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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 4.Cap CAPITOLO IV. GESÙ NELL’ORIZZONTE ERMENEUTICO DELL’ATTESA ESCATOLOGICA 1. La ricostruzione della vita di Gesù dei «teologi liberali» Le argomentazioni critiche degli autori finora considerati portavano a negare una ricostruzione storica attendibile della vicenda di Gesù. Le più disparate ipotesi sacrificavano la storia di Gesù ai grandi principi che le ispiravano. Gesù diventava concrezione mitica o letteraria di un sistema ideale e creativo, frutto del pensiero e della scrittura più o meno artistica di un singolo autore come Giovanni o l’epilogo di una concrescenza di tradizioni leggendarie successivamente raccolte dai sinottici. In questo modo, non solo la storia di Gesù, ma anche ogni possibilità di attingerla andavano dissolte. Ciononostante, nell’area della teologia evangelica tedesca, si cominciò ad affermare una tendenza che, reagendo all’idealismo e alla ipotesi letteraria, si propose una riscrittura della vita di Gesù a partire da due obiettivi: dimostrare l’accessibilità della sua sua storia e indicare il Maestro della Galilea come supremo ideale dell’uomo e della umanità. La prima operazione sembrava essere agevolata dalle nuove ipotesi biblico-letterarie, che consentivano di affermare la storicità di almeno una parte dei documenti sinottici. Si attribuì a Marco il nucleo della tradizione più antica, e quindi, più attendibile 1 , mentre cominciò a prendere consistenza l’ipotesi che il materiale di Matteo e di Luca di non derivazione marciana, risalisse ad un’altra fonte, che fu chiamata fonte Q (dalla parola tedesca Quelle, fonte). Fu pertanto ritenuta valida l’ossatura storica di Marco, poi ripresa da Matteo e da Luca, riconducibile e questi avvenimenti: 1) il battesimo, in cui Gesù prende coscienza della sua messianicità; 2) la conseguente e progressiva manifestazione di tale messianicità fino alla confessione di Pietro a Cesarea di Filippo; 3) il contrasto tra la messianicità di Gesù e le attese popolari, da una parte, e tra Gesù e le autorità giudaiche, dall’altra; 4) il precipitare di questi due conflitti, fino al rifiuto di Gesù da parte del popolo e delle autorità, ritrovatesi coalizzate nel chiedere la sua morte 2 . In questa ricostruzione, che sembra avere una sua plausibilità interna, difetta però un elemento storico fondamentale: la concezione escatologica di Gesù. Le vite di Gesù di stampo liberale, compilate con l’intento di un dialogo con la cultura del tempo, che attribuiva una grande importanza agli ideali etici umanitari e sociali, hanno la spiccata propensione a vedere in Gesù principalmente colui che incarna al sommo grado proprio questi ideali, ma dimenticano la sua predicazione del Regno di Dio ed tutto ciò che essa significa. La conseguenza è una destoricizzazione del messaggio di Gesù. Il regno da lui predicato è inteso solo come realtà morale ed interiore, e ciò sarebbe alla base del grande e fatale fraintendimento del popolo. Non si discostano da questo indirizzo autori come H. J. Holzmann, del quale si è messa già il luce il carattere eminentemente spiritualistico del logion sul giudizio, e più tardi A. von 1 Lo affermano, ad es., K. Lachmann, nel 1835 e G. Wilke, nel 1838. 2 Questo schema storico complessivo si trova con molta chiarezza in:H. J. HOLZMANN, Die synoptischen Evangelien, Leipzig 1863. 36

CAPITOLO IV. GESÙ NELL’ORIZZONTE ... - puntopace.net · Che cosa resta allora storico della vita di Gesù? Per Wrede resta il fatto che Gesù si presenta come maestro e, come tale,

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 4.Cap

CAPITOLO IV. GESÙ NELL’ORIZZONTE ERMENEUTICO DELL’ATTESA

ESCATOLOGICA

1. La ricostruzione della vita di Gesù dei «teologi liberali»

Le argomentazioni critiche degli autori finora considerati portavano a negare una ricostruzione storica attendibile della vicenda di Gesù. Le più disparate ipotesi sacrificavano la storia di Gesù ai grandi principi che le ispiravano. Gesù diventava concrezione mitica o letteraria di un sistema ideale e creativo, frutto del pensiero e della scrittura più o meno artistica di un singolo autore come Giovanni o l’epilogo di una concrescenza di tradizioni leggendarie successivamente raccolte dai sinottici. In questo modo, non solo la storia di Gesù, ma anche ogni possibilità di attingerla andavano dissolte.

Ciononostante, nell’area della teologia evangelica tedesca, si cominciò ad affermare una tendenza che, reagendo all’idealismo e alla ipotesi letteraria, si propose una riscrittura della vita di Gesù a partire da due obiettivi: dimostrare l’accessibilità della sua sua storia e indicare il Maestro della Galilea come supremo ideale dell’uomo e della umanità.

La prima operazione sembrava essere agevolata dalle nuove ipotesi biblico-letterarie, che consentivano di affermare la storicità di almeno una parte dei documenti sinottici. Si attribuì a Marco il nucleo della tradizione più antica, e quindi, più attendibile1, mentre cominciò a prendere consistenza l’ipotesi che il materiale di Matteo e di Luca di non derivazione marciana, risalisse ad un’altra fonte, che fu chiamata fonte Q (dalla parola tedesca Quelle, fonte).

Fu pertanto ritenuta valida l’ossatura storica di Marco, poi ripresa da Matteo e da Luca, riconducibile e questi avvenimenti: 1) il battesimo, in cui Gesù prende coscienza della sua messianicità; 2) la conseguente e progressiva manifestazione di tale messianicità fino alla confessione di Pietro a Cesarea di Filippo; 3) il contrasto tra la messianicità di Gesù e le attese popolari, da una parte, e tra Gesù e le autorità giudaiche, dall’altra; 4) il precipitare di questi due conflitti, fino al rifiuto di Gesù da parte del popolo e delle autorità, ritrovatesi coalizzate nel chiedere la sua morte2.

In questa ricostruzione, che sembra avere una sua plausibilità interna, difetta però un elemento storico fondamentale: la concezione escatologica di Gesù. Le vite di Gesù di stampo liberale, compilate con l’intento di un dialogo con la cultura del tempo, che attribuiva una grande importanza agli ideali etici umanitari e sociali, hanno la spiccata propensione a vedere in Gesù principalmente colui che incarna al sommo grado proprio questi ideali, ma dimenticano la sua predicazione del Regno di Dio ed tutto ciò che essa significa.

La conseguenza è una destoricizzazione del messaggio di Gesù. Il regno da lui predicato è inteso solo come realtà morale ed interiore, e ciò sarebbe alla base del grande e fatale fraintendimento del popolo. Non si discostano da questo indirizzo autori come H. J. Holzmann, del quale si è messa già il luce il carattere eminentemente spiritualistico del logion sul giudizio, e più tardi A. von

1 Lo affermano, ad es., K. Lachmann, nel 1835 e G. Wilke, nel 1838.2 Questo schema storico complessivo si trova con molta chiarezza in:H. J. HOLZMANN, Die synoptischen Evangelien, Leipzig

1863.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 4.CapHarnack (1851-1930), che precisa ulteriormente l’impatto etico della predicazione del regno, fino a indicarne gli ambiti quotidiani: mondo, famiglia, diritto, lavoro ecc.3.

2. Gesù nelle attese messianiche storiche del suo tempo

Le storie di Gesù di stampo liberale mancano in realtà di nerbo storico. Non sarà difficile essere d’accordo con Schweitzer, che recensendo meticolosamente l’impresa di questi teologi, così scrive, a proposito della seconda vita di Gesù, dai tratti chiaramente liberali, di D. F. Strauss:

«Questa brutale spiritualizzazione del Gesù sinottico fa sì che in realtà l’immagine straussiana di Gesù sia molto meno storica di quella di Renan»4.

Sembra un giudizio inesorabile, eppure sostanzialmente lo si può condividere per tutti gli autori di questa tendenza, la quale, come si è visto, si affaccerà anche in epoca più recente.

L’escatologia, quando è ancora trattata, conserva questo carattere spiritualista, sullo scorcio del 1800, allorquando si allargarono gli studi biblici al confronto con le altre religioni del passato. Non riescono ad oltrepassare questa soglia né W. Baldensperger5 e nemmeno J. Weiss6, sebbene si debba ad autori come loro la messa a fuoco dell’autocoscienza messianica di Gesù nel contesto del pensiero apocalittico del tardo giudaismo.

J. Weiss indicava, dal canto suo, il nocciolo della predicazione di Gesù nell’annuncio della fine imminente del mondo, consentendo a tutta la ricerca storica di porre il terzo aut-aut, come si esprime Schweitzer: dopo quello di Strauß (o pura storia o pura sopra-natura) e quello della teoria letteraria e di Holzmann (o i sinottici oppure Giovanni), il terzo era: o l’escatologia o la sua negazione7.

L’opera di Gesù, affermano questi autori, non mira a fondare il regno di Dio, ma si limita ad annunciarlo. Non ha nessun carattere storico, né tanto meno politico. Proclama non la nuova etica del regno, ma solo un’etica che aiuti gli uomini a liberarsi dai vincoli e dalle preoccupazioni del mondo per entrare nel regno di Dio. Si proietta verso un futuro e in quest’ottica è da leggersi la ripresa dell’espressione «figlio dell’uomo», che Gesù applica a se stesso.

