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S O M M A R I O Associazione Culturale Fondata nel 1998 da Michele D’Amico Avolesi nel mondo Rivista di arte, storia, cultura, attualità Anno VIII n. 19 - 2007 n. 2 OTTOBRE Edizioni proprie Presidente Grazia Maria Schirinà Direttore responsabile Eleonora Vinci Direttore della fotografia Corrado Sirugo COMITATO DI REDAZIONE Sebastiano Burgaretta - Filippo Denaro Francesca Parisi - Grazia Maria Schirinà - Eleonora Vinci COPERTINA di Corrado Sirugo Foto d’epoca - Archivio Paolo Florio FOTOGRAFIE Corrado Bono - Antonio Dell’Albani - Vincenzo Medica Sebastiano Munafò - Nino Privitera - Giuseppina Rossitto Corrado Sirugo - Piero Toselli - Antonino Vinci - Ritemilia Vinci HANNO COLLABORATO Elvira Assenza - Sebastiano Burgaretta - Antonio Dell’Albani Maria De Luca Pistoresi - Michele Favaccio - Donata Munafò Giuseppina Piccione - Luigi Rizza - Giuseppina Rossitto Pietro Scarpulla - Grazia Maria Schirinà - Giovanni Stella Michele Tarantino - Carmine Tedesco - Corrado Vella Eleonora Vinci HANNO CONTRIBUITO Supermercati Artale - Assennato - Caffè Girlando - Registri Buffetti Linea carrozzeria Guarin - Photo Video Befana - Pasticceria Tre Bontà REDAZIONE Avola, via Felice Orsini, 3 - Tel. 0931/832590 - Fax 0931/834522 www.gliavolesinelmondo.it e-mail: [email protected] Registrazione al Tribunale di Siracusa n. 9/2000 del 26/05/2000 Progetto grafico e impaginazione: Grapho Art, via Piemonte, 7 - Avola - Tel. 0931.561337 Stampa: L’Imprimerie, via Milano, 127 - Avola Chiuso in tipografia il 5 ottobre 2007 Sedi associative: Avola, via Felice Orsini, 3 - 96012 c/o studio Monello - Roma, via Chiana, 87 - 00198 La redazione declina agli autori la responsabilità di quanto viene affermato negli articoli. I testi per la prossima rivista dovranno pervenire entro e non oltre il 30 Novembre 2007 Il contributo annuo associativo, di euro 40,00 per i soci ordinari residenti ad Avola e di euro 60,00 per i soci benemeriti o non residenti, può essere effet- tuato con le seguenti modalità: Bonifico Bancario: coordinate bancarie ABI 5036 CAB 84630, conto corren- te n. 0341241705 presso Banca Agricola Popolare di Ragusa; Conto corrente postale n. 12330916 I soci under 30 usufruiranno dello sconto del 50%. Da parte dell’Associazione verrà rilasciata ricevuta dell’avvenuta riscossione. 2 Il piacere di dire grazie di Grazia Maria Schirinà 4 Anche le gite ogni tanto servono di Michele Tarantino 6 Il calcio giocato ai “Cappuccini” di Luigi Rizza 9 Carabinieri e satira politica nei fischietti di terracotta di Sebastiano Burgaretta 14 La nave del deserto, laboratorio tenuto presso la Casa Circondariale di Cavadonna di Donata Munafò 16 Diana di Mary Campisi 18 Camminare piano, ma camminare sempre di Pietro Scarpulla 19 Spigolature letterarie a cura di Sebastiano Burgaretta 19 Dal “Viaggio in Sicilia” di Johann Hermann von Riedesel 20 L’obiettività di Carmine Tedesco 22 La vita artistica di Paolo Florio di Antonio Dell’Albani 25 Giochi, passatempi e filastrocche d’altri tempi di Giuseppina Piccione 32 Cummitu: il piacere di ricevere la parola dello straniero di Elvira Assenza 32 Antonino Barbagallo è il nuovo sindaco di Avola di Eleonora Vinci 34 Inferiae di Maria De Luca Pistoresi 35 Paolo, amico sincero di Giovanni Stella 36 Il Sacrario militare di Bari di Michele Favaccio 38 Un manifesto per i Naufraghi del Mediterraneo di Giuseppina Rossitto 39 Portopalo 26 dicembre 1996 di Grazia Maria Schirinà 40 Un tuffo nel passato di Corrado Vella 43 Il pomeriggio di Grazia Maria Schirinà 44 Omaggio alla memoria del preside Giuseppe Parisi

Avolesi settembre 2007 · 2015-01-03 · SOMMARIO Associazione Culturale Fondata nel 1998 da Michele D’Amico Avolesi nel mondo Rivista di arte, storia, cultura, attualità Anno

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S O M M A R I O

Associazione Culturale

Fondata nel 1998 da Michele D’Amico

Avolesi nel mondoRivista di arte, storia, cultura, attualitàAnno VIII n. 19 - 2007 n. 2 OTTOBRE

Edizioni proprie

Presidente Grazia Maria SchirinàDirettore responsabile Eleonora Vinci

Direttore della fotografia Corrado Sirugo

COMITATO DI REDAZIONESebastiano Burgaretta - Filippo Denaro

Francesca Parisi - Grazia Maria Schirinà - Eleonora Vinci

COPERTINAdi Corrado Sirugo

Foto d’epoca - Archivio Paolo Florio

FOTOGRAFIECorrado Bono - Antonio Dell’Albani - Vincenzo Medica

Sebastiano Munafò - Nino Privitera - Giuseppina RossittoCorrado Sirugo - Piero Toselli - Antonino Vinci - Ritemilia Vinci

HANNO COLLABORATOElvira Assenza - Sebastiano Burgaretta - Antonio Dell’Albani

Maria De Luca Pistoresi - Michele Favaccio - Donata MunafòGiuseppina Piccione - Luigi Rizza - Giuseppina RossittoPietro Scarpulla - Grazia Maria Schirinà - Giovanni Stella

Michele Tarantino - Carmine Tedesco - Corrado VellaEleonora Vinci

HANNO CONTRIBUITOSupermercati Artale - Assennato - Caffè Girlando - Registri Buffetti

Linea carrozzeria Guarin - Photo Video Befana - Pasticceria Tre Bontà

REDAZIONEAvola, via Felice Orsini, 3 - Tel. 0931/832590 - Fax 0931/834522

www.gliavolesinelmondo.ite-mail: [email protected]

Registrazione al Tribunale di Siracusa n. 9/2000 del 26/05/2000

Progetto grafico e impaginazione:Grapho Art, via Piemonte, 7 - Avola - Tel. 0931.561337

Stampa: L’Imprimerie, via Milano, 127 - Avola

Chiuso in tipografia il 5 ottobre 2007

Sedi associative: Avola, via Felice Orsini, 3 - 96012c/o studio Monello - Roma, via Chiana, 87 - 00198

La redazione declina agli autori la responsabilitàdi quanto viene affermato negli articoli.

I testi per la prossima rivista dovranno pervenireentro e non oltre il 30 Novembre 2007

Il contributo annuo associativo, di euro 40,00 per i soci ordinari residenti adAvola e di euro 60,00 per i soci benemeriti o non residenti, può essere effet-tuato con le seguenti modalità:Bonifico Bancario: coordinate bancarie ABI 5036 CAB 84630, conto corren-te n. 0341241705 presso Banca Agricola Popolare di Ragusa;Conto corrente postale n. 12330916I soci under 30 usufruiranno dello sconto del 50%.Da parte dell’Associazione verrà rilasciata ricevuta dell’avvenuta riscossione.

2 Il piacere di dire grazie

di Grazia Maria Schirinà

4 Anche le gite ogni tanto servono

di Michele Tarantino

6 Il calcio giocato ai “Cappuccini”

di Luigi Rizza

9 Carabinieri e satira politica nei fischietti di terracotta

di Sebastiano Burgaretta

14 La nave del deserto, laboratorio tenuto presso la Casa

Circondariale di Cavadonna

di Donata Munafò

16 Diana

di Mary Campisi

18 Camminare piano, ma camminare sempre

di Pietro Scarpulla

19 Spigolature letterarie

a cura di Sebastiano Burgaretta

19 Dal “Viaggio in Sicilia”

di Johann Hermann von Riedesel

20 L’obiettività

di Carmine Tedesco

22 La vita artistica di Paolo Florio

di Antonio Dell’Albani

25 Giochi, passatempi e filastrocche d’altri tempi

di Giuseppina Piccione

32 Cummitu: il piacere di ricevere la parola dello

straniero

di Elvira Assenza

32 Antonino Barbagallo è il nuovo sindaco di Avola

di Eleonora Vinci

34 Inferiae

di Maria De Luca Pistoresi

35 Paolo, amico sincero

di Giovanni Stella

36 Il Sacrario militare di Bari

di Michele Favaccio

38 Un manifesto per i Naufraghi del Mediterraneo

di Giuseppina Rossitto

39 Portopalo 26 dicembre 1996

di Grazia Maria Schirinà

40 Un tuffo nel passato

di Corrado Vella

43 Il pomeriggio

di Grazia Maria Schirinà

44 Omaggio alla memoria del preside Giuseppe Parisi

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Siamo arrivati alla fine di settembre,un po’ in ritardo con i nostri ritmi abi-tuali, ma tante vicissitudini hannocaratterizzato l’estate appena trascor-sa, e non è stato possibile essere piùsolleciti. In verità le difficoltà cheabbiamo incontrato ci hanno impeditoanche di espletare sia il concorso“Amici dell’Arte – Città di Avola”,dedicato al teatro cittadino (in quantoil Teatro Garibaldi non è ancora statoaperto al pubblico), sia il concorso“Arte in piazza”, perché i tempi orga-nizzativi non sono stati ritenuti idoneialla realizzazione dell’evento (il cheha creato malcontento negli artisti-scalpellini che hanno manifestato illoro dissenso nei confronti dell’Am-ministrazione). Non per questo tutta-via le nostre attività sono andate arilento, in quanto abbiamo avuto alnostro attivo una collettiva di arte eartigianato il 28 luglio, “Arte tra lagente”, esposizione di opere di artistie artigiani, che, il sabato di SantaVenera, festa della Patrona, ha visto,nella villetta comunale, una buonapartecipazione di pubblico fino atarda ora; due serate culturali sonostate inoltre organizzate rispettiva-mente per la presentazione di Cum-mitu, traduzione in dialetto delConvivio di Platone ad opera del

nostro redattore prof. SebastianoBurgaretta, di cui si parla ampiamen-te in questo numero, e per la presenta-zione del testo poetico La scaletta dicorda della poetessa Erminia Gallo,della quale abbiamo pubblicato giàuna poesia (anno 8 n. 1). Durante lapresentazione dell’ultima rivista ab-biamo conosciuto più da vicino lapoetessa che, assieme a DonataMunafò, ha coinvolto l’uditorio inun’atmosfera di palpabile empatia,proponendo un recital delle sue poe-sie. In quell’occasione abbiamo assi-stito ad una performance di indubbiolivello di due giovani violinisti,Antonio Tiralongo e Matteo Blundo,e abbiamo ricevuto, graditissimodono, un’opera fotografica artisticada parte di Corrado Sirugo; questogesto ci ha emozionati perché è statouna testimonianza di crescita cultura-le, di sintonia nel lavoro, di rispettoper le nostre attività che sono semprefatte nel volontariato, ma con tantagrinta e senso di responsabilità. Unriconoscimento importante la nostraAssociazione l’ha vissuto il 24 giugnoa Milano, esattamente a Caravaggio,dove le è stato assegnato il Premiointernazionale Sicilia 2007 Proser-pina da parte dell’Associa-zione dipromozione culturale dei Siciliani nel

mondo “Napoleone Colajanni”, permano dell’avvocato Roberto Viani. Aquesti appuntamenti, tutti di rilievo, siaggiungono i vari impegni di parteci-pazione alla vita della ConsultaCulturale Cittadina e al programmaorganizzativo del Centro di incontro ecultura di viale Piersanti Mattarella,del quale in altre occasioni abbiamoscritto.È stato un periodo intenso che, forseanche a causa del caldo, ci ha fattosentire un po’ di stanchezza, ma soloun po’, perché, nel momento in cuisiamo stati interpellati, per partecipa-re ad altre attività, non ci siamo maitirati indietro. Così abbiamo dato lanostra adesione a un progetto di pro-duzione di un documentario su “I fattidi Avola”, abbiamo creduto opportu-no aderire all’iniziativa di salvaguar-dia dell’ospedale di Avola, abbiamogettato le basi per un progetto che civedrà impegnati nella rivalutazione econoscenza dell’opera di AlessandroCaja, in collaborazione con varierealtà scolastiche, soprattutto con lascuola a lui dedicata e con l’Ammi-nistrazione comunale, vogliamoapprontare un CD su Avola, etc…Sono tante le proposte che, nel tempo,potranno trovare attuazione.Siamo dunque stati operosi e attivi,ma abbiamo anche avuto l’opportu-nità di riflettere. Abbiamo percepitonon solo le nostre, ma anche le altruidifficoltà; abbiamo capito che spesso,per non dire sempre, ci lasciamo gui-dare dal nostro ego, che ci costringein terreni sempre più angusti e menocoltivabili, che la mancanza di apertu-ra all’altro è dannosa soprattutto perchi la opera, che non è vero chevogliamo una città diversa perchéstiamo bene come stiamo, ciascunocon la propria diffidenza e il proprio

Il piacere di dire grazie

di Grazia Maria Schirinà - foto di Corrado Bono

Associazione culturale

Gli Avolesi nel MondoCittà di Avola

Villetta del Palazzo di Città - Avola28 luglio 2007 ore 19,30

Salvatore AlessiCarmela Bufalino

Vincenzo CaldarellaGiuseppe Calvo

Anna FucàSalvatore FronterrèRosanna Fugali

Cesare GubernaleIvano Lago

Elia Li GioiFrancesca Mauceri

Paolo MiglioreAntonella MinutoliEmanuele Nicastro

Enzo NovelloGiuseppe Passarello

Corrado PetralitoGiovanni Rizza

Luigi RizzaAntonio Rossitto

Giulio RossittoSebastiano Rossitto

Corrado SirugoFranco Tiralongo

Clara Trefiletti

ARTE TRA LA GENTECollettiva di Arte e Artigianato

ARTE TRA LA GENTECollettiva di Arte e Artigianato

EDIT

ORIA

LEAvolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

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Rosa Di Bella, Pietro Poidimani, la presidente e Roberto Viani (foto di Sebastiano Munafò)

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orticello.Non voglio denunciare un momentodi crisi, vorrei piuttosto scuotere dal-l’immobilismo tutte quelle personeche, convinte che bisogna fare qual-cosa, tuttavia aspettano sempre che simuova qualcun altro; chi dice che adAvola non si fa cultura e poi non par-tecipa ad alcuna manifestazione, per-ché non è la sua; chi non si muove, senon lo dice il partito e ostacola anchequando è convinto della bontà di unacausa. Tutti ci lamentiamo di tutto,ma ci muoviamo solo con i nostri“pari”, non ci mescoliamo agli altri eescludiamo la possibilità che ci possaessere uno più bravo o con cui com-petere o collaborare. Ci manca l’u-miltà, il senso del servizio, del donareagli altri una parte di noi, per potereun po’ ricevere anche dagli altri; èun’ottica forse difficile da capire,eppure io, in questa nuova fase, sentoil piacere, ma anche il dovere di rin-graziare per quello che ho interioriz-zato, per la fiducia che ho riconqui-stato, per il senso di responsabilitàche ho ulteriormente maturato.Durante l’estate ho avuto l’opportu-nità di conoscere molte persone, chehanno voluto incontrarmi, farsi cono-scere, raccontarmi anche telefonica-mente le loro storie: a queste devodire grazie per la fiducia nella nostraassociazione; mogli che hanno volutoregalare ai loro mariti, in paesi lonta-

ni, la nostra rivista, per far rivivereemozioni nuove e antiche nello stessotempo; persone che si sono ricono-sciute nelle foto dei nostri servizi e sisono fatte avanti, persone, soprattuttogiovani, che hanno chiesto di esserepresentate o aiutate a emergere trami-te i nostri buoni uffici. Sento il dove-re di ringraziare tutti i nostri soci chehanno fiducia in noi, ma che per noisono uno stimolo continuo ad andareavanti. Anche le critiche ci aiutano acrescere, anche le difficoltà, comequella che ci è caduta tra capo e colloquando il nostro amico e socioRoberto D’Amico ci ha richiesto lasede che ci ha ospitati per ben treanni. Ho pensato che al nostro amico

dobbiamo dire grazie perla sua disponibilità che ciha tolti d’impiccio pertanto tempo, dandoci lapossibilità di avere unasede comoda e prestigiosanel centro storico, senzapretendere nulla in cam-bio, gratuitamente. “Ora èarrivato il momento dicamminare da soli”, pen-savo, pur in un mare diconfusione, neppure tantoconvinta di potercela fare.Ho pensato al dott. Mi-chele D’Amico e al suogrande impegno e allemie responsabilità e, a

questo punto, ho preso il coraggio adue mani e, consapevole che per otte-nere bisogna avere l’umiltà di chiede-re, mi sono rivolta all’assessore incarica, Giuseppe Carbè, il quale, vistala mia confusione e il mio scoramen-to, nonostante tutti i ragionamenti chemi facevo, mi ha offerto la sua dispo-nibilità. Ho voluto credere, anche secon qualche titubanza, perché… que-ste cose si sa come talvolta vanno afinire… niente di più falso; nel giro diquindici giorni l’Assessore, con l’a-vallo del sindaco AntoninoBarbagallo, ci ha trovato un’ottimasistemazione, una stanza in via FeliceOrsini, in quella che già fu sede dellaCaserma dei Carabinieri, nell’ex con-vento che affianca la chiesa di SantaMaria di Gesù. Ditemi se non devodire grazie a nome di tutti i soci! Ungrazie soprattutto perché mi sono sen-tita gratificata, come se il lavoro svol-to in questi anni avesse ottenuto unriconoscimento ufficiale dall’Ammi-nistrazione della nostra città. Tanti,forse, hanno già ottenuto dal comuneuna sede, lo so bene, ma io mi sonosentita come liberata da tanti pensieridi gestione, e, pur se in questomomento siamo alle prese con traslo-chi e pulizie dei locali, credetemi, ilmio grazie viene dal profondo delcuore. Forse tutti dovremmo impararead avere più fiducia e a ringraziare. Cisi sente meglio.

Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

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La nuova sede di via Felice Orsini (foto di Corrado Sirugo)

In senso orario: Erminia Gallo, Antonio Tiralongo e Matteo Blundo, un momento di Arte tra lagente, Francesca Campisi

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Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

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Anche le gite, ogni tanto, servono

di Michele Tarantino - foto di Piero Toselli

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S’era convenuto che ci si incontrasse alle7,30 del due giugno scorso per la parten-za. Pervenni puntuale all’appuntamento –EUR, stele Marconi – e mi compiacquinel constatare che numerosi altri avevanogià preso posto nel pullman. Scorsi conparticolare piacere il nutrito gruppo che siera unito a noi proveniente da Avola:Nella e Michele Favaccio, Rosa e Seba-stiano Burgaretta, Rita e Peppino Mon-toneri, Anna ed Emanuele Tringali. Conaltrettanto piacere mi premurai ad abbrac-ciare i Netini di Roma, presenti con PieroToselli, Santina e Giuseppe Conselmo. Li avevo coinvolti nell’iniziativa, convin-to come sono dell’opportunità di coltiva-re rapporti di collaborazione sempre piùintensi tra le due associazioni. In misuraassai ridotta erano presenti per i giovaniLaura Zagarella e il fidanzato: altro coin-volgimento, quello dei giovani, che miappare indispensabile, per assicurare allasezione romana de “Gli Avolesi nelMondo” vitalità e continuità.Pezzo forte della gita: la visita ad Anagni.Gli organizzatori avevano fatto affida-mento nell’interesse che suscita quellacittadina: l’antica Anagnia, capitale degliErnici, dal 306 a. C. ridotta a prefettura diRoma alle cui mire espansionistiche si eraopposta; Strabone la definisce “nobile edillustre”. Tuttora ricca di godibili edificimedievali che ne impreziosiscono il cen-tro storico, fu teatro di storici e significa-tivi eventi. Sede della nobile famigliaCaetani, che diede alla Chiesa la persona-lità e l’opera intensa di Benedetto Cae-tani, che vi nacque nel 1235, assurto alsoglio pontificio col nome di BonifacioVIII nel gennaio del 1295. Non mancava-no alla gita appetitosi contorni, sapiente-mente aggiunti al “piatto principale”.La prima tappa, infatti, la facemmo alpolo industriale del Frusinate: precisa-mente il ragguardevole stabilimento della“G.D.L.”. Lì, insieme ad uno splendidosole, che per quella volta s’era temuto cisarebbe mancato, ci attendeva quella cheritengo fra le più significative opere delmaestro Corrado Frateantonio, con noi adillustrarcene il significato: si tratta di una

composizione pittorica di ben sei metri dilunghezza per cm. 50. Il corpo pittorico ècostituito da cinque pannelli per mezzodei quali si sviluppa il tema del lavorodell’uomo. Si può inserire nel genere pit-torico noto come “nuova configurazio-ne”: la simbologia serve all’Artista persviluppare in uno spazio pur sempre limi-tato un tema più complesso. Opere delgenere richiedono all’osservatore di per-cepire e completare la filosofia del-l’Autore. Frateantonio si impegna arichiamare alla nostra coscienza percorsoe limiti dell’intervento creativo dell’uo-mo, mentre si ingegna a piegare mezzi emateria circostante alla brama inappaga-bile dell’evoluzione consumistica. Bran-delli di ciminiere, sprazzi di tecnologia edinquietanti invenzioni simboleggiate dalampade che punteggiano qua e là ildiscorso pittorico. Ad una figura didonna, che ci appare sensibile e sgomen-ta, il penultimo pannello affida il compitodi dare l’allarme. Così, felicemente eaugurabilmente, con l’ultimo pannello,con il gesto antico e semplice del contadi-no che sparge il seme per affidarne lo svi-luppo alla Natura che percepisce tuttoraamica affidabile, l’opera si conclude con

l’invito all’uomo di oggi ad usare le suepotenzialità in maniera compatibile conl’ordine cosmico.Dio sa quanto sia attuale e prezioso ilmessaggio del nostro Frateantonio.Indi giungemmo ai monumenti di Anagni.La visita era stata preparata durante ilviaggio da una breve rievocazione deifatti più significativi che vi si svolsero.Rievocazione fissata attraverso il contra-sto tra due uomini di opposta natura: ipontefici Celestino V – al secolo il mitePietro da Morrone – e Bonifaco VIII, ilforte e valido anagnense. Fu propriocostui, dotto cardinale, richiesto dallostesso Celestino V, ad imprimere l’autore-vole possumus all’intenzione del suo pre-decessore di fare il gran rifiuto, lasciandoper sua volontà l’incarico divino. Tantoera stato il primo incline alla remissionequanto il secondo fu determinato ad inter-venire prepotentemente a difesa del pri-mato spirituale sul potere temporale deiprincipi: plenitudo potestatis per originedivina. Il papa di Anagni si guadagnò benpresto l’avversione di Filippo il Bello, redi Francia. Nella sala del trono di palaz-zo Caetani ci fu dato di rivivere la sugge-stione del luogo dove il Pontefice ricevet-

Gli Avolesi di Roma ammirano il grande dipinto del maestro Frateantonio.

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Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

te impavido la gendarmeria di Guglielmodi Nogaret, introdotta da Sciarra Colonna,membro della potente famiglia romana,che pure Bonifacio VIII si era inimicataesiliandone un componente cardinale:correva l’anno 1303. Fu uno schiaffo senon fisico, certamente morale. DescriveDante – Canto XX del Purgatorio: “Veg-gio in Alagna entrar lo fiordaliso,/ e nelvicario suo Cristo esser catto./ Veggioloun’altra volta esser deriso./ Veggio rinno-vellar l’aceto e ‘l fele”.Anche se appena due giorni dopo il popo-lo di Anagni liberò il Caetani, BonifacioVIII morì poco dopo, l’11 di ottobre del1303 in Roma. Ne custodisce le spoglie inSan Pietro la cappella Caetani, opera diArnolfo di Cambio. In Anagni, ancora, citoccò la sorte di visitare la sorprendentecripta del Duomo, di recente riapertadopo i restauri.Seguì l’ottimo pranzo consumato in unavicina struttura agrituristica, dove gu-stammo l’ottimo “Piglio”, frutto di unvasto vigneto che si ammira dalla panora-mica terrazza del locale. La caratteristicaCertosa di Trisulti ci riservava il secondoappetitoso contorno. Originariamenteanimata da frati benedettini è mantenutaai giorni nostri da certosini della vicinaCasamari. Unica nel suo genere la farma-cia, che conserva ben classificati centi-naia di prodotti galenici con i quali i fratisi ingegnavano a curare le ferite del fisi-co, oltre a quelle dell’anima, di quanti sirivolgevano alle loro pietose cure.Affiatati dalla soddisfacente giornata tra-scorsa insieme, lungo il viaggio di ritornone commentammo positivamente imomenti salienti ed ascoltammo il prof.Burgaretta, che ci illustrò il contenutodell’ultimo numero della rivista “Avolesinel Mondo”, distribuita – gradito omag-gio – a tutti i partecipanti.Resto convinto che finalità primaria diassociazioni come la nostra, al pari diquella degli amici Netini, sia quella dimantenere fuori dai luoghi di originevigile l’attenzione verso quello che vi

succede. Dare testimonianza di operositàe sprone a quanti, a Noto come ad Avola,agiscono per l’evoluzione sociale dellerispettive popolazioni. Di tanto in tantoanche le occasioni di piacevoli momenti

conviviali servono allo scopo. Meritano,dunque, plauso e gratitudine quanti siimpegnano nell’organizzazione. Allaprossima!

