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ATTI DEGLI APOSTOLI
EL TESTO E LA SUA STRUTTURA
Il testo
Entrambe le opere furono scritte originariamente in greco e ci sono pervenute in due
tipi di testo: uno, conosciuto come alessandrino, esichiano o neutro, è quello
comunemente accettato e un altro noto come occidentale.
Quanto agli Atti degli Apostoli, il testo alessandrino è rappresentato principalmente
dai papiri P45 (sec. IlI), P74 (sec. VII) e dai mss. Sinaitico (a), Vaticano (B),
Alessandrino (A), Ephraemi Rescriptus (C) e molti altri. Si tratta di un testo breve
considerato autentico dalla maggior parte dei critici. L'occidentale, dal canto suo, è
rappresentato principalmente dai papiri P38 (sec. IV), P48 (sec. IlI) e specialmente dal
ms. Codex Bezae Cantabrigiensis (D) e dalla Vetus Latina (sec. III/IV). Presenta un
testo più lungo di quasi un decimo rispetto al precedente, con circa 400 aggiunte in
cui le difficoltà vengono attenuate, le inesattezze corrette, sono offerti dettagli
pittoreschi e interpolati testi liturgici. La lingua è talvolta popolare e presenta un
considerevole numero di semitismi; le citazioni bibliche sono tratte da un testo meno
vicino ai LXX, sul piano teologico spiccano le figure di Pietro e Paolo, mentre il
popolo ebraico è presentato in luce negativa. Il testo, diffuso sia in Oriente sia in
Occidente, risale alla metà del sec. II e sembra antico quanto il precedente. Il rapporto
tra le due forme del testo è oggetto di discussione.
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In generale prevale la tesi della preminenza del testo alessandrino, pur ammettendo la
possibilità che l'occidentale contenga lezioni originali. Le edizioni critiche correnti
riproducono il testo alessandrino e di solito considerano non autentici 8, 37; 15, 34;
24, 6b-8a; 28, 29.
Il problema del testo di ATTI fu uno dei grandi temi della ricerca biblica della fine
del XIX secolo e dell'inizio del XX: furono studiati, in particolare, l'origine e il
rapporto tra le due forme del testo, l'occidentale e l'alessandrina. Le diverse ipotesi
proposte si possono raggruppare in due posizioni fondamentali, a seconda che
entrambi i testi, ovvero uno solo di essi, siano attribuiti a Luca.
Luca è l'autore di entrambi i testi. Su questa base alcuni ritengono che il testo
primitivo fosse l'occidentale, da cui deriverebbe l'alessandrino, mentre altri
sostengono la posizione inversa.
1. La maggioranza sostiene la prima tesi. Si tratta di una spiegazione antica, sostenuta
e diffusa alla fine del secolo scorso da F. Blass, il quale affermò che Luca scrisse
prima il testo occidentale, chiamato anche romano, per essere stato conservato e
divulgato dalla chiesa di Roma; in seguito fece una copia per Teofilo in cui migliorò il
testo; essa è giunta sino a noi come testo alessandrino. La spiegazione fu adottata da
Th. Zahn, E. Nestle e altri, ma oggi è di solito respinta soprattutto perché il presunto
testo primitivo contiene una serie di aggiunte, omissioni e cambiamenti che meglio si
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addicono a un testo riveduto. Ciononostante, di recente M.E. Boismard e A.
Lamouille hanno sostenuto che il testo alessandrino è una revisione di quello
occidentale e hanno cercato di ricostruire quest'ultimo.
2. L'opinione inversa fu proposta, all'inizio del secolo, da G. Salmòn, il quale
sosteneva che Luca scrisse in un primo momento il testo alessandrino e in seguito
l'occidentale, nel quale integrò le osservazioni fattegli da Paolo dopo i due anni
trascorsi in prigionia a Roma. Questa particolare spiegazione non ha avuto seguaci,
per l'improbabilità dell'intervento di Paolo, mentre ne ha avuti l'ipotesi in sé,
sostenuta attualmente da E. Delebecque, secondo cui il testo occidentale è una
revisione posteriore compiuta dallo stesso Luca. Tuttavia egli non dimostra che il testo
occidentale risalga a Luca.
Luca è l'autore di un solo testo, l'altro deriva dal primo.
1. All'interno di questo gruppo, la maggior parte degli autori sostiene la preminenza
del testo alessandrino e del carattere secondario di quello occidentale, anche se le
spiegazioni proposte sono tante. Secondo Wescott-Hort, M. Dibelius e altri, il testo
occidentale deriva da interpolazioni compiute in diversi modi sul testo alessandrino nei
secoli I e II, ma si suole obiettare che il testo occidentale non sembra il risultato di uno
sviluppo alla rinfusa: l'opera offre un insieme coerente. Rispondendo a questa
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obiezione, J.H. Ropes sostiene che l'occidentale non è il frutto di interpolazioni ma
una revisione sistematica del testo alessandrino, compiuta seguendo criteri
letterari e dottrinali.
R.P.C. Hanson segue questo punto di vista, ma preferisce parlare di interpolazione si-
stematica del testo alessandrino compiuta da una mano sola. Le divergenze sono
tante a questo riguardo e sarebbe troppo lungo elencarle.
2. Il punto di vista opposto è sostenuto quasi soltanto da A.C. Clark, il quale afferma
che il testo primitivo è l'occidentale e l'alessandrino è una riduzione posteriore. Altri
autori, di fronte alla mancanza di una soluzione soddisfacente, pur riconoscendo la
preminenza dell'alessandrino non lo considerano senz'altro come primitivo, perché
in effetti contiene errori, e ammettono la possibilità che l'occidentale conservi lezioni
primitive e che nelle aggiunte, certamente secondarie, si conservino tradizioni orali
antiche di grande valore storico, poiché questo testo risale al II secolo. Perciò essi
difendono nella critica testuale un metodo eclettico, secondo cui bisogna vedere caso
per caso quale sia la lezione originale.
2. Contenuto del Libro degli Atti
L'opera si apre con un breve prologo intimamente connesso con la ripetizione dei
racconti dell'ultima apparizione e dell'ascensione di Gesù, già narrati nel vangelo, e
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continua con la presentazione della comunità di Gerusalemme e l'elezione di Mattia.
Seguono la pentecoste e il racconto dell'attività missionaria della chiesa di
Gerusalemme, rappresentata da Pietro, e quella degli ellenisti.
In seguito, dopo il racconto di alcune premesse che spiegheranno la missione
universale, come la conversione di Saulo, la conversione dei primi gentili e la
fondazione della chiesa di Antiochia, il racconto s'incentra sull'espansione
missionaria nel mondo gentile, rappresentata da Paolo; la narrazione termina con
l'arrivo di quest'ultimo, prigioniero, a Roma. L'opera si compone di circa 86 racconti
per circa 18374 parole.
3. Lingua e stile
Dall'epoca patristica si considera il greco di Luca, insieme a quello della lettera
agli Ebrei, come il più accurato ed elegante di tutto il Nuovo Testamento. Egli impiega
la koinè con correttezza letteraria, in modo superiore rispetto all'uso volgare del
popolo e di molti scritti biblici, senza però arrivare ad essere un classicista.
La sua padronanza della lingua appare nei diversi tipi di greco che è in grado di
impiegare nella sua opera, nella quale s'incontrano, da una parte, il greco letterario
classico del prologo del vangelo e, dall'altra, vari tipi di greco simili a quello dei
LXX; quello semitizzante del vangelo dell'infanzia, quello corrente del resto del
vangelo, simile a quello di Mc, ma migliorato, e quello di Atti, in cui scrive con
maggiore libertà. Questa varietà di stili gli ha guadagnato l'accusa di eclettismo
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stilistico e incoerenza; in realtà non si tratta d'incoerenza, bensì del tentativo di
adeguare la lingua alla realtà narrata, per cui in tutta l'opera egli tende a usare una
lingua sacra, simile a quella dei LXX, per narrare l'opera di Gesù e della prima
generazione cristiana, in cui proseguono le meraviglie di Dio. Egli che aveva scritto
il prologo, avrebbe potuto scrivere l'opera intera con uno stile simile. Se non lo fa, è
perché cerca di imitare un altro tipo di lingua e vuole rispettare le proprie fonti. Luca,
dunque, è un vero storico ellenistico, in alcuni casi elegante, in altri popolare, che
non arriva però a raggiungere il livello dei grandi letterati della sua epoca.
4. Lessico
In generale Luca impiega un lessico ricco, accurato e piuttosto simile a quello degli
autori della prosa postclassica e a quello dei LXX. In Atti impiega 2036 parole per un
totale di 18374 occorrenze, di cui 942 sono hapax legomena. In comune con il
vangelo usa 1014 parole.
Prevalgono i verbi composti ma in 113 casi la forma impiegata è semplice o composta senza che il
senso lo esiga: si tratta di un mezzo per evitare ripetizioni. I proverbi consentono
all'autore di variare il senso della parola senza dover ricorrere a perifrasi. Il confronto
con Marco rivela come Luca eviti parole straniere, sia semitiche sia latine. In altri
casi, per non introdurre bruscamente nomi stranieri, li fa precedere da una breve
frase.
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Un altro particolare interessante è la sua sensibilità per la pronuncia di nomi stranieri,
che lo porta a usare la forma originale non ellenizzata, come Saoul, nel discorso
davanti ad Agrippa, alludendo alla voce dal cielo che parla in lingua ebraica (Atti
26,14). Si deve infine osservare che il lessico lucano non presenta alcun termine
tecnico nel campo della medicina, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni
autori (W.K. Hobart, 1882; A. Harnack, 1906, E. Delebecque, 1976) per confermare
la professione medica di Luca. Accanto a queste caratteristiche, tuttavia, appare una
certa incoerenza: si trovano volgarismi come apartismos, compimento; brechein,
bagnare, piovere; gongyzein, mormorare; phagos, mangione; e alcuni latinismi come
tithenai ta gonata, inginocchiarsi (Lc 22,41; At 7,60); labountes to hikanon, dopo
aver ottenuto la cauzione (At 17,9); agoraioi agontai, si celebrano processi (At
19,38).
5. Stile
Luca raggiunge lo stile migliore del NT, riscontrabile meglio negli Atti che nel
vangelo, poiché in At scrive con maggiore libertà mentre in questo segue Mc, pur
migliorandolo considerevolmente.
In generale si può dire che l'opera di Luca non è quella di un letterato, ma di un
pastore. Per Luca la lingua è al servizio della fede e soltanto considerando
quest'ultima si possono spiegare adeguatamente tutte le risorse del suo stile. Egli
conosce gli strumenti stilistici semitici ed ellenistici e padroneggia sia le tecniche che
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consentono una presentazione vivace dei materiali sia quelle che ne consentono una
corretta composizione. Quanto alle prime, impiega scene tipo (cfr. Lc 4,16-30; 5,1-
11; 9,51-55; At 2), personificazioni (cfr. la parola), prologhi (Lc 1,1-4; At 1,1-2),
lettere (At 15,23-29; 23,26-30), discorsi (Lc 1,46-55; 1,68-79; 2,14; 2,29-32;
10,21; 11,2-4; 22,42; 23,46; At 1,24-25; 4,24-30; 7,60). E' frequente il ricorso alle
metafore, allo stile diretto, ai discorsi, ai sommari e alle scene collettive. La
narrazione presenta squarci psicologici che evocano magistralmente la presenza del
divino: la trasfigurazione di Gesù è presentata come trasformazione del suo volto
mentre pregava (Lc 9,28); allo stesso modo il volto di Stefano assume le sembianze
di un angelo di fronte alla gloria di Gesù (At 6,15-56).
Luca compone i propri materiali unendoli strettamente sì da formare un tutto
coerente, ma evitando di costruire blocchi ininterrotti troppo estesi che finirebbero
per stancare il lettore. In generale, il racconto costituisce una storia in cui i singoli
fatti sono collegati tra loro in un insieme retto da un principio soprannaturale, il
piano salvifico di Dio, e, all'interno di questo principio, anche da cause umane.
Perciò gli eventi sono collegati mediante le categorie della promessa (o gli
equivalenti annuncio, predizione, progetto) e del compimento (cfr. le citazioni
dell'AT, in particolare quelle che introducono ciascuna sezione, come Lc 3,4-6; 4,18-
19; At 2,17-21).
6. Struttura Il libro degli Atti che, secondo 1,8, intende esporre le grandi tappe del cammino di
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testimonianza della chiesa primitiva, i criteri geografici, d'argomento e i sommari
consentono di distinguere due grandi blocchi nella descrizione di questo percorso:
uno in cui predomina l'attività in Palestina sotto la guida di Pietro, i dodici e la chiesa
di Gerusalemme (1-12) e un secondo in cui predomina l'attività al di fuori della
Palestina e il cui protagonista è Paolo (13-28).
Il primo blocco è suddiviso a sua volta in tre sezioni, una di carattere
preparatorio, un'altra che narra l'origine e lo sviluppo della testimonianza a
Gerusalemme e un'ultima che li narra fuori da Gerusalemme.
1. La prima (1,1-26) inizia con un prologo che riassume il primo libro, ne
ripete e completa il finale (ultima apparizione e ascensione di Gesù)
annunciando la prossima venuta dello Spirito e invitando ad attenderla a
Gerusalemme. In «quei giorni» precedenti la pentecoste si situa anche il racconto
dell'elezione di Mattia. Questa sezione funge dunque da collegamento tra l'opera di
Gesù e l'inizio della testimonianza della chiesa nella pentecoste.
2. Seguono tre sequenze di racconti in successione ambientati a Gerusalemme che
hanno per protagonisti Pietro e i dodici molto ben collegati tra loro mediante
sommari, sì da formare la seconda sezione (2,1 - 8,3). La prima sequenza (2,1-47)
ruota intorno al giorno di pentecoste, la seconda (3 - 5) intorno al motivo del Nome,
ed è per questo nota come «sezione del Nome», e la terza (6,1 - 8,3) intorno agli
ellenisti e all'attività di Stefano.
3.1 rimanenti capitoli del primo blocco (8,4 - 12,25) hanno in comune la narrazione
della testimonianza al di fuori di Gerusalemme, ma in stretto collegamento con
quest'ultima e con Pietro o i dodici, e perciò costituiscono la terza sezione.
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Al suo interno si distinguono cinque sequenze narrative diverse. La prima (8,4-
40), introdotta e terminata dai rispettivi sommari, narra l'attività dell'ellenista
Filippo in Samaria e con l'eunuco etiope. Essa è strettamente collegata all'attività
degli ellenisti a Gerusalemme della sezione precedente, ma alla luce di 1,8, che
conferisce un carattere dinamico alla struttura dell'opera, dev'essere collocata nella
sezione successiva poiché implica un progresso sulla via dell'evangelizzazione. La
seconda è dedicata alla conversione di Saulo e alla sua prima attività missionaria
(9,1-30). La terza è introdotta da un sommario che situa l'azione molti anni dopo
(9,31) ed è costituita da tre azioni di Pietro in favore delle chiese nella pianura del
Saron e sulla costa (9,32 - 11,18), la terza delle quali, la visita e il battesimo del
pagano Cornelio e la giustificazione di questo gesto di fronte alla chiesa di
Gerusalemme, è la più importante. La quarta (11,19-30) è una sequenza di fatti
sull'origine e l'attività della chiesa di Antiochia, la prima comunità mista. Il racconto
in sé porta il lettore fuori dalla Palestina, ma per un prolungamento dell'attività di
questa chiesa e una preparazione del futuro lavoro missionario al di fuori di essa. La
quinta e ultima sezione (12,1-25), infatti, aperta e terminata da sommari e con il
carattere di una conclusione, torna a parlare della chiesa di Gerusalemme, nella quale
sono perseguitati Giacomo e Pietro. A partire da questo momento Pietro e i dodici
perdono il ruolo di protagonisti in favore di Paolo.
Il secondo blocco (13-18) dedicato alla presentazione del cammino fino «ai confini
della terra» è a sua volta suddiviso in tre sezioni: 1. La prima (13,1 - 15,35)
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riferisce sul primo invio missionario di Paolo e Barnaba da parte della chiesa di
Antiochia, narra il viaggio e i problemi teologici da esso scaturiti, risolti
nell'assemblea di Gerusalemme, è aperta e conclusa da sommari sull'attività della
chiesa antiochena. Il racconto è molto ben articolato, dividendosi in due parti: quella
che racconta il viaggio (13-14) e quella dedicata all'assemblea (15,1-35).
Il racconto che segue, sino alla fine dell'opera, è interamente molto ben connesso
mediante una sequenza geografica senza soluzione di continuità, in cui i fatti sono
collegati dall'attività di Paolo, libero, fino al suo arrivo a Roma in catene, il che rende
difficile la suddivisione. Alla luce del contenuto si possono distinguere diversi viaggi,
il secondo, il terzo e il viaggio a Roma; i primi due in libertà e l'ultimo da prigioniero.
La distinzione classica tra il secondo e il terzo viaggio, tuttavia, non trova un appoggio
letterario chiaro nel testo, poiché in 18,22.23a non appare chiaro se l'autore intenda
narrare un nuovo viaggio o si tratti della continuazione del precedente. D'altra parte il
tema della prigionia di Paolo, che materialmente ha inizio a Gerusalemme, viene
annunciato prima (21,4; 21,11-14), per cui Paolo va a Gerusalemme già «incatenato
dallo Spirito» (20,22). Probabilmente la chiave letteraria che consente di suddividere
obbiettivamente la narrazione si trova in Efeso, che appare al centro del racconto: nel
secondo viaggio Paolo è presentato come intenzionato a visitare la città, ma lo Spirito
glielo impedisce (16,6); in seguito, tornando ad Antiochia, compie la visita e
promette di tornare (18,19-21); infine viene narrato per esteso il ritorno e
l'evangelizzazione della città (19,1 - 20,1), al termine della quale Paolo fissa il
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programma finale dell'attività che verrà raccontata nel libro (19,21-22): Macedonia,
Acaia, Gerusalemme, Roma, anche se dovrà portare a compimento tale progetto in
catene. Efeso, dunque, è un punto di divisione di tutto questo insieme: la seconda
sezione narra l'attività di Paolo, libero, in tutto l'Oriente, la grande missione che
culmina a Efeso (15,36 - 19,22); la terza (19,23 - 28,31) presenta Paolo incatenato,
prima «in Spirito», poi materialmente nel viaggio da Gerusalemme a Roma. In
entrambe le sezioni si possono individuare unità minori alla luce del contenuto, delle
introduzioni e dei sommari. Così nella seconda sezione si distinguono due sequenze
geografiche, una che parte da Antiochia e termina nella stessa città (15,36 - 18,22),
la prima tappa della grande missione al mondo gentile, conosciuta come «secondo
viaggio», e un'altra che parte da questa città e termina con il sommario e il piano
che conclude il racconto dell'evangelizzazione di Efeso («il terzo viaggio»: 18,23 -
19,22).
3. Per quanto riguarda la terza sezione si distinguono quattro sequenze. La prima
narra il viaggio di Paolo alla volta di Gerusalemme attraverso la Macedonia e l'Acaia
(19,23 -21,26) accompagnato da rappresentanti di varie chiese (cfr. 20,4 s.); la
seconda narra la prigionia a Gerusalemme e la testimonianza di fronte ai giudei (21,
27 - 23,11); la terza narra la testimonianza a Cesarea di fronte a governatori e re
(23,12 - 26,32); la quarta racconta il viaggio a Roma, la testimonianza in questa
città (27,1 - 28,28) e si conclude con un sommario rinate (28,30-31).
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Struttura del libro degli Atti
1. Cammino della chiesa di Gerusalemme con i dodici (Atti 1-12)
1.1. Nuovo prologo e collegamento tra il cammino di Gesù e
quello della chiesa (Atti 1);
1.2. Testimonianza della chiesa di Gerusalemme (2,1 - 8,3):
Pentecoste (2):
testimonianza di Gerusalemme: sezione del Nome (3 - 5),
gli ellenisti: Stefano (6,1 - 8,3)
1.3. Testimonianza fuori di Gerusalemme (8,4 -12,25):
testimonianza dell'ellenista Filippo (8,4-0),
conversione e prima attività di Saulo (9,1 -
30), attività di Pietro nella pianura del
Saron (9,32 -11,18), la chiesa di
Antiochia (11,19-30), persecuzione della
chiesa di Gerusalemme (12,1-25).
2. Cammino di Paolo fino ai confini del
mondo (13 - 28): 2.1. Primo viaggio e
problemi (13,1 -15,35): il viaggio
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(13-14) l'assemblea (15,1-35);
2.2. La grande missione (15,36 -19,22):
prima tappa (15,36 -18,22), evangelizzazione
di Efeso (18,23 -19,22);
2.3. Viaggio di Paolo in catene a Gerusalemme e a Roma (19, 23 - 28,31):
viaggio a Gerusalemme attraverso la Macedonia e l'Acaia (19,23 - 21,26),
prigionia e testimonianza a Gerusalemme (21, 27 - 23,11), prigionia e
testimonianza a Cesarea (23,12 - 26,32), viaggio a Roma e testimonianza in
questa città (27 - 28).
7. Problemi aperti
a) Semitismi
Nonostante l'accuratezza lessicale e grammaticale dimostrata da Luca nelle due
parti
della sua opera, compaiono diversi tipi di semitismi:
semitismi in genere: participi pleonastici come «dicendo», «rispondendo»; ecc.;
ebraismi: egeneto seguito da verbo finito; sostantivi al genitivo in luogo
dell'aggettivo; kai idou ecc.;
aramaismi: archomai pleonastico; tote; plurale impersonale ecc.
Il problema è stato studiato a partire dal secolo scorso e sono state via via proposte
15
diverse spiegazioni. Alla fine del secolo scorso e all'inizio del nostro prevale
l'opinione secondo cui i semitismi, in particolare quelli di Atti, sono determinati
dalla traduzione dì una fonte semitica, riconosciuta per lo più come ebraica; questa
opinione fu largamente condizionata dall'interpretazione dei semitismi del
manoscritto D (cfr. A. Resch, E. Neslte, F. Blass).
La teoria documentaria aramaica è un adattamento della posizione precedente,
proposta da C.C. Torrey in modo apparentemente inconfutabile per la sua epoca.
Egli afferma che il terzo vangelo e la prima parte degli Atti (1 -15) sono la traduzione
di una fonte scritta aramaica; a questa teoria aderirono altri autori posteriori come
Dodd, Knox, R.A. Martin e F. Zimmermann.
Un altro punto di vista, che ha riscosso e continua a riportare un vasto consenso,
spiega i semitismi con l’influsso dello stile dei LXX. Questa teoria è sostenuta in parti-
colare da G. Dalman e viene sviluppata in seguito da Cadbury, Clarke e Sparks;
questa stessa linea seguono alcuni autorevoli commentatori attuali di Atti come E.
Haenchen, H. Conzelmann e altri autori come E. Plumacher, secondo il quale Luca
evoca un'epoca mediante lo stile, imitandone il modo di parlare, e P. Grelot, che
sottolinea come Luca, abile scrittore, imita i LXX nell'intento di scrivere una «storia
religiosa», pur non escludendo altre ragioni.
M. Wilcox ha proposto una soluzione sincretica, secondo cui i semitismi di
Atti non possono essere attribuiti a un solo fattore, poiché sono di tipo e origine
diversa: parole e frasi affini alla tradizione testuale semitica dell' AT, altre affini alla
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tradizione testuale dei LXX e altre, di natura semitica, non spiegabili con l'influsso
dei LXX per le quali bisogna cercarne un'altra, per esempio tradizioni narrative delle
parole e dei fatti dei pionieri della chiesa e altre tradizioni sui discorsi, probabilmente
già fissate in greco. Luca ha rielaborato nel corso di tutta la sua opera questo
materiale e lo ha unificato stilisticamente in modo tale che, se non fosse per questi
semitismi-spia, non sapremmo che ha fatto ricorso a delle fonti.
Un'altra spiegazione tra quelle proposte negli ultimi decenni è quella del greco
giudeo-cristiano. Nel 1961 A. Debrunner, trattando delle diverse cause dei semitismi
nel greco biblico, ha parlato di un greco-giudeo parlato, nel senso che lo stesso
greco «secolare» impiegato dai giudei era influenzato dalla loro mentalità semitica.
Questo fenomeno dovette essere presente anche tra gli autori del NT. Non è però
esattamente questo che egli intendeva con l'espressione «greco giudeo-cristiano», ma
un «gergo greco» impiegato in un primo tempo dai giudei della diaspora e poi dai
cristiani nelle loro riunioni e che conteneva un lessico e una fraseologia correlati con
la loro fede e le loro pratiche religiose. Qualcosa di simile al linguaggio liturgico,
teologico, catechetico che i cristiani impiegano ora nelle loro riunioni, ma non nel
linguaggio della vita secolare. La comunità alessandrina, che parlava la koinè, per
prima coniò questo linguaggio religioso, basato sulla koinè ma influenzato dalla fede
jahvista e dalla mentalità semitica dei giudei grecofoni; questa lingua influì sulla
traduzione dei LXX che, a sua volta, rinforzò e arricchì questo greco adoperato
17
dalla sinagoga.
In seguito, all'arrivo del cristianesimo, quest'ultimo la ereditò e l'arricchì con nuovi
elementi kerygmatici, liturgici ed etici, dando origine al «greco giudeo-cristiano»,
lingua nella quale fu scritto il NT. N. Turner ha sostenuto e contribuito a divulgare
questo punto di vista negli ultimi anni; anche M. Black e F.L. Horton hanno aderito a
questa spiegazione.
Nessuna delle opinioni citate ha finito per imporsi, nessuna è stata
completamente confutata e perciò vige oggi il pluralismo: ogni soluzione trova
sostenitori e numerose sono le posizioni eclettiche che cercano di conciliare i diversi
punti di vista.
8. Storicità degli Atti
Fino al XVIII secolo gli Atti furono considerati fondamentalmente come un'opera di
storia, precisamente una biografia degli apostoli, alla quale, nel II secolo, venne
attribuito il titolo di Praxeis apostolon. Il fatto che già nel II secolo Luca e Atti
venissero separati dal canone, ponendo il vangelo tra Me e Gv e Atti dopo
quest'ultimo, indica che essi non vennero considerati come una continuazione in
senso stretto del vangelo, bensì come una biografia diversa. Tuttavia non furono
considerati come semplice storia, ma, proprio come i vangeli, una storia al servizio
di un messaggio religioso, che era di solito identificato nel ruolo dello Spirito santo,
l'universalità della salvezza, l'esemplarità della chiesa primitiva, ma senza cercare
18
una finalità più precisamente definita. In questo contesto gli Atti vengono
solitamente utilizzati in funzione delle lettere di Paolo, come opera che offre la
cornice storica utile a favorirne la comprensione.
Nel XVIII secolo, con l'Illuminismo, questa impostazione eminentemente storicista
viene messa in discussione. Gli Atti vengono studiati alla luce delle differenze
esistenti rispetto alle lettere di Paolo, divergenze risolte a favore delle lettere,
mettendo in dubbio o negando la storicità di Atti. Si possono individuare tre fasi
nella messa in discussione della storicità: una prima dominata dall'idea che gli Atti
sono un testo tendenzioso, una vera e propria falsificazione; una seconda in cui si
mantiene il giudizio negativo sulla storicità, ma viene attribuito a una carenza
d'informazione in mancanza di fonti, e una terza in cui viene sottolineato lo
scetticismo rispetto al valore storico, fondato sul carattere teologico dell'opera e in
particolare dei discorsi.
II giudizio di tendenziosità su Atti si deve a F. Ch. Baur (1792-1860) e alla scuola di Tubinga, che spiegano t'opera in funzione della loro teoria sull'origine della chiesa primitiva: gli Atti sono opera di un paolinista, che cerca di elaborare una sintesi dottrinale tra paolinismo e petrismo. Si tratta quindi di un'opera teologica tendenziosa. Questa teoria venne radicalizzata qualche anno più tardi da B. Bauer (1809-1888), secondo il quale Atti riflette la situazione di una chiesa dominata dai gentili, la cui dottrina è uno sviluppo della vecchia fazione giudaica o conservatrice con la quale essa ha già perso contatto. Dal punto di vista storico fu importante il contributo di J.B. Lightfoot (1818-1889), che affrontò questa problematica con il metodo positivo proprio della storiografia, esaminando il testo e le fonti storiche ed evitando di proiettare sul testo qualsiasi tipo di premessa soggettiva. La mancanza di fonti porta a presentare Atti in maniera incolpevolmente deformata del passato, ma non tenden-ziosa. E. Zeller (1814-1908) fu il precursore di questa spiegazione: a suo parere gli Atti rispecchiano una comunità gentile della seconda o terza decade del II secolo, che già professa il proto cattolicesimo, vale a dire una comunità da un lato profondamente influenzata dall'eredità giudaica e, dall'altro, notevolmente estranea alle caratteristiche essenziali di Paolo, fatta eccezione per l'universalismo, a causa della sua incapacità a comprendere la teologia paolina. L'opera intende anzitutto spiegare il cristianesimo della propria epoca sulla base del passato. Presenta inesattezze storiche, non dovute però alla tendenziosità ma a ignoranza e a scarsità d'informazione, poiché l'autore non è un testimone immediato e supplisce i vuoti d'informazione con l'immaginazione. A partire da M. Dibelius (1883-1947) e dalla storia della redazione, la corrente liberale radicale sostiene il ca-rattere squisitamente teologico di Atti, in particolare dei discorsi, che sono libere creazioni dell'autore; ne deriva una posizione scettica sulla storicità dell'opera. Su questa linea si trova la scuola di Bultmann, in
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particolare Vielhauer, Conzelmann e Haenchen, i quali si basano sull'intima unione che caratterizza nell'opera gli aspetti teologici, storici e letterari. Questa posizione è piuttosto diffusa, grazie all'influenza di questa scuola. In generale i discepoli di Bultmann condividono questo giudizio negativo e arrivano a considerare gli Atti come «frutto del peccato», perché intendono fondare la fede e il kerygma sulla storia (Conzelmann) ed equiparare l'opera di Gesù, unico salvatore, a quella della chiesa, che è soltanto una storia ibrida di autorealizzazione umana (G. Klein). Entrambe le opere sono storia leggendaria, sprovviste di valore, anche se quella di Gesù è presentata come centro del tempo (Conzelmann), in un'epoca già trascorsa e non più intesa come vangelo presente (cfr. W. Marxen). Di fronte a questa posizione una serie di autori, pur riconoscendo il carattere teologico di Atti, ne difendono il carattere storico in generale, come G. Schneider, che si colloca criticamente in questo ambito; I.H. Marshall, dal canto suo, sostiene che gli Atti vogliono essere tanto teologia quanto storia; Luca scrive da teologo e da storico, perché la storia è fondamentale e imprescindibile per la teologia. La pentecoste cristiana
Come abbiamo detto, il tema dello Spirito abbraccia tutta la storia degli Atti anche se
le manifestazioni più rilevanti si trovano nella prima parte, iniziando dalla pagina
programmatica della pentecoste cristiana. La struttura del racconto di pentecoste, che
si estende quasi per un intero capitolo, è abbastanza lineare:
1) 2,1-4: racconto della manifestazione dello Spirito con gli effetti che
questi produce sugli Apostoli;
2) 2,5-13: elenco dei rappresentanti dell'umanità convocati e riuniti a Geru-
salemme dall'evento prodigioso dello Spirito che crea una nuova possibilità
di comunicare e capire;
3) 2,14-21.22-36: ampio discorso di Pietro che dà l'interpretazione autentica
dell'esperienza dello Spirito sulla base della parola profetica di Gioele e in
riferimento all'evento storico salvifico di Gesù, costituito da Dio mediante la
risurrezione Signore e Messia;
4) 2,38-39: reazione dei presenti e invito di Pietro ad attuare l'itinerario di
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conversione nella comunità cristiana mediante il rito del battesimo per ot-
tenere il perdono dei peccati e il dono dello Spirito.
La struttura del testo è semplice: precede un'introduzione, poi viene il racconto
della manifestazione dello Spirito e la descrizione dei suoi effetti. L'introduzione, di
carattere storico-circostanziale, colloca questa esperienza nel giorno di pentecoste,
una festa ebraica, che cade al 'cinquantesimo' giorno dopo pasqua. In greco
pentekosté vuol dire precisamente 'cinquantesimo'. Originariamente era una festa
agricola in cui si ringraziava Dio per il raccolto dell'orzo e del frumento, verso
maggio-giugno. Da festa agricola nel primo secolo d. C. era diventata una festa
storica in cui si ricordava il dono della legge al Sinai e la costituzione del popolo
liberato dall'Egitto come popolo di Dio.
Mentre questa festa commemorativa stava per finire «si trovavano tutti insieme
nello stesso luogo». Luca insiste sulla convocazione e unità del piccolo gruppo dei
discepoli. Questo è il clima in cui sorgerà il popolo di Dio messianico, dove la legge
non è più scritta sulle tavole di pietra, ma è lo Spirito presente nei cuori. Dio fa di
un gruppo umano una comunità-chiesa, perché la legge o costituzione non è scritta su
di un codice, ma è la forza dello Spirito che dà agli uomini la possibilità di parlare e
di comunicare in modo nuovo.
Come dicevamo, la manifestazione dello Spirito è descritta come la forza di Dio
mediante due simboli teofanici: il vento di tempesta e il fuoco. Questi simboli
indicano la forza irresistibile di Dio, una forza che non è un prodotto della storia.
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Sono i simboli della rivelazione di Dio al Sinai, Es 19,16; Dt 4,36 o a Elia sul
monte Horeb, 1Re 19,11-12.
Sul piano storico l'azione potente e irresistibile di Dio diventa una capacità di co-
municare. Lo Spirito non è una fiammella né una colomba ma una forza storica,
dono di Dio, che muta i rapporti tra le persone. La lingua, infatti, non solo è
l'espressione dell'identità culturale di un gruppo umano, ma anche un modo di co-
municare con le persone. 'Parlare altre lingue' è un farsi capire, è la possibilità di
superare il ghetto, il razzismo e la divisione culturale. Qui si ha il rovescio
dell'esperienza di Babele. Là gli uomini tentano di mettere in piedi un imperialismo
storico con motivazioni religiose: si riuniscono per costruire una torre-tempio che
raggiunga il cielo. Il testo della Genesi dice: «tutta la terra aveva una sola lingua»
(Gn 11,1). E' la pianificazione delle culture, di cui l'imposizione di una sola lingua è
l'espressione. E' l'unità fondata sul controllo.
La possibilità di parlare altre lingue, di farsi capire nella lingua dei popoli è l’anti-
Babele, cioè un'umanità che è unita non in forza dell'imposizione o del controllo e
pianificazione, ma perché condivide la stessa esperienza interiore fonte di libertà.
Quando l'esperienza umana è condivisa la lingua diventa mezzo di comunicazione,
non di conflitto e divisione. La storia della torre di Babele si conclude con la
confusione delle lingue, che è l'espressione della conflittualità umana. Dove gli
uomini tentano di instaurare una umanità pianificata imperialistica le lingue
diventano segno di divisione e di conflitto. Invece dove l'azione di Dio modifica i
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rapporti umani profondi la lingua diventa mezzo di comunicazione tra di loro e i
popoli possono conservare la propria identità culturale.
Subito dopo, infatti, il testo degli Atti riporta l'elenco dei popoli convocati e uniti
dallo Spirito santo. Questa è la nuova umanità, l’anti-Babele. Tutti capiscono nella
propria lingua. E' la possibilità di comunicare dentro la propria cultura perché la
base di unità non è l'imposizione di un costume, di un modo di produrre e di pensare,
ma è l'azione dello Spirito: «Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere
di Dio» (2,11). Questo è il contenuto del parlare nuovo: l'azione salvifica di Dio. E
questa esperienza è comprensibile a tutti al di là della differenza etnica e linguistica,
purché ci sia l'apertura della fede.
L'elenco dei popoli segue una linea geografica ideale che parte dall'oriente, per chi
vive in Palestina, dalla Mesopotamia, e prosegue verso occidente, passando per
l'Anatolia, Asia minore e Africa fino a giungere a Roma. Questa linea è quella che
percorre la missione cristiana nell'annuncio del Vangelo. Luca dunque ha convocato
per la pentecoste cristiana i destinatari della 'buona notizia', quelli ai quali verrà fatto
l'annuncio evangelico secondo il percorso tracciato da Gesù risorto. Allora la
possibilità di capire nella propria lingua le 'opere di Dio' non è altro che la co-
municazione del Vangelo, la 'buona notizia' della salvezza, della pace e della libe-
razione in Gesù Cristo dentro la propria cultura. Questa sarà l'esperienza che faranno
i missionari cristiani annunciando il Vangelo dentro la cultura greco-ellenistica senza
imporre ai diversi popoli la cultura dei giudei.
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Qui sta la differenza tra la missione cristiana, il proselitismo e la propaganda. Il
proselitismo tende a far entrare le persone nel 'movimento', a dare la tessera e
sequestrare; la propaganda tende a catturare le persone e a pianificare le culture. La
missione cristiana riunisce gli uomini liberati là dove vivono, dentro la propria cultura.
L'esperienza di amore e di libertà, dono di Dio e dello Spirito, ha una lingua
internazionale. Dove le persone non sono unite in base all'economia o all'ideologia,
ma in forza dell'amore e della libertà, lì c'è la comunicazione, dono dello Spirito.
La pentecoste degli Atti è la pagina programmatica della chiesa, che sta all'inizio
come un manifesto cristiano: l'umanità nuova è l'anti-Babele che nasce dall'azione
dello Spirito, dove c'è la possibilità di comunicare perché la legge è posta nei cuori e
diventa fonte di amore e di libertà.
Però non basta l'entusiasmo, il parlare estatico o la preghiera esaltante per affermare
l'esperienza dello Spirito. Si può confondere un gruppo di entusiasti religiosi con un
gruppo di drogati. Che differenza c'è tra la droga collettiva e l'esperienza dello Spi-
rito? Qual è il criterio di discernimento? Solo il riferimento all'azione storica di Dio
culminante in Gesù permette di distinguere l'esperienza di libertà e di amore, dono
dello Spirito, dall'autoesaltazione o consumo di emozioni religiose in forma collet-
tiva. Due criteri concreti propone l'intervento di Pietro per la verifica
dell'esperienza dello Spirito: il confronto con la parola di Dio e con l'evento salvifico
di Gesù Cristo. Prima di tutto nel dono dello Spirito a pentecoste si attua la promessa
attesa per i tempi messianici: tutto il popolo di Dio sarà 'profetico'. Nel linguaggio
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comune 'profeta' significa indovino. Nel linguaggio biblico 'profeta' è colui che
parla a nome di Dio e cerca di leggere il progetto di Dio dentro la storia partendo
dall'esperienza di fede del passato e riconoscendo nel presente i segni del futuro.
Per l'autore degli Atti la profezia o il parlare profetico a nome di Dio è l'annuncio del
Vangelo. Gli uomini cambiati dallo Spirito, sono resi capaci di leggere nella storia e
nella propria vita l'azione di Dio e di proporla agli altri come 'buona notizia'. La
novità che annuncia Pietro sulla base della parola di Dio è questa: il dono dello
Spirito non è riservato ai capi, ai notabili, ma è dato a tutto il popolo di Dio.
Nell'AT lo Spirito era dato ai re, ai profeti, ai sacerdoti, cioè a quelli che avevano
un compito di guida nella comunità. Secondo il testo degli Atti lo Spirito è dato a
tutti senza distinzione di generazione, di età e di cultura. Per annunciare il Vangelo
non occorrono permessi, perché ogni cristiano vi è abilitato dal dono dello Spirito
ricevuto con i sacramenti. Nella chiesa ci sono compiti diversi, ma una sola è la di-
gnità: tutti sono figli di Dio liberi.
IL DISCORSO DI PIETRO 1-11
contesto
Quello del capitolo 2 non è il primo "discorso" di Pietro: già in 1, 16-22 egli aveva
preso la parola per sostenere la necessità di colmare il vuoto lasciato da Giuda me-
diante un dodicesimo componente del gruppo degli Apostoli.
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Il discorso di 2, 14-36. 38-40 è invece rivolto ad ascoltatori non cristiani con lo
scopo di convincerli a riconoscere Gesù Cristo come il loro Salvatore e Signore.
Il contesto del discorso è la discesa dello Spirito Santo su "tutti" quelli che erano ri-
uniti, cioè sulle 120 persone menzionate nel cap. 1. Dalla fine del v. 2 risulta che era-
no in una "casa", che potrebbe essere quella menzionata in 1, 13. Ma non va di-
menticato che il termine greco oikos era usato nel giudaismo per indicare il tempio.
La discesa dello Spirito è descritta con le immagini del vento e delle lingue di fuoco.
Bisogna però osservare che Luca è consapevole dell'approssimazione di queste
immagini, e lo indica premettendo due volte la particella "come" prima dell'imma-
gine.
Non c'è alcuna incertezza, invece, sull'effetto dello Spirito: essi furono tutti pieni di
Spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro
d'esprimersi ( v. 4).
L'interpretazione di questo versetto non è facile, e ha dato luogo a soluzioni diverse
del problema detto "delle lingue", anche perché il contesto sembra già suggerire più di
una interpretazione.
All'inizio del brano e poi al v. 13 sembra trattarsi di un parlare incomprensibile, al
punto da far pensare che gli Apostoli fossero ubriachi. Invece i vv. da 5 a 11
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sembrano proporre la teoria che gli Apostoli parlassero le varie lingue degli
ascoltatori, cioè della folla cosmopolita che prendeva parte al pellegrinaggio
pasquale (cf v. 6: "ciascuno li sentiva parlare la propria lingua"; e v. 11: "li
udiamo annunciare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio").
Questo apparente contrasto portò nel secolo scorso a vedere in questo capitolo la
combinazione di due fonti del medesimo racconto: l'una avrebbe interpretato il fatto
come conoscenza sovrannaturale di lingue diverse, parlate ciascuna da un diverso
predicatore; l'altra l'avrebbe interpretato come uso di un linguaggio misterioso, non
corrispondente a nessun idioma dell'epoca, ma estremamente comunicativo grazie
all'emozione di chi lo parlava e forse anche grazie alla gestualità che lo
accompagnava. Linguaggi di questo genere sembra venissero usati nelle comunità
primitive in territorio ellenistico, per esempio a Corinto. Infatti dalle lettere di Paolo
ai Corinzi sembra che la comunità si abbandonasse, di quando in quando, a
manifestazioni estatiche, fra le quali c'era anche l'uso di esprimersi con suoni
inarticolati e incomprensibili. In 1Cor 14, 1-25 Paolo dà alcuni consigli alla comunità
di Corinto sull'uso delle "lingue", ed è chiaro che si trattava di "lingue" non
comprensibili alla gente qualsiasi, cioè ad ascoltatori occasionali (v. 23); perciò Paolo
raccomanda che il "parlare in lingue" sia sempre tradotto (da un interprete) nella
lingua comprensibile a tutti (v. 27). Lui stesso, Paolo, afferma di possedere il dono
delle lingue, ma di parlare preferibilmente nella lingua di tutti, perché sono più utili
cinque parole comprensibili che diecimila incomprensibili (v.19).
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Gli interpreti di Atti 2 che rifiutano la teoria del linguaggio carismatico e incom-
prensibile si appoggiano ai vv. 6 e 11 che accennano all'ascolto da parte della folla
come se gli Apostoli parlassero nella lingua corrente di ogni nazione rappresentata tra
i Pellegrini. Ma anche questo dato si presta a più di una interpretazione. Se ogni
apostolo avesse parlato, miracolosamente, una lingua diversa, come avrebbero potuto
udirla persone che non erano prima state divise o raggruppate in base alla nazionalità
o alla lingua ma erano probabilmente mescolate in una folla composita ed
eterogenea? Oppure: si sarebbe trattato di un miracolo di udito più che di un miracolo
di linguaggio, nel senso che lo Spirito santo avrebbe reso gli uditori capaci di ricevere
la testimonianza degli Apostoli come se fosse stata pronunciata nella lingua di
ciascuno di loro? Infatti il testo biblico dei vv. 6 e 11, in contrasto con quello del v.
4, non dice che parlassero le lingue degli ascoltatori, ma che gli ascoltatori li udivano
parlare nella propria lingua.
L'ipotesi della combinazione di fonti diverse, ciascuna delle quali avrebbe proposto
una diversa spiegazione del miracolo, urta contro il carattere lineare e unitario del
nostro brano.
Un altro tentativo di spiegare il racconto lucano parte dalla circostanza in cui av-
vengono i fatti narrati: la festa ebraica di sabu'ot. Questa era in origine una festa di
ringraziamento per il raccolto, diventando poi la festa per il dono della Legge da
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parte del Signore. Se questo significato della festa fosse già stato dominante all'epoca
dei fatti narrati, o per lo meno al tempo di Luca, si potrebbe ipotizzare un colle-
gamento tra i fatti della Pentecoste cristiana e gli eventi del Sinai. La tradizione giu-
daica dice che le nazioni sarebbero state testimoni del dono della Legge fatto a
Israele sul monte Sinai; e un rabbino del terzo secolo, R. Jochanan, dice che al Sinai la
voce di Dio si sarebbe divisa in 70 lingue, numero corrispondente a quello dei vari
popoli della terra. Ma anzitutto questo detto è tardivo: poi bisogna tener conto che la
trasformazione del significato della festa di sabu'ot non sembra essersi verificata
prima della caduta di Gerusalemme (70 d.C.); anzi, ne fu forse una conseguenza.
Né Filone né Giuseppe Flavio collegano la festa con gli eventi del Sinai. Non si può
dunque ricavare il significato del racconto lucano della festa giudaica come si
strutturò in tempi successivi.
La difficoltà di rispondere alla domanda: che cosa è veramente accaduto il giorno di
Pentecoste a Gerusalemme? Ci richiama al fatto che gli scritti biblici non sono stati
redatti per fornire una cronaca storica o giornalistica di ciò che è avvenuto, ma per
portare un messaggio ai credenti dell'epoca. La domanda corretta da porre è dunque
quest'altra: che cosa voleva significare Luca con questo brano? Che messaggio voleva
recare? Che appello voleva rivolgere? Se rileggiamo anche il cap. 1 degli Atti, sembra
ovvio collegare l'episodio di Pentecoste alle parole di 1, 8: "avrete forza dallo Spirito
santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme ...": la promessa del
Signore si adempie appunto nel fatto riferito dal cap. 2 in conseguenza della "forza"
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che i dodici ricevono dallo Spirito santo. Proprio quei discepoli che al momento
dell'arresto e durante il processo avevano abbandonato Gesù, sono ora quelli che
coraggiosamente scendono in mezzo alla folla a proclamare che Gesù è il Signore e
Salvatore. La chiarezza di questo messaggio lucano è molto più significativa delle
piccole incoerenze del racconto. Le quali, tra l'altro, non mettono in dubbio la realtà di
ciò che è avvenuto, ma rivelano tentativi diversi di spiegarne la natura e le modalità.
È sullo sfondo di questo fatto che Luca propone il primo discorso
missionario di Pietro.
2. STRUTTURA E ANALISI DEL DISCORSO
a) Esordio, vv. 14b-21.
b) Corpo del discorso: la testimonianza su Gesù:
- attività terrena di Gesù, v. 22;
- processo e morte di Gesù, v. 23;
- la risurrezione di Gesù, w. 24-32;
- ascensione e glorificazione di Gesù, w. 33-36.
c) Conclusione e appello, w. 38 -40.
L'esordio
Critiche della folla: sospetto di ubriacatura (cf. invece 1Ts 5,7)Spiegazione del fatto da
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parte di Pietro: compimento di Gl 3,1-5I a) enfatizzazione della natura escatologica del
fenomeno profetico; b) parola conclusiva del profeta: transizione al corpo centrale del
discorso e al suo appello conclusivo: Gesù è il Signore e chi lo accetta avrà il
perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo.
Il corpo del discorso
• La parte centrale del discorso è dedicata alla persona di Gesù Cristo (vv. 22-3 6)
• 13 versetti dedicati alla risurrezione, ascensione e glorificazione: scopo
apologetico
• Momento essenziale del messaggio cristiano è «Dio (lo) ha risuscitato e
costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso»
• Il brano centrale è intessuto di citazioni bibliche: Sal 16,8-11 ? 2Sam 7,12-13
• La glorificazione del Risorto è confermata dal Sal 110,1: la promessa
trascende la persona di Davide che non salì al cielo
L'omissione dell'aspetto soteriologico è costituito dal carattere iniziale del
discorso.
L'appello conclusivo
• Luca immagina una domanda degli ascoltatori (v. 37) per agganciarvi
l'invito apostolico al pentimento e all'accettazione della salvezza.
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• La risposta di Pietro contiene una motivazione importante (v. 39); richiamo delle
promesse divine racchiuse nella Scrittura, punto di partenza e giustificazione
dell'insistenza di Pietro nel suo appello: Dio vuole la salvezza per i giudei e i loro
figli, e per i pagani (cf. At 22,21)
• All'interno di questa promessa Pietro evidenzia due doni: la remissione dei peccati
e il dono dello Spirito Santo (v. 38): il primo chiude con il passato, il secondo apre al
futuro.
• Il terzo elemento dell'appello è costituito dagli imperativi: «Pentitevi... Ciascuno di
voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo... Salvatevi da questa generazione
perversa» (vv. 38 e 40): "Pentitevi" = richiesta di tipo decisionale; il verbo utilizzato
significa trasformazione dell'atteggiamento mentale, inversione di rotta (Lo stesso
significato ha l'esortazione del v. 40); ma, oltre la rottura col passato abbiamo anche
qui l'inizio di una vita nuova, simboleggiata dal battesimo nel nome di Gesù (Cf.
Rm 6,1-8; Col 3,8; Ef 4,24). E' importante la precisazione «nel nome di Gesù», che
fa del battesimo l'inaugurazione di un rapporto personale con lui.