-tali, sembra escludere questa forma poli-tica.

La presenza di una società comples-sa, di ampi giacimenti di materie prime(rame, piombo, stagno), lo sviluppo dellametallurgia con un deciso salto di qualità

nel XII sec. a.C, lo straordinario sviluppodei secoli successivi e la posizione al cen-tro delle rotte mediterranee garantisconoai nuragici un ruolo primario nei trafficimediterranei, come punto obbligato deirapporti tra le società orientali e i ricchis-simi giacimenti minerari iberici. I rappor-ti con il resto del Mediterraneo, in parti-colare con l’Egeo e con il mondo mice-neo, già attivi nel Bronzo Medio, comemostra l’alabastron miceneo del nuragheOrrubiu di Orroli, si intensificano nei se-coli successivi. L’esempio del NuragheAntigori di Sarroch presso Cagliari e gli al-tri ritrovamenti micenei nell’arco del gol-fo omonimo indicano la grande impor-tanza della Sardegna meridionale e diquesto spazio di mare, vera e propria au-tostrada dell’antichità. Non pare, quindi,un caso che l’Antigori ci attesti l’esistenzadi uno scalo di livello internazionale, diincontro tra il mondo orientale e quellosardo. Contemporaneamente il ritrova-mento, fuori Sardegna, nel grande portodi Kommos, sulla costa meridionale diCreta, di un lotto di ceramiche nuragichedel XIII sec. a.C., confrontabili con i ma-teriali del nuraghe Antigori e degli altri in-

La Sardegna è al centro dei traffici mediterranei e diventaun ponte verso i ricchissimi giacimenti minerari iberici

Nuraghe Òrolo (Bortigali),ingresso.

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quali non vi è più posto per strutture ar-chitettonicamente così complesse cheimmobilizzano e consumano una quan-tità colossale di risorse per la loro costru-zione e mantenimento in efficienza. Unasocietà più articolata socialmente ed eco-nomicamente più dinamica ha necessitàmuovere uomini e beni; in questo perio-do avviene la maggior diffusione di villag-gi privi di nuraghe, già presenti nelle pre-cedenti epoche, e il fiorire della più gran-de stagione metallurgica dell’isola, che lavede protagonista nel Mediterraneo. Inquesto quadro emerge il ruolo dei pozzi edelle fonti sacre che vanno sostituendo inuraghi come punti di aggregazione, tal-volta anche fisicamente: come nei casi diNurdole di Orani (NU) e di Cuccuru Nura-xi di Settimo San Pietro (CA) dove all’in-terno di nuraghi vengono realizzati deipozzi sacri riutilizzando o in parte sman-tellando le vecchie torri. In altri casi partidel nuraghe vengono riutilizzate comeluoghi di culto; il caso più impressionan-te è Su Mulinu di Villanovafranca doveuna delle torri viene utilizzata a partiredalla fine del X sec. a.C come luogo di cul-to, all’interno del quale successivamenteviene posto un altare in pietra che ripro-duce in scala il nuraghe. I famosi bron-zetti nuragici e la statuaria appartengonoa un momento avanzato di questa fase,quando i nuraghi sono ormai un ricordodegno di venerazione.

È ovvio che questi grandi fenomenidi cambiamento, sempre più rapidi allafine del II millennio e ancor di più nelsuccessivo, noti anche nel resto del Medi-terraneo, non avvengono in blocco in tut-ta l’isola: ci saranno zone precoci, in ge-

sediamenti della Sardegna meridionale,da dove proviene l’argilla con la quale so-no stati prodotte, forniscono un preziosoindizio su una rotta da ovest a est e vice-versa, con tramite la Sicilia da dove pro-vengono altre ceramiche sarde, e nellaquale è sempre maggiore l’importanza diCipro. La presenza di materiale nuragicoall’esterno dell’isola va estendendosi neltempo e ne sono prova le ceramiche diLipari (metà XI-metà X sec. a.C.) e le cera-miche e i bronzi nuragici della costa tirre-nica italiana e della penisola iberica.

La fine inesorabileParlando del quando e del perché biso-gna cercare di individuare anche il mo-mento della fine dei nuraghi che, si badibene, non significa la fine della civiltà nu-ragica, che continuerà ancora per secolicon altre e strabilianti forme. Perché fini-scono i nuraghi? Per una immane cata-strofe naturale? Per una improvvisa inva-sione distruttiva? Per una devastanteguerra fratricida? Niente di tutto questo,ma a causa di una forza più potente ditutte le altre: l’inesorabile evoluzione del-la società; semplicemente – si fa per dire– a un certo punto i nuraghi non sono piùal passo con i tempi.

La «bella età dei nuraghi» (Lilliu) ètutta compresa nel II millennio, nelle etàche noi archeologi chiamiamo del Bron-zo medio (1600-1300 a.C. [Cal. 1700-1365a.C.]) e del Bronzo recente (1300-1150a.C. [Cal. 1365-1200 a.C.]). La successivaetà del Bronzo finale (1150-900 a.C. [Cal.1200-1020 a.C.]) vede la fine di questi gi-ganti, la società nuragica cambia e sievolve verso le forme più articolate nelle

La società evolve verso forme più dinamiche dove non c’èpiù posto per costruzioni tanto complesse e costose

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nerale le aree costiere, e altre più conser-vative. Non è un caso se proprio dal Bron-zo finale le distinzioni regionali nella cul-tura materiale nuragica si fanno più mar-cate. Tra la fine del II e gli inizi del I mil-lennio a.C. il nuraghe non è più l’elemen-to caratteristico della società nuragica.Questa si evolve verso le forme, che sa-ranno tipiche dell’età del Ferro (primomillennio), delle aristocrazie che l’acco-munano con gli ambiti più avanzati delMediterraneo, dall’Etruria alla Grecia. Èun mondo di intensi contatti economicima anche culturali e sociali, nei quali levarie parti di questo piccolo mare condi-vidono molti elementi e dal quale nasce-rà il fenomeno urbano che, però, resteràestraneo alla civiltà nuragica. Nessun in-sediamento, infatti, presenta le caratteri-stiche morfologiche, economiche e so-ciali delle strutture urbane. Nell’VIII sec.

l’arrivo e la fondazione di città fenicie neipunti privilegiati dei contatti transmarini(Cagliari, Nora, Sant’Antioco, il Golfo diOristano per tutti) chiuderanno la pro-spettiva urbana nuragica; ma questa èun’altra storia.

Alfonso Stiglitz, docente di archeologia

greca e romana presso l’Università di Cagliari

[email protected]

Per saperne di più

La bibliografia di riferimento è ovviamente molto ampia, mi limito a indicare alcuni titoli a partire dal testo base di G. Lilliu, La civiltà

nuragica, Sassari, Delfino, 1992, scaricabile on line in formato pdf dal sito ufficiale della Regione Sardegna, all’indirizzo http://www.sar

degnacultura.it/periodistorici/nuragico/, alla voce monografie. Dallo stesso sito sono scaricabili le guide archeologiche di numerosi siti

nuragici, alcuni dei quali citati nel nostro testo; altri sono descritti nel testo di A. Moravetti, Ricerche archeologiche nel Marghine-Pla-

nargia, Sassari, Delfino, 2000, anch’esso scaricabile dal sito della Regione Sardegna.

Sempre on line, nel sito http://luna.cas.usf.edu/~rtykot/index.html alla voce publications, è scaricabile il testo di R. Tycot, Radio-

carbon dating and absolute chronology in Sardinia and Corsica, in R. Skeates - R. Whitehouse (eds.), Radiocarbon Dating and Italian

Prehistory, Rome, British School, 1994, pp. 115-145.

Gli scavi del nuraghe S’Urachi (San Vero Milis) sono visibili nel sito del Comune di San Vero Milis, http://www.comune.sanveromi

lis.or.it, alla voce Museo, dove sono leggibili le pubblicazioni scientifiche sinora edite.

Ottime sintesi purtroppo solo in formato cartaceo ma esemplificative delle varie opinioni presenti e dell’ampia bibliografia posso-

no trovarsi in:

M. Perra, From Desert Ruins: an Interpretation of Nuragic Sardinia, EUROPAEA 3.2 (1997), pp. 49-76.

V. Santoni, Sardinia in the Mediterranean from the Middle until the Late Bronze age, in Stampolidis N.C. (ed.), Sea Route...From

Sidon to Huelva. Interconnections in the Mediterranean 16th-6th c. BC, Athens, 2003, pp. 140-151.

G. Ugas, L’alba dei nuraghi, Cagliari, Fabula, 2005.

A. Usai, Note sulla società della Sardegna nuragica e sulla funzione dei nuraghi, in N. Christie (ed.), Settlement and Economy in

Italy 1500 BC to 1500, Papers of the Fifth Conference of Italian Archaeology, Oxford, Oxbow Monograph, 1995, pp. 253-259.

Nuraghe Losa (Abbasanta).

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cheologia, e per di più la religione punicarimane meno conosciuta di quanto sipossa ritenere.

Diodoro Siculo è uno storico che scri-ve la sua opera attorno al 50 a.C. Narra levicende della Sicilia antica e, per suscitarelo stupore dei lettori, talvolta inserisce fat-ti memorabili non sempre fondati sullarealtà. Tra l’altro si dilunga sulle vicende diCartagine, durante l’incursione che Aga-tocle, tiranno di Siracusa, fece in terra afri-cana nel 310 a.C. Secondo Diodoro la po-

IL SACRIFICIO DEI FANCIULLI purtroppoha reso famosa Cartagine quasiquanto lo hanno fatto le figure di

Didone e di Annibale. Gustave Flaubert,scrittore francese della metà dell’800, au-tore del celebre romanzo Salammbô, e glistorici moderni si sono ispirati a un testodi Diodoro Siculo che evoca il terribile ri-tuale del presunto sacrificio dei primoge-niti che si svolgeva nel tofet. Eppure que-sta realtà non è stata confermata dallescoperte effettuate nel campo dell’ar-

I L T O F E T

Un pietoso rito funebreoffuscato da troppi mitiGrazie ad alcune opere letterarie le pratiche religiose per onorare i fanciulli mortisono state per lungo tempo interpretate come sacrifici umani di primogeniti

PIERO BARTOLONI

Il tofet di Sulky,l’odierna Sant’Antioco.

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Urne votive del tofet di Sulky.polazione della metropoli punica era op-pressa dalla guerra e dalla pestilenza e icittadini di Cartagine attribuirono i loroguai agli scarsi onori tributati nel passatoagli dei protettori della città. Scrive dun-que Diodoro Siculo che i Cartaginesi, vo-lendo rimediare alle manchevolezze per-petrate verso gli dei e in particolare versoCronos: «decretarono il sacrificio di due-cento fanciulli scelti nelle migliori fami-glie. I cittadini, facendo a gara nell’offerta,raggiunsero il numero di trecento… Sitrovava infatti presso (i Cartaginesi) unastatua di Cronos in bronzo, che protende-va le mani aperte così inclinate verso ilbasso che il fanciullo là posto rotolava eprecipitava in una voragine di fuoco…»(Diodoro Siculo, XX, 14, 4-5). Questo ilracconto dello storico che dunque assi-mila il dio punico Baal Hammon al diogreco Cronos.

Come è intuibile a Cartagine non èmai esistito un tale mostro, mentre è pale-se come lo storico si sia ispirato al mito diThalos di Creta, statua di bronzo arroven-tata che abbracciava i naviganti appenasbarcati e li uccideva. È evidente che Dio-

doro ha anche attinto al racconto del torodi Falaride, tiranno agrigentino, che erasolito liberarsi dei suoi nemici infilandoliin un toro bronzeo reso incandescente.

Ad avvalorare la tesi del sacrificioumano contribuì nel 1862 lo scrittore Gu-stave Flaubert con una delle sue opere piùfamose. Nel libro si narrano, con ricchez-za di particolari romantici e conturbanti,le avventurose e tristi vicende della figliadi Amilcare Barka, Salammbô, grande sa-cerdotessa della dea Tinnit. Annibale, fi-glio di Amilcare e fratello di Salammbô, èdestinato al sacrificio del tofet assieme amolti altri giovani e viene salvato in modofortunoso. Invece dell’impresa di Agatoclefa da sfondo alla vicenda la guerra deimercenari contro Cartagine, avvenuta nel241 a.C., alla fine della prima guerra con-tro Roma. «I sacerdoti si protesero dall’al-to della grande pietra circolare e un nuovocanto sorse a celebrare le gioie della mor-te e della rinascita nell’eternità. I fanciullisalivano lentamente e, poiché il fumo ches’innalzava dal rogo formava alti vortici …parevano svanire entro una nube … Nes-suno di essi si muoveva, poiché erano le-

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derata una delle più antiche del luogo sa-cro: «Stele di una (bambina) offerta aBaal». Il tofet era per l’appunto il luogo oveerano deposte tali offerte.

Anche nella Bibbia appare menziona-to più volte il termine MLK: nel Levitico,18,21 si può leggere: «Nessuno della tuadiscendenza lascerai passare a Molok, néprofanerai il nome del tuo Dio: sono io ilSignore». Ancora nello stesso Levitico,20,2-5: «Chiunque degli Israeliti, o deglistranieri che dimorano tra quelli, darà al-cuno di sua prole a Molok, deve essere uc-ciso». Il termine MLK viene indicato con lainiziale maiuscola perché è ritenuto il no-me di una divinità. Dunque sembra chia-ro che non si tratti di una divinità, bensì diun rituale. Sempre nella Bibbia, accanto altermine MLK compare il toponimo tofet:nel Libro II Re, 23,10 si legge: «Dissacrò To-fet che è nella valle di Ben-Ennom, accioc-ché nessuno facesse più passare per il fuo-co il proprio figlio o la propria figlia in ono-re di Molok». Inoltre, in Geremia, 7,31-32 silegge: «Costruiscono l’altare di Tofet nellavalle di Ben-Ennom per bruciarvi i figli e lefiglie loro nel fuoco». Si tratta dunque diuna località ben precisa e non di un luogodi culto. In ogni caso, come si può ben ve-dere, in connessione con la parola tofet, laBibbia non fa mai cenno a uccisioni, masolo a passaggio per il fuoco o a combu-stione.

Per avvalorare la tesi del sacrificioumano, nel tofet fu evocata l’offerta a Yah-wé delle primizie, figli primogeniti com-presi. Usanza questa tradizionalmente invoga nella prima Israele, come illustratodal tentato sacrificio di Isacco da parte diAbramo. Tale consuetudine fu poi proibi-ta da Dio, ma secondo la Bibbia fu conser-vata presso i popoli confinanti, Feniciacompresa. Tuttavia, nella Bibbia questapratica sacrificale non risulta mai in con-nessione con i riti officiati nel tofet.

gati ai polsi e alle caviglie, e il velo nero cheli avvolgeva impediva loro di vedere e allafolla di riconoscerli. Amilcare, vestito d’unmanto rosso come i sacerdoti di Moloch,se ne stava ritto accanto al Baal, pressol’alluce del suo piede destro…» (GustaveFlaubert, Salammbô). Peggiore di un in-cubo, fatta realtà sulla base dei timori neiconfronti del diverso, dello straniero, lastatua dell’inesistente dio Molok troneg-

gia in una Cartagine gotica in una imma-gine che accompagnava la prima edizionedi Salammbô, di Gustave Flaubert. L’anti-semitismo neanche tanto latente che ap-parentava i Cartaginesi agli Ebrei, entram-bi Semiti, traspare dai lampioni a sei pun-te che appaiono nella illustrazione truce ecrepuscolare.

Infatti, il termine MLK che comparetalvolta sulle stele del tofet di Cartagine edi altri santuari simili e che viene anchemenzionato nella Bibbia, è stato interpre-tato come nome di una divinità, il dio Mo-lok. In realtà, si tratta di un termine il cuisignificato fondamentale è quello di «of-frire». Sulla base di un cippo provenientedal tofet di Cartagine e databile nel VI se-colo a.C., appare infatti l’iscrizione, consi-

Urne votive del tofet di Sulky.

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Le iscrizioniA rendere ancor più complicato il proble-ma hanno contribuito non poco anche al-cune stele rinvenute in alcuni santuarinordafricani di età tardo-punica oppureormai di piena età romana repubblicana,quale ad esempio quello di Costantina, inAlgeria. Infatti, nelle iscrizioni si può leg-gere: «Al Signore Baal Hammon e alla Si-gnora Tinnit faccia di Baal MLK, DM ». In-terpretando il termine MLK non come «of-ferta» ma come «sacrificio», per di più as-sociato al termine DM, il cui significato è«uomo», era spontaneo ritenere che l’iscri-zione facesse riferimento a un sacrificioumano. Il problema era reso ancor piùcomplesso dalla presenza di una ulterioreformula dedicatoria MLK, MR, nella qualeil termine MR ha il significato di «agnello».Il concetto espresso dalla formula potevaben essere «sacrificio di agnello», in con-trapposizione con il MLK, DM «sacrificiodi uomo». Quindi tale formula era stata in-terpretata a favore del sacrificio umano

poiché, secondo gli assertori di tale teoria,costituiva la palese sostituzione di unagnello a un uomo. Se invece, come è piùprobabile, il significato del termine MLK èquello di «dono, offerta, dedica», il sensodella frase muta radicalmente.

Attualmente, con il toponimo tofet,divenuto ormai nome comune, si è solitiindicare l’area sacra nella quale venivanoeffettuate le pratiche religiose connessecon i fanciulli morti.

Nel 1921, la scoperta del santuario diCartagine con le stele e le urne contenen-ti le ossa bruciate di bambini fece gridareil mondo scientifico alla scoperta del tofet.In particolare il ritrovamento di una steleraffigurante un personaggio incedente,verosimilmente un sacerdote che reca inbraccio un bambino, sembrò essere riso-lutiva dell’annoso problema. Si sussegui-rono gli studi, ma nessun ricercatore posemai in discussione la veridicità del sacrifi-co umano dei bambini tramandato daDiodoro Siculo e forse suggerito o lasciato

Nel 1921 la scoperta a Cartagine di ossa bruciate di bambinifece gridare il mondo scientifico alla scoperta del tofet

Panoramica da sud-est del tofet di Sant’Antioco.

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mento di una congerie di elementi biblici,classici e archeologici accostati tra di loroin modo assai discutibile e non del tutto ri-goroso, logico e consequenziale. Comun-que il quadro offerto, pur truculento op-pure forse anche perché tale, ha certa-mente solleticato la curiosità del grandepubblico e ha ricevuto il consenso di buo-na parte del mondo scientifico, in alcunicasi ancora palese. È solo verso la primametà degli anni’80 che nascono i primidubbi sul quadro proposto. È in questoperiodo che si dà inizio alle prime analisiosteologiche dei resti dei bambini rinve-nuti a Cartagine e negli altri santuari. Que-sti esami hanno portato alla scoperta chein buona parte si trattava di ossa di feti,dunque di bambini non nati. Inoltre nellamaggioranza dei casi gli altri resti ossei ri-guardavano bambini deceduti entro i dueanni. In un solo caso si trattava di un fan-ciullo di circa otto anni.

Quanto al supposto sacrificio non sicomprende bene perché i Fenici, pur conuna mortalità infantile con percentualidell’ordine del 70% nel primo anno di vita,dovessero sacrificare alle divinità i loro pri-mogeniti. Una tale pratica avrebbe porta-to in breve tempo all’estinzione dell’interopopolo dei Fenici. Inoltre le scoperte ar-cheologiche, peraltro mai effettuate nelterritorio della madrepatria e nella peniso-la iberica, non hanno avallato in alcunmodo quanto suggerito dalle antiche fon-ti letterarie. Le antiche fonti classiche, pe-raltro, si sono rivelate ampiamente di par-te e palesemente anti-cartaginesi. Infine leanalisi chimiche e fisiche effettuate sulleossa dei bambini non hanno fornito provené favorevoli né contrarie all’esistenza del

intuire dalla Bibbia. Negli anni ‘60 il semi-tista James Février, peraltro eccellente stu-dioso di linguistica semitica, si spinse ad-dirittura a delineare il seguente quadro: «Ènotte! La scena sembra essere illuminatasolo dal fuoco acceso nella fossa sacra, iltofet: più che la luce se ne vedono i rifles-si. Ma la grande statua bronzea di BaalHammon, innalzata sul limitare del fosso

sacro cui tende le mani, è illuminata dalrosso delle fiamme. Di fronte alla statua…alcuni suonatori di flauto e di tamburofanno un frastuono assordante. Il padre ela madre sono presenti … consegnano ilfiglio al sacerdote che cammina lungo lafossa, sgozza il bambino in modo miste-rioso… poi depone la piccola vittima sullemani protese della statua divina dalle qua-li essa rotola nel rogo» (James B. Février,Journal Asiatique, 1960). Non si trattadunque di un antico testo, ma in questomodo lo studioso, per altro autore di studiassai rigorosi, ricostruiva il rituale del tofetdando per assodato che tale rito implicas-se l’uccisione di un bimbo.

Sulla base degli studi attuali, apparechiaro che le affermazioni di James B. Fé-vrier sono il frutto di un palese fraintendi-

Non è dato capire perché i Fenici con una mortalità infantiledel 70% dovessero sacrificare alle divinità i loro primogeniti

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rito cruento. Comunque ancora oggi il mi-to del sacrificio sanguinario resiste salda-mente presso alcuni ambienti scientifici,in alcuni casi per convinzione, in altri permotivi ideologici. Il grande pubblico inve-ce sembra avere pochi dubbi al riguardo: ilsacrificio umano esisteva ed era praticatosolo dai Fenici e dai Cartaginesi. Inoltre,secondo costoro, il sacrificio umano eraproprio come quello descritto da James B.Février. Tutto questo secondo il principiosempre valido che ogni nefandezza puòessere stata commessa, purché a perpe-trarla non siano stati i nostri amici o cono-scenti, ma gli «altri».

Le fonti classicheIn realtà nessuno può negare che i Fenicitalvolta e in particolari situazioni di crisiabbiano praticato il sacrificio umano. Eraun fatto considerato normale tra tutti i po-poli dell’antichità, Romani compresi, iquali, ad esempio, ancora nella media etàrepubblicana seppellirono vive due cop-pie di persone, una di Greci e una di Celti.Ma senza supporti scientificamente validiè impossibile ritenere che questi eventi,da considerare del tutto straordinari, fos-sero consueti e reiterati nel tempo. Nessu-no nega che anche a Cartagine avvenisse-ro sacrifici umani, ma questi non accade-vano secondo i tempi, i modi e le quantitàsuggeriti dalle antiche fonti classiche. Adesempio, si apprende dalle antiche figura-zioni che presso i popoli vicino-orientaliera consuetudine che durante gli assedi, alfine di allontanare la minaccia, gli abitan-ti delle città aggredite usassero gettare dal-le mura un fanciullo, forse di stirpe regale.Ciò era sufficiente per far allontanare gliassalitori e distoglierli dai loro propositi,poiché dimostrava loro che i difensori era-no pronti a tutto pur di allontanare il peri-colo e di salvare le loro vite.

Ma, in definitiva, che cosa era il tofet?

Secondo la versione più attendibile si trat-tava di un santuario a cielo aperto dedica-to al dio Baal Hammon e alla dea Tinnit,racchiuso in un recinto in muratura, nelquale erano posti sul rogo e sepolti con ri-ti particolari i bambini nati morti o dece-duti prima del compimento dei due annidi età. Mentre i bambini deceduti per cau-se naturali o per malattia erano rinviati al-le divinità che li avevano concessi, tutte lepratiche svolte da parte dei loro genitorinell’area del tofet erano tese alla conces-sione da parte degli dei di una nuova na-scita. Il rogo avveniva all’interno dell’areasacra, ma non sembra vi fossero luoghiprivilegiati o bracieri specificamente de-stinati allo scopo: sul terreno veniva siste-mata una catasta di legna e su di questaveniva deposto il corpo del bambino. Unavolta acceso il fuoco si attendeva che le os-sa principali fossero calcinate e quindi siestinguevano le fiamme con acqua, perevitare che i resti venissero totalmente di-strutti. Si raccoglievano i poveri resti che sideponevano all’interno di un recipientefittile, in genere una pentola da cucinanuova. Se la richiesta veniva esaudita, secioè un nuovo bambino veniva ad allieta-re la famiglia, i genitori erigevano nel luo-go sacro una stele in pietra a ricordo dellagrazia ricevuta.

Nello strato più profondo e dunquepiù antico dei tofet di Cartagine e di Sulkysolitamente le urne contenenti le ossacombuste dei bambini erano deposte sulfondo di fosse, talvolta foderate di ciottolidi spiaggia e ricoperte da una o più lastredi pietra. Questa sistemazione delle urnericorda senza dubbio quella utilizzata inalcuni casi per le tombe a incinerazione dietà fenicia, riservate agli adulti, note anchecome «tombe a cista litica», in uso in alcu-ne necropoli fenicie di Occidente, adesempio quelle di San Giorgio di Portoscu-so e di Bitia, presso Domusdemaria in Sar-

In queste pagine, amuleti dal tofet di Sulky.

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ti. Si tratta di quelle forme, tra le quali gliattingitoi, i piatti, le coppe, le lucerne, le

brocche con orlo espanso, le anforee le pentole, che fanno parte del

repertorio tipologico in usonelle necropoli di età fenicia epunica. Non molto numero-se né molto frequenti, neitofet compaiono anche lemaschere. Oltre a queste visono anche protomi depo-ste accanto alle urne, pro-babilmente con funzionevotiva e apotropaica.

Le stele votive, che ve-nivano deposte nei tofet

per grazia ricevuta, compaio-no a Cartagine dopo la fine del VII secoloa.C. I primi segnacoli per grazia ricevutanel tofet di Cartagine sono rappresentatida pietre brute, mentre sono rari negli al-tri santuari. Si tratta pertanto di una tipo-logia di oggetti tipicamente cartaginese,giunta in Sardegna e in Sicilia al seguitodegli eserciti della metropoli africana, al-l’indomani della loro conquista e dunquenon prima della seconda metà del VI seco-lo a.C. Con ogni probabilità si tratta dun-que di un vero e proprio rito funebre nelquale sono inserite particolari valenze re-ligiose, appunto perché rivolte verso bim-bi mai nati o defunti poco dopo la nascita.Non è dunque un feroce e sanguinario ri-to di olocausto, ma solo una pietosa prati-ca rivolta verso i più deboli. I tofet sono daconsiderare delle particolari necropoli,delle quali hanno i caratteri, nettamenteseparate da quelle degli adulti e nelle qua-li la presenza del divino era costante e fon-damentale. Le motivazioni di questa sepa-

degna, e quella di Mozia nei pressi di Mar-sala, in Sicilia.

Per quel che riguarda le urne uti-lizzate come ossuari, si trattamolto spesso di pentole da cu-cina nuove. In epoca arcaicaerano usati anche contenito-ri diversi, tra i quali i crateri,le pissidi o le brocche, chenella vita quotidiana aveva-no anche altre funzioni. Apartire dal VI secolo a.C., a se-conda del santuario, venneroimpiegate sempre le stesseforme: a Sulky e a Monte Siraile pentole da cucina, a Thar-ros e a Mozia le brocche con col-lo cordonato per l’acqua, a Cartagine leanfore senza collo, a Karal forme diversetra di loro. All’interno delle urne spessovengono rinvenuti alcuni amuleti che nel-le intenzioni dei loro genitori avrebberodovuto proteggere i bambini dalle malat-tie più diverse, dai guai o dal malocchio.Gli amuleti venivano indossati e general-mente appesi al collo dei bambini. Si trat-ta tra l’altro di maschere sileniche, divini-tà barbute del pantheon fenicio, che noncompaiono nelle tombe degli individuiadulti. Non mancano le maschere apotro-paiche miniaturistiche e gli amuleti di al-tre tipologie, soprattutto egittizzanti. Inogni caso ogni tipo di amuleto proteggevada un male differente. Talvolta attorno al-le urne, e comunque sempre all’esternodel vaso contenitore delle ossa combuste,sono stati rinvenuti piccoli recipienti cheriproducono in modo miniaturistico leforme rituali e di accompagnamento chein genere erano associate ai defunti adul-

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Le stele votive deposte nei tofet per grazia ricevuta compaionoa Cartagine dopo la fine del VII secolo avanti Cristo

Urne votive dal sitoarcheologico di Sant’Antioco.

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razione sono da attribuire allo status deipiccoli defunti. Questi infatti non apparte-nevano ancora alla comunità, perché era-no deceduti prima dell’iniziazione, cioèprima di essere chiamati a partecipare alrito d’ingresso nel consesso degli adulti,equivalente al nostro battesimo o alla cir-concisione presso il mondo ebraico e isla-mico. Tale rito era probabilmente il «pas-saggio per il fuoco» di biblica memoria,ancora oggi praticato in alcuni luoghi del-la Sardegna nella notte di San Giovanni.Quindi le fiamme del rogo erano in ognicaso la soglia attraverso cui i fanciulli feni-ci dovevano passare, da vivi o da morti.

Testimonianze epigraficheChe questa ricostruzione sia attendibilece lo suggeriscono sia gli aspetti archeo-logici che quelli epigrafici. Infatti le urnesono sempre molto più numerose dellestele e non sono mai state rinvenute col-locate in relazione con questi monumen-ti votivi. D’altra parte la formula pur ste-reotipa delle iscrizioni votive incise sullestele si rivolge sempre alle divinità per lagrazia ricevuta, circostanza questa chesuggerisce un rituale svolto in due tempidistinti. Infatti tra le testimonianze epi-grafiche lasciateci dalla civiltà fenicia epunica, quelle relative al tofet possonoessere considerate decisamente le piùnumerose: su circa 15.000 stele rinvenu-te nei dieci santuari attualmente noti, ol-tre 6.000, ubicate soprattutto nel tofet diCartagine, recano una iscrizione. Ma co-me accennato in precedenza la formulautilizzata è per lo più stereotipa e ripetiti-va e, dunque, non fornisce molte infor-mazioni sul rito praticato nei santuari, senon sui nomi dei dedicanti e talvolta sulloro stato sociale. Il testo prevalente reci-ta come segue: «Alla Signora Tinnit facciadi Baal e al Signore Baal Hammon ha de-dicato Magon figlio di Baalhannô figlio di

Abdmelqart figlio di Annibale perchéhanno ascoltato la sua voce e lo hannobenedetto».

Le uniche tracce superstiti di tali tofet,poiché le aree sacre di questo tipo sono deltutto assenti in area libanese o iberica, so-no situate nel settore del Mediterraneocentrale. I motivi di tale situazione non so-no facilmente spiegabili, anche perché si èpotuto constatare che non tutte questearee sacre dedicate ai bambini defunti so-no state utilizzate all’atto della fondazionedelle città delle quali fanno parte.

Il tema esposto è presentato in un vo-lume a cura di Sabatino Moscati, massimostudioso della civiltà fenicia e punica: «Gliadoratori di Moloch. Indagine su un cele-bre rito cartaginese», Milano 1991. Il librocostituisce la prima e ancora oggi più chevalida indagine sistematica sulla questio-ne del tofet dopo le ultime scoperte e siestende dalla storia degli studi alle fontiorientali e classiche, all’archeologia, allanatura e alle componenti sacre e profanedel celebre rito.

Piero Bartoloni, Facoltà di Lettere e Filosofia, Uni-

versità di Sassari

Sopra e nella paginaprecedente, stele di Sulky.

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ro della Marmora che, recatosi a Tharrosper ragioni di servizio, poté assistere al-l’apertura di alcune tombe da parte deisoldati che presidiavano la torre spagno-la posta a controllo della costa. La famadella città antica era tale che nell’apriledel 1841 furono addirittura il re di Sarde-gna Carlo Alberto e suo figlio VittorioEmanuele a presenziare e partecipare di-rettamente allo scavo di alcune tombe acamera puniche. I materiali recuperati inquell’occasione furono imbarcati sul pi-roscafo reale e trasportati a Torino per ar-ricchire la collezione di antichità del so-vrano. Bisogna attendere sino al 1850 perassistere al primo scavo scientifico aTharros, eseguito dal fondatore dell’ar-cheologia sarda, il canonico GiovanniSpano. Lo studioso si trattenne nell’areaalcuni giorni e poté indagare cinquetombe puniche che vennero poi pubbli-cate; il suo lavoro rappresenta a tutt’oggiuna delle principali fonti documentariesulla necropoli tharrense. L’intervento ef-fettuato nell’anno successivo dall’ingleseLord Vernon, il quale poté riportare in pa-tria il prezioso contenuto di oltre quat-tordici tombe a camera inviolate, scatenòuna vera e propria caccia all’oro che videcirca cinquecento uomini dei paesi vicini

N ESSUNA TRA LE CITTÀ FENICIE di Sar-degna può vantare una cosìgrande notorietà tra il vasto pub-

blico come Tharros, grazie soprattutto airicchi corredi delle sue necropoli oggiesposti in numerosi musei italiani e stra-nieri. Sono stati gli scavi condotti nell’Ot-tocento ad alimentare la fama di ricchez-za della città, quegli stessi scavi che,paradossalmente, hanno determinato ilsaccheggio delle aree funerarie e la di-spersione dei materiali. In nessuna dellecolonie fenicie di Sardegna si è svolta unastagione di scavi così lunga e tormentata,che ha visto lo svolgersi di indagini daparte dell’archeologia ufficiale ma so-prattutto il susseguirsi di scavi clandesti-ni condotti senza alcuna regola o rispettoper i contesti antichi. Il continuo venirein luce di corredi sempre più ricchi, e so-prattutto di gioielli in oro di mirabile fat-tura, ha alimentato per decenni, fino allaquasi totale distruzione dell’area, unaforsennata ricerca che ha anche contri-buito a creare nell’immaginario popolareil mito di una città ricca e fiorente.

Già dagli anni immediatamente suc-cessivi al 1830 le fonti antiquarie segnala-no alcuni interventi di scavo, tra cui quel-lo del generale piemontese Alberto Ferre-

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La terza vita di Tharrosla città depredataDopo gli scandalosi saccheggi che hanno distrutto la necropoli nell’800 e gli scavidella metà del '900, il mitico centro torna a ospitare una costante attività di ricerca

CARLA DEL VAIS

Un particolare dell’areaarcheologica di Tharros.

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cropoli, preceduti dalla realizzazione diun accurato rilievo topografico della pe-nisola su cui sorgeva la città. Dalle brevinote pubblicate si coglie l’immagine diuna necropoli profondamente compro-messa che ormai poco poteva dare a ul-teriori ricerche, tanto da sconsigliare laprosecuzione di ogni attività. Nella ne-cropoli così cessarono gli interventi uffi-ciali, mentre scavi più o meno irregolaricontinuarono ancora a lungo, sebbene

con risultati sempre meno eclatanti.Grazie a tali indagini pervennero al

Museo di Cagliari abbondanti e ricchimateriali di età punica e romana, ma sivennero a formare anche numerose col-lezioni private; molte di queste furonopoi acquisite dai musei sardi, sia quellocagliaritano che il Museo G.A. Sanna diSassari, mentre altri materiali andaronodispersi. Scorrendo la letteratura archeo-logica ottocentesca si coglie un fioriresenza pari di studi sui materiali tharren-

operare uno dei più grandi saccheggi maiconosciuti dalla necropoli: per tre setti-mane, alla disperata ricerca di gioielli esuppellettili varie questi uomini, scavan-do giorno e notte, depredarono più dicento tombe, fino a quando non furonofermati da un decreto regio arrivato peròdopo che lo scempio era stato compiuto.

Non meno deleteria fu l’opera del-l’allora direttore del Regio Museo di Ca-gliari, Gaetano Cara, il quale, autore di

scavi nell’area funeraria tra il 1853 e il1856, curò sotto falso nome la vendita diuna grossa collezione costituita da circatremila manufatti punici e romani, recu-perati nel corso delle sue ricerche rego-larmente finanziate dallo Stato. I mate-riali pervennero in parte al British Mu-seum di Londra, dove ancora si trovano, ein parte vennero battuti a un’asta pubbli-ca e andarono poi dispersi. Tra il 1885 e il1886 il regio ispettore agli scavi FilippoNissardi compì due interventi nella ne-

L’area degli scavi di Tharros vistadal mare.

Molti reperti sono stati venduti al British Museum di Londra,altri sono stati battuti all’asta e se ne sono perse le tracce

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si, studi che contribuirono non poco allosviluppo dell’archeologia fenicio-punicanell’isola. Erano in particolare i ricchigioielli in oro, gli amuleti, i sigilli confor-mati a scarabeo ad attirare l’attenzionedegli studiosi, ma anche le ceramiche, leterrecotte, le monete e i vetri.

Templi e tofetLa stagione delle ricerche a Tharros ri-prese in grande stile solo alla metà delNovecento, grazie alla volontà e all’opera

dell’allora soprintendente Gennaro Pe-sce. Egli, con fondi della Cassa per il Mez-zogiorno, decise di indagare non più lanecropoli ormai irrimediabilmente com-promessa, ma l’abitato dove fino ad allo-ra erano stati condotti limitatissimi son-daggi. Con un numero rilevante di operaitra il 1956 e il 1963, coadiuvato sul campodall’allora ispettore della Soprintenden-za Ferruccio Barreca, altra figura chiavedell’archeologia sarda, mise in luce granparte delle emergenze monumentali og-

L’area archeologica di Tharros,Penisola del Sinis - Isola di Maldi Ventre.

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ginese. Fu in quegli anni, infatti, che incontrapposizione all’ipotesi tradizionaleche postulava la pratica di sacrifici cruen-ti di bambini e infanti, fu proposta per ilsantuario la funzione di area funerariadestinata ai feti e agli individui defuntiper cause naturali prima della celebrazio-ne di rituali di passaggio che ne avrebbe-ro consentito l’ingresso nella comunitàdegli adulti. Le analisi antropologiche epaleobotaniche condotte sui contenutidelle urne consentirono di ricostruire al-cuni particolari del rito: la sua stagionali-tà, l’utilizzo di roghi all’aria aperta, l’etàprevalente dei cremati, oscillante fra 0/6mesi e 5 anni, la frequente presenza dipiccoli ovicaprini insieme ai resti umani.Parte delle urne, datate fra il VII sec. a.C. egli inizi del II, e delle stele del santuariotharrense oggi si possono ammirare alMuseo Nazionale Archeologico di Caglia-ri e al Museo Civico di Cabras.

Gli scavi della missione congiunta,una volta esaurita l’area del santuario,che vide anche un interessante appro-fondimento dell’indagine nel villaggionuragico datato a fasi del Bronzo Medio(1600-1300 a.C.), si spostò nell’adiacentezona artigianale di età punica (V-IV seco-lo a.C.), destinata, in particolare, all’atti-vità metallurgica. I resti delle fornaci e leabbondanti scorie di lavorazione, che so-no state opportunamente analizzate consistemi scientifici da studiosi del CNR diRoma, hanno rivelato la pratica di tecno-logie assai avanzate per l’epoca in rap-porto alla lavorazione dei minerali di fer-ro. Il settore artigianale, probabilmentenon più utilizzato dalla fine del IV sec.a.C., fu intaccato nel III dall’impianto di

gi visibili. Indagò prima due edifici ter-mali e il castellum aquae di età romana, ilgrande tempio punico detto “delle semi-colonne doriche”, il tempio cosiddetto apianta di tipo semitico, il “tempietto K”,un ampio settore dell’abitato, parte dellefortificazioni. A lui si deve anche la sco-perta, avvenuta nel 1963, del cosiddetto“santuario dei fanciulli”, noto con il no-me semitico di tofet, il tipico santuariocittadino di età fenicio-punica, posto,unico caso in assoluto, sulle rovine di unvillaggio nuragico ormai abbandonato. Sitrattò di un’impresa epocale che è anco-ra ben viva nella memoria locale, soprat-tutto grazie alla testimonianza dei nume-rosi operai che parteciparono agli scavi,alcuni dei quali, ormai anziani, ancora ri-cordano le vicende quotidiane di un’in-dagine che ha profondamente modifica-to l’assetto della regione.

Agli inizi degli anni Settanta le ricer-che ripresero nel tofet, a opera della mis-sione congiunta dell’Istituto per la Civiltàfenicia e punica del CNR di Roma e dellaSoprintendenza di Cagliari. Venne intera-mente indagata l’area sacra e furono re-cuperate migliaia di urne cinerarie conte-nenti le ossa combuste di feti, bambini epiccoli ovicaprini, e varie centinaia di ste-le votive in arenaria poste a memoria delrituale compiuto. Gli studi effettuati suiresti del santuario hanno consentito diacquisire dati di estrema rilevanza in rap-porto all’acceso dibattito, svoltosi a parti-re dagli anni Ottanta, sulla natura del san-tuario tofet, attestato, come è noto, soloin Nord Africa, in Sicilia e Sardegna, vale adire nell’area più direttamente influenza-ta e poi controllata dalla metropoli carta-

Gli studi nella zona artigianale di età punica hanno rivelatola pratica di tecnologie metallurgiche molto avanzate

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un muro realizzato con conci di riutiliz-zo, in parte rivestiti con raffinati intonacibianchi che in alcuni casi conservavanoiscrizioni puniche incise; tra queste se nepuò segnalare una che ricorda un pelle-grinaggio a Cipro da parte di un perso-naggio di nome Yafi e un’altra che reca ladoppia serie alfabetica. Il particolarecontenuto delle stesse ha suggerito che iblocchi in origine appartenessero a edi-cole o cappelle dell’area del tofet.

Quanto alla necropoli, nel 1981, qua-si un secolo dopo le ultime indagini uffi-ciali, sono riprese le ricerche a cura dellaSoprintendenza Archeologica di Cagliari,con lo scavo di alcune tombe nella ne-cropoli meridionale e nell’altra area fu-neraria tharrense sita a nord dell’abitato.Dell’anno successivo è un intervento ef-fettuato nella necropoli meridionale daparte della missione congiunta del CNR edella Soprintendenza di Cagliari, mentrealtre indagini sono state condotte nell’a-rea funeraria settentrionale negli anni

Ottanta dall’Università di Cagliari. Le ri-cerche sono riprese nel 2001 a opera del-la missione congiunta dell’Università diBologna e della Soprintendenza di Ca-gliari, in collaborazione con l’Universitàdi Cagliari, con interventi nella necropo-li meridionale che si rinnovano annual-mente.

La geografia del sitoLe indagini finora condotte hanno dun-que consentito di mettere in luce ampilembi di una città che si sviluppa sulle trealture poste all’estrema propaggine dellaPenisola del Sinis vale a dire, da sud anord, il Capo San Marco, dove si trova l’a-rea funeraria meridionale, il colle di SanGiovanni, sede del nucleo centrale dell’a-bitato punico-romano, e il colle di MurruMannu (in lingua sarda “il grande muso”per la sua particolare conformazione) cheospita invece il villaggio nuragico, il tofet ealtre importanti strutture puniche e roma-ne; più a nord, in corrispondenza del mo-

Tombe puniche della necropoli di Capo S. Marco.

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tharrense di elementi materiali ricondu-cibili a tali contatti, in particolare negliimportanti siti di Monti Prama, in territo-rio di Cabras, e di Cungiau ‘e Funtà, neipressi dell’abitato di Nuraxinieddu (OR),con attestazioni di anfore da trasporto fe-nicie, suggerisce che questi fossero di na-tura pacifica.

Di incerta localizzazione risulta an-che il primo insediamento fenicio, le cuistrutture sono ipotizzate ora alle pendiciorientali della collina di San Giovanni, orasul Capo San Marco, ora a nord di MurruMannu, verso lo Stagno di Mistras. Letracce risalenti alle prime fasi si colgonosolo nell’ambito del tofet, le cui urne ci-nerarie più arcaiche sono datate al VIIsec. a.C., e nelle necropoli, con le più an-tiche deposizioni che si pongono nel-l’ambito dello stesso secolo. Sia l’area fu-neraria meridionale, posta sul Capo SanMarco, che quella settentrionale hannorestituito deposizioni fenicie connotatedalla pratica dell’incinerazione. Si trattaper lo più di semplici fosse oblunghe sca-vate nel terreno e nel sottostante bancoroccioso che a volte mostrano chiari se-gni dell’avvenuta incinerazione in sito delcadavere, mentre altre volte denuncianola pratica della deposizione secondariadei resti ossei bruciati altrove e successi-vamente raccolti sul fondo delle stesse in-sieme ai materiali d’accompagno.

Sotto CartagineNella seconda metà del VI sec. a.C., mo-mento di grandi cambiamenti non soloin Sardegna per il prevalere della politicaespansionistica di Cartagine, Tharros

derno villaggio di San Giovanni, si conser-va in parte la necropoli settentrionale.Benché gli scavi abbiano messo in luce so-lo una parte della città antica, i dati acqui-siti consentono di delineare con una certaapprossimazione la storia del sito.

L’antropizzazione dell’area risale al-meno a età protostorica; i resti del villag-

gio di capanne di Murru Mannu, i nura-ghi Baboe Cabitza e di Sa Naedda, ubica-ti sul Capo San Marco, e i resti di un’altrastruttura nuragica posta al di sotto dellatorre spagnola eretta sul colle di San Gio-vanni documentano una frequentazione,a partire dall’Età del Bronzo Medio e finoal Bronzo Finale-Prima Età del Ferro, chenon può certo dirsi episodica. Le modali-tà dell’incontro tra l’elemento indigeno equello allogeno sono ancora incerte, eanche se le tracce archeologiche a Thar-ros non forniscono dati illuminanti inproposito, la presenza nell’hinterland

L’area era abitata già in età protostorica, mentre i restifenici più antichi sono stati datati al VII secolo a.C.

Tempio punico cosiddetto“delle semicolonne doriche”.

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non sfugge alla conquista da parte dellacittà africana. A partire da questo mo-mento si assiste alla monumentalizza-zione dell’abitato, con la costruzione dialcuni edifici sacri e dell’imponente cin-ta fortificata che difende la città da possi-bili attacchi da terra; il tofet, che viene oracompreso all’interno dello spazio fortifi-cato, continua la sua attività; a ovest del-lo stesso si impianta, alla fine del V sec.a.C., l’importante quartiere artigianale dicui si è detto.

Tra gli edifici sacri va ricordato il co-siddetto “tempio monolitico”, o “delle se-micolonne doriche”, caratterizzato nellasua fase più monumentale, fra IV e III sec.a.C., da una piattaforma gradonata mo-nolitica risparmiata nel banco di arena-ria, decorata su tre lati da semicolonnedoriche a rilievo e da pilastri-lesene concapitelli eolici. Al di sopra del basamento,accessibile da est, doveva sorgere un’edi-cola o un altare.

Le fortificazioni, sorte verosimil-mente non molto tempo dopo la conqui-sta cartaginese, dovevano essere costitui-te, nel loro primo impianto, da una cintamuraria realizzata con grandi concisquadrati in arenaria. Tracce di tali mura,che dovevano chiudere interamente lacittà, sono state rintracciate sulla collinadi San Giovanni e a Murru Mannu. Inquest’ultima area, in particolare, il rifa-scio realizzato in conci irregolari in basal-to, due postierle e il fossato delimitato anord da un muro di controscarpa co-struito con lo stesso materiale sono ri-portati dalla critica alla successiva faserepubblicana (II sec. a.C.).

Di età punica sono anche le tombe acamera scavate nel banco roccioso di Ca-po San Marco e, più a nord, presso il vil-laggio di San Giovanni di Sinis. Costituiteda un vano d’accesso generalmente dota-to di una scalinata, e da una camera se-

polcrale molto semplice, ospitavano degliinumati, deposti in posizione supinaspesso con ricchi corredi. Provengonoproprio da queste tombe molti degli in-numerevoli reperti che si trovano espostipresso i maggiori musei sardi, italiani estranieri. Ugualmente numerose sono lesemplici fosse parallelepipede, coperte inorigine con lastroni in arenaria, scavatenella roccia e destinate probabilmente a

Disegni del canonico GiovanniSpano relativi alle sue indagininella necropoli tharrense.

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L ’ E T À F E N I C I A

connettere a un punto di attracco, che nonescludeva probabilmente l’uso di installa-zioni mobili o deperibili.

Sotto RomaA partire dalla conquista romana dellaSardegna (238 a.C.) si avvia quel processodi profondo cambiamento che avrà com-pimento solo in età imperiale. Ad età re-pubblicana (II sec. a.C.) viene attribuita,come detto, la risistemazione delle forti-ficazioni di Murru Mannu così come l’e-dificazione del cosiddetto “tempietto K”,posto sull’altura di San Giovanni. Si trattadi una piccola struttura rettangolare inblocchi isodomi in arenaria, con una bre-ve gradinata e due pilastri in facciata; ri-portata a influenze italiche, essa conservatuttavia elementi di tipo punico, in parti-colare l’altare con modanatura del tipo a“gola egizia”. Il reimpiego di due concicon iscrizioni dedicatorie puniche hasuggerito la fondata possibilità che nel-l’area, prima dell’edificio tardo-repubbli-cano, sorgesse un tempio punico.

È però in età imperiale, dal I sec. d.C.,che la città subisce i maggiori mutamen-ti. Viene effettuata una imponente risiste-mazione urbanistica e attorno al II secolod.C. le strade vengono dotate di una pavi-mentazione in basalto, con un sistema fo-gnario molto articolato che garantiva losmaltimento delle acque bianche. Vengo-no costruiti numerosi edifici pubblicimonumentali, tra cui i tre impianti ter-mali, realizzati in opera laterizia, solo duedei quali interamente indagati. Essi eranodotati di spogliatoi, ambienti riscaldatiartificialmente e altri in cui potevano far-si bagni freddi, in vari casi decorati conmosaici policromi. All’incrocio tra le duestrade principali della città, il cardo maxi-mus e il decumanus, si trova una struttu-ra definita dal suo scopritore castellumaquae, con pianta quasi quadrata, pilastri

deposizioni singole. In antico la necropo-li doveva avere un aspetto assai diverso daquello attuale; ne sono prezioso indizio inumerosi cippi funerari, oggi custoditipresso il Museo Archeologico di Cagliari eil Museo Civico di Cabras, posti in originea segnalare in superficie le sepolture inun’area funeraria oggetto di particolarecura e di una precisa organizzazione.

Quanto al porto, le coste della peniso-la sono state, negli anni, oggetto di indagi-ni subacquee e terrestri, tese alla sua indi-viduazione. Le prospezioni con il geora-dar condotte alla fine del secolo scorso e larestituzione aerofotogrammetrica delprofilo peninsulare hanno consentito diescludere la presenza di un porto sia nellazona prospiciente il centro della città, allabase della collina di San Giovanni, sia lun-go il Capo San Marco, tanto a est quanto aovest, dove peraltro la natura scoscesa dellitorale, le forti correnti e soprattutto ilvento dominante di maestrale non con-sentono un sicuro approdo. Al contrario, ènella zona a nord del tofet che si sono ri-conosciute tracce di strutture, forse da

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Tombe puniche della necropoli settentrionale.

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delimitanti diverse navate, pareti prive diaperture verso l’esterno e tracce di maltaidraulica. Sulla base degli elementi strut-turali si è ipotizzato che si tratti di una sor-ta di deposito idrico collegato all’acque-dotto, anch’esso di età imperiale, i cui ru-deri sono in parte visibili lungo la stradamoderna che conduce agli scavi.

Per quanto riguarda le aree funerarie,esse appaiono più estese rispetto al perio-do precedente; le necropoli puniche di Ca-po San Marco e di San Giovanni vengonoancora frequentate, soprattutto nei primisecoli della conquista romana, ma in tuttala fascia costiera orientale compresa tra ilCapo e il villaggio di San Giovanni sono do-cumentate deposizioni funerarie.

In età paleocristiana e altomedievalei principali edifici romani, e in particola-re le terme, subiscono importanti ristrut-turazioni. Il continuo spoglio delle strut-ture antiche, perpetrato per secoli per l’e-dificazione dei centri di Cabras e Orista-no, ha notevolmente pregiudicato la ri-costruzione di questa fase tarda della sto-ria di Tharros. Sappiamo di una progres-

siva decadenza, dovuta anche alle incur-sioni saracene, e di un lento spopola-mento, sebbene la sede episcopale sia ri-masta ancora a lungo nella città. È solonell’XI secolo, precisamente nel 1071,che questa viene trasferita a Oristano, de-cretando, o meglio prendendo atto, dellafine del centro antico.

Attualmente l’area archeologica diTharros, ubicata nel territorio comunaledi Cabras, è visitabile tutti i giorni, dalleore 9 alle 20. Il sito, gestito dalla coopera-tiva Penisola del Sinis, è inserito in uncontesto ambientale di grande sugge-stione che fa parte dell’Area Marina Pro-tetta Penisola del Sinis – Isola di Mal diVentre. I materiali archeologici più signi-ficativi possono essere ammirati, oltreche al Museo Nazionale Archeologico diCagliari, al Museo G.A. Sanna di Sassari eall’Antiquarium Arborense di Oristano,anche al Museo Civico di Cabras, ubicatoalla periferia del paese e aperto tutti igiorni dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 20.

Carla Del Vais, Università di Cagliari

Il cosiddetto castellum aquae.

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me e mosaici, ma l’esistenza di rapportitra Romani e popolazioni indigene anchein queste zone è garantita da indizi pecu-liari della Sardegna, come il riuso costan-te in età romana dei nuraghi con funzio-ni cultuali – per lo più in rapporto a unculto agrario dedicato a Demetra-Cerere– o abitative o agricole, o il riutilizzo deivillaggi nuragici come abitazioni, deitempli a pozzo con usi cultuali e civili, deisantuari e delle tombe dei giganti reim-piegate con funzione funeraria. La pre-senza di manufatti di matrice romana ècapillare un po’ ovunque nell’isola; se poila percentuale di iscrizioni provenientidall’interno è assai più bassa di quelladella Romania e consiste per lo più di do-cumenti ufficiali, le parlate attuali delcentro conservano ancora elementi dellalingua dell’età di Plauto, a testimonianzadi una precoce diffusione del latino.

La Sardegna si presenta, non solo neiprimi secoli della dominazione romana,come una terra di mezzo nella quale con-vivono tradizioni secolari nuragiche e pu-niche e cultura romana, interagendo econferendo alle espressioni artistiche del-l’isola una complessità unica nel Mediter-raneo. Pur con qualche semplificazione,gli scrittori antichi sembrano rendersi

C OSTITUITA IN PROVINCIA ROMANA insie-me con la Corsica nel 227 a.C., laSardegna fu a lungo teatro di di-

sordini e ribellioni delle popolazioni loca-li, soprattutto quelle delle zone più inter-ne. Al suo governo si alternarono moltipersonaggi, diversi per carattere e dirittu-ra morale: accanto a figure come M. Emi-lio Scauro, governatore nel 55 a.C., in se-guito condannato per corruzione, le fontiricordano personalità di indubbio rigorecome Marco Porcio Catone o Caio Gracco.

L’orografia dell’isola, con la pianuradel Campidano inserita tra altopiani emontagne non elevate ma aspre e impra-ticabili, contribuì a dividere il territoriofra una parte urbanizzata e aperta ai nuo-vi impulsi culturali, comprendente learee pianeggianti, costiere e di facile ac-cesso, la Romania, e una più interna e re-sistente alla romanizzazione nella suaduplice accezione culturale e politico-amministrativa-militare, che le fonti epi-grafiche indicano con il nome di Barba-ria. Tale duplicità di situazioni è confer-mata dalle carte di densità degli insedia-menti, dalla preistoria fino ai giorni no-stri. Nelle aree più interne e montuose so-no al momento quasi del tutto assenti tra-dizionali indicatori di romanità quali ter-

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Una terra di mezzotra Cartagine e RomaLe tracce dell’influenza latina si trovano ovunque nell’isola, dai raffinati mosaicidelle aree più urbanizzate al culto agrario di Demetra-Cerere nelle campagne

SIMONETTA ANGIOLILLO

Le rovine della città fenicia di Nora.

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che di un tipo che durante la dominazio-ne cartaginese era presente solo nei tofet,e infine votivi anatomici, che rimandanopiuttosto ad ambito centro-italico e dun-que a rituali importati da Roma. Svariatesono le manifestazioni della vita dellaSardegna nelle quali la matrice culturalepunica continua ad avere un peso e unavisibilità notevoli, fino al medio impero.Almeno fino a tutto il II sec. d.C. è usata lalingua punica ed è attestata la magistra-tura punica dei sufeti, così come conti-nuano culti, tipologie e iconografie carta-ginesi: nel I d.C. a Cagliari e Sulci, attualeSant’Antioco, i pavimenti in cocciopestosono decorati con simboli di Tanit e du-rante l’impero modelli di tradizione pu-nica sono riconoscibili nelle strutturemurarie, e forse anche nella produzionedi particolari stele iconiche a caratterefunerario. Il peso di questa tradizionecondiziona la ricezione della nuova cul-

conto di tale peculiarità e se Cicerone usail termine Afer come equivalente di Sar-dus e indica l’Africa come ipsa parens illaSardiniae, Pausania attribuisce la primacolonizzazione dell’isola all’eroe libicoSardus, entrambi evidenziando gli strettirapporti della provincia con la culturadell’Africa settentrionale nei vari periodi.

Riti vecchi e nuovi Un altro dei fili che si intrecciano a for-mare la cultura della Sardegna è quellodella più antica tradizione nuragica: ac-canto alla continuità di vita dei monu-menti e dei siti, sia pure con destinazionediversa da quella originaria, osserviamotalvolta anche continuità di riti. Così, neltempio a pozzo di Cuccuru is Arrius, nel-l’Oristanese, fino al I sec. a.C. fu praticatoun culto nel quale si offrivano lucerne,secondo il rito nuragico, incensieri ker-nophoroi alla moda punica, stele puni-

Teatro di Nora, in provinciadi Cagliari.

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tura dominante da parte delle popolazio-ni, anche di quelle più urbanizzate: que-sto fattore per esempio fa sì che la ritrat-tistica sia poco attestata in questa pro-vincia e, nella maggior parte dei casi, sitratta di produzione urbana di ambito uf-ficiale. Ma esistono significative eccezio-ni, quali la dedica di statue a persone, do-cumentata a Sulci da iscrizioni neo-puni-che del I sec. a.C., e la complessa e stranaonomastica che troviamo talvolta nelleepigrafi, com’è il caso di Pullius Agbor, fi-glio di Mqr’, che nel proprio nome tradi-sce l’origine punica e l’appartenenza allasocietà romana. Ancora a Cagliari il pro-prietario di una bottega inserisce nel mo-saico pavimentale il proprio nome, M.

Plotius Silisonis f. Rufus, correttamenteespresso nella forma canonica romanadei tria nomina, esibendo orgogliosa-mente la propria appartenenza al nuovoceto dominante e i suoi rapporti con lagens Plotia, mentre il patronimico Silisone denuncia l’origine punica.

Anche nelle religioni praticate in Sar-degna si ravvisa lo stesso carattere diamalgama culturale che abbiamo fin quipiù volte individuato. Accanto al caso diCuccuru is Arrius, dove distinguiamo le treanime della cultura isolana, nuragica, pu-nica e romana, possiamo ricordare untempio dedicato alla dea punica Elat a Sul-ci e quello al Sardus Pater Babai ad Antas,nell’Iglesiente, entrambi sotto Marco Au-

Anfiteatro romano a Cagliari.

Le religioni praticate confermano l’amalgama culturale dell’Isoladove convivono tre anime: nuragica, punica e romana

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relio o Caracalla. Occupano poi un postocentrale nella vita religiosa della provinciaquei culti che ne proseguono altri preesi-stenti, la cui funzione non è venuta menopur nella mutata situazione politica. Al-meno di tradizione punica, se non più an-tica, e legato allo sfruttamento cerealicolodell’isola, è il culto a Demetra, sostituita inetà romana da Cerere; diffusissimo in tut-to il territorio, trova una sede privilegiatanei nuraghi disseminati nelle campagneed è caratterizzato dalla dedica di thymia-

teria ancora punici, soppiantatialla fine del I sec. d.C. e per tuttoil II dalle Sardae Cereres, bustinifittili di produzione locale e digusto popolare, che raffiguranola dea con un polos decorato daspighe di grano. Grande diffusio-ne su tutto il territorio hanno iculti salutiferi, additati da stipi dietà repubblicana che hanno re-stituito votivi di diversa tipolo-gia: si riconoscono modelli me-

dio-italici accanto ad altri di tradizione fe-nicio-punica, figurine plasmate a mano oal tornio raffiguranti il malato che indica laparte dolente del suo corpo. L’intrecciarsidi tradizioni diverse, culturali artistiche ereligiose, con il conseguente formarsi diun patrimonio ricco e complesso trovaun’altra significativa espressione nellaiscrizione trilingue, in punico, greco e lati-no, da S. Nicolò Gerrei datata al II sec. a.C.con dedica al dio guaritore Esculapio. Inalcuni casi, in età imperiale, il culto saluti-fero acquista una diversa dimensione: nelsantuario del Sardus Pater ad Antas, tra le

Mosaico nella Casa dell'atriotetrastilo a Nora. A destra,un dettaglio del mosaico.

Il culto di Demetra prima e di Cerere poiè diffusissimo in tutto il territorio e trova

una sede privilegiata nei nuraghi

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mo Ravennate e la Tabula Peutingeriana,rispettivamente del VII secolo e di etàmedievale, ma basate su itinerari di etàimperiale, forniscono un quadro genera-le del reticolo stradale di età romana cheil ritrovamento di numerosi miliari per-mette di completare nei dettagli. Si puòricostruire una rete che attraversava laprovincia in senso longitudinale, con al-cuni tratti trasversali, e assicurava il col-legamento tra i principali porti e le areeinterne; a essa si aggiungeva la rete flu-viale. Come è naturale i centri abitati, perlo più sorti su precedenti città puniche, sidispongono nelle zone economicamentepiù favorevoli o lungo le grandi arterie dicomunicazione. Così il fertile retroterra ela posizione naturale facevano di Karalese di Turris Libisonis ottimi porti per l’im-barco di frumento, mentre le miniere del-l’Iglesiente gravitavano sul porto di Sulci.Olbia doveva costituire l’approdo più fa-cile lungo l’alta costiera orientale comedimostrano la probabile presenza di un

divinità venerate vi è Iuppiter Dolichenus,il dio che assicura all’imperatore il trionfomilitare e politico e a tutti gli uomini quel-lo sul dolore fisico e che qui sostituisce ilpunico Sid. Pur non essendo quella di An-tas l’unica attestazione del culto a Giove,gli dei della triade capitolina sembranoaver goduto di una venerazione meno dif-fusa rispetto a quelli, come Cerere o Escu-lapio, più vicini ai bisogni dei fedeli. Do-cumentati sono anche culti di origine egi-zia e orientale: accanto al culto di Iside,quelli di Osiride-Apis, poco attestato nelresto dell’Italia, e di Sabazio. La Sardegnainfine partecipa al culto all’imperatore in-sieme alle altre province, come documen-tano le iscrizioni: a Bosa un cittadino illu-stre dedica a proprie spese quattro sta-tuette in argento per Antonino Pio, Fausti-na, Marco Aurelio e Lucio Vero.

Il territorio e le cittàL’Itinerario Antoniniano, forse dell’età diCaracalla, la Cosmographia dell’Anoni-

Villa di Tigellio a Cagliari.

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reparto della flotta del Miseno e il recen-te rinvenimento nel porto di numerosenavi onerarie, dal I d.C. all’età medievale.Tutti gli altri centri sono situati sul trac-ciato della rete viaria e di quella fluviale:Forum Traiani (Fordongianus), luogod’incontro e di scambio tra l’economiapastorale della Barbaria e quella agricoladell’Oristanese, si trova proprio sulle rivedel fiume Tirso.

Com’è ancora adesso, la Sardegnaera scarsamente urbanizzata: accanto aKarales e Turris Libisonis, i due capolineadella strada antesignana della attualeCarlo Felice, municipio la prima e coloniala seconda, si possono ricordare le colo-nie di Uselis e Tharros e i municipi di No-ra, Sulci, Bosa, Olbia, mentre ForumTraiani era, all’atto della costituzione sot-

to Traiano, un centro economico di scam-bi. Capitale della provincia e sede del go-vernatore era Karales, anche se non è daescludere che in un primo tempo lo fosseNora: infatti, la formula attestata dai mi-liari offre come stazione di partenza dellastrada, e quindi città più importante, No-ra e non Karales. In base alla documenta-zione di cui disponiamo, possiamo rico-struire per somme linee la storia e la fisio-nomia della città, sorta presso lo stagnodi Santa Gilla, dove sono state messe inluce le tracce di un quartiere abitato dal-l’età fenicia al II sec. a.C., con la necropo-li sul colle di Tuvixeddu. Tale quartiere fupoi in parte abbandonato, in parte usatoper sepolture, mentre il centro urbano,forse per l’impaludamento del porto, sispostava nell’area intorno all’attuale

Architrave della Grottadella vipera a Cagliari.

Anche allora la Sardegna era scarsamente urbanizzata e i centrierano distribuiti sul tracciato delle reti viaria e fluviale

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l’anfiteatro era in parte scavato nella roc-cia, in parte costruito; numerosi ingressicollegati da corridoi coperti garantivanoun facile accesso alla cavea. Un corridoioanulare sotto le gradinate permetteva ilpassaggio dagli ambienti di servizio all’a-rena, dove un sistema di fosse sotterraneeospitava i macchinari scenici. Una vastaarea verde, corrispondente all’attuale Or-to Botanico, ricca di vasche, cisterne, ca-nalizzazioni, ma anche sculture e fram-menti musivi, collegava l’anfiteatro aiquartieri di abitazione. All’esterno delnucleo centrale si disponevano le necro-poli: quella occidentale, sul colle di Tuvi-xeddu, conserva monumenti ipogeicicon facciate architettoniche e colombari.Il più noto è l’ipogeo di Atilia Pomptilladel II d.C., che si affacciava sulla strada inuscita dalla città, con una facciata distiladi ordine ionico; costruito come un tem-pio, aveva due camere funerarie e un pro-nao, sulle cui pareti sono incisi dodiciepigrammi in latino e in greco. In essi ilvedovo Cassio Filippo, forse esiliato inSardegna per motivi politici, ricorda concommosse parole il duplice sacrificiocompiuto dalla sposa, quando ella «figliadell’Urbe seguì fin qui le dolorose vicen-de dello sfortunato marito» e quando ba-rattò la propria vita per quella di Filippo.Per quanto riguarda le altre necropoli, inviale Regina Margherita erano le tombedei soldati della flotta del Miseno, mentrein quella orientale, tra San Saturno e ilcolle di Bonaria, si trovano anche ipogeicon affreschi a soggetto cristiano. Sicura-mente extraurbano era il Tempio di Astar-te Ericina situato sul Capo S. Elia. Notiziesull’assetto della città sono fornite dagliscavi della Villa di Tigellio e di Sant’Eula-lia e permettono di ricostruire un im-pianto ortogonale che tiene conto, asse-condandola, della morfologia in decliviodel terreno.

piazza del Carmine. Qui era il foro, nellecui immediate vicinanze si addensavanogli edifici pubblici, a carattere ammini-strativo, sacro e funzionale: il tabularium,con funzioni di archivio e catasto, edificidi culto e terme. Di particolare interesse èil santuario di via Malta, caratterizzato,secondo la tradizione centro-italica, dauna cavea teatrale in asse con il tempiodedicato a Venere e Adone, come si evin-ce dai numerosi ex voto. Ai bordi di que-sto nucleo si addensava una ricca area re-sidenziale frequentata almeno sino al IVsec., nei quartieri di Stampace, lungo l’as-se del corso Vittorio Emanuele, e di Mari-na. Testimoniano l’alto livello di Stampa-ce le decorazioni presenti nelle case dellacosiddetta Villa di Tigellio, riccamente or-nate con stucchi, pitture e mosaici. Attivi-tà artigianali e commerciali sono attesta-te nella zona orientale della città, nonlontano dal porto. A monte della città,

Qui sotto, da sinistra,busti di Claudio e di Tiberio.Nella pagina seguente, in alto,ponte romano di Decimomannu,in provincia di Cagliari; in basso,statua romana a Cagliari.

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Nora sorge su una penisola dal profilo ar-ticolato, che offre possibilità di approdosu tutti i lati; la morfologia del terreno haimpedito che l’impianto urbano assu-messe uno schema rigidamente ortogo-nale. Un primo nucleo è attraversato davie con andamento irregolare e sinuoso,mentre una seconda zona, più esterna,mostra una rete viaria tendente all’orto-gonalità: del primo fanno parte i quartie-ri di abitazione più antichi e il centro ci-vile e religioso, con il foro in una posizio-ne decentrata giustificata dalla vicinanzaagli impianti portuali, il teatro, il così det-to Tempio romano, e le Terme centrali.Alla seconda appartengono le Terme amare, un vasto edificio legato alle attivitàdel porto, una basilica cristiana e una do-mus con terme private. Delle quattrostrutture termali esistenti a Nora le piùimponenti e meglio conservate sono leTerme centrali e le Terme a mare, nellequali accanto agli ambienti tradizionali sitrovano atri, peristili e vani di soggiornocaratteristici delle terme più complesse.Le più antiche aree destinate all’ediliziaprivata sono adiacenti al centro pubbli-

co: la prima, lungo la costa me-ridionale, abitata dal VI a.C.,restò in uso in età repubbli-cana, ma destinata ai cetipiù umili della popolazione.Nella seconda, a nord-ovestdel teatro, case con numerosivani, un peristilio e porticiche si affacciano sulla stradapermettono di riconoscereun quartiere signorile delperiodo repubblicano. Conl’impero la zona più elegantedella città si sposta in un’areapiù esterna, a ovest: ne è unbell’esempio la Casa dell’a-trio tetrastilo, in funzionedalla fine del II al IV d.C.;aperta sulla città con unporticato, è articolata supiù livelli e si dispone at-torno all’atrio dal quale hapreso il nome. Gli ambien-ti residenziali destinati allavita privata e sociale deldominus si differen-ziano per una mag-

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che ne rifornì prima Cartagine e poi Ro-ma, può spiegare la presenza di ville epiccoli abitati sparsi nell’entroterra, dicui spesso rimangono solo ambienti ter-mali e mosaici. A Villaspeciosa, lungo lastrada tra Karales e Sulci, una stazione disosta era associata a un piccolo edificiotermale, a un villaggio e, a partire dal IVsecolo avanzato, a una chiesa cristianacon un mosaico di fattura africana, men-tre a Settimo San Pietro, nell’entroterracagliaritano, solo un grandioso mosaicotestimonia, per il momento, la presenzadi un centro lungo la via che univa Kara-les alla costa orientale.

La produzione artisticaÈ nel mosaico che la Sardegna offre unamaggiore vivacità e originalità. All’iniziole forme più diffuse di pavimentazionesono costituite da cocciopesto con inser-zione di tessere a formare motivi geome-trici o simboli religiosi di tradizione pre-romana. A partire dal II sec. d.C. il patri-monio musivo si presenta ricco e diver-samente articolato nei vari centri di pro-duzione, più precocemente legati allapolicromia e ai modelli delle provinceafricane quelli del meridione dell’isola,più fedeli alla severa norma del mosaicoin bianco e nero di Roma quelli del nord.A Nora, accanto all’opera di una bottegacaratterizzata da un repertorio geometri-co in bianco, ocra e nero, si può ricono-scere sia la presenza di maestranze afri-cane che quella di un altro atelier localeformatosi al loro fianco e attivo anche aKarales e a Sulci. Molto diversi appaionoi mosaici di Porto Torres, per i vincoli piùstretti che legavano la colonia alla madrepatria: ne fanno fede due pavimenti asoggetto marino in bianco e nero, nellatradizione romano-ostiense, che presen-tano rarità iconografiche, indizio di unabottega locale; ma nel corso del III seco-

giore ampiezza e per la ricchezza dei mo-saici, nei quali si riconosce l’opera dimaestranze africane. Nel cubicolo si tro-va anche l’unico mosaico figurato finorarinvenuto a Nora, un emblema con Ne-reide su Tritone.

Sulla Punta de su Coloru, unita allacittà da un ampio cardo, che doveva co-stituire una sorta di via sacra sormontatada un arco, sorgeva un santuario extraur-bano. Era dedicato a una divinità saluta-re, Eshmun/Esculapio, e presenta, comeil Tempio romano presso il teatro, carat-teri non romani: in entrambi i casi il tem-pio, articolato su più livelli, si trova entroun peribolo che comprende altri vani eha la cella provvista di adyton, secondomodelli africani e orientali. Nonostantela forma attuale del tempio di Esculapiosia databile al IV sec. d.C., il culto risalealmeno al II a.C., periodo al quale si pos-sono datare gli ex-voto raffiguranti devo-ti in attesa della guarigione; in un caso unserpente si avvolge strettamente attornoal corpo, garanzia di un culto salutifero.

L’importanza del grano in Sardegna,

Qui sopra e nella paginaseguente, un ben conservatomosaico policromo paleocristianodi Villaspeciosa, in provinciadi Cagliari.

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lo anche Turris si apre al mosaico poli-cromo di modello africano. Meno nota èla produzione di Karales che però conta,al momento, il maggior numero di mo-saici figurati rinvenuti nell’isola: dagliemblemata repubblicani con animali enature morte nella Casa degli Stucchi, amosaici con scene di caccia, con tiasomarino, con Orfeo che incanta gli anima-li al suono della lira, a un esemplare per-duto con le fatiche di Ercole, tutti nell’a-rea di Stampace.

Diverso è il quadro che si può trac-ciare delle altre arti figurative. Molto po-co si conserva della pittura, della qualetestimonianze ottocentesche e fram-menti superstiti fanno intravedere l’ori-ginaria ricchezza. Quanto alla scultura, lavitalità, in piena età romana, di una tra-dizione punica nella quale l’autorappre-sentazione non si esprimeva con ritrattifa sì che la Sardegna abbia sentito questaforma artistica come estranea e l’abbiaaccettata prevalentemente come stru-mento di propaganda politica. Gli esem-plari presenti hanno carattere ufficiale esono di importazione: al periodo repub-blicano risale un bel ritratto di vecchio,forse un magistrato romano, mentre du-rante l’impero i personaggi raffigurati so-no per lo più della famiglia imperiale.Nella restante scultura di uso cultuale, fu-nerario e ornamentale, in marmo o inbronzo, si individuano, accanto a operesicuramente importate, altre di produ-zione locale. Tra queste gran parte dellascultura ornamentale e un numerosogruppo di stele funerarie in pietra localedecorate da una raffigurazione moltosommaria del defunto, le così dette stelea specchio, nelle quali a una schematici-tà e, spesso, rozzezza dell’esecuzione ditradizione non romana, si uniscono l’usodel latino per le iscrizioni e l’esigenza tut-ta romana di ricordare il defunto con

un’immagine; ennesima rappresentazio-ne dell’amalgama culturale che caratte-rizza la Sardegna dei primi secoli delladominazione romana.

Simonetta Angiolillo, Università di Cagliari

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zione strategica affacciata sulle rotte delTirreno centrale, di fronte a Roma stessa,Olbia è da sempre uno dei principali ap-prodi sardi, come ben sanno i milioni dituristi che negli ultimi trenta anni sonotransitati di qui per le loro vacanze estive.Si tratta di un approdo di merci e perciò inprimo luogo di uomini e delle loro culturenel loro millenario stratificarsi e confron-tarsi. Infatti l’area dell’abitato e il porto vi-dero dapprima lo stanziarsi dei Fenici nel-la seconda metà dell’VIII sec. a.C., all’albadel diffondersi della civiltà urbana nel Me-diterraneo Occidentale. Verso il 630 a.C. ilcentro passò sotto il controllo dei Grecidella città di Focea, quale base strategicaalla volta del sud della Francia, ove costo-ro fondarono di lì a poco la città di Massa-lia (Marsiglia). A essi si deve il nome Olbìa,cioè la “felice” appunto per la opportunaposizione strategica e per le risorse locali,come sale, pesce e prodotti agricoli.

Alti e bassiAlla fine del VI sec. a.C. lo stanziamentopassò sotto il controllo di Cartagine assie-me al resto della Sardegna, ma solo nellanella seconda metà del IV sec. a.C. la me-tropoli africana rafforzò la propria posi-zione nel nord dell’isola in funzione anti-

IL RINVENIMENTO DI 24 RELITTI di naviantiche nel porto di Olbia è sen-z’altro uno dei più eclatanti ritro-

vamenti archeologici degli ultimi decenniin Sardegna, che ha avuto infatti vasta ecoanche ben al di là dei confini dell’isola, euno dei principali nell’ambito dell’ar-cheologia navale mediterranea assieme aquelli della Borsa di Marsiglia e di Pisa-SanRossore. Prima di entrare in argomento èperò necessario tracciare un breve excur-sus della storia della città per contestualiz-zare in senso storico e topografico i risul-tati dello scavo.

Grazie alla straordinaria ricettività na-turale del suo golfo e alla eccezionale posi-

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I favolosi relittidi Olbia la cosmopolitaDopo tre fortunate campagne di scavo proseguono i lavori di restauro sui repertidi grande interesse storico e forte impatto visivo rinvenuti nel sottosuolo del porto

RUBENS D’ORIANO

Immagine virtuale del porto nel II sec. d.C.

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romana fondando qui una colonia, checadrà nel 238 in mano di Roma, la nuovadominatrice del Mediterraneo. Mutaronocosì i referenti politici ma non certo il ruo-lo della città, eminentemente portuale, dicollettore delle merci d’esportazionetransmarina del nord Sardegna e di rice-zione e ridistribuzione verso l’entrotrerradelle importazioni dapprima per lo piùitaliche, poi anche galliche e iberiche, infi-ne soprattutto africane, secondo la bennota evoluzione del trend economico delMediterraneo occidentale d’età romana.Al periodo delle invasioni vandaliche nel Vsec. d.C. si ascrive, grazie proprio ai relittirinvenuti come ora vedremo, il definitivodeclino della città romana, che nell’AltoMedioevo muterà addirittura il nome inFausania. L’area urbana, ora ridotta a unpiccolo nucleo abitato, ebbe però ancoraun qualche ruolo anche portuale anche semolto ridotto rispetto al passato, come in-dicano anche in questo caso i risultati del-lo scavo del porto. Attorno al 1000 d.C. la

città, ora col nome di Civita, fu elevata alruolo di capitale di uno dei quattro regninei quali era suddivisa in quel momento laSardegna, il Giudicato di Gallura, del qua-le fu sovrano anche un Visconti di Pisa,quel “Giudice Nin gentil” della nota cita-zione dantesca. Ed è infatti grazie agli

Sopra, il fasciame di una delle navi.Sotto, planimetria dello scavo con i relitti del V sec. d.C.

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riparati del Mediterraneo, non è possibilepensare a un evento meteorologico tantodistruttivo da causare una simile catastro-fe, anche perché le posizioni dei relitti intal caso risulterebbero casuali e non ordi-nate. È quindi più logico pensare a unacausa antropica, stanti anche tracce dibruciatura osservabili su alcuni dei legnivicini alla linea di galleggiamento delleimbarcazioni, e questa causa antropicadovette essere motivo di crisi per l’interacittà, dal momento che nessuno si preoc-cupò in seguito di rimuovere i relitti che,affondati in acqua bassa, compromette-vano la funzionalità di ciò che era la stessaragione di vita della città: il porto. Del re-sto, che Olbia nel V sec. fosse in piena cri-si è testimoniato da rinvenimenti urbani.

Da qui a indicare nelle scorrerie deiVandali contro Corsica, Toscana, Sarde-gna, Sicilia, Campania, Roma stessa, ilcontesto storico dell’affondamento dei re-litti e del collasso della città di Olbia il pas-so è breve.

Nei secoli dell’Alto Medioevo, il portofu ancora utilizzato ma con navi di limita-to pescaggio. Attorno al XII sec. venne rea-lizzata una colmata di bonifica con terra,pietre e pali, affondando alla base di essa,come d’uso, tre barche ormai in disarmo,databili tra fine IX e inizi XI sec. e adibite altraffico locale nel golfo di Olbia, cariche dipietra o ciottoli per costituire la base e gliangoli della colmata stessa. Si raggiunsecosì un livello più profondo del fondale,non occluso dal fango che i relitti romanitrattenevano elevandone la quota. L’esi-genza era dettata dalla ripresa di trafficimarittimi di maggiore impegno e si collo-ca non a caso nel momento culminantedei rapporti politici con la Repubblica diPisa. Memoria di questa impegnativa ope-ra dovette persistere a lungo, se ancora al-l’inizio del ‘700 si legge in un documentodegli archivi sabaudi che Olbia “era una

strettissimi rapporti di potere con quellapotente repubblica marinara che ricevet-tero nuovo impulso i traffici marittimi dilarga scala, come testimoniano ancorauna volta i relitti del porto dei quali final-mente passiamo a parlare

Nel corso di tre campagne di scavo, ri-spettivamente nell’agosto del 1999, nelmaggio-novembre del 2000 e nel marzo-dicembre del 2001, finanziate dall’ANAS edirette per la Soprintendenza Archeologi-ca di Sassari e Nuoro da R. D’Oriano ed E.Riccardi, è stata effettuata l’indagine ar-cheologica dell’intero tracciato – 380 me-

tri per 20 per 4 di profonditàmedia fino alla roccia – deltunnel che collega il porto diOlbia alle strade extraurba-ne. Oltra a una strabocchevo-le massa di materiale mobiledatabile dall’VIII sec. a.C. alXVII sec. d.C., sono state rin-venute 24 porzioni, da moltograndi a molto piccole, delleparti dello scafo sottostanti lalinea di galleggiamento dinavi di quattro fasi cronolo-giche. Due imbarcazioni so-no navi onerarie di età nero-niano-vespasianea, anni 60-70 del I sec. d.C., affondate a

causa di un’alluvione che ha anche causa-to la rovina di un cantiere navale, il primomai rinvenuto finora.

Nella metà del V sec. d.C. si verificò unsecondo disastro, che causò l’affonda-mento di almeno 11 navi onerarie, anchedi cospicue dimensioni, colate a picco al-la stessa profondità in acqua bassa, paral-lele fra di loro e ortogonalmente alla vici-na linea di costa, quindi quando erano or-meggiate in porto, probabilmente lungopontili lignei dei quali si rinvengono ditanto in tanto i resti.

Nel golfo interno di Olbia, uno dei più

La prima fase degli scavi.

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città delli Romani con un gran porto dallaparte di levante che fu colmato dalli Pisa-ni”. Altre tre piccole imbarcazioni del XI,XIV e XV secolo sono affondate, probabil-mente per accidenti vari, presso l’appro-do. Vanno infine citati gli ultimi cinque re-litti, tre dei quali sono porzioni delle im-barcazioni del V sec. d.C. strappate via da-gli agenti atmosferici, mentre il quarto èuna piccola barca di appoggio sempre delV sec. e l’ultimo non ben databile fusmembrato come legname da riuso pres-so il cantiere navale citato all’inizio.

Un ricco bottinoDi primo livello sono altresì le acquisizio-ni dello scavo riguardanti la tecnologia na-vale: ad esempio l’inedito rinvenimento diun cantiere navale, che oltre a utensili e at-trezzature da carpentiere e da marinaiogià altrove testimoniate, restituisce per laprima volta elementi di gru. Due alberi dinave, lunghi 7,80 e 7,90 metri, per la primavolta conservati in dimensioni tali da con-sentirne uno studio funzionale (finora siconoscevano due porzioni di lunghezzainferiore al metro). Quattro aste di timonilunghe poco più di 8 metri ognuna, finoranote solo dalle navi di Nemi e andate per-dute nel 1944 durante l’incendio del mu-seo che le ospitava. Infine si sono trovatecaratteristiche di passaggio tra la tecnicacostruttiva greco-romana e quella medie-vale-moderna nei relitti di metà V sec. d.C.

Come ben si vede, si tratta di uno sca-vo di primario livello non solo per il gigan-tismo delle dimensioni e per la spettacola-rità dei risultati materiali, parametri chetrovano paragone solo nei rinvenimentidella Borsa di Marsiglia e della stazione di

S. Rossore a Pisa; notevoli sono anche leacquisizioni storiche non solo d’ambitolocale o sardo, poiché lo scavo fornisceuna “fotografia” di due degli eventi di svol-ta dell’evoluzione storica e culturale me-diterranea: la fine dell’Impero di Roma e larivoluzione dei traffici marittimi all’av-vento delle repubbliche marinare.

Per l’asportazione dei relitti dal terre-no è stato usato il tradizionale sistema del-lo smontaggio delle parti costitutive, e il

loro ricovero in casse piene d’acqua in at-tesa del trattamento conservativo, chetanti pregevoli risultati ha dato in passato,tant’è che moltissimi dei relitti visibili og-gi nei musei europei, o il cui restauro è an-dato a buon fine, sono stati asportati dalloscavo nel medesimo modo: Pommerolle,Kyrenia, Roskilde, Marsiglia-relitti arcaici,Ma’agan Mikhael, Aveiro A, Mozia, eccete-ra. Circa i relitti asportati interi dallo sca-vo, o si è dovuto smontarli in seguito (Kin-neret), o l’operazione non è andata a buonfine (Grado), o non è andato a buon fine iltrattamento proprio perché fatto sul relit-to intero – Vasa, Mary Rose, Iverdon – onon se ne hanno notizie dopo svariati an-

Alcune fasi dello scavo.

Lo scavo fotografa due momenti cruciali della storia, la finedell’Impero di Roma e l’avvento delle Repubbliche marinare

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Molto positivo è stato anche il risultatodelle recentissime prime prove di caratte-rizzazione fisico-meccanica e chimica do-po il trattamento, per le quali i reperti te-stati danno reazioni del tutto simili a quel-le del legno fresco, effettuate da Marco Fio-ravanti e Marco Togni del DISTAF dell’U-niversità di Firenze. A oggi è stato comple-tato il primo lotto di lavori di trattamentoconservativo dei legni, che riguarda la me-tà di uno dei grandi relitti del V sec. d.C., èstato avviato il secondo lotto, corrispon-dente all’altra metà dello stesso relitto, edè stato finanziato il progetto complessivodi restauro degli altri quattro che si inten-de esporre al pubblico. Nell’attesa dellapossibilità di renderli fruibili, si è procedu-to a un assemblaggio temporaneo e soloevocativo dei legni finora trattati del primorelitto affrontato. Esclusivamente al fine didare conto del lavoro fatto e del suo proce-dere all’opinione pubblica locale – chetanto disagio ha subìto dallo scavo e chemolta aspettativa nutre sulla esposizionemuseale dei relitti – sono stati accostati vi-sivamente i vari elementi, alcuni già da oranella posizione che avranno nell’assettodefinitivo, come la chiglia e alcune ordina-te, e altri appoggiati al pavimento della sa-la di deposito in proiezione piana. È quin-di tenendo presente tali cautele che va os-servata l’immagine che qui si presenta al-lo stesso titolo di testimonianza affattopreliminare e solo evocativa.

La struttura museale che esporrà i re-litti è stata progettata da Giovanni Macioc-co alla fine degli anni ‘80 per esporre i re-perti che illustrano la storia del territorio edella città antica di Olbia, e sorge sull’isolaPeddona, proprio dirimpetto all’area dello

ni, come nei casi di Comacchio ed Ercola-no. Si è deciso di non adottare la recenteformula dell’incapsulamento del relittointero in guscio di vetroresina e simili, chedovrebbe costituire poi anche l’involucroentro il quale operare il trattamento con-servativo con impregnanti o simili, perchéi pur interessanti sviluppi sono ancora so-lo potenziali e tutti da verificare e dimo-strare. Infatti per nessuno dei relitti per iquali è stato perseguito questo sistema diasportazione dal terreno e successivo trat-tamento in guscio (navi di Ercolano neglianni ‘80, Ravenna nel 1998, Pisa dal 1999)è possibile conoscere a oggi l’esito di que-st’ultima operazione.

Anche in un recentissimo accurato ri-esame dello status quaestionis, posterioreallo scavo dei relitti olbiesi, si prende au-torevolmente posizione con nettezza a fa-vore dello smontaggio in scavo. Problemaancora più spinoso dell’asportazione dalterreno è quello del trattamento conserva-tivo di un relitto, uno dei più scottanti del-l’intera materia del restauro di beni cultu-rali. Per quelli di Olbia si è sperimentatoun procedimento innovativo, uno svilup-po e perfezionamento del sistema a “im-pregnazione con amidi” e concomitantedisidratazione controllata, che è meno co-stoso e lungo dell’impregnazione con gli-cole polietilenico (PEG) che va per la mag-giore e consente di ottenere, al contrarioche col PEG, legno del tutto simile peraspetto, caratteristiche fisiche, strutturali,flessibilità al legno originario o – per dirlapiù efficacemente con le parole di Giovan-ni Gallo, lo studioso al quale si deve questainnovazione – “consente di avere vero le-gno e non altro come invece col PEG”.

Per il restauro è stato sperimentato un metodo innovativoche consente di mantenere le caratteristiche del legno

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scavo dei relitti, che in antico chiudeva anord lo specchio d’acqua portuale roma-no. Questa ubicazione era stategica quindiin antico e lo è tuttora, essendo ancora esempre l’isola incardinata tra il centro sto-rico dell’area urbana e i moli, che vedonoin estate il transito di quattro milioni dipasseggeri. Si prevede l’esposizione di cin-que dei relitti principali – tre del V sec. d.C.e due medievali – un albero, un timone ealtri elementi significativi. Una volta rag-giunto l’obiettivo di esporre i cinque relittiprincipali, resterà il problema dell’esposi-zione degli altri, alcuni dei quali non menonotevoli per spettacolarità e per interessescientifico. L’ipotesi attualmente sul tap-peto è la conversione in struttura musealedi un grande capannone dei primi del ‘900che oggi ospita le 75 casse contenenti i re-litti smontati. Anche in questo caso l’ubi-cazione è strategica, poiché esso è sito nelcuore della città, nella più grande area ver-de dell’abitato, l’ex Artiglieria militare, chesta per essere trasformata in parco urbanoche ospiterà, negli altri edifici che vi sorgo-no, istituti universitari sul modello delcampus anglosassone.

La posta in giocoNon è certo questa la sede per parlare de-gli ingenti costi per completare i restauri el’esposizione dei relitti di Olbia, che sonoben lungi dall’essere assicurati, tuttavianon ci può esimere da una breve riflessio-ne complessiva sul problema delle risorsedestinate ai beni culturali in Italia. Troppevolte si cita la necessità che le strutturemuseali siano gestite in modo “moderno”,“manageriale”, “aziendale”, da chi ignorache neppure le grandi istituzioni musealistatunitensi, troppo frettolosamente in-vocate a modello, potrebbero sopravvive-re senza il contributo di mecenati e fonda-zioni benefiche. Anche per il Museo Ar-cheologico di Olbia i costi di gestione quo-

tidiana, oltre a quelli necessari per giunge-re all’esposizione dei relitti, non sarannomai coperti né dagli introiti diretti né daiservizi aggiuntivi, nemmeno se si riuscis-se a dirottarvi tutti i potenziali visitatoriche arrivano in Sardegna. Olbia è una cit-tà a forte vocazione portuale, che para-dossalmente proprio nell’affievolirsi diuna rigida identità tradizionale locale ri-trova finalmente la sua vera identità diapertura e tolleranza, di cosmopolitismo.

Le sue navi nel suo Museo, quindi, non so-lo quale vanto di reperti che pochi con-fronti hanno nel mondo, ma soprattuttospecchio, simbolo e orgoglio di una quasitrimillenaria e ora ritrovata vocazione aguardare verso lontani orizzonti geografi-ci, umani e culturali. La sua vera identità,la sua storica essenza. Tutto questo nonpuò essere monetizzato. Il gonfalone cit-tadino sfoggia una nave antica che a velespiegate sfida il mare. Ora trova sostanzaaddirittura fattuale dal sottosuolo del por-to, e c’è da sperare che la coincidenza siadi buon auspicio.

Rubens D’Oriano, Soprintendenza per i Beni

Archeologici delle Province di Sassari e Nuoro

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Scavi sotto il manto stradale.

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strum Callari, fatto costruire nel 1215 dal-la famiglia signorile dei Visconti contro lacapitale del Regno giudicale di Càlari, oancora la casa-forte costruita nel 1415 daGiovanni Civiller nel suo feudo di Villasòrnel Regno di Sardegna. Ecco perché èsbagliato parlare di castelliere nella Sar-degna, usando parametri geografici chenulla hanno a che fare con le realtà sta-tuali che, a loro tempo, commissionaro-no la costruzione di queste imponentistrutture, utilizzandole per mettere inpratica la loro politica territoriale. Anchedal punto di vista diacronico non bisognadimenticare che, quando alcuni castellivenivano costruiti, altri già avevano ces-sato la loro attività, perché magari eramutato il contesto istituzionale che neaveva reso necessaria l’erezione e conve-niente il mantenimento.

L’età dei JuyghesSenza affrontare in questa sede le proble-matiche delle maestranze che lavoraronoalla costruzione dei castelli, dei modelliarchitettonici, dei finanziamenti per lacostruzione, dei materiali, delle preesi-stenze, dei continui restauri e dei lorocambi di destinazione d’uso, mi limiteròqui a una sintesi sui castelli costruiti (o ri-

P ERCORRENDO LE STRADE della Sarde-gna, soprattutto nei passi più im-portanti e dove, nella storia e fino ai

giorni nostri, avvenivano gli spostamentipiù significativi di uomini e merci, capitadi vedere i ruderi di antichi manieri inerpi-cati in cima a ripide colline. Per lo più sitratta di castelli che ospitavano una decinadi armigeri con il loro castellano, in peren-ne vigilanza sulle produzioni e sul lavorodei territori da loro controllati e semprepronti a mobilitare gli uomini in armi deivillaggi vicini per la difesa del territorio.

Ma fare un quadro generale sulla di-fesa statica in Sardegna nel Medioevo, suicastelli costruiti nell’isola fra l’Alto Me-dioevo e il 1420 circa, è compito quasiimpossibile. Non si può infatti prescinde-re dalla variegata realtà politica e dalleentità istituzionali che animarono i cin-que secoli più luminosi e densi di avveni-menti della storia sarda. Quali entità sta-tuali fecero edificare castelli e fortezze, inquale momento della loro vicenda stori-ca e per quali ragioni queste opere difen-sive vennero costruite?

Esistono del resto evidenti differenzefra il castello di Goceano, eretto nei primitempi del Regno di Torres per una difesadi quello Stato medioevale sardo, e il Ca-

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Tutti i castellidei quattro regniDurante i cinque secoli più luminosi e densi di avvenimenti della storia dell’Isolauna moltitudine di manieri è servita a controllare le periferie e proteggere i confini

GIOVANNI SERRELI

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costruiti) nel Medioevo giudicale sardo,dunque fra l’XI secolo e la fine del Regnodi Arborèa nel 1420, tenendo sempre pre-senti le entità istituzionali, gli Stati cheebbero bisogno di far costruire opere didifesa nel proprio territorio.

Con il distacco dall’Impero bizantino,anche a causa dell’imperversare dei mu-sulmani nel Mediterraneo – che costrinse-ro gli abitanti delle città costiere sarde atrasformare alcune strutture civili in ope-re di difesa, per esempio a Turris, Tharros,Sulci, Nora, Carales – intorno al 900 d.C. sicostituirono nell’isola quattro Stati sovra-ni (Torres, Càlari, Gallura e Arborèa), con ipropri re (in sardo Juyghes), il proprio ap-parato burocratico, le proprie leggi (Cartasde Logu), il proprio Parlamento (Coronas

de Logu), la propria divisione amministra-tivo-elettorale (curadorìas) e i propri con-fini incastellati. Infatti, quando per l’inter-vento di forze esterne gli equilibri fra iquattro Stati medioevali si ruppero, l’esi-genza primaria divenne quella della salva-guardia dei propri confini. Per questo mo-tivo i castelli dovevano ospitare solo pic-cole guarnigioni di soldati per la vigilanzastatica dei confini statuali e per il coordi-namento dell’organizzazione militare giu-dicale. Non erano, in genere, castelli resi-denziali, dove la corte o qualche alto di-gnitario aveva la residenza, ma roccheinaccessibili con la sola funzione di con-trollare i confini e le vie di comunicazionepiù importanti e, soprattutto, di rappre-sentare il potere centrale anche in perife-

Castello di Goceano a Burgos (Sassari).

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Nel cuore del regnoMa se si trattava solo di castelli di confine,come spiegare, allora, l’esistenza fin dalprincipio del XIII secolo di un castello adAcquafredda presso Siliqua, lontano cioèdai confini statuali e quasi nel cuore delRegno di Càlari? Il castello di Acquafreddaesisteva almeno dal 1215, ma la sua cap-pella, dedicata a Santa Barbara, è di certoprecedente e risale almeno al XII secolo; sitratta forse della stessa struttura recente-mente emersa nell’ultima campagna discavi. Siamo in presenza, verosimilmente,di una costruzione difensiva bizantina, uncastrum sede di una guarnigione di limi-tanei, contro i mauri esiliati nel Sulcis; lapostazione strategica, lungo la strada fra lecittà romane di Càrales e Sulci (Sant’An-tioco), e le eventuali strutture vennero ri-utilizzate poi dai sovrani giudicali di Càla-ri come rappresentazione visiva del loropotere, quando, con la loro corte itineran-te, abbandonarono la troppo esposta Cà-rales prima di stabilire, nel XIII secolo, laloro capitale a Santa Igia. Il castello di Ac-quafredda, in cima a una inespugnabilerocca, con la fine del Regno di Càlari(1258) entrò in possesso di Ugolino dellaGherardesca, che lo fece riedificare a guar-dia dei suoi possedimenti sardi; il conte diDonoratico fece costruire anche il castellodi Gioiosaguardia e fondò la città di Villa diChiesa (Iglesias), munita anch’essa di uncastello, detto di Salvaterra; si può notarecome la toponomastica di questi due ulti-mi castelli sia inequivocabilmente legataalla tradizione delle Chansons de Geste.

Alla periferia di Cagliari, oggi è visibi-le il castello di San Michele, costruito nelXIV secolo da Berengario Carròs al centro

ria, vigilando sul territorio circostante.Anche in questo caso, però, le facili

generalizzazioni non ci devono far di-menticare le particolarità e le vicende di-verse di ciascun castello. Il Regno giudi-cale di Càlari salvaguardò i suoi confinicon la costruzione dei castelli Hullastrein agro di Lotzorài, de La Rosa a Gairo, diOsini, di Tissilo nel territorio di Ussassài,di Quirra, che successivamente divennesede del Marchesato omonimo, e di Sas-sai presso Silius. Solo successivamenteacquisì il castello di Sanluri.

Castelli e fortezze nel periodo dei giudicati.

Quando si ruppe l’equilibrio tra Torres, Càlari, Gallura e Arborèala salvaguardia del territorio divenne un’urgenza primaria

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del suo feudo; ma inorigine si trattava pro-babilmente di un ca-strum per vigilare anord la nuova capitaledel Regno di Càlari,Santa Igia. Fra i castellicostruiti dalle grandifamiglie signorili spic-ca il Castel di Castro diCagliari, edificato nel 1215-17 dai Viscon-ti in contrapposizione alla capitale del Re-gno di Càlari e a difesa degli interessi deimercanti pisani nel calaritano; questa cit-tadina fortificata divenne successiva-mente il nucleo catalizzatore dell’odiernacittà di Cagliari, non a caso in lingua sar-da chiamata Casteddu (Castello). Ma l’e-sigenza di costruire delle fortificazioninon terminò con la fine del Regno di Cà-lari e la successiva realizzazione del Re-gno catalano-aragonese di Sardegna; an-che in questo periodo, seppure con altrefinalità, venivano realizzate opere di dife-sa, come la casa-forte di Villasor, fatta co-struire nel XV secolo dal feudatario dellavilla, per difendere il suo feudo dalle bar-dane dei pastori della zona.

Il territorio del Regno di Torres è quel-lo che presenta forse la situazione più ar-ticolata dal punto di vista delle fortifica-zioni. Infatti la rocca di Alghero e i castel-li di Bonnighinu presso Mara, di Bulzi, diCastelsardo, di Casteldoria nei pressi diValledoria, di Chiaramonti, di Capulapresso Bonnanaro, di Monteforte pressoPorto Torres, di Monteleone, di Giave eRosso presso Perfugas, vennero costruitidai Doria nei loro possedimenti a partiredalla fine dell’XI secolo. Sono perciò dellefortificazioni signorili, come quelle fatteedificare dai Malaspina nelle due porzio-ni della loro Signorìa: nel 1112 il castellodi Serravalle con la sua splendida cappel-la affrescata; successivamente, nel XIII se-

colo, i castelli di Osilo e forse di Figulinas.Per quanto riguarda i castelli del Re-

gno di Torres, al centro del suo territorio siergeva il castello di Ardara, roccaforte ecapitale dello Stato, fatto costruire pocodopo il 1015 dalla Juyghissa reggenteGiorgia de Lacon-Gunale (che nel tronosostituiva il fratello Gonnario-Comita,ammalato di lebbra), in seguito all’abban-dono dell’antica capitale Turris. Ad Arda-ra venne anche innalzata, come chiesapalatina, la bella cattedrale romanica inti-tolata a Santa Maria del Regno. Da questopunto nevralgico veniva coordinata la pe-riferia dello Stato. Il confine orientale conil Regno di Gallura era controllato dai ca-stelli di Monteacuto, Olomene in quel diPattada e, presso Ittireddu, Montezuighecon il suo inconfondibile toponimo(Monte del Juyghe, del re). I castelli diMontiferru e Goceano avevano il compitodi vigilare sulla sicurezza dei confini con ilRegno di Arborèa. Fatto costruire nellaprima metà del XII secolo, il bel castello diGoceano, oggi parzialmente conservato,fu testimone delle drammatiche vicendeche, alla fine del XII secolo, contrappose-ro Guglielmo-Salusio IV re di Càlari a Co-stantino II re di Torres; il primo fece asse-diare il castello di Goceano e, espugnato-lo, catturò e violentò («turpiter dehone-stavit») la regina Prunisinda. Passato sottole insegne del Regno di Arborèa, alla metàdel XIV secolo il principe Mariano lo feceriedificare e vi fondò Burgos, paesino an-

Castello di Marmilla a Las Plassas.

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a lungo fra i quattro Stati sovrani sardi delMedioevo – ebbe un’alta concentrazionedi castelli statali posti a guardia dei pro-pri confini. Forse perché era situato qua-si a cuneo fra i due poli più importantidella Sardegna altomedievale, quello lati-no del nord e quello bizantino del sud,nel momento di massima tensione congli altri tre Stati medievali sardi i suoi so-vrani fecero costruire una serie di castel-li posti a guardia dei suoi confini.

Il suo confine orientale era vigilatodal castello di Medusa presso Samugheo,di origine altomedioevale, quando i bi-zantini fecero edificare i castra felicia conperno a Forum Traiani contro le popola-zioni barbaricine. Il confine settentrio-nale era invece guardato dai castelli diBarigadu a Sorradile, Neoneli e Serlapresso Norbello. Quando, nella secondametà del XIII secolo, il Regno di Arborèaapprofittò della fine del Regno di Torresper espandersi verso nord, entrarono insuo possesso anche i castelli di Montifer-ru presso Cuglieri, di Goceano a Burgos edi Monteacuto in agro di Berchidda.

Invece il confine meridionale delloStato arborense era originariamente vigi-lato dai castelli di Arcuentu (presso Gu-spini), di Sanluri, di Marmilla (Las Plas-sas), e in seconda linea da quelli di Baru-mele nelle vicinanze di Ales, Senis e La-coni, quest’ultimo costruito nel 1053. Danotare che, dopo i funesti avvenimentidella fine del XII secolo, quando il bellico-so re di Càlari Guglielmo-Salusio IV invaseil confinante Regno di Arborèa, nel 1206vennero ridefiniti i confini fra i due Stati eil castello di Sanluri passò al Regno di Cà-lari. Quello di Sanluri è, fra i castelli me-

cora esistente. Il castello di Goceano, fra ilXIV e i primi del XV secolo, fu anche unadelle sedi preferite della famosa sovranaEleonora d’Arborèa.Passando a un altro dei quattro Regnigiudicali sardi, il Regno di Gallura è quel-lo per il quale più scarse sono le fonti epiù complicate le vicende. Possiamo co-munque dedurre che, probabilmente acausa della guerra con il Regno di Torres,fra il misterioso re Baldo e Giorgia di Tor-res, nell’XI secolo vennero costruiti i ca-stelli di Balaiano o Baldu in agro di Luo-gosanto, a nord, e di Ponte, presso Galtel-lì, a sud. Solo un secolo dopo, furono fat-ti edificare altri castelli per vigilare il con-fine con i Regni di Càlari e di Torres; fu lavolta di Longonsardo, presso l’attualeSanta Teresa di Gallura, di Orosei, Padu-laccio, in agro di Telti e Pedreso, vicino aOlbia. Infine il Castello de La Fava, pres-so Posada, proteggeva il Regno di Galluradall’Ogliastra calaritana ma anche gliscali costieri; fu edificato intorno al XIIIsecolo ed è tuttora visitabile.

Il più longevoIl Regno di Arborèa – quello che visse più

L’insieme delle fortificazioni signorili è particolarmentericco nel territorio di Torres, a cominciare da Alghero

Torre di San Pancrazio, Castello,Cagliari.

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dievali sardi, l’unico ancora oggi abitabile;edificato in pieno Campidano, al confinefra i Regni di Càlari e Arborèa, lungo la viadi comunicazione più importante chemetteva (e tuttora mette) in comunicazio-ne i due estremi dell’isola, da Cagliari aPorto Torres, passò successivamente alRegno di Sardegna e venne ricostruito nel1355, in soli 27 giorni, nelle forme tuttoraben conservate.

I sovrani di Arborèa furono, quindi,successivamente costretti a far costruireun nuovo castello per contrapporlo a San-luri nel controllo della più importante ar-teria di comunicazione fra il sud e il cen-tro-nord della Sardegna; venne allora eret-to il castello di Monreale presso Sardara, ilquale, non a caso, è assai diverso, comeconcezione, da quelli più antichi: è un ca-stello residenziale, dove talvolta soggior-narono la corte arborense e la stessa Eleo-nora d’Arborèa. Nei periodi di guerra, neisilos del castello di Monreale, venivanoconservate le derrate granarie raccoltenelle pianure e nelle colline dei territori

arborensi. Il castello è, oggi, parzialmenteconservato e, a Sardara, una sezione delMuseo Civico è dedicata al maniero.

Con la completa realizzazione delRegno di Sardegna i castelli giudicali nonebbero più il loro importante ruolo stra-tegico e di presidio del territorio: la nuo-va situazione istituzionale non necessita-va più di queste costruzioni tanto che es-se andarono lentamente in rovina.

Giovanni Serreli, Istituto di Storia dell’Europa Me-

diterranea, Cnr-Cagliari

Castello di Serravalle a Bosa.

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Una miriade di torri costierealla frontiera fra Cristianità e IslamLe fortezze costruite a più riprese tra il XVI e il XVII secolo testimoniano l’evoluzionedella strategia militare della Corona e l’emergenza determinata dalle incursioni dal mare

MARIA GRAZIA MELE

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prese di Pedro Navarro: Peñon de Vélezde la Goméra (1508), Orán (1509), Bugía(1510) e Tripoli (1510), alle quali si deveaggiungere la sovranità indiretta, me-diante rapporto di vassallaggio, su Tre-mecén (riconquistata da Carlo V nel1518), Algeri e Tunisi (1510).

Conquiste a rischioTuttavia, le enclaves cristiane in NordAfrica, non sostenute da una conquistadel territorio circostante, costituivano so-lo dei presidi di una frontiera terrestremolto deboli perché privi di autonomia,la cui sopravvivenza dipendeva dagli ap-

A L BAGNANTE UN POCO DISTRATTO cherivolga un attimo lo sguardo inlontananza accade spesso di

soffermarsi a osservare il profilo di unodei tanti promontori che caratterizzanole nostre coste, sormontato da un’anticatorre spesso diroccata: alcuni avranno vi-sitato quelle di più grandi dimensioni op-pure altre più piccole che hanno avuto lafortuna di essere state oggetto di recentirestauri. Il turista un po’ più curioso chevisiterà la città punico-romana di Thar-ros forse ricorderà di aver letto che lo stu-dioso Alberto della Marmora trascorsequalche giorno nella torre di San Giovan-ni di Sinis, a nord di Oristano; altri anco-ra, infine, avendo scelto le splendidespiagge di Villasimius, potranno visitarela Fortezza Vecchia e leggerne i pannelliesplicativi. Chi giunge in Sardegna dallaSicilia, dalla Campania o dall’area ibericaforse non ci farà caso più di tanto vistoche le torri costiere, simili alle nostre, cisono anche da loro. A che periodo risal-gono, da chi furono costruite e quali fu-rono i motivi che spinsero alla loro realiz-zazione? Il fatto che si ritrovino puntual-mente su quasi tutti i promontori dellecoste sarde indica chiaramente che sitratta di torri di avvistamento per un pe-ricolo che giungeva dal mare; la recipro-ca visibilità indica, inoltre, che facevanoparte di un sistema difensivo.

Ma torniamo indietro nel tempo. Lafrontiera tra Cristianità e Islam nei primidecenni del secolo XVI aveva subito no-tevoli mutamenti rispetto ai secoli prece-denti. All’indomani della caduta del re-gno di Granada (1492), con la quale i ReCattolici completavano la conquista del-la penisola iberica, i limiti della frontieravarcavano il mare giungendo in terranordafricana. Alla sovranità diretta suMelilla (1497) e a quella su Mazalquivir(1505) e Caçaça (1506) seguirono le im-

Torre di Porto Giunco,area marina protetta di Capo Carbonara, Villasimius.In apertura, la torre di IsolaRossa.

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provvigionamenti provenienti dalla Peni-sola. Di fatto non fu mai avviata una verae propria strategia espansionistica, anchecome impegno militare, ma si cercò diconsolidare le conquiste con il minor di-spendio possibile. La Corona era coscien-te dell’importanza di tale espansione perrafforzare la presenza iberica e avviò nelprimo periodo alcuni tentativi di ripopo-lamento. Nonostante ciò, seguendo lemodalità della cosiddetta «occupazioneristretta», la conquista delle enclaves co-stiere nordafricane non fu accompagnatada progetti di penetrazione e controllodell’interno del territorio.

Com’era prevedibile, la reazione all’e-spansione fu immediata e per gli Spagno-li non fu semplice difendere quegli avam-posti di frontiera dagli attacchi turco-barbareschi. Lungo le coste dell’Africasettentrionale, infatti, si erano formatealcune città-stato, satelliti della SublimePorta, in un primo momento governateda funzionari ottomani e poi sempre piùautonome. Il Mediterraneo divenne ilteatro di scontri e di reciproche azioni dipirateria che si accentuarono nel corsodel secolo XVI.

Se focalizziamo l’interesse sul Regnodi Sardegna, fu Cabras, una villa situata a

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teggere il porto. Tutti quanti, lo stessoluogotenente, i consiglieri di Oristano, gliufficiali dei Campidani e i vassalli delleencontradas o distretti di Parte Ocier,Sorgono e Meana, all’interno dell’isola,avevano l’obbligo di contribuire alla dife-sa di quella costa.

Cambia lo scenarioCon l’imperatore Carlo V la questionenordafricana non fu secondaria ma conti-nuò a mantenere un continuo legame conun quadro più generale di politica inter-nazionale. In una situazione completa-mente mutata per la comparsa, la crescitae l’espansione dell’Impero ottomano, cheebbe nel corsaro Barbarossa la sua massi-ma espressione, la politica mediterraneadi Carlo V assunse a tratti un carattere pre-valentemente difensivo, nel quale si inse-rirono campagne militari sicuramente piùenfatizzate, con una concentrazione diforze strepitosa, ma dai pochi frutti.

La particolare situazione vissuta nel-le piazzeforti spagnole nel Nord Africaevidenziava un progressivo stato di de-bolezza che ne avrebbe comportato laperdita, come già aveva previsto Ferdi-nando II. La loro mancata autonomia, lacontinua necessità di approvvigiona-menti dall’esterno e comunque il rarefar-si delle attività economiche per città cheavevano conosciuto tempi migliori, e cheerano punto di sbocco del commerciotransahariano, furono elementi che si ac-centuarono sempre più durante gli annidi regno di Carlo V. Sedi urbane come Bu-gia e Orán, per esempio, avrebbero potu-to costituire un valido strumento percontrastare l’ascesa commerciale di Al-

nord-ovest di Oristano, «quia prope maresita est», a subire le incursioni dei piratiturco-barbareschi. Fu per questo che isuoi abitanti nel 1514 ottennero da Ferdi-nando II l’esenzione dai tributi per diecianni. Quattro anni più tardi, Carlo V con-fermò il privilegio, dopo aver provvedutoa tutelare la città e la costa, preoccupan-dosi di nominare Giovanni de Cardonapodestà e capitano della città e dei Cam-pidani di Oristano con le seguenti moti-vazioni nella carta di nomina: «poiché da

alcuni anni i Turchi e i Mori con le loroimbarcazioni armate giungono nei maridel detto Regno (di Sardegna) per sac-cheggiare e catturare i loro abitanti, comedel resto hanno già fatto…».

L’incarico prevedeva quindi la tuteladella città e del territorio circostante, sof-fermandosi in modo particolare sui turnidi guardia che si dovevano effettuare lun-go le coste per avvistare il nemico e pro-

Nella pagina seguente,la torre di Stintino.

La “Fortezza Vecchia”,area marina protetta di Capo Carbonara, Villasimius.

In seguito alla comparsa e all’espansione dell’Impero ottomanola politica mediterranea di Carlo V accentuò il carattere difensivo

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ta degli abitanti delle coste. Nel 1531 l’im-peratrice Isabella di Portogallo, moglie diCarlo V, ricevette dal corregidor di Mala-ga una bella e lunga lettera, che riportaun quadro generale sulla situazione difrontiera delle coste iberiche: «Toda estamar de Valençia a Cádiç anda llena de na-víos de ynfieles, no se puede navegar porella sin muy gran peligro». Una situazio-ne di insicurezza che si viveva continua-mente in tutte le coste dei regni mediter-ranei della Corona di Spagna e che impe-diva il normale svolgimento delle attivitàeconomiche, anzi colpiva proprio le zonecostiere in cui queste avevano sede.

Le incursioni avevano una frequenzatale che ormai nessuno «osa salir en bar-co a pescar, ni los labradores ni trabaja-dores de los lugares de la costa osan salira sus haziendas, ni estar en sus casas».

geri e quindi indebolire in un certo qualmodo la forza dell’azione corsara, cheaveva in quella città la sua base più im-portante. Ma quando Carlo V lasciò il tro-no, nel 1556, la perdita di Bugía, Tripoli,Tremecén e Algeri non era stata bilancia-ta con altre conquiste. I grandi problemiper i soldati che risiedevano nei presididel Nord Africa, perennemente condizio-nati da una lotta per la sopravvivenza,non erano tanto o solo i Moros y Turcos,ma la scarsità di viveri e di munizioni. Co-sì si esprimerà alla fine degli anni Venti delCinquecento il corregidor di Málaga, rife-rendosi alla guarnigione di stanza nellapiazzaforte di Orán: «tenían mas temorde hambre y de trigo que de Barbarroxa».

Al di qua del Mediterraneo il perennestato di emergenza determinato dalle in-cursioni barbaresche condizionava la vi-

Torre di Porto Giunco e Isola dei Cavoli, vedute dalla spiaggia di Timi Ama,area marina protetta di CapoCarbonara, Villasimius.

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Gonzalo Ronquillo, autore della lettera,proponeva come soluzione la costosapossibilità di armare sei galere e altre pic-cole imbarcazioni. Le parole del corregi-dor riflettono l’urgenza di rimediare auna situazione difficilmente gestibile,per la quale deve ammettere in manieradisarmante l’inadeguatezza di forze emezzi a sua disposizione: «No ay nocheque no vengan a mi avisos y guardas decosta a dezirme “aculla apareçió una fu-sta”, “aculla aparesçieron dos”, y cada díatengo mensajeros de los lugares de la co-sta del damno que padeçen y esperan,como si mi sombra les pudiese dar algúnremedio, la qual es tan pequeña que nome pasa de los pies».

Una situazione di estrema emergen-za che costrinse la Corona di Spagna aprendere provvedimenti, trovando solu-zioni differenti per ciascun regno.

Avamposto naturale contro la Barbe-ria e crocevia obbligatorio delle principa-li rotte tirreniche che collegavano la pe-nisola iberica con i regni di Napoli e di Si-cilia, il regno di Sardegna mantenne ilruolo di retroguardia fintanto che una so-lida catena di piazzeforti nordafricaneconsentì di sorvegliare con una certa effi-cacia la frontiera mediterranea. Tutte lecoste del regno erano a rischio di invasio-ne, ma la perenne scarsità di fondi e gliinteressi legati agli appaltatori delle di-verse attività economiche della zonacondizionavano le scelte della Corona.

Arrivano i rinforziCon i progressi tecnologici segnati dallabalistica, le vecchie mura medioevali, an-che ammesso che fossero ancora in buo-

ne condizioni, non erano più in grado direggere la forza d’urto dell’artiglieria ne-mica. L’impegno più urgente fu quello dirinforzare le piazzeforti sarde secondo lenuove esigenze belliche, ma non tutte lecittà del regno ebbero la fortuna di esserecomprese nel piano di difesa. La Coronadecise di concentrare la maggior parte

delle finanze per la sicurezza delle città diCagliari e di Alghero, a sud e a nord dell’I-sola, affinché si scongiurasse il pericolo diperdere il regno, il cui valore risiedeva so-prattutto nella sua posizione strategica dicrocevia e di base d’appoggio per le varieattività del Mediterraneo, belliche o com-merciali. Il golfo di Cagliari fu il punto diincontro della flotta che andava a ricon-quistare Tunisi nel 1535, Alghero lo fu perla sfortunata spedizione di Algeri nel 1541.

Fu l’ingegnere cremonese Rocco Ca-pellino a progettare i lavori di adegua-mento delle piazzeforti sarde negli anniCinquanta del XVI secolo, anche se alcuni

La torre nei pressi dell’ex cava di Granito "Usai", area marinaprotetta di Capo Carbonara,Villasimius.

L’emergenza divenne estrema e la Corona fu costretta a prendereprovvedimenti per proteggere l’Isola e il suo ruolo di crocevia

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P R E S I D I S P A G N O L I

Tirso fu costruito un grosso torrione; nelfrattempo, gran parte delle risorse delsuo territorio venivano convogliate a so-stegno della difesa di Cagliari, capitaledel regno. L’adattamento delle fortifica-zioni sarde fu infine affidato all’ingegne-re Giorgio Palearo «Fratino», che nel 1578lasciò l’isola per dedicarsi all’adegua-mento delle fortificazioni di Maiorca.

Il conflitto si attenuaCon il passare del tempo, quindi, mano amano che si perdevano le piazzefortimaghrebine, la Sardegna si ritrovava inuna posizione sempre più esposta alleazioni di guerra franco-turca e alle incur-sioni continue dei barbareschi. Dopo unperiodo di supremazia marittima da partedell’Impero ottomano, e successivamentealla battaglia di Lepanto (1571), il conflittofra i Turchi e la Corona di Spagna si fecemeno aspro. Gli interessi dell’Impero ot-tomano si spostarono verso i confini per-siani e verso l’Oceano indiano e la Coronadi Spagna rinunciò definitivamente alladispendiosa politica espansionistica in

lavori rimasero solo sulla carta per scarsi-tà di finanziamenti. Rocco Capellino pro-gettò infatti per la città di Oristano nuovemura munite di bastioni poligonali, ma sidiede priorità alla tutela delle attività pro-duttive e commerciali. Appare indicativala richiesta da parte del rappresentanteparlamentare della città di Oristano direndere navigabile la foce del fiume Tirso,liberandola dalle sabbie che nel tempo sierano depositate, impedendo ai galeoni ditrovare sicuro riparo dagli attacchi deiMori e dei Turchi senza che però si dan-neggiasse la peschiera regia. Richiesta allaquale il sovrano accordò il suo consensoperché pienamente in linea con le diretti-ve e gli interessi effettivi della Corona.

Terreni coltivati a cereali, saline, ton-nare e peschiere, tutte sotto controllo re-gio ma concesse in appalto a esponentidi influenti famiglie di origine iberica,contribuivano a determinare la discre-panza degli interessi tra città e territoriocircostante. Mentre Oristano subiva ungraduale processo di spopolamento e diabbandono, a protezione della foce del

Torre di San Luigi,Isola di Serpentara, area marinaprotetta di Capo Carbonara,Villasimius.

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Nord Africa, privilegiando le recenti con-quiste nel Nuovo Mondo. Nel Mediterra-neo, pertanto, la guerra assunse formemeno costose e i due contendenti conti-nuarono a fronteggiarsi con reciprocheazioni di pirateria. Nell’area italo-iberica,quando oramai l’Impero ottomano avevarinunciato a qualsiasi impresa di invasio-ne, dalle azioni della flotta turca e dalle in-cursioni barbaresche ci si difese, non solorafforzando le piazzeforti marittime, maanche con il varo di flotte, organizzandomilizie locali e creando, a spese di ciascu-no degli Stati mediterranei appartenentialla Corona di Spagna – i regni di Napoli, diSicilia, di Sardegna, di Maiorca, di Valenza,di Murcia, di Granada, del Principato diCatalogna – una catena di torri costiereche avevano la funzione di avvistare i ne-mici e di propagare l’allarme.

L’assetto difensivo del Regno di Sar-degna venne, quindi, rivisto nell’ultimotrentennio del XVI secolo, con un adegua-mento delle piazzeforti cittadine ma so-prattutto cercando di ottenere un maggio-re controllo del territorio mediante un si-

stema che rendeva necessaria la costru-zione di un notevole numero di torri co-stiere di avvistamento, costruite per lo piùa spese della popolazione locale, simili aquelle già erette negli altri regni della Co-rona. La scarsità di finanziamenti impo-neva infatti la scelta di una difesa statica,per gli alti costi di costruzione e manteni-mento che avrebbe comportato una flot-ta. L’azione integrata tra le guardie costie-re e le milizie della zona avrebbe dovutogarantire un primo intervento in attesadell’arrivo dei soldati dalla terraferma edelle guarnigioni delle piazzeforti. Le cittàe i baroni avrebbero dovuto provvedere apresidiare il territorio circostante, mentrei rimanenti tratti di costa sarebbero statiriservati a un istituto appositamente crea-to durante il regno di Filippo II, l’Ammini-strazione generale delle Torri, che rimasein attività anche in periodo sabaudo peressere soppressa nel 1842.

Ora, di quelle torri realizzate a più ri-prese soprattutto nel corso del XVI e delXVII secolo, spesso a costi troppo alti o conprogettazioni sommarie, non rimangonoche le testimonianze materiali. Costruiteper difendersi contro le incursioni di Mo-ros y Turcos, potrebbero essere valorizza-te per fungere da collegamento con il ter-ritorio circostante, come un tempo, e pro-porre così nuovi percorsi turistici, magarisfruttando le nuove tecniche multimedia-li, come proposto recentemente per la tor-re di Santa Maria Navarrese, nella costadella Sardegna occidentale. Oppure, esau-rita già da tempo la funzione difensiva esfruttando la loro proiezione sul mare, percostituire un tramite con l’altra sponda delMediterraneo.

Maria Grazia Mele,

Consiglio Nazionale delle Ricerche

Istituto di Storia dell'Europa Mediterranea