Il Maestro Frateantonio illustra il grande dipinto.

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Anni Trenta. Avola è un paese che escedall’Ottocento, modesto, contadino,fatto di traffici minuti, che cresce len-tamente, progredisce e si incamminaverso la modernizzazione.Gli anni trenta sono quelli in cui persi-ste la civiltà del risparmio e non quel-la dei consumi; quelli in cui gli abitidurano il più a lungo possibile se nontutta una vita e le mamme confeziona-no a maglia pullover e calze di lana;sono gli anni in cui il ricorso alle ripa-razioni costituisce una regola; soprav-vivono così i mestieri girovaghi: l’om-brellaio (u paracquaru), lo stagnino (ucaurararu), la pettinatrice (a pilucche-ra) che, di casa in casa, addobba lecapigliature delle signore e cura che icapelli che si sfilano non vadanodispersi, per essere poi barattati, rac-colti in gomitoli, con forcine, aghi,spille, pettini ecc., offerti in mostra daun ambulante curvo su una cassettapoggiata sul petto e sostenuta da soli-de bretelle a tracolla; sono gli anni del-

l’ambulante che con il piccolo carrotrainato dall’asinello vende pentole,piatti, ecc. (u piattaru), del venditoredi oleografie per capezzali al grido di«cosi boni, belli e boni», dell’arrotino.Diffuse inoltre sono le sartorie nonsolo per eseguire abiti su misura maper “rivoltare” gli abiti consunti.Gli anni trenta sono anche gli anni delmonopattino, delle trottole di legno (ituppetti), delle palline di vetro chesigillano le gazzose, dei salvadanai diterracotta, dei quaderni macchiatid’inchiostro dalla nera copertina, delledecalcomanie (i stampatelli) che sisvelano con lenta magia, dell’eleganzaleziosa delle calligrafie, dei fonografia manovella; gli anni in cui gli inse-gnanti impartiscono gli ordini alle sco-laresche tamburellando la bacchettasulla cattedra, e sono anche gli anni incui tutto è fascista, il saluto, il partito,lo stile, la befana, il sabato e il sinda-co, ed il fascino maschile si misuracon la quantità di brillantina fissata suicapelli.Ma gli anni Trenta segnano anche ilmomento in cui il mondo più angustodi Avola si avvia verso la modernizza-

zione; si moltiplicano i punti di vendi-ta fra i quali l’emporio “AntoninoCondò e Figlio” con le sue settemostre e la scritta “Qui si trova tutto”,e negozi per abbigliamento e stoffe, ilnegozio per la vendita di moderniapparecchi radio che hanno soppianta-to la radio a galena, privilegio dipochi, ed ancora il negozio della modi-sta; in Piazza Umberto I, poi, la famadel rinomato Caffè Finocchiaro valicagià gli angusti confini del paese. C’èanche la banda musicale comunale chela domenica pomeriggio, nell’appositopalco delizia la cittadinanza e, nelperiodo estivo, il cinema all’aperto inpiazza Trento, non più terreno dipascolo come ancora lo era nel primodopoguerra. C’è anche un cinema alchiuso: il Cinema Italia. Sotto la illu-minata amministrazione del Podestàavv. Corrado Santuccio si realizza,proprio negli anni trenta, il viale Lidoche congiunge il corso Vittorio Ema-nuele con la striscia costiera delimita-ta dal lido del mare, al quale gli avole-si possono ora accedere comodamen-te. Nascono così, sull’arenile, un lus-suoso stabilimento balneare ed una

Avola negli anni trenta, un frammento del passato

Il calcio giocato ai “Cappuccini”

di Luigi Rizza - foto archivio Rizza

STOR

IALO

CALE

Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

Calciatori e tifosi

Squadra e tecnici ai Cappuccini

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rotonda sul mare per le “serate dan-zanti”, che costituiranno un vanto peril Comune ed esalteranno il gusto dellanovità e della vita di tutti gli avolesi ela loro voglia di divertire e divertirsi.Sono quelli gli anni nel corso dei qualiaccanto alla scuola di avviamento pro-fessionale nasce in Avola la scuolamedia parificataAnni Trenta. È tutto un crescendo,sono gli anni della spensieratezza, disogni e di speranze; sono gli anni della“Littorina”, della Balilla, di Marconi,di Pirandello, di Italo Baldo e delle tra-svolate oceaniche, di Binda e diGuerra, di Varzi e di Nuvolari, diCarnera e dei treni che viaggiano inorario; non c’è nulla che lasci presagi-re un brusco risveglio a distanza dipochi anni.E nel fervore degli anni trenta esplodein Avola la passione calcistica. IlComune non dispone di un camposportivo, sicché la scelta del terreno digioco non può che ricadere sulla piaz-za periferica Francesco Crispi.Così il terreno di gioco dei Cappuccinidiventa terreno di epici scontri cittadi-ni. Memorabile il torneo a quattro frale squadre denominate “Fascisti”,“G.U.F. (Gioventù Universitaria Fa-scista), “Avanguardisti” e “Liberi”.Fu, quello, un torneo che appassionòtutta la cittadinanza, a prescindere daogni idiosincrasia ideologica; vennerocomposti inni e la rivalità era moltoaccesa fra i sostenitori delle quattrosquadre; non mancava neppure la

banda musicale, che salutava festosa-mente l’inizio degli incontri. A com-porre le squadre di calcio era il fiorfiore della gioventù avolese, queiragazzi che a breve sarebbero statichiamati ad affrontare un destinoamaro e che avrebbero visto svanire isogni innocenti di Parlami d’amoreMariù, per andare a morire in terrelontane, nei cieli e nei mari, i più senzaneanche un sepolcro.In quegli anni nasce anche la squadradi calcio cittadina, che deve rappresen-tare Avola in una serie di incontri conle squadre dei Comuni limitrofi.Personaggio leggendario in questafase, e anche dopo, è, invero, il cava-liere Titta Azzolini, che si spinge fino

al punto di invitare l’allenatore delSiracusa, Giovanni Vecchina, ex n°9della nazionale di calcio, a venire adAvola, per allenare i giocatori locali einculcare loro le tecniche calcistiche.E ai Cappuccini gli incontri si susse-guono, anche con recinzioni dellapiazza; non sono poche, però, leintemperanze del pubblico ogni qual-volta che, in tornei provinciali, lasquadra del cuore ci rimette le penne“per colpa, ovviamente, dell’arbitro”.Un episodio in particolare è quellodelle sassate al passaggio a livello dicontrada Mutubè contro la “Littorina”che trasportava a casa l’arbitro di unincontro che aveva visto soccomberela squadra avolese.Negli anni del secondo conflitto mon-diale, il ritmo delle partite di calcio aiCappuccini, ovviamente, si riduce;sono i giovanissimi, non ancora richia-mati alle armi, ad affrontare squadreapprontate dai presidi militari dellaprovincia.Negli anni che seguono e che preludo-no allo sbarco degli Alleati in Sicilia,in Avola la vita sembra fermarsi; ipreannunci della catastrofe sonoavvertiti dai più; c’è, in tutti, un’appa-rente serenità, ma la fiducia nella vit-toria è del tutto scemata. Emblematica,in tal senso, la filastrocca frutto dellaperspicace saggezza popolana, chesintetizza in modo mirabile la realtàdel momento. Recita la filastrocca:

Foto di gruppo al Lido di Avola

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Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

Bagnanti al Lido di Avola

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Hitler comanda/ il Duce ubbidisce/ IlRe rimbambisce/ la popolazione pati-sce/ ma quannu si finisci?Tuttavia, in un’altalena di speranze edi paure, gli avolesi cercano ancora didistrarsi; al teatro comunale viene rap-presentato l’ultimo lavoro del com-pianto maestro Gaetano Alia, “LaRosa d’Albania”, che sarà anche l’ulti-ma rappresentazione messa in scena inquel teatro, ancora oggi in fase direstauro.Al termine del conflitto saranno moltigli avolesi che non rivedranno i lorocari e fra essi molti dei ragazzi cheavevano solcato il campo deiCappuccini.Negli anni successivi allo sbarco inSicilia, quando ancora nel Nord Italiaera vivo il conflitto, l’immarciscibilecavaliere Azzolini riprende in mano lesorti del calcio avolese, facendo gioca-re nella nuova formazione un militareitaliano sottrattosi alla cattura da partedegli Alleati durante l’occupazione diAvola, e da lui ospitato (Lottini, perchi lo ricorda, un veneto che rientrerànella terra natia dopo la liberazione delNord Italia).

A conflitto concluso, il cavaliereAzzolini mette su una squadra per par-tecipare ad un torneo provinciale, conalterna fortuna. A fronte, infatti, di vit-torie strepitose (15 a 0 con l’Aurora diNoto) non mancano le sconfitte, fatalequella dei Cappuccini contro I Lupi diMare di Siracusa (0 a 1 su autorete).Questo incontro merita di essere ricor-dato, perché ad arbitrare la partita fuun certo Concetto Lo Bello… Si!Proprio lui, quello che a breve sarebbestato riconosciuto come il principedegli arbitri italiani e fra i migliori delmondo.Nel dopoguerra, quando la vita nelpaese si avvia verso la normalità, si faun gran parlare della possibilità didotare Avola di un campo sportivo;famose le accese discussioni tra isapienti su come strutturare lo stadio edove collocare gli spogliatoi dell’ipo-tetico campo sportivo.Mentre si discute animatamente, ilbuon parroco Antonio Frasca il camposportivo lo realizza lui, con il concor-so della generosa donazione del terre-no da parte della famiglia Alfieri, cheha così inteso perpetuare la memoriadel proprio congiunto Ten. Giuseppe

Alfieri, medaglia d’argento, cadutonella guerra del 1915-1918, al quale lostadio viene intitolato.Finisce così il calcio ai Cappuccini, unluogo che fa parte della memoria col-lettiva. Sparisce, cioè, un pezzo diAvola. Le città, ovviamente, cambia-no, si trasformano, il tutto rientra nel-l’ordine delle cose e guai se così nonfosse, altrimenti si tratterebbe di cittàche non vivono. Ciò non toglie, però,che veder sparire posti “storici” dà unastretta al cuore e l’attuale sistemazionedi piazza Francesco Crispi, con le sueluci da campo santo anche se conferi-sce un senso di sacralità al terreno deiCappuccini che tanti giovani avolesispecie negli anni Trenta solcarono confresco entusiasmo, non vince tuttaviala nostalgia e non lenisce la fitta alcuore a chi vede sparire posti pensati adurare per sempre nel tempo.

Sono riconoscibili nelle foto: AdolfoBianca, Giuseppe Canonico, CorradoConsales, Salvatore Consales, Gae-tano Di Maria, Corrado Grande, Lu-ciano Grande, Luigi Lutri, GiovanniMonello, Corrado Munafò, AntonioRizza e Gaetano Rizza.

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Calciatori ai Cappuccini

Spiazzo dei Cappuccini

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L’origine dei fischietti in terracottarisale alla preistoria, se è vero, com’èvero, che a Furfoz, nel Belgio meri-dionale, è stato ritrovato un fischietto,a forma di uccello, risalente all’etàdel bronzo. Certamente essi eranopresenti in Europa nell’età greco-romana, nelle Americhe con la civiltà“la Tolita” nel territorio dell’attualeEcuador intorno al ‘500 a.C. E poinella civiltà “Chimu” nel territoriodell’attuale Perù. Sono diffusi in tuttoil mondo, dall’Europa intera allaCina, al Messico, all’Africa etc. Essisono, originariamente, il prodottotipico di una civiltà contadina il cuipensiero magico tende a personaliz-zare esseri e cose, dando loro unaindividualità e un valore impensabilinella cultura industriale. Il volatileche canta nel bosco e annuncia la pri-mavera è l’interlocutore della stessacomunità, garante della vita che con-tinua, dispensatore di ricchezze e for-tune insospettate, custode dei ritmilavorativi, simbolo sessuale e di ferti-lità (R. Ferretti, 1982 pag 11); tuttivalori, questi, tipici delle civiltà con-tadine, che vivono il legame con l’as-soluto nel quadro dei rapporti socio-economici ed esistenziali, attraverso iquali la comunità perpetua sé stessa etrasmette i suoi valori fondanti. Lavalenza magico-sacrale si evidenzianei fischietti che riproducono imma-gini di santi. Per questo ogni paese haavuto il fischietto con le fattezze delproprio patrono, come documentatoda Pitrè e come dimostrato dagliesemplari che sono giunti fino a noi eche ancora oggi vengono prodotti inSicilia e in Puglia. Oltre a molte dellefigure di santi ricordate dal demologopalermitano, sono giunte a noi imma-gini di altri santi tuttora venerati; sipensi a San Filippo d’Aidone, a SanSebastiano di Melilli e di Avola, al

Cristo risorto etc... (Cfr. S. Burga-retta, 1985, 1989, 1993, 1995, 2000).Nel tempo, via via, i fischietti in ter-racotta hanno assunto significati ludi-co-rituali, avendo come destinatariprivilegiati i fanciulli, i quali sonoeredi naturali del patrimonio culturalee rituale della comunità di apparte-

nenza (A. Uccello, 1972). Pertanto leforme dei fischietti, pur conservandoil loro carattere magico-sacrale, con ilriferimento ai santi e agli elementifondamentali esseri viventi (animali,piante) della natura, si sono adattatealla funzione ludica cui i fischiettivenivano destinati, una volta dati inmano ai fanciulli. Alcuni soggettidegli zufoli di terracotta denuncianola loro origine di giocattoli arcaici, dicorredi funebri, di ex voto, di immagi-ni devote legate a particolari festivitào che sono state oggetto di culto pres-so santuari più o meno famosi. Le sta-tuine dei Santi patroni, per esempio, odi altri soggetti dell’iconografia reli-giosa seguono una normale fenome-nologia di ordine etnologico, secondocui, usi e tradizioni, una volta perdu-ta la loro originaria funzione, soglio-no corrompersi e decadere nell’ambi-to del mondo fanciullesco (A. Uc-cello, 1977, p.6).Le forme di altri soggetti, come, adesempio, quelli riproducenti animalidomestici, quali galline e oche o frut-ta di vario genere, conservano tuttaviala loro arcaica simbologia propiziato-ria tipica delle culture primitive,anche se oggi i fischietti con taliforme fungono, in molti casi, dasoprammobili per salotti borghesi. Èprobabile che la forma del gallo, chetroviamo nelle ceramiche popolari afiato, sia un simbolo fallico, nelmedesimo tempo apotropaico e propi-ziatorio (R. Zarpellon, s. d., p.8). Ilfischio, infatti, essendo emesso da unoggetto fallico, aveva il potere diallontanare il male e di richiamare apropiziare il bene (C. Saporetti, 1985,nn.1/2, pp.106-107). Altre forme,ancora, assumono invece una valenzaantagonistica e dissacrante, comequella tipica e propria di certimomenti storici.

Carabinieri e satira politicanei fischietti di terracotta

di Sebastiano Burgaretta - foto di Corrado Sirugo

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Totò: fischietto realizzato da GiuseppeMassarelli, di Modugno

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Edda Bresciani, qualche annofa, ha riproposto una stampaottocentesca, pubblicata su“Illustrazione Universale” nelgennaio 1874, che mostra la tra-dizionale festa dell’Epifania inPiazza Navona. La studiosascrive che fra i suonatori ditrombe e di tamburi si vedonodue uomini baffuti che soffianoa tutta gola dentro fischiettisatirici alti almeno quarantacentimetri; uno è il busto di uncardinale, l’altro è il busto delpapa con il triregno sul capo(E. Bresciani, 1989, p. 11).Se a tanto ardire potevano spin-gersi nella Roma papalina gliartigiani che realizzavano queifischietti antropomorfici confunzione satirica, è facile com-prendere come anche altrove ein altri momenti storici, siaprima sia dopo il 1874, si siaesercitata questa forma sponta-nea di satira popolare verso ipotenti di turno a mezzo di queifischietti in terracotta che, fab-bricati per i fanciulli, finivanoall’occorrenza nelle mani degliadulti. Successe all’epoca(1881-82 e 1886-98) del Presi-dente del Consiglio AntonioStarrabba di Rudinì, che è rima-sto “satiricamente” immortalatoin un fischietto conservato nellaricca collezione del MuseoNazionale delle Arti e TradizioniPopolari di Roma, e succede oggi conmolti personaggi politici tra i più noti.Già prima comunque, nei primi annidell’Ottocento, in Italia c’erano stateforme di satira politica, documentatadai fischietti di terracotta. È il casodei famosi cuchi veneti, che ritraggo-no cavalieri in armi, i quali rimanda-no iconograficamente e storicamentealle odiate figure dei soldati diNapoleone, sprezzantemente rappre-sentati sì a cavallo, ma di un uccello,con tutto quello che sul piano dellavalenza simbolica, come si è notato,può significare, in determinati conte-sti, l’uccello, che, notoriamente, nellinguaggio allusivo, è simbolo fallico.

Nel quadro della cultura e dei costumipopolari la satira contro i potenti èstata, da tempo immemorabile, eserci-tata nei giorni deputati del Carnevale,allorché il rovesciamento dei ruolisociali, semel in anno, ha consentitoal popolo di esprimere la sua caricarepressa di dissenso o di opposizionenei riguardi delle classi egemoni.Travestimenti, sberleffi, recite pubbli-che di componimenti satirici in versihanno tradizionalmente accompagna-to il divertimento carnevalesco delleclassi subalterne. Il Pitrè (1978, p.429; 434-435) documentò, nella suaBiblioteca delle tradizioni popolari, latradizione delle poesie satiriche che,nella seconda metà dell’Ottocento,

poeti del popolo declamavano,in occasione della festa di SanCorrado, nella chiesa di SanGiovanni Battista ad Avola.Poiché i politici e i “potenti” deltempo fatti oggetti di satira, adun certo momento, protestaronocon il vescovo del luogo, i pro-curatori della chiesa proibironoai poeti di proseguire nell’anti-ca tradizione avolese. Tuttavia,cacciati dai “potenti” fuori dallachiesa, i poeti popolari hannocontinuato, ancora fino ai nostrigiorni, a declamare i loro versisatirici per le vie e nelle piazzedella città nei giorni di Car-nevale. A tale valenza antagoni-stica, permessa ed esaltata dap-pertutto dal clima carnevalesco,si ricollega lo spirito dissacrato-re e a volte sarcastico deifischietti in terracotta antropo-morfici con funzione satirica.Con queste ceramiche popolaria fiato, infatti, anche nei giorniferiali dell’intero anno è possi-bile mettere alla berlina i rap-presentanti del potere, special-mente nelle figure degli espo-nenti di spicco o di quelli piùpopolari, come è nel caso deirappresentanti dell’Arma deicarabinieri. Nei fischietti in ter-racotta si riproducono vere eproprie caricature che mettonoalla berlina il “potere” e le sue

varie forme, giacché il popolo, nel-l’impossibilità di opporsi a tale “pote-re” in modo diretto, reagisce con labeffa, affidando, in certo qual modo,la sua “rivincita” a una figurina diargilla, vistosamente colorata o grez-za non importa, e coltivando l’illusio-ne di sentirsi in tal modo come su ungradino più alto, una volta che provaad “abbassare” il “potente” con loscherno e a ridicolizzarlo con la cari-catura e il sarcasmo. Questo è esatta-mente ciò che fecero nel primoOttocento i ceramisti veneti, realiz-zando i cuchi in funzione antinapo-leonica. Si tramanda la memoriapopolare secondo la quale la traco-tanza dell’esercito napoleonico non

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Fischietto di Filippo Lasorella, di Rutigliano

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andasse a genio agli abitanti,più legati all’Austria (C. Sa-poretti, p.109). A Nove, patriadei cuchi, peraltro, avvenneuno scontro militare fra l’eser-cito napoleonico e quelloaustriaco. Il risentimento popo-lare venne espresso in modoimmediato e in forme pittore-sche ed espressive mediante unfischietto in terracotta raffigu-rante l’imperatore disarcionatodal suo cavallo e messo perscherno a dorso di una gallina.A questo modello archetipico digendarme a cavallo sarcastica-mente raffigurato in terracottarisalgono, secondo il parereunanime degli studiosi, le figu-re di uomini armati, e fonda-mentalmente di carabinieri, chesono state realizzate negli ulti-mi due secoli e ancora fino adoggi vengono eseguite, nelsolco della tradizione ma altresìcon ardite innovazioni stilisti-che, da artigiani ceramisti divarie regioni italiane, masoprattutto di Sicilia, Puglia,Veneto, Lazio, Piemonte, Ba-silicata, Abruzzo, Marche.Come si può notare, l’interoterritorio della penisola registraproduzione di fischietti che rap-presentano la figura del carabi-niere. Si può dire senza ombradi dubbio, ha scritto PaolaPiangerelli, che tutti gli artigiani cheho conosciuto lo indicano (il fischiet-to carabiniere, n.d.a.) come soggettotradizionale: quello più vecchio,quello che si è sempre fatto (P. Pian-gerelli, 1993, p. 46). Ci sarebbe daindagare sui motivi per cui la satiracontro i “potenti” in armi nel territo-rio italiano si è appuntata e cristalliz-zata fondamentalmente proprio sullafigura del carabiniere. E qui il discor-so potrebbe portare lontano, amplian-dosi, col rischio anche di esulare dal-l’ambito che in questa sede stretta-mente interessa. Si può soltantoaccennare al fatto che, sotto moltepli-ci aspetti e con profili variegati, lafigura del carabiniere è presente nel-

l’immaginario popolare, nella lettera-tura ludica e d’intrattenimento (sipensi allo sterminato repertorio dibarzellette sui carabinieri) e, già anco-ra prima, nei costumi, negli atteggia-menti e nei comportamenti relaziona-li della gente comune. Ciò, perché lafigura del carabiniere, essendo nataprima dell’unità d’Italia, ha accompa-gnato la nascita e la crescita delloStato, collocandosi storicamente, conla sua partecipazione eroica e glorio-sa, da Pastrengo al generale DallaChiesa e agli uomini sacrificati fino aNassiriya e ancora ai nostri giorni, neimomenti cruciali della vita del nostropaese, al centro della società civile,con una funzione, fra le tante altre,

mediatrice tra cittadini e Stato,quello Stato che assai spesso èstato sentito come lontano dallagente.Al riguardo esiste una letteratu-ra sterminata, non solo nellaforma della carta stampata maanche in quella cinematograficae recentemente anche televisi-va. Fra tutte quelle che hannorappresentato o rappresentanolo Stato, quella del carabiniere èstata sempre la figura più fami-liare, pur se al tempo stesso te-muta, e più vicina nella sostan-za, professionalmente e umana-mente, alla gente comune. Bastipensare al ruolo sociale che ilmaresciallo dei carabinieri rive-stiva nei paesi fino a qualchedecennio fa. È anche vero tutta-via che tale rapporto a volte, aseconda dei casi e delle situa-zioni particolari, poteva presen-tare delle connotazioni di ambi-guità e comunque di dubbio.Tra carabinieri e popolo si sta-biliva e sviluppava un rapportocivile e umano variegato, fattodi amicizia e simpatia maanche, in base alle circostanzeparticolari, di soggezione e dif-fidenza. Come succede general-mente nei rapporti tra personequalsiasi, così anche nel rappor-to tra cittadino e carabiniere lasimpatia può, in determinate

emergenze, mutarsi nel suo contrarioe l’affetto nel risentimento, quandonon addirittura nell’odio. Sentimenti,questi, derivanti tutti da un forte sensodi partecipazione e comunque diattenzione all’altro; certamente non didisattenzione o, peggio, di indifferen-za. Succede del resto normalmenteche chi si espone in prima persona,chi si assume pubbliche responsabi-lità finisca per diventare, se opera ret-tamente, il biblico “segno di contrad-dizione”, che suscita sentimenti con-trastanti, come quelli dell’antipatia edella simpatia. E ciò tanto più quantopiù il “modello” operante è vicino achi lo guarda e lo critica sentendosenegiudicato o attratto. A me pare che la

Cuco di Severino Carraro, di Nove

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figura del carabiniere, in virtù del suoportato storico-culturale, abbia eserci-tato una sorta di simile “carisma”nella mentalità e nell’immaginariocollettivo della gente comune.Nessuna meraviglia, dunque, che pro-prio la figura del carabiniere, piutto-sto che un’altra, sia stata tradizional-mente adottata dagli artigiani cerami-sti nell’interpretare la valenza satiricada conferire a un fischietto realizzatocon funzione dissacratoria e antagoni-stica verso il potere. Gli individuifiniscono, prima o poi, per ribellarsiai loro padri e per ucciderli, ahimènon sempre solo in senso psicoanaliti-co, come registra malinconicamentela cronaca. E il carabiniere, nellamentalità e nella considerazione delpopolo, ha rivestito il ruolo di padre,confidente, consigliere, paciere etc..,nonché quello di “zio” immaginarioal cui decisivo e risolutore interventoamavano appellarsi i fanciulli della

mia generazione, allor-ché nel corso dei gio-chi fanciulleschi, fini-vano per litigare e fareriferimento nominale aun lungo elenco diamici e “potenti” dafare intervenire a dife-sa o ad attacco, aseconda dei casi, perdirimere le questioniinsorte tra coetanei.Agli anni della fan-ciullezza risale il mioricordo della seguentefilastrocca, che i ra-gazzi andavamo ripe-tendo all’infinito incoro per le vie, cammi-nando in gruppo apasso cadenzato e ve-loce, mentre uno di noisegnava il tempo conun fischietto calatinoin figura di carabinie-re: A-ddui hana –gghiri i carrabbineri:/unu i ravanti e unu irarreri! (In numero didue devono andare icarabinieri:/ uno avan-

ti e uno dietro!). Questo particolare èaffiorato alla mia memoria quando holetto della dichiarazione rilasciata dal-l’artigiano di Grottaglie GiovanniMastro a Paola Piangerelli: A proposi-to di carabinieri Giovanni ci diceridendo che bisogna acquistarli acoppie: Perché vanno sempre insie-me: uno è stupido, l’altro ignorante(P. Piangerelli, 1994, p. 189). Per nondire poi del pregiudizio atavico e deltimore reverenziale per cui le donnedel popolo nei piccoli paesi, quandovedevano apparire, anche da lontano,nelle vie dei loro quartieri la figura diun carabiniere, erano prese da unrepentino senso di paura, giacchévedevano pur sempre un “nemico”avvicinarsi a casa loro, la mano dellostato oppressore accostarsi inopinata-mente ad esse e ai loro familiari, e sidavano a congetturare ansiosamentesui motivi, che si temevano sempregravi, della visita.

Tutti questi retaggi, per così dire,antropologico-culturali del nostropopolo hanno certamente avuto laloro incidenza nel rapporto ambiva-lente con la figura del carabiniere eperciò possono avere influito anchenella tradizione dei fischietti popolariin terracotta che raffigurano i carabi-nieri. Ciò appare plausibile, special-mente se si fa attenzione alle caratte-ristiche morfologiche e ai particolaridecorativi di queste significative cera-miche popolari a fiato. Generalmente,infatti, i carabinieri sono raffigurati inposizione piuttosto rigida e quasisempre in alta uniforme, con lanternee pennacchio rosso-blu sul capo. Nonmi è capitato, in visite a mostre spe-cialistiche e nel corso di ricerche distudio, di vedere fischietti che rappre-sentassero carabinieri in divisa d’or-dinanza, tranne che per due soli pic-coli esemplari, acquistati da me aCastellana, in Puglia, e presenti nellamia collezione personale. Uno è indivisa color cachi, l’altro in divisanera. Tutti gli altri diciotto esemplaridi carabinieri della mia raccolta, pro-venienti da varie regioni italiane e constili e dimensioni variegati, vestonol’alta uniforme e portano il dispositi-vo sonoro sul deretano, laddove quel-li in divisa d’ordinanza, che peraltrosono minuscoli (9,5 cm.) e di unacerta finezza nei tratti, lo portanoattaccato alla base delle statuine.Quest’ultima è una nota di riguardo,che si spiega con l’iconografia e l’abi-to della normalità rivestiti dalle duefigure. Quando le figure si presentanoin alta uniforme, infatti, l’atteggia-mento altero, il costume vistoso eimponente attirano più facilmente ecomprensibilmente lo strale del tiroirriguardoso e dissacrante. ElisabettaSilvestrini ha scritto che la colloca-zione del dispositivo sonoro sul fondodelle terga non risponde soltanto lettaal primo livello semantico, cioè quel-lo burlesco e dissacratorio del quale siè detto. Il particolare attingerebbe asignificati più profondi: Accanto aisimbolismi complessi che investono leparti del corpo e soprattutto i suoiorifizi, come aperture tra l’esterno e

Il Conte di Cavour: fischietto di Antonio D’Annunzio, di SettimoTorinese

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l’interno la terminazione del canaledigestivo costituisce, certo, l’antitesidell’apertura buccale (da alto abasso, da immissione e espulsione delcibo, da visibile a nascosto, e cosìvia); e quindi il fischio applicato alleterga, nei fischietti, rappresenta unrovesciamento, osceno e ghignante,del fischio modulato con le labbra (E.Silvestrini, 1995, pp.18 e 225). Comesi è già accennato, tutti i fischietti rap-presentanti i carabinieri sono raffigu-rati generalmente in piedi, nella posi-zione rigida dell’attenti, con una pre-cisa simmetria nella disposizione delcorpo e nella posizione degli arti non-ché nella distribuzione dei colori edegli accessori. Ciò, come ha dimo-strato la Piangerelli, conferisce alle

statuine una notevole staticità e fron-talità. Esistono tuttavia anche esem-plari, provenienti da varie regioni,rappresentati soltanto nella partesuperiore del corpo. Si tratta, in questicasi, di busti assai rifiniti nei dettagli,pur se nel rispetto sostanziale dellatradizione popolare, la cui caratteristi-ca comune è data dall’imponenza delcostume e dalla staticità dell’atteggia-mento austero e solenne conferito allafigura. Nella mia collezione è presen-te un magnifico esemplare di carabi-niere in alta uniforme a mezzo busto,raffigurato in tutta solennità e croma-ticamente assai rifinito. È opera delceramista calatino Giacomo Alessi.Non mancano comunque esemplari dicarabinieri in alta uniforme e adimensione intera, la cui raffigurazio-ne e i cui atteggiamenti sono già diper sé stessi ridicoli, come, per esem-pio, in un esemplare di FilippoLasorella, di Rutigliano, da me acqui-stato a Ostuni nel 1982. La statuina,alta 21,5 cm, è ripresa nella posizionecaricaturale conferitale dalle gambeassai storte, dalle mani ai fianchi conle braccia divaricate, dalla sciabolache striscia al suolo, dai lunghi baffo-ni all’insù sotto un naso mastodonti-co. Sembra uscito dal racconto diPinocchio. Un esemplare grezzo conl’uniforme di gala ma in posa un po’ridicola con le mani strettamenteunite al ventre appartiene alla colle-zione della Piangerelli. Proviene daGrottaglie e figura nel catalogo dellamostra che si tenne a Roma nel 1995.E che dire poi di Totò, il grande atto-re napoletano, ritratto nella grandeuniforme dell’Arma in atteggiamentoautoironico, con le mani nella posi-zione dell’attenti ma disposte a coppolungo le cosce e lo sguardo malinco-nico e rassegnato tipico della suamaschera, così rappresentato in unesemplare, alto 30 cm., realizzato daGiuseppe Massarelli, artigiano diModugno, e acquistato da me nel1987? Col repertorio iconografico deifischietti in figura di carabiniere ildiscorso rischia di farsi lungo, per cuisi rimanda il lettore interessato allepubblicazioni specialistiche e ai cata-

loghi di mostre relative al tema delleceramiche popolari a fiato, che sonoormai numerosi. Concludiamo perciò,annotando che esemplari di fischiettiraffiguranti carabinieri, con le caratte-ristiche di cui ci siamo fin qui occu-pati, sono conservati in molte colle-zioni di studiosi e di appassionati e inraccolte pubbliche e private, tra lequali la più importante è quella delMuseo Nazionale delle Arti e Tradi-zioni Popolari di Roma.

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Giulio Andreotti: fischietto di Mario Judici,di Caltagirone

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La nave del desertoLaboratorio tenuto pressola Casa Circondariale di Cavadonnadi Donata Munafò - foto di Vincenzo Medica

TE

AT

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Il teatro è un luogo privilegiato, in cuila persona può uscire fuori da sé eimparare ad osservarsi con maggioreobiettività, facilitato dalla finzioneteatrale che gli permette di “mettersiallo scoperto”, protetto dal personag-gio. Un laboratorio teatrale è un labo-ratorio pedagogico, in quanto consen-te di esprimere la creatività del sog-getto e di liberare potenziali attitudini,agendo contro la coartazione dellapersonalità prodotta dalla privazionedella libertà personale. Per mezzodella rappresentazione teatrale, ildetenuto ha la possibilità di “uscire”dal ruolo che gli è stato assegnatodall’Istituzione. Ha l’opportunità dimanifestare certi aspetti del suo carat-tere, di esprimere sentimenti e statid’animo, che altrimenti verrebberorepressi, fino a destare in lui odio erisentimento contro il mondo circo-stante. Inoltre, durante la rappresen-tazione della commedia, gli at-tori/detenuti svolgono un ruolo attivo,

diventano protagonisti, mentre la dire-zione, gli operatori e il pubblico ester-no, ricevono messaggi logici, simboli-ci, verbali, non verbali e musicali(Sartarelli G., Pedagogia penitenzia-ria e della devianza, Carocci Faber,2004, Roma, pag. 111).Il laboratorio extracurriculare è natoall’interno del Programma dell’Offer-ta Formativa (POF) della Scuolamedia per adulti del 1° Istituto Com-prensivo “V. Messina” di PalazzoloAcreide (SR), sede penitenziaria diCavadonna, grazie all’interesse dellaprofessoressa di materie letterarieManuela Caramanna e della sottoscrit-ta operatrice teatrale. Il laboratorio ha visto coinvolti, oltreagli alunni di una delle due pluriclassi,due alunni detenuti extracomunitari dicultura araba (facenti parte di un altrocorso di alfabetizzazione). Il laborato-rio ha assunto, dunque, una nuovaveste interculturale diventando unafucina didattica molto più interessante,

coinvolgendo anche una serie divolontari esterni che, insieme all’ete-rogeneo gruppo, ha dato vita ad unlavoro nuovo e originale, La nave deldeserto - Safīnat al-sahrā, testo cheprende atto delle risorse umane e deiloro vissuti e li rilancia come segni dilettura e interpretazione della realtà.Testo che nella sua forma conclusa èstato scritto da Carmelo Greco, scritto-re e giornalista. La nave del deserto è in arabo il dro-medario, animale lento ma efficace nelportare a termine le traversate neldeserto, metafora di un cantiere edile acielo aperto, in cui lavorano operai ita-liani e non italiani (come potrebbeaccadere in un qualsiasi cantiere dioggi), che procedono apparentementelenti nel costruire un palazzo ma che,nell’intreccio dei personali drammi,dei personali approcci culturali e deicomuni guizzi goliardici, camminanoinsieme verso uno scopo di costruzio-ne condiviso. L’assunto da cui partel’atto unico è semplice: il luogo del-l’integrazione per eccellenza oggi è ilmondo del lavoro. E dove, se non nelcontesto di un cantiere, questo lavoro

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ha i connotati della concretezza e del-l’immediata comprensione da parte ditutti, a prescindere dalla formazione edalla preparazione culturale pregressadi ciascuno? La nave del deserto nonpropone risposte esaustive alla que-stione urgente dell’integrazione, cherichiede tempo e approfondimenti bendiversi, ma dà un semplice suggeri-mento: gli uomini cominciano a capir-si quando mettono a confronto i propriusi e costumi, a partire dai più sempli-ci e quotidiani. Lo strumento della rappresentazionescenica, che vede la collaborazione dipersone di lingua e tradizione differen-ti ha una sua valenza oggettiva cheprescinde perfino dai contenuti deltesto. È nella natura stessa del lavoroteatrale la possibilità del mutuo aiuto,della collaborazione e del concorso diciascuno per la riuscita della messa inscena. Il palcoscenico di un teatro,ogni luogo deputato alla rappresenta-zione è un luogo democratico, in untempo “teatralmente” democratico:un’occasione per riscrivere un’esisten-za, un desiderio d’essere che prescinde

dal passato o dalla contingenza. Così,nella finzione scenica, si può uscireallo scoperto, si possono vivere libera-mente situazioni nuove o situazioniantiche, latenti, sopite o immanenti,prepotenti. Altre. Così Antonio puòscegliere di non uccidere, di lasciarparlare la sua vittima, di scoprirequanto la storia di entrambi si assomi-gli. E nello stesso tempo somigli aquella di Mohamed. E forse somigliaa quella di Adriano, Alessandro,Ihmed, Mohamed, Giovanni, Totò, gliinterpreti che con i personaggi deltesto si sono incontrati/confrontati,hanno convissuto, ai quali personaggihanno dato vita, possibilità, essenza. Il progetto, grazie alla lungimiranzadelle istituzioni coinvolte (la scuola ela direzione del carcere) e ad una retedi contatti e di amicizie, ha assunto unrespiro più ampio: infatti il laboratorioè stato adottato dal Progetto “BENECOMUNE”, progetto del Ministeroper la Solidarietà Sociale gestito dalla“Fraternità delle Opere Santa Caterina

da Siena”. Grazie alla presenza sul ter-ritorio dell’Associazione “Opera d’Ar-te”, di cui la Prof.ssa Caramanna faparte, il Progetto BENE COMUNE hapotuto finanziare la stampa delle copiedell’opera teatrale con allegato il dvddello spettacolo con i commenti deipartecipanti.

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Donata Munafò

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Sarà per domani. L’ho capito dal modo in cui il guardianoha deposto sul pavimento la scodella dell’acqua: senza unosguardo, senza un sospiro, ma con un po’ di pena. La ser-ratura è scattata, ma non così in fretta da impedirmi diascoltare la frase detta tra il ferro delle sbarre: – Addio,Mary – Mary. Che suono impacciato, sulle sue labbra, ilmio nome di un tempo: Mary. Su quelle di Andrea, inve-ce… Andrea, Andrea, bevo piano l’acqua, perché duri dipiù, e mi faccia sentire infinita questa notte, che è l’ultima.E ad ogni sorso ripeto il tuo nome, come facevo un tempo,quando io ero la tua piccola Mary e tu il mio tutto.Esagero? È troppo grande la parola? Ce n’è forse un’altrain grado di spiegare la mia devozione per te? Mi comprasticon un invito e una carezza. Fui tua così, semplicemente.Ricordi? Ore ed ore chiusa in casa ad aspettare te, scattan-do in piedi ad ogni passo sulle scale (“Andrea sei tu?”),addossata alla porta al minimo fruscio sul pianerottolo(“Andrea sei tu?”), bisticciando con le lenzuola ed i cusci-ni, percorrendo milioni di stanze e di corridoi e di batti-cuori (“Andrea sei tu?”), ore lunghe come settimane a ripe-tere il tuo nome, a masticarlo e baciarlo, il tuo nome cheper me era tutto. A quel tempo Alessandra non facevapaura: era un suono che lasciavi cadere dentro al telefonotra mille altri suoni, di cui non capivo l’importanza.C’erano Antonella, Sabrina, Romina, e poi Alain, Antonio,l’Università, il pub “Mi manda Picone” e la chiesa di S.Francesco e la tua mano sulla mia nuca, così tiepida e tene-ra nel gioco del solletico, e la lampada accesa sul tuo pro-filo, a cacciar via le ombre che senza di te mi pesavano sulcuore. Questo, dovrei ricordare. Fermarmi qua e non pro-cedere oltre. Ma la scodella d’acqua va bevuta fino infondo, e con essa il ricordo. Avevamo passeggiato fianco afianco, per tutto Corso Vittorio, sull’asfalto caldo. Le mieimpronte e le tue così vicine da confondere fiati, odori edigressioni; tu insolitamente zitto, io stranamente eccitata.Il tuo mutismo avrebbe dovuto mettermi in allarme; inveceio sentivo crescere in me una gran voglia di giocare. Così,tornati a casa, nella foga di un abbraccio maldestro, urtai lacolonnina che sosteneva il paralume. Chiusi gli occhi sulfracasso della porcellana in frantumi, ma li riaprii sul tuogrido di rabbia: “Maledetta! Cosa hai fatto?”. Il tuo viso siera fatto scuro e avevi negli occhi una luce che non cono-scevo. Indietreggiavo in cerca di un riparo; ma le tue manifurono più svelte e cominciasti a picchiarmi con una vio-lenza inaudita, “Ti ammazzo cagna schifosa! Ti ammaz-zo!” Ansimavi, alzando e abbassando il braccio su di me,

stesa sul pavimento, inerme, che sussultavo ad ogni colpoe continuavo a fremere anche quando non avvertii piùdolore, ma solo il suono dei colpi, a mano aperta, a pugnochiuso, soltanto il suono infame della tua ferocia – ed eranole stesse mani che la sera prima mi avevano scaldata dicarezze. “Vattene via! Ha ragione Alessandra a dire che pernoi sei solo d’impaccio!” Alessandra. Il buio delle palpebreserrate si fece abisso, e sul fondo del baratro si spalancava-no le fauci del mostro, e la fine e il tutto avevano il nomedi Alessandra. Mi uscì di bocca un rivolo di sangue, unosputo rosso su di te, Andrea, e sull’amore e sul nulla a cuimi avevi portata. Mi sollevasti di peso (non ti contrastavo,ti lasciavo fare), e io torcevo il collo in cerca del tuo fiatoe il soffitto ballava sopra la mia testa e i quadri si rincorre-vano lungo le pareti. “Domani Alessandra verrà ad abitarequi: ti caccio via adesso, Mary! Fuori!”. Ti posai l’orecchiosul cuore, mentre scendevi le scale con me in braccio. Tum,tum, tum… è un rumore che tornò a perseguitarmi millenotti, Andrea, ma non questa: perché non esiste amore chenon possa finire. Spalancasti il portone e con una pedata migettasti fuori; caddi sull’asfalto bollente e rotolai pocodiscosto. Il frastuono del portone sbattuto sui miei passirimbombò come un colpo di fucile. Infinite volte segnaicon le unghie la porta, in quel buio di brividi, nella speran-za di un gesto di pietà. Non accadde nulla. Né rimorsi, néresidui dell’antica tenerezza. Solo l’odore del mio sangue ebasta. Si fece giorno; al crescere della luce aumentarono irumori e la città tornò ai doveri di sempre – correva troppoin fretta il tempo, per tutti, ma non per me che ero soprav-vissuta al gelo notturno, alle percosse e all’amore per te:unica medicina, l’attesa di una tua carezza. Si aprì il porto-ne, infine; sollevai gli occhi su di te. Mi scavalcasti senzauna parola. Così. Avrei dovuto vederti per quello che eri:un uomo meschino, violento, egoista, incapace di provarecompassione… avrei dovuto radunare insieme alle forzel’ultimo rimasuglio di dignità e andarmene via subito.Invece rimasi. Rannicchiata sullo scalino, trascorsi tutto ilgiorno ad aspettare te. Per cibo, bocconi di sonno. Era buioquando tornasti. Luce di lampioni alle spalle e Alessandraal tuo fianco. Con una mano portavi la sua valigia e con

Diana

di Mary Campisi - foto di Antonino Vinci

RACC

ONT

O Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

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l’altra le stringevi il gomito. Fu lei a puntare il dito su dime; ma fu tua la mano che scagliò la pietra che mi colpì sulfianco. Quando il mio grido di dolore trafisse la via e quan-do tutta la nausea e la ferocia della terra mi esplosero nelventre, calò finalmente la notte. Compresi che si può amareuna sola volta nella vita, non di più: e una è già uno stupi-do eccesso. Mi diedi a una vita vagabonda e randagia. Unangolo di sole tra le panchine del Giardino Inglese, qualchecarezza e rari complimenti, per pranzo, briciole di carità emorsi di pane rubato. Mi adattai a frugare tra i rifiuti e fuproprio in una di tali umilianti occasioni che incontraiVincenzo. Vestiti logori, barba lunga, capelli bianchi e unpo’ arricciati sulla nuca. “Ehilà, Principessa!” mi apostrofòed io mi irrigidii, indecisa se assecondare la voglia di fug-gire o la curiosità di restare. Mi fidai. Mi lasciai toccaredalla sua mano così ruvida, non paragonabile alla tuamano, Andrea, così lieve. Non so perché mi incamminai alsuo fianco: forse perché i suoi occhi erano quelli di chi nonsogna più. Forse solo per quello. Oppure per l’armonicache ogni sera si levava di tasca, suonando note così dolci.Talvolta mi sfiorava il collare che ancora portavo legato alcollo, ultimo legame che mi teneva unita a te, Andrea. “Quic’è scritto Mary. Ma adesso tu sei Diana, la mia principes-sina. Bisogna cambiare nome, per cambiare vita.” Dicevacosì, lui che di vite aveva cominciato a viverne tante e ditutte si era stufato. Non gli restava più molto tempo percorrere dietro ai progetti e ai miraggi di un impossibilebenessere. “Bisogna camminare piano e prepararsi a starefermi per sempre”. Quello era il pensiero di Vincenzo, cheallora faticavo a comprendere, ma che adesso invece, nel-l’immobilità di questa prigione, capisco benissimo. Il sologesto possibile è bere un po’ d’acqua. Quando la scodellasarà vuota, starò ferma anch’io. Nei giorni di pioggia tro-vavamo riparo in vecchie auto abbandonate. Ridevamo sul-l’odore dei gatti che ci avevano preceduti e inventavamoracconti esaminando le tracce di chi prima di noi aveva cer-cato lì rifugio: lattine di birra, mozziconi di sigaretta, cartedi caramelle, fazzoletti sporchi e qualche fotografia ingial-lita, scivolata da chissà quale portafoglio. “Qui c’è scritto:Ti amerò per sempre. Eternamente tua… Vuoi sapere ancheil nome, Diana?” mi stuzzicava Vincenzo ed io inevitabil-mente rispondevo di no, perché avevo capito che i nomisono cose che si perdono, come le promesse ed i sogni. Edio le avevo perse tutte le promesse fatte da te, Andrea,

(anche se ricordavo la tua frase “le promesse sono come idebiti e pertanto si devono pagare”) di restare per sempreinsieme, e tutti i sogni che ogni sera facevo su di noi, spe-rando in un tuo riavvicinamento. Vincenzo annuiva, soffia-va sul mozzicone e lo accendeva. Io respiravo il suo fumoe mi scaldavo alla sua tenerezza. Ma la brutta tosse che sindal mattino non gli dava tregua, andò via via peggiorando.Era sera; si appoggiò con la schiena a un muro e scivolòlentamente a terra. Mi accoccolai al suo fianco, appoggiaila testa sulla sua giacca rammendata e lui disse: “Vai via,Diana. È tempo che mi fermi come vuole nostro SignoreIddio”. Tremava tutto e io gli baciavo le mani, per infon-dergli coraggio. Ma non c’era modo di far cambiare idea aquel Dio di cui tante volte Vincenzo mi aveva parlato. Morìcosì. Io rimasi accanto a lui, in strada, a vegliarlo. A cerca-re dentro i suoi occhi immobili il segreto nascosto, a spie-gare alla luna che Andrea mi aveva insegnato l’amore masolo con Vincenzo ero stata felice. Era quasi mattina quan-do si accorsero di noi. Lo sollevarono di peso e lo portaro-no via. Li seguii fino al furgone e corsi dietro di loro fino ache mi mancò il fiato e dovetti arrendermi; ma rimasi aguardarlo farsi sempre più piccolo, quel furgone bianco chesi portava via la sola persona che mi avesse voluta bene.Mentre chinavo la testa, per inghiottire l’amarezza deldistacco, arrivò il laccio alla gola. Mi ribellai, mugolando,dibattendomi, terrorizzata da quella morsa che ad ogni sus-sulto si faceva più feroce. Compresi che era venuto ancheper me il tempo di stare ferma e mi arresi. Ripensai, perl’ultima volta a te Andrea, e ricordai che una volta ero solotua. E tu eri il mio tutto. Chissà adesso chi ti starà ricam-biando il mio affetto incondizionato e gratuito. ForseAlessandra? Non importa. Non c’è più niente di importan-te, in questo momento. È la fine. Adesso sono dietro lesbarre di una piccola cella, con una sola scodella d’acqua.Domani, dopo l’iniezione letale che mi faranno, sarà tuttofinito. La notte passa in fretta e le prime luci dell’albainfrangono i miei occhi ancora aperti su quella scodella.Gridano, li sento. Adesso toccherà a me. I passi si fanno piùvicini. Si fermano. Scatta la serratura. Guardo quell’uomoin camice bianco che viene verso di me, per prendermi conil guinzaglio. “Ti seguirò ovunque tu voglia condurmi,senza fare storie. Ma non chiamarmi Mary. Io non hopadroni. Io sono Diana, una principessa..!”

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Certo è audace. Scegliere tra le crea-ture più indifese e alla mercè di tutti,scegliere una cagnetta, per tratteggia-re i contorni di un amore umano eincondizionato. Incondizionato, au-tentico, assoluto… un’ambizionetroppo grande, ma l’unica per la qualevalga la pena di vivere e forse anchesoffrire/accettare una sconfitta. Questo breve racconto ha entrambe lefacce dell’esistenza. Lo slancio e ilbaratro, la pienezza e il vuoto. Mentreil sogno si fa, giorno dopo giorno,certezza di gioia imperitura, altrove,nascosto, si aggira il male pronto atenderti un agguato e a precipitartinella solitudine. È un racconto semplice, lirico e a trat-ti svenevole, con punte di accesa egratuita crudeltà, ma per niente scon-tato. E ha il carattere di un’istantanea,il ritmo di un racconto in presa diret-ta, l’intima e lucida registrazione diun evento sul farsi. Non so se Mary avesse pensato a untitolo in particolare. A me l’ha inviatocosì Diana.racconto.mary, il sempli-ce nome di un file. Sapevo di conservare ancora qualcosadi suo… che però non avevo mai letto(ancora una volta inascoltata). E pen-savo che fossero molti più racconti.Non mi rimane che questo.“Bisogna camminare piano e prepa-rarsi a stare fermi per sempre”. Nonc’è da stupirsi se è stata questa frase acalamitare la mia attenzione, a immo-bilizzarmi per qualche istante, più diogni altra frase, ogni altra immaginedel racconto. Credo di non aver maisentito in bocca a Mary una frase delgenere. Eppure deve esserci (sempre)stata questa tacita e segreta convin-zione, questo motto nascosto, dietroall’immagine di bimba viziata e ca-pricciosa che spesso amava dare di sé.

Era una realtà più profonda e pertantopiù nascosta! Camminare piano,certo, ma camminare sempre… e pre-pararsi all’immobilità, quando “ilsolo gesto possibile è bere un po’d’acqua” da una scodella che, unavolta vuota, segnerà la fine. Ecco Mary è tutta qui! E sconvolgevedere le troppe similitudini con lasua vita reale. Certo è ancora umidodi lacrime l’occhio che legge questoracconto e che trova Mary a ognipasso, ogni riga, ogni parola, ancorprima di cercarla. Ma come nonvederla in questo anelito caparbioall’amore “per sempre” e persino nelrifiuto del suo nome: non Mary, nonuna cagnetta qualunque, ma Diana,una principessa, come l’ha ribattezza-ta l’uomo della strada che le ha ancheinsegnato… a fermarsi, per sempre!Mi sono chiesto da dove nasca il pen-siero dell’immobilità, questa fatalepresa di coscienza che in fondoriguarda tutti? Certo è facile pensarealla sua vita, alla dispensatrice diamarezze. Ma non credo che sia lasorgente di tutto. Credo che scorra unaltro fiume, un fiume sotterraneo, conun’altra sorgente e un altro percorso.La Mary che conosco io è delusa,attacca, giudica, processa… e chiedeconto a Dio della sua malattia, dellasofferenza che l’affligge! La cagnettaMary, si prostra, spera fino alla fineche il suo padrone si ricreda, spera,attende, si allontana solo di fronteall’evidenza inalienabile, ma ricomin-cia subito dopo a seguire... un’altrastrada. Un racconto, questo, che non sapreiben dire se è nella speranza dellagioia che si radica o se è il frutto dellasofferenza e della disillusione.Propenderei per la prima opzione. Enon per dipingere una Mary paladina

della speranza, no. La cifra è e rimanela solitudine, l’eco di te che ti accom-pagna finché si spegne… Spesso rag-giunge anche gli altri, che spessorimangono indifferenti, ma proprionella solitudine (quella della malattia)la speranza può delle volte rimbom-bare nella tua testa come un istintoindomabile alla gioia (anche se la vitalo smentisce ad ogni istante); puoipercepirla come una sete e trasfor-marla nella ricerca continua di unasorgente dove poterti dissetare: lascrittura.

Ecco, narrare, appunto… doppiare lapropria esistenza, fingerne mille altre,camuffare o meno l’immagine distor-ta della propria quotidianità, per pro-vare a gettare lo sguardo oltre l’ango-scia, l’angoscia della rinuncia allepiccole cose della vita, l’angoscia del-l’immobilità… e provare ad andare dilà, senza paura.

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Camminare piano,ma camminare sempredi Pietro Scarpulla

RIFL

ESSI

ONE Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

Mary Campisi, improvvisamente scomparsanell’agosto scorso.

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La nostra rubrica ospita, in questo numero, un brano del Viaggio in Sicilia e nella Magna Grecia dell’archeologo prus-siano Johann Hermann von Riedesel, barone di Heisenbach. L’opera dei Riedesel, pubblicata anonima per la prima voltaa Zurigo nel 1771 col titolo Reise durch Sicilien und Grossgriecheland e due anni dopo a Losanna tradotta in francese coltitolo Voyage en Sicile et dans la Grande Gréce, è l’archetipo dei libri odeporici dedicati al Bel Paese dagli scrittori euro-pei che diedero vita a quello che viene definito il Grand Tour. Basta pensare che il Viaggio in Sicilia di Riedesel fu il bre-viario turistico di Goethe durante il viaggio che questi fece in Sicilia. La prima edizione italiana del libro si ebbe aPalermo nel 1821 col titolo abbreviato di Viaggio in Sicilia.Riedesel, nel suo viaggio europeo di istruzione, venne anche a Roma, dove conobbe, divenendone amico e seguace, JohannJoachim Winckelmann. Con costui fece un’ascensione al Vesuvio e avrebbe desiderato fare il viaggio in Sicilia e nellaMagna Grecia che poi nel 1767 realizzò da solo fra il 13 marzo e l’8 giugno.All’amico Winckelmann il libro è dedicato sotto forma di due lettere aperte. In esse l’autore racconta con dovizia di par-ticolari, talora fino alla meticolosità, l’esperienza di un viaggio che ebbe inizio quando egli da Napoli passò a Palermo,da dove poi, viaggiando lungo la parte meridionale dell’isola, si portò ad Agrigento, per fare da lì una puntata a Maltadal 13 al 24 aprile, allorché alle 4 del pomeriggio approdò a Capo Passero. Da qui si spostò per terra in direzione diSiracusa, fermandosi ad Avola, che nel libro definisce cittadina ben costruita... così regolare nel suo piccolo come Torinolo è in grande. Dal resoconto del viaggio sembra che Riedesel si sia fermato ad Avola il 24 notte e tutta la giornata e la notte del 25 apri-le, per ripartirne nella mattina del 26. Nel trattare di Avola, egli si sofferma anche ad annotare alcune osservazioni sullalocale produzione della canna da zucchero, come si legge nel passo che qui di seguito offriamo all’attenzione dei nostrilettori.

Johann Hermann von RiedeselViaggio in Sicilia

Da Marzamemi mi spostai per 8 migliaverso l’interno, per vedere il paesaggioattorno ad Avola, una cittadina molto bencostruita, che, per le sue coltivazioni dizucchero e le sue raffinerie, si rende degnadi una sosta. La cittadina è situata in unacollina piuttosto alta ma amena ed è cosìregolare nel suo piccolo come Torino lo èin grande. Tanto tempo fa, prima che gliolandesi facessero coltivare lo zucchero ailoro schiavi, vendendolo, naturalmente, aprezzi molto più convenienti, qui, a Melillie in altri paesi della costa, si producevatanto zucchero da soddisfare il fabbisognodi tutta l’isola. Anche se lo zucchero impor-tato deve pagare un dazio di un’onza suogni cantaro, che equivale a trenta carlininapoletani, gli olandesi riescono a venderelo zucchero dell’India Occidentale a menodi quanto gli abitanti siano in grado di offrirlo: poiché illavoro manuale richiesto per la preparazione dello zucche-ro è molto pesante, deve essere pagato caro, mentre agli

olandesi non costa nulla. La canna da zuc-chero cresce come una normale canna manon diventa così alta. Questa viene tagliatanel mese di settembre e viene macinata inun mulino. La canna viene messa, poi, indiversi contenitori e il succo viene cotto edepurato a diverse temperature finchédiventa duro e poi viene messo nelle forme.Ci si può render conto che lo zucchero sici-liano è più dolce di tutti gli altri tipi, manon può essere reso completamente bianco.Dubito che gli antichi conoscessero l’usodello zucchero perché nessuno degli autorida me conosciuto ne ha mai fatto parola,sebbene le “canne ebosie”, che i sicilianichiamano “cannemiele”, non siano altroche canne da zucchero di presumibile pro-venienza greca […] Mi fermai a Melilli pervedere le locali piantagioni di zucchero che

sono tanto estese quanto quelle di Avola. Qui, però, lo zuc-chero non viene raffinato e gli abitanti preferiscono vende-re la canna a pezzi.

Spigolature letterarie

a cura di Sebastiano Burgaretta

LETT

ERAT

URAAvolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

A.R. Mengs: probabile ritratto diJohann Hermann von Riedesel

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Consultando il dizionario “Lo Zinga-relli”, la voce ipocrisia risulta cosìdefinita: “Simulazione di buoni senti-menti e intenzioni lodevoli allo scopodi ingannare qualcuno”. Più ampia èla definizione che si legge nel dizio-nario Devoto-Oli: Simulazione estesaspecialmente nell’ambito dell’atteg-giamento morale o dei rapporti socia-li e affettivi”.Nella suddetta cornice, intorno aivocaboli privilegiati, di volta in voltapoggeranno le mie riflessioni e leimmagini tratte dal reale.

Forse nel linguaggio corrente, neisoliloqui e nella comunicazione pro-fessionale o amicale, in privato o inpubblico, il termine obiettività è il piùabusato. Ovviamente vanno semprefatte salve le differenziazioni tra gliinnumerevoli aspetti attraverso i qualiesso si rivela, tra persona e persona,tra luogo e luogo; ciò, tuttavia, nonimpedisce che chiunque, con penuriao abbondanza di argomenti, non uti-lizzi il termine per propalare la pro-pria verità, per porsi al di sopra dellesituazioni, per gabbare. Il cuore delvocabolo in esame è l’imparzialità.Cioè: colui che si definisce obiettivovuole fare passare il suo dire, la suaposizione, il suo racconto come sce-vro di ogni condizionamento, libero,attendibile; e si aspetta che la suaobiettività venga accolta e lodatadagli uditori/interlocutori conquistan-do, così, credibilità, prestigio, consen-so. Va da sé che la verace obiettivitànon può non portare alle gratificazio-ni testé citate; le difficoltà nasconoquando occorre riconoscere la soste-nibilità/veridicità delle argomentazio-ni presentate. Entrano in gioco, allora,diverse discriminanti: l’archetipo delcomunicatore, la sua fama, le sue

esperienze precedenti, la conoscenzadei fatti in discussione, il coinvolgi-mento diretto, eventuali altre versionisullo stesso argomento, la categoriasocio-culturale a cui appartiene il par-lante, etc... Chiaramente il tasso diaffidabilità e attendibilità che si rico-nosce alle persone e ai fatti noti giocaun ruolo determinante nell’accettarecome obiettivo il messaggio ricevuto.Ad esempio: vi sono eventi che, purriportati da più persone, rivelano unasostanziale, se non totale, convergen-za delle versioni anche se la formula-zione varia; non si verifica la medesi-ma cosa qualora il messaggio provie-ne da persone appartenenti a categorieo classi o età diverse. Acclarato chenon bisogna mai assolutizzare (“Ogniestremismo – annota la filosofia dellavita - è sempre una menzogna sia perchi lo pratica che per chi lo subisce”),la quotidianità insegna a mettere inatto, in ogni circostanza ed evenienza,accortezza e sensibilità; non è pessi-mismo, quindi, né sciovinismo socia-le partire dal presupposto che l’obiet-tività assoluta non esiste; c’è sempre,nella catena, un anello che vuole esse-re aggiunto, eliminato o lubrificato,un’appendice che va rivelata, unasospensione del giudizio in attesa diulteriore verifica.Così procedendo, eccepisce l’uomocomune, sembra dovere credere inniente e a nessuno, colorando così lasocietà, la convivenza, la relaziona-lità, la razionalità, la fiducia, la convi-vialità, la stima, la verità, la gioia, ildolore, la fede, la cultura, in una paro-la: la vita, di insipienza, apparenza efantasmi. Andiamoci piano con lecatastrofi; qui intendo solo sottolinea-re che il valore attribuibile all’obietti-vità, anche nei rapporti di coppia, èfrutto di esperienze felici ripetute, di

verifiche logiche e procedurali, dicoerenza con le azioni e i discorsi pre-cedenti, di traguardi prospettati e rag-giunti, di istinto e intuito. Numerosisono gli esempi di persone che, pur diraggiungere traguardi personali o disoddisfare ambizioni varie, afferma-no, promettono, sostengono ipocrita-mente verità inesistenti, progressiimpensabili, vantaggi inconseguibili,percorsi fantasiosi, soluzione facile diproblemi complessi. Bisogna ancherilevare che, all’interno della coppia odel nucleo familiare o del ristrettogruppo di amici, l’obiettività è (quasi)di casa; non è infatti ipotizzabile, senon in casi patologici, che in taliambiti si abbindoli, si prenda in giro oanche si menta per, volontariamente,procurare del male. Però... però... Chinon ha sentito dire (o anche speri-mentato almeno una volta) del mari-to/moglie che “obiettivamente” negaal compagno/compagna l’esistenza diun’avventura extraconiugale? O nonha vissuto momenti ipocriti (cioè falsio falsificabili) coi figli, coi parenti ocon gli amici? O non ha cercato ipo-critamente di gabellare il vero colverosimile? O non ha tentato di impa-dronirsi di qualcosa non sua? Ocomunque di avere simulato trince-randosi dietro l’obiettività? Se quantovado scrivendo sul campo familiare-amicale trova riscontro in buona partedei lettori, allora rimane evidente che

L’obiettività

di Carmine Tedesco

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l’obiettività è una diffusissima formadi ipocrisia (forse non dannosa, forseusata a fin di bene, forse...), cioè unabuso, un’insidia, un inganno.Spostando la questione all’ambitopubblico allargato, l’ipocrisia diventaprassi, consuetudine, eccesso. Fino adarrivare, nei settori finanziario/econo-mico, giuridico e politico, ad esserecostume e/o sistema.Presentato così, il problema è dram-matico. I rappresentanti di dette cate-gorie non hanno credibilità alcuna?Giocano con i bisogni e i sentimentialtrui? Restano insensibili dinanzi allesofferenze/traumi da essi innescati?Pensano solo ai propri interessi? Sonoegoisti o sordi? Se, nell’attuale mo-mento, consultassimo la gente comu-ne, tutti (o quasi) gli interrogativi pro-posti troverebbero accoglienza, giac-ché diffusa e ripetuta appare l’ipocri-sia delle categorie citate nei rapporticol pubblico, grosso o piccolo che sia;e poco credito raccoglie la sostenutaobiettività con cui gli interessati con-discono le loro azioni e i loro discor-si, i loro sorrisi e i loro rifiuti, le loropromesse e le loro rassicurazioni.Forse anche io, come cittadino osser-vatore, non mi discosterei tanto dallesensazioni percepite dalla maggioran-za. La filosofia della vita, però, richia-ma prepotentemente ad alcune alter-native: occorre discernere tra finzionevoluta e innocente, ripetuta e occasio-nale, ordinata e forzata. Nel difficilelavoro della distinzione aiutano moltola lettura plurale di testi e quotidiani,le indagini conoscitive e i sondaggi diopinione, i dibattiti massmediali, ilconsenso popolare dei singoli sogget-ti, i consumi e le scelte degli erogato-ri di servizi privati e pubblici da partedegli utenti, i messaggi propagandi-stici da un lato e l’età dei cittadini dal-l’altro, la guida saggia ed esperta difamiglia e scuola.Tutto questo ha un’influenza incalco-labile sulla crescita e maturazione delpensiero e della coscienza delle gio-vani e meno giovani generazioni. Vada sé, pertanto, che bisogna insegnareloro che la vita è un percorso faticosoe ambiguo ma pure che l’ambiguità

può essere conosciuta e superata, chetutti siamo portati ad errare ma ancheche è importante sapere riconoscere eaccettare l’errore commesso propo-nendosi convintamente di non piùcadervi, che bisogna sempre partiredimostrando fiducia nei riguardi dellepersone – sconosciute incluse – macon atteggiamento prudente e reatti-vo, che quanto viene dagli altri vasempre rispettato anche se non lo sicondivide, ma nello stesso tempo va

presentata e sostenuta senza infingi-menti la propria posizione pretenden-do pari rispetto dal/dagli interlocuto-re/i chiunque esso/i sia/siano, che afondamento del “sentire” nostro ealtrui, dell’agire nostro e altrui, dellasociabilità nostra e altrui va messal’obiettività pura, leale, convincentesenza, però, giammai scordare chel’obiettività non è una certezza mauna speranza.

Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

NEGATO IL DIRITTO ALLA SALUTE

ZONA SUD DELLA PROVINCIA DI SIRACUSA

Il piano di contenimento e di riqualificazione del sistema sanitario regionale 2007/2009 penalizza

ulteriormente la situazione dell’Ospedale Avola-Noto, già di per sé precaria, dato che dispone il“congelamento” dei nuovi reparti istituiti in base al protocollo d’intesa sottoscritto nel settembre 2002e confermato nell’atto aziendale aggiunto nel luglio 2005.

TALE DECISIONE È INACCETTABILE!

Essa priva, infatti, la derelitta zona sud della provincia di servizi essenziali quali:

LA CARDIOLOGIA UTIC ( LE MALATTIE CARDIOVASCOLARI SONO LE PIÙ E LA PRIMA CAUSA DI MORTE);

LA RIANIMAZIONE;

L’ONCOLOGIA MEDICA;

LA NEFROLOGIA EMODIALISI;

LA CHIRURGIA ONCOLOGICA;

L’UROLOGIA

Tutto ciò appare tanto più assurdo ove si abbia presente che, per l’attuazione di tali reparti, sono giàstati spesi circa 10 milioni di euro per l’adeguamento strutturale dei locali e l’acquisto di attrezzature.

…non è tollerabile mantenere un’alta percentuale di posti letto nelle

CASE DI CURA PRIVATE, senza aver prima soddisfatto le esigenze che

la SANITÀ PUBBLICA della Zona Sud della Provincia

da lungo tempo rivendica!

DIFENDIAMO CON FORZA IL DIRITTO ALLA SALUTE

DI NOI TUTTI RESIDENTI NEI COMUNI DI

AVOLA- NOTO- PACHINO- ROSOLINI- PORTOPALO

È ARRIVATO IL MOMENTO DI MUOVERCI TUTTI INSIEME

…GIÙ LE MANI DAL NOSTRO OSPEDALE…

Sollecitiamo tutte le Istituzioni civili ed ecclesiastiche, le forze sociali, culturali, politiche e

sindacali ad adoperarsi per garantire il fondamentale diritto alla salute dei cittadini

AAss. Acquanuvena Cir co lo Arci –– Avol a

AAss. Gl i Avol es i n e l Mondo Comi tato Ri ta Bo rse l l i no

AAss. Famigl ie I tal i ane – AAFI Avola Consi gl io Pas toral e di Avol a

AAss. Supe r-AAbil i Consul ta Comunale Femmini l e di Avola

AAss. Turis t i co Cul tu ral e Avola Antic a CConsul ta Comunale p er l e Po l i t i c he Gio vani l i di Avol a

A.V.O. –– sez. di Avola FFede razione Verdi – ssez.d i Avola

Soc i e tà de l l ’Al l e g ria

““Una soc ie tà che inve s te ne l se t to re sanit ar io e lo fa seri amente , cu rando al

mass iimo la qual i tà de i se rvi z i e la competenza ne i la vor i , è una so c ie t à che op ta

per l ’autent i c a c i vi l t à , pe r l ’aut ent i co benesse re , ma i ri co nduci bi l e al sempl i c e

ppers eguimento de l p ro f i t to mate ri al e” Giovanni Paolo II

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Il 9 febbraio scorso improvvisamen-te ha lasciato la vita terrena, nell’a-more del suo Dio, che non gli haconcesso ancora una settimana,affinché potesse godere e gioire perla sua ultima fatica che aveva appe-na terminato di realizzare. Avevaancora tanta passione e tanta vogliadi dare alla sua città, Paolo Florio,scomparso alla vigilia della festa dicarnevale. Fotografo professionista,cineasta già all’età di 20 anni, pitto-re, scout, autore di libri e di mostrefotografiche. Insomma un poliedricoartista, pioniere della produzionecinematografica “fai da te” in “Super8”, e regista di opere teatrali di suc-cesso anche se a livello locale. Tra lemaestranze locali, che oggi conti-nuano nella passione della costruzio-ne dei carri di carnevale, PaoloFlorio è rimasto per tanti il “mae-stro” della cartapesta. Risale al 1961,con la realizzazione in coppia conFrancesco Tiralongo, l’inizio della“carriera” di artigiano-carrista diPaolo Florio, del carro allegorico“La beffa della luna”. Una passioneche è durata oltre 45 anni, fino all’e-dizione 2007 con il carro “I farfallo-

ni”, assemblato, dopo la sua morte,dal figlio Maurizio. Carro che haconquistato il secondo posto ex-equo. Pur minato da una fastidiosamalattia, negli ultimi anni Florio nonha voluto mai rinunciare a partecipa-re alla festa del carnevale. Dicevaperò che era stanco nel sentire lesolite polemiche tra i carristi. Dal1961 al 2007 Paolo Florio di primipiazzamenti ne ha conquistati bennove, con la prima vittoria ex-equorisalente all’edizione del ‘73. Opereallegoriche, quelle di Florio, allequali ha voluto sempre dare un’im-pronta personale, puntando, nell’ul-timo decennio, alle problematichesociali e umanitarie, come la salva-guardia della natura e l’argomento,a lui caro, della pace nel mondo, maanche l’allegria come filosofia divita. La vita artistica di Paolo Florionon è stata costituita solo dalla crea-zione di carri, perché la prima suagrande passione è stata il cinema.Mentre frequentava l’Istituto Stataled’Arte di Siracusa, dove si diplomònel ’66, nacque in lui la passionecinematografica. Nel ’64 con il suoprimo film a “passo ridotto”, dal tito-

lo “I disertori”, come regista vinse ilprimo premio alla rassegna cinema-tografica amatoriale di Siracusa “Ar-chimede Film”. Continuando nel-l’impegno di regista, Florio realizzònegli anni a seguire altri film amato-riali, che parteciparono a rassegnenazionali: “Hanno rubato una cro-ce”, nel ’65, “Marcellino pane eacqua” e “L’avventura di Piero”, en-trambi del ’66. In ultimo trasformòin film la commedia dialettale diNino Martoglio, “L’Aria del Conti-nente”, presentata in teatro con unsuccesso strepitoso. Nei lavori tea-trali presentati dalla “CompagniaPaolo Florio”, furono coinvolti tantigiovani attori avolesi in erba comeSebastiano (Ianu) Di Rosa, Seba-

La vita artisticadi Paolo Floriodi Antonio Dell’Albani - foto e materiale illustrativo archivio Florio

PERS

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GIO Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

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Alle spalle di Paolo Florio una scena dell’o-pera teatrale Quo vadis

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stiano Caldarella, Corrado Calvo,Salvatore Zagarella, Carmela Bian-ca, Salvatore e Santo Di Gregorio,Ines Scibilia, Giovanna Oddo e GinoPortuesi. La sua attività di registateatrale, iniziata nel ’67 con la rap-presentazione di “Quo Vadis?”, nonè da meno rispetto a quella cinema-tografica. Infatti egli riesce a mette-re in scena numerose commedie,coinvolgendo anche moglie e figli.Messi da parte teatro e cinematogra-fia, alla fine degli anni ‘70, PaoloFlorio fa prevalere il suo lavoroprofessionale di fotografo il cui stu-

dio di piazza Teatro è meta e puntodi ritrovo di molti appassionati foto-grafi. Per carnevale alle sfilate nonmancano le sue opere, e Florio trovaogni anno vena e gusto nell’agoni-smo. È un vulcano di idee e iniziati-ve, e riesce a coniugare professionee ricerca storica. Dopo anni di lavo-ro manda in stampa nel 2002 la rie-dizione aggiornata di un altro librouscito diversi anni prima, il volume“Avola, immagini di ieri”, un vero eproprio foto-viaggio d’epoca sullanostra città, con foto rare e antiche.Un altro libro fotografico Paolo

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CARNEVALE AVOLESEALBO D’ORO

Carri allegorici primi classificatidal 1961 al 2007

1961 IL GALLO (Sebastiano Caldarella)1962 A MASSARA (Giuseppe Basile)1963 BIANCANEVE E I SETTE NANI 1964 RITA PAVOLE

(Giuseppe Basile e Nicola Laudicino)1965 I CAMALEONTI (Sebastiano Caldarella)1966 IL RITORNO DEL CROCIATO

(S. Trovato – R. Iacono – S. Di Pietro)1967 IL GIRASOLE (Giuseppe Campisi)1968 L’ARAGOSTA (Giuseppe Consiglio)1969 CARNEVALE SULLA LUNA

(Giuseppe Consiglio)1970 LA POSTA A PASSO DI TARTARUGA

(Emanuele Lo Giudice)ex equo LA LUNGA SETE(Giuseppe Consiglio)

1971 CENTRO SAURO (Giuseppe Consiglio)1972 FOLKLORE AVOLESE(Emanuele Lo Giudice)1973 OMAGGIO A PINOCCHIO (Paolo Florio)

ex equo CANZONISSIMA ’73(Giuseppe Consiglio)

1974 LE VIE DEL PETROLIO(Emanuele Lo Giudice),

ex equo PENSIAMO AL FUTURO(Giuseppe Consiglio)

1975 INFERNO ITALIANO (Salvatore Vaccarella)1976 L’ ITALIA DEL XX SECOLO

(Emanuele Lo Iacono)1977 L’ITALIA NAVIGA IN ALTO MARE

(Salvatore Maiolino),ex equo L’ITALIA DI OGGI (Salvatore Vaccarella)1978 VIA COL ..VENTO (Paolo Florio)1979 RITORNA CARNEVALE (Paolo Florio)1980 ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

(Paolo Florio)1981 ANTICO CARNEVALE (Paolo Florio)1982 CARNEVALE AL CIRCO (Paolo Florio)1983 ARRIVA GULLIVER (Paolo Florio)1984 I DIECI RACCOMANDAMENTI

(Giuseppe Consiglio)1985 GIUOCHI DI POTERE (Giuseppe Consiglio)1986 MEXICO ’86 (Giuseppe Consiglio)1987 COME UNA FAVOLA (Paolo Florio)1988 CONFETTI E BOMBONIERE

(Giuseppe Consiglio)1989 LA NATURA SI RIBELLA (Paolo Florio)1990 C’ERA UNA VOLTA IL MARE

(S. Vaccarella – S. Stampigi – C. Bombaci)1992 BUON GOVERNO

(Alfonso Schillaci e Sebastiano Piccione)1994 20.000 LEGHE SOTTO I MARI

(Giuseppe Consiglio)1995 FIN CHE LA BARCA VA

(Sebastiano Piccione)1996 CARRO DEL CUORE (Sebastiano Piccione),ex equo DIOGENE (Giuseppe Consiglio)1997 CU’ CHISTA VI’ RASSI

(Paolo e Antonio Esposito)1998 A SCHIFIU FINIU (Paolo e Antonio Esposito)1999 IL PAESE DEI POLLI

(Salvatore Vaccarella – Corrado Bombaci)2000 L’ALTRO POTERE (Carmelo Pappalardo)2001 PROGNOSI RISERVATA

(Antonio e Paolo Esposito)2002 IL CLOWN (Salvatore Vaccarella)2003 TEMPU PERSU

(Antonio Esposito e Giovanni Tedesco)2004 MITTITIVI A MASCHIRA (Antonio Esposito)2005 GUARDAMI (Antonio e Paolo Esposito)2006 STUIATIVI U MUSSU

(Antonio e Paolo Esposito)2007 ATTO DI FORZA (Antonio e Paolo Esposito)

Il primo carro allegorico del 1961 La beffa della Luna

L’ultimo carro realizzato per il Carnevale 2007 I farfalloni

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Florio lo aveva realizzato nel 1989,sulla storia del carnevale dal 1961 al1988 (“Il Carnevale di Avola”).Prima della scomparsa Paolo Floriostava ormai completando, dopo annidi ricerche, la realizzazione del suonuovo libro sul carnevale avolese,questa volta dedicato tutto ai carriinfiorati e ai suoi autori.

È il caso di ricordare, in questasede, la grande e costante genero-sità di Paolo Florio nel collaborarecon l’Associazione “Gli Avolesi nelMondo” e con la nostra rivista, for-nendo foto d’epoca e consulenzavaria. A lui si deve, fra l’altro, larealizzazione del Calendario socialedell’anno 2000.

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Avola (SR) - Via Venezia, 35 - Tel. 0931 821208

La tradizione della pasticceria artigianale

Attori dilettanti sul set del film L’aria del Continente (1976)Rappresentazione teatrale de L’aria del Continente

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Tempo fa mi trovavo in un negozio digiocattoli. Insieme ad un’amica parlava-mo degli attuali giochi didattici e pro-grammati. “Danno poco adito alla fanta-sia e vengono a noia ben presto. Ah! Lenostre belle vecchie bambole. — Si ram-maricava la mia amica – Ti ricordi lapoesia? “Venirmi a noia la bambolamia? Scusa, mamma, è uno sbaglio trop-po grosso!” Sarebbe come aver dettoalla figlioletta: “Mi sei venuta a noia!”Un frugoletto alto una spanna ci osser-vava coi suoi begli occhi vivaci. Ad untratto chiese: “Come giocavate?” “Contutto ciò che ci veniva a portata di mano.I bimbi più ricchi possedevano un caval-lino di cartapesta che poggiava su unabase di legno e quattro ruote. Le bambi-ne avevano una bambola che chiamava“Mamma”. Una risposta non tanto esau-riente. Le famiglie appartenenti allamedia borghesia regalavano alle bambi-ne un cucinino di latta corredato di pen-toline, per preparare il pranzo alle bam-boline, ed una piccola bilancia con pesidi rame. C’era poi chi possedeva uncavallo a dondolo (o un cane) di carta-pesta che a poco a poco diventava unvero cavallo di Troia: nascondeva all’in-terno tutto ciò di cui il fanciullo deside-rava rimanere l’esclusivo proprietario.Non mancava, nelle case signorili, labambola “francese” di porcellana dagliarti snodati, vestita di organdis e “con-dannata” a rimanere seduta sul divano osul letto. C’erano pure bambolotti lencicon un’enorme testa di compensato,sfoggianti un sorriso da Gioconda esdraiati in una carrozzina. A volerciriflettere, giochi e passatempi variavanocon l’avvicendarsi delle stagioni, anzidei mesi dell’anno. (È arduo inoltrarsi inquest’argomento). Durante l’invernobastava un fazzolettino ripiegato in quat-tro e arrotolato. Girando indietro gli ulti-mi due centimetri se ne ricavava unabambola-monachella. Se poi il fazzolet-to era un po’ vecchiotto, vi si potevanosegnare – col pennino intinto nell’in-

chiostro nero, blu, verde o rosso – gliocchi, il naso e la bocca. Legando unnastrino sotto l’ipotetico mento e, dise-gnando un collettino, la bimba era pron-ta per andare all’asilo oppure a scuola.Gioco preferito dai ragazzi era improv-visarsi guerrieri. Cavalcando una cannae brandendo il classico ciuscialoru, ouna piccola scopa di saggina, i cavalieridella tavola “rettangolare” giravanoattorno al buffittinu, cercando di sorpas-sarsi per vincere la gara. A volte – quan-do la canna permetteva, essendo statadivelta a bella-posta col nodo che siforma vicino alla radice – la “testa” delcavallino immaginario veniva adornatada piccoli bubboli tintinnanti e infioc-chettati da strisce di vecchie stoffe mul-ticolori. “La cena è pronta”. La vocedella nonna o della mamma richiamavaalla realtà. I nonni, tirando un sospiro disollievo, davano l’ultima boccata allapipa o al sigaro oppure si affrettavano aconcludere il “solitario”, la briscola o la“bella donna”. (I signori possedevanopipe con coperchio e bocchino d’argen-to o abbellite da testa di moro o di mara-

na in creta rossa). Gli adolescenti sicimentavano nel gioco del ferru cauru.Ponendo le mani l’una sull’altra, si cer-cava di far passare sopra, più veloce-mente possibile, la mano che stava sottole altre. Durante le belle giornate i ragaz-zi/e si sedevano sul marciapiede e gioca-vano a Peppi Ntoni. Il capofila, rima-nendo alzato, passava in rassegna i piedidei suoi compagni con una piccola bac-chetta, cantilenando: Peppi Ntoni e Bivi-lancia/ la scarpetta mi porta in Francia/A chi mi s’è/ a mezzu a me?/ A menzu ‘atavula/ evviva lu re/ Lu re è a cavallu;/Peppi Ntoni, evviva lu gallu/ Lu gallu ela gallina;/ Peppi Ntoni, evviva a rigi-na./ Gallu e gallina/ Palermo e Missina.L’ultimo toccato ritirava il piede. Si pro-seguiva finché, rimasto un solo piede,veniva chiesto al ragazzo: Chi voi, celuo terra? Il capofila, quindi, concludevail gioco, toccando alternativamente ilpiede e il marciapiede (o alzando la bac-chetta). Se all’ultima parola non venivatoccato il piede, il suo proprietario face-va la penitenza, saltellando per un deter-minato numero di volte imposto daicompagni di gioco. Se veniva toccato ilpiede, il suo proprietario prendeva ilposto del capofila. Venivano pure orga-nizzate gare col lancio della trottola ocol monopattino formato da due tavole,da una più piccola per il manubrio e dadue piccole ruote di ferro. Col soprag-giungere della primavera i giochi au-mentavano. Primo fra tutti, la gara con lacometa o aquilone. Molto comune erasaltare la corda, facendola roteare attor-no al saltatore. I concorrenti, spesso, sidisponevano in gruppi di tre. (Dalle partidei peri r’alberi (allora in Via Marsalac’erano alberi) si sceglieva Vico Rizza(l’attuale Via Gaeta) perché non avevasbocco nella zona dei Cappuccini.Quindi il gioco durava più a lungo,potendo percorrere il vico in salita e indiscesa. Altro gioco: lo stesso, in lungo.Due ragazzi di identica statura tenevanoi capi della corda, avendo cura di non

Giochi, passatempi e filastrocched’altri tempi

di Giuseppina Piccione - foto archivio Munafò

Il cavallino a dondolo

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renderla troppo tesa e la facevano girareintorno al saltatore (potevano essereanche due). Ognuno sceglieva il nome diun albero. Se man mano sopraggiunge-vano altri partecipanti, venivano aggiun-ti altri nomi. S’iniziava da “arancio,pero, limone” si continuava con “man-darino, castagno, carrubo, pomo, pesco,ciliegio, albicocco, mandorlo, mirtillo,sciorba (sorbo), piraniu (pero selvati-co), ‘nzalora (azzeruolo) e favaragghiu(chiamato nelle zone di PalazzoloAcreide “mille cucchi” perché tuttequelle minute drupe gialle sembranopiccoli occhi di gufo). Le fanciulle pre-ferivano il gioco: cu vo passari all’ac-qua. Si disponevano in fila davanti a dueragazze. Costoro, tenendosi per mano emantenendo le braccia tese formavanocome un ponte sotto il quale passavanole ragazze. Cantinelavano la seguentefilastrocca: Cu vo passari all’acqua,/passassi liberamente./ Gioca di qua,gioca di là,/ la più bella resterà. Le dueragazze lievemente alzando le bracciadestre e le sinistre “imprigionavano” laprescelta. Le chiedevano:- chi voi, rosao gelsomino, oppure gigliu o jarofulu?La ragazza, scegliendo, si sistemava die-tro una delle due (le quali avevanosegretamente stabilito qual era il fiorepiù profumato). Alla fine le due ragazzecantilenavano, scandendo il ritmo con lemani : chi tanfu di ‘nfernu, chi ciauru ripararisu. Era quasi impossibile barare algioco. Se una delle ragazze avesse indi-cato alle compagne preferite il fiore piùprofumato da scegliere, ci si sarebbeaccorte dell’allungarsi di una sola fila.Altri giochi: “Oh che bel castello!” “Labella lavandaia”, “Le belle statuine”, “Èarrivato l’ambasciatore”, “Libera gio-co”, oltre a “nascondino” o “rimpiatti-no” e al “pugno”.La festa di Pasqua dava inizio alle fre-quenti scampagnate. Sui prati venivanoraccolte le margheritine (o pratoline) cheformavano come un tappeto sotto i car-rubi e gli ulivi. Poi era la volta dellecampanule rosa, con le quali si potevanopreparare collane e cinture. I ragazzipreparavano il cappio con i fili dell’ave-na, per catturare i ramarri oppure rincor-revano le raganelle. Spesso coglievano ifiori dell’avena e li lanciavano alle spal-le delle ragazze, gridando: – ‘I ziti, ‘iziti! – poi, contando i fiori rimasti attac-cati agli indumenti, facevano il conto deipresunti pretendenti. Spesso si giocava a

“campana”, tirando sulle caselle traccia-te a ciappedda (una pietra liscia o uncoccio ricavato da qualche brocca anda-ta in frantumi). Si finiva sempre con unagiocata a palla (a volte di stoffa e riem-pita di segatura) e con l’immancabilevozzica (voga o altalena) legata al ramodi qualche albero secolare. Intanto lebrave massaie stendevano sull’erba unapagghiazza (telo per lo più di canapa.Serviva anche per la truscia, involtocontenente la biancheria da lavare o giàlavata). Su di essa sistemavano i piatticolmi di stimpirata o di ghiotta. Era oradi pranzare. Ci si serviva di forchette dicanna; un po’ di vino vecchio venivaconservato nelle zucchette secche (spes-so contenevano il sale o l’aceto.) Si libe-ravano le uova sode dal panierino otte-nuto con la pasta impanata con granoduro. Aveva la forma di un grembiule.Sulla pasta che ricopriva le uova, i piùpiccoli della famiglia si erano sbizzarritia sistemare colombelle di pane col rela-tivo nido oppure lo scifu pieno di pallinedi pane. Il manico era una grossa trecciadi pane. Questi lavoretti, come pure apaci vanno eseguiti, adoperando farinadi grano duro, altrimenti l’intreccio nonlega. Al tempo delle ciliegie, quando icommercianti portavano la “castagnola”di Catania, era una gioia fare gli orec-chini o spille con i gruppi di due o treciliege. Poi si giocava ad indovinarequante ciliege si tenevano in bocca (lostesso avveniva per Santa Venera, quan-do il mezzadro portava ai padroni l’uvamoscatella sistemata in un paniere ador-

nato di pampini). Per l’Ascensione siandava a “passare l’acqua” presso qual-che torrentello alquanto assottigliato. Lasera precedente erano state intrecciatedai ragazzi le croci d’erba bianca (arte-misia). Il capofamiglia o il figlio mag-giore le avevano deposte sui tetti (servi-vano per tenere lontani topi e gazzeladre.): il Vivente, salendo in cielo, leavrebbe benedette. Il 1° maggio le gio-vanette ornavano i capelli con un maju(margherita gialla), i giovani lo sistema-vano all’occhiello o dietro l’orecchio:era una sorta di talismano contro l’emi-crania (in realtà, le persone che lo porta-vano se ne stavano all’ombra per nonfarlo appassire). Tra le spighe di grano ed’orzo occhieggiavano i rosolacci d’unosplendido colore rosso fuoco. Venivanoraccolti per essere trasformati in grazio-se “ballerine”. I petali capovolti, legaticon un filo d’erba (la cintura) formava-no il corpetto ed il tutù. Tagliando qual-che centimetro di gambo ed infilandolonel corpetto, si ottenevano le braccia.Togliendo alcuni stami si stabiliva dache parte era rivolto il viso. I boccioli siprestavano a far indovinare se nasconde-vano un re (rosso), una regina (rosa) oprincipi o principesse (bianco) Nonmancavano le gare per catturare farfalle,grilli e cicale.Il 2 luglio si andava immancabilmente alSantuario della Madonna delle Grazie inAvola Antica. Ci si fermava “ô Misteri”sorto sul luogo del ritrovamento del qua-dro. Si raccoglieva qualche ciuffo disataredda o sadera da offrire alla

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Scampagnata estiva

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Madonna o da portare a casa. I primiarrivati trovavano, lungo il sentiero chemena alla chiesetta attigua all’eremo,minutissimi fiori denominati “speron dicavaliere”. Comunemente venivanochiamati i palummeddi, per il loro colo-re e un po’ per la forma. Coi fiori divel-ti si preparavano delle coroncine dadeporre sull’altare della Vergine Madreo da utilizzare come segnalibro o segna-posto. Intanto i ritardatari si procurava-no dei bastoni ottenuti tagliando il fustodella ferula. Più tardi, andando versocozzu Tiruni, avrebbero trovato minutis-sime viole del pensiero. Durante la sali-ta, cantavano: Ri luntanu vinemo,/ rimari cianamu/ pi Tia laramu/ a Tia pria-mu./ Tu, nostru amuri,/ Tu nostru suste-gnu/ senza ri Tia – cantamu — ‘a nostravita finia.” Ma qualcuno, più spiritoso(un po’ per far dimenticare la stanchezzae il primo caldo, un po’ per ricordare itempi andati) cantava in sordina: A di-nucciuni (in ginocchio) cugghiemu cut-tuni/ se n’era pi Tia/ cuttuni cugghia(sarei rimasto schiavo)/ A li ru uri/ laveccia si ‘inciuri/ lu monicu canta/ laveccia si scanta. Effettivamente a queitempi venivano eseguiti alcuni cantipenitenziali alquanto lugubri. Ma il“poeta” fra Serafino Scarso aveva com-posto delle ballate. Si sistemava inmezzo al cerchio formato dai fanciulli ecantava: Ora, cunfusu, mai piansi tantu/Maria cunsulò il mio cori afflittu/ ccu ‘nsulu Figghiu sutt’a a lu so mantu/ di l’a-nimi spusi lu veru zitu. Mi dissi ch’era renun sdirrignatu (detronizzato) supra dil’Angili turnava assisu./ E pir cui (pertale notizia) fui lietu cunsulatu/ ‘nPararisu sarò con Lui sempri unitu/Trallalleru, trallaleru, trallaleru/ lallerulà. Un altro gioco era: “Il cordone di SanFrancesco.” Era un po’ il gioco delpugno ingentilito dalla seguente fila-strocca: “.../ chi l’ha detto, chi l’hadetto? Me l’ha detto la pastorella/ coppiaa coppia la più bella./ La più bella di tuttiquanti/ è…(nome) e passa avanti/ E… ènel giardino e passeggia col Bambino/ epasseggia a poco a poco/ e ritorna al suobel luogo.” La persona chiamata ingioco, tornando al suo posto, voltava lespalle al centro del cerchio finché, finitoil gioco, la persona che rappresentava ilBambino dava il via, perché ognuno tor-nasse nella posizione d’inizio. Per lafesta di Santa Venera le comari si scam-biavano in dono vasi di basilico in

mezzo ai quali spiccava un garofanorosso o bianco. I fidanzati preparavanole “sponse”, infilando i boccioli di gel-somino nelle infiorescenze dell’anice. Sigiungeva così al lunedì di Santa Veneracon la “mangiata a mare” della pizza edell’anguria e la varchiata con grandegioia dei bambini che lanciavano sasso-lini nell’acqua o raccoglievano le telline,(ne avrebbero fatto delle collane).Al tempo delle mandorle, i frati que-stuanti andavano per le campagne.Ricambiavano l’offerta in natura conmedagline e qualche immaginetta daappendere al capezzale o da affiggere suqualche albero. Chistu è locu sacru cidicevano sorridendo e ammiccandoverso i contadini ed i mezzadri, gli unicial corrente dell’esistenza del BeatoAntonio Etiope, uomo di Dio e bravoerborista. Gli eremiti ci avevano inse-gnato ad ottenere belle camerette utiliz-zando alcune pietre lisce: il tavolo (pie-tra cilindrica), il letto (pietra larga e piat-ta), il cuscino, i comodini, le sediesecondo la dimensione e la forma più omeno consona. Anche gli alberi diventa-vano fontane, balconi, altari, confessio-nali, leggiadre chiesuole le cui cupoleerano formate dai rami frondosi del car-rubbo o dell’ulivo o del noce. A seralasciavano intravvedere tappeti bruli-canti di lucciole, cupole trapuntate distelle e illuminate dalla luna, cattedralidegne del Cantico di Frate Sole. Le con-tadine spesso dicevano:- La santa MadreChiesa invita alla preghiera (quandoc’era il plenilunio) ed intonavano l’Ave

e i Misteri e qualche brano dell’Aca-tistos tradotti in dialetto. Con l’uva ribesselvatica (“a racinedda”) si facevanobraccialetti e coroncine.Durante il periodo della raccolta dellemandorle o delle olive, di giorno siandava per i campi ad aiutare i contadi-ni a raccogliere il prodotto abbacchiato.Durante la vendemmia i ragazzi scuote-vano delle canne o imitavano il canto delgallo o il latrare del cane per spaventarei passeri. ‘N sordu a panareddu venivapromesso ai più piccini. Di solito ilsoldo non veniva retribuito, ma l’ambitopremio era un giro, o più, effettuato sulcarro agricolo. Nel tardo pomeriggio siandava in cerca di more, mentre i pasto-relli suonavano u frischittu, una speciedi zufolo ottenuto con la canna e unnodo di carrubbo. Ma bisognava essereaccorti nell’incollare i due materiali conl’allume. Non c’è rosa senza spina: avolte le sbucciature alle braccia o alleginocchia sopraggiungevano quandoqualcuno si ostinava ad arrampicarsisugli alberi, per prendere i nidi. “Bene tistia..., ma se non lavori lo stesso, amenz’jornu ‘nta carrata. In realtà il mal-capitato veniva “castigato” a toglierealle mandorle il mallo resistente con lacuticcia... anziché rimanere seduto nellacarreggiata mentre gli altri consumava-no il pasto.Al tempo delle mosche ubriache dimosto, veniva preparato un efficace col-lutorio tenendo in infusione per circaventiquattro ore, venti boccioli di gelso-mino in un litro d’acqua.

Croce di "erba bianca". Foto di Nino Privitera tratta da S. Burgaretta, Note di aggiornamentoad Avola festaiola…

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Quando si avvicinava la festa dell’As-sunta o di san Corrado, si preparavano icarrettini con le bacchettine di cannainfilate nelle pale di fichi d’India ripuli-te dalle spine e ben squadrate. A sera,fuochi pirotecnici ricavati da bacchetteinfuocate, scaldate nel fucuni dove veni-va bruciato il mallo secco e bombe pre-parate col sale. Terminato il tempo delleolive, sopraggiungeva il tempo di fare ibagattelli e tornare, con rammarico, inpaese. Ma ci saremmo portati interigreggi di pecorelle e di vitellini e bran-chi di maialini ottenuti dalle olive selva-tiche alle quali venivano azziccati ilegnetti d’ulivo per formare le orecchie,le corna, le zampe e la coda. Se incappa-vamo nelle prime piogge, ci radunava-mo nella paglialora, invocando SanGiovanni Battista evangelista! Lampu etronu vattinni agghiri dda: cca luSignuri mannatu n’ha. Poi, a sera, muni-ti di lume a petrolio si andava in cerca dilumache. I ragazzi sbattevano le canneciaccate come avevano fatto per caccia-re gli uccelli dai vigneti. Era un modoper non perdersi di vista o per non inson-nolirsi a causa dell’odore acre dellavegetazione umida. Allora qualche gufofuggiva impaurito, lanciando il suo

caratteristico verso. Cuccu meu? Sì, ucuccu è tou, ma u babbaniu è miu. E ilbarbanio, se non era una chiocciolina(ruvola) veniva segnalato: Bum! Cchègrossu! anche se era di modeste dimen-sioni. Era il tempo di ritornare, le scuoleriaprivano i battenti. L’ultimo giornoraccoglievamo le tazzettine dellaMadonna, i fiori gialli e appiccicosi del-l’erica. Preferivamo, però, quelli dellamandragola disposti a bouquet in mezzoalle foglie. Ma qualcuno ammoniva: –Nun li cugghiti se siti ziti – (identicausanza esisteva sulle Alpi riguardo allegenziane).Altri rispondevano scherzosamente “Enoi li diamo alla Madonna e ci portiamoi confetti delle bambole”. Erano questiultimi delle pietruzze rosa o grigio chia-ro sfumato, forse residui di marmo. Sitrovavano nel frantumato che sarebbeservito a riempire le fossette prodottedall’acqua piovana. Lungo i torrenti lelavandaie cantavano stornelli e noi lan-ciavamo sassolini lungo gli argini e cigodevamo i cerchi concentrici nell’ac-qua che fuggiva a valle. Fra qualche set-timana sarebbero sbocciati i ciclamini dibosco. Dopo la pioggia alcuni sentieri ecarreggiate diventavano inagibili acausa dell’argilla. Allora veniva u quar-tararu a raccoglierla. Ce ne regalava unbel panetto, per costruire i pastori del-l’imminente presepe. Ma essi avevanosempre un gran sonno: si piegavanosulla zampogna o sull’agnellino. Se licostruivamo attorno aun’assicella di ferro, benpresto essa si arruggini-va. Dovevamo ripiegaresul vecchio presepe ilcui lupo funzionava dacane. Lo tenevamo sultavolo (il buffittinu)mentre i più paurosi pre-ferivano scrivere appog-giandosi ad una seggio-la: diffidavano della pre-

senza di quel lupo sgambettante; erasempre un’incognita per la loro incolu-mità e per quella delle pecorelle. Ineffetti assolveva bene la sua missione diguardiano. Avevamo sempre, a dire ilvero, un foglio di carta staccato dal qua-derno. Bastava disegnarci su una pecori-na o un passerotto. Ripiegandolo diversevolte e ritagliando la figura, ne avremmoricavate mezza dozzina o, addirittura,otto. Dopo le ore di studio si giocava allenocciole, passandoci un dito in mezzo,(come si faceva per le albicocche).Oppure le nascondevamo nel pugno: –Scavaleri, trummitteri, quantu vilanza –(quanto pesate)?Di solito bisognava essere furbi: ilpugno stretto nascondeva molte più noc-ciole di quanto s’immaginasse. I piùscaltri sbirciavano dalla parte del ditomignolo.La sera di tutti i Santi, la notte di santaLucia e la grande veglia di mezzanottedi Natale erano le grandi date dell’attesae del premio.Poi, per capodanno ritornava il vasaiocon in dono una brocca (‘a quartara)oppure una rastera con la data incisa sulbordo. Si andava dai nonni, dagli inse-gnanti, dalle suore ad augurare BuonCapodanno e buon capo di mesi, vi fac-cio un inchino e mi date un tornesi? e imustazzoli dove son messi?” Ci siabbracciava e nella mano scivolava lamoneta o la carta moneta... e la ruota deltempo continuava a girare...

Vozzica in campagna

Lunedì di Santa Venera mangiata a mare

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Nella sua Introduzione alla traduzionedell’Agamennone di Eschilo, Wilhelmvon Humboldt, uno dei massimi lingui-sti a cavallo tra i secoli XVIII e XIX,evidenzia la difficoltà, quasi la impossi-bilità del tradurre, e al tempo stesso ladoverosità dell’atto traduttorio qualeimportante veicolo di ascesa culturale.«Anzi» – precisa l’autore – «la traduzio-ne […] è uno dei compiti più necessariper una letteratura, sia per fornire a colo-ro che non conoscono la lingua formedell’arte e dell’umanità che altrimentigli resterebbero estranee e che sonosempre di cospicuo vantaggio per ogninazione, sia per aumentare – ciò soprat-tutto – l’importanza e la capacità espres-siva della propria lingua».Come è a tutti noto, ‘tradurre’ deriva dallatino trans-ducere dove l’elemento dimaggiore salienza semantica è solita-mente individuato nella testa del compo-sto, il verbo ducere, nell’accezione delcondurre, del guidare, del portare da unaparte all’altra; nel caso specifico dellatraduzione, del trasferire un testo da unalingua a un’altra lingua. Ma, aldilà dellacomune considerazione, il focus seman-tico della parola, potrebbe essere proprioil trans, inteso come una zona di frontie-ra, come un’area di osmosi dai confinisfumati e non facilmente individuabili.È proprio in questa regione di passaggioche si colloca l’essenza più intima dellatraduzione. Il testo tradotto è sempre ecomunque un ipertesto che conserva uninsieme di informazioni non traducibili;

un prodotto paragonabile a un’opera ditessitura dove alla trama, costituita dallalingua e dall’universo culturale di riferi-mento originali, si intreccia l’orditodella cultura e della lingua di arrivo.Lungi dal rappresentare un limite, ilcarattere ipertestuale della traduzione vaesteso all’opera letteraria tout court,giacché neanche nell’ambito di una stes-sa lingua – a meno di non imbattersinella trattatistica scientifica – uno scrit-tore scrive come un altro. A questopunto far sentire ciò che è ‘estraneo’ o‘diverso’ arriva a configurarsi comeun’operazione necessaria.Nell’ambito della riflessione ermeneuti-

ca sulla traduzione, a metà percorso trale riflessioni di Humboldt e i recenticontributi di Gadamer e Ricoeur, si col-locano le osservazioni che FriedrichSchleier-macher ricava dalla sua espe-rienza di traduttore delle opere diPlatone. Nel 1813, nel saggio Sui diver-si metodi del tradurre, Schleiermacherindividua due livelli dell’attività tradut-toria, due ambiti vicini ma non identici:quello dell’interprete che si rivolge aidominii del quotidiano, dell’empirico,dell’agire sociale e politico; e quellovero e proprio del traduttore «costituitoda quei prodotti spirituali dell’arte edella scienza nei quali, da una parte, lalibera facoltà combinatoria propria del-l’autore e, dall’altra, lo spirito della lin-gua con il sistema di idee in essa inscrit-to e la sfumatura degli stati d’animosono tutto e l’oggetto non è più assoluta-mente in grado di dominare, ma piutto-sto viene dominato dal pensiero e dalsentimento; spesso anzi, è solo attraver-so e insieme al discorso che esso divieneed esiste».La comprensione di un testo di naturaculturale superiore deve perciò procede-re lungo due direttrici che, con termino-logia saussuriana, potremmo definiredella langue e della parole; deve cioèsaper cogliere insieme il rapporto chelega lo spirito della lingua, che si riflettenell’anima di chi parla, e lo spirito delsoggetto parlante – l’enérgeia humbold-tiana – che è creazione continua, espres-sione individuale, fatto estetico.

Cummitu: il piacere di riceverela parola dello straniero

di Elvira Assenza - foto di Ritemilia Vinci e Corrado Bono

CRITI

CALE

TTER

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Per gentile concessione dell’autrice pubblichiamo il testo della relazione con la quale la chiar.ma prof.ssa ElviraAssenza, docente di Linguistica Generale, Sociolinguistica, Psicolinguistica e Linguistica Cognitiva pressol’Università di Messina, ha presentato, la sera del 14 giugno 2007 nei locali della libreria catanese Voltapagina, ilvolume Cummitu, traduzione in vernacolo avolese del Simposio di Platone fatta da Sebastiano Burgaretta, redatto-re della nostra rivista. Lo stesso volume è stato successivamente presentato, in data 27 giugno, dal chiar.mo prof.Giuseppe Traina, docente di Letteratura Italiana presso l’Università di Catania, a cura dell’associazione culturaleHybla Junior e della nostra associazione Gli Avolesi nel Mondo. L’evento, patrocinato dall’AmministrazioneComunale di Avola, si è svolto nel salone di rappresentanze della Città, alla presenza di un folto e attento pubblico,e ha registrato gli interventi, fra gli altri, del sindaco Antonino Barbagallo e dell’assessore alla cultura GiuseppeCarbè, oltre che, come a Catania, del prof. Alessandro Salerno, prefatore del volume.

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Se dunque, come appare evidente, giàall’interno della propria lingua, com-prendere certo tipo di testi rappresentaun’operazione difficile e complessa,ancor più arduo è il compito riservato altraduttore che deve anche assolvere alruolo di mediatore tra l’autore da tradur-re e il lettore. Nei panni di un Arlecchino «servo didue padroni» – per utilizzare una notaaffermazione di Rosenzweig – il tradut-tore deve barcamenarsi tra molteplicidifficoltà: mancate corrispondenzesemantiche, anisomorfismi sintattici,eredità culturali diverse e a volte moltodistanti, usi connotativi che travalicano isignificati denotativi fissati nei vocabo-lari, ecc.Nel caso del Cummitu, il tutto è reso piùdifficile da una questione complessa,legata alla specie-specificità – se mi èconsentita l’espressione – del dialetto.Lingua empirica, lingua dell’uso quoti-diano, lingua aliena a ogni genere didiscorso culturale superiore, quale untrattato o una speculazione filosofica.Lingua che a causa di un radicato e pro-lungato petrarchismo scolastico ha vistoaddensarsi attorno ai due opposti polidell’italiano e del dialetto, rispettiva-mente «un vocabolario nazionale perdiscutere dell’immortalità dell’anima,per esaltare il valore civile, per descrive-re un tramonto, per sciogliere il lamentosu un amore perduto» e un vocabolariodialettale /regionale «per parlare dellemille piccole cose della vita di tutti igiorni, quali appunto le stringhe dellescarpe» (E. Peruzzi).Un secondo importante punto di proble-maticità che si presenta a chi voglia tra-durre in dialetto un testo scritto in altralingua, è dato dal prevalere dell’orienta-mento testuale orale, in altre parole dal-l’assenza di una differenziazione diame-sica tra varietà scritta e varietà orale; dif-ferenziazione che è invece presente intutte le lingue ‘ufficiali’. Il dialetto vivee si esprime nella monodimensionalitàdel parlato, mancando, pressoché deltutto, di una pratica scrittoria.Da un lato, dunque, una inadeguatezza acarico del sistema semantico-lessicale,dall’altro l’assenza di vettori stilisticiorientati alla testualità scritta. Non perniente, di fronte a tante e differenti diffi-coltà, il nostro traduttore si chiede:«segno di pazzia, sia pure di matricepoetica, o sfida pensare di tradurre in

vernacolo il Simposio di Platone?»Vedremo di dare una terza risposta aconclusione di questa chiacchierata.Intanto, dicevamo, difficoltà per ilnostro traduttore, ma non per questorinuncia; piuttosto un accurato lavoro discelta delle strategie adeguate per potersuperare l’impresa. I nodi da scioglieresono, come abbiamo detto, di diversanatura e a essi si somma la difficile ecomplicata operazione di comprensionedi un discorso, di uno scritto che, comenel caso del Simposio, si colloca tra leforme di vita spirituale superiore e checome tale dev’essere compreso dalpunto di vista dell’io parlante e dalpunto di vista del contesto, dell’espritdella lingua, dei meccanismi creativisottesi a quello che Humboldt definisceil «sempre rinnovato lavoro dello spiritoper rendere il suono articolato (la formaesterna) idoneo ad esprimere il pensiero(forma interna o innere Sprachform)».In questo senso, si potrebbe dire chedalla parte dell’impresa si schiera l’in-trinseca natura dell’uomo siciliano che èper antonomasia un pensatore. È, comeegli stesso si autodefinisce, liccu rimura, amante di quei muri a secco checaratterizzano ampia parte del paesaggiorurale dell’isola; quei muri a secco suiquali appoggiarsi a filosofare, magarilasciando indietro il lavoro dei campi…E se è vero come è vero che la lingua èespressione dello spirito del popolo chela parla, questa tendenza alla speculazio-ne, questa affinità spirituale col mondogreco, costituisce di per sé un punto divantaggio. Le strategie individuate dal nostro tra-

duttore procedono poi lungo un doppiobinario – lessicale e stilistico – attraver-so la scelta di un vocabolario dimesso,ricco di idiotismi, di arcaismi e diespressioni icastiche; e il passaggio dal-l’architettura testuale del dialogo plato-nico ai canoni stilistici del parlato quoti-diano dell’uso medio: per dirla conNencioni, dal parlato-scritto al parlato-parlato. Interessanti, a tal proposito, i passi in cuila traduzione si allontana dall’impiantodell’originale, alterandone l’architetturatestuale a vantaggio di una resa dellestrutture pragmatiche e prosodiche delparlato locale. Quanto alle scelte piùstrettamente linguistiche, il Burgarettaopta per la varietà del dialetto di Avola,rifiutando il ricorso alla koinè sovra-regionale.Facciamo dunque qualche riferimentopiù puntuale al testo avvalendoci delconfronto con un ‘classico’: la traduzio-ne del Simposio di Giovanni Reale.Molti gli esempi interessanti che regi-strano la presenza di costrutti marcati edi forme arcaiche e dense di pregnanzasemantica. Troviamo così: nun mi sbùd-diri che non combacia con la resa nonconnotata di Reale ‘non scherzare’, (laquale peraltro traduce puntualmente ilgr. m`h sk{wpte); o ancora il gr. smikr{ojche Reale traduce con ‘piccolo’ e che inBurgaretta diventa cuttottu. Interessantela resa del gr. Xudaqhnaie{uj, ‘deldemo di Cidate-neo’, reso come quatte-ri ro Citadenu e della locuzione en t{wproq{urw / ‘nel vestibolo’ che diventanto cuttigghjulu; ancora troviamo laforma siciliana di allocutivo cataforico:

Alessandro Salerno, Elvira Assenza e Sebastiano Burgaretta alla libreria Voltapagina

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a-ttìa, tu ri Faleru…in luogo del vocati-vo W Falhre{uj (in Reale: ‘Ehi, citta-dino del Falerio’). Procedendo con gliesempi troviamo ammàttiri anzichéncuntrari (‘incontrare’) che coglie inpieno il valore dell’incontro occasionalee fortuito, dell’‘imbattersi’ e ncapizzari‘rintracciare qualcuno che si sta cercan-do’ (z{htwn se {ina kad{esaimi, o#ukoi{oj t{ {h ide^in: cfr. la traduzione diReale: ‘…ti ho cercato… ma non mi èstato possibile vederti…’ con la resa diun registro fortemente colloquiale inBurgaretta: t’hagghju circatu, ma nunm’agghju firatu a ncapizzariti…); oancora mpatucciari, che non è l’‘inven-tare un pretesto’ di Reale (peraltro fede-le, giacché traduce puntualmente ilgreco) ma il più espressivo ‘impapoc-chiare’: così {ora o%un {agwn me t{i apo-log{hs+h – ‘vedi dunque, dal momentoche mi porti tu, che cosa potrai dire agiustificazione’ - diventa: Se mi ci ha’purtari, perciò, mpatoccici occu cosappi scusa…).Molte le perifrasi, le locuzioni e leespressioni idiomatiche che spesse voltetraducono, ampliandone la connotazio-ne, singoli vocaboli: mancu a farluapposta (g{ar / ‘infatti’); pilu e piliddu(kaq{aper / ‘proprio’); circari comu naugghja persa (ka`i m`hn ka`i !enagc{ojse ez{htoun / ‘è un po’ che ti cercavo’ ein Burgaretta: t’agghju circatu comu naugghja persa); n cazzu e mmenzu(agaq{on {andra t{a polemik{a / ‘uomodi notevole valore nelle cose di guerra’che in Burgaretta diventa n’òmminu richiddi n cazzu e mmenzu nte cosi riguerra). Ancora, in altri casi, la tradu-zione si spinge oltre le effettive corri-spondenze testuali e diventa commento,vera e propria glossa ipertestuale: tirà-risi i canna ‘tirarsi indietro’ (O;ude{ijsoi, %w Erux{imace, enant{iayhfie^itai/ Nessuno, o Erissimaco,

respingerà la tua proposta; che vienecosì riformulato: Erissimacu… Nudduiavi nenti cchi diri… certamente a tirà-rimi i canna, nun pozzu siri propriaiu…); addumari comu n surfareddu(oude{ij o!utw kak{oj {o#utina o#uk #anaut{oj {o # Eroj #enqeon poi{hseie pr{ojaret{hn / ‘… non c’è nessuno che siacosì vile, che Eros stesso non lo rendadivinamente ispirato alla virtù…’ chediventa: Chi cci putissi siri nto munnun’omu tintu e bbili ca Amuri nun safirassi a farlu addumari comu n surfa-reddu ri curagghju e ttalentu?!). Per nondire di quelle scelte che, insieme a unadiversa sfumatura espressiva, comporta-no anche una sorta di ri-interpretazione:il gr. erast{hj, ad esempio, diventafuriusi (Sokr{atouj ; epast{hj {wn ;entoij m{alista twn t{ote – ‘essendo unodei più innamorati di Socrate di allora,..’– tradotto dal Burgaretta: sennu ca erannammuratu ri Socrati, e ddi chiddi catannu èrunu cciù furiusi?) e un Orfeo,figlio di Eàgro, definito sprezzantemen-te kiqarwd{oj, ‘suonatore di cetra’, rice-ve una divertita sfumatura scanzonata ecede il passo a nu scaillatu ccu na cita-redda…Il risultato complessivo conferisce altesto una efficace coloritura espressiva.In un certo senso, se mi è consentito, loattualizza (in accezione pragmatica lotrasforma in atto linguistico), conferen-dogli la vividezza di una chiacchieratafatta caminannu strata strata.Un risultato che colpisce un doppio ber-saglio: da un lato risolvere i problemi diuna certa imponderabilità traduttoriacausata dai numerosi anisomorfismi trala lingua dell’originale, il greco, e il dia-letto siciliano; dall’altro recuperare,vivificandolo, il mondo della grecitàclassica, solo in apparenza desueto eremoto e in realtà a tutt’oggi attuale egravido di importanti spunti di riflessio-

ne.Certo, per fare ciò, il nostro traduttoredeve necessariamente ‘tradire’ qualcosadell’originale, deve di necessità forzareda entrambi i lati. Come avverte Ricoeurriprendendo Berman, il traduttore, forzala propria lingua a rivestirsi di estraneitàe la lingua straniera a farsi de-portarenella propria lingua materna, a lasciarsiriplasmare dalle possibilità e dallemodalità espressive di cui la lingua d’ar-rivo dispone. È in questo processo di tra-sferimento che si ingenerano i tradimen-ti, quelle soluzioni innovative, ora lin-guistiche, ora interpretative, che posso-no comportare il sacrificio di certi aspet-ti del testo originale a favore di altriaspetti, di certe accezioni di significatorispetto ad altre. Nei confronti di questitradimenti il traduttore deve assumersidi volta in volta la responsabilità dellescelte nella consapevolezza che essecostituiscono, il più delle volte, percorsiobbligati dai mezzi espressivi e cogniti-vi della lingua ospite. Perché, in un certosenso, è come ci dice il Sapir: «Se vedia-mo, sentiamo e percepiamo in un certomodo, questo è dovuto, in larga misura,alle abitudini linguistiche della nostracomunità, che favoriscono certe nostrescelte nell’interpretazione».Il punto di forza è trasformare la visioneconflittuale del compito del traduttore inquella di un’apertura etica all’altro, aldifferente; in quella che Ricoeur defini-sce hospitalité langagière: «Così comenell’atto di raccontare si può raccontarealtrimenti, nell’atto di tradurre [...]egualmente si può tradurre altrimenti,senza sperare di colmare lo scarto fraequivalenza e adeguazione totale».Ecco dunque offrirsi una terza rispostaalla domanda che il nostro traduttore siera posta accingendosi all’impresa:«segno di pazzia, sia pure di matricepoetica, o sfida pensare di tradurre invernacolo il Simposio di Platone?». Inquesto caso, come dicevamo, tertiumdatur: né pazzia né sfida, quanto piutto-sto un segno di squisita ospitalità lingui-stica e spirituale. Ospitalità nella quale,riprendendo ancora una volta le paroledi Ricoeur, «il piacere di abitare la lin-gua dell’altro è compensato dal piaceredi ricevere presso di sé, nella propriacasa di accoglienza, la parola dello stra-niero».

Il sindaco Antonino Barbagallo, i proff. Giuseppe Traina, Sebastiano Burgaretta e la presidente ad Avola

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Antonino Barbagalloè il nuovo sindaco di Avola

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Dallo scorso trenta maggio, giornodella cerimonia ufficiale d’insediamen-to al Palazzo di Città, Avola ha unnuovo sindaco. È il forzista AntoninoBarbagallo, 48 anni, medico, che, alleelezioni amministrative, nel turno diballottaggio contro il sindaco uscenteAlbino Di Giovanni, ha conquistato il53,85% dei voti, sostenuto, oltre chedal suo partito, da un’apposita listacivica, dalla Lista del Presidente,dall’Udeur, da La Margherita e daiDemocratici di Sinistra. L’azzardataalleanza di una parte del centrodestracon una parte del centrosinistra, chenon ha mancato di suscitare critiche,incertezze, interrogativi e confusione,alla fine è risultata vincente. Non solo,il neo sindaco, che a caldo avevaannunciato una svolta nel modo diamministrare la Città, stabilendo uncontatto più diretto con la popolazionee indicando in via prioritaria quegliinterventi eseguiti puntualmente sulterritorio per rivalutare la costa, ripuli-re le spiagge e sistemare il verde pub-blico, a tre mesi dal suo insediamento,solo per questo, si è guadagnato il plau-so degli avolesi e dei turisti (salvoeccezioni).Per ben figurare, il lavoro deve esseredi squadra e ogni delegato dal sindacodeve operare in sintonia con lui e con icolleghi, per raggiungere gli obiettiviprefissi e, proprio in questo caso, l’as-sessore all’Ecologia, all’Ambiente e alVerde pubblico, Sebastiano Passarello,si è speso in prima persona, per ridare

dignità a molte aree che rasentavano ildegrado per l’inciviltà degli abitanti.Oltre al già citato assessore Passarello,della Giunta municipale fanno parte:Marcello Magro, vice sindaco e asses-sore all’Urbanistica, al Territorio e allaProtezione civile; Corrado Bono, asses-sore al Bilancio, alla Programmazione,alle Finanze, al Patrimonio e alContenzioso; Fabio Cancemi, assesso-re allo Sport, al Turismo, alloSpettacolo e al Personale; GiuseppeCarbè, assessore ai Beni Culturali, allaCultura, al Centro storico, alle PariOpportunità, agli Enti e alle Associa-zioni Ecclesiastiche; Paolo Caruso,assessore ai Lavori Pubblici, allaManutenzione, alla Progettazione, agliAppalti, ai Contratti e alle Forniture;Sebastiano Cassarisi, assessore alloSviluppo Economico, allo SportelloUnico, all’Agricoltura e alla Foresta-zione; Sebastiano Dell’Albani, assesso-re ai Servizi Sociali, ai ServiziCimiteriali e all’Arredo Urbano; Mi-chele Murè, assessore alla PoliziaMunicipale, alla Viabilità, all’Annona eal Commercio; Guglielmo Saviotto,assessore alla Pubblica Istruzione, agliAsili nido, all’Edilizia scolastica, alleProblematiche giovanili e al Centrogiovanile.Ognuno di loro (come l’assessoreCancemi, che ha dovuto organizzare ilprogramma della festa di Santa Venerae dell’Estate Avolese, con una serie dieventi che hanno avuto per la parteci-pazione di massa una ricaduta positiva

in città), si è messo subito allavoro, per affrontare e risolve-re le varie problematiche. Alprimo posto quindi una mag-giore pulizia della città, le poli-tiche sociali, la viabilità e leopere pubbliche. Energica èstata la presa di posizione perfar rispettare ai giovani l’usodel casco a protezione dellaloro stessa vita, così come ildivieto agli esercenti di venderealcolici dopo le due di notte. La

zona off limites che era diventata vialeCorrado Santuccio (ex Lido), ad esclu-sivo appannaggio delle automobili edelle centinaia di motociclette impe-gnate nell’andirivieni, con un inquina-mento acustico e ambientale dagli indi-ci impressionanti, è oggi a senso unicodi marcia e, certamente, con un’aria piùrespirabile per i residenti.Un nuovo input è stato dato alle operepubbliche appaltate dalla precedenteAmministrazione, e in via di completa-mento, come il teatro comunale e ilprolungamento della via Falcone sino apiazza Esedra, che ha dovuto registrareuno stop per via dei ritrovamentiarcheologici nell’area interessata, cosìcome è accaduto nell’appezzamento diterreno in contrada Zuccara dove sonoin atto i lavori del costruendo depurato-re fognario; gli scavi hanno portato allaluce un manufatto antico che potrebbeessere un vecchio pozzo.Fra i primi impegni che hanno vistoprotagonista il neo sindaco Barbagalloc’è la missione a Palermo per la firmadel protocollo d’intesa e della conven-zione, alla presenza del ministroAntonio Di Pietro, per la riqualificazio-ne del quartiere Santa Venericchia: unaserie di interventi per migliorare lavivibilità di quanti abitano le casepopolari, sia per quanto riguarda gliimmobili, sia per nuovi esercizi com-merciali, sia per l’istituzione di servizia carattere sociale.All’attenzione del Sindaco, dellaGiunta e del Consiglio comunale è laproblematica della Sanità nella zona asud della provincia di Siracusa. Lamancata riorganizzazione degli ospe-dali di Avola e di Noto, il cosiddetto

di Eleonora Vinci - foto di Antonio Dell’Albani

ATTU

ALIT

À Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Settembre 2007

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Piano di rifunzionalizzazione dell’o-spedale unico, a cinque anni di distan-za dalla firma fra le parti, non è piùaccettabile dalla Comunità e il primocittadino ha sollecitato le riunioni dellaConferenza dei Sindaci per la Sanità, echiesto incontri risolutivi con il mana-ger dell’Ausl n.8 di Siracusa e con l’as-sessore regionale alla Sanità RobertoLagalla.Avola oggi è proiettata verso un futurodi riscatto, grazie anche al buon lavorodei sindaci che l’hanno governata negliultimi anni, dove:- un depuratore funzionante a pienoregime libererà le acque marine dailiquami, restituendole integre;- il porto turistico non sarà più una chi-mera, ma il volano dello sviluppo turi-stico-socio-economico;- il centro storico e la periferia godran-no della riqualificazione in atto;- i contenitori culturali, come il centrogiovanile, il teatro comunale, il vec-chio mercato, palazzo Modica, l’expalmento di via Villafranca, il museocivico, si riempiranno per offrire spazisempre più importanti;- la viabilità, che risulterà alleggeritasulla SS115 con l’imminente aperturadell’autostrada Siracusa-Gela, siavvarrà della parallela al vialeSantuccio e poi della “via del porto”che collegherà l’autostrada direttamen-te con l’importante infrastruttura;- la zona collinare di Avola Antica, chepurtroppo quest’estate è stata forte-mente danneggiata da due devastantiincendi dolosi, riceverà maggioreimpulso dall’area archeologica delParco Santa Venera e dalla sistemazio-ne della preriserva di Cava Grande.Alla luce di tutto ciò, gli avolesi nonpossono più restare a guardare, ognunodeve fare la propria parte, che vuol direrispettare i luoghi dove si vive, impara-re ad essere civili. I genitori e gli inse-gnanti devono educare le nuove gene-razioni al corretto smaltimento deirifiuti e al riciclo; gettare una carta aterra deve diventare un isolato caso disbadataggine e non più la normalità.Famiglie e scuola insieme devono edu-care i ragazzi al sano divertimento,mettendo al bando atti teppistici e van-dalici, l’alcool, il fumo e la droga.Perchè il futuro che attende Avola siaveramente migliore, la sua popolazio-ne deve finalmente gettare le basi permeritarlo.

Seduta del Consiglio comunale

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Inferiae

di Maria De Luca Pistoresi

POES

IA

Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

D’intimoriti silenzibisbigliava la casa in penombra,pronta col pane e con l’acqua,ad accogliere passi leggeridi anime amate.Impaziente l’attesa dei dolci di zucchero e mandorle,ignota la morte.Ormai nottetemponessuno toglie le offerte.Al mattino, col pane e con l’acqua,intatto ritrovo il silenzio.

A cura diCorrado Di PietroIgnazio PuglisiColl. Ritratti d’ArtistaEd. CLACPalermo, 2007

Ezio CecchiniLe istituzioni militariEd. SME Ufficio storicoRoma, 1986

Angelo RulliniAi figli di MarteLibreria Editrice UrsoAvola, 2007

A cura di Paolo RandazzoCorpi incompiutiUn viaggio nella danzadi Roberto ZappalàEd. Meta Arte, 2007

Dario Burgarettain Sefer YuhasinAnno XXIII - 2007Ed. Messaggi

Erminia GalloLa scaletta di cordaEd. Il MoloViareggio, 2007

P. Gianvanni C. GrazianoOperazioneVespri SicilianiED. A.I.Firenze, 1995

Comando Generaledella Guardiadi FinanzaLa Guardiadi Finanza

Hanno arricchito la nostra biblioteca

ALIA Fabrizio FI

CALDARELLA Giuseppe FI

CANNATA Giovanni FI

CANONICO Giovanni FI

DELL’ARTE Salvatore FI

LORETO Corrado FI

TARDONATO Francesco AN

BACCIO Sebastiano AN

CALVO Daniele AN

AGRICOLA Giuseppe UDC

ARTALE Francesco UDC

CARUSO Grazia Maria UDC

CARUSO Paolo UDC

LANTERI Giuseppe UDC

MARINO Vincenzo UDC

MIRANDA Salvatore UDC

MORALE Venera UDC

OLIVA Corrado UDC

ANDOLINA Salvatore DS

GRANDE Sebastiano DS

MORALE Paolo DS

IACONO Salvatore MPA

ANGELICO Santo

Lista Uniti per la città

DELL’ALBANI Sebastiana

Impegno Democratico

AMATO Antonino

Impegno Democratico

CANONICO Corrado

Lista Barbagallo Sindaco

CARUSO Sebastiana

Lista Barbagallo Sindaco

AMATO Salvatore

La Margherita

MONTONERI Santa

Lista Il Campanile

PICCIONE Antonio

Lista del Popolo

ECCO I TRENTA CONSIGLIERI

Gli eletti al Consiglio comunale, riunitisiin pubblica adunanza il due luglio, hannoproclamato presidente Giuseppe Agricolaed il suo vice Sebastiano Grande.

Il Presidente

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Ci eravamo incontrati due mesi fa, adAvola, nella libreria Urso. Mi parve menosnello. “Sono le medicine...” mi disse.Avevo messo da parte per lui una copiadel libretto che commemorava GaspareConigliaro, comune affettuoso collega edamico. Volle venire subito in studio aprenderla. Attraversammo a braccetto lagrande piazza assolata, e, quando gliporsi l’opuscolo, sul quale mi ero affret-tato a scrivere la dedica, sedette e comin-ciò subito a leggerlo.Io intanto, fingendo di lavorare, aprivo echiudevo i fascicoli, e lo vedevo chinosulle pagine, assorto. I nostri sguardi siincontrarono. Commentò: “È una paginadi alta poesia, Gaspare la meritava”. Isuoi occhi erano rossi. I miei bruciavano.Senza dire altro ci abbracciammo.Dopo di allora, in chiesa ho potuto bacia-re la bara che chiudeva Paolo, amico sin-cero. Durante il rito mi passavano per lamente prima gli studi, poi la professioneche ci ha accomunati nell’esperienza enegli affetti. Lo rivedevo ottimista, gio-viale, simpatico. Ritrovavo in lui l’antesi-gnano della figura del dottore commer-cialista “consulente globale d’impresa”,di quella figura che sarà dominante nelmillennio che si avvicina. Aveva frequen-tato a Milano e poi organizzato in Siciliacorsi di specializzazione in analisi dibilancio, in marketing aziendale nonchéin quel che di più sperimentale e avanza-to esisteva.Avevamo partecipato insieme a tutti icongressi e ai più importanti convegni,con un dinamismo professionale che mifaceva ammirare in lui il collega e sotto

certi aspetti il maestro.Lo rivedo nella sua famiglia, di cui avevamoltissima cura, come marito eccellentee padre esemplare. Osservavo, nella com-mozione dei presenti, com’egli fosse sti-mato ed amato, e nelle sillabe che i moltidi noi venuti a onorarlo ci scambiavamospiccava il nostro giudizio sulla sua bril-lantezza e sulla rapidità delle sue intui-zioni. Il ricordo del collega Paolo sareb-be rimasto definitivo e incancellabilenella nostra vita e nel nostro lavoro. Oraanche se il ricordante e il ricordatohanno ambedue la durata di un giorno,finché le tenebre non sostituiranno la lucee la memoria me lo concederà, Paolovivrà nel mio cuore.

Così scrivevo qualche giorno dopo ladipartita di Paolo e così pubblicava larivista “Il dottore commercialista – pro-fessione e cultura”.Ora che Grazia Maria Schirinà, infatica-bile presidente de “Gli Avolesi nelMondo”, mi chiede uno scritto “aggiorna-to” sull’amico da fare avere a SebastianoBurgaretta, mi pare doveroso lasciareimmutato quanto sopra, per aggiungervisoltanto qualche notazione breve.Il tempo spesso – quasi sempre direi –sbiadisce, stempera, fa svanire cose, per-sone, ricordi... Ma ogni regola ha le sueeccezioni. E in questo caso vale l’ecce-zione. Il ricordo di Paolo si fa vieppiùintenso. Il passare degli anni lo fa rivive-re in me come allora, più di allora. Conlui ho vissuto e condiviso momenti bellidi vita professionale e soprattutto umana.Non sempre è così. Accade solo con gli

amici, quelli veri, che sono pochi e nellamia vita destinati a restare sempre dimeno.Quante certezze crollano! Paolo è stato –e rimane – una certezza incrollabile. Era esi è dimostrato un amico sincero, unuomo vero. Mai una défaillance, mai unoscrezio, mai un voltafaccia. Dirlo, poterlodire, è bello, in un tempo in cui anche gliamici più cari – o che tali ti sembrano – liritrovi nelle circostanze più inimmagina-bili con le spalle girate, magari per poifingere di sorriderti ancora... Paolo hasaputo sorridere dall’inizio alla fine equel suo sorriso ampio, generoso, umano,onesto è il regalo più bello che ci abbiapotuto dare.

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Paolo, amico sincero

di Giovanni Stella

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Paolo Di Filippa

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Il Sacrario militare di Bari

di Michele Favaccio - foto archivio Favaccio

STOR

IAAvolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

Il 1° settembre del 1939 le truppe tedesche invadono laPolonia, costringendo l’Inghilterra e la Francia a dichiara-re lo status di guerra: inizia così il 2° conflitto mondiale.Mussolini rimane sorpreso dalla guerra lampo tedesca e,nonostante l’Italia fosse legata alla Germania dal Patto diAcciaio, dichiara inizialmente la non belligeranza; succes-sivamente sulla spinta delle sfolgoranti vittorie tedeschecontro gli anglo-francesi, nella convinzione che una parte-cipazione limitata nel tempo e negli sforzi ponesse laNazione al tavolo delle vincitrici, il 10 giugno 1940 apre leostilità contro la Francia e l’Inghilterra. L’obiettivo eraquello di presidiare i settori occidentali (Francia), meridio-nali (Grecia ed Albania) dello scacchiere europeo e dellecolonie dove più gravitavano gli interessi economici. Cosìil 13 settembre del 1940 Mussolini ordina di passare all’of-fensiva, impegnando le truppe italiane sul fronte egiziano,in Africa Orientale Italiana (Somalia, Eritrea), in Albania ein Grecia.Durante il conflitto i nostri soldati sono stati presenti intutti i fronti di guerra ed in ogni luogo hanno scritto paginedi gloria. I sopravvissuti sono rientrati in Patria al terminedella guerra; altri, dopo alterne vicende nei campi di pri-gionia, hanno potuto abbracciare i loro cari, altri ancorameno fortunati sono caduti in combattimento o nei campidi concentramento e su molti di loro è caduto il velo del-l’oblio.In precedenti articoli sono state fornite informazioni suicittadini avolesi sepolti nel Sacrario militare di El Alamein(Egitto) e su coloro che hanno combattuto in terra di Russiaed il loro status, quello di rimpatriati, sepolti in fossecomuni e dispersi; in questo breve articolo verrà fatto un

cenno sul Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari, ovesono sepolti i soldati italiani deceduti fuori dai confininazionali e che al termine del conflitto sono stati rimpa-triati sia in forza degli accordi internazionali, sia per causadi forza maggiore, a seguito delle esplicite richieste deglistati ospitanti, che minacciavano di disperderne le spoglie,in assenza della volontà di rimpatrio da parte dell’Italia. Èil caso di Libia, Tunisia e Algeria.È nata così l’esigenza di dare una degna sistemazione ainostri caduti ed è stata individuata nella città di Bari, illuogo idealemente più vicino ai campi di battaglia, ove siconsumò la tragedia della seconda guerra mondiale. IlSacrario viene inaugurato il 10 dicembre 1967 e custodiscele spoglie di 75.548 caduti di cui 29.501 noti, 5.675 notima non identificati e 40.372 ignoti.All’interno del Sacrario i caduti sono ripartiti per settori enella sala dell’albo d’onore è collocato un armadio in bron-zo che custodisce, in dieci volumi, i nominativi, in ordinealfabetico, di tutti i caduti noti e noti non identificati sud-divisi per nazioni: Jugoslavia, Albania, Grecia, Algeria,Marocco e Tunisia, Libia, Somalia, Sudan ed altre localitàdell’Africa Orientale.Lungo le pareti della cripta sono sistemate le grandi lapidicon i nomi dei 5.675 caduti noti ma non identificati, i cuiresti sono raccolti nel Sacrario frammisti ad altre spoglieprovenienti dalle tombe collettive. Una lapide è stata dedi-cata ai 140 ascari eritrei e libici, i cui resti furono traspor-tati in Italia nel maggio del 1972, assieme ai nostri caduti,dal dismesso sacrario di Tripoli.Il Sacrario comprende: il chiostro, a cui si accede dal por-ticato eretto sull’ultimo ripiano dell’ampia scalinata, e i cui

lati si affacciano i 30 colombari ove sono sistema-ti i caduti noti; la cripta, ove sono ricordati i cadu-ti noti ma non identificati; il parco con i mezzi bel-lici dell’epoca e un tronco dell’acquedotto romanoche serviva da ingresso al sacrario militare diTripoli; il museo di cimeli, che rievoca le varie fasidelle dure battaglie combattute dagli Italiani suivari fronti di guerra e la sala visione dei documen-ti fotografici dell’epoca. Nel Sacrario Militare diBari trovano sepoltura i seguenti cittadini avolesi:- tenente Barbera Armando, deceduto nel territorio

dell’attuale Slovenia l’8 agosto 1942;- sottotenente Caldarella Antonino, deceduto il 7

ottobre del 1941 in Albania;- aviere Caruso Antonino, caduto nell’aeroporto di

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Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

Gabes in Tunisia;- tenente Caruso Salvatore, caduto il 13 novembre del

1942 in Libia;- fante Gonfalone Sebastiano, caduto il 15 novembre del

1940 in Albania; (le spoglie non sono state identificate erisulta sepolto assieme ai resti di altri caduti);

- bersagliere Di Stefano Salvatore, caduto il 5 febbraio del1941 in Albania;

- geniere Mazzone Giuseppe, caduto il 3 aprile del 1942 inLibia;

- fante Migliore Antonino, caduto il 13 marzo del 1941 inAlbania;

- militarizzato Miranda Roberto, caduto il 21 agosto del1941 in Grecia;

- sottocapo Morale Sebastiano, caduto il 21 gennaio 1941nel Mediterraneo Centrale, a seguito dell’affondamentodell’incrociatore Città di Ancona;

- fante Zagarella Corrado, caduto il 30 aprile del 1941 inLibia.

Questi sfortunati concittadini, tranne il fante Gonfalone,sono sepolti singolarmente, e ogni anno, in occasione del 2novembre vengono ricordati nelle varie cerimonie militari,e onorati il 4 novembre nel corso della festa delle ForzeArmate e dell’Unità nazionale. La legge n. 365 del 14 ottobre 1999, variando il secondocomma dell’articolo 4 della legge n. 204 del 9 gennaio1951, consente che le salme definitivamente sistemate a

cura del Commissario Generale possanoessere concesse ai congiunti su richiesta ea spese degli interessati.Questa legge, approvata dalla Camera deiDeputati e dal Senato della Repubblica,venendo incontro alle volontà di alcunifamiliari, ha posto a carico dei richiedentile spese, volendo così mettere un freno alledecisioni suggerite dalla emotività delmomento, evitando che richieste non pon-derate potessero portare alla perdita di unpatrimonio prezioso quali sono i nostricaduti, che in ogni qual momento, con illoro sacrificio, sono di monito alle futuregenerazioni stigmatizzando le atrocitàdella guerra. Il Commissario Generale, inpresenza di richieste di restituzione di spo-glie dei caduti, indica l’iter burocratico daseguire, con particolare riferimento alle

pratiche che investono le competenze di altri Stati e, nel-l’esprimere comprensione ed apprezzamento per i nobilisentimenti che hanno fatto maturare la decisione, rappre-senta che le spoglie nel Sacrario Militare saranno custoditeed onorate in perpetuo, mentre in un cimitero comunalepotrebbero essere soggette ai turni di esumazione, qualorai posteri dovessero essere meno attenti al culto dei proprimorti.Questa formulazione, nel corso degli anni, ha confermatola sua validità, tant’è che molte richieste di rimpatrio avan-zate sono state successivamente annullate, e contempora-neamente si è assistito ad un espresso desiderio, da partedei familiari, di visitare le sepolture dei propri congiunti siain Italia sia all’estero.

PUBBLICATO SUL WEB IL SITO DI PALAZZO LUTRIIl palazzo, censito dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali e Ambientalifra i beni architettonici della Provincia di Siracusa, dispone oggi di unsito web che ne illustra la storia e consente un percorso virtuale all’in-terno di spazi e ambientazioni tipici dei palazzi settecenteschi siciliani.

VISITA ANCHE TU IL SITO INTERNETwww.palazzolutri.com

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In primavera, ci eravamo riproposticon Elia Li Gioi di lanciare insiemeun messaggio, unendo le due formeartistiche con cui ci esprimiamo, lapittura e la poesia. Quest’estate, neimiei pochi giorni di soggiorno adAvola, abbiamo ricercato l’occasio-ne, e nel soleggiato terrazzo, conlenzuola bianche come ombra, ènato questo manifesto che ricordale vittime dei naufragi del Medi-terraneo. Fra tutte le forme di emarginazioneche ogni giorno registriamo, nei

luoghi del nostro vivere quotidiano e nel profondo dellanostra coscienza, quella che mi lascia segni più profondi èl’immigrazione clandestina attraverso gli scafi della spe-ranza, che a volte arrivano e altre volte sprofondano allargo delle acque della nostra Isola. Le immagini di crona-ca, che sembrano le scene di un film già visto infinite volte,mi lasciano un senso di rabbia e di ingiustizia profonda. Èallora che avverto i contrasti nella terra degli opposti.Chi potrebbe pensare che sugli incredibili granelli di sab-bia di Lampedusa ogni giorno le onde depositino detriti dianime umane alla deriva!La cronaca li chiama scafi della speranza, quei gommoniche, prendendo il largo dalle coste della Libia, traghettanouomini, donne, giovani e bambini nati o ancora nel ventredelle madri, che scappano dalle guerre e dalle lotte civili osemplicemente dalla fame delle calde terre d’Eritrea, Niger,Egitto, Sudan.La traversata di questi corpi, dilaniati dalla fame, dalla fati-

ca e ustionati dalla nafta che fuoriesce dai bidoni unitaall’acqua di mare, più che far pensare alla speranza, ravvi-va alla memoria itinerari danteschi: “Lasciate ogne spe-ranza, voi ch’intrate” … “Quivi sospiri, pianti e alti guai/risonavan per l’aere sanza stelle,/ per ch’io al cominciarne lacrimai./ Diverse lingue, orribili favelle,/ parole didolore, accenti d’ira,/ voci alte e fioche, e suon di man conelle…” (canto III Inf.).Introdotta da questi versi dell’Inferno, ho presentato la poe-sia Mediterraneo ad Anzola dell’Emilia (Bo) per i festeg-giamenti medievali della scorsa estate, e poi all’iniziativaPro-Africa tenutasi a Bologna questa primavera.

Mediterraneo

Arrivo all’Isola in un’alba ancora buia.Viaggio da sola, non lascio le valigieper respirare brezza sui pontili di Caronte.

Un tempo, d’estate, tutti ci affrettavamo.Oltre le ripide scale un mondo si apriva:un lembo lasciavamo l’altro si avvicinava.

Caronte squarciava le acque e una pioggia di brillanti faville scaldava lo stretto fra terre.Mai udito canti di sirene, là fuori, solo parole

[dal suono antico.

Stanotte sul vagone spento mi arrivano i lamentie lo strazio di grida laceranti trascinati dal mareviolentemente, tumultuosamente, sbadatamente.

Mediterraneo… Cimitero di poveri naufraghi.Non rimbombano tacchettii sulle tue dure lastredi marmo né colori vivi adornano ritratti.

Volti sconosciuti fasciati da alghe impallidite,giovani mani aggrappate a rossi coralli,spugne che asciugano aperte ferite,corone di ricci per ventri di vita…

Mediterraneo…

G. Rossitto, Vita nei campi incolti e inariditiAvola, Libreria Editrice Urso, 2006

Un manifesto peri Naufraghi del Mediterraneo

Testo e foto di Giuseppina Rossitto

ATTU

ALIT

À Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

Granelli di sabbia al microscopio dell’Isola dei Conigli, Lampedusa. Foto G. Rossitto in collaborazione con l’Istituto della Terra, niversitàdi Bologna

Giuseppina Rossitto

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Mediterraneo è nata su un vagone della Freccia del Sud inun’alba d’inverno, durante uno dei miei ultimi viaggi inSicilia, ma riflessioni e poesie sull’immigrazione e la con-dizione, ancor peggiore, della clandestinità, potrebberonascere ogni giorno se solo ci mostrassimo sensibili a que-sta piaga sociale, tanto antica quanto ancora attuale.Quando la sera attraverso veloce i viali della mia città, sof-fro nel vedere gli effetti dell’immigrazione delle donneserbe, croate, sudanesi, brasiliane, cinesi e di chissà qualialtre nazioni del mondo, e il sentimento, che più di ognialtro mi assale, è la paura e l’impotenza, la rabbia e la pietàe poi, accidenti, vorrei che la politica e le organizzazioniinternazionali facessero di più, per combattere e prevenirelo stato di schiavitù e la prostituzione delle donne, donnegiovanissime senza vita e senza futuro.In verità, gli uomini siamo esseri strani, amiamo il nostroprossimo, ma tante volte siamo capaci anche di detestare,odiare. Siamo più inclini a servirci del prossimo, in questosiamo veramente più capaci! Ci serviamo di colf filippine,di badanti polacche e ucraine, di braccianti e pastori india-ni, e ci indisponiamo dei costi che sopportiamo nel doverliregolarizzare. Come genitori e come insegnanti moltoabbiamo fatto, ma tanto rimane ancora da fare per l’accet-tazione di classi scolastiche sempre più multirazziali cheimpongono percorsi multiculturali, ma soprattutto di com-prensione umana.Forse è con occhi bambini che dovremmo guardare ilmondo e le creature umane, non solo da viaggiatori distrat-ti quali spesso siamo.In verità, e non senza imbarazzo, io detesto sentirmi minac-ciata da queste invasioni incontrollate, che generano insi-curezza e disordine sociale, perdita di valori tradizionali, ildilagare della prostituzione, dello spaccio, della delinquen-za abituale e organizzata. Ma sempre prevalgono in me unospirito di solidarietà e tanta commozione umana, quandovedo sfilare la nuova colorata classe operaia.

Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

Il dolore del mondo io lo vedo nei volti afflitti che ogni giorno spaccano i nostri cuori. Facce lontane, stravolte, di gene-razioni intere e ancora più… Il dolore di Cristo si ripete non in un angolo di Giudea, bensì anche qui. Fra aranceti e man-dorleti in fiore, se non vengono ancora sui barconi sospinti dalla fame e dalla guerra; i nostri video ci rendono partecipidi tanti lutti che, per tante mani, esplodono davanti ai nostri occhi. Eppure, impotenti ad assumere una seria posizione,lasciamo lamentare chi ci sfrutta, del nostro dolore gode e parlamenta del dolore altrui. Viltà e furbizia insieme da un latoriempiono le tasche e dall’altro commiserano chi muore.Chi non ci sta può solo guardare, non ha potere decisionale o, meglio, si sofferma a criticare. Il pensiero è libero più dellaparola ma… a che serve? Solo a conoscerci fratelli, ma non fa stendere la mano al tuo nemico, non fa aiutare il prossi-mo, che, nel potere, se ne ride e commisera anche la tua pietà.L’economia, le banche e le industrie lavorano col dolore, la morte e gli armamenti, e, in fondo, per chi muore è a volteuna liberazione da una vita di stenti e di miseria. La cultura non può più di questo e, in certi casi, poi, neppure tenta, per-ché i miseri non vale la pena di aiutarli.“La legge è uguale per tutti” è un’utopia ma non è poi vero perché chi può, più può e resta altrove e del dolore del mondose ne fotte.

Portopalo, 26 dicembre 1996di Grazia Maria Schirinà

Elia Li Gioi, Manifesto per i “Naufraghi del Mediterraeo”

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Aspetto con ansia la vostra rivista,perché è un mezzo stimolante permantenere la lampada accesa, la cor-rente che mi tiene legato al mio paesenativo, ai cari parenti e a qualcheamico che vive in Sicilia, comeMelchiorre Trigilia che di recente hadato il suo contributo alla rivista. Hoseguito con apprensione e affetto l’or-ganizzazione e lo sviluppo del recen-te concorso di narrativa dedicato aGiuseppe Schirinà, mio zio in quantofratello di mia madre, persona a mecara quant’altri mai, mio maestro divita, alla cui sensibilità e assennatez-za mi sono sempre rivolto alla vigiliadi scelte decisive. Purtroppo motivi disalute mi hanno consigliato di nonallontanarmi dal Friuli e parteciparepiù direttamente all’evento. È perquesto che rivolgo il mio augurio allarivista, perché possa crescere neltempo e rafforzarsi l’impegno diquanti in redazione ne sono l’anima, acominciare dalla generosa Presidente.Con questa breve premessa ho pensa-to di introdurre dei fenomeni che a meaccadono, veri picchi emotivi, allor-

quando leggo articoli dove riconoscome stesso o vicende che hanno inte-ressato la mia breve presenza adAvola. Così avvenne quando lessi ilracconto della cara Concettina Ra-metta Pignatello nella rivista didicembre 2003 (conoscevo la fami-glia e nei fatti raccontati rammentavosituazioni e luoghi), così è successocon il numero di novembre 2006,quando ho letto l’articolo di FrancoMarino “La mia casa nel cortileCirino”.Anche la mia casa si trovava nel cor-tile Cirino e anche io ero nato in unacalda giornata di luglio nella abitazio-ne della nonna Grazia nel cortileGrande, di fronte al vecchio mercato,dove fino agli anni cinquanta i vari“sensali” Bono, Caldarella e altri ani-mavano il mercato all’ingrosso difrutta e verdura. Il terzo cortile a mecaro era allora chiamato “Rizzotti”dal nome della famiglia che lo avevaabitato tutto intorno, miei trisavoli,infatti mia madre, una Schirinà, avevaavuto in dote la casa di angolo infondo a destra. L’uscita era in viaManzoni nella piazzetta della Badia,delimitata dall’abitazione di Alessan-dro Patti, mio prozio.La mia vita da bambino negli anniquaranta e nei primi del cinquanta sisvolgeva nei cortili di via Manzoni,più precisamente negli ultimi duedove abitavano i nonni e gli zii. I mieiallora non vivevano ad Avola, pertan-to la mia presenza in quei luoghi erasaltuaria, ma i ricordi resteranno inde-lebili nella mia mente, così i carretti,la cura degli animali, i prodotti freschidei campi, i giochi di bambino, “utuppettu” o “la palla di pezza”, lepedalate fino al mare con le biciclettesgangherate, ma anche le fatiche delledonne, aiutate da madri solerti a man-

tenere la cottura del pentolone dello“strattu” su bracieri sapientementeapprontati al centro delle aree.Torniamo al precedente racconto diMarino, che io ho sentito come mio,testimonianza della vita di noi bambi-ni del dopo guerra. Avevo già lettocon grande interesse un articolo,riportato dalla nostra rivista deldicembre 2002, chiarificatore divicende legate al mondo del lavoro esindacale in perenne difficoltà inter-pretativa del divenire frenetico diconcrete situazioni di vita e rapportisocio-culturali. Più che commemora-re i morti, Franco Marino aveva volu-to illuminare i vivi con delle lucide epersonali considerazioni che può fare(io dico “ha il dovere di fare”) chi hapienamente convissuto e interpretatoil momento storico con mente serenae obiettiva, tentando di mettere chia-rezza e ricordando che i risultati oggiacquisiti non devono far dimenticare idibattiti, gli incontri e gli scontri cheli hanno preceduti. Non si tratta inquesti casi di un cammino lungo madi adeguamenti che non finisconomai. Non è possibile fermare il dive-nire della società in tutte le manifesta-zioni della umana esistenza, però l’a-deguamento continuo al sempre nuo-vo momento storico si deve pretende-re dalle parti interessate, senza la vio-lenza o azioni di forza che degradanol’uomo, perché sono anch’esse matu-rate e coscienti delle nuove realtà. “Ifatti di Avola”, gravissimi, e quantoaltrove succedeva in quegli anni, oggiforse non sarebbero accaduti. Ci furo-no visioni ottuse di una realtà politi-co-sociale che sfuggì alle mani di chiavrebbe potuto controllarla. Non sipuò avviare un iter politico e parla-mentare per dare vita a uno “Statutodei lavoratori” partendo dal sangue di

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Un tuffo nel passato

di Corrado Vella

RIC

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DI

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Graziella Tringali

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innocenti colpevoli soltanto di cade-re per la difesa di sacrosanti diritti.Ciononostante, il fato storico, sivoglia o no, diventa monito e non vadimenticato. Poi arrivò il 1954, anno importanteper me, perché determinò l’avvio diuna seconda fase della mia vita di gio-vanetto trascorsa ad Avola. Mio padreaveva ristrutturato la casa del cortileCirino (o Mirafiori), che sarebberimasta per il momento disabitata, ioconcludevo le Scuole Medie a Ispicae volevo proseguire gli studi al LiceoClassico di Noto. Si decise in famigliadi darmi sistemazione ad Avola nellanuova casa, vuota, senza arredi, mafornita di luce e acqua in abbondanza,che riuscivo a cedere alle signore checon vari contenitori si presentavanoall’alba per fare la scorta giornaliera.Non so dove trovai una brandina, untavolino, qualche sedia, un mobilettoper poggiare un fornelletto a gas epoche altre cose. Giuseppe Schirinàmi portò a Noto per l’iscrizione e daquel momento ebbe inizio una nuovavita da studente ad Avola, ospite dellacasa del cortile Cirino, quella piùintensamente vissuta, fatta di nuoveesperienze e approfondimenti, di stu-dio, di maturazione e di fortuna, lafortuna di meritarsi punti di riferi-mento sani nel momento più criticodella formazione di un ragazzo. Daquel momento la mia permanenza adAvola si sovrappose a quella dei fra-telli Marino. Franco fa riferimento aun grande padre. Mi ha commosso emi ha fatto ricordare il mio, esempiodi onestà e di rispetto della cosa pub-blica, e una scena penosa e indimenti-cabile, un uomo grondante comeCristo che porta la Croce, cui eracaduto addosso il lucernario dellescale del palazzo Capizzi di Bronteper lo scoppio di una bomba di aereo.Barcollava mio padre sui gradinimentre portava sulle spalle non unacroce di legno ma i feriti dello scop-pio e gli anziani, e piangeva e mi fis-sava e lo sguardo era di terrore nonper la vita sua e nostra ma per la pauradi non riuscire a portare tutti fuori dalpericolo. Era solo mio padre, e io

troppo piccolo per poterlo aiutare.Mia madre, partoriente di mia sorella,urlava dalla sua stanza sventrata e cifaceva coraggio.Anche un asino, chissà da chi procu-rato, parcheggiato in strada e destina-to al trasporto della puerpera e dellabambina appena nata, aveva perso lapazienza e scalpitava. Dei successiviencomi e attestati mio padre non miparlò mai. Solo dopo la sua morte hotrovato questi documenti.A questo punto non posso non ricor-dare la figura di zio Pippo, più noto ainostri lettori come Giuseppe Schirinà.Aveva accompagnato a Bronte (CT)mia nonna e la sorella di mia madre,la futura Madre Adriana, perché fos-sero presenti all’evento della nascitadi mia sorella Maria Pia. Lo sbarcodegli alleati in Sicilia e la loro avan-zata aveva sorpreso tutti nel catanesee lì vissero le stesse vicende della miafamiglia. Mio padre, ferito, era impe-gnato nel servizio di ordine pubblicoe protezione civile, io avevo solo treanni, zio Pippo seppe prendere inmano la situazione e guidarci alla sal-vezza nei momenti più tragici dellafollia bellica. Sempre composto, cura-to, calmo, riflessivo, con la sua siga-retta in bocca che anche in quei fran-genti riusciva a trovare, dava confortoa tutti, parenti e amici. Seppe rintrac-ciare un’ostetrica e, sotto i bombarda-menti, guidarla fino alla nostra casadiruta, stabilire buoni rapporti con imilitari tedeschi durante il coprifuo-co, offrire fave crude e pistacchio aiprigionieri inglesi e qualche sigaretta,facendosi tranquillizzare da alcuni diessi feriti e ricoverati all’OspedaleMilitare che, per quella notte, dopo lanascita di Maria Pia, il paese nonsarebbe stato bombardato perché sededi tre ospedali e non di concentra-mento di prigionieri. Così per quellanotte mia madre Lisetta dopo il partopoté rimanere nel suo letto. Era ilprimo di agosto del 1943. Avevaimparato a riconoscere i bombardierialleati e, stimandone la velocità, riu-sciva a valutare l’impatto delle bombeal suolo così da tranquillizzare i grup-pi di sfollati che si rannicchiavano nei

più svariati anfratti del terreno: “statecalmi, scampato pericolo”. Avevaappena vent’anni questo artefice dellanostra salvezza. Quando la linea dicontatto superò Bronte e, dopo averciguidato per giorni e giorni, per campie rifugi, riuscì a riportarci a casa tuttisalvi, tra la distruzione e le macerie sirammaricava di non trovare la giaccadel vestito blu dimenticata prima del-l’ultima fuga.É con vera emozione che ho letto direcente alcune pagine del suo ritrova-to diario di quei giorni di guerra, dovel’impotenza dell’uomo sprigiona iro-nia, odio, rancore: “è stato semprecomodo dire agli uomini: abbiamovinto. Ma in realtà chi ha vinto? Nelmomento della lotta dov’erano costo-ro che ora parlano così fortemente...Abbiamo vinto!.. Guarda, guardaquesto petto squarciato, questo brac-cio monco, quella gamba senza piede.O forse non ricordi quando la mortemieteva inesorabile ... e chiamavi illu-si coloro che per te morivano...Illusi... illusi... sì, perché offrivano illoro sangue senza nulla chiedere nellagioia, nell’ebbrezza della loro gio-ventù. Ma tu, vecchio, intamato, bor-ghese, non sei fatto per questa gioiapura consacrata dal sangue, suggella-

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Corrado Vella adolescente

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ta dalla morte... Senti: è l’attenti chesuona; è l’ora dell’alzabandiera.Alzati! Là si alza la bandiera e gliuomini che hanno vinto la mortesenza tremare la salutano, gli uominimutilati piangono di gioia pura perchéi loro membri per essa sono stati reci-si, i morti la benedicono... (G.Schirinà, Diario di guerra, 10 maggio1943).L’istituzione Parroco Frasca: ecco unaltro punto di riferimento. Ricordarequest’uomo è impresa ardua, perchéla sua azione, sempre motivata e inci-siva, Avola la subiva da tempo, moltoprima che noi ci affacciassimo timi-damente alla vita socio-culturale delPaese. Fra contrasti e opposizioni, avolte maldicenze, lui andava per lasua strada a testa alta come quello cheha la certezza di stare nel giusto. La“Stella Maris” fu la sua creatura, lostrumento per deviare tanti giovanidalle tentazioni di quei tempi e por-tarli alla sua causa, sottile forma diproselitismo, influendo così sulla for-mazione di generazioni di giovani.Anch’io ho frequentato e respiratol’aria che girava al centro ricreativo,condividendo l’azione determinata eproficua del Parroco. I contatti e gliammaestramenti di uomini comeAlessandro Patti e Giuseppe Schirinàhanno fatto il resto.Questa è stata la mia fortuna, che miha protetto con la sua ala per tutta lavita, infondendomi sicurezza nelsuperamento degli ostacoli e nel con-seguimento dei traguardi agognati.Posso immaginare che lo stesso siaavvenuto per i fratelli Marino, chevissero con me l’atmosfera di queglianni cinquanta, anche Nuzzo, piùvicino a me per età, con il quale pren-devo la corriera per andare a scuola aNoto e frequentavo il centro ricreati-vo. Ricordo di Nuzzo l’impegno e lavoglia di essere avanti a tutti in qual-siasi attività, anche nel gioco, dal cal-cio alle carte. Quando arrivò Sivorialla Juve, strabiliando con il suo deli-cato palleggio, Nuzzo mi disse:“Quelle cose le so fare anch’io” e inun angolo del cortile mi diede ampiadimostrazione. Se ben ricordo, a ping

pong, la mia specialità, non mi ha maibattuto!Così arrivò il 1959, anno intenso edecisivo. La maturità classica, il con-corso per l’ammissione all’Accade-mia Militare, la perdita di una caraamica, Graziella Tringali, il saluto adamiche ed amici e la partenza defini-tiva da Avola, insieme al sentito etacito ringraziamento a quanti aveva-no contribuito alla formazione di unragazzo pronto ad affrontare lontanoda casa le dure prove della vita.Sono trascorsi quasi cinquanta anni esono cambiate tante cose. Nella miaultima visita ad Avola, solo alcunianni fa, ho notato interessanti realiz-zazioni ma tanto degrado. Alla tra-sformazione del paese agricolo-arti-gianale, con la piccola impresa a con-duzione familiare, in un notevole cen-tro produttivo su base agricola-indu-striale, razionalizzando l’impiegodelle forze del lavoro e lo sfruttamen-to dei potenziali disponibili, vale adire il complesso delle capacità, deimezzi e delle risorse, non ha corrispo-sto ancora un sostanziale consolida-mento delle forze produttive e deirapporti sociali di produzione e unrazionale sviluppo delle strutture conla costruzione degli edifici, areeattrezzate, viabilità adeguata, persvolgere attività di interesse collettivoe sociale (scuole, sport, ospedali, assi-stenza, aree verdi, etc...) e dare impul-so allo sviluppo economico in genera-le.Mi dicono che l’impegno delleIstituzioni locali è comunque assicu-rato. Ad esempio, il Comune ha datoprova di sensibilità verso le crescentidifficoltà del settore mandorlicolocon le azioni portate in essere perconsolidare un cambiamento di rotta,per tutelare e valorizzare la produzio-ne (vedi il caso della mandorla “piz-zuta”), per garantire sviluppo e occu-pazione. Siamo in un chiaro esempiodi attività che impegna vari soggettieconomici (imprese), dalla produzio-ne al prodotto finito, pertanto l’azionepromotrice dell’Ente Pubblico non siesaurisce con la definizione di unProtocollo d’Intesa fra le parti interes-

sate ma deve proseguire con azioniinsistenti di controllo, stimolo, inter-venti di varia natura cui accennavamoprima, perché le strategie auspicate siconcretizzino in azioni di difesa erilancio del settore. Nessuna impresa,grande o piccola che sia, investe aperdere il proprio denaro. Sarebbe fral’altro un disastro sociale.Ritorniamo al mio breve ritorno alpaese cui accennavo prima. Per laverità non ero sereno, perché preso dasentimenti di tristezza e malinconia.La mia visita coincideva con la perdi-ta di un amico carissimo, TaninoRudilosso. Ma anche il ricordo diPippo Caruso era motivo di tristezza.Abitava al corso principale, verso lastazione ferroviaria. Era venuto a tro-varmi nella mia casa di Torino credo agennaio del 1962 ed ansioso era ripar-tito dopo la breve vacanza e l’ultimosaluto perché già Ade lo attendeva frale mura di casa per accompagnarlonel suo gelido regno. Stessi sentimen-ti per Turi Monello, ragazzo dotato diintelligenza vivace, fuori dal normale.Ho avuto modo di incontrare i fratelliRametta e con essi ricordare i tempipassati. In particolare Giuseppe, miocompagno di scuola, mi ha raggua-gliato sui vecchi cari amici.Nei cortili di via Manzoni non c’è piùniente che mi riguardi.I nonni, gli zii, i miei genitori sono datempo mancati e la casa del vecchiocortile Cirino è passata di mano. Maresta forte il desiderio di ritornare inquei luoghi, respirare l’aria di untempo, l’odore del fieno e il profumodella zagara, chiudere gli occhi esognare personaggi e scenari antichi,ma vivi, tangibili, reali, perché inca-stonati come gemme nella ruota dellamia vita.

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Quest’estate si è tornato a parlare diAlessandro Patti, cui la scrivente nel n.2/2002 della nostra rivista ha dedicatol’articolo “Alessandro Patti”; qui eranoinseriti un disegno a matite e, in parti-colare, alcune poesie. Il merito di que-sta rinnovata attenzione nei riguardidel “professore” è da attribuire al volu-me Alessandro Patti, un esiliato diWeimar che perdette il suo cuore adHeidelberg del giudice Italico LiberoTroja, già suo allievo, che ha propostouna biografia circostanziata e docu-mentata di questo illustre personaggioavolese.In effetti della vita di Patti si potràancora sapere tanto, dato che, a parte idocumenti, ci sono ancora persone chelo ricordano per averlo apprezzato econosciuto direttamente; risulta invecedifficoltoso proporre al pubblico lavasta mole di riflessioni, ricerche,studi, opere che lo studioso ha lasciatoin custodia alla nipote Ada, erede pertestamento, mole che è rimasta erimarrà chissà per quanto tempo anco-ra nascosta e poco fruibile. Noi ritenia-mo che la produzione letteraria, fruttodi ricerca così come di riflessione ecreatività, deve essere messa a disposi-zione di quanti vogliano studiarla edeve essere consegnata alle nuovegenerazioni perché ne traggano stimoliculturali e insegnamenti. La culturadel cassetto resta sterile e non ha ragio-ne di esistere: resta per uno e muorecon quell’uno. Questo è anche il moti-vo per cui cerchiamo di togliere un po’della polvere del tempo a cose e perso-ne del nostro passato, che hanno con-tribuito a dare lustro, ognuno con leproprie capacità e nel proprio campo,alla nostra città. Senza dubbio Alessandro Patti meritadi essere ricordato e noi speriamo viva-mente che le sue opere, se non tutte,almeno in parte, vedano la luce.Di lui, fino ad oggi, oltre alle poesie

che nel citato articolo sono state pub-blicate (La lucertola, Se la vita ti spez-za, Le foglie di sensitiva), è stato editosolo un lungo poema, Il pomeriggio,un’accorata descrizione del drammadel tradimento di Giuda Iscariota, chetuttavia serve, all’autore, “per levare lasua terribile voce di condanna sull’at-tuale società, schiava del denaro e ditutte le arti capaci di conquistarlo”(Paolo Mangiafico, Pubblicato ineditodi letterato avolese, La Sicilia).L’opera, edita nel 1999 dalla LibreriaEditrice Urso, con in copertina undipinto, “La deposizione” di LuigiRizza, ha visto la luce per l’interessa-mento del prof. Salvatore Martorana,che ha dotato il testo di un’ampia edotta introduzione (pagg. 9-35) e dinote chiaramente esplicative (pagg.153-171) che sono un corredo impor-tante per meglio comprendere la vicen-da e la complessità del testo. GiuseppeSavoca dell’Università degli Studi diCatania, nel suo intervento, datato apri-le 2000, si sofferma a considerare ilpoema, il commento e le note delMartorana, il cui lavoro, a suo giudizio,“vive quasi autonomamente dal testopoematico, perché coinvolge problemicentrali per l’uomo contemporaneo e disempre” e denota “una grande coscien-za civile prima che letteraria e religio-sa”. Savoca continua scrivendo che “faparte dei nostri doveri rendere un po’ di‘giustizia’ ai nostri concittadini piùvicini e spesso dimenticati”. È ciò chesi prefigge lo stesso Martorana nellaPrefazione a Il pomeriggio dove affer-ma: “sarò lieto se avrò potuto strappa-re alla dimenticanza un uomo di vastae raffinata cultura e lumeggiare il patri-monio umano, letterario e culturalepassato della nostra città”. Non appenaIl pomeriggio ha visto la luce, com-menti lusinghieri sono stati fatti da illu-stri personalità del mondo della culturasia nei confronti dell’opera del Patti,

sia nei confronti della grande mole dilavoro del prof. Martorana. Il prof.Salvatore Pricoco dell’Università degliStudi di Catania, ritiene l’autore “unafigura notevole e degna di essere recu-perata alla memoria storica”. Un giudi-zio più diretto sull’opera, lo dà il prof.Giorgio Barberi Squarotti dell’Univer-sità degli Studi di Torino il quale con-sidera Il pomeriggio un’opera “senzadubbio singolare, composta con pro-fonda dottrina e con una straordinariainventività di racconto, di ritmo, di lin-guaggio” e, in riferimento al commen-to, lo reputa “esemplarmente efficace”.Anche il prof. Franco Sartori, dell’Uni-versità degli Studi di Padova, proponeuna sua riflessione. Egli così si espri-me: “Ho potuto…leggere l’opera diuno scrittore il cui nome mi era scono-sciuto, ma la cui forza etica mi ha subi-to profondamente colpito. Non mi eraignoto il dibattito sulla figura di Giuda,oscillante fra la condanna senza appel-lo (della quale sono portavoce la lineaortodossa cristiana e, fra i molti, lostesso Dante Alighieri) e le riflessionidi vari pensatori non scevre di senti-menti di pietà quando non addiritturadi comprensione. Però un’interpreta-zione così umanamente sconvolgentedel personaggio, qual è quella propostadal Patti (lui stesso figura singolare distudioso non ancorato a un regolarecurriculum universitario e praticanteuna forma di vivere libero), mi è giun-ta del tutto nuova.” Riferendosi poiall’opera di commento e analisi del

Il pomeriggio

di Grazia Maria Schirinà

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Il 25 luglio scorso, dopo una lunga einvalidante malattia, è deceduto il prof.Giuseppe Parisi, preside scolastico inpensione. Nato ad Avola il 21 marzo1925, Giuseppe Parisi frequentòl’Istituto Magistrale “M. Raeli” a Noto,dove ebbe tra i compagni di corso ipoeti Giuseppe Schirinà, nostro concit-tadino, e Antonino Uccello, la cuiprima giovanile raccolta di versi,Tristia, concorse, facendo una collettaassieme ai compagni, a fare stampare.Conseguita l’abilitazione magistrale,da privatista ottenne poi il diploma dimaturità scientifica, per iscriversi quin-di alla facoltà di Scienze Naturali pres-so l’Università di Catania. Dopo la lau-rea insegnò all’Istituto Magistrale diNoto, per assumere poi tra il 1961 e il1963, l’incarico di preside presso ilLiceo Classico parificato di Avola.Tornato successivamente all’insegna-mento, vinse il concorso nazionale apreside e nell’aprile del 1968 fu capod’istituto al Liceo Classico di Palaz-zolo Acreide. Passò al “Di Rudinì” diNoto nel 1969-1970, per assumeredefinitivamente la presidenza del LiceoClassico della nostra città nell’ottobredel 1970, quando questo divenne auto-nomo.Resse il Liceo cittadino nei vent’annidella sua autonomia, facendone unserio centro di studio e di formazioneper moltissimi giovani, numerosi tra iquali hanno saputo, negli anni, metterea frutto il patrimonio di umanità e dicultura ricevuto presso il LiceoClassico retto da Giuseppe Parisi,occupando ruoli di varia e rilevanteimportanza sociale in campo giudizia-rio, medico, accademico, forense etc…Quando egli, sessantacinquenne, andòin pensione nel 1990, si chiuse la fasedell’autonomia del Liceo Classico sta-tale di Avola, che venne allora accorpa-to al locale Liceo Scientifico. Vivo è ilricordo che lascia nella cittadinanza al

pari della testimonianza del solidoimpegno etico, professionale e umanoche ha saputo, sempre nella discrezionee nella misura, dare pubblicamente allasocietà e a quanti hanno avuto la fortu-na di collaborare con lui.La redazione di “Avolesi nel mondo”vuole in questa sede rendergli omaggiodi riconoscenza e di gratitudine, espri-mendo nel contempo sentimenti di par-tecipazione al dolore per la perdita delloro congiunto alla vedova, prof.ssaAnita Montoneri, e ai familiari tutti.

Omaggio alla memoria delpreside Giuseppe Parisi

a cura della Redazione

Avolesi nel mondo - Anno 8 n. 2 - Ottobre 2007

testo del Martorana, il Sartori aggiun-ge che, nella lunga e meditata introdu-zione, benissimo si “dimostra cheGiuda è l’uomo che – nonostante lavicinanza a Gesù – non riesce a vince-re il proprio istinto materiale (lusso,lussuria, morbosità dei sensi e dei sen-timenti, bestialità umana…), pur aven-do coscienza del male che sta com-piendo (vv. 239-249: uccidere la luceche viene dal Rabbi). Qui mi pare cheil Patti abbia saputo fare di Giuda ilmodello, esasperato fin che si vuole,dell’uomo comune, quale tutti o quasitutti noi stessi siamo. Nella sua vicen-da e nei vari incontri che il poeta lasciaalla fantasia drammatica, per altrosempre ancorata alle fonti evangelichee non evangeliche, credo che ciascunodi noi possa riconoscersi nelle vicendedella propria vita e soprattutto nelledebolezze nelle quali si cade fin troppospesso”. Ma il Giuda che ritroviamonella seconda metà del poema, è unuomo solo che, nella sua sofferenzainteriore, entra in una nuova atmosfe-ra, che lo rende, come il Martoranascrive, un eroe “positivo”, un eroe tra-gico. Sartori è convinto che “è unGiuda nuovo che questo poeta (da leigiustamente portato all’attenzionedella critica letteraria e storico-religio-sa), ci presenta o, meglio, crea. Ciòfacendo, egli offre un’altra via di spe-ranza all’uomo moderno: dalla tenebradel peccato attraverso l’espiazione allapossibilità di una redenzione. Per que-sto il Patti può parlare di un vangelo diGiuda Iscariota, il traditore, predicatoin quell’ultima sua notte. È un’imma-gine che colpisce in modo incancella-bile!”Certo, tali giudizi meritano di essereresi noti, perché i meriti rilevati nonpossono essere messi in discussione enon possono rimanere nel dimentica-toio né l’autore né chi ha curato e chio-sato l’opera, cui va il merito, fra l’al-tro, di avere avuto, lui solo, l’opportu-nità e l’onore di avere tra le mani lesudate carte di un tale personaggio. Noi speriamo che si torni a parlarneancora e che si possa avere l’opportu-nità, nel tempo, di avere altro materia-le su cui lavorare e riflettere.