3. La negazione della storicità della coscienza messianica di Gesù e le sue conseguenze

Le ricostruzioni storiche degli ultimi autori si basano, alla pari di quelle degli autori liberali, sulla presunta storicità del Vangelo di Marco e della coscienza messianica di Gesù ivi espressa. Questo presupposto riceve però un duro colpo, proprio agli inizi del secolo, quando W. Wrede sembra arrivare a dimostrare che una simile concezione messianica di Gesù non è storicamente attendibile nemmeno nel vangelo di Marco, giacché la sua formulazione è redazionale. Se non va attribuita all’evangelista, va però ascritta a una precedente tradizione, nella quale una cerchia di persone impregnate di escatologia, aveva operato un’interpretazione messianica della vita Gesù.

3 A. VON HARNACK, Das Wesen des Christentums, Leipzig 1901 (trad. ital. L’essenza del Cristianesimo, Brescia 1980.4 A. SCHWEITZER, La storia della ricerca..., op. cit., 290. L’opera di Strauss è Das Leben Jesu für dal deutsche Volk bearbeitet, Leipzig

1864.5 Cfr. Das Selbstbewustsein Jesu im Lichte der messianischen Hoffnungen seiner Zeit, (1888) (L’autocoscienza di Gesù alla luce delle

speranze messianiche del suo tempo)..6 Cfr. Die Predigt Jesu von Reich Gottes(1892)(La predicazione di Gesù sul regno di Dio)..7 A. SCHWEITZER, Storia della ricerca..., op. cit., 326.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 4.CapIl segreto messianico nei vangeli8, secondo il quale Gesù impone ai demoni, agli ammalati guariti ed

ai suoi discepoli di non manifestare la sua vera natura, non è mai esistito sulle labbra di Gesù. È frutto di una tradizione successiva, afferma Wrede, perché proviene da una rilettura della storia di Gesù alla luce della risurrezione. È pertanto redazionale e non storico.

Che cosa resta allora storico della vita di Gesù?

Per Wrede resta il fatto che Gesù si presenta come maestro e, come tale, raccoglie intorno a sé un gruppo di discepoli, dei quali alcuni sono più amici e confidenti. Egli conduce una vita errabonda, nella quale incontra spesso le folle ed anche gli ammalati, che guarisce. Il suo insegnamento non solo si distingue da quello dei farisei, ma si scontra con essi e ciò gli sarà fatale, perché, una volta arrivato a Gerusalemme, proprio i farisei, complice il potere romano, riusciranno a farlo eliminare.

Le reazioni a questa radicale destoricizzazione messianico-escatologica non si fanno attendere, anche se non arrivano a valutare appieno il valore dell’escatologia. C’è chi, riprendendo la ricerca in una contestualità di comparazione religiosa, cerca i motivi della sublimazione teologica del Gesù storico alla luce del mito del «figlio di Dio» dell’ellenismo dell’epoca9 e chi vede la predicazione di Gesù come annuncio di una comunità d’amore, cui solo successivamente sono stati riconosciuti i caratteri del messianismo escatologico10.

4. Il Gesù della storia non nasconde il Cristo della fede?

L’acceso dibattito sui tratti storici di Gesù di Nazareth sembrava non aver tregua, soprattutto in Germania. Le vecchie ipotesi venivano superate e negate con sempre nuove proposte, che non di rado, ripescavano proprio in quelle precedenti i pezzi fondamentali per una nuova ricostruzione, dalla durata comunque effimera. Ognuno assicurava di aver nuovi argomenti probanti per la propria tesi e questa specie di gioco delle costruzioni rendeva sempre meno credibile l’ipotesi di fondo, che tutti davano per scontata: che esistessero dei dati storici certi, capaci di dare una spiegazione dello svolgersi degli eventi evangelici.

Alcuni reagirono a questo stato di fatto propugnando l’irrilevanza teologica di ogni ricerca storica. È nota la posizione di M. Kähler, il quale giungeva ad affermare che il Gesù della storia, sottostante ai sinottici, ci nasconde il Cristo della fede, perché il Cristo vivo e reale è quello che è stato predicato e non quello storico. Apriva inoltre una cesura ulteriore tra storiografico e storico, rivendicando la storicità al Gesù della predicazione e della Bibbia11. Ma, escludendo ogni autenticità storiografica, pur nell’intento di sottrarre il Cristo all’arbitrarietà delle ricostruzioni finora esaminate, egli sanciva e giustificava teologicamente una netta frattura tra la storia di Gesù e la storia dell’interpretazione nella fede. Insomma, sia l’interpretazione di Wrede sia quella di Kähler convergono, alla fine, su questo punto: rendono incomprensibile e storicamente ingiustificabile quella continuità che noi invece riteniamo essenziale perché la fedeltà a Gesù sia motivata e contestualizzata nella fedeltà di Gesù, di colui che è il «testimone fedele».

8 Questa la traduzione dell’opera rivoluzionaria, che si propone anche di essere parimenti un contributo alla comprensione del vangelo di Marco: W. WREDE, Das Messiasgeheimnis in den Evangelien. Zugleich ein Beitrag zum Verständnis des Markusevangeliums, Göttingen 1901.

9 Cfr. W. BOUSSET, Die Religion des Judentums im neuetestamentlichen Zeitalter, Berlin 1903.10 Wellhausen riprende questa idea nell’introduzione ai sinottici, redatta nel 1905, dopo averla già proposta in: J.

WELLHAUSEN, Israelitische und Jüdische Geschichte, Berlin 1894..11 Già il titolo del contributo esprime questo taglio di distacco polemico: Der sogennante historische Jesus und der geschichtliche

biblische Christus, Leipzig 1892.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 4.CapIn questo modo, la reazione apologetica di un ortodosso come Kähler viene a dare una mano

proprio ai teologi liberali che egli vuole combattere. C’è una via d’uscita? L’unica che appare praticabile ad A. Schweitzer è quella di prendere sul serio il contesto escatologico in cui si colloca la predicazione di Gesù, riconoscendone la continuità teologica, come continuità storica.

5. A. Schweitzer e l’interpretazione escatologica

5.1. Il bilancio critico di Schweitzer sulle opere sul Gesù storico

Albert Schweitzer si può considerare l’autore più impegnato e meglio informato che affronti il problema del Gesù storico agli inizi del nostro secolo12. Reagendo alla situazione in cui ristagnava ormai la problematica storica su Gesù, egli si propone, inizialmente, di prendere in considerazione tutto ciò che è stato scritto sull’argomento, dall’apparizione dei Frammenti di Reimarus fino a Wrede, e di farne un bilancio critico. Nasce così la sua opera imponente Storia della ricerca sulla vita di Gesù13, che, nella prima edizione, indica espressamente l’arco della sua indagine: «Da Reimarus a Wrede».

L’assunto di partenza di Schweitzer è spirituale e scientifico insieme. Ne abbiamo una prova nella sua autobiografia:

«Mi confortavano ... le parole dell’apostolo Paolo, a me familiari fin dall’infanzia: “Non possiamo nulla contro la verità, ma solo per la verità” (2 Cor. 13, 8). Poiché l’essenza dello spirituale è verità, ogni verità implica alla fine una conquista. In ogni circostanza la verità è più preziosa della non verità. E ciò vale anche per la verità storica. Anche se essa riesce sgradevole alla devozione creandole dapprima difficoltà, il risultato finale non può mai comportare un danno, bensì soltanto un approfondimento. La religione non ha dunque alcun motivo per evitare il confronto con la verità storica»14.

Con queste premesse, l’autore si accinse a dipanare l’aggrovigliata matassa dei tentativi storici su Gesù apparsi fino a quel momento. La sua recensione mette in luce gli apporti di ciascun autore e ne individua le lacune. Il confronto diventa più serrato quando è in gioco la concezione escatologica di Gesù, la cui storicità Schweitzer afferma con vigore. Demolendo punto per punto le tesi degli storici liberali, egli lascia affiorare l’unica alternativa possibile, senza della quale non si può sostenere la coscienza messianica di Gesù e, di conseguenza, nemmeno la storicità del racconto di Marco. Riportato il discorso dal piano descrittivo e psicologizzante a quello storico-teologico, il problema diventa individuare i tratti storici di quella teologia che impregna attualmente il testo evangelico, soprattutto sinottico. Schweitzer accoglie, con buone ragioni letterarie e logiche, la tesi della storicità della concezione escatologica marciana. Riprende quindi alcuni risultati dell’escatologia di J. Weiss e concentra il suo confronto con le affermazioni di W. Wrede che destoricizzano la messianicità.

12 Riteniamo utili alcune annotazioni biografiche su un autore che è riuscito a ben incarnare l’ideale del teologo, dedito seriamente allo studio e contemporaneamente all’impegno sociale, sapendo sempre attingere da una robusta spiritualità biblica e dall’amore per gli uomini e persino dall’arte, le sue motivazioni più profonde. Schweitzer era nato il 14.1.1875 a Kaysasberg (Alsazia). Teologo e musicologo, interprete molto apprezzato di Bach, consegue la laurea in medicina e si dedica all’assistenza dei lebbrosi nel Congo francese (oggi, Gabon). Insignito del premio Nobel per la pace nel 1952, muore il 4.8.1965.

13 L’opera, qui citata nella traduzione italiana del 1986, era apparsa nel 1906, a Tubinga, con il titolo Geschichte der Leben-Jesu-Forschung ed ebbe subito una vasta risonanza internazionale.

14 A. SCHWEITZER, La mia vita e il mio pensiero, Comunità, Milano 1983 (3.a), 53.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 4.Cap5.2. L’ermeneutica escatologica di A. Schweitzer

Contro l’intepretazione riduttiva di Weiss, Schweitzer sostiene che tutta la predicazione, tutta l’attività e tutta la vita di Gesù sono profondamente ed intimamente impregnate di escatologia. Contro la concezione di Wrede sull’insegnamento itinerante di Gesù, egli dimostra che solo una concezione teologica, che attinge nelle concezioni dell’epoca l’attesa di un imminente giudizio con la venuta del «figlio dell’uomo», può dar ragione storica della coscienza messianica di Gesù. Egli commenta:

«È francamente inspiegabile che la scuola escatologica, dopo aver intuito il carattere escatologico della predicazione del regno, non abbia al tempo stesso pensato l’’elemento dogmatico’ nella storia di Gesù. L’escatologia non è nient’altro che storia dogmatica, la quale irrompe in quella naturale e la supera»15.

L’affermazione del carattere storico ed insieme teologico (chiamato dogmatico) è dunque netta.

In quest’humus storico-escatologico, Schweitzer segue l’evolversi della vicenda di Gesù a partire dal Battesimo fino alla crocifissione. Pertanto, afferma, Gesù condivide con Giovanni l’attesa della venuta imminente del regno di Dio e ritiene urgente la preparazione degli uomini a quest’evento.

Si tratta di un regno dove ci sono distinzioni tra gli eletti (più grandi e più piccoli) e dove anche il più umile e più povero può diventare il Signore dell’era messianica. In questo contesto, è da ritenersi storico anche il titolo di «figlio di Davide» attribuito a Gesù, giacché il Messia sarà un discendente di Davide trasformato nel «figlio dell’uomo» che irromperà sulle nubi, secondo la visione di Daniele. Questo credeva la gente, e questa fede condivide Gesù, che applica a sé questa doppia prerogativa, anche se svela la sua identità messianica gradualmente.

Per questa ragione Schweitzer giudica storico anche il segreto messianico contestato da Wrede. Rispettoso del testo sinottico, egli ritiene che l’attività pubblica di Gesù non sia durata a lungo, ma solo il tempo trascorso in Galilea, con una propensione, da parte di Gesù più ad evitare che a cercare le folle. In questa logica, l’autore spiega il segreto messianico, i diversi tentativi di sottrarsi alla folla che lo cerca lungo il lago e altrove, e il velamento del messaggio attraverso le parabole. Il segreto consisterebbe, di conseguenza, nella coscienza che Gesù ha di essere il Messia che sta per manifestarsi nella venuta repentina del regno. È un regno che apparirà all’improvviso e solo per iniziativa di Dio, senza che l’uomo sappia come, in conformità con le parabole che lo illustrano.

Secondo Schweitzer, Gesù è convinto, in questa prima fase, che il regno verrà prima ancora che i discepoli, da lui mandati ad annunciarne l’irruzione nel mondo, abbiano finito di attraversare le città d’Israele (Mt 10, 23). Perciò ascrive a questo momento il discorso sulle sofferenze escatologiche e sull’effusione dello Spirito. Ma dal momento che nulla di tutto questo si verifica e che gli apostoli ritornano da Gesù, Schweitzer ritiene che a partire da quell’istante Gesù abbia evitato il contatto con le folle, concentrando sempre più sulla sua persona proprio l’idea di una sofferenza che possa avviare la tribolazione messianica (peirasmòs). Guardando alla sorte del Battista e dei profeti, Gesù allora modella la sua vita e la sua fine sulla loro vita e sulla loro fine. Schweitzer spiega in questo modo la decisione di andare a Gerusalemme e la rivelazione ai discepoli della sofferenza che ivi l’attende. Gesù intraprende questo viaggio sapendo ciò cui va

15 A.SCHWEITZER, Storia della ricerca..., 495.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 4.Capincontro, ma con una motivazione teologica e non psicologica: perché la sua tribolazione possa scatenare il peirasmòs del giudizio di Dio e favorirne l’irruzione. Schweitzer precisa:

«Appare nuovamente chiaro che per Gesù esiste solo la necessità dogmatica e non storico-empirica della morte. Sopra la necessità dogmatico-escatologica sta ancora l’onnipotenza incondizionata di Dio»16.

È la necessità del segreto messianico confessato davanti al sommo sacerdote e che precedentemente era stato svelato al Sinedrio, da Giuda, proprio da uno dei dodici, l’unico gruppo di persone che ne erano al corrente insieme con lui. Per l’appunto lo svelamento di questo segreto davanti all’autorità religiosa giudaica e poi davanti a quella politica romana, conclude l’autore, porterà Gesù alla crocifissione.

5.3. L’escatologia di Schweitzer tra storia ed etica

L’analisi storica di Schweitzer è tra le più accurate e le più appassionate finora apparse. Egli non solo ha intuito, ma ha anche dimostrato che non si può seriamente parlare di coscienza storica di Gesù, senza collegarla immediatamente ad un contesto teologico che lo precede e lo accompagna. In questo modo, l’autore ricompone una continuità che avevamo visto sovente spezzata, tanto con il mondo giudaico che con la coscienza degli stessi discepoli e, attraverso di loro, con la comunità cristiana primitiva. L’orizzonte escatologico in cui Gesù si muove sembra essere abbastanza convincente, perché giustifica molti avvenimenti di quella vita singolare, attraverso la quale, secondo l’autore, noi abbiamo ricevuto la rivelazione della perfezione etica universale17.

E tuttavia proprio questa sottolineatura etica diventa uno dei suoi punti deboli, peraltro abbastanza comprensibile, per l’epoca in cui l’autore scriveva. L’obiettività storica, che comunque è sempre incastonata in un’ermeneutica e, nel nostro caso, in un contesto teologico, è come se con Schweitzer subisse una levigatura eccessiva. L’escatologia messianica non è certamente in lui quella spiritualeggiante di Weiss o di Harnack. Schweitzer si lascia definitivamente alle spalle un’ermeneutica preoccupata solo dell’affermazione del messaggio etico, dietro la coscienza storica di Gesù. Disegna un ambito storico-teologico, che per quanto possa riuscire sgradevole alla sensibilità moderna, è ancorato all’epoca in cui si svolsero in fatti più che alla nostra. Eppure, quest’operazione non riesce del tutto, perché proprio nell’attualizzazione di quell’ermeneutica, lo stesso Schweitzer manifesta tendenze spiritualiste, che egli, retrospettivamente, è portato a vedere anche in Gesù.

Schweitzer ammette con un certo candore:

«Così è destino del cristianesimo svilupparsi in un costante processo di spiritualizzazione»18.

Nonostante la concretezza e la realtà storica, alle quali fa riferimento, anche in lui, come in genere nella teologia antiliberale, il risultato è compromesso da una spiritualizzazione della stessa radicalità evangelica, sicché

«il nostro rapporto con Gesù è in fin dei conti di carattere mistico. E d’altra parte nessuna personalità del passato può venire collocata nel presente in modo vitale mediante una considerazione storica o attraverso riflessioni che pongono in luce il suo significato decisivo»19.

16 Ivi, 545.17 Ivi, 754.18 A. SCHWEITZER, La mia vita..., cit., 55.19 A. SCHWEITZER, Storia della ricerca..., cit., 755.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 4.CapL’attesa degli ultimi tempi diventa pertanto motivo di radicalità etica,

«ci conduce al sentiero dell’interiorizzazione, spingendoci a cercare nel distacco spirituale dal mondo la vera forza per l’azione nello spirito del Regno di Dio»20.

Sembra paradossale che proprio chi ha troncato una brillante carriera di musicista e teologo, per vivere la concretezza del servizio ai più poveri tra i poveri, possa scrivere queste righe che invece sembrerebbero dettate da uno spiritualismo alienante. Tuttavia, una spiegazione esiste e va ricondotta, a nostro avviso, a due limiti culturali dell’epoca. Il primo è quello di un tenace accanimento a voler cogliere la storia di Gesù in uno sviluppo etico, che sposta lentamente ed impercettibilmente l’analisi dal piano teologico a quello psicologico; il secondo è l’assenza completa di un’analisi sulle condizioni socio-economiche ed ambientali nelle quali vive Gesù, con il conseguente silenzio sulla sua scelta, non solo come scelta radicale escatologica, ma anche come scelta profetico-esistenziale, a favore dei sofferenti e dei poveri, degli oppressi e degli emarginati. Del resto, come vedremo, su questo punto non porteranno alcunché di nuovo né l’opera di Bultmann, né quella dei suoi discepoli. L’uno e gli altri riproporranno la domanda sul Gesù storico e consentiranno nuove acquisizioni alla soluzione del problema, ma non colmeranno la lacuna di una storicità che non consta solo di opzioni spirituali, ma, proprio perché basata sulla sequela, diventa anche impegno e lotta per la giustizia. Schweitzer non lo esclude, anzi la sua ricerca vi arriva inesorabilmente, anche se mancano, in lui, come negli altri, le motivazioni storiche che sarebbero invece da cogliere nel contesto teologico di Gesù.

Pur senza queste ragioni storiche ultime, che la motivano e la precisano ulteriormente e che la teologia più recente ha cominciato a recepire, la chiusura della ricerca di Schweitzer appare non solo profetica, ma perennemente attuale:

«(Gesù) viene verso di noi come uno sconosciuto senza nome, così come si avvicinò sulla riva del lago a quegli uomini che non sapevano chi egli fosse. Pronuncia la stessa parola: Seguimi e ci pone di fronte ai compiti che deve risolvere nella nostra epoca. Egli comanda. E si rivelerà a coloro che gli obbediscono, siano saggi o poco saggi. Si rivelerà nella pace, nell’azione, nelle lotte e nelle sofferenze che costoro vivranno in comunione con lui. Ed essi sperimenteranno chi egli è, come si conosce un segreto ineffabile...»21.

20 A. SCHWEITZER, La mia vita..., op. cit, , 56.

21 A. SCHWEITZER, Storia della ricerca..., cit., 756. 42

Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 5.Cap

CAPITOLO V. LA DELEGITTIMAZIONE DELLA RICERCA STORICA.

L’OPERA DI R. BULTMANN

1. Spunti di contestazione e di rinnovamento nella «teologia dialettica»

Per «teologia dialettica» s’intende il movimento di rottura e di innovazione verificatosi nella teologia evangelica a partire dal 1919, anno di pubblicazione del commento alla lettera ai Romani di K. Barth. Reagendo alla «teologia liberale», essa considera punto iniziale di ogni riflessione la crisi dell’uomo che, andando alla ricerca di una soluzione al problema di senso che lo travaglia, non riesce a venirne a capo con nessun metodo “immanente”. Anche la costruzione religiosa che l’uomo arriva ad innalzare non è altro che autoaffermazione, che rischia sempre di elidere la fede, così come è operazione vana ogni costruzione filosofica.

La teologia dialettica vede inesorabilmente condannati alla stessa sorte tutti i nuovi metodi di riflessione, riassumibili in quello esperienziale di Schleiermacher; quello etico di Herrmann ed Harnack; quello storicista di Troeltsch, Bousset, Heitmüller. Essa riprende il filone più genuinamente evangelico della «teologia della croce» di Lutero e della «teologia della maestà divina» di Calvino, recuperando l’impostazione del paradosso, di autori come Kierkegaard, Dostojewski, Overbeck. Propone un modo di procedere “dialettico”, che cioè non dissolve i contrari (es. tempo/eternità, Dio/uomo, fede/obbedienza, ecc.) a favore di un loro superamento in una sintesi superiore (come proponeva l’idealismo), né li ridefinisce in una visione armonica che li accosti l’uno all’altro (come fa la teologia scolastica).

Volendo superare ogni metodologia “dell’immanenza”, che procederebbe a senso unico, la teologia dialettica sottolinea in modo decisivo la “trascendenza” della rivelazione:

«Così come il tempo non è una parte dell’eternità e l’eternità non è un tempo senza fine, ma piuttosto entrambi sono così qualitativamente diversi l’uno dall’altro, che c’è eternità solo quando non c’è più tempo e il tempo trova la sua fine e il suo giudizio nell’eternità, allo stesso modo la rivelazione di Dio non può essere, come eterno concreto, una parte di questo mondo. C’è rivelazione solo in quanto essa è non-mondo. Nella rivelazione pertanto, tutto ciò che è mondo e appartiene al mondo, compreso l’agire più alto etico-religioso, il più fine esperire (Erlebnis) trova la sua frontiera, la sua fine e perciò si effettua in lui il peccato, il giudizio»1.

Ciò che contraddistingue la rivelazione è dunque, per la teologia dialettica, il suo carattere di dato storico (geschichtliche Gegebenheit), che è di natura completamente differente dal dato storico degli avvenimenti intramondani. Questi sono accaduti una volta e basta, il dato rivelato invece accade ed è un continuo appello per la persona. Il rivelarsi di Dio svela all’uomo la sua abissale differenza da Dio, mentre offre, al contempo, riconciliazione e perdono.

1 J. GEISELMANN, Dialektische Teologie, in. LEXIKON FÜR TEHOLOGIE UND KIRCHE, 279-282. Cfr. anche la stessa voce in: HERDERS THEOLOGISCHES TASCHENLEXIKON (“teologia dialettica” nella edizione italiana di Sacramentum Mundi).

43

Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 5.CapPer la teologia dialettica, l’annientamento dell’uomo, proteso alla sua realizzazione, avviene

nella morte e nella risurrezione di Gesù, perché qui l’uomo e Dio, il tempo e l’eternità sono separati come da una «linea della morte», eppure proprio nella stessa morte e risurrezione il vecchio mondo è toccato dal nuovo mondo, come un cerchio da una tangente, con una novità non esprimibile se non in modo paradossale: il nuovo uomo è ciò che egli non è2.

La sacra Scrittura è di conseguenza «Parola di Dio» , ma in senso dialettico. È testimonianza umana del venire di Dio nella parola in mezzo agli uomini, attraverso l’incarnazione di Cristo. È insieme parola umana (e perciò culturalmente condizionata e demitizzabile) e parola generata dalla Parola di Dio (e perciò appello esistenziale assoluto). Ciò che ce la rende attingibile è solo la fede, perché attraverso di essa si arriva al rinnegamento di sé e, solo in questo, l’uomo si apre a Dio.

Su questa base teologica di fondo s’innestano le elaborazioni di quei teologi che sono stati chiamati dialettici e che, nei loro sviluppi, divergono sempre più l’uno dall’altro. Tra questi ricordiamo K. Barth, E. Brunner, F. Gogarten e, per ciò che ci interessa più da vicino, R. Bultmann. Il suo pensiero sulla illegittimità della ricerca storica su Gesù è pertanto contestuale a questa impostazione dialettica, che, pur di accentuare sempre il valore trascendente ed appellativo della Scrittura e del Nuovo Testamento in particolare, ritiene vano ogni tentativo condotto con gli strumenti razionali. A ciò sono da aggiungere i presupposti filosofico-esistenzialisti di Bultmann, che gli consentono di recuperare la storia in un’accezione che non è più quella della ricerca documentarista, ma è la storicità come struttura umana fondamentale.

2. Esistenza e storicità in R. Bultmann

Il presupposto fondamentale da cui muove Bultmann è che l’essere umano è qualitativamente diverso da ogni altro essere. È infatti esistenza, termine che non indica il semplice essere presenti, ma un modo tipico e proprio di essere, quello dell’uomo. Le cose sono in un modo statico, l’essere umano è dinamico. Le cose sono complete nella loro realtà attuale, l’essere umano è un insieme di possibilità realizzabili nel futuro, nello svolgersi del tempo. L’essere umano è pertanto completamente diverso dall’essere delle cose, perché è poter essere3.

È una concezione che Bultmann già nel 1927 condivideva con M. Heidegger e che fa da sfondo ad ogni successivo sviluppo concernente la storicità. È pertanto la storicità l’elemento che caratterizza l’uomo e ad essa l’autore aggancia sia il discorso sulla storia sia quello dell’ermeneutica storica.

La storia, che Bultmann chiama Geschichte (da Geschehen, accadere), contraddistingue il movimento che porta l’uomo alla scelta e alla realizzazione delle sue possibilità esistenziali. Ciò che invece di un uomo viene raccontato in un documento passato è la Historie. C’è una differenza così qualitativa tra le due, che Bultmann può dire che la storicità è salva, anche quando non si può attingere adeguatamente la storia scritta. Con queste premesse, non sarà difficile arrivare alla conclusione che la conoscenza storica non può essere né una ricostruzione asettica, positivisticamente intesa, né una ricostruzione della evoluzione psicologica di qualcuno vissuto prima di noi. La conoscenza è sempre situatività partecipe, con la quale si viene a contatto con la

2 Cfr. voce “Dialektische Theologie in: K. RAHNER - H.VORGRIMLER, Kleines Theologisches Wörterbuch 1981 (13.a), 81.3 Per le citazioni che esprimono questi presupposti filosofici di fondo del pensiero di Bultmann, cfr. G. MAZZILLO, La teologia

come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta 1988, 143-144. Sono citati e commentati brani reperibili in: R. BULTMANN, Nuovo testamento e Mitologia, Brescia 1970, 239-240 e F. BIANCO, Distruzione e riconquista del mito, Roma 1961.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 5.Cappropria esistenza attraverso il dispiegamento esistenziale dell’altro. L’altro affiora con il suo progetto di vita in ciò che di lui rimane o a lui si riferisce negli scritti antichi o nelle opere sfuggite al logorio del tempo.

Di Gesù, è esattamente questa conoscenza ciò che maggiormente interessa Bultmann. Ma allora ci si chiede: è possibile ritrovare il suo progetto, le sue intenzioni ed il suo porsi davanti a Dio attraverso le sue scelte esistenziali che hanno segnato la sua vita? Per Bultmann no. Perché? Perché il Nuovo Testamento non è un documento unitario, ma la concrescenza di brandelli di predicazione, di ricostruzioni successive di ambienti ecclesiali diverse e multiformi, che, come dice l’autore, ruotano intorno ai due poli giudaico-palestinese e extragiudaico-ellenistico. In questi due poli originari si possono almassimocogliere solo elementi storici minimali. Nel libro Storia della tradizione sinottica, del 19214 e nell’altro intitolato Jesus, del 1926, Bultmann sembra ancora lasciare uno spiraglio aperto alla storicità almeno di una parte della predicazione di Gesù. Egli afferma che è fuori dubbio che questa sia stata rimaneggiata, secondo le esigenze della vita, della missione e dei problemi teologici nuovi della comunità, ma si può tuttavia pensare che complessivamente risalirebbe ancora a Gesù. Successivamente, l’autore precisa meglio la sua comprensione della storicità legandola al concetto di demitizzazione5 e restringendo ancora di più l’orizzonte della conoscenza storica.

3. L’incontro con Cristo al di là della demitizzazione

La struttura eminentemente appellativa del Nuovo Testamento è per Bultmann, come per ogni teologo dialettico, un dato incontrovertibile. Nell’incontro con il “testo” avviene l’incontro con la Parola che ci giudica e ci salva. Qui la possibilità più propria dell’uomo, quella che sorregge tutte le altre, la morte, appare vincitrice e sconfitta nella morte di Cristo. La nostra storicità ritrova se stessa perché toccata da quest’avvenimento decisivo della storia. Si ritrova perdente e salvata. La rivelazione diventa vita per chi incontra il Cristo della fede6.

La realtà di quest’incontro è però espressa, secondo Bultmann, in un linguaggio e in una cultura dai caratteri cosmologici ormai definitivamente superati. Il messaggio della salvezza e la rivelazione della vita ci provengono nel testo biblico in un involucro letterariamente mitologico. Anche l’evento Cristo è presentato come evento mitico, perché, - dice l’autore - sulla croce il Gesù storico ed il Figlio preesistente sono una sola cosa. Ma proprio l’idea del Figlio di Dio, che non può provenire dalla teologia giudaica, è una cristianizzazione del mito del «figlio di Dio» della cultura ellenista7. Così per l’autore è mitica la concezione cosmologica complessiva, che vede il mondo diviso in tre piani: il cielo, dove Gesù ascende, la terra, dove Gesù muore, gli inferi, dove Gesù discende. È parimenti inficiata da rappresentazioni mitiche l’idea che le forze soprannaturali intervengano a modificare le leggi e il corso del mondo e quelle dell’animo umano8.

4 R:BULTMANN, Die Geschichte der synoptischen Tradition, Göttingen 1921. Il testo diventa ben presto uno dei classici della teoria della storia delle forme.

5 R. BULTMANN, Neues Testament und Mythologie. Das Problem der Entmythologisierung der neutestamentlichen Verkündigung, (lett. Nuovo Testamento e mitologia. Il problema dellla demitologizzazione dell’annuncio neotestamentario), in: IDEM, Offenbarung und Heilsgeschehen, in: BEITRÄGE ZUR EVANGELISCHEN TEHEOLOGIE 7 (1941), München.

6 Il concetto è ripreso in: R. BULTMANN, Il concetto di rivelazione nel Nuovo Testamento, in: IDEM, Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, 654-689. Per i limiti culturali e individualistici di quest’impostazione cfr. G: MAZZILLO, Teologia come prassi di pace, cit., 157-160.

7 Per una comparazione religiosa dei miti si cfr. R: BULTMANN, Das Urchristentum im Rahmen der antiken Religionen (1949) (lett. Il cristianesimo primitivo nel contesto delle antiche religioni).

8 Così quasi testualmente in un testo di Bultmann comparso originariamente a New York nel 1958 e reperibile come: Gesù Cristo e la mitologia in: R. BULTMANN, Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, 1017-1061; qui, p. 1019.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 5.CapCosa resta? Resta da compiere la «demitizzazione - termine certo insoddisfacente», confessa

Bultmman, il quale prosegue:

«Il suo scopo non è l’accantonamento delle espressioni mitologiche, ma la loro interpretazione. È un metodo di lettura ... La mitologia è l’espressione di una certa comprensione dell’esistenza umana. Essa testimonia la fede che il mondo e la vita hanno il loro fondamento e il loro limite in una potenza che sta al di fuori di tutto ciò che noi possiamo calcolare e controllare ... Il mito oggettiva l’aldilà nell’aldiqua»9 .

La demitizzazione ha pertanto il valore di scrostare da tutte le rappresentazioni culturali il messaggio fondamentale, proclamato nel Nuovo Testamento e cioè il fatto che attraverso Cristo avviene il pronunciamento salvifico di Dio. Avviene qui e adesso per me ed io posso accoglierlo o rifiutarlo.

4. Irrilevanza e illegittimità della ricerca storica su Gesù

La posizione di Bultmann sulla ricerca storica su Gesù appare con più chiarezza, se confrontata con quella degli autori che l’hanno preceduto.

Contro la scuola critica e tutti i tentativi di ricostruire una vicenda di Gesù storicamente attendibile, Bultmann sostiene che tale impresa è impossibile ed è condannata all’insuccesso. La scarsità delle fonti extra canoniche e le sommarie notizie ivi fornite, possono confermare la storicità dell’esistenza e della crocifissione di Gesù, il movimento messo in atto dalla sua predicazione, ma nulla di più. Voler scrivere una qualsiasi vita di Gesù è un’operazione storicamente inconcludente. Bultmann lo sostiene a più riprese e lo ripete nel suo libro che pur si chiama Jesus , ma che è un libro su Gesù, non una vita di Gesù.

Contro la scuola liberale, che umanizzava il Cristo, svilendone il carattere appellativo per la fede, l’autore sostiene che la ricerca su Gesù è illegittima. Non si può cercare in Cristo l’uomo umanamente più realizzato, perché non c’è realizzazione al di fuori della fede, ma solo la morte e il non senso.La fede si oppone trasversalmente alla religione, che è costruzione umana. Non è lecito cercare in Cristo una figura espressiva della religione. Del resto, la fede non ha bisogno di essere giustificata nemmeno dagli esiti della ricerca storica. Essa piuttosto giustifica e riconcilia nella misura in cui si accetta l’inanità del mondo naturale e l’insufficienza della nostra ragione.

Contro i tentativi di agganciare la fede alla conoscenza del Gesù storico, Bultmann sostiene che quest’impresa non è necessaria. Egli ricorda il pensiero paolino che afferma: «anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più così» (2 Cor 5, 16). Dice: chi si preoccupa della conoscenza storica di Gesù, vorrebbe conoscerlo «secondo la carne», cioè con ragionamenti e strumenti che non sono adeguati alla realtà della fede, ma sono ancora nell’ottica della natura e del mondo. Invece al credente deve bastare il kerygma, l’annuncio che Gesù è il Signore, perché in esso si manifesta il giudizio e il pronunciamento salvifico di Dio.

Contro la scuola mitica di Strauß, Bultmann sostiene che la comunità non è sede di elaborazioni mitiche, ma piuttosto della decisione della fede. Accetta il mito come espressione culturale e storicamente condizionata, fino ad affermare di poter essere un discepolo tardivo di Strauß. Tuttavia elabora la demitizzazione come strumento per attingere il contenuto della fede, cosa che esulava dagli obiettivi della scuola mitica.

9 R. BULTMANN, Jesus, Berlin 1926.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 5.CapIn conclusione, Bultmann afferma che di Gesù possiamo conoscere solo che egli sia esistito (ciò

che si esprime con il «che», il daß tedesco) ma non il modo (il come, espresso dal wie). La storicità è altro che la storia documentaria. La conoscenza di Cristo non avviene per questa strada ma attraverso la fede.

5. Valutazione dell’opera di Bultmann

Ai fini della soluzione al nostro quesito di fondo sulla possibilità di una ricostruzione storica del Gesù di Nazareth, ciò che abbiamo esposto sembra dare una risposta inequivocabilmente negativa. Tutta l’opera di Bultmann, nonostante i meriti di un impegno profuso con serietà e coerenza durante tutta la sua vita, porta all’inesorabile conseguenza di una voragine vera e propria tra la storia di Gesù e la nostra storia, quella che altri chiamerebbe storiografia o storia documentaria (Historie) e storicità esistenziale (Gerschichte).

A ciò si aggiunga che l’abisso così scavato scollega non solo il Cristo della fede dal Gesù della storia, ma anche il Gesù di Nazareth dal contesto giudaico a lui precedente e a lui susseguente. Anche se Bultmann cerca di salvare qualche linea di continuità, nel solco della sua storia delle forme, tale continuità non è più motivata, se non sulla base di comparazioni, che spesso sono apparse arbitrarie e quindi non inequivocabilmente storiche.

Pertanto non condividiamo la divaricazione tra i due concetti, per noi profondamente uniti e basilari per il nostro problema: historisch (storiografo, come elemento riferito al passato, da ricostruire positivamente) e geschichtlich (storico, cioè avente importanza e pregnanza significativa e determinante per la storia dell’uomo). Se per Bultmann Gesù non si può attingere nella sua Historie pur restando determinante per la Geschichte, in quanto storicità, per noi è l’esatto contrario. Sapere come Gesù ha storicamente vissuto la sua vicenda umana (che era anche vicenda di fede) è l’unica via per tentare di vivere nella sua sequela. La separazione tra la via storica di Gesù e la via esistenziale oggi da seguire rende ancora più attaccabile Bultmann, perché, separate le due accezioni della storia, non si vede altra base sulla quale poterle poi legare se non quella dell’arbitrarietà soggettiva. Né basta parlare dell’appello della Parola di Dio, se esattamente non sappiamo a che cosa essa ci chiama. Sentirsi solo perdonati nulla più può essere consolante quanto si vuole e finché dura, non fornisce però le ragioni di un legame storico che dalla storia di Gesù rifluisce sulla nostra storia personale.

La conseguenza è che la stessa Geschichte di Gesù, la sua storicità come progetto esistenziale vissuto in raccordo con quello del Padre, diventa a noi inaccessibile a causa della presupposta inaccessibilità storiografica della sua Historie.

A ciò si deve aggiungere l’ambivalenza del concetto di mito, che oscilla continuamente in Bultmann tra due significati: a) la rappresentazione di ciò che non esiste nella forma rappresentata, con una connotazione negativa, del tipo: il mito è una rappresentazione fantastica; b) la rappresentazione di ciò che tocca l’esistenza in modo rilevante, con una connotazione più positiva, del tipo: il mito è ciò che manifesta la realtà incatturabile di Dio nel suo rapporto all’uomo e al mondo. L’oscillazione dei due significati nuoce non poco all’interpretazione dell’autore, accusato di dissolvere i contenuti della fede in dati puramente fantasiosi (mitici) e quindi inesistenti.

Anche se l’insistenza sulla fede e la decisionalità esistenziale mette bene in risalto il valore dell’oggi della salvezza, Bultmann trascura il fatto storico che è alla base non solo della decisione, ma anche della stessa permanente attualità dell’evento salvifico.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 5.CapQuest’ultima tendenza, anche se con meno radicalità, è ugualmente presente in altri autori più

recenti, che accettano sostanzialmente i presupposti di fondo della Formgeschichte. Si riporta qui, a titolo di esempio, un brano di Bornkamm, che, mentre cerca di cogliere una continuità teologica, sembra propendere per una discontinuità storica tra Gesù e la comunità primitiva:

«L’interesse della comunità e della sua tradizione è legata non al prima, ma all’oggi, e questo oggi non ha il senso di una data del calendario, ma di un presente determinato da Dio e contemporaneamente di un futuro aperto da Dio. Alla luce di quest’adesso e di quell’allora arrecati e determinati da Dio, aperti tramite la crocifissione e la risurrezione di Gesù, la comunità comprende anche il prima della storia di Gesù innanzi al venerdì santo e alla pasqua e li mette in rapporto alla sua proclamazione, sempre comunque come una storia che riguarda il presente e dischiude il futuro (cfr., per esempio, At 10, 37-43). La comprensione della storia di Gesù è una comprensione che parte dalla fine e tende verso la fine. Di essa è impregnata l’intera tradizione raccolta nei vangeli»10.

Con queste premesse diventa veramente problematico sapere qualcosa anche della storicità esistenziale di Gesù, conoscere, ad esempio, come Gesù si sia poi posto di fronte alla sua fine. In Bultmann la risposta ha il pregio di una coerenza, che non si trova negli altri:

«io sono del parere che della vita e della personalità di Gesù possiamo sapere tanto quanto niente, dal momento che le fonti cristiane non si sono interessate a ciò e dal momento che sono leggendarie e pervase di leggenda e non esistono altre fonti»11.

In un altro testo aggiunge;

«Noi non possiamo nemmeno sapere come Gesù abbia compreso la sua fine, la sua morte»12.

È una tesi a ragione respinta da R. Fabris, il quale non solo esclude una conclusione drammatica e fallimentare del progetto di Gesù, come sosteneva la scuola critica, ma adduce un’argomentazione di principio:

«La morte di una persona riceve significato dall’orientamento dell’intera sua vita. Nel caso di Gesù è il suo progetto globale, riassunto nel simbolo del Regno di Dio, che può offrire la chiave per capire come ha affrontato la minaccia della morte violenta. Ora a questo riguardo, la tradizione sinottica ha conservato una parola di Gesù nel contesto della cena di addio, in cui si pone esplicitamente in rapporto la sua morte e l’avvento del regno di Dio: “in verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio (Mc 14, 25 par)”»13.

È senz’altro una osservazione valida, che però deve far riferimento, per potersi giustificare, alla tradizione sinottica, presupponendola storicamente attendibile. E, infatti, anche qui, esclusa la ricostruibilità storica di Gesù proprio attraverso i vangeli, bisogna cercare altre vie di accesso. È quanto hanno fatto gli stessi discepoli di Bultmann, che, riproponendosi il problema del Gesù storico, hanno cercato di risolverlo attraverso altre strade.

10 G.BORNKAMM, Jesus von Nazareth, Stuttgart 1980, 12.ma ed., pp.13-14.11 R.BULTMANN, Jesus, München/Hamburg 1964, 10.12 R.BULTMANN, Das Verhältnis der urchristlichen Christusbotschaft zum historischen Jesus (1960), in: IDEM, Aufsätze zur

Erfoschung des Neuen Testaments, ed. E.DINKLER, Tübingen 1967, 452.13 R.FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia ed interpretazione, Cittadella, Assisi 1983, 247.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 6.Cap

CAPITOLO VI. LA «NUOVA DOMANDA» SUL GESÙ STORICO ED I TENTATIVI

POSTBULTMANNIANI DI UNA RICOSTRUZIONE STORICA DI GESÙ

1. La riproposizione del problema del Gesù storico in E. Käsemann

Le conclusioni radicali alle quali era pervenuto Bultmann, con tutta la sua autorevolezza, avevano provocato, soprattutto in area tedesca, una nuova stasi nella ricerca storica su Gesù. Alla liquidazione della ricerca come illegittima, si aggiungeva la non lieve difficoltà nella quale veniva a trovarsi chiunque avesse voluto riaprire il discorso, a causa della «storia delle forme». Irrobustita da alcuni saggi fondamentali, come quello di K. L. Schmidt1 e M. Dibelius2, che avevano preceduto l’opera bultmanniana sulla Storia della tradizione sinottica, del 1921, la storia delle forme dominò incontrastata, per circa un trentennio, facendo ritenere non solo vano, ma metodologicamente insensato, qualsiasi tentativo di riaprire la vecchia questione sulla storicità di Gesù. La teoria, perché solo di questo si tratta, si basava sull’affermazione che i Vangeli contengono una pluristratificazione di molteplici tratti della predicazione e della catechesi della primitiva comunità cristiana, insieme ad accentuazioni e rimaneggiamenti redazionali degli evangelisti, che, mescolati ai primi, rendono impossibile l’obiettivo di attingere un qualsiasi dato storico sui fatti e sulle parole che si riferiscono a Gesù.

A ciò è da aggiungere il disinteresse per la questione da parte dell’ambiente evangelico dell’epoca, che anzi delegittimava la ricerca storica per salvaguardare la purezza della fede, appassionatamente sottolineata dalla teologia dialettica. Dal suo canto, il mondo cattolico, con un metodo prettamente apologetico e non di rado superficiale, ribadiva la storicità dei fatti così come giacciono nei racconti evangelici, oppure cercava delle soluzioni improntate ad un sostanziale concordismo letterario. Continuava però a riaffermare la non irrilevanza del dato storico.

In questo contesto, fece scalpore la riproposizione del problema storico nella ormai celebre conferenza di E. Käsemann, del 1953, che aveva programmaticamente per titolo: Il problema del Gesù storico3.

Descrivendo la situazione stagnante della ricerca sul Gesù storico dall’epoca della prima guerra mondiale al 1953, Käsemann sostenne, in controtendenza, l’urgenza di uscire da quella situazione per molteplici fattori. Ne indicò alcuni di carattere più eminentemente biblico-teologici ed altri di carattere più ecclesiale.

Tra i primi, annoverava il fatto che i sinottici contengono molta più tradizione autentica di quanto comunemente non si ammetta, l’attendibilità storica almeno della parte più antica del racconto della passione e l’impossibilità teologica di separare la storia della salvezza dalla storia del mondo. Tra i motivi ecclesiali, sosteneva con lucidità che la comunità cristiana contemporanea

1 K.L. SCHMIDT, Der Rahmen der Geschichte Jesu. Literarkritische Untersuchungen zur ältesten Jesusüberlieferung, Berlin 1919.

2 M.DIBELIUS, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tübingen 1919.3 Das Problem des historischen Jesus, in: ZThK 51 (1954) 125-153. La conferenza fu tenuta il 20.10.1953 a Jugenheim alla sessione

degli ex-allievi di Marburg, sede della cattedra di Bultmann. Trad. it.: Il problema del Gesù storico, in. E. KÄSEMANN, Saggi esegetici, Marietti, Torino 1985, 30-57.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 6.Capcombatte, come quella primitiva, su due fronti. Il primo è un sempre ricorrente docetismo, con il rischio di far cadere Gesù nella mitologia o in un entusiasmo mistico immotivato, simile a quello della comunità di Corinto. Per scongiurare il primo pericolo, egli sosteneva che occorre risollevare la domanda del Gesù storico, al fine di collegare l’annuncio kerygmatico (Gesù è morto e risuscitato, perciò è il Signore) con quello del Gesù della storia (Gesù è veramente vissuto ed è veramente morto sulla croce). Il secondo pericolo è nella tendenza ad accentuare solo l’aspetto umano della storia di Gesù, fino a dissolvere il Cristo della Pasqua. Per fugare questo pericolo Käsemann ribadiva l’irriducibilità de vangelo al solo fatto storico (storiografico).

Il ricorso al Gesù storico diventa pertanto indispensabile come per la primitiva comunità cristiane, per salvaguardare la fede dai due rischi suddetti. Käsemann difende allora la sua tesi, che si ritrova espressa con chiarezza, anche in un altro testo:

«Il poter attingere alla forma della narrazione dei Vangeli, al racconto del Predicatore palestinese, a ‘quella volta’ contro ‘l’una volta per tutte le volte’ , alla rappresentazione storicizzante nell’ambito del kerygma e, non ultimo, a Gesù che passava per la Palestina, si è dimostrata una reazione teologicamente rilevante e perciò stesso è stata accettata e viene mantenuta dalla Chiesa. Si trattava infatti del nostro non poter disporre di Cristo a nostro piacimento, e neppure della fede e dello Spirito. La presenza di Cristo e dello Spirito nella comunità non può essere abusata sì da far scadere entrambe nell’ovvietà escatologica dei credenti»4.

2. Tratti di continuità tra il dato storico di Gesù e la comunità cristiana

Käsemann riporta e condivide molte delle acquisizioni della storia delle forme ed il concetto di storicità sviluppato da Bultmann. Tuttavia ribadisce che la Historie di Gesù ha rilevanza storica in quanto interpella il presente, alla stessa maniera con la quale ha interpellato la comunità e gli evangelisti di allora:

«Ciò significa, in termini teologici: solo nella decisione della fede o dell’incredulità quella storia (Geschichte) pietrificata del dato storico (Historie) su Gesù può diventare di nuovo storia (Geschichte) viva. Ed è questo il motivo per cui noi siamo informati su questa storia solo attraverso il kerygma della comunità. La comunità non poteva e non voleva separare questo dato storico (Historie) dalla propria storia (Geschichte). Perciò non poteva e non voleva astrarre dalla propria fede pasquale e distinguere tra il Signore terreno e il Signore innalzato»5.

Anche per Käsemann la fede non ha bisogno di giustificarsi con il dato storico di Gesù; eppure è interessante notare come egli sottolinei la continuità tra il Gesù storico e il Cristo della fede, in quanto la fede scopre ed interpreta l’accaduto e si identifica con esso. L’autore può così affermare la singolarità di Gesù ed alcuni tratti sinottici relativi alla sua predicazione che contraddicono quell’ermeneutica che ritiene Gesù solo un ‘rabbi’ e nulla più, come in Bultmann ed altri. Egli aggiunge:

«Nella tradizione sinottica ci sono elementi che lo storico, se vuole restare tale, deve semplicemente riconoscere come autentici».

Sono «tratti caratteristici della sua predicazione (di Gesù) avvertibile con relativa precisione, e che la cristianità primitiva ha unito al suo messaggio proprio»6.

4 IDEM, Sackgassen im Streit um den historischen Jesus (=vicoli ciechi nella disputa sul Gesù storico), in: EVB II 66, citato da R.FENEBERG/W.FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, Freiburg/Basel/Wien 1980, 34..

5 E. KÄSEMANN, Il problema del Gesù storico, cit., 37-38.6 Ivi, 56.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 6.CapIl valore delle affermazioni di Käsemann è notevole, soprattutto se si pensa all’eco, certamente

positiva, che egli ha suscitato riproponendo il problema storico, quello che fu chiamato «nuova domanda» (Rückfrage, new question) che ha consentito di uscire dalla fase nella quale la ricerca stagnava ormai da una generazione, dopo aver appassionato gli animi per due secoli.

Nel suo tentativo di aprirsi dei varchi oltre la cortina della formulazione teologica neotestamentaria, Käsemann cerca in definitiva di legare in modo inscindibile il kerygma al dato storico, pur con tutte le incongruenze metodologiche della «Storia delle forme», all’interno della quale resta. Dà comunque il via ad una nuova fase di ricerca, che si propone una via di accesso al Gesù della storia o attraverso la stessa predicazione, o attraverso l’agire di Gesù.

3. La ricerca della continuità tra Gesù e kerygma attraverso la predicazione.

Ricordiamo ora, anche se in maniera sintetica, alcuni dei maggiori autori che, raccogliendo l’invito di Käsemann e la sfida della «nuova domanda», hanno cercato di precisare la continuità tra la predicazione di Gesù e la predicazione della comunità primitiva, dalla quale hanno avuto origine i sinottici.

Günther Bornkamm scrive il suo Gesù di Nazareth nel 1956, e pur accettando i presupposti ed il metodo della Storia delle forme, riconosce la parte preponderante e più importante della vicenda storica di Gesù nella sua predicazione7. Del Gesù storico egli mette in risalto la forza carismatica, l’impressione che suscita la sua autorevolezza, testimoniata dallo stupore delle folle e dall’impressione destata in loro, come ci riferiscono i sinottici. Punto discriminante, che esige una grande cautela, resta anche per Bornkamm quello della teoria delle forme: dal momento che i sinottici sono confessioni di fede, non è possibile ricercarvi dei fatti:

«Noi non possediamo un solo logion di Gesù o un solo fatto riguardante la sua vita, che non contengano nello stesso tempo una confessione di fede di una comunità credente o che non siano almeno incapsulati in essa. Ciò rende la ricerca verso i nudi fatti della storia difficile e senza prospettiva»8.

Bornkamm ricostruisce così le tappe della critica storica su Gesù:

«Contro un procedere cieco e acritico interviene a ragione la critica storica in modo tale da distruggere ciò che si pensava fosse solido fondamento. Ma alla critica corrisposero sempre le fatiche dei restauratori storici o teologici, che con maggiore o minore successo vollero attaccare a quel torso singole membra, finché una critica ancora più spinta staccò anche quelle lasciate fino a quel momento»9.

L’autore non si dà tuttavia per vinto e ribadendo il legame tra annuncio kerygmatico e fede cristiana, afferma la necessità, oltre che l’utilità della ricerca storica, che in lui prende l’avvio dalle dinamiche innescate dall’originalità e dalla forza d’impatto della predicazione di Gesù.

J. Jeremias, evitando il biografismo della letteratura antecedente a Bultmann, sostiene che possiamo attingere le ipsissima verba Jesu, le stessissime parole di Gesù, attraverso metodi di comparazione culturale e ambientale (letteratura rabbinica, di Qumran ecc.) e attraverso l’individuazione delle espressioni aramaiche sottostanti a quelle del greco della koinè degli attuali vangeli sinottici10.

7 G.BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit.8 Ivi, 129 Ivi 13.10 Cfr. J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento I. La predicazione di Gesù, Paideia, Brescia 1976 (2.a) (la I.a edizione tedesca è del

1971), per l’attendibilità della tradizione cfr. pp. 9-54. Lo stesso aveva scritto sul Gesù storico nel 1960 in un’opera reperibile in

51

Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 6.CapNe sono un esempio espressioni come «regno dei cieli», al posto di «regno di Dio», o le

molteplici forme del «passivo divino», adoperato per evitare di pronunciare il nome di Dio, in locuzioni simili a quelle delle beatitudini. Giacché la proibizione dell’uso del nome di Dio non riguarda in nessun modo la lingua greca, nella quale sono redatti i vangeli, tali circonlocuzioni del testo dimostrano una precedente formulazione aramaica, nella quale esse avevano un senso.

L’autenticità gesuana sarebbe inoltre garantita nei testi dove compare un parallelismo antitetico.

Ne offre un esempio Mc 2, 19 (a): «Gesù disse: possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?» (domanda);

Mc 2, 19 (b): «Finché hanno lo sposo con loro non possono digiunare» (risposta);

Mc 2, 19 ©: «Ma verranno i giorni in cui sarà tolto loro lo sposo e allora digiuneranno»

È presente un parallelismo antitetico che contrappone c) a b).

È una forma letteraria per opposizione - afferma Jeremias - che risale allo stesso Gesù, come risalgono a lui le espressioni nelle quali c’è un ritmo interno, di contrapposizione tra i pensieri formulati. Così, ad esempio:

«i ciechi tornano a vederegli zoppi camminano i lebbrosi sono mondati i sordi odono i morti sono resuscitatii poveri sono evangelizzati e beato è chi non prende scandalo» (Mt. 11, 5-6).

Sono gesuane inoltre le espressioni conservate nella forma aramaica, come

«Eloì, Eloì lamà sabactàni?», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»;«talità kum», «Ragazza, ti dico: àlzati!»;«abbà», «padre», ecc.11.

Jeremias si spinge oltre. Sulla base di ciò che ritiene un ritrovamento della predicazione di Gesù, può affermare la storicità di dati molto discussi, se non negati, dalla Storia delle forme. In primo luogo l’annuncio del regno di Dio come «regno avvenire», concetto dinamico che indica la regalità di Dio portatrice di giustizia in contrapposizione ai regni terreni. Di una giustizia che non è solo equità nel giudicare, ma «nella difesa degli inermi, dei deboli e dei poveri, delle vedove e degli orfani»12.

Ma è parimenti affermata la storicità del battesimo di Gesù, e la coscienza della sua missione, nella quale riveste un’importanza centrale l’annuncio della «buona novella per i poveri»:

«Affermare che Gesù ha annunciato l’inizio della consumazione del mondo non è ancora descrivere compiutamente il suo annuncio del regno; anzi il tratto più significativo non è stato ancora indicato»13.

italiano: IDEM, Il problema del Gesù storico, Brescia 1964.11 J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento. cit. 8-54.12 J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento. cit., 119, che cita a conferma J. DUPONT, Les Béatitudes II. La bonne nouvelle, Paris

1969, 53-90.13 Ivi, 129-130.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 6.CapIl tratto più significativo è per l’autore l’annuncio del vangelo ai poveri, la cui centralità Jeremias

dimostra partendo dal logion, già citato, dei sei parallelismi di Mt 11, 5-6, nel quale proprio l’annuncio della lieta novella ai poveri, fatto inaudito e nuovo, può scandalizzare.:

«Se Gesù dichiara beato colui che non patirà scandalo per questo, allora risulta chiara l’importanza dell’espressione «ptochòi euangelìzontai» (i poveri ricevono il vangelo). E che essa costituisca il nucleo del messaggio di Gesù, lo si deduce da un altro passo, in cui la stessa espressione, formulata come incoraggiamento, introduce l’energica proclamazione escatologica delle beatitudini: «makàrioi oi ptochòi», «beati i poveri» (Lc 6, 20)»14.

Sui poveri l’autore dà informazioni che convergono con quelle da noi già date nel 2° capitolo: sono categorie sociali disprezzate o spregevoli, i semplici ed i “minimi”, incolti e insignificanti, in una parola la gente senza una buona fama, gli ammè ha-arez (il popolo della terra), cui la salvezza sarebbe stata irraggiungibile a motivo del loro stato di ignoranza religiosa e del loro comportamento non conforme alla legge. Proprio costoro sono preferiti da Gesù, che li vede in tutt’altra luce e li chiama «i poveri», e «gli affaticati e oppressi» (Mt 11, 28). Come per il logion dei poveri, così per tanti altri testi, si può affermare, secondo Jeremias, l’attendibilità storica sia partendo dall’analisi linguistica, sia facendo un confronto culturale. L’esito è che Gesù risulta essere un grande maestro, originale e autorevole. Ma si dovrà con la stessa onestà ammettere la coscienza escatologica di Gesù, dice l’autore, anche se non nei termini radicali di altri. A riprova viene citato il fatto che Gesù indica più volte la libera sovranità di Dio sui modi e sull’ora del giudizio imminente ed invita a pregare per non soccombervi. Storica è infine, secondo Jeremias, anche la coscienza di Gesù circa la sua morte imminente e lo stesso banchetto pasquale con il quale egli si congeda dai discepoli ed allude una comunanza di destino con loro.

In una breve valutazione dell’opera di Jeremias, si noterà che la sua ricostruzione storica consente un recupero della continuità tra la predicazione di Gesù ed il Nuovo Testamento. Molte delle sue spiegazioni sono convincenti, anche se avvengono ancora al di qua del limite invalicabile fissato dalla Storia delle forme, che l’autore non contesta nei suoi presupposti fondamentali. A risultati simili arriva sul versante cattolico un altro autore, che adopera lo stesso metodo di comparazione culturale-letterario: H. Schürmann. Così, sempre nel contesto della predicazione, affermano chiari elementi di storicità autori come Riesenfeld e Gerhardsson, ritenuti esponenti di quella che qualcuno chiama «Scuola svedese».

H. Schürmann15 cerca, al pari di Jeremias, una continuità tra Gesù e il Cristo partendo dalla predicazione contenuta nei Vangeli. Sostiene che nella fede dei discepoli c’è un carattere non solo postpasquale, ma anche prepasquale, una fede fiduciale che consente agli stessi discepoli di accettare l’invito alla sequela. «Vieni e seguimi» è per Schürmann senza dubbio un elemento gesuano, dal momento che tale espressione non trova riscontro né nella letteratura greca e nemmeno in quella rabbinica. La comunità di fede sorta intorno a Gesù avrebbe conservato le sue parole, applicandole alla sua vita interna e alla sua attività missionaria. La Pasqua non costituisce una rottura con la fede prepasquale, ma è solo un suo sviluppo.

14 Ivi, 130.15 H. SCHÜRMANN, Der historisce Jesus und der kerygmatische Christus, Berlin 1960 (ed. italiana: La tradizione dei detti di

Gesù, Brescia 1966).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 6.CapH. Riesenfeld e B. Gerhardsson16 riscoprono ed analizzano il metodo rabbinico

dell’insegnamento finalizzato alla memorizzazione da parte dei discepoli. I rabbi lo adoperavano per impedire che il loro messaggio andasse perduto dopo la loro morte o che fosse travisato. Gli autori si soffermano ad illustrare il metodo, analizzando le varie tecniche linguistiche che consentivano ai discepoli la conservazione delle espressioni udite dal maestro. Grazie a questo metodo arrivano alla storicità di importanti affermazioni evangeliche.

4. Continuità tra il Gesù prepasquale e il Cristo della fede a partire dal comportamento di Gesù

Parlando di Bornkamm, si è già intravisto il metodo di accesso al Gesù storico non solo attraverso il suo insegnamento, ma anche attraverso l’impressione e gli effetti che la sua predicazione provocava. La predicazione non è l’unica via di accesso a quel Gesù di Nazareth, che ormai tutti dicono bisogna collegare all’annuncio del kerygma. Accanto agli autori già menzionati, sarà utile ricordarne brevemente altri, che tentano la ricostruzione storica di Gesù attraverso l’analisi del suo comportamento, così come questo può ancora essere attinto all’interno della critica della Storia delle forme. L’analisi linguistica di Jeremias viene corroborata pertanto da un’indagine di carattere contestuale più ampio, anche se ciò non esclude, come vedremo, il rischio di cadere in contraddizione con le premesse critiche dalle quali anche questi ultimi autori si muovono. Ricordiamo alcuni autori di questa tendenza.

Ernst Fuchs17 sostiene che il contesto reale della predicazione di Gesù è costituito dal suo comportamento. La predicazione della misericordia, ad esempio, trova un riscontro storico nel comportamento di Gesù che mangia con i peccatori e chiama proprio loro alla salvezza. La sua chiamata alla fede è stata vissuta innanzi tutto in lui, nella sua vita, nel suo andare verso la morte con fede e con coerenza. Dal comportamento possiamo cogliere la storicità non solo delle sue parole, ma anche del suo agire.

Gerhard Ebeling18 afferma che l’evento storico di Gesù è costituito da ciò che è diventato espressione linguistica, verbale. In lui diventa infatti espressione verbale la stessa fede, che è al contempo la sua fede personale e la fede che egli risveglia in coloro che vengono a contatto con lui. Gesù rende testimonianza alla fede. La sua morte e risurrezione non interrompono tale testimonianza, ma costituiscono il fondamento della testimonianza su di lui, della testimonianza stessa.

H. Conzelmann19. ritiene la predicazione di Gesù non l’elemento peculiare della sua storia, di cui possiamo e dobbiamo tentare un approccio. Originale ed essenziale è invece il collegamento operato dallo stesso Gesù tra la sua persona e la presenza di Dio. Ciò costituirebbe già un primo nucleo cristologico, che si può chiamare «cristologia indiretta». I discepoli, a loro volta, non solo

16 H.RIESENFELD, The Gospel Tradition and its Beginnings, London 1957; IDEM, Bemerkungen zur Frage des Selbstbewustseins Jesu, in: RISTOW/MATTHIAE, Der historische Jesus und der kerygmatisce Christus, Berlin 1962; B. GERHARDSSON, Memory and Manuscript-Oral Tradition and Written Trasmission in Rabbinic Judaism and Early Christianity, ASNU XXII, Uppsala 1961.

17 E.FUCHS, Zur Frage nach dem historischen Jesus, in: IDEM, Aufsätze II, Tübingen 1965, 2.da ed., 143-167.18 G.EBELING, Theologie und Verkündigung, Tübingen 1963; IDEM, Die Frage nach dem historischem Jesus und das Problem

der Christologie, in: IDEM, Wort und Glaube, Tübingen 1967 (3.a), 300-318. Sono inoltre da ricordare: J.M.ROBINSON, A newQuest of the Historical Jesus, London 1959 e IDEM, Kerygma e Gesù storico, Brescia 1977 (originale tedesco del 1967) e J.M-ROBINSON/E.FUCHS, La nuova ermeneutica, Brescia 1967.

19 H.CONZELMANN, Zur Methode der Leben-Jesu-Forschung, in ZThK (Zeitschrift fuer Theologie und Kirche) 56 (1959), Beiheft 1, 2-13.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 6.Capconservarono questo raccordo operato da Gesù, ma lo approfondirono e svilupparono alla luce della Pasqua, sì da arrivare ad una «cristologia diretta».

A questi autori e alle loro rispettive impostazioni si potrebbero e si dovrebbero aggiungere altri nomi, che tuttavia qui vengono tralasciati per ragioni di spazio. Del resto il nostro intento non è quello di scrivere una nuova storia della ricerca sul Gesù storico, ma solo di informare su metodi principali attraverso i quali si è cercato di rispondere alla nuova domanda. Se questi si possono in genere riportare all’analisi letteraria e all’ermeneutica più schiettamente critico-ambientale, superano di fatto la barriera pasquale della storia delle forme. È un’ulteriore conferma della sua insostenibilità come principio invalicabile. Quanti, pur entrando in contraddizione con le sue premesse, arrivano, a risultati storici simili a quelli summenzionati, per alcuni versi convergono con non pochi dei tratti storici che noi abbozzeremo dal di fuori e in alternativa alla storia delle forme. Per la nostra ricerca proprio tali convergenze sono di notevole importanza.

In conclusione, la nuova domanda posta da Käsemann ha senza dubbio avuto il merito di aver smosso le acque e di aver fatto cogliere il necessario legame tra kