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Astronave Terra

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A0507

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Un grazie di cuore a Gianfranco Bologna per il suo incoraggiamento e aFrancesco Cattaneo per le bonarie critiche in materia economica

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Astronave Terra

Silvana Galassi

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Copyright © MMVIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 88–548–0425–8

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: marzo 2006

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Ai miei studenti

per i quali e con i quali

ho iniziato questo percorso

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Indice Premessa ........................................................................................ 9

Prima Parte

Biosfera–2 ...................................................................................... 13

Energia e informazione ................................................................. 16 Evoluzione ..................................................................................... 21 Il tempo degli uomini e quello delle stelle .................................. 26 Civiltà scomparse .......................................................................... 31

Ordine e disordine ......................................................................... 34 Contaminazione globale ............................................................... 38 Il costo del riordino ....................................................................... 41 La Terra non è fragile ................................................................... 46

L’Astronave Terra ......................................................................... 49

Seconda parte

Fare i conti col pianeta .................................................................. 55

L’illusione tecnologica ................................................................. 57

Economia ecologica ...................................................................... 60 L’impronta ecologica .................................................................... 65 Qualità o quantità .......................................................................... 70 Globalizzazione e saperi locali ..................................................... 76

Il costo del sapere .......................................................................... 80 Gli OGM salveranno il Terzo Mondo dalla fame? ..................... 84 Il decollo della nuova economia .................................................. 88 Un mondo migliore è possibile? .................................................. 91

Bibliografia .................................................................................... 95

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Premessa

La maggior parte di noi ha vissuto l’esperienza di guardare la propria città dall’oblò di un aereo e di vederla rimpicciolire fino a non distinguere le persone, le auto, le case, le strade. Ma solo pochi esseri umani hanno avuto l’emozionante esperienza di osservare la Terra dallo spazio e di percepire il nostro pianeta come un’entità di dimensioni limitate che, fatte le debite proporzioni, non era poi così differente dall’astronave sulla quale stavano viaggiando.

I sei miliardi di passeggeri a bordo dell’astronave Terra a quelle distanze scompaiono nella materia indistinta che è stata immortalata nelle riprese dallo spazio.

È da qui che vi propongo di cominciare un viaggio comune, da questa sfera rotante che solo da poche centinaia di anni abbiamo cominciato a immaginare e da meno di mezzo secolo abbiamo potuto fotografare, per rispondere a una domanda che credo stia a cuore a tutti: quanti astronauti può trasportare la Terra?

Quello che vi propongo è un viaggio che a volte richiederà di andare a ritroso nel tempo per pescare nei nostri ricordi personali o molto più indietro, fino all’origine della vita sul pianeta. Altre volte si tratterà di spostarsi nello spazio in aree remote dove nessuno di noi ha mai messo piede o in località più vicine, anche molto familiari che vi chiederò di guardare con altri occhi come è necessario fare per scoprire cose nuove.

Il viaggio si addentrerà nei sentieri di due discipline, l’ecologia e l’economia per riflettere su quello che le accomuna e le divide per tentare di arrivare a una sintesi che ci possa far sperare in un futuro migliore o almeno non peggiore del presente per noi e per i nostri discendenti.

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PRIMA PARTE

Quando è viva davvero, la memo-

ria non contempla la storia, ma

invita a farla. Più che nei musei,

dove la poveretta si annoia, la me-

moria è nell’aria che respiriamo; e

lei, dall’aria ci respira

Eduardo Galeano

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Biosfera–2

Nel 1991 negli Stati Uniti fu avviato un grandioso espe-rimento, denominato Biosfera 2, che doveva servire a riprodurre su piccola scala l’ecosistema Terra (Biosfera 1) per studiarne le capacità biorigenerative.

Si trattava di una serie di cupole ermetiche con la volta in vetro (Fig. 1), per permettere il passaggio dei raggi solari, che occupavano complessivamente una superficie di 1,27 ettari.

Nelle cupole furono trasportati suolo, acqua, piante e animali in modo da ricostruire una porzione di foresta pluviale, una di deserto, una di oceano e così via, arrivando a rappresentare 12 tipi di ecosistemi. Una porzione del suolo era dedicato all’agri-coltura intensiva e all’allevamento di animali domestici perché l’equipaggio di questa biosfera avrebbe dovuto essere indipen-dente dal mondo esterno per i propri bisogni alimentari.

Gli otto “biosferiani” vissero due anni chiusi in questo pic-colo mondo senza mai uscirne, lavorando alacremente per il suo e proprio mantenimento, ricevendo dall’esterno solo l’energia del sole e combustibili fossili.

Nell’autunno del 1993 l’esperimento fu sospeso perché la composizione dell’aria si era alterata impoverendosi di ossigeno e gli abitanti della “capsula terrestre” cominciavano a soffrire di malori simili a quelli provocati dalle atmosfere rarefatte delle quote elevate.

Nel complesso l’intera impresa fu considerata un grosso spreco di denaro (4 milioni di dollari solo per il rifornimento energetico) da gran parte del mondo scientifico con ben poche ricadute di utilità pratica.

Probabilmente per questo ebbe ben poca risonanza e gli abitanti di Biosfera 2 furono seguiti dai mezzi di divulgazione di massa molto meno dei protagonisti del “Grande fratello” o di analoghi esperimenti di coabitazione coatta.

Per amor di cronaca, i “biosferiani” non ebbero problemi relazionali e godettero di ottima salute ma furono considerati inadeguati dal punto di vista scientifico anche perché dovendo

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dedicare metà del loro tempo di veglia alla coltivazione e alla preparazione del cibo e quasi tutto il tempo restante ai lavori di manutenzione e riparazione non erano in grado di monitorare adeguatamente gli ecosistemi presenti nelle capsule.

Dal punto di vista del progresso nel campo dell’ecologia umana Biosfera 2 fu giudicato, invece, un notevole successo (Odum,1996).

Tanto per cominciare rivelò che solo il 4% dello spazio disponibile poteva essere occupato dai bioferiani; tutto il resto era necessario per l’auto mantenimento degli ecosistemi i quali finirono per alterarsi probabilmente perché le proporzioni rela-tive delle diverse componenti erano tali da produrre uno sbilan-ciamento tra ossigeno prodotto dai vegetali e quello consumato dagli animali e dai microrganismi del suolo.

Visto a più di dieci anni di distanza, questo costoso espe-rimento rappresenta una lezione importante dal punto di vista delle nostre capacità di controllo dei sistemi naturali. A questi costi, ben poche persone potrebbero sopravvivere e se la vita è invece possibile per miliardi di persone dobbiamo ringraziare i sistemi naturali che svolgono gratuitamente i loro servizi di rigenerazione dell’ossigeno e dell’acqua, di termostatazione e umidificazione delle masse d’aria, di rifornimento di materie prime e cibo per il nostro sostentamento e, infine, di smalti-mento e riciclo dei nostri rifiuti.

Il fallimento di Biosfera 2 ci dovrebbe anche ammonire sulle difficoltà che incontriamo ogni volta che tentiamo di controllare i sistemi naturali e metterci di fronte all’amara conclusione che evidentemente non li conosciamo abbastanza.

Negli anni più vicini a noi esperimenti di questo tipo non sono stati ripetuti. Si preferisce lavorare con modelli matematici in cui le ricostruzioni sono virtuali e non coinvolgono diretta-mente attori umani.

Tuttavia, anche senza dichiararlo apertamente, la nostra spe-rimentazione sull’ecosistema Terra sta continuando su scala reale, come dimostrano alcuni cambiamenti globali, come l’au-mento della concentrazione di anidride carbonica fino a livelli mai raggiunti in decine di migliaia di anni prima dell’era

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tecnologica o la riduzione dell’ozono stratosferico provocato dai clorofluorocarburi.

Lo scopo della prima parte di questo libro, che vuole semplicemente dare spunti di riflessione sul nostro modo di abitare la Terra, è di capire perché la Natura sia così difficile da riprodurre o, per usare le parole di Barry Coomoner (1977), perché “la Natura sia l’unica a sapere il fatto suo”.

Figura 1. Biosfera 2 (www.informativos.telecinco.es).

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Energia e informazione

In ultima analisi tutta la vita si origina dal Sole: la Terra è quasi del tutto isolata per la materia ma riceve energia dalla sua stella sotto forma di onde elettromagnetiche che noi percepiamo come radiazioni luminose.

Siamo tutti consci di questa dipendenza e lo eravamo già nell’antichità.

Quello che invece viene spesso ignorato è che l’energia ce-duta dal Sole alla Terra prima che noi facessimo la nostra com-parsa ha azionato il motore dell’evoluzione, trasformando un pianeta inanimato nel mondo meraviglioso e pieno di forme di vita di cui la nostra specie si è appropriata.

Howard H. Odum, ha chiamata eMergia o “energia emer-gente” l’energia accumulata dagli e negli esseri viventi sia attraverso i processi evolutivi sia grazie al flusso di energia che costantemente attraversa gli ecosistemi attuali.

Forse in un modo del tutto intuitivo alcune culture conside-rate primitive, come gli indigeni delle due Americhe o i seguaci della “new age” si avvicinano maggiormente all’idea del valore in sé delle opere della Natura, alle quali attribuiscono un conte-nuto energetico, che si materializza come un’aura attorno alle persone o un alone di luce che si diffonde attorno alle piante secolari. Questo alone, del resto, rappresenta una sfumata regio-ne di confine tra scienza e filosofia:

“Il sentimento della nostra evoluzione e dell’evoluzione di tutte le cose nella durata pura è lì, e disegna intorno alla rappre-sentazione intellettuale propriamente detta un alone, una frangia di luce che sfuma a poco a poco nella notte” (Bergson, 1970).

Un albero, quindi, non racchiude solo quel poco di energia che si sprigiona quando bruciamo il suo tronco ma è, come tutti gli esseri viventi, un sistema che ha tradotto in organizzazione e servizi l’energia che ha assorbito e le informazioni che ha eredi-tato dal seme che l’ha generato.

È in grado di ospitare e mettersi in relazione con altre specie viventi che dipendono energeticamente da lui per la loro so-

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pravvivenza, fornisce ombra e contribuisce a regolare il clima con la sua traspirazione, mantiene saldo il suolo e molte altre cose ancora.

Un albero centenario ha accumulato molta più eMergia di un giovane pioppo; non solo il suo legno è più compatto e prezioso ma le relazioni con gli altri organismi del bosco o della foresta sono molto più numerose e complesse.

L’accumulo di eMergia in Natura è avvenuto nel corso del-l’evoluzione dalle semplici strutture che per prime hanno “in-ventato” la fotosintesi, fissando negli zuccheri l’energia del Sole, a ecosistemi complessi come la foresta tropicale.

La Natura ha speso l’energia a sua disposizione sostanzial-mente in due modi: nell’aumento delle specie esistenti, la cui varietà può essere definita “biodiversità”, o in complicati siste-mi di regolazione che chiameremo “bioingegneria”.

Nella fascia equatoriale dove l’energia del sole è disponibile in modo uniforme nel corso delle stagioni e le condizioni clima-tiche sono stabili si realizza la massima biodiversità: è il trionfo delle lussureggianti foreste tropicali che ospitano il più grande numero di specie vegetali e animali del pianeta.

Dove il clima non è favorevole alla vita, la Natura seleziona poche specie capaci di sopravvivere alla mancanza d’acqua, agli sbalzi termici, alle temperature estreme, grazie ad adattamenti fisiologici e metabolici complicatissimi.

Il cactus che comunemente vediamo nei film western, quello a tuba d’organo, ha il fusto sviluppato in altezza per esporre la mi-nima superficie al sole caldo di mezzogiorno e la massima ai rag-gi obliqui delle prime e ultime ore della giornata. In questo modo limita al massimo la traspirazione e la conseguente perdita d’ac-qua. Ma non è tutto: il cactus, come tutte le piante grasse, non ha foglie e la fotosintesi avviene nel tronco, riducendo al minimo la superficie che traspira. Inoltre, la fotosintesi avviene in due tem-pi: di notte la pianta apre gli stomi e lascia entrare l’anidride carbonica, di giorno realizza la fotosintesi a stomi chiusi sempre per evitare di perdere l’acqua accumulata nei suoi tessuti.

Il dromedario, corrispondente animale dell’adattamento al clima del deserto, utilizza il contenuto della gobba come riserva

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d’acqua, ricavandola dai grassi con un processo metabolico. La pelle dura e lo spesso strato di grasso della schiena lo protegge anche dai raggi del sole mentre la pelle nuda del ventre gli consente di rilasciare calore. Il naso raffredda l’aria con un sistema di passaggi convoluti, che funzionano da scambiatori a controcorrente. Il rene produce urine molto concentrate.

L’investimento eMergetico in biodiversità si mantiene nella foresta tropicale grazie all’autoregolazione degli organismi che la compongono: la foresta funziona come un enorme climatiz-zatore, all’interno del quale l’umidità è costantemente elevata per effetto della traspirazione delle piante. Dalle chiome degli alberi a decine di metri dal suolo verso la superficie del suolo stesso si realizza una gradazione di microclimi in cui piante rampicanti, insetti e organismi insettivori possono trovare le condizioni ottimali per la loro esistenza. Questa enorme varietà dona stabilità al sistema che è in grado di reagire alle perturba-zioni esterne grazie alle molteplici interazioni che ne regolano il funzionamento complessivo. Solo quando vaste porzioni di foresta vengono eliminate si assisterà a variazioni irreversibili del microclima che porterà alla desertificazione. In tutti gli altri casi, come il verificarsi di un incendio spontaneo o la caduta di un albero morto di vecchiaia o abbattuto da un fulmine, la foresta riparerà spontaneamente i danni subiti, con un vigore che le è dato dalla sua enorme forza vitale.

Gli ecosistemi energeticamente poveri non sono in grado di esprimersi in una grande varietà di forme di vita e in questo caso ogni singola specie risulta preziosa per il mantenimento dell’assetto generale; in un deserto o nella tundra artica la scom-parsa di una specie potrebbe significare una perdita eMergetica molto ingente perché la Natura ha investito molto in bioinge-gneria e impiegherebbe molto tempo per ripercorrere il cam-mino evolutivo che ha generato quella forma vivente.

Il patrimonio naturale che deriva dalla trasformazione del-l’energia del Sole in materia vivente si può misurare in “unità di informazioni”, che negli esseri viventi sono codificate nel DNA (acido desossiribonucleico) e nell’RNA (acido ribonucleico). Queste macromolecole sono composte da triplette di piccole

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molecole, che si ripetono in diverse combinazioni come le perle colorate di una collana, creando un linguaggio chimico che si traduce in forme e funzioni vitali.

Un paragone che può aiutare a capire come le sequenze chimiche dei geni possano immagazzinare e trasferire informa-zioni è quello della memoria dei computer, che si misura in bit o Megabit o Gigabit. Anche in questo caso si tratta di sequenze più semplici di quelle del DNA perché appartenenti a un codice binario (sì–no, acceso–spento) ma pur sempre sequenze.

L’eMergia della Natura, dei suoi singoli componenti e dei sistemi complessi, è memorizzata nei computer viventi, come la foresta tropicale o il fondo dell’oceano, ma è anche in grado, a differenza dei computer di crescere da sola perché i viventi conservano e riproducono la memoria ricevuta.

La biodiversità è il frutto di un percorso di milioni di anni in cui le informazioni si sono accumulate e trasmesse da un organismo all’altro in una staffetta senza sosta e che ora ci ap-paiono nella varietà delle forme viventi o nella molteplicità dei loro sistemi di funzionamento e di risposta agli stimoli esterni.

Noi conosciamo per ora solo una parte del codice genetico dei 30–60 milioni di specie che popolano la Terra e dei “ser-vizi” svolti dagli ecosistemi ma, partendo da quel che è cono-sciuto, possiamo immaginare l’enormità delle informazioni co-dificate nella banca mondiale del DNA e dell’eMergia accumu-lata dalla Natura nel corso dell’evoluzione.

Affinché il concetto di eMergia risulti familiare a tutti i let-tori vale la pena di riportare un esempio che possiamo speri-mentare su noi stessi.

Immaginate di quantificare il costo energetico necessario per leggere e comprendere una pagina di questo libro; penso che tutti convengano che si tratti di ben poca cosa. Ora provate a pensare all’energia che è stata necessaria per imparare un lin-guaggio scritto e per consentire la comprensione del testo a livelli di difficoltà sempre maggiori. Senza queste solide basi culturali il foglio che vi sta sotto gli occhi vi sembrerebbe un inutile groviglio di segni. Tutti questi passaggi che apparten-gono alla nostra formazione educativa e culturale saranno da

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considerare nel costo eMergetico complessivo della lettura del testo che state esaminando in questo momento.

Quando memorizziamo le nostre esperienze predisponiamo la nostra mente a una maggiore capacità di comprensione e aumentiamo la nostra eMergia mentale. Scambiandoci esperien-ze e informazioni facciamo crescere l’eMergia delle persone con le quali comunichiamo, l’eMergia del gruppo e della società in cui viviamo.

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Evoluzione

L’energia fluisce negli ecosistemi dalle foglie delle foreste e dalle alghe degli ambienti acquatici, che sono in grado di fis-sarla in energia chimica, agli animali erbivori che a loro volta costituiscono la preda di quelli carnivori o dei parassiti.

Tuttavia la complessa organizzazione dei viventi, fitta di relazioni tra simili e tra membri di comunità, andrebbe perduta se non ci fosse modo di trasmetterla ai propri discendenti.

Con la riproduzione, comunque essa avvenga, gli esseri viventi assicurano la trasmissione di tutte le informazioni neces-sarie alla sopravvivenza e alla vita di relazione con le altre specie alla propria discendenza.

Dawkins, un genetista che io trovo un po’ cinico, arriva a ridurre gli esseri viventi al ruolo di precari involucri utili solo a propagare nel tempo e nello spazio il loro contenuto d’informa-zione, cioè il loro patrimonio genetico. Nel “Gene egoista” la lotta per la sopravvivenza, l’istinto materno, le cure parentali sono viste come strategie messe a punto nel corso dell’evolu-zione per rispondere alla prorompente necessità del DNA di riprodursi e modularsi nel tempo, adattandosi ai piccoli cambia-menti che avvengono all’interno degli ecosistemi o ai grandi cambiamenti planetari che sono avvenuti in seguito a sposta-menti della crosta terreste, eruzioni vulcaniche, urti di meteoriti. Se le cose stessero così finiremmo per avvalorare la pessimi-stica visione della Natura maligna di Leopardi.

In realtà l’egoismo della specie e la malvagità della Natura vengono superati dal concetto stesso di evoluzione, che implica qualcosa di più della necessità di sopravvivere nel tempo. Evol-versi vuol dire cambiare e i cambiamenti sono il frutto di una strategia di sopravvivenza collettiva che ci dovrebbe far pensare a uno sforzo universale, non a una necessità individuale.

Effettivamente, l’osservazione delle comunità naturali porta a concludere che le strategie di collaborazione tra specie rispon-dano quasi sempre in modo più adeguato all’uso ottimale delle risorse disponibili in un ecosistema rispetto alla lotta per la

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sopravvivenza che si realizza più comunemente in situazioni estreme e instabili.

Per rappresentare il cammino della Natura nel corso del-l’evoluzione è stata usata la metafora della “Regina Rossa” (Van Valen, 1973). La Regina Rossa è quella degli scacchi di “Attraverso lo specchio” di Lewis Carrol, che prende Alice per mano e la trascina nella sua corsa che le porterà sotto lo stesso albero da cui erano partite. Quando Alice domanda alla Regina perché corre, lei risponde che così deve fare se vuol rimanere nello stesso posto, se volesse andare oltre dovrebbe correre an-cora più forte.

Secondo questa ipotesi la selezione naturale sarebbe una risposta all’ambiente che cambia e che obbligherebbe la Natura a una corsa continua per mantenere la perfezione.

L’immagine della Natura che insegue la perfezione è indub-biamente suggestiva e più gratificante dell’ipotesi genetica di Dawkins. Tuttavia, mi è difficile condividerla perché sottinten-de un progetto deterministico, mentre non c’è nessuna evidenza di un obiettivo da raggiungere nel cammino dell’evoluzione.

Tra le ipotesi che ho incontrato sinora quella che mi con-vince maggiormente è quella di Maturana e Varela (1987) se-condo i quali il frutto dell’evoluzione non corrisponda al me-glio in assoluto; la Natura non seleziona l’organismo più adat-to, quello perfetto per le condizioni esistenti ma, più semplice-mente l’adatto.

La sopravvivenza non viene realizzata in un solo modo e da una sola specie: c’è una convenienza a creare tutto ciò che è possibile e a investire in relazioni che regolano il funzionamen-to dell’individuo, della popolazione, della comunità e dell’eco-sistema. Nel processo creativo molto è affidato al caso.

Sgombrato il campo dalla convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili, resta il fatto che si tratta pur sempre di informazioni accumulate e selezionate nel corso del tempo, una quantità enorme di tentativi riusciti e non riusciti di cui solo i primi sono sopravvissuti alla verifica della loro funzionalità.

La vita, infatti, è il risultato non solo delle specie che abitano ora il pianeta, un insieme di sistemi capaci di affrontare il

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cambiamento, duttili e adattabili, molto complessi e impreve-dibili cioè “vitali” ma anche di percorsi a fondo cieco di cui molto spesso si sono perse le tracce.

L’ipotesi della Regina Rossa è contrastata anche dal fatto che il cammino della Natura è stato più volte interrotto da “inci-denti di percorso” che hanno distrutto gran parte del lavoro che aveva costruito.

Secondo Jay Gould, che fu professore di geologia, biologia e storia della scienza, il corso dell’evoluzione oscilla tra situa-zioni di stabilità e instabilità che portano a equilibri temporanei, definiti “equilibri punteggiati” (Gould, 1987).

Secondo questa versione, esiste una soglia minima di com-plessità per dare origine alla vita, chiamato muro della minima complessità; la maggior parte delle specie vissute nelle ere passate e tuttora in vita è rappresentata da organismi molto semplici, addossati al muro della complessità minima (Fig. 2), che rappresenta il punto di partenza di ogni percorso evolutivo; le specie più complesse, come la nostra o i grandi rettili estinti, sono esperimenti costosi in termini eMergetici che sono in grado di resistere solo in condizioni di stabilità climatica e di abbondanza di risorse, prototipi di lusso, insomma.

Figura 2. L’evoluzione secondo la teoria degli “Equilibri punteggiati” di Gould. La linea spessa rappresenta un primo percorso evolutivo che portò ai grandi rettili, la linea sottile il percorso più recente che ha portato ai vertebrati attuali, tra i quali l’uomo.

complessità

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La specie umana è forse la forma più complessa sinora ap-parsa sul nostro pianeta ma, se la teoria di Gould è esatta, com-plessità significa anche precarietà. Se si verificasse un’esti-nzione di massa l’esperimento ricomincerebbe dai batteri e dalle alghe ma difficilmente arriverebbe all’Homo sapiens.

L’idea che l’elevato investimento eMergetico che la natura ha fatto per creare la specie umana possa essere giustificato da un eventuale ruolo “di gestione intelligente” delle altre forme di vita è una grossa forzatura non suffragata da evidenze scien-tifiche.

In realtà, la forma di vita più intelligente che esiste attual-mente sulla Terra svolge un ruolo distruttivo nei confronti delle altre specie viventi con le quali condivide il pianeta, contri-buendo più al loro degrado che al loro mantenimento.

Secondo Umberto Galimberti (2000) il mito dell’uomo “ga-rante” del creato nacque col cristianesimo e si accentuò con l’Umanesimo, l’Illuminismo e, infine, con la società tecnolo-gica: “A questo punto la scienza da Dio passa all’uomo, e con la scienza la sua onnipotenza, se non come dato di fatto senz’altro come progetto, che è quanto basta perché l’uomo possa intra-prendere la sua avventura di creazione di una nuova Terra, su imitazione di Dio, anche senza di Dio”.

Ma Dio o, se preferite, la Natura ha un tempo per creare che è commisurato al tempo per riparare: un esperimento mal riu-scito viene eliminato e complessi equilibri si rompono e si ri-creano in un arco temporale che sfugge alla nostra capacità di osservazione. L’uomo, a differenza di Dio, non è immortale e, ed è anche l’unica specie consapevole della propria condizione mortale; per questo si affanna a ottenere il massimo della pro-pria soddisfazione e affermazione.

Credo che sia proprio la fretta, che sempre più caratterizza la cultura dell’uomo tecnologico, la causa maggiore dei nostri mali.

La concezione del tempo, che ha attraversato il pensiero filo-sofico dall’antichità ai giorni attuali, è alla base del nostro modo di rapportarci col mondo che ci circonda.

Nella mitologia antica e in molte filosofie orientali il tempo è rappresentato da una ruota che riprende l’idea di alternanza del

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giorno e della notte e del ripetersi delle stagioni, eventi che scandiscono con regolarità il tempo della veglia e quello del sonno, quello della semina e del raccolto. La ruota del tempo macina la materia che si trasforma continuamente generando nuova vita dalla morte. La reincarnazione delle anime è la lo-gica conseguenza del pensiero ciclico per cui l’energia vitale che scompare agli occhi di chi vede spegnere una vita deve ne-cessariamente fluire in una vita nuova.

Il ciclo del tempo si è spezzato con le religioni monoteiste e con l’idea stessa di creazione: “In principio Dio creò il cielo e la Terra”, sta scritto nella Genesi.

Anche l’idea di evoluzione di Darwin e dei suoi seguaci è proiettata nella direzione della freccia del tempo che si origina con il “big bang” e finisce molto probabilmente con l’espansio-ne dell’universo verso un caos infinito.

Lo sviluppo lineare del tempo sta alla base della nostra ansia del vivere e, per molti di noi, del desiderio di lasciare tracce tangibili del nostro passaggio.

Alcuni scienziati, come Einstein e filosofi ,come Bergson e Husserl, hanno messo seriamente in discussione l’idea dell’ine-luttabile scorrere del tempo indipendentemente dalla percezione di chi lo vive, introducendo una concezione relativistica o sog-gettiva fino ad arrivare al pensiero di Severino, filosofo contem-poraneo che afferma che “tutto è eterno”.

Forse il modo più convincente di descrivere il concetto di tempo è quello di sant’Agostino: “Se nessuno me lo chiede, lo so. Se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”.

Su queste riflessioni torneremo poi. Per il momento possia-mo accontentarci di affermare che gli avvenimenti che hanno sinora caratterizzato la storia della Terra vanno seriamente ri-considerati alla luce della velocità con i quali si sono manifesta-ti, ricordando che la velocità non è altro che il numero o l’inten-sità dei cambiamenti riferiti all’unità di tempo, così come noi siamo abituati a misurarlo in ore, giorni, anni o miliardi di anni.

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Il tempo degli uomini e quello delle stelle

Un giorno mia figlia, tornando da scuola, mi disse allarmata che temeva di non rivedere più il sole. Pioveva da giorni e aven-do sentito dire che il clima sta cambiando, si aspettava un nuovo diluvio universale. Per tranquillizzarla le ho risposto che era vero che il clima stava cambiando ma molto lentamente.

“C’è il tempo degli uomini e quello delle stelle” le ho detto, “le stelle si accendono e spengono in tempi così lunghi che noi non riusciamo neppure a immaginarli. Il sole splenderà ancora a lungo e lo rivedrai molto presto”.

A un pubblico adulto, tuttavia, credo sia importante far ca-pire che i cambiamenti climatici provocati dalle attività umane, sebbene poco vistosi rispetto a quelli avvenuti nelle ere geolo-giche passate e a cui si andrà incontro per effetto del continuo riscaldamento del Sole, hanno la caratteristica allarmante di es-sere la conseguenza del repentino cambiamento della composi-zione atmosferica provocato dalle combustioni di riserve fossili. Quando un fenomeno globale di verifica in pochi decenni non è facile valutare le conseguenze che può generare a livello clima-tico e per questo i modellisti sono alquanto incerti e discordanti nelle loro previsioni.

Qualcuno addirittura contesta la credibilità dell’ipotesi che l’aumento della CO2 provocherebbe variazioni climatiche, con-fidando nelle capacità di compensazione del Pianeta.

Forse per questo vale la pena di soffermarsi sul perché la scala temporale del cambiamento sia così importante.

La Terra ha circa 4,5 miliardi di anni ma per il primo miliar-do si ritiene che non abbia ospitato alcuna forma di vita. L’atmosfera di allora era quasi esclusivamente composta da ani-dride carbonica, come quella di Venere e Marte.

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Figura 3. Spirale del tempo dalla formazione del sistema solare a oggi. (Mo-

dificato da Cloud, 1989)

A partire da 2,5 miliardi di anni fa (Fig. 3) gli organismi fotosintetici marini cominciarono a produrre ossigeno. Questo gas di scarto della fotosintesi passò dagli oceani all’atmosfera terrestre e quando la sua concentrazione arrivò attorno all’1% formò lo scudo di ozono, in grado di proteggere le molecole della vita dalle radiazioni ultraviolette contenute nelle radia-zioni solari. Solo a partire da questo momento la vita fu pos-sibile anche sulle terre emerse in cui si svilupparono estensioni enormi di foreste. Questo è un classico esempio di feed–back

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positivo in cui la crescita degli alberi accelera l’arricchimento dell’atmosfera in ossigeno.

Questo gas, che è così necessario per la vita animale, è, tut-tavia infiammabile e all’incirca 600 milioni di anni fa incendi innescati da fulmini bruciarono grandi estensioni di foreste di eucalipti e conifere. L’aumento della CO2 prodotto da questi in-cendi catastrofici ebbe alla fine un effetto benefico per la vita sulla Terra perché fu la causa dell’effetto serra, che portò la bio-sfera, cioè la zona del Pianeta popolato da forme viventi, alla temperatura media di 15 °C. Da allora in poi l’atmosfera è ri-masta abbastanza stabile con circa 1/5 di ossigeno e 4/5 di azo-to. La CO2 ha una concentrazione molto più bassa e proprio per questo i nostri apporti sono in grado di farla crescere.

Come si può valutare percorrendo la spirale del tempo (Fig. 3) gli avvenimenti che hanno portato a variare la composi-zione dell’atmosfera terrestre furono molto lenti e molto lontani rispetto alla comparsa dell’uomo sulla Terra, avvenuta circa 150.000 anni fa.

Se il tempo intercorso dall’inizio della vita sulla Terra al momento attuale fosse rapportato a una sola giornata, la storia dell’umanità sarebbe tutta concentrata nel quarto di secondo pri-ma dello scoccare della mezzanotte.

Eppure in questo breve spazio temporale pare che siamo riu-sciti a cambiare la composizione dell’atmosfera terrestre al pun-to da modificare l’entità dell’effetto serra.

Grazie all’ostinazione di uno studioso dell’atmosfera che se-guì per molti anni a partire dal 1957 le registrazioni delle con-centrazioni di anidride carbonica dell’osservatorio di Mauna Loa nelle Hawaii, noi sappiamo con certezza che la concentra-zione dell’anidride carbonica nell’atmosfera terrestre è passata da 310 a circa 380 parti per milione. Da indagini condotte sulle carote di ghiaccio dell’Antartide che hanno intrappolato l’aria di tempi ancora più lontani si è riusciti a ricostruire l’andamento della CO2 dal 1700 (Fig. 4) quando la sua concentrazione era 270 ppm.

In anni più recenti gli scienziati sono riusciti a prelevare ca-rote lunghissime perforando i ghiacci antartici e le analisi del-

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l’aria intrappolata hanno permesso di ricostruire la storia del-l’atmosfera terrestre fino a 160 migliaia di anni fa. I risultati di queste analisi dimostrano che in questo lungo periodo ci sono state variazioni notevoli della concentrazione dell’anidride car-bonica che, tuttavia, non è mai arrivata a raggiungere i valori attuali.

Figura 4. Aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera terrestre.

È ovvio che se l’anidride carbonica ha da sempre regolato la temperatura terrestre grazie all’effetto serra, cioè rimbalzando il calore emesso dalla terra sotto forma di radiazioni infrarosse, un aumento della sua concentrazione dovrebbe comportare un sur-riscaldamento climatico.

Del resto, nel 1800 Svante Arrhenius con un calcolo molto approssimativo aveva previsto che un raddoppio dell’anidride carbonica nell’atmosfera avrebbe causato un aumento di 4–6 gradi della temperatura media della superficie terrestre. I sofisti-catissimi modelli attuali concordano, grado più o grado meno, con queste previsioni ma non ci consentono di stabilire con certezza quali saranno le conseguenze sull’innalzamento del li-vello degli oceani e sullo spostamento delle fasce climatiche o sulle variazioni dei singoli ecosistemi. Sistemi complessi come

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il nostro pianeta sono poco prevedibili perché sono soggetti a meccanismi di regolazione che possono contrastare o assecon-dare la direzione del cambiamento, che si chiamano appunto feedback, o retro–regolazioni, positive o negative. Il primo va nella stessa direzione impressa dal cambiamento iniziale, ac-celerando il fenomeno, il secondo lo contrasta rallentandolo.

L’aumento di temperatura, che si verrebbe a determinare come conseguenza dell’aumento dell’anidride carbonica in atmosfera, potrebbe produrre un feedback negativo perché la fo-tosintesi delle foreste potrebbe aumentare oppure positivo, se fosse la respirazione dei microrganismi del suolo, che produ-cono CO2, a prevalere sulla fotosintesi.

Anche il sistema di regolazione oceanico degli equilibri della CO2 verrebbe fortemente influenzato da piccole variazioni di temperatura.

Molti scienziati in diverse parti del mondo stanno studiando questi fenomeni e qualche risposta c’è già ma il ciclo del carbo-nio è molto complesso e ancora poco conosciuto per alcuni suoi aspetti.

Così, mentre molte risorse vengono spese per studiare come stanno reagendo oceani e gli ecosistemi terrestri, continuiamo a bruciare riserve fossili almeno fino a quando non saranno trop-po difficili e costose da estrarre.

Stiamo assistendo in tempi storici e non geologici a un espe-rimento geofisico planetario la cui portata potrebbe essere enor-me ma che vede in gioco troppi interessi contrapposti per poter essere gestito in modo razionale.

Forse la baldanza con la quale affrontiamo il futuro dipende dal fatto che tante apocalissi annunciate non si sono poi veri-ficate.

Va ricordato, comunque, che se la nostra specie è soprav-vissuta a tanti cambiamenti ambientali da lei stessa provocati, popolazioni intere sono scomparse per effetto della cattiva gestione del territorio in cui vivevano.

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Civiltà scomparse

Nel libro “Collasso”, pubblicato in Italia nel 2005, Jared Diamond documenta come il degrado ambientale e il conse-guente esaurimento di risorse indispensabili per il mantenimen-to di alcune comunità umane sia stato una delle cause, a volte quella principale, del declino di intere civiltà.

I polinesiani colonizzarono l’isola di Pasqua, che si trova 3700 km a ovest del Cile, Stato al quale oggi appartiene, nel 900 d.C., sviluppando una fiorente civiltà come dimostrano le testimonianze architettoniche e soprattutto i Moai, statue di dimensioni enormi raffiguranti divinità o personaggi importanti. Il primo europeo che la esplorò era un olandese che, avendo avvistato l’isola nel giorno di Pasqua del 1722, la ribattezzo con questo nome. Ai suoi occhi l’isola si presentò brulla e poco abitata; gli isolani erano piuttosto arretrati e si spingevano nel-l’oceano con piccole imbarcazioni che facevano acqua perché non erano altro che assi tenute insieme da fibre vegetali.

Fino a che non furono avviate ricerche scientifiche per rico-struire la storia dell’isola attraverso l’analisi dei pollini conser-vati nei sedimenti dei laghi vulcanici e dei resti delle ossa che costituivano la dieta delle popolazioni che si sono succedute in quel territorio, agli occhi degli occidentali Pasqua apparve come l’isola misteriosa.

Non si riusciva a capire da dove potessero essere arrivati gli uomini che l’abitavano dal momento che anche nell’altra dire-zione, l’isola abitata più vicina dista 2100 km e, soprattutto era difficile immaginare chi potesse avere scolpito e issato, i Moai, pesanti da 10 a 270 tonnellate e alti fino a 21 metri (più di un palazzo di dieci piani). Alcuni misteri sono stati svelati dal-l’analisi dei pollini, la quale ci dice che prima dell’insediamento umano, questa isola era coperta di foreste di palme, tra cui una specie tipica di questa latitudine con tronchi che potevano ar-rivare a due metri di diametro. Il legno di palma fu usato per costruire case e canoe con le quali gli isolani potevano praticare la pesca e spingersi sulle isole vicine, per procurarsi i materiali

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che non erano disponibili sull’isola. Quanto alle statue, esse venivano scolpite all’interno di cave di roccia vulcanica, tra-sportate a braccia sulle piattaforme di pietra per esse predi-sposte e issate mediante rampe di pietra con una tecnica che gli isolani attuali furono in grado di mostrare agli archeologi che si erano posti questo problema.

La crescita della popolazione, avvenuta fino al 1600, com-portò la distruzione delle foreste e il passaggio dalla pesca al-l’agricoltura, dal momento che senza imbarcazioni robuste non era possibile avventurarsi nell’oceano. Probabilmente in seguito il suolo finì per diventare poco produttivo e l’economia locale non fu in grado di sostenere i clan che popolavano l’isola con un’èlite al potere che a, quanto pare, viveva alle spalle degli agricoltori.

Carestie, guerre, cannibalismo furono gli ultimi atti del crol-lo demografico aggravato dalle visite dei viaggiatori occidentali ai quali fu attribuita la diffusione di un’epidemia di vaiolo e dalla tratta degli schiavi che furono imbarcati su navi prove-nienti dal Perù dall’inizio del 1800 fino al 1863.

Ma non crediate che sia necessario andare sempre così lontano per documentare i disastri ambientali compiuti dalla nostra specie.

I pollini fossili sepolti nei sedimenti dei laghi ci dicono, ad esempio, che 10000 anni fa la Grecia era coperta di foreste che furono tagliate per far posto a campi coltivati, per ricavare legna da ardere e per costruire la flotta necessaria per le guerre di con-quista del Mediterraneo. Se ora sorvoliamo il Peloponneso in aereo ci appare un paesaggio brullo, quasi lunare. Quelle foreste non potranno più risorgere come la civiltà che le ha distrutte, perché il suolo che le sosteneva è stato eroso dal vento.

Prima dei Greci altri popoli come i Sumeri e i Babilonesi, insediatisi nella Mezzaluna fertile, dove scorrono il Tigri e l’Eu-frate, avevano inventato tecniche di canalizzazione per irrigare i campi coltivati, creando civiltà leggendarie che scomparvero anche per effetto della progressiva desertificazione del suolo.

Non sarebbe onesto attribuire la scomparsa o il declino di intere civiltà al solo degrado ambientale. Secondo Diamond

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sono almeno cinque i fattori tra i quali suddividere questa re-sponsabilità: il danno involontario causato al territorio, il cam-biamento climatico naturale, la presenza di nemici invasori, l’esistenza di popoli amici o partner commerciali, il tipo di comportamento e l’organizzazione sociale.

Per quanto riguarda le isole, probabilmente la distanza dal continente gioca a favore rendendo più difficili le invasioni nemiche e a sfavore per l’aiuto e lo scambio commerciale.

Per i continenti tutti questi fattori hanno un ruolo rilevante soprattutto nell’era moderna, con l’elevata densità di popo-lazione presente sulla Terra e la sua mobilità, facilitata dai mez-zi di trasporto sempre più veloci.

D’altra parte anche la nostra capacità di provocare cambia-menti sempre più rapidi del mondo che ci circonda si è note-volmente accresciuta nell’era tecnologica, soprattutto in quelle società dove la tecnologia è diventata motore dello sviluppo e stile di vita.

Nell’era della globalizzazione anche i problemi ambientali e sociali si manifestano su scala globale; per questo la ricostru-zione delle ragioni del crollo di antiche civiltà può aiutarci solo parzialmente a capire e risolvere la crisi epocale che il pianeta sta vivendo.

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Ordine e disordine

Tutti sperimentiamo quotidianamente quanto sia faticoso combattere il disordine o semplicemente mantenere l’ordine, due approssimazioni rispettivamente del concetto di eMergia ed entropia.

Simone de Beauvoir nel libro “Il secondo sesso” scriveva: “Pochi compiti si avvicinano al supplizio di Sisifo più di quello della massaia; giorno per giorno bisogna lavare i piatti, spolve-rare i mobili, rammendare la biancheria, tutte cose che domani saranno di nuovo sporche, polverose, rotte. La massaia segna sempre il passo; non fa niente: perpetua soltanto il presente, non ha l’impressione di conquistare un Bene positivo ma di lottare continuamente contro il Male. È una lotta che si rinnova ogni giorno.”

Questo esempio rende molto bene l’idea di come sia facile identificare l’entropia con qualcosa di maligno e distruttivo. D’altra parte è vero che nella lotta per scacciare il disordine, che inevitabilmente tende a prendere il sopravvento nelle nostre abitazioni, spendiamo molte energie che sottraiamo ad attività più piacevoli e interessanti.

Se questi compiti sono assegnati solo alla casalinga, è facile immaginare come essi possano dare origine a una con-tinua frustrazione, dal momento che, dissipando quasi tutte le proprie energie per scacciare il disordine, gliene resteranno ben poche per aumentare la sua eMergia costruendo qualcosa di positivo.

D’altra parte non solo la nostra casa ma anche l’intero uni-verso procede nella direzione del caos. Se la Terra riesce a op-porsi temporaneamente a questo destino è perché sfrutta l’ener-gia del Sole per contrastare l’entropia.

Molto prima che l’uomo pensasse ai pannelli solari come superficie di captazione e concentrazione di energia, la Natura aveva inventato le foglie che, come i pannelli solari, trasfor-mano l’energia diluita proveniente dal Sole in energia chimica concentrata sotto forma di zuccheri. La fotosintesi dà da

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vivere a tutto il pianeta, fornendo il cibo necessario al sosten-tamento delle catene alimentari e producendo ossigeno per la respirazione degli animali e dei batteri. Il ruolo degli spazzini è svolto da piccolissimi e numerosissimi organismi che si nutrono del materiale morto o di scarto proveniente da piante e animali.

D’altra parte, il ruolo del lavoro svolto dai sistemi naturali è stato considerato sia dai filosofi antichi sia dagli economisti del 1800 e del 1900, che hanno posto le basi della moderna eco–economia.

Secondo i fisiocratici, economisti del diciottesimo secolo, l’agricoltura è il dono gratuito della natura, in cui l’attività uma-na è ben poca cosa rispetto al lavoro degli altri esseri viventi.

James Lovelock, rifacendosi al mito greco della madre terra, ha chiamato Gaia questo nostro pianeta, che, come ogni altro essere vivente, lotta per mantenersi vivo e scacciare il caos. Affinché Gaia si mantenga viva è necessario che gli equilibri stabilitisi nel corso dell’evoluzione tra “produttori”, “consuma-tori” e “decompositori” siano rispettati.

Riconducendo le attività umane al principio dell’ordine e del disordine possiamo dire che esse possono originare, consape-volmente o no, effetti opposti: generare energia positiva, cioè eMergia o degradare l’eMergia accumulata in Natura, produ-cendo un aumento di entropia.

Le creazioni dell’ingegno, le opere d’arte, le piccole azioni quotidiane come il riordino della nostra scrivania sono eMer-getiche perché contrastano il caos e sono in grado di creare cultura.

Le attività che distruggono gli ecosistemi e la biodiversità animale e vegetale e quelle che consumano le risorse non rinno-vabili, come i combustibili fossili, sono entropiche perché can-cellano il lavoro svolto dalla Natura in milioni di anni.

Purtroppo anche nel rapporto dell’uomo con l’ambiente si verifica quello che ognuno sperimenta a casa propria: tutti amano fare ma a nessuno piace riordinare.

Tutte le attività umane, del resto, a partire dalle nostre fun-zioni vitali, generano rifiuti che vanno allontanati dalle nostre

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abitazioni. Per molto tempo si è pensato che bastasse diluire le acque fognarie nelle acque superficiali per renderle innocue: “dilution is solution of pollution”, era il motto in voga negli anni ’60.

Le acque fognarie venivano scaricate nei corsi d’acqua, la-sciando agli organismi il compito di depurarle. In effetti negli ecosistemi acquatici esistono organismi decompositori per i quali i nostri metaboliti sono cibo di cui nutrirsi. Poco a valle dell’immissione degli scarichi i fiumi erano in grado di recu-perare la loro purezza e di essere utilizzati dalle città che si susseguivano lungo il loro percorso. Ma quando le città sono cresciute, il sistema di depurazione naturale è risultato insuf-ficiente: i fiumi sono diventati asfittici e puzzolenti, inutilizza-bili dalle comunità che si trovavano a valle dei grossi insedia-menti civili e industriali. La diluizione si rivelò una grossa fre-gatura perché per queste ultime risultava impossibile ripulire l’intera massa d’acqua del fiume. D’altra parte la diluizione corrisponde a un aumento di entropia e dell’energia necessaria per eliminarla.

È un po’ come cercare di acchiappare una mosca: per prima cosa chiuderemo porte e finestre per limitare le sue possibilità di fuga.

Nacque, quindi, l’idea degli impianti di depurazione delle acque di scarico, che realizzano in poco spazio il lavoro biologi-co necessario per depurare le acque di fogna, prima che queste raggiungano laghi e fiumi.

Questa soluzione tecnologica può sanare, almeno in parte, il problema dell’asfissia dei fiumi e dei laghi e, dove viene appli-cata correttamente, dimostra la sua efficacia.

Il grande Reno, che attraversa tante capitali europee, è rinato a nuova vita grazie agli interventi per intercettare e depurare le acque di scarico.

Ogni soluzione tecnologica, tuttavia, ha i suoi costi energe-tici e genera nuove forme di inquinamento; un impianto di de-purazione consuma energia per pompare aria compressa nelle vasche e per rimuovere i fanghi di depurazione, che rappresen-tano il prodotto di scarto del processo.

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Questi ultimi, vanno a loro volta smaltiti e se non sono debi-tamente trattati e controllati finiscono per contaminare il suolo che nella maggior parte dei casi è il loro recapito finale.

Così ogni problema ne genera inevitabilmente un altro senza che si possa raggiungere una soluzione definitiva. Nella mag-gior parte dei casi questo avviene perché le soluzioni tecnolo-giche rappresentano un tentativo di forzare i tempi e le modalità di funzionamento degli ecosistemi con dispositivi quasi sempre parziali e limitati rispetto alla complessità di questi ultimi per-ché, in ultima analisi, non ci preoccupiamo di studiarli abba-stanza a fondo.

I problemi vengono compresi con ritardo e affrontati con i mezzi al momento disponibili: alla base c’è un’enorme igno-ranza alla quale si aggiunge l’incuria di chi deve attuare le mi-sure di controllo e gestione delle risorse comuni.

Finora si è preferito demandare alle generazioni future il dif-ficile ruolo del riordino ambientale.

Se questo è vero per le alterazioni prodotte nella composi-zione dell’atmosfera con l’immissione dell’anidride carbonica generata dalla combustione delle riserve fossili, il fenomeno è ancora più evidente per i nostri rifiuti che in grande quantità riversiamo nelle acque correnti e smaltiamo nel terreno e per tutte quelle sostanze inventate dall’uomo ed estranee alla mate-ria vivente che le società tecnologiche hanno prodotto in gran quantità nell’ultima metà del secolo che ci siamo lasciati alle spalle e il cui destino è ancora in gran parte sconosciuto.

È importante, invece, che anche questi processi vengano messi nel novero dei costi ambientali e il solo modo di farlo è quello di considerarli nei termini di dell’aumento entropico da essi generato.

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Contaminazione globale

Sebbene sia consuetudine consolidata considerare ecosi-stema un lago o una foresta perché così nettamente distinguibile dal resto del territorio da sembrare un’entità indipendente, in realtà l’unico ecosistema vero è il nostro pianeta. Gli altri, sep-pure caratterizzati da rapporti e scambi più fitti al loro interno rispetto al mondo che li circonda, non sono mai sistemi isolati. Un lago, ad esempio, riceve l’acqua dai suoi affluenti e cede ac-qua ai suoi emissari. Se gli oceani non cedessero parte del loro vapor d’acqua alle terre emerse, non esisterebbero fiumi e laghi a cui è legata ogni forma di vita sulle terre emerse.

Le sostanze indispensabili alla vita circolano anch’esse pas-sando da un organismo all’altro, trasformandosi e ritrasforman-dosi in una giostra che si ripete più o meno inalterata da milioni di anni.

Le attività umane, alterano questi cicli perché il gettito di rifiuti è troppo consistente per essere riassorbito dai normali sistemi di regolazione del pianeta.

Se questo è vero per l’anidride carbonica e gli altri prodotti del metabolismo umano, la situazione è ancora più allarmante per le nuove molecole di sintesi.

Questi composti, chiamati xenobiotici perché completamen-te estranei alla composizione delle molecole della vita, hanno fatto il loro ingresso nel pianeta in poco più di mezzo secolo, mettendo a dura prova le sue capacità di autodepurazione.

Persino i Batteri, coi loro meccanismi adattativi molto rapidi ed efficienti si trovano in difficoltà davanti ai clorofluorocarburi (CFC), al diclorodifeniltricloroetano (DDT) ai policlorodifenili (PCB), molecole che contengono molti legami tra atomi di carbonio e atomi di cloro, che non esistevano nelle molecole naturali e che richiedono nuovi sistemi enzimatici per essere spezzati.

I CFC resistono per centinaia d’anni alla degradazione bio-logica e fotochimica e stanno distruggendo parte dello scudo di ozono stratosferico che ci protegge dai raggi ultravioletti prove-

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nienti dal sole. I PCB e il DDT, che sono più pesanti dei CFC e non volano nella stratosfera, viaggiano insieme all’aerosol e al pulviscolo atmosferico e vengono trasportati dai venti o dalle correnti oceaniche per migliaia di chilometri.

C’è una teoria (Wania e Mackay,1993), ormai verificata da molti dati sperimentali, secondo la quale i PCB e i DDT sono in grado di percorrere grandi distanze sia in direzione orizzontale che verticale, spostandosi dalle basse latitudini ai poli e dal li-vello del mare alle quote elevate per effetto di successivi pro-cessi di distillazione e condensazione, con salti successivi simili a quelli di una cavalletta (Fig. 5).

Alcune aree inquinate degli Stati Uniti e dell’Europa in cui questi composti, usati per decenni a partire dal secondo dopo–guerra e vietati negli anni ’70, si vanno ora ripulendo ma i ve-leni si sono trasferiti nelle zone fredde dove la persistenza è più elevata. Questo fenomeno è irreversibile e preoccupante perché va a intaccare ecosistemi particolarmente delicati.

Le concentrazioni di questi tossici sono aumentate nelle fo-che, nelle balene, negli orsi e negli Eschimesi, che si nutrono di questi animali. Compaiono articoli scientifici che parlano di una maggiore incidenza di attacchi di virus e batteri nelle popola-zioni di foche, dovuti alla diminuzione di difese immunitarie provocata dall’accumulo di inquinanti e della comparsa di or-setti ermafroditi per effetto dell’azione di interferenza sugli ormoni sessuali esercitata dai pesticidi e agli altri idrocarburi clorurati.

Questa fuga di molecole dalle zone di fabbricazione e d’uso alle zone artiche è un esempio di aumento di entropia planetaria prodotto dalle attività umane, un problema la cui soluzione è praticamente impossibile e le cui conseguenze sono in gran par-te sconosciute.

Il rischio chimico si aggiunge ad altre minacce, come i cam-biamenti climatici e la perdita di biodiversità che diminuisce sia per la caccia intensiva sia per la distruzione degli habitat. È sempre più difficile prevedere il futuro del pianeta proprio perché i possibili fattori di stress vanno aumentando interferen-do tra di loro in modo molto complesso.

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Figura 5. “Effetto cavalletta” per il trasferimento di composti clorurati persi-stenti (OC) dalle zone temperate alle regioni polari (www.itk.ca)

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Il costo del riordino

Quando un metallo è concentrato nel minerale di origine è

una risorsa da cui si possono ricavare oggetti utili. Lo stesso si può dire per un composto sintetico, che viene creato espressa-mente per soddisfare i bisogni umani.

Dopo l’uso, tuttavia, quando i prodotti diventano rifiuti, essi vengono mescolati con altri materiali e diluiti in modo da ren-dere difficile e poco conveniente il loro recupero.

A questo punto minerali e prodotti sintetici diventano poten-ziali inquinanti. I chimici, ai quali si deve la scoperta di tante nuove molecole, conoscono bene questo fenomeno, noto come Legge di Boltzmann, secondo la quale l’entropia aumenta con la diluizione e il mescolamento.

Una legge che viene solitamente illustrata con questo esem-pio: si immagini di avere un recipiente diviso in due parti uguali da una parete interna in cui viene praticato un foro. In uno dei due scomparti viene immessa una certa quantità di gas che tenderà a passare attraverso il foro per riempire lo scom-parto vuoto fino a che entrambe i settori conterranno lo stesso numero di molecole.

Poiché le molecole si muovono in tutte le direzioni in modo casuale, esse potrebbero ritornare tutte nello scomparto di prove-nienza, ristabilendo la condizione iniziali. Questa situazione non è da escludere in via del tutto teorica ma è estremamente impro-babile. In pratica, non avverrà mai; le molecole continueranno a passare avanti e indietro ma la condizione di equilibrio corri-sponderà a un’equidistribuzione delle molecole nei due scom-parti. In questo modo esse avranno a propria disposizione un vo-lume doppio rispetto a quello occupato quando stavano nel pri-mo scomparto con una maggiore possibilità di movimento.

Si potrebbero fare molte riflessioni sull’anelito di libertà che ci accomuna tutti dalla singola molecola al vivente ma, volendo rimanere ancorati all’argomento “rifiuti”, la legge di Boltzmann serve a dimostrare che aumentare il volume in cui si disperdono significa aumentare l’entropia.

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La diluizione è una pessima soluzione ai problemi di inqui-namento perché prima o poi qualcuno dovrà pagare il prezzo del recupero delle molecole fuggiasche.

Quando le molecole di un metallo o di una sostanza di sin-tesi entrano in un lago o vengono mescolate con altri rifiuti per essere smaltite in una discarica, si diluiscono e da soggetti eco-nomici estratti o fabbricati per qualche scopo diventano soggetti entropici, che peggiorano la qualità delle acque e del suolo.

Il loro valore economico diventa di segno negativo poiché la loro rimozione dal mezzo in cui si trovano comporta un costo.

È facile intuire, con un esempio analogo a quello preceden-te, che l’entropia aumenta anche col mescolamento. Se i due scomparti fossero inizialmente riempiti da due gas di natura di-versa, come azoto e ossigeno, tenderebbero a mescolarsi pas-sando dal piccolo foro nelle due direzioni e molto difficilmente tornerebbero a dividersi per ripristinare la condizione iniziale. All’equilibrio nei due scomparti avremo una situazione simile con la stessa proporzione delle di molecole di azoto e ossigeno. Prigogine (1989) ha paragonato il secondo principio della termodinamica, alla teoria di Darwin dell’evoluzione delle specie.

In effetti l’intuizione, rivoluzionaria dal punto di vista del pensiero scientifico, che accomuna entropia ed evoluzione con-siste nel considerare le popolazioni e non i singoli individui.

I singoli individui chimici o biologici si muovono ed evol-vono in modo imprevedibile; le popolazioni rispondono a leggi dettate dal calcolo delle probabilità. Per questo così come le molecole non torneranno a compattarsi in un solo scomparto anche l’evoluzione non ripercorrerà a ritroso il suo cammino. Questi percorsi sono segnati dalla freccia del tempo che nes-suno è ancora riuscito a dirigere verso il passato.

Ricostruire l’ordine in questo mondo antropizzato e tornare allo stato naturale è un processo praticamente impossibile per-ché nel secolo scorso sono state prodotte decine di migliaia di composti sintetici i quali, deliberatamente o inconsapevolmente, sono stati diluiti nell’atmosfera, nelle acque, nei suoli aumen-tando in modo incalcolabile l’entropia del pianeta.

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È possibile valutare il costo del riordino per aree circoscritte e per un composto alla volta ma non siamo in grado di farlo per l’intero pianeta.

Giusto per dare un’idea dei costi del riordino cercherò di fa-re un esempio pratico considerando una molecola di sintesi co-nosciuta a tutti, la trielina, contenuta nella maggior parte degli smacchiatori.

Questo composto appartiene alla categoria dei solventi clo-rurati, che crearono grossi problemi alla falda milanese negli anni ’70. La trielina raggiunse l’acquifero sia attraverso i pozzi perdenti delle industrie sia per percolamento dai suoli dove veniva smaltita dopo l’uso.

Poniamo che 10 litri di trielina abbiano un valore commer-ciale di circa 3,5 Euro. Con questo modesto quantitativo di composto puro possiamo inquinare 1 milione di m3 di acqua di falda. Se si dovesse procedere alla rimozione dell’inquinante si dovrebbe spendere 20000 Euro.

Ammettendo che dei 10 litri messi in commercio solo l’1% sia disperso nell’ambiente e che di questa quota solo l’1% finisca nella falda, dovremmo prevedere un costo ambientale di 2 Euro ogni 10 litri di trielina commercializzata. Se questa cifra, che corrisponde al costo ambientale per la depurazione della falda, fosse aggiunta al costo di produzione, dovremmo preve-dere un aumento del 57% del prezzo di vendita. Un incremento così significativo indurrebbe probabilmente gli utilizzatori della trielina ad aumentarne al massimo il recupero o a sostituirla con un altro solvente meno inquinante.

Un altro esempio è rappresentato dai pesticidi. Per produrre mele perfette, senza segni di attacco da parte di insetti parassiti e per avere tutto l’anno sulla nostra tavola quella frutta che una volta era di stagione è necessario usare centinaia di pesticidi sintetici.

Il costo dei pesticidi rientra, ovviamente, nel prezzo della mela. Si tratta, tuttavia, anche in questo caso, di un costo che non include i costi ambientali e quelli sulla salute del consu-matore. Se il prezzo di vendita dei pesticidi dovesse includere i costi ambientali, l’agricoltore si vedrebbe costretto a maggio-

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rare il prezzo di vendita delle mele trattate che, a questo punto, potrebbero risultare anche più care di quelle prodotte con siste-mi naturali.

In questo caso il consumatore sarebbe invogliato all’acquisto di mele biologiche non solo perché le considera più salutari ma anche per convenienza economica.

Analogo discorso può essere fatto per le fonti energetiche pulite che stentano a decollare perché impiegano tecnologie più costose di quelle legate alla combustione dei combustibili fos-sili. Queste tecnologie potrebbero diventare competitive se il prezzo del petrolio fosse quello eMergetico e non quello deciso dai Paesi indebitamente denominati “produttori”.

Il petrolio, infatti, non viene prodotto ma estratto dalle vi-scere della Terra come ogni altra risorsa mineraria. Un’ulteriore maggiorazione dei costi energetici legati all’uso di combustibili fossili dovrebbe derivare, poi, dai costi ambientali dovuti al-l’aumento dell’“effetto serra” e alla produzione di anidride solforosa.

Il plus–valore entropico, che finora nessuno ha pagato, si trasforma in perdita di specie e rischio per la salute umana. Se il composto, come nel caso della trielina, finisce in un sistema re-lativamente confinato come la falda, la stima del costo del rior-dino è relativamente semplice. Ma quando le molecole da molteplici fonti si disperdono nell’aria, nelle acque e nei suoli e si mescolano, la situazione si fa più complessa, perché la rimo-zione diventa impossibile.

Esula da questa trattazione la pretesa di fare di questo prin-cipio uno strumento di calcolo generalizzabile a tutti i casi di inquinamento. Resta però la consapevolezza che il disordine che produciamo cambia l’ambiente in cui viviamo e che non siamo in grado di comprenderne fino in fondo le conseguenze.

Qualcuno pensa, come il presidente Bush, che “la tutela del-l’ambiente non deve subordinare lo sviluppo economico”, e che introdurre ora i costi ambientali in un sistema di produzione già in crisi provocherebbe un ulteriore tracollo.

Alcuni economisti, tuttavia, la pensano diversamente. Una risposta al regime di concorrenza che il nuovo sistema di tutela

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ambientale potrebbe instaurare viene da Hirsch (1976) col suo principio della “ fallacia della composizione”, secondo il quale il vantaggio individuale può essere annullato dal comportamen-to collettivo, come succede per il comportamento degli spet-tatori allo stadio. Se tutti gli spettatori si alzassero contempora-neamente per vedere meglio, non si produrrebbe nessun vantag-gio nonostante il tremendo sforzo collettivo.

Possiamo dedurre, dunque, che se venisse imposto a tutti i produttori per legge di includere nei costi di produzione i costi ambientali, si otterrebbe ancora un regime di concorrenza indu-striale ma indirizzato finalmente verso ricerche di tecnologie più moderne ed ecocompatibili.

E se risulta impossibile ripulire il pianeta da tutti i veleni coi quali lo abbiamo contaminato, è sicuramente possibile evitare di peggiorare la situazione usando i sistemi di prevenzione che la scienza ha sviluppato in questi anni.

Il Parlamento Europeo nel dicembre 2005 ha approvato un provvedimento, che introduce l’obbligo per le industrie chimi-che di documentare le proprietà delle sostanze chimiche che vengono prodotte e commerciate in quantitativi tali da poter rappresentare un pericolo ambientale. Questa regolamentazione, denominata REACH (Registration, Evaluation and Authorisa-tion of CHemicals), ha avuto un iter travagliato e subirà ancora modifiche da parte dei singoli governi perché contrappone l’interesse degli industriali, molto potenti nei Paesi forti, come Germania e Gran Bretagna, a quello dell’ambiente, difeso da associazioni molto agguerrite, come Greenpeace e WWF.

Si tratta di un dispositivo teoricamente molto avanzato che collocherebbe l’Europa in una posizione più protettiva nei con-fronti del rischio chimico rispetto agli Stati Uniti e alle altre super potenze. Si tratterà di vedere se i tempi di attuazione non si dimostreranno così diluiti da renderlo inefficace. Dal punto di vista economico rappresenta comunque una conquista di prin-cipio perché prevede che gli oneri della sperimentazione e della documentazione necessari per l’autorizzazione a produrre e commerciare molecole potenzialmente pericolose ricadano sulle attività produttive e non si tratta di oneri di poco conto.

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La terra non è fragile

Il lettore si chiederà a questo punto quanto dobbiamo preoc-

cuparci per le conseguenze di tutte le alterazioni che abbiamo sinora prodotto, soprattutto di quelle più recenti che coinvol-gono le nostre società attuali, la loro organizzazione e il loro benessere.

Non ho risposta per questa domanda ma, anche se questo non vi potrà consolare, sono certa che la Terra sopravvivrà ai nostri assalti.

Lovelock, l’inventore dell’ipotesi Gaia, presentò una lecture al Linacre College di Oxford nel 1991 in cui disse che all’uomo contemporaneo piace pensare che la Terra sia fragile, come una donna dell’epoca vittoriana, un essere bisognoso di cure e protezione.

Ma Gaia è tutt’altro che fragile; la sua forza vitale è enorme. Ha superato catastrofi durante le quali molte specie sono scom-parse e altre si sono evolute. Altri mondi sono possibili e altri mondi sono già esistiti.

L’aumento dell’effetto serra provocato dall’uomo tecnolo-gico è ben poca cosa al confronto dei cambiamenti climatici che si sono succeduti dalla nascita della vita sulla Terra, preoccu-panti solo sulla scala del tempo umana.

Anche se l’uomo ha distrutto molte foreste, mettendo a nu-do la sottile scorza viva del pianeta la Terra brulica di vita e nuove specie si succederanno per sostituire quelle estinte. La produzione di sostanze chimiche con le quali stiamo avvele-nato l’aria e l’acqua è un giochetto da apprendista stregone in confronto all’arsenale chimico sviluppato da piante e animali nel corso dell’evoluzione. Basti pensare alla perenne battaglia grazie alla quale la crosta terrestre riesce a mantenersi verde nonostante la presenza di tanti predatori. Il duello è così bi-lanciato che piante e insetti continuano a rimanere i gruppi più numerosi di esseri viventi.

La nostra specie, invece, è fragile davvero. Nuda contro il caldo e il freddo, bisognosa di cibo e di energia, che può soc-

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combere sia per effetto di cataclismi naturali sia per i cambia-menti da lei provocati. L’eruzione dell’Huanyaputina, in Perù nel 1601, o del Tambora a Giava nel 1815 sconvolsero il clima di tutto il Pianeta, cancellando l’estate e annullando i raccolti. Se eventi di questa portata furono tali da ridurre alla fame l’intero pianeta, altri disastri più recenti di cui ognuno di noi conserva memoria hanno devastato tante regioni della Terra portando distruzione e morte.

E a questi rischi naturali, che a mala pena abbiamo imparato a prevedere ma non certo a prevenire si aggiungono quelli dovuti alle attività umane.

L’aumento dell’effetto serra, la distruzione delle foreste so-no la conseguenza della crescita esponenziale della popolazione umana e del suo incessante bisogno di cibo e combustibili.

Le nuove tecnologie di produzione sia in campo agricolo che in tutti settori industriali hanno determinato l’immissione di quantitativi enormi di sostanze di sintesi, chiamate xenobiotiche in quanto completamente estranee alla chimica dei viventi. Da 70.000 a 100.000 nuove molecole sono state introdotte nel-l’ambiente in poco più di cinquant’anni e ora fanno parte della composizione dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo e dei cibi di cui ci nutriamo.

Come risponderà la nostra specie e come risponderanno quelle da cui noi così strettamente dipendiamo a tutti questi cambiamenti?

A differenza della Natura che si affida al caso per inventare nuove sostanze ma poi le seleziona buttando via gli esperimenti inutili o dannosi, l’uomo continua a produrre detersivi, pesti-cidi, solventi, composti tutti apparentemente utili per la sua eco-nomia ma potenzialmente dannosi per molte specie viventi.

Purtroppo gli aspetti dannosi vengono quasi sempre scoperti a distanza di tempo, quando i fiumi, i mari, l’aria e i suoli sono ormai contaminati. A ogni generazione che si succede nel nostro Villaggio globale appare un pianeta più spoglio di natura e più ricco di veleni.

Sebbene i diversi campi della scienza dalla climatologia al-l’ecotossicologia siano in grado di fare previsioni per il futuro

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del pianeta e delle aree abitate dall’uomo, si tratta sempre di previsioni incerte.

E questa incertezza non è dovuta all’incapacità dei rice-rcatori, anche se spesso limitata dalle scarse risorse, ma è insita nel sistema.

Non mi stancherò mai di ripetere che i sistemi naturali sono molto complessi, molto più di quelli prodotti dall’uomo, che ancora non è in grado né di capirli né, tanto meno, di governarli.

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L’astronave Terra

Nel 1970, un anno dopo la conquista della Luna, partì un’al-tra spedizione con l’obiettivo di “allunare” un modulo di esplo-razione che avrebbe dovuto sostare per 33 ore. La navetta spa-ziale, denominata Apollo 13, non riuscì mai a raggiungere il suo obiettivo e lasciò i telespettatori di tutto il mondo col fiato sospeso quando, proprio il giorno 13 Aprile, un venerdì, tanto per non smentire i superstiziosi, per l’esplosione di un modulo di servizio dovette ammarare nell’oceano dove l’equipaggio fu fortunatamente recuperato.

Il modulo di servizio rimase nello spazio e fu impossibile scoprire con certezza la causa dell’esplosione; gli astronauti riferirono che, in seguito al guasto iniziale di un motore, saltò una serie di regolazioni dell’astronave. La temperatura della cabina si avvicinò allo zero, l’anidride carbonica aumentò per-ché i desorbitori non funzionavano più e si verificò una perdita d’acqua con parziale allagamento della cabina. Oltre a questi guasti che procurarono non pochi disagi all’equipaggio, gli astronauti dovettero scaricare nel Pacifico il plutonio che si erano portati per alimentare gli strumenti che avrebbero dovuto lasciare sulla luna. Tre chili e mezzo di materiale radioattivo so-no da qualche parte nelle profondità dell’oceano.

Questa sfortunata spedizione, come l’esperimento parzial-mente fallimentare di Biosfera–2, sono un monito che ci può dire molto sulla condizione della specie umana sull’astronave Terra.

La conoscenza approssimativa dei fenomeni che determine-ranno il futuro del pianeta può far apparire il suo viaggio come un percorso lineare verso la perfezione o una caduta verso la catastrofe, a seconda dei punti di vista. Ma la teoria del caos insegna che i disturbi prodotti dall’uomo potrebbero creare nuo-vi attrattori e cambiare completamente il destino del pianeta.

L’insieme di variabili più o meno conosciute da cui dipende la vita sulla Terra nella sua forma attuale crea un “iperspazio” definito da traiettorie immaginarie.

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Un moto di questo tipo può rispondere in modo esagerato a un disturbo apparentemente di lieve entità perché è governato dalle leggi del caos.

Molti conosceranno l’apparente paradosso secondo il quale il battito di una farfalla a Hong Kong può generare un tornado in California.

Piccole variazioni della composizione dell’aria o della sua temperatura, per effetto di sistemi di amplificazione naturale che sfuggono al nostro controllo, possono creare fenomeni vi-stosi di enorme potenza.

La storia della Terra è piena di enigmi ancora irrisolti dovuti verosimilmente ad alterazioni di grande portata che hanno cambiato il volto del pianeta.

Nel 1946 in una località dell’Australia meridionale, chia-mata “Giardini di Ediacara” furono scoperti fossili marini che non somigliavano a nessun animale attuale e neppure agli altri fossili dai quali i paleontologi cercano di ricostruire il percorso della Regina Rossa.

Questi organismi, che risalgono a 600 milioni di anni fa, comparvero agli albori della vita sulla Terra. Non si trattava di un’unica cellula, come nel caso degli Archeobatteri o di alghe marine ma di organismi pluricellulari, con soli tessuti molli, si-mili a meduse o a vermi di grandi dimensioni. In qualche caso erano costituiti da agglomerati di cellule che potrebbero essere assimilati a un cervello animale e a sistemi vegetali in grado di fare fotosintesi. Questi organismi dominarono la scena per una cinquantina di milioni da anni, fino a quando comparvero ani-mali predatori che spazzarono gli esseri di Ediacara dalla faccia della Terra.

Una storia più recente e conosciuta è quella dei dinosauri. Questi animali si estinsero 65 milioni di anni fa per ragioni che non possiamo ricostruire con certezza. L’ipotesi più accreditata è quella dell’urto contro la Terra di un asteroide che produsse un effetto paragonabile a quello di molte bombe atomiche. Ani-dride carbonica e ossidi di zolfo entrarono nell’atmosfera producendo un raffreddamento tale da rendere impossibile la vita di questi animali dai grossi appetiti. I coccodrilli, molto

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simili ai grandi rettili preistorici ma meno esigenti dal punto di vista energetico, sopravvissero fino ai giorni nostri.

Il Saltriosauro, chiamato così perché i suoi resti fossili sono stati rinvenuti a Saltrio vicino a Varese, era un carnivoro di otto metri di altezza e una tonnellata e mezzo di peso con un territo-rio di caccia tale da sterminare ogni forma di vita per chilo-metri.

Ogni volta che avvenimenti catastrofici modificano il nostro pianeta in modo così radicale è come se il cronometro dell’evo-luzione venisse azzerato per cominciare, come previsto dalle teorie di Gould, dalle forme di vita più semplici. In un certo senso sembra che l’evoluzione sia un processo ciclico e non li-neare. La freccia del tempo fu più volte spezzata da avvenimen-ti imprevisti verosimilmente dovuti ai moti di altri corpi che vagano o ruotano nello spazio.

La condizione umana nelle società all’inizio del terzo mil-lennio è molto simile a quella dei dinosauri. Siamo specie esi-genti, difficili da mantenere nell’economia del pianeta; per que-sto rischiamo di essere spazzati via da drastici mutamenti della fisionomia terrestre.

La differenza sostanziale rispetto ai grandi sauri è che noi siamo consapevoli e responsabili di molte alterazioni che po-trebbero mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza: ulte-riori pressioni sull’acceleratore di quello che noi ci ostiniamo a chiamare progresso potrebbero far deviare l’astronave Terra verso nuovi punti di attrazione senza darci la possibilità di ri-prenderne il comando.

Più di metà della popolazione umana vive concentrata nelle città, strutture assolutamente dipendenti dall’energia ausiliaria per il proprio sostentamento. I cibi, le fonti di energia, i mate-riali da costruzione e spesso anche l’acqua e ogni altro bene di consumo sono trasportati nelle città da altri luoghi meno abitati che possono offrire alla popolazione urbana quei “servizi” che la città non è in grado di fornire.

Anche lo smaltimento dei rifiuti è un servizio reso agli eco-sistemi urbani da parti disabitate del territorio alle quali viene demandato il compito di accumularli e, possibilmente, riciclarli.

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Il sistema Terra finora si è si è in gran parte rigenerato grazie alla ciclicità degli eventi e delle reazioni: i cicli biogeochimici degli elementi sono ora tutti sbilanciati dalle attività umane.

I sistemi di sostentamento che venivano usati nei voli spa-ziali per mantenere in vita gli astronauti venivano immagazzi-nati prima di partire e consumati durante il viaggio mentre i prodotti di rifiuto venivano trasformati ma non riciclati. Un viaggio spaziale fatto in queste condizioni aveva i giorni contati e se l’Apollo 13 non fosse rientrato rapidamente il suo equipag-gio sarebbe morto. Molti segnali ci avvertono che anche per l’equipaggio dell’Astronave Terra le cose si stanno mettendo piuttosto male. L’unica nostra speranza è quella di raggiungere un consenso sulla rotta da intraprendere.

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SECONDA PARTE

Potremmo svegliarci una mattina

e scoprire di doverci impegnare

tutta la vita nel compito di elabo-

rare un’ingegneria della conser-

vazione planetaria. Ci troveremmo

a quel punto a bordo di uno strano

congegno: l’astronave Terra.

James Lovelock

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Fare i conti col pianeta

Finora abbiamo confrontato la storia naturale del pianeta con

quella dell’uomo, sostenendo che il caso è stato l’artefice del-l’evoluzione naturale mentre la creatività e il libero arbitrio sono stati il motore dell’evoluzione culturale.

In realtà le società umane si sono sempre imposte regole di comportamento governate dall’etica, dalla religione o da chi riusciva a prendere il comando.

Nelle società moderne il motore del progresso è soprattutto l’economia, disciplina che per definizione dovrebbe occuparsi della gestione della “casa comune”. A questa scienza dobbiamo rivolgerci, dunque, per realizzare qualunque cambiamento di rotta dell’Astronave Terra.

D’altra parte non possiamo dimenticare che l’economia non ha competenze specifiche in materia ambientale. La scienza che conosce la struttura e il funzionamento degli ecosistemi e che è in grado di valutare la gravità dei danni prodotti dalle attività umane, avendone analizzato le cause e individuato i rimedi, è l’ecologia. Solo dalla fusione di queste due discipline si può sperare di trovare soluzioni accettabili sul piano scientifico e condivisibili a livello sociale.

Le basi teoriche dell’economia ecologica sono state poste secoli fa da David Riccardo, Thomas Malthus e Karl Marx che nell’erosione della fertilità della terra, nella crescita demogra-fica e nell’eccessivo sfruttamento delle risorse umane come di quelle naturali avevano individuato i limiti della crescita eco-nomica.

Purtroppo queste analisi hanno avuto ben poco seguito fino alla seconda metà del secolo scorso, epoca in cui si osservò una ripresa dell’economia ambientale coi primi strumenti di analisi quantitativa. I limiti dello sviluppo vennero messi seriamente in discussione nel 1970 con il rapporto del MIT di Boston per il “Club di Roma” in cui si portò all’attenzione dei politici il problema della “bomba” demografica e della prospettiva di un rapido esaurimento delle risorse.

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Nel terzo millennio le analisi economiche si sono spinte ben oltre la messa in discussione delle possibilità di sviluppo. Il principio di “sviluppo sostenibile” si è man mano andato sosti-tuendo con quello della necessità di decrescita non solo nu-merica ma anche produttiva in contro tendenza rispetto al mito della crescita economica che ha caratterizzato il secolo passato.

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L’illusione tecnologica

All’inizio dell’800 l’economista inglese Thomas Robert Malthus fece una profezia catastrofica sulle conseguenze del-l’aumento della popolazione umana sulla Terra, basata su tre considerazioni:

1. La popolazione umana ha bisogno di cibo 2. La passione tra i due sessi porta necessariamente alla ge-

nerazione di figli 3. La capacità di crescita della popolazione umana è enor-

memente più grande di quanto sia la capacità della Terra per sostenerla

Secondo Malthus, carestie e guerre sarebbero state le logiche

conseguenze di queste tre circostanze. La storia ci ha dimostrato, fortunatamente, che la sostenibi-

lità del pianeta può essere aumentata. Rispetto ai tempi di Mal-thus si sono sviluppate nuove pratiche agricole, come la “rivolu-zione verde” del secolo scorso, che hanno permesso di aumen-tare la produzione alimentare. Così, le carestie e le guerre sono state meno numerose e mortifere di quanto predetto e la popo-lazione umana ha potuto accrescersi da meno di un miliardo al-l’inizio dell’800 ai sei miliardi attuali.

Va ricordato, però, che le innovazioni tecnologiche che hanno permesso il passaggio all’agricoltura intensiva utilizzano risorse energetiche non rinnovabili e impoveriscono l’ecosi-stema suolo. Ora che le riserve di combustibili fossili si assotti-gliano e molti suoli sono diventati improduttivi il problema della sostenibilità si ripresenta. Fame e guerre riappaiono ai nostri occhi in tutta la loro inaccettabile brutalità dagli schermi televisivi e dai giornali, facendoci temere che la profezia di Malthus sia stata solo differita nel tempo.

L’umanità si trova all’inizio del terzo millennio a dover decidere se dare retta a ottimisti come Julian L. Simon, econo-mista dell’Università del Maryland, che ritiene che la continua crescita economica e gli sviluppi tecnologici porteranno a un

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mondo meno affollato, meno inquinato e più ricco di risorse (1997) o a pessimisti come Paul R. Ehrlich, professore di studi demografici presso la Stanford University, che sostiene che in un pianeta di dimensioni limitate anche le risorse non possono essere considerate infinite (1992). Secondo Ehrlich, le soluzioni “tecnologiche” risolvono solo momentaneamente e in modo parziale il problema della disponibilità di cibo e di energia, ri-mandando al futuro quello del depauperamento dei suoli, dello smaltimento di scorie pericolose e dell’inquinamento delle ri-sorse idriche.

Per noi, che apparteniamo alla parte più ricca della popola-zione della Terra, l’illusione tecnologica sembra ancora credi-bile ma non lo è per i popoli assediati dalla povertà e dalla guer-ra, per i quali la fame è la principale causa di morte prematura.

Non ci si deve stupire, dunque, se proprio nei paesi più po-veri le foreste vengono abbattute per procurarsi legna da ardere e per coltivare, distruggendo un patrimonio di biodiversità accumulato in milioni di anni di evoluzione.

Noi non abbiamo un’idea concreta dei problemi che assil-lano il nostro pianeta perché la nostra percezione è molto par-ziale. La popolazione dei Paesi più sviluppati ha rallentato la crescita e ora si interroga su come garantire un futuro accet-tabile alle nuove generazioni.

Ma i poveri della Terra devono affrontare ogni giorno il pro-blema di come riempire il piatto e sfuggire a persecuzioni poli-tiche e religiose che rendono il presente così incerto e disuma-no. Migrazioni, deportazioni, saccheggi, rapimenti, riduzione in schiavitù sono ancora di grande attualità del Terzo mondo che, nonostante tutto, si ostina a crescere a una velocità che dob-biamo ritenere incerta, proprio a causa di tutte queste avversità e di altre, come epidemie e cataclismi naturali, che per colmo di sventura colpiscono soprattutto questi popoli.

Per questo non ci è dato di sapere con certezza se nel 2050 i nostri figli divideranno la superficie del pianeta con altri 7 o 10 miliardi di persone.

La prima incognita per valutare la sostenibilità futura è rap-presentata dalla crescita della popolazione umana per la quale

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non è possibile fare previsioni a lungo termine ma questa, che chiameremo P, rappresenta una sola delle tre variabili in gioco per valutare la pressione delle attività umane sul pianeta. Le altre due sono rappresentate dai consumi pro–capite (C) e dalla tecnologia usata (T).

Questi tre fattori vanno moltiplicati tra loro per ottenere l’impatto di qualunque attività umana (I) sull’ambiente:

I = P x C x T

Se vogliamo far durare più a lungo le risorse del pianeta possiamo diminuire i consumi pro–capite, cosa che si può rea-lizzare sia col risparmio che col riciclo, o usare tecnologie più eco–compatibili perché realizzate con minori consumi energe-tici o inquinando di meno o utilizzando materie prime meno preziose.

A questo proposito si deve fare una precisazione sul termine “prezioso”, che assume un significato diverso in funzione del sistema economico considerato. In economia si è realizzato un “paradosso del valore” per il quale i beni più preziosi come l’aria e l’acqua hanno un valore nullo di mercato mentre l’oro, di cui la maggior parte di noi può fare a meno, ha un valore elevato.

L’economia ecologica attribuisce, invece, a ogni cosa, anche ai beni naturali, considerati finora liberi e privi di valore com-merciale il giusto prezzo.

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Economia ecologica

Nel 1988 H.T Odum compilò un rapporto per incarico del-l’UNEP dal titolo “Energia, ambiente e amministrazione pub-blica. Una guida all’analisi dei sistemi”.

La guida consente di calcolare il valore eMergetico dei beni ambientali e di stimare quanto il capitale naturale sia utilizzato dalle attività produttive. In questo conteggio il valore di un albe-ro non viene valutato solo in funzione del prezzo del suo legno o dei frutti che produce ma dell’energia che è stata necessaria per la sua crescita e il suo funzionamento, cioè della sua eMergia.

Ci accorgiamo, così, che nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle il capitale naturale è stato consumato molto più rapida-mente dei tempi necessari per rigenerarlo a partire dall’unica energia rinnovabile di cui disponiamo, l’energia solare, perché il valore attribuito al suolo, agli alberi, al petrolio era stabilito da chi ne deteneva la proprietà o l’uso senza considerare il va-lore eMergetico di queste risorse. Ecco allora che il fattore tem-po riemerge per essere inglobato nel calcolo dell’eMergia.

La crescita economica, considerata come l’indicatore più im-mediato della condizione di benessere di una certa comunità umana, viene misurata attualmente come aumento del prodotto interno lordo (PIL), che, a sua volta, è strettamente correlato al-la produzione agricola e industriale e alle spese necessarie per assicurare i servizi sociali, la salute e le varie infrastrutture.

Ma se noi provassimo a valutare il rapporto tra l’eMergia che si fissa naturalmente in un anno in una nazione e il prodotto nazionale lordo della stessa trasformato nella stessa unità di misura energetica, ci accorgeremmo che molti Paesi, che da millenni stanno sfruttando intensamente la potenzialità produt-tiva delle terre e dei mari, sono già scesi al di sotto dell’unità e stanno accumulando un “debito ambientale”.

Il PIL in questi stati cresce erodendo le risorse disponibili o derubando altri stati delle loro risorse.

Odum prospetta uno scenario futuro che potrebbe essere considerato una versione moderna della profezia di Malthus. La

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popolazione umana, continuando a consumare risorse ambien-tali oltre il limite della loro rigenerazione, si troverà a oscillare, come i lemming della tundra, tra periodi di grande crescita e altri caratterizzati da crolli vertiginosi. “L’economia consumi-stica attuale è come un fuoco o un’invasione di cavallette che consumano quello che si è accumulato, dopo di che il sistema si sposterà verso un lungo periodo in cui la produzione sarà mag-giore dei consumi… Se noi siamo in grado di prevedere le nuo-ve tendenze, possiamo preparaci ai cambiamenti. Possiamo edu-carci a essere flessibili nella scelta del lavoro; essere pronti a specializzarci in lavori tecnologici ma anche disporci a lavorare in campi più generici. Dobbiamo essere pronti a costruire e riparare da soli le nostre case, inventarci degli svaghi, ridurre i trasporti, aiutare i nostri vicini e le comunità ed essere più coinvolti nelle decisioni politiche locali”.

La sostenibilità ambientale, termine abusato e poco com-preso, può acquistare un senso concreto se si riconosce il conte-nuto eMergetico dei beni naturali.

Se si volesse, ad esempio, attribuire al petrolio il suo valore eMergetico, dovremmo considerare l’energia accumulata nelle foreste da cui si è formato, le forze che hanno generato il loro sprofondamento nel sottosuolo, il lavoro dei batteri che hanno trasformato il materiale organico di origine animale e vegetale in idrocarburi fossili.

In questo caso si potrebbe davvero considerarlo “oro nero” perché i suoi costi sarebbero ancora più elevati di quelli, peral-tro in continua ascesa, di mercato.

La distruzione di risorse ad alto contenuto energetico, come il petrolio, si accompagna alla produzione di anidride carbonica a una velocità troppo elevata per essere riassorbita dagli organi-smi fotosintetici. Il risvolto della medaglia è quindi inevita-bilmente l’alterazione della composizione atmosferica che è traducibile, come abbiamo visto, in un aumento di entropia.

Se il primo aspetto, quello della limitazione delle risorse era già stato percepito dagli economisti fin dai tempi di Malthus, quello dell’alterazione ambientale come inevitabile conseguen-za del nostro modello di sviluppo è stato affrontato solo in

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tempi più recenti. Negli anni ’60 del ventesimo secolo Geor-gescu–Roegen scriveva:

• il processo economico assorbe materie prime e rigetta ri-fiuti per cui più aumenta la produzione e più aumenta l’entropia del sistema

• l’uso delle risorse fossili e minerarie aumenta l’entropia della Terra.

Uno dei maggiori esponenti dell’economia ecologica attuale,

Bob Costanza, ha fondato una scuola che ha dato un grosso con-tributo per il calcolo quantitativo del valore degli ecosistemi della Terra, includendo non solo quelle componenti che hanno un’utilità per le società umane come fornitori di materie prime e cibo ma tutti i benefici o “servizi” utili alla conservazione del Pianeta Terra. Queste analisi consentono finalmente di tentare un bilancio complessivo dei costi e dei benefici prodotti dalle attività umana.

Allo scadere del secondo millennio Bob Costanza (2000) ha prospettato quattro scenari per il futuro dell’umanità:

• Star Trek: i problemi energetici sono risolti dalla fusione fredda e l’uomo colonizza il sistema solare risolvendo così il problema demografico

• Mad Max: non si trovano soluzioni all’esaurimento delle riserve di combustibili fossili. Il mondo è governato da corporazioni transnazionali i cui impiegati vivono in si-tuazioni protette.

• Buon governo: il governo sanziona le imprese che non perseguono gli interessi pubblici. Si attua la pianificazio-ne famigliare per controllare la crescita della popolazione

• Ecotopia: intervenendo con la tassazione delle imprese inquinanti si favoriscono le tecnologie ecologiche. Solu-zioni abitative adeguate e l’aumento del capitale sociale riducono la necessità di trasporti e di energia. I rifiuti diminuiscono perché si riduce il consumismo.

Credo che, se interpellati, tutti propenderemmo per l’ultimo

scenario. Ma la scelta è principalmente nelle mani delle grandi

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potenze economiche e dei Paesi più popolati della Terra. La Cina ha già più di un miliardo di abitanti e, sebbene sia uno dei più grossi produttori di cereali, sta per arrivare a una situazione in cui il fabbisogno supera la produzione. Ha anche contratto un grosso debito ambientale che potrebbe portare a una sostanziale diminuzione della fertilità dei suoli e alla necessità di maggiori quantità d’acqua.

Gli emungimenti d’acqua per irrigazione, uso industriale e civile del fiume Giallo l’hanno letteralmente prosciugato. Nel 1972 questo enorme fiume non è stato in grado di raggiungere il mare per 15 giorni all’anno e nel 1997 per 226 giorni in un’area che era in grado di produrre un quinto del fabbisogno di grano della Cina. Ricorrendo all’irrigazione con acqua di falda si sta riducendo il suo livello di 1,5 m all’anno (Brown, 2001).

Anche l’India ha gli stessi problemi di suolo e di acqua e po-trebbe in breve tempo superare il numero di abitanti della Cina.

Con l’aumento della popolazione umana, che è diventata prevalentemente stanziale e cittadina, tutto il suolo deve essere coltivato senza concedergli il tempo necessario per rigenerarsi. Lo stesso discorso vale per le falde che vengono prelevate con flussi superiori a quelli della ricarica. E poiché diventa sempre più difficile recuperare altrove risorse che sono state esaurite sul proprio territorio, la prospettiva è quella, come si direbbe in ecologia, di una sempre maggiore competizione per le risorse. I conflitti d’uso per l’acqua e il suolo sono già in atto in molti luoghi del pianeta (Shiva, 2003), come quelli per accaparrarsi il petrolio e le materie prime che cominciano a scarseggiare.

Come in passato, i problemi ambientali si sovrappongono alle tensioni politiche, rendendole più forti. Le stesse cause che furono alla base del crollo di molte civiltà (Diamond, 2005) determinano ora scontri tra popoli, malcelati dietro il pretesto di ideologie e culture differenti.

In realtà ora come allora, quando le risorse locali comincia-no a scarseggiare i popoli più intraprendenti cominciano a cer-carle altrove mentre forse ci sarebbe ancora una soluzione inter-na e meno conflittuale, che consiste nel loro uso razionale.

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Per capire la dimensione del problema gli eco–economisti hanno provato a calcolare non solo l’impatto delle attività uma-ne e i loro costi ambientali ma anche il grado di sperequazione nell’uso delle risorse tra i vari popoli della Terra.

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L’impronta ecologica

La Natura crea con quello che trova in giro senza generare rifiuti. Ogni elemento si trasferisce continuamente dall’atmosfe-ra all’idrosfera e alla litosfera per effetto di agenti fisici e di attività biologiche; può combinarsi con altri elementi, entrare a far parte della materia vivente, passare da un organismo all’altro e infine ritornare alla terra, all’acqua o al cielo. Ma grazie al suo percorso circolare ogni elemento si conserva e la composizione elementare degli oceani e dell’aria non cambia, per lo meno in un arco temporale di centinaia e, per alcuni elementi, di migliaia di anni.

Nelle società umane, invece, l’attitudine al consumo è molto forte e le trasformazioni tendono a essere lineari: molti dei ri-fiuti che noi generiamo non possono essere riconvertiti in mate-rie prime se non in piccola parte.

Chiaramente la situazione è molto diversificata nel nostro pianeta sia per i consumi sia per i rifiuti. Basta guardare nella borsa della spesa e nella pattumiera di un cittadino di New York e di uno del Mali per farsene un’idea: la spesa settimanale di generi alimentari per un componente di una famiglia Nord Americana è di 36,5 Euro mentre per uno del Mali è di 2,58 Euro. Nella pattumiera di un nord americano troveremo soprat-tutto plastica, carta e altri prodotti tecnologici, difficili da degra-dare mentre la maggior parte dei rifiuti del Terzo mondo con-tiene residui vegetali, facilmente riciclabili in agricoltura e, in ogni caso, facilmente degradabili se abbandonati nell’ambiente.

Se questi materiali vengono esaminati in termini eMergetici (energia necessaria per produrli) i prezzi più elevati possono es-sere giustificati non solo in termini quantitativi (gli statunitensi mangiano di più) ma anche qualitativi (le bistecche di manzo ri-chiedono una maggiore superficie terrestre per essere prodotte rispetto ai cereali che costituiscono la componente principale della dieta dei Paesi poveri).

Per accumulare eMergia la Natura usa le reti trofiche: il manzo, a parità di peso, è più energetico dell’erba di cui si nutre

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ma per allevare un bovino fino alla taglia ideale per la macel-lazione è necessaria un’area di pascolo che, utilizzata in agricol-tura, potrebbe fornire molte più calorie vegetali di quelle dispo-nibili in una quantità equivalente di bistecche. Il consumo ener-getico per produrre 1kg di bistecche è pari a quello che si otter-rebbe bruciando 9 litri di benzina.

Sul fronte dell’entropia, si può osservare un divario altret-tanto evidente: nel 1995 l’India con più di 900 milioni di abi-tanti ha immesso in atmosfera 0,81 tonnellate di anidride carbo-nica mentre gli Stati Uniti che avevano meno di un terzo di abitanti dell’India ne hanno immesse 19,5.

Uno strumento molto semplice per dare l’idea dell’impatto che ogni abitante della Terra provoca col suo stile di vita è la misura dell’impronta ecologica (Wackernagel e Rees, 1996), un indice che viene calcolato tenendo conto sia dei consumi sia delle necessità di eliminazione di ogni tipo di rifiuto. In termini energetici potremmo dire che l’impronta ecologica calcola sia l’erosione di eMergia che l’aumento di entropia.

È una metafora molto efficace che evoca l’idea del segno lasciato dal nostro passaggio sulla Terra e proprio grazie alla suggestione creata da questa metafora e alla facile comprensi-bilità del suo calcolo, l’impronta ecologica è diventata uno stru-mento molto utilizzato dagli enti locali.

Secondo le stime di Wackernagel e Rees, se tutto il terreno ecologicamente produttivo venisse equamente diviso tra gli attuali abitanti della Terra, a ciascuno di noi toccherebbe una “legittima quota” pari a un cerchio di 138 m di diametro, un sesto costituito da terreno arabile e il resto composto da natura intatta che deve svolgere il suo servizio di riciclo degli elementi e di fornitura di acqua e di altre risorse non strettamente alimen-tari. Sempre secondo questi Autori, questa superficie sarebbe appena sufficiente per garantire condizioni di vita decorose.

Il calcolo eseguito con i dati relativi al 1995 (Tabella 1) dimostra che già allora l’Impronta Ecologica globale (126 milioni di km2) era superiore alla biocapacità disponibile del pianeta (110 km2). In termini ecologici possiamo concludere, quindi che la Terra ha già raggiunto la sua “capacità portante”

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che per ogni popolazione è il tetto massimo di individui che può essere mantenuto da un determinato ecosistema.

In altri termini, l’Astronave Terra è già sovraffollata e per sopravvivere tutti dobbiamo consumate un po’ meno.

Questo discorso vale considerando l’ecosistema Terra nel suo complesso; localmente la disparità dell’uso delle risorse e della generazione di rifiuti richiederebbe un’ulteriore metafora, quella di un pianeta popolato da giganti e da lillipuziani.

Questa affermazione risulta più chiara confrontando le co-lonne della Tabella 1: per ogni Stato si confronta il numero di abitanti con l’impronta ecologica in ettari di ciascuno di loro (ovviamente si tratta di un dato medio) e con la disponibilità di risorse valutata sempre come superficie per abitante.

Da questo confronto risulta che un italiano medio sta utiliz-zando le risorse disponibili sul pianeta quattro volte più velo-cemente di un indiano. Forse questo dato non sorprende se si consideriamo i diversi stili di vita: il dato più preoccupante è che sia noi che loro stiamo consumando il doppio o più del doppio delle risorse disponibili.

Applicando a tutti gli abitanti della Terra il modello di svi-luppo che molti ritengono essere il più avanzato, cioè quello dei Paesi più ricchi, non faremmo che aprire le forbici del divario economico e aumentare le tensioni esistenti.

Per questo motivo mi piacerebbe che smettessimo di parlare di sviluppo sostenibile per cominciare a pensare seriamente a quale tipo di organizzazione sociale possa garantire la pacifica coesistenza degli abitanti della Terra.

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Tabella 1. Calcolo dell’Impronta ecologica (IE) degli abitanti della Terra (modificata da Chambers et al., 2002)

Paese Popolazione IE

52 Paesi (80% popolazione

mondiale)

nel 1995 in milioni

ha pro–capite

biocapacità disponibile

pro–capite (ha)

Argentina 34,768 3,0 4,4 Australia 17,862 9,4 1,9 Austria 8,045 4,6 4,1

Bangladesh 118,229 0,6 0,2 Belgio 10,535 5,1 1,7 Brasile 159,015 9,1 5,6 Canada 29,402 7,2 12,3

Cile 14,210 2,3 2,6 Cina 1,220224 1,4 0,6

Colombia 35,814 2,3 4,9 Corea del Sud 44,909 3,7 0,4

Costa Rica 3,424 2,8 2,0 Danimarca 5,223 5,9 4,2

Egitto 62,096 1,4 0,5 Etiopia 56,404 0,7 0,5 Filippine 67,839 1,4 0,8 Finlandia 5,107 5,8 9,9 Francia 58,104 5,3 3,7

Germania 81,594 4,6 1,9 Giappone 125,068 4,2 0,7 Giordania 4,215 1,6 0,2

Grecia 10,454 4,2 1,6 Hong Kong 6,123 6,1 0,0

Islanda 269 5,0 6,8 India 929,005 1,0 0,5

Indonesia 197,460 1,3 2,6 Irlanda 3,546 5,6 6,0 Israele 5,525 3,5 0,3 Italia 57,204 4,2 1,5

Malesia 20,140 3,2 4,3 Messico 91,145 2,5 1,3

Nuova Zelanda 3,561 6,5 1,9 Nigeria 111,721 1,0 0,6

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Norvegia 4,332 5,5 5,4 Paesi Bassi 15,482 5,6 1,5 Pakistan 136,257 0,9 0,4

Perù 23,532 1,4 7,5 Polonia 38,557 3,9 2,0

Portogallo 9,815 3,8 1,8 Regno Unito 58,301 4,6 1,5 Rep. Ceca 10,263 3,9 2,6

Russia 148, 460 4,6 4,3 Singapore 3,327 6,6 0,0 Sud Africa 41,465 3,0 1,0

Spagna 39,627 3,8 1,4 Stati Uniti 267,115 9,6 5,5

Svezia 8,788 6,1 7,9 Svizzera 7,166 4,6 1,8

Thailandia 58,242 1,9 1,3 Turchia 60,838 2,1 1,2

Ungheria 10,454 3,1 2,6 Venezuela 21,844 4,0 4,7

mondo 5,687114 2,2 1,9

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Qualità o quantità

Secondo l’economista irlandese Richard Douthwaite (1999) l’uomo ha avuto tre grosse occasioni per rendersi conto di non essere padrone dell’Universo: la Rivoluzione Copernicana, la Rivoluzione Darwiniana e quella contemporanea in cui deve fare i conti con le leggi della natura e i limiti che queste leggi impongono.

Se vogliamo essere ottimisti e continuare a pensare che la prerogativa della nostra specie, la famosa scimmia nuda di Desmon Morris, sia l’intelligenza e la capacità di trasmettere ai figli il proprio bagaglio culturale dovremmo metterci d’impegno per fare di necessità virtù. Come i nostri progenitori primati, rimediarono con le prolungate cure parentali e lo sviluppo del linguaggio alla loro fragilità fisica nei confronti dei progenitori, all’inizio del terzo millennio possiamo e dobbiamo interrogarci rispetto alla strategia più opportuna da adottare non solo per assicurarci la sopravvivenza ma anche il nostro benessere: dobbiamo decidere la rotta dell’Astronave Terra.

Secondo Lester Brown, direttore dell’“Earth Policy Insti-tute” di Washington ci troviamo di fronte a una scelta epocale (Eco–economy, 2001):dobbiamo decidere se l’ambiente è par-te dell’economia o se l’economia è parte dell’ambiente. Ab-biamo l’opportunità di costruire una “eco–economia” che, par-tendo dalla constatazione di una situazione di difficoltà (scar-sità di risorse, problemi legati all’inquinamento) crei nuove opportunità.

Utopia o realismo? Credo che a noi tutti convenga lavorare per rendere reale quello che ora sembra solo utopia dando fiducia agli economisti che hanno voltato le spalle alle teorie più tradizionali per abbracciare la causa dell’ambiente.

Crescita e sviluppo sono principi imperativi dell’economia classica, una eredità che deriva dalla lettura semplicistica delle teorie evolutive di Darwin secondo la quale solo chi cresce più rapidamente appropriandosi in modo più efficiente delle risorse si afferma e tramanda la propria discendenza.

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In modo altrettanto semplicistico, crescita e sviluppo di una società vengono stimati, come si è visto, in base alla crescita del suo PIL (Prodotto Interno Lordo) che corrisponde al valore commerciale di tutte le merci e i servizi prodotti in un anno. Il PIL considera solo le cose e i servizi che vengono comprati e venduti, includendo spese che non implicano una relazione con lo stato di benessere della popolazione e trascurando attività che non comportano spesa ma sono essenziali per il funzionamento della società.

I trasporti per andare al lavoro, la polizia, l’esercito, lo smal-timento dei rifiuti, la manutenzione delle strade, sono spese ne-cessarie per le comunità delle società moderne. Esse rendono possibile lo svolgimento delle altre attività ma non dovrebbero essere incluse nel PIL perché non sono motori della crescita ma una sua conseguenza inevitabile.

William Nordhaus e James Tobin, premi Nobel per l’econo-mia, hanno elaborato un nuovo indice, il MEW (Measure of Economic Welfare) che considera i costi sociali delle società moderne come un valore da sottrarre al PIL.

Al contrario, l’educazione, la cura dei bambini e dei vecchi, il riordino che, come abbiamo visto, riduce l’entropia delle nostre abitazioni mantenendole vivibili, dovrebbero essere con-siderate nel PIL, anche se non sono attualmente soggette a con-tribuzione, perché generano benessere e sviluppo culturale. Anche il debito ambientale che viene accumulato utilizzando risorse non rinnovabili o inquinando l’aria, l’acqua e il suolo non viene conteggiato nel computo del PIL nonostante sia più che evidente che in molti Paesi le risorse vengono utilizzate ben più velocemente di quanto serva per la loro rigenerazione e che prima o poi il debito accumulato dovrà essere pagato.

Apportando queste correzioni del PIL, Douthwaite, ha dimo-strato che sia negli Stati Uniti che in Inghilterra, dopo un pe-riodo di crescita continua a partire dalla seconda guerra mondia-le fino agli anni ’70, si è registrato un arresto negli anni ’80 e un declino successivo fino ai giorni nostri.

Nel 2005 è stato pubblicato l’Indice di Sostenibilità Ambien-tale (Environmental Sustainability Index, ESI) da parte del Yale

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Center for Environmental Law and Policy della Yale University e del Center for International Earth Science Information Net-work della Columbia University (http://www.yale.edu/esi/). Questo indice considera le componenti ambientali e socio–eco-nomiche come descrittori della tipologia di sviluppo di un Paese e del suo grado di sostenibilità. Una classifica fatta in base a questi parametri (Tabella 2) vede la Finlandia come miglior Paese in ambito europeo, mentre all’ultimo posto c’è il Belgio, paragonabile al Bangladesh e al Togo se si prendono in consi-derazione anche i Paesi extra–europei. L’Italia ha un punteggio simile a quello della Gran Bretagna e della Grecia ma anche della Bulgaria, della Mongolia e del Gambia. Questi dati sono il risultato di un programma di calcolo piuttosto complesso che considera non solo l’utilizzo delle risorse e la loro disponibilità come nel caso dell’Impronta Ecologica, ma anche il livello di benessere e di istruzione raggiunto da una popolazione. Per questo la graduatoria è diversa da quella riprodotta nella tabella del capitolo precedente.

Ci si può chiedere come mai queste analisi e questi indici siano ignorati dai mass media quando periodicamente veniamo aggiornati sull’andamento della crescita economica del nostro Paese.

Credo che il motivo sia prevalentemente demagogico: se i politici mostrassero ai propri elettori un andamento statico o ad-dirittura negativo dello sviluppo economico perderebbero con-sensi e porgerebbero il fianco a critiche che fino a questo momento sono parzialmente sopite dall’illusione che il pros-simo governo possa garantire una ripresa economica.

Questa illusione autoalimenta la crescita dei consumi dei Paesi più sviluppati e in quelli che stanno industrializzandosi senza generare un miglioramento degli standard di vita, anzi, in molti casi, peggiorandoli.

Secondo Umberto Galimberti (2003) il consumismo è uno dei nuovi vizi capitali della società moderna. A differenza di quelli storici che definiscono tipologie umane con caratteri che ne determinano le azioni su questa terra e il destino nell’al di là, il consumismo è un vizio di massa che ci omologa in un destino

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di privazione di ogni capacità di scelta. Un po’ come per il “fast food” inventato per adeguare le necessità di sostentamento di individui che non hanno tempo da perdere per consumare il cibo, la “fast growth” sarebbe un’invenzione finalizzata al man-tenimento del potere economico attuale. Ma se, come sta av-venendo in molte realtà locali, si cominciassero a usare i de-scrittori giusti per valutare l’andamento della crescita economi-ca la percezione del pubblico potrebbe essere meglio orientata. Tabella 2. Classi fica e punteggio ESI 2005. La prima colonna

indica la posizione del paese riportato nella seconda colonna, la terza colonna è il punteggio ESI la quar-ta il punteggio OCSE e la quinta il punteggio dei paesi non–OCSE.

1 Finland 75.1 1 38 Malaysia 54.0 23 2 Norway 73.4 2 39 Congo 53.8 24 3 Uruguay 71.8 1 40 Mali 53.7 25 4 Sweden 71.7 3 41 Netherlands 53.7 16 5 lceland 70.8 4 42 Chile 53.6 26 6 Canada 64.4 5 43 Bhutan 53.5 27 7 Switzerland 63.7 6 44 Armenia 53.2 28 8 Guyana 62.9 2 45 United States 52.9 17 9 Argentina 62.7 3 46 Myanmar 52.8 29 10 Austria 62.7 7 47 Belarus 52.8 30 11 Brazil 62.2 4 48 Slovakia 52.8 18 12 Gabon 61.7 5 49 Ghana 52.8 31 13 Australia 61.0 8 50 Cameroon 52.5 32 14 New Zealand 60.9 9 51 Ecuador 52.4 33 15 Latvia 60.4 6 52 Laos 52.4 34 16 Peru 60.4 7 53 Cuba 52.3 35 17 Paraguay 59.7 8 54 Hungary 52.0 19 18 Costa Rica 59.6 9 55 Tunisia 51.8 36 19 Croatia 59.5 10 56 Georgia 51.5 37 20 Bolivia 59.5 11 57 Uganda 51.3 38 21 lreland 59.2 10 58 Moldova 51.2 39 22 Lithuania 58.9 12 59 Senegal 51.1 40 23 Colombia 58.9 13 60 Zambia 51.1 41

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24 Albania 58.8 14 61 Bosnia & Herze. 51.0 42 25 Central Afr. Rep. 58.7 15 62 lsrael 50.9 43 26 Denmark 58.2 11 63 Tanzania 50.3 44 27 Estonia 58.2 16 64 Madagascar 50.2 45 28 Panama 57.7 17 65 Nicaragua 50.2 46 29 Slovenia 57.5 18 66 United Kingdom 50.2 20 30 Japan 57.3 12 67 Greece 50.1 21 31 Germany 56.9 13 68 Cambodia 50.1 47 32 Namibia 56.7 19 69 ltaly 50.1 22 33 Russia 56.1 20 70 Bulgaria 50.0 48 34 Botswana 55.9 21 71 Mongolia 50.0 49 35 P. N. Guinea 55.2 22 72 Gambia 50.0 50 36 France 55.2 14 73 Thailand 49.7 51 37 Portugal 54.2 15 74 Malawi 49.3 52 75 Indonesia 48.8 53 111 Togo 44.5 84 76 Spain 48.8 23 112 Belgium 44.4 28 77 Guinea–Bissau 48.6 54 113 Dem. Rep. Congo 44.1 85 78 Kazakhstan 48.6 55 114 Bangladesh 44.1 86 79 Sri Lanka 48.5 56 115 Egypt 44.0 87 80 Kyrgyzstan 48.4 57 116 Guatemala 44.0 88 81 Guinea 48.1 58 117 Syria 43.8 89 82 Venezuela 48.1 59 118 EI Salvador 43.8 90 83 Oman 47.9 60 119 Dominican Rep. 43.7 91 84 Jordan 47.8 61 120 Sierra Leone 43.4 92 85 Nepal 47.7 62 121 Liberia 43.4 93 86 Benin 47.5 63 122 South Korea 43.0 29 87 Honduras 47.4 64 123 Angola 42.9 94 88 Còte d’Ivoire 47.3 65 124 Mauritania 42.6 95 89 Serbia &

Montenegro 47.3 66 125 Libya 42.3 96

90 Macedonia 47.2 67 126 Philippines 42.3 97 91 Turkey 46.6 24 127 VietNam 42.3 98 92 Czech Rep. 46.6 25 128 Zimbabwe 41.2 99 93 South Africa 46.2 68 129 Lebanon 40.5 100 94 Romania 46.2 69 130 Burundi 40.0 101 95 Mexico 46.2 26 131 Pakistan 39.9 102 96 Algeria 46.0 70 132 Iran 39.8 103 97 Burkina Faso 45.7 71 133 China 38.6 104 98 Nigeria 45.4 72 134 Tajikistan 38.6 105

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99 Azerbaijan 45.4 73 135 Ethiopia 37.9 106 100 Kenya 45.3 74 136 Saudi Arabia 37.8 107 101 India 45.2 75 137 Yemen 37.3 108 102 Poland 45.0 27 138 Kuwait 36.6 109

103 Niger 45.0 76 139 Trinidad & Tobago 36.3 110

104 Chad 45.0 77 140 Sudan 35.9 111 105 Morocco 44.8 78 141 Haiti 34.8 112 106 Rwanda 44.8 79 142 Uzbekistan 34.4 113 107 Mozambique 44.8 80 143 Iraq 33.6 114 108 Ukraine 44.7 81 144 Turkmenistan 33.1 115 109 Jamaica 44.7 82 145 Taiwan 32.7 116 110 UnitedArabEm. 44.6 83 146 NorthKorea 29.2 117

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Globalizzazione e saperi locali

Il condizionamento al consumismo, attuato con l’uso indi-scriminato dei mezzi mediatici, ci impedisce di cambiare le re-gole del mercato economico. Come dice testualmente Douth-waite, “la promessa di marmellata per tutti domani ha abituato le nostre coscienze ad accettare l’iniqua divisione del pane oggi”.

Se questa è ancora la condizione attuale, possiamo cogliere i segni di un fenomeno che sta infiltrandosi nelle nostre società in modo molto invasivo e trasversale nell’economica, nella cul-tura, nella politica e nei problemi ambientali.

Si tratta della globalizzazione, indubbiamente negativa sotto certi aspetti come quello della contaminazione globale ma forse positiva per il fatto che molti problemi vengono considerati comuni a tutta l’umanità.

Questo fenomeno è stato reso possibile anche a causa della diffusione delle informazioni attraverso la “rete” informatica che aumenta la velocità di scambio e di condivisione delle in-formazioni.

La rete, come molti strumenti della tecnologia, si presenta come un’arma a doppio taglio perché potrebbe accelerare l’evo-luzione culturale ma aumentare anche il divario tra società informatizzate e quelle prive di strumenti di comunicazione. Un ulteriore rischio della rete e degli altri mezzi di comunicazione è quello di generare un appiattimento delle società su un unico modello di tipo consumistico.

Se quest’ ultima tendenza dovesse prevalere, il processo di globalizzazione finirebbe per erodere le culture che si sono differenziate nel corso dei millenni in funzione di peculiari condizioni ambientali. Ogni luogo della Terra è in grado di sostenere un numero limitato di abitanti che dipende dalle caratteristiche ambientali: questo è il significato della “bioca-pacità”. Il Sahel, ad esempio, è un ecosistema a savana che può mantenere un abitante per ogni km2 di superficie mentre un pascolo mediterraneo ne può sostenere 14.

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I programmi di assistenza che hanno cercato di convertire i pastori nomadi del Sahel in agricoltori hanno portato a una rapida desertificazione dei suoli con conseguenze catastrofiche sia ambientali sia umane. Tanti esperimenti di colonizzazione si sono dimostrati fallimentari proprio per la mancanza di cono-scenze di natura ecologica dei territori colonizzati. Ogni inva-sore o esploratore portava con sé un bagaglio culturale acquisito nel Paese di provenienza, spesso molto diverso da quello che andava occupando o scoprendo.

Diamond (2005), studiando le conseguenze delle invasioni vichinghe nelle isole del mare del Nord e in Groenlandia, con-cluse che mentre alcune isole poterono essere occupate dagli invasori che fecero del territorio un uso simile a quello dei luo-ghi di provenienza, l’invasione della Groenlandia fu fallimen-tare per i Vichinghi mentre i nativi Inuit riuscirono a soprav-vivere fino ai giorni nostri.

Molto spesso, si è dovuto ammettere a posteriori che gli indigeni, considerati selvaggi dai nuovi coloni, avevano rag-giunto nel corso dei secoli un loro modo di ottimizzare le risorse ambientali e di affrontare le avversità determinate da annate particolarmente sfavorevoli dal punto di vista climatico. Gli studi antropologici ed ecologici hanno dimostrato che que-sto co–adattamento, evolutosi con modalità proprie nei diversi ecosistemi della Terra, è stato ed è tuttora, dove è riuscito mantenersi, un patrimonio culturale di grande portata.

Quando i primi esseri umani migrarono dall’Asia al Nord America, 13.000 anni fa, è probabile che abbiano sterminato i grandi mammiferi che popolavano quelle terre. Successivamen-te, i sopravvissuti ai cambiamenti climatici verificatisi in quei tempi, diventarono i popoli che ora chiamiamo “nativi america-ni”. Per sopravvivere queste tribù dovevano incendiare piccole porzioni di foresta, creando un paesaggio a mosaico, con appez-zamenti a pascolo che assicuravano cibo alle mandrie di bisonti, tipico erbivoro delle praterie Nord Americane. L’erbivoria del bisonte non distrugge completamente le piante erbacee ma con-tribuisce a formare la policoltura delle ventose praterie di quella regione. Questi animali erano la risorsa principale degli indiani

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che ne uccidevano solo un piccolo numero, utilizzandone ogni parte non solo a scopo alimentare ma anche per ricavare indu-menti e utensili.

Quando i coloni americani, subentrati ai nativi, sterminarono i bisonti e trasformarono il pascolo in terre coltivate finirono per impoverire il suolo, che rimaneva privo di erbe e radici dopo il raccolto e veniva eroso dall’acqua e dal vento.

Nel 1934 gli Stati Uniti orientali furono invasi da una nube di polvere (Dust Bowl) che si era originata nelle Grandi Pia-nure per effetto dell’erosione del suolo e che veniva traspor-tata dal vento, raggiungendo città distanti centinaia di chilo-metri. A seguito di questo disastro ambientale, che provocò in piena depressione economica la migrazione di migliaia di famiglie di agricoltori verso le città, fu costituito il Servizio di protezione del Suolo per promuovere azioni di recupero e conservazione.

Questo è uno degli esempi più emblematici dell’era moderna di come la sottovalutazione dei saperi locali e la illimitata e ir-razionale fiducia nelle proprie capacità di dominare l’ambiente, che caratterizzava i pionieri abbiano portato alla perdita di so-stenibilità di enormi territori.

I ricercatori statunitensi stanno ancora cercando le strategie più opportune per il recupero dei suoli; una di queste consiste nella reintroduzione di piante perenni autoctone per ricostruire la scorza di terra portata via dal vento un secolo fa; ma questa rinaturalizzazione potrebbe richiedere tempi lunghissimi. Men-tre la distruzione di un suolo può avvenire in pochi anni, la sua ricostruzione può richiedere secoli.

Se possiamo scusare in parte i pionieri, molti dei quali spinti dalla necessità e armati di buona fede, ben più grave è l’azione di rapina perpetrata ai nostri giorni sui saperi locali. La biopro-spezione è una pratica che consente alle multinazionali di de-predare legalmente gli indigeni né più né meno di quanto av-veniva ai tempi della colonizzazione dell’America cinque secoli fa quando prima il Re Ferdinando e poi papa Alessandro VI diedero ai colonizzatori il privilegio di scoperta e di conquista di quelle terre (Shiva, 1999).

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Alcune varietà di riso, selezionate sul campo dagli agricol-tori indiani nel corso dei secoli, sono state “copiate” mediante ingegneria genetica e brevettate utilizzando il nome indigeno della varietà naturale.

Secondo Vandana Shiva, in prima linea nella difesa dei diritti dei popoli nativi, “Con sensibilità e responsabilità spetta a noi — chiunque siamo e dovunque ci troviamo — riconciliarci con la diversità. Dobbiamo imparare che la diversità non è una ricetta per il conflitto e il caos, ma la nostra sola possibilità per un futuro più giusto e più sostenibile in termini ambientali, eco-nomici, politici e sociali. È la nostra unica strada per soprav-vivere”.

D’altra parte, l’acquisizione e lo sfruttamento a scopo commerciale del patrimonio naturale è un fenomeno sempre più diffuso: si sta privatizzando la biodiversità, conservando in provetta quello che andiamo distruggendo su scala territoriale o globale.

Ad esempio, la multinazionale tedesca Merck ha pagato un milione di dollari all’INBio, l’Istituto Nazionale di biodiversità del Costarica, per analizzare campioni di piante delle foreste pluviali, uno dei più grandi e antichi “laboratori di sintesi di sostanze naturali” per la maggior parte ancora da scoprire per sperimentare in campo farmaceutico.

Questo accordo comporta che l’eventuale scoperta del potere curativo di essenze naturali darebbe all’azienda il diritto di brevetto e di uso esclusivo di sostanze che sono state “inven-tate” dalle piante e che potrebbero fare già parte dei medi-camenti utilizzati dai guaritori del luogo.

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Il costo del sapere

Se la cultura del mondo tecnologico si potesse valutare in base alla quantità di informazioni rese disponibili dalla rivo-luzione informatica, potremmo ritenerci molto più colti delle generazioni che ci hanno preceduto. Ma la disponibilità è una condizione necessaria, non sufficiente all’acquisizione delle informazioni.

La globalizzazione del sapere rischia di diventare una trap-pola per la rapidità con la quale le informazioni possono essere scambiate. Abbiamo generato un mostro che corre ancora più velocemente di noi stessi.

Forse in questo enorme bagaglio di dati abbiamo le risposte a molti dei problemi che abbiamo generato ma sarà sempre più difficile decifrarle. Credo che il nostro cervello stia per cadere nella rete informatica che ha costruito semplicemente per il fatto che l’evoluzione biologica è incredibilmente più lenta di quella tecnologica e che la trasmissione di informazioni avviene a una velocità molto più elevata di quella che ci occorre per vagliarle e assimilarle. Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che l’accesso alle informazioni è limitato a un esiguo numero di abitanti del pianeta e la loro comprensione è appan-naggio di settori ancora più ristretti di specialisti.

L’uomo non è un contenitore in cui i dati possano essere “versati”: la comunicazione è prima di tutto un fatto emozionale e determinata in gran parte dal bagaglio culturale in possesso di chi riceve il messaggio.

Maturana e Varela (1987) sottolineano la peculiarità della comunicazione tra gli esseri viventi con un esempio molto efficace: supponiamo di dare un calcio a un sasso o a un cane che si presentano sul nostro cammino. Nel primo caso, cono-scendo il peso e la forma del sasso e le asperità del suolo, po-tremmo prevedere gli spostamenti del sasso in base alle leggi della fisica. Nel secondo caso la reazione dell’animale sarebbe imprevedibile perché dipenderebbe dal suo carattere e dal suo stato d’animo.

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È proprio questo l’aspetto affascinante dalla comunicazione e dell’apprendimento nella specie umana; si tratta di processi che generano cambiamenti reciproci, non sempre prevedibili all’istante. Una conversazione stimolante può cambiare la no-stra vita a distanza di tempo, lavora dentro di noi in modo impercettibile fino a che non riemerge in tutta la sua chiarezza.

Se il ruolo dell’insegnante fosse quello di trasmettere infor-mazioni, potrebbe essere sostituito molto più economicamente da Internet.

In gran parte questo sta già avvenendo e indubbiamente il modo di studiare di oggi è condizionato dagli strumenti infor-matici ma spesso, o forse sempre, quello che ci spinge ad ac-costarci al computer e a utilizzare un motore di ricerca è una curiosità che qualcuno ha acceso in noi nel più antico e tradizio-nale dei modi: la comunicazione orale e scritta.

Un’altra malattia di crescita della cultura è la sua frammen-tazione.

Purtroppo l’estrema specializzazione del sapere scientifico porta a sviluppare linguaggi settoriali che rendono difficoltosa sia la comunicazione tra diverse discipline sia la “volgariz-zazione” del sapere scientifico.

Certo è impensabile immaginare al giorno d’oggi scienziati a 360 gradi come Leonardo da Vinci ma non possiamo neppure accettare che l’acquisizione di un nuovo linguaggio e di raffinati strumenti di ricerca comporti l’isolamento dalla società e da tutti gli altri campi del sapere.

Se questo problema diventa ogni giorno più presente nel campo dell’educazione, a questo si deve aggiungere la privatiz-zazione del sapere.

Un fenomeno preoccupante che si sta verificando nelle società tecnologiche è la compravendita dei frutti dell’ingegno umano e delle basi stesse dell’informazione genetica. La priva-tizzazione del sapere avviene non solo a discapito dei saperi locali ma anche di quello individuale.

L’economista Robert Solow ha detto che uno dei mali più grossi che impedisce la realizzazione di un mondo più equo è rappresentato dalla presenza dei brevetti. Il vincolo del brevetto

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lega gli scienziati e ne condiziona la creatività e inchioda i popoli poveri e malati a non poter usufruire di importanti sco-perte che potrebbero alleviare i loro mali. I proventi dei brevetti vanno alle multinazionali e ai colossi della finanza. Si tratta di un’enorme ingiustizia nei confronti dell’umanità che si estende dalle invenzioni del cervello umano al patrimonio genetico esistente in natura.

Si stanno brevettando cereali geneticamente modificati ma anche geni e cellule. Il 32% del mercato delle sementi è con-centrato nelle mani di dieci multinazionali mentre le industrie farmaceutiche, detengono le banche dati del DNA umano dalle quali sperano di ricavare l’esclusiva per la cura di malattie che dipendono da predisposizioni genetiche.

Chi stabilisce il prezzo di mercato di una scoperta scientifica non tiene conto dell’enorme quantità di eMergia costruita nel libero percorso del pensiero umano: una rete neurale senza solu-zione di continuità dall’uomo primitivo agli scienziati contem-poranei che può crescere in modo armonioso solo a condizione di condividere e verificare di continuo il valore e l’utilità di ogni nuova idea o prodotto della creatività umana.

Svevo scriveva nella coscienza di Zeno “… l’occhialuto uomo inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa.”

Nel libro di Jeremy Rifkin l’Era dell’accesso (2000) si cita un caso, portato in giudizio alla Corte Suprema della California, in cui un privato cittadino denunciava la Clinica Universitaria presso la quale era stato ricoverato per curare un tumore perché si era accorto che le sue cellule tumorali erano state brevettate senza riconoscergli alcun diritto di proprietà.

Non mi scandalizza l’idea che l’uomo possa manipolare il patrimonio genetico di vegetali e animali, compreso quello del genoma umano. E non sono neppure molto preoccupata per la mia salute e quella dei miei famigliari al pensiero di aver mangiato spaghetti geneticamente modificati. Se questa fosse la strada per la soluzione della fame nel mondo e delle malattie che affliggono milioni di persone vedrei positivamente questi nuovi frutti della tecnologia.

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Ma come fidarsi di soluzioni tecnologiche che non fanno che concentrare le proprietà economiche nelle mani di pochi a bene-ficio di minoranze ricche?

Le ricerche condotte in campo medico sono rivolte soprat-tutto alla cura del cancro, malattia comune nei paesi ricchi mentre in alcuni paesi dell’Africa fino al 36 % della popola-zione è affetta dal virus l’HIV e non ha i mezzi per curarsi.

L’investimento in sapere è sicuramente il più lungimirante e proficuo che una società e un singolo individuo possano fare, può liberarli dalla necessità di compiere lavori faticosi e perico-losi, offrendo l’opportunità di dedicarsi a occupazioni interes-santi e stimolanti. Ma dobbiamo stare attenti che anche il sapere non si riduca a pura merce di scambio che finiremmo col pagare con la perdita di uno dei valori più nobili che possediamo, forse anche più importante della conoscenza: la libertà di pensiero.

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Gli OGM salveranno il Terzo Mondo dalla fame?

Ci sono argomenti sui quali non è facile prendere posizione neppure in qualità di esperti. Le Organizzazioni Internazionali rimandano di anno in anno la decisione del definitivo divieto d’uso del DDT in tutto il globo terrestre perché se è vero che si tratta di un contaminante globale è altrettanto vero che attual-mente salva la vita di milioni di persone che senza questo pesti-cida sarebbero condannate a morire di malaria. Ci si può chie-dere se è giusto farlo o se non sia il caso di accelerare quei pro-cessi che hanno permesso di sconfiggere definitivamente il Pla-

smodium falciparum in Europa e in altre parti del mondo, ma questo è discorso molto più ampio dietro il quale non ci si può nascondere per evitare di affrontare i problemi così come si presentano oggi.

Un argomento di portata ancora più ampia è quello della fame del mondo. Un mondo civile non può sopportare 20 milio-ni di morti per fame mentre il 18% della popolazione mondiale soffre di obesità.

Le biotecnologie applicate all’agricoltura stanno tentando di dare una risposta a questo problema aumentando le rese dei raccolti grazie all’uso di piante geneticamente modificate. Io credo, come ho già avuto modo di dire, che non possiamo avan-zare riserve dovute alla nostra diffidenza per tutto quello che non è naturale davanti a uno scenario in cui ne va della vita di milioni di persone per la maggior parte bambini.

Il vero problema è che molti personaggi che hanno toccato con mano le devastanti conseguenze della fame nel mondo non sono convinti che gli OGM siano la risposta giusta a questo problema.

Mentre il Vaticano starebbe esaminando attentamente la questione degli alimenti geneticamente modificati, l’agricoltura biotecnologica trova molte opposizioni nel mondo dei missionari, uno per tutti Alex Zanotelli, missionario Combonia-no che vive nella baraccopoli di Korogocho in Kenya. In una recente intervista cita un documento dei vescovi del Sud Africa,

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in cui si mostra chiaramente come non siano certo gli Ogm a risolvere il problema della fame nel mondo. Il pericolo, anzi, è che poche multinazionali assumano il controllo della produzio-ne di cibo, costringendo i contadini poveri ad andare a compe-rare le sementi geneticamente modificate. Lui crede che non sia la mancanza di cibo il vero problema.

La vera preoccupazione per Zanotelli è quella di dare a poche multinazionali il controllo sull’elemento fondamentale per l’uomo che è il cibo. Diventeremmo tutti prigionieri.

Sul fatto che di cibo ce ne sia in abbondanza sulla Terra io ho qualche riserva ma quel che è certo è che molto di questo cibo potrebbe essere utilizzato meglio. Gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali a uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana. In un’intervista rilasciata all’Espresso, Jeremy Rifkin disse:

“Al momento, uno sconcertante 36 per cento della produ-zione mondiale di grano è consacrato all’allevamento del bestia-me. Nelle aree in via di sviluppo, dal 1950 a oggi, la quota–parte di grano destinata alla zootecnia è triplicata e ora supera il 21 per cento del totale di grano prodotto. In Cina, dal 1960 a oggi, la percentuale di grano da allevamento è triplicata (dall’8 al 26 per cento). Nello stesso periodo, in Messico, la percen-tuale è cresciuta dal 5 al 45 per cento, in Egitto dal 3 al 31, e in Thailandia dall’uno al 30 per cento”.

Come insegna l’ecologia, a ogni passaggio della materia at-traverso la catena alimentare, si hanno perdite consistenti per-ché ogni organismo ha bisogno di energia per mantenersi e riprodursi che necessariamente ricava da quello che mangia se non è in grado di fissare l’energia del sole come fanno i ve-getali.

Quando un manzo di allevamento sarà pronto per il macello, avrà consumato 1.223 chili di grano e peserà approssimati-vamente 475 chilogrammi, non tutti utilizzabili per l’alimenta-zione umana. La terra coltivata a legumi e verdure produce pro-teine in misura 10 e 15 cinque volte maggiore rispetto quella destinata all’allevamento di carni.

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La nostra scelta alimentare condiziona pesantemente l’im-pronta ecologica che lasciamo sul pianeta.

Non è difficile verificarlo usando un programmino disponi-bile in internet (http://www.earthday.net/foodprint/quiz3.asp) in cui vengono formulate 14 domande riguardanti le nostre abi-tudini alimentari, i mezzi di trasporto usati abitualmente, la so-luzione abitativa la cui risposta condiziona il risultato del calcolo dell’impronta ecologica personale.

Prima di avviarci ad applicare soluzioni tecnologiche che, a detta di molti non risolvono il problema alla radice, conviene interrogarci su quello che è possibile fare qui e ora. E chi si deve interrogare è chi ha una possibilità di scelta non chi è sotto il ricatto della fame o della malattia.

Non si tratta di decidere per gli altri ma di decidere consa-pevolmente.

Questa è una straordinaria occasione per recuperare le radici della nostra cultura anche mediante la preparazione del cibo e il suo consumo.

Nel nostro Paese dovremmo ritornare alla dieta mediterranea di cui i cereali, gli ortaggi, il pesce azzurro, l’olio e il vino sono i principali ingredienti

In un’indagine fatta dal Seven Countries study, studio internazionale che ha confrontato per 30 anni le abitudini ali-mentari di 7 nazioni, Olanda, Grecia, Italia, Finlandia, Stati Uniti, Giappone ed ex Jugoslavia, è risultato che molte per-sone, soprattutto giovani, preferiscono recarsi nei fast food o mangiare alla spicciolata merendine industriali. Il consumo di cibi contenenti grassi animali va aumentando sempre di più con un conseguente aumento dei disturbi cardiovascolari e delle patologie tumorali. Lo studio fu ulteriormente approfon-dito coinvolgendo 12 mila persone tra i 40 e 59 anni di sette diverse nazioni, residenti in agglomerati urbani e zone agri-cole. Le conclusioni provano che le aree non mediterranee era-no caratterizzate da un numero di decessi per malattie cardio-vascolari doppi rispetto a quelle mediterranee. Le zone mi-gliori furono decretate: le isole di Creta e Corfù in Grecia; il paesino emiliano di Crevalcore (la classifica era stata redatta

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prima dell’incidente ferroviario del 2005!); il paesino marchi-giano di Montegiorgio; Nicotera in Calabria e la Dalmazia.

Esiste addirittura un indice che, dividendo la percentuale dell’energia fornita dai cibi, permette di valutare quanto la nostra alimentazione sia corretta dal punto di vista dei rischi per la salute.

Oltre a questo punto di vista salutista vorrei sottolineare il valore aggiunto della soddisfazione del piacere della vista, del gusto e della convivialità che il cibo mediterraneo procura.

Certamente la sua preparazione richiede tempo ed espe-rienza, eMergia che è spesso il risultato di trasmissione orale del sapere o della curiosità del viaggiatore attento. Ma se, oltre a garantirci una salute migliore, è anche in grado di contribuire a risparmiare le risorse, forse vale la pena di spendere un po’ di tempo in più per fare la spesa, cucinare e cenare con gli amici.

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Il decollo della nuova economia

Se riconosciamo all’economia un ruolo determinante nello stile di vita adottato dalle società moderne, dobbiamo affidarci a questa scienza per assicurare un futuro accettabile alle nuove generazioni.

Secondo Lester Brown, si possono già leggere i segni dei cambiamenti in atto in campo economico, generati non dalla vo-lontà dei singoli ma dalle forze stesse che muovono i motori dell’economia. I Paesi che hanno fatto scelte energetiche nei settori dell’eolico, del solare, dell’idrogeno stanno conquistando grosse fette di mercato proprio in quei Paesi in via di sviluppo che non possono percorrere le stesse strade che abbiamo battuto nei Paesi tecnologici nel secolo scorso. L’eco–economia si pre-senta come un cambiamento rivoluzionario paragonabile alla Rivoluzione Industriale e alla Rivoluzione Verde che darà un nuovo impulso allo sviluppo di tecnologie avanzate sia per generare energia rinnovabile sia per riciclare materiali esauriti sia per creare nuovi prodotti che siano concepiti in modo più ecologicamente compatibile dal punto di vista della loro produ-zione, della durata e dello smaltimento a fine uso.

Non ci saranno settori dell’economia globale che potranno stare al di fuori della Rivoluzione ambientale. Solo gli impren-ditori che sapranno anticipare le problematiche emergenti e investire in questa direzione potranno conquistare il mercato.

Sinora per contenere il danno prodotto dalle attività indu-striali si è provveduto a sviluppare strumenti di controllo delle immissioni di gas nocivi in atmosfera e di scarichi inquinanti nelle acque superficiali. Sono stati posti limiti di accettabilità dei potenziali veleni nei prodotti ortofrutticoli e in tutti gli altri alimenti ma i costi dei controlli che salgono in modo verti-ginoso col crescere del numero di sostanze immesse sul mercato ricade sulla società che già ora non è in grado di sostenerli.

Si è arrivati a quotare in borsa i crediti ambientali dei Paesi che producono meno anidride carbonica di quanto consentito dai protocolli internazionali.

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Tutto ciò è paradossale se pensiamo che il rispetto di questi protocolli non consente comunque il raggiungimento dell’obiet-tivo di fermare l’aumento dell’effetto serra.

Uno strumento probabilmente più efficace, se non altro più democratico, è quello del consumo responsabile che dovrebbe di indirizzare i consumatori verso prodotti a minore impatto ambientale.

L’eco–etichetta garantisce che una merce in tutto il suo ciclo di vita, dall’estrazione delle materie prime di cui è composta al suo smaltimento provocherà meno danni all’ambiente di una merce analoga ma non etichettata.

Si tratta, in ogni caso, di fasce di mercato assolutamente minoritarie legate alla sensibilità dei singoli individui ai pro-blemi ambientali.

I comportamenti individuali, tuttavia, possono essere in-fluenzati da quelli collettivi come sta avvenendo in alcune comunità.

L’aumento del benessere nella seconda metà del secolo scorso ha portato all’esplosione dell’acquisto di elettrodome-stici; ora nelle società più organizzate si assiste a un’inversione di tendenza e nei condomini di lusso si realizzano lavanderie comuni in cui è possibile minimizzare i consumi e ammortiz-zare rapidamente i costi oltre ad aumentare la sicurezza.

Servizi comuni per bambini e anziani possono alleggerire il compito sostenuto con difficoltà dalle singole famiglie miglio-rando la qualità della vita sia per chi assiste che per l’assistito.

Esperimenti di car–sharing sono una proposta sempre più allettante per ottimizzare l’uso dell’auto privata mentre l’uso della bicicletta e l’estensione delle piste ciclabili sono conside-rati indici di benessere delle nostre città.

La riscoperta dell’uomo come parte di una comunità segnerà il passaggio dalla fase più primitiva della colonizzazione della Terra, definita da Boulding (1966) economia del cowboy a una forma di organizzazione più evoluta definita economia del-l’astronave.

L’uomo primitivo poteva immaginare il mondo a sua dispo-sizione quasi infinito e la sua preoccupazione principale era

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quella di contrastare gli elementi avversi della natura. Come succede alle specie pioniere che colonizzano ambienti vuoti, cercava di crescere rapidamente perché nel gruppo trovava il modo di difendersi meglio e perpetrare la propria discendenza.

Il cowboy delle praterie del continente Nord americano, si discostava dall’uomo primitivo solo per la sua stanzialità. In co-mune avevano a disposizione spazi smisurati e risorse apparen-temente illimitate.

La condizione dell’uomo moderno è invece di grande costri-zione sia per quanto riguarda lo spazio sia per la limitazione delle risorse. In questa situazione la coesistenza diventa più difficile e la competizione aumenta.

Ma le comunità naturali sanno trovare situazioni di equili-brio anche e soprattutto quando spazio e risorse cominciano a scarseggiare.

Negli ecosistemi più maturi, in cui l’evoluzione ha potuto dare libero sfogo alla sua creatività, prevalgono relazioni di coe-sistenza e collaborazione rispetto alla lotta per la sopravvivenza.

Boulding già nel lontano 1966 era convinto che ci trovas-simo nel mezzo di un guado in cui l’uomo avrebbe dovuto cam-biare il suo modello concettuale rispetto al mondo in cui vive.

Come e quando si arriverà a questa transizione è difficile prevederlo. Certamente i singoli individui, e le comunità umane possono dare il loro contributo per accelerare questo processo.

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Un mondo migliore è possibile?

Abbiamo ripercorso la storia dell’evoluzione e alcuni episodi della storia dell’umanità, abbiamo analizzato le contraddizioni della società tecnologica e i problemi legati al sovraffollamento del pianeta. Ci resta solo da domandarci se e a cosa è affidata la speranza di migliorare la condizione umana negli anni futuri.

Le soluzioni possono essere affrontate da molti punti di vista ma nessuno sarà in grado di prospettarci uno scenario credibile.

L’incertezza nasce dal fatto che tutti i fattori che determina-no i cambiamenti delle società umane sono tra loro collegati.

L’evoluzione culturale non può essere considerata un pro-cesso indipendente da quella naturale; se lo è stata finora, per-ché non eravamo pienamente consapevoli delle conseguenze delle nostre azioni, non abbiamo più giustificazioni per il nostro comportamento attuale.

Io credo che un mondo migliore sia possibile ma è difficile prevedere i tempi necessari per la transizione alla nuova econo-mia e allo scenario di eco–compatibilità.

Il passaggio dalla vecchia concezione economica, basata sui consumi indiscriminati, a quella eco–compatibile, in cui ognuno di noi si dovrebbe convertire al consumo consapevole, potrà es-sere graduale ma potrebbe essere più repentino di quanto immaginiamo.

Possiamo ricercare le ragioni del cambiamento sia nella legittima ricerca di migliorare le condizioni dell’“habitat” in cui viviamo, che tutti vorremmo più pulito, gradevole alla vista e fruibile per le nostre esigenze di sostentamento e di diver-timento sia nel disagio da parte della parte più povera e sfruttata della popolazione umana che non può spingere oltre i limiti biologici il proprio grado di sfruttamento.

Se attualmente il commercio globale si regge su ritmi lavorativi che arrivano fino a 20 ore al giorno e includono le giovani generazioni e sul prelievo delle risorse e l’esportazione dei materiali di rifiuto, questo squilibrio non ha margini ulteriori di sbilanciamento a sfavore dei paesi sfruttati.

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Il motore del cambiamento sarà azionato sia da chi vuole stare meglio sia da chi non può stare peggio.

Singolarmente, le “insostenibilità” che il sistema capitali-stico attuale ha generato potrebbero perpetrarsi a lungo eroden-do lentamente le capacità autorigenerative del pianeta. Ma può anche succedere che l’interazione reciproca di tanti disagi o aspirazioni crei una grande sinergia.

La mia idea delle sinergie nasce dal paragone con tante situazioni che si verificano in natura.

Pensate, ad esempio, alla massa d’acqua di un grande lago profondo: per effetto del calore del sole lo strato superficiale si riscalda d’estate, la densità dell’acqua superficiale diminuisce e si creano due strati di cui quello più superficiale galleggia su quello profondo. Quando arriva l’inverno l’acqua superficiale si raffredda, diventa più densa e si rimescola con lo strato sotto-stante ma difficilmente la massa d’acqua circola completamen-te. Così lo strato più vicino al fondo, che può essere spesso anche centinaia di metri rimane completamente isolato dal-l’atmosfera.

Questa è la condizione che potremmo paragonare al “busi-ness as usual”, una situazione di stagnazione economica appa-rentemente immutabile che divide la parte ricca della società, quella “ossigenata”, da quella povera, troppo asfittica per poter raggiungere le condizioni di benessere.

Basta però la concomitanza di giornate molto fredde e di vento molto forte perché il lago riceva la spinta sufficiente per mettere in moto l’intera massa d’acqua. Il rimescolamento com-pleto, che può essere paragonato a un enorme respiro del lago, in cui ogni goccia d’acqua riacquista l’ossigeno necessario per sostenere la vita, si verifica raramente nei nostri grandi laghi.

E quando avviene è improvviso e imprevedibile, come del resto succede per molti altri processi naturali. Le leggi del caos, secondo le quali piccoli cambiamenti possono produrre grandi effetti, forse si imporranno anche nei riguardi dell’organizza-zione socio–economica del pianeta.

La scarsità delle risorse, la tassazione per chi genera inqui-nanti e rifiuti e l’atteggiamento dei consumatori che diventano

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più sensibili ai problemi ambientali e più solidali coi propri simili, possono essere individuati come i motori del cambia-mento del sistema economico (Fig. 6).

Finora non sono stati efficaci per produrre un cambiamento globale delle condizioni economiche ma la spinta ulteriore di uno o più di questi fattori potrebbe rivelarsi insperabilmente po-tente per sconvolgere l’attuale assetto economico.

I meno giovani sono stati testimoni di mutamenti di abitudini e stili di vita che non avrebbero potuto immaginare fino a qual-che decennio fa.

Mi auguro che i nostri figli e i nostri nipoti possano assistere ai cambiamenti radicali dettati dall’eco–economia dove a det-tare le regole del mercato sia la qualità della vita piuttosto che la quantità dei consumi.

Figura 6. Fattori che dovrebbero cambiare il sistema economico.

EconomiaTradizionale

Scarsotàdi risorse

Tassazioniper inquinamentoAumento

sensibilitàconsumatori

Eco–economia

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche

Area 02 – Scienze fisiche

Area 03 – Scienze chimiche

Area 04 – Scienze della terra

Area 05 – Scienze biologiche

Area 06 – Scienze mediche

Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 – Ingegneria civile e Architettura

Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche

Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 – Scienze giuridiche

Area 13 – Scienze economiche e statistiche

Area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su

www.aracneeditrice.it

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Finito di stampare nel mese di settembre del dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»

Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma