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Calcutta È dopo una notte trascorsa a sentire il freddo del pavi- mento dell’aeroporto di Bombay (Mumbai) ? come non facevo da quando ero adolescente ? che si presenta ai miei occhi la città di Calcutta (Kolkata).Alla sala degli arrivi è un piacere vedere giocare i bambini tra di loro,rincorrer- si, chiamarsi, scoppiare a ridere. Il suono della loro allegria spumeggiante è guardato con sorridente tenerezza dagli adulti, famigliari e non. La vita non ingessata del subconti- nente indiano è, forse, meno igienicamente impeccabile di quella europea ma incommensurabilmente più calda e vi- vaddio imperfettamente umana, anche nelle sue puzze più prepotenti. Il mio reincontro con l’India è segnato dal cal- do appiccicoso, dallo strombazzamento incessante dei clacson, da un uomo colpito da elefantiasi e da uomini e bambini che si lavano con l’acqua dei tubi della rete idri- ca, tombino scoperchiato e acqua zampillante dal marcia- piede. La casa dei malati e morenti, il Nirmala Hriday, fondata da madre Teresa nel 1952, sorge accanto al Kaligath, il tem- pio dedicato alla dea Kali. La costruzione è semplice, nu- da, spartana. Soccorrevole e spiccio anche il modo di fare delle sorelle, le Missionarie della Carità, che vedo all’in- terno; sono cinque e si avvalgono della collaborazione di volontari provenienti da ogni parte del mondo. Per la ca- sa ci conduce suor Albenia, che ci illustra e spiega il loro lavoro.Al momento sono ricoverati 56 uomini e una cin- quantina di donne, che vivono in reparti separati. I rico- verati sono adagiati o seduti su letti di legno, ricoperti di una tela cerata verde da cui è facile rimuovere ogni liqui- do più o meno solido che il corpo umano sa produrre, ma che, col caldo che afferra questo paese in certi periodi, deve essere poco confortevole. Le suore vivono di donazioni e offrono accoglienza a chi è così povero da non avere non dico una casa ma nem- meno un ricovero per la notte e nessun famigliare che si occupi di lui o lei. Medicine e assistenza sanitaria sono di puro supporto. Non è un ospedale né una cli- nica; le suore non sono infermiere diplo- mate e la loro accoglienza non prevede una cura medica con diagnosi e prognosi. Il loro gesto è questa mano tesa e soccorrevole nel momento che accompagna il trapasso dalla vita alla mor- te; un gesto supremamente umano, umanissimo. C’è da chiedersi, nel paese da cui provengo, se sia possibile ri- conoscere ancora questo umanesimo così schietto talo- ra guardato con sospetto so- lo perché i nostri cuori sono foderati da una membrana più dura di un callo, le nostre teste, pri- gioniere del mito dell’efficienza. Ap- pena fuori dalla casa, alcune vecchie sono sdraiate come immemo- ri di se stesse, bambini piccolissimi corrono nudi e impolverati, un giovane col segno di Shi- va sulla fronte leg- ge un quo- tidiano, una capra si abbevera da una pozza di acqua sta- gnante; tutto esprime una spiccata trascuratezza, nelle co- se ? edifici, strade, negozi ? e nelle persone, o a dir meglio, un’inattaccabile noncuranza. Al Kalighat, il tempio di Kali, lì accanto, uno dei più sacri e venerati nel paese, si accede attraverso un percorso in vi- coli bui e stretti. Qui c’è il luogo, fatto di pietre sconnes- se e consumate, dove vengono sacrificati quotidianamen- te una ventina di capretti;di più nei giorni festivi.Tracce di sangue sono ovunque. Dietro, poggiato su un basamento di circa un metro, si erge il tempio vero e proprio, in cui non si può entrare. Dalle grate chiuse, riesco a intravede- re un grande ammasso nero che diventa via via più visibi- le: un’enorme bocca spalancata da cui fuoriesce una lin- gua che scende verso un corpo martoriato stretto fra le mani. È Kali, nel suo aspetto più terrifico; Durga, invece, è l’aspetto più pacifico e materno. Davanti alla stazione Sealdah di Calcutta, ci sono sdraiate una miriade di persone;sembra un campo-profughi più che lo spiazzo di una stazione ferroviaria. Una donna, davanti al monitor delle partenze, in mano una bottiglia e una sco- pettina con ninnoli da bambina o da strega, magrissima, parla con grande coinvolgimento ad un fantomatico in- terlocutore davanti a sé. Non conosco il sistema psichia- trico di questo paese, ma gli schizofrenici, o i “matti”, mi fanno tenerezza,ad ogni latitudine;inoltre es- si sanno con incredibile facilità smasche- rare tutti, buoni e maligni, colti e incol- ti, credenti, miscredenti e agnostici. Verso Darjeeling Percorsi i 570 chilometri che separa- no Calcutta da New Jalpaiguri, in tre- no, in cuccette 3+3.Al mattino, poco dopo l’alba, il lunghissimo convoglio tagliava risaie su risaie, con i conta- dini già al lavoro nei campi,finché non è apparso, letteralmente apparso, il Kanchenjunga, con la sua naturalis- sima guglia innevata, lì solitaria e svettante nel cielo. All’arrivo, si cambia mezzo di traspor- to, si procede in jeep. E si sale, si sale su per vallate interamente ricoperte di piantagioni da tè, verdissime, sterminate finché attraver- sando le strette e tor- tuose stradine di Ker- suong? una vera e propria prova di bravura per gli autisti? si scen- de e si entra nel I l respiro che esce fuori si interrompe, tutte le cose sono vuote, nude come lo spazio; c’è soltanto un’intelligenza immacolata, vuoto- luce che non ha circonferenza né centro; allora tu devi quella luce riconoscere. In essa stessa entra da te stesso. Io pure allora lo conoscerò” Il libro tibetano dei morti dal Bardo Tödöl 39 Dal viaggio Sikkim Bhutan AVVENTURE NEL MONDO • AVVENTURE NEL MONDO Testo di Maria Antonietta Nardone Foto di Claudio Basso Bhutan | Sikkim Bhutan Dochu la pass Prakhar Tsechu

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CalcuttaÈ dopo una notte trascorsa a sentire il freddo del pavi-mento dell’aeroporto di Bombay (Mumbai) ? come nonfacevo da quando ero adolescente ? che si presenta ai mieiocchi la città di Calcutta (Kolkata).Alla sala degli arrivi èun piacere vedere giocare i bambini tra di loro, rincorrer-si, chiamarsi, scoppiare a ridere. Il suono della loro allegriaspumeggiante è guardato con sorridente tenerezza dagliadulti, famigliari e non. La vita non ingessata del subconti-nente indiano è, forse,meno igienicamente impeccabile diquella europea ma incommensurabilmente più calda e vi-vaddio imperfettamente umana, anche nelle sue puzze piùprepotenti. Il mio reincontro con l’India è segnato dal cal-do appiccicoso, dallo strombazzamento incessante deiclacson, da un uomo colpito da elefantiasi e da uomini ebambini che si lavano con l’acqua dei tubi della rete idri-ca, tombino scoperchiato e acqua zampillante dal marcia-piede.La casa dei malati e morenti, il Nirmala Hriday, fondata damadre Teresa nel 1952, sorge accanto al Kaligath, il tem-pio dedicato alla dea Kali. La costruzione è semplice, nu-da, spartana. Soccorrevole e spiccio anche il modo di faredelle sorelle, le Missionarie della Carità, che vedo all’in-terno; sono cinque e si avvalgono della collaborazione divolontari provenienti da ogni parte del mondo. Per la ca-sa ci conduce suor Albenia, che ci illustra e spiega il lorolavoro.Al momento sono ricoverati 56 uomini e una cin-quantina di donne, che vivono in reparti separati. I rico-verati sono adagiati o seduti su letti di legno, ricoperti diuna tela cerata verde da cui è facile rimuovere ogni liqui-do più o meno solido che il corpo umano sa produrre,mache, col caldo che afferra questo paese in certi periodi,deve essere poco confortevole.

Le suore vivono di donazioni e offrono accoglienza a chiè così povero da non avere non dico una casa ma nem-meno un ricovero per la notte e nessun famigliare che sioccupi di lui o lei. Medicine e assistenza sanitaria sono dipuro supporto. Non è un ospedale né una cli-nica; le suore non sono infermiere diplo-mate e la loro accoglienza non prevedeuna cura medica con diagnosi eprognosi. Il loro gesto è questamano tesa e soccorrevole nelmomento che accompagna iltrapasso dalla vita alla mor-te; un gesto supremamenteumano, umanissimo. C’è dachiedersi, nel paese da cuiprovengo, se sia possibile ri-conoscere ancora questoumanesimo così schietto talo-ra guardato con sospetto so-lo perché i nostri cuori sonofoderati da una membrana piùdura di un callo, le nostre teste, pri-gioniere del mito dell’efficienza. Ap-pena fuori dalla casa, alcune vecchiesono sdraiate come immemo-ri di se stesse, bambinipiccolissimi corrononudi e impolverati,un giovane colsegno di Shi-va sullafronte leg-ge un quo-

tidiano, una capra si abbevera da una pozza di acqua sta-gnante; tutto esprime una spiccata trascuratezza,nelle co-se ? edifici, strade, negozi ? e nelle persone, o a dir meglio,un’inattaccabile noncuranza.Al Kalighat, il tempio di Kali, lì accanto, uno dei più sacri evenerati nel paese, si accede attraverso un percorso in vi-coli bui e stretti. Qui c’è il luogo, fatto di pietre sconnes-se e consumate, dove vengono sacrificati quotidianamen-te una ventina di capretti; di più nei giorni festivi.Tracce disangue sono ovunque. Dietro, poggiato su un basamentodi circa un metro, si erge il tempio vero e proprio, in cuinon si può entrare. Dalle grate chiuse, riesco a intravede-re un grande ammasso nero che diventa via via più visibi-le: un’enorme bocca spalancata da cui fuoriesce una lin-gua che scende verso un corpo martoriato stretto fra lemani. È Kali, nel suo aspetto più terrifico; Durga, invece, èl’aspetto più pacifico e materno.Davanti alla stazione Sealdah di Calcutta, ci sono sdraiateuna miriade di persone;sembra un campo-profughi più chelo spiazzo di una stazione ferroviaria. Una donna, davantial monitor delle partenze, in mano una bottiglia e una sco-pettina con ninnoli da bambina o da strega, magrissima,parla con grande coinvolgimento ad un fantomatico in-terlocutore davanti a sé. Non conosco il sistema psichia-trico di questo paese, ma gli schizofrenici, o i “matti”, mi

fanno tenerezza,ad ogni latitudine;inoltre es-si sanno con incredibile facilità smasche-rare tutti, buoni e maligni, colti e incol-ti, credenti, miscredenti e agnostici.

Verso DarjeelingPercorsi i 570 chilometri che separa-no Calcutta da New Jalpaiguri, in tre-no, in cuccette 3+3.Al mattino, pocodopo l’alba, il lunghissimo convogliotagliava risaie su risaie, con i conta-dini già al lavoro nei campi,finché nonè apparso, letteralmente apparso, ilKanchenjunga, con la sua naturalis-sima guglia innevata, lì solitaria e

svettante nel cielo.All’arrivo, si cambia mezzo di traspor-

to, si procede in jeep. E si sale, si sale super vallate interamente ricoperte di

piantagioni da tè, verdissime,sterminate finché attraver-

sando le strette e tor-tuose stradine di Ker-

suong? una vera epropria prova di

bravura per gliautisti? si scen-de e si entra nel

“I l respiro che esce fuori si interrompe,tutte le cose sono vuote, nude come lo spazio;

c’è soltanto un’intelligenza immacolata, vuoto-luce che non ha circonferenza né centro; alloratu devi quella luce riconoscere. In essa stessaentra da te stesso. Io pure allora lo conoscerò”

Il libro tibetano dei mortidal Bardo Tödöl

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Dal viaggioSikkim Bhutan

AVVENTURE NEL MONDO • AVVENTURE NEL MONDO

Testo di Maria Antonietta Nardone Foto di Claudio Basso

Bhutan | SikkimBhutan Dochu la pass

Prakhar Tsechu

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monastero

di Sonada, inauguratodal Dalai Lama in perso-na nel 2003. È una strutturadai colori vistosi, netti, laccati. Ibianchi, i rossi e i gialli creanoun’atmosfera di irrealtà, quasi di incongruo cartoon.Pochi i monaci che entrano da una parte, escono dall’al-tra, guardando incuriositi il viaggiatore straniero, armatodelle sue macchine fotografiche allungate dalle protube-ranze dei suoi potenti obiettivi. Saranno capaci questemacchine di cogliere qualcosa di sostanziale di queste ter-re e di queste persone e non solo delle immagini esteti-camente suggestive che cancellano o ignorano l’anima diquesti luoghi? Certo che l’immagine può raccontare; cer-to. Ma può raccontare anche a chi non conosce questomondo, a chi non sa codificarne i simboli, a chi non ne sala storia? Ci si può accontentare di essere solo dei carpi-tori di immagini senza conoscere, non dico capire, che èdecisamente più impegnativo? Forse, l’immagine, la foto-grafia può fungere da sprone per approfondire; è il primoimpatto, il primo approccio che necessita di comprensio-ne,memoria, spirito critico se si vuole che l’esperienza siaesperienza adulta e consapevole di un viaggiatore non in-genuo.La sala assembleare è ben tenuta, ordinata, nulla a che ve-dere con il “vissuto” dei monasteri tibetani, anche quelliappena ricostruiti, con l’odore quasi soffocante del burrodi yak, che rende scivolosi i pavimenti, e un’atmosfera divita in atto con quel disordine quotidiano così deliziosa-mente vivo e imprevedibile nella sua umanità. Fuori dallasala, ci sono dipinti dei mandala, dei guardiani dall’aspettoorrifico che serve a spaventare e tenere lontano gli spiri-ti maligni e poi un’altra cosmologia raffigurante il MonteMeru. In un’altra sala,due monaci suonano le lunghe trom-be dal caratteristico suono basso e gutturale. Fuori unadonna fa girare il suo mulino della preghiera mentre os-serva attenta quanto le accade intorno.Si riprende la via per Darjeeling, attraversando altre valla-te ricoperte di piante da tè per arrivare a Ghom nel mo-nastero di Yoga Cheoling.All’interno della sala assemblea-re,da un lato c’è la statua di Padmasambhava,dall’altro c’èquella di Chenresig, il Buddha della compassione, con lesue numerose teste che stanno a significare la conoscen-za, in mezzo l’enorme Buddha Maitreja, il Buddha del fu-turo.Ripresa la strada per Darjeeling, ad un tratto, alla mia si-nistra, appare in tutta la sua magnificenza il Kanchenjunga,

l’ottomila che dall’alto della sua can-dida altezza domina su tutte le cit-tadine di quest’area del West Ben-gala. In questa zona abitata so-prattutto da nepalesi iniziarono lerivolte e le sommosse di Gorka-land, la terra dei Ghurka, alla fi-ne degli anni ottanta, che porta-rono solo a qualche concessio-ne in ambito amministrativo lo-cale, mai ad una secessione e/o

indipendenza.Darjeeling, già ceduta dal Maharaja

del Sikkim al Governo dell’India, al-l’epoca del raj britannico, fu meta pre-

diletta dagli inglesi per la sua aria salu-bre ed anche per la sua posizione strate-

gica. Etimologicamente Dorje Ling significa“il luogo della folgore”. È 2130 metri sopra il

mare e il suo tè è tra i più prestigiosi del mon-do. Gironzolando per le sue vie non capisci be-

ne in quale paese ti trovi. Incroci di etnie: ci sono ibengalesi, che sono pochi, soprattutto impiegati e po-

liziotti, i Marvari, che sono soprattutto commercianti, irifugiati tibetani, i Lepcha (dal Sikkim) e i nepalesi. Incrocidi religioni: buddhismo e induismo, senza contare le pree-sistenti religioni animistiche. Incroci di lingue: bengalese,ghurka, hindi, tibetano, dialetto lepcha.A tratti, sembra diessere in uno stato himalayano, in altri momenti in qual-che bazar nepalese, e le tuniche rosso scuro con i mona-ci dai tratti mongoli si affiancano ai sari più colorati di si-gnore con la tika fra gli occhi e il sindur, la polvere rossacon cui le donne sposate si colorano la fronte e la scri-minatura dei capelli. Una confusione che potrebbe dis-orientare,a me,invece,porta benessere.Ogniqualvolta ve-do diverse modalità di vita, qui addirittura tante e conti-gue, mi rassereno perché constato che i modi di viveresono ancora tanti e inaspettati. È da qui, da Darjeeling cheindividui come Alexandra David-Nèel o Giuseppe Tucciorganizzavano le loro spedizioni trovando i capo-carova-nieri, i carovanieri, i portatori, gli animali. Da qui partiva-no per scoprire terre, popolazioni e tradizioni poco co-nosciute.La sera,nella piazza principale,Chowrasta (Piazza delle Ri-unioni), su un palco, si sono esibiti cantanti e ballerine, da-vanti ad una folla festante e danzante. Uno striscione so-pra il palco così recitava:«We want Gorkaland». La festaper le tradizioni e la rivendicazione del Gorkaland duratre giorni: venerdi, sabato e domenica.Vedere l’alba dalla Tiger Hill significa trovarsi in un car-naio. Solo il fascino a sé stante della montagna, che ac-quista un colore rosa vivo via via che il sole si alza,afferra la mente quando la luce si diverte a gioca-re con le scanalature della neve ghiacciata.Interessante la visita al museo della monta-gna con i ritratti di Hillary, il suo sherpaTenzin,Mallory,ma anche Messner e il du-ca degli Abruzzi. L’equipaggiamento, l’at-trezzatura, le macchine fotografiche del-l’epoca inducono all’ammirazione. Il mu-seo è all’interno del più importante zoodella città. E qui, in un ambiente naturale,seppur segnato dalle recinzioni, ho potu-to vedere l’orso bruno himalayano, il mi-tico leopardo delle nevi, la tigre del Ben-gala e il panda rosso.Il Centro dei Rifugiati Tibetani mi incupi-sce di colpo. Un centro poverissimo, tra-scurato, fondato nel 1959, dove i rifugiatilavorano producendo tappeti e altri manu-

fatti che poi vendono all’esterno; i loro prodotti si posso-no trovare nei banchi e nei negozi della città. Mi hannocolpito la povertà, lo stato di abbandono fisico e mentale? ho visto soprattutto vecchi ?. Nessuno sembra preoc-cuparsi veramente dell’agonia culturale a cui è sottopo-sto il Tibet ormai da un cinquantennio. Mi hanno colpito ivolti dei vecchi che hanno rughe che sembrano crepacci.Alcuni abbassano sguardi che sembrano drenati di ognisperanza. Perfino l’ufficio del management è chiuso e nonè stato possibile parlare con nessuno né della vita e del-l’attività del centro né della situazione dei tibetani in Ti-bet.

Alcuni flashes prima di lasciare Darjeeling: il monasterodi Mahakala, hindu, ma adornato di miriadi di cavalli-ven-to (bandiere buddhiste) a sventolare e brillare nel sole deltramonto, tra canti di preghiera, profumo di incenso, nelfitto degli alberi, dove dispettosissime ed acrobatichescimmie si arrampicano roteando e volteggiando nell’ariadorata. Al monastero di Druk Sang, i monaci bambini simuovono con grande velocità e leggerezza.Salgono e scen-dono scale, aprono e chiudono porte finché alcuni non simettono a spazzare il grande cortile di marmo bianco,cur-vi, in mano la tipica scopa senza manico. Da un punto al-tamente panoramico si vede l’incontro dei due fiumi, il Ti-sta e il Rangeet: due strisce verdi con increspature bian-che di diversa larghezza. Una vista che indurrebbe ad unamaggiore contemplazione, quasi ad un concentrato rac-coglimento, ma che è piacevole condividere con il buonumore dei miei compagni di viaggio. (...)

(...) Ripassiamo la frontiera dal Sikkim al West Bengala. La-sciamo alle spalle la foresta pluviale per villaggi, scuole, ri-saie su risaie, infinite piantagioni di tè, una tavolozza spet-tacolare di verdi e gialli della sterminata e orizzontale pia-nura indiana.Arrivo a Jaigaon, polverosa e brutta città di confine.

In BhutanDa Jaigaon ci portiamo a Phuentsholing, varcando così lafrontiera che dal West Bengala ci inoltra nel Bhutan. Adaccoglierci la guida Nidup, fresco reduce da un trekking alChomolhari che gli ha lasciato in ricordo una fortissimacongiuntivite, e l’autista che il mio orecchio afferra chia-marsi Yangtze, come il grande fiume cinese. Entrambi in-dossano il gho, l’abito tradizionale maschile. Ci prendonoin custodia e non ci molleranno fino alla fi-ne della permanenza in Bhutan. Il primoimpatto, venendo dall’India, è la pulizia

AVVENTURE NEL MONDO • AVVENTURE NEL MONDOBhutan | Sikkim

Elephant safari

Jampey Lhakhang Drup

(03-102) Articoli+Tac 22-09-2009 18:50 Pagina 40

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delle strade come delle persone, e l’assenza del continuostrombazzamento di clacson.Un primo tratto di strada è drasticamente dissestato dauna frana; ci sono escavatrici e ruspe al lavoro. Ma la cosache mi ha più impressionato è l’enorme quantità di spac-capietre sul ciglio della strada; spaccapietre nepalesi e in-diani, con un fazzoletto sul volto, che ogni giorno varcanoil confine per fare un lavoro da schiavi che i bhutanesi sirifiutano di fare.Ci sono bambini piccolissimi,deposti sot-to un ombrello che li ripari dal sole, e lavoranti che sem-brano adolescenti.Numerose le donne. Si è parlato a lun-go, in altri contesti, del “silenzio di Dio”, per esempio ri-guardo alla Shoah; davanti a questi uomini, donne e bam-bini, i cui occhi vivi spuntano dai fazzoletti come da inique,inaccettabili feritoie, a me viene da pensare alla “cecità diDio”. Oppure, più pertinentemente, più laicamente, all’in-sensibilità sociale verso lo straniero dei popoli e dei poli-tici che abitano in certe terre. (Intendiamoci: quello cheavviene nella nostra avanzatissima Italia non è da meno.Basti considerare come vengono trattati gli africani nellaraccolta delle arance,nella piana di Gioia Tauro,o nella rac-colta dei pomodori in Puglia).Prima di arrivare a Thimphu ? occorrono 175 chilometri? è un’esplosione di verde che ricopre le montagne chenoi circumnavighiamo o scavalchiamo per attraversarle.Boschi fitti di pini e conifere, qualche sparuta casa qua elà, vallate strette che sembrano imbuti risucchianti, di cuinon si vede il fondo, contro la maestosità del cielo attra-versato da nuvole irrequiete.Le case del Bhutan hanno le pareti dipinte di bianco, le fi-nestre e i tetti in legno ? le finestre con stipiti colorati ?mostrano quella stessa eleganza che hanno i bhutanesi ma-schi quando indossano il gho, il loro costume tradiziona-le. Ogni casa ha una stanza vuota, dedicata alla preghiera.Avanza il buio, dopo le cinque del pomeriggio. Quando laluna piena si stampa netta davanti ai miei occhi increduli,mi sembra di essere in un luogo irreale, quasi fatato. Unluogo di fiaba: il bosco, l’oscurità, l’immancabile prova dasuperare,manca poco che veda apparire gnomi ed elfi,Pol-licino o i sette nani. Per i bhutanesi è un luogo abitato dademoni e dèi che bisogna ingraziarsi con offerte; demoni

e dèi a cui chiedere il permesso di va-licare un passo, solcareun lago, attraversare unbosco, arrivare a desti-

nazione senzaincidenti.

Thimphu A Thimphu, con nostra gran-de sorpresa, molte case ededifici, hanno festoni di lucielettriche appese lungo lefacciate, come da noi a Na-tale. Pochi giorni fa è avve-nuta l’incoronazione ufficialedel re Jigme Khesar NamgyelWangchuck, dopo l’abdica-zione del padre, due anni fa.Molte le bandiere del paesedel Drago Tonante che sven-tolano per le vie, accanto agigantografie del nuovo, gio-vane re ventottenne e scritteluminose come «Lunga vita alnostro re». In città non ci sono semafori ? il traffico è di-retto da un poliziotto in guanti bianchi che sembra un in-crocio tra un mimo e un danzatore ? né cartelloni pub-blicitari. E la televisione è arrivata qui solo nel 1999.Il dopocena è al locale “The Hub” con musica dal vivo. Cisono giovani,vestiti in jeans e giubbotto,seduti ai divanettie ai tavoli che ascoltano un quartetto che suona una mu-sica tra l’elettronica e il neo-melodico bhutanese. In que-sto paese è proibito il fumo, ma non l’alcool. E chi ne abu-sa è presto riconoscibile dall’andatura sbilenca e una ri-sata instabile quanto l’andatura.In un mattino limpidissimo, dopo aver fatto la kora attor-no al Memorial National Chorten assieme ai pellegrini chesgranano rosari e fanno roteare il mulino di preghiera, sisale al tempio dedicato ai bambini, il più famoso della val-le, il Changankha Lhakhang. Qui si viene a pregare per ipiccoli malati oppure per dar loro il nome di Tenzin. Mol-te le offerte dei fedeli in denaro, ma anche in cibo e bibi-te. Al belvedere, che si trova sopra la torre della televi-sione, si è immersi in una selva multicolore di bandierinedi preghiera che svolazzano incessantemente e sonora-mente. Il monastero delle monache mi permette di vede-re monache bambine, adolescenti e adulte. Le adulte han-no un aspetto massiccio, marcatamente mascolino. Nidupmi dice che vengono dal Ladakh,parlano hindi ed è da mol-ti anni che vivono qui.

Nella valle del BumthangDa Thimphu a Jakar o Chamkar abbiamo superato quat-tro passi, dal Dochu La, dove una mattina tersa ci regalala vista dell’Himalaya bhutanese fino al Pele La e al YotongLa, per approdare alla valle del Bumthang dove si terran-no diversi Tecshu, i festival in cui si effettueranno le dan-ze sacre, dette cham.

Sabato 15 novembre, finalmente, intera giornata dedi-cata ai festival.Al mattino,al Jampey Lhakang,nella val-

le di Chokhor,ho assistito alla Danza del cervo e delcacciatore (Shawa Shachi) e alla Danza dei tambu-rini Drametsi (Drametsi Nga Cham).Costumi co-lorati,maschere, anche di cervi, pugnali che sem-brano spade, tamburini, cappelli conici e un mo-vimento rotatorio, circolare che accomuneràtutte le danze. Intorno, i bhutanesi con intere fa-miglie sedute sui cartoni, assistono divertite allecerimonie, e ridono soprattutto davanti agli“scherzi” dei buffoni, che come i buffoni di corte,penetrano e interagiscono con il pubblico. Ed ec-co la rappresentazione teatrale della fertilità, doveil vecchio del villaggio con un fallo di legno in ma-no, benedice tutte le giovani donne dei canti e deiballi.Tra la gente chi è vestito a festa, chi no, bam-bini che corrono, ridono, mangiano un frutto o undolcetto, tutti seguono le danze e i lazzi dei buffo-

ni con una mitezza e un sorriso che non eccede, con unarisata che non si fa mai rumorosa o pacchiana. Mantengo-no una grazia, anche nel divertimento, che non si può nonamare.Le donne hanno i capelli corti e non lunghi e stret-ti in elaborate acconciature come le tibetane.Al pomeriggio, nella valle di Chumey, al Prakhar Goemba,assisto ad altre danze. Queste sono coreograficamentepiù belle, i danzatori più agili. Ipnotico il loro moto circo-lare ? tracciano un cerchio magico da cui lasciar fuori glispiriti maligni ?,cadenzato da una musica fatta di fiati e per-cussioni varie. Ecco ora la Danza delle divinità adirate, ilDungtam.Tira un vento gelido eppure i danzatori hannogambe e braccia scoperti. Il coltello triangolare, che talu-ni brandiscono, è per tracciare questo cerchio magico. Ilbuffone di questa danza, impugnando un inverosimile fal-lo di legno rosso fuoco, si diverte a coinvolgere oltre aibhutanesi anche gli spettatori occidentali, con scherzi emimiche eloquentissime, decisamente audaci se si consi-dera che chi è travestito da buffone è un monaco del mo-nastero.Al mattino successivo, con un sole più generoso del suocalore rispetto al pomeriggio precedente, siamo di nuovoal Prakhar Goemba, per vedere la Danza delle otto mani-festazioni di Guru Rinpoche, il Guru Tshengay. E pensareche questi festival sono locali; durante quelli nazionali, co-me quello in primavera di Paro, le scuole sono chiuse el’affluenza è maggiore.Dalla valle di Chumey ci portiamo di nuovo nella valle diChokhor per varcare il portone dello Jakar Dzong. Fon-dato nel 1667 deve la sua posizione alla leggenda che vuo-le che lì si posò un grande uccello bianco, segno di buonauspicio. In una sala c’è una statua che raffigura l’unionedel maschile col femminile,di chiara origine tantrica,e die-tro due ali che si richiamano alla leggenda. Arriviamo didomenica, lo washing day, così che il monastero, che purospita 200 monaci,appare deserto eccetto un monaco ra-gazzino che ci ha aperto una sala e poco dopo si è quasiaddormentato su uno scranno.

Da Chamkar prendiamo un sentiero a piedi che ci por-ta al Kurjey Lhakhang (lha khang è la sala dove vi sono lestatue delle divinità), un complesso di templi enorme chedeve il suo nome all’impronta del corpo di Guru Rinpo-che, conservata in una grotta. Nel primo tempio ci sonole statue di Guru Rinpoche,Pema Lingpa e Drolma (Tara),più oltre mille statuette sempre di Guru Rinpoche. Que-sto complesso è antichissimo, nel suo cortile sono sepol-ti alcuni membri della famiglia reale, tuttavia mi ha stupi-to non trovare, all’interno, nemmeno una statua del Bud-dha a fronte delle innumerevoli statue del Guru Rinpoche,il grande diffusore del buddhismo tantrico, che nel VII se-colo entrò dalla valle dello Swat nel Tibet, d’accordo, maqui avverto forte l’impressione che si tratti di idolatria. Ecerto, in un pensiero come quello buddhista, pur con tut-

AVVENTURE NEL MONDO • AVVENTURE NEL MONDO Bhutan | Sikkim

Bimbi a Prakhar Tsechu

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te le sue varianti e diramazioni, proprio non me lo aspet-tavo.Tutta questa moltiplicazione di immagini e dèi è de-stinata a sparire, a dissolversi proprio in quella contem-plazione del vuoto a cui si aspira. Solo che per chi non èancora maturo, c’è bisogno di questo passaggio interme-dio dato dalle immagini. Perché non bisogna dimenticareche il buddhismo, quando nacque, fu una religione ostica,riservata a pochi, e trasmessa soprattutto da maestro adallievo. La via degli asceti è la più pura proprio per questo.Prevedeva uno sforzo eminentemente individuale per rag-giungere la liberazione definitiva. Con la nascita dei mo-nasteri e della diffusione popolare, la trasmissione, il rito,i simboli hanno corso il rischio di divenire atti magici, at-ti che eseguiti seguendo pedissequamente alcune regole,acquistavano un potere capace di intervenire sugli altri,perdendo così tutto lo sforzo individuale che l’individuoha da compiere se si vuole liberare dall’ignoranza, primomotore dell’errore, e infine dal giogo delle rinascite.Sempre a piedi, attraversando un ponte di legno dondo-lante, costellato di bandierine di preghiera, siamo arrivatial Tamshing Goemba, il tempio fondato da Pema Lingpa nel1507, colui che scoprì importanti scritture sacre buddhi-ste. Il tempio presenta una struttura molto originale. Lasala principale ha un corpo separato proprio al centro incui spiccano tre troni vuoti che sono riservati alle tre rein-carnazioni del fondatore: al momento, su due di essi vi so-no posate due fotografie.Anche qui, nella cappella più in-terna, vi è la statua dell’onnipresente Guru Rinpoche; aisuoi fianchi, però, vi sono le statue del Buddha del futuro(Maitreja) e del Buddha storico (Sakyamuni).Dal piano su-periore è possibile guardare la sala dall’alto, girando at-

torno ad una specie di balcone quadrato coperto: i tretroni dorati hanno da qui un aspetto più maesto-

so nonostante l’edificio non sia di

grandi dimensioni. Respiro però un’ariapiù raccolta, più genuina.Il momento più emozionante della giorna-ta è a sera, quando, venuti a sapere che inun monastero vicino alla nostra guest hou-se ci saranno delle preghiere, ci precipitia-mo lì, inoltrandoci nell’oscurità, per un’irtastrada in salita. In una sala poco illuminata,da cui pendono dall’alto però tangka me-ravigliosi, giovani monaci recitano i loromantra attenti,svegli, sicuri.Finita la pre-ghiera, escono fuori e prendono a can-tare. In fila nelle loro tuniche rosso bru-no,dietro, il nero della notte, alzano in-ni e canti che si disperdono nell’aria.Terminati, camminano radenti i muri ein un baleno si sparpagliano e svani-scono, come ombre evanescenti. Citroviamo, senza volerlo, solo perchéabbiamo seguito i monaci cantanti,da-vanti ad una sala vasta e illuminata.Al-l’interno, otto monaci stanno realiz-

zando un grande mandala di sabbia. So-no concentrati e precisissimi.Al mattino

studiano come tutti gli altri monaci e al po-meriggio vengono qui a costruire un mandala

che impiegheranno un mese a finire prima che sia dis-solto (a significare l’impermanenza dell’esistenza) dall’a-bate o da un’importante personalità del buddhismo.A Ro-ma, qualche anno fa, ne fu realizzato uno a Galleria Co-lonna e fu il Dalai Lama in persona ad avviarne il dissolvi-mento tracciando col dorje una linea obliqua che diedeinizio al dissolvimento.

Da Trongsa a PunakhaContinua la serie degli dzong (monastero-fortezza) da ve-dere, tra cui l’imponente Trongsa Dzong. Dopo la meravi-glia iniziale questi dzong appaiono molto simili l’uno al-l’altro, quindi sorprendono meno. Stessa sorte tocca alPhodrang Dzong di Wang Due, di cui ricorderò soprat-tutto la puzza di urina che sovrasta il collegamento tra uncortile e l’altro.Tutto cambia, invece, quando fin da lonta-no si intravede lo Dzong di Punakha (la vecchia capitale),il Khuruthang. Immaginifica la sua apparizione nella valla-ta che vede anche, sotto le sue mura, l’incrocio efferve-scente di due fiumi, il Mo Chu e il Po Chu. Si accede da uncolorato ponte di legno e, salite le ripide scale, si posanoi piedi nel primo cortile, quello dove accanto ad un can-dido chorten, c’è un grande albero della bodhi (dell’illu-minazione). Ricco, ricchissimo ? non per niente veglianosui suoi tesori, armati, seppur gentilissimi, soldati ? ha de-corazioni di porte, finestre, colonnati e portici molto ac-curate e ben tenute.Affreschi, immagini, simboli richiama-no ad altro come sempre accade nel variegato campo delpensiero buddhista.Ma è la sala assembleare con le statuedell’immancabile, veneratissimo Guru Rinpoche, gli affre-schi raffiguranti la vita del Buddha, le tante e minuziose de-corazioni oltre alle tre grandi statue dorate di Buddha,Gu-ru Rinpoche e lo Zhabdrung (il fondatore del Bhutan),cheincombono sull’intera sala, a stupire, a far tenere la testapiegata all’indietro e il fiato sospeso. Esempio di baroccobuddhistico, se così posso dire, il Khuruthang è uno dzongche mi rimarrà senz’altro impresso.Con Nidup, la nostra guida bhutanese, si ha all’inizio qual-che problema di comunicazione, non solo linguistica ? l’o-recchio va allenato al suo inglese non proprio chiarissimo?. Eppure è elegantissimo nel suo gho nero con i polsinibianchissimi, e la sciarpa cerimoniale bianca che indossasulle spalle ogni volta che entriamo in un monastero otempio o dzong particolarmente sacri. Religiosissimo, è

chiamato dai suoi connazionali “il vecchio”, ma ha solo 47anni. Si scioglierà solo negli ultimi due giorni quando in-contreremo al Kyichu Lhakhang la sua famiglia: la mogliee le due figlie. Dopo conosceremo anche sua sorella, cheandremo a trovare nella sua casa di Paro e che ci offriràuna bevanda alcolica locale simile alla grappa.Con una camminata in mezzo alle risaie raggiungiamo ilChimi Lhakhang in un paesaggio avvolto nella nebbia. For-me vaghe di covoni, case, recinti finché ecco materializ-zarsi, in linee ancora incerte, il tempio dedicato al FolleDivino,al secolo Drupka Kunley.L’atmosfera sfuggente do-na al luogo e al tempio un che di indefinito e malinconicoche mal si concilia con la figura scoppiettante ed eccen-trica del monaco di cui si favoleggia di leggendarie impre-se sessuali. Ma, tant’è. In questo tempio vengono le don-ne per ricevere una benedizione di fertilità. Il Folle Divinoha lasciato una cospicua mole di scritti, taluni decisamen-te licenziosi. E i giganteschi falli colorati che si trovano di-pinti sulle pareti delle case rappresentano proprio unomaggio alla sua figura.

Verso Paro e la Tana della TigreFortuna vuole che la mattina dell’ascesa alla Tana della Ti-gre, il Taktshang Goemba, avvenga proprio il giorno delladiscesa del Buddha sulla terra,il 19 novembre.Questo ren-de il giorno un’occasione per i pellegrini, vestiti a festa, disalire fino al monastero abbarbicato sulla roccia,in un equi-librio che sfida l’ingegneria più audace e che solo una fe-de radicata ha potuto concepire.Si avvia il trekking al mat-tino presto, prima che la meta sia presa d’assalto dai pel-legrini e dai viaggiatori occidentali. Il cammino nel sotto-bosco,poi all’aperto,poi per ripide ed esposte scale di pie-tra,offre scorci da urlo o da paese fiabesco.Preghiere scrit-te sulla roccia, cascate d’acqua tonante, ruote della pre-ghiera perennemente giranti,bandierine che dialogano colvento prima di innalzarsi nel cielo più remoto, il suono delmio respiro che si accorda col moto dei miei passi men-tre ascolto il linguaggio segreto delle foglie e dei loro fru-scii, tutto questo e altro rende la salita un’esperienza in-consueta,starei quasi per dire epifanica. Il mondo delle ap-parenze appare in tutto il suo splendore e la rivelazionedi un’armoniosa eppur aspra bellezza si stagliano con ni-tidezza di visione e persuasione di una qualche verità.

Giunti alla porta del monastero, grazie ad un permessospeciale di cui ormai si disperava, si riesce ad entrare e adassistere, seduti a gambe incrociate, alle preghiere canti-lenanti dei monaci, alle loro offerte ricevute di denaro, ci-bo e frutta.Vorrei non andarmene,vorrei rimanere qui, re-spirare più a lungo quest’aria, ascoltare i suoni che la Na-tura (che è come dire Dio) produce quando si è dispostiad ascoltarla, ma è tempo di riguadagnare la valle, insom-ma di scendere in tutti i sensi, da questa atmosfera trop-po sublime e rarefatta. La grotta in cui meditò Guru Rin-poche, veramente amatissimo e adoratissimo in questopaese,arrivato qui a cavallo di una tigre,come recita la leg-genda, è chiusa da una porta dorata ed ha all’interno sta-tue e ricchi ornamenti. Eppure non mi è difficile immagi-nare la grotta come dovette essere all’epoca, solitarissimaperché quasi inaccessibile, e dura, gelida, scura, aspra co-me la vita di ogni individuo dalle forti inclinazioni mistichee/o contemplative.

Chissà se Padmasambhava (io preferisco il suo nome insanscrito a quello in pali di Guru Rinpoche) e tutti gli al-tri asceti ritiratisi successivamente in questa grotta han-no raggiunto il grado più alto della samadhi oppure se svi-lupparono quelle capacità che li hanno portati a non sen-tire il freddo e il gelo, oppure a levitare così come seppe-ro fare alcuni mistici e asceti tibetani. Insomma, se riusci-rono, attraverso il controllo del respiro, a dominare talu-ne funzioni fisiologiche e a raggiungere altissimi gradi di

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paesaggio in Bhutan

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consapevolezza. L’uso regolato del respiro, permetteva, interre gelide come il Tibet, di trattenere il calore animalenel proprio corpo più a lungo e di poter così stare a me-ditare tra la neve ghiacciata indossando solo un telo di co-tone,come Milarepa, il cui nome significa appunto Mila ve-stito di tela. Ma è tempo di scendere e lasciare i miei pen-sieri a decantare silenziosi prima di riassaporarli al mio ri-torno notturno in hotel dove troveranno forma e grafiatra le pagine fitte dei miei appunti. Durante la mia uma-nissima discesa a valle lo sciame di pellegrini si intensificae la percezione della festa, di una festa condivisa, si fa piùnetta.Si ritorna sulla strada, sulle strettissime strade di questopaese dalle innumerevoli montagne, dove i veicoli si in-crociano al millimetro, da un lato la roccia o la vegetazio-ne, dall’altro il dirupo. Il Bhutan, questo vivissimo polmo-ne verde a ridosso dell’Himalaya, è uno stato che si man-tiene a distanza dal mondo globalizzato, e così, anche dal-l’inevitabile omologazione culturale.Il rischio però è un’in-genuità di fondo che può essere pericolosa.Chi è ingenuonon riconosce la propria ombra, i propri difetti, i lati oscu-ri e tende a proiettarli sugli altri. In questo paese invecedel Pil c’è il Fil (Felicità interna lorda) in inglese Gross Na-tional Happiness. Non sto scherzando è proprio così: ilgoverno, che poi sarebbe il re, si preoccupa oltre che del-l’istruzione, per tutti, dell’assistenza sanitaria gratuita, an-che di un tot di felicità riservata ai cittadini. Un esempio:se un progetto non porta un benessere all’intera comu-nità, non si realizza anche se economicamente sarebbefruttuoso. Sarebbe fin troppo facile fare dell’ironia su que-sto Fil. E non la faccio;mi astengo. Penso però che un pae-se che non ha risolto la situazione dei profughi nepalesi,oggetto di atteggiamenti razzistici,e che permette di schia-vizzare gli spaccapietre indiani, visti con i miei occhi, nonpuò avere di sé un’immagine di romantica e intatta inno-

cenza. Perché non corrisponde alla realtà.

Questa della felicità è una preoccupazione che si trovapersino nell’inno nazionale.«Mentre fiorisce la dottrina delSignore Buddha, possa il sole della pace e della felicità il-luminare il popolo». Karma Ura, il pensatore e scrittorebhutanese di maggior spicco, sostiene:«La felicità è fattadi relazioni». Oppure:«Non crediamo in questa felicità al-la Robinson Crusoe. La felicità non può che essere rela-zionale». Ebbene a questa conclusione giunse, tra i tanti,anche l’americanissimo Cristopher McCandless, appenaventiquattrenne, immortalato dal film di Sean Penn “Intothe Wild”, quando scrisse sul suo taccuino poco prima dimorire tra i ghiacci dell’Alaska:«La felicità è reale soloquando è condivisa». Come a dire che la profondità o labontà di un pensiero non sono appannaggio di una solacultura, di un solo paese, di una sola epoca.Lo Dzong di Paro, ricco di intarsi e decorazioni di granderaffinatezza, illuminato da una incantata luce del pomerig-gio, io lo ricordo soprattutto per un episodio che mi è av-venuto. Presa dall’allegria dei bambini a cui stavo facendodei ritratti fotografici, mi sono distratta e così mi è sfug-gito di mano il tappo dell’obiettivo della mia fotocamera.Il tappo è rotolato fino ad insinuarsi nella fessura del pon-te di legno su cui stavo ed è precipitato nelle acque delfiume sottostante. I bambini, tutti vestiti nei loro gho, pri-ma l’hanno avvistato dall’alto, poi si sono messi a correre,sono scesi dal ponte, sono entrati nel fiume, e, recupera-to il tappo,sono risaliti,portandomelo sul palmo delle ma-ni unite e alzate, come se portassero un’offerta preziosa,esprimendo grande soddisfazione e contentezza. Maiquanto la mia nel sentire quella generosità di slancio chenon sempre si sperimenta nella propria vita quotidia-na.Tenerissimi e bellissimi i loro sorrisi, i loro volti,unacartina di tornasole di un intero popolo; il se-gno della loro amabile gentilezza.

Al Kyichu Lhakhang, assistiamo ad una cerimonia di of-ferte, benedizioni e preghiere officiata dal Lama di Paro.Momento autentico, tutto bhutanese, di religiosità vissu-ta. Le offerte in cibo, frutta e bibite raccolte dai monaci,saranno distribuite due giorni dopo ai più bisognosi. Untappeto di persone, sedute per terra, che pregano, chi colsuo mulino di preghiera, chi senza. Quanto è benefico ve-dere persone che pregano senza vergognarsi così comeaccade nella mia un po’ cinica Europa,così smaliziata e co-sì infelice per non dire depressa. Finché ci saranno perso-ne che pregano senza vergognarsi ed eremiti che vivonoe si allontanano dal mondo nella loro grotta, la conviven-za umana ha qualche chance in più, e la salvezza, la salvez-za escatologica può essere ancora contemplata. Perché ladevozione, l’atteggiamento mentale della devozione, at-tiene senz’altro alla sfera del sacro, ma è benefico anchealla nostra psiche, ad una vita sana della nostra psiche. Epotrei dire con Ramakrishna, il mistico indiano dell’otta-vo secolo, che è bene «inginocchiarsi dove gli altri si so-no inginocchiati perché, dove gli altri si sono inginocchia-ti, là è la presenza di Dio».

RingraziamentoRingrazio tutti i miei compagni di viaggio per gli stimoli el’allegria, ricordando: la dolcezza di Lorella, la sensibilità diGiusy, l’atletico e spiritoso Gianluigi, la mitezza di Esther,la verve frizzante di Viviana, nonostante un suo terribiledolore, la vis polemica di Rosa, la capacità affabulatoria diVincenzo, enciclopedica ed instancabile, il coraggio di Or-nella, l’eleganza del nostro Lord inglese Fausto, la flemma

sorniona di Adriano, i due incalliti fotografi, l’avvol-gente Massimo e il bel-misterioso Maurizio, i silenzi

di Enrico,le puntualizzazioni di Nilde e la gestionepiacevolmente non autoritaria dell’asceti-

co eppur efficiente Claudio.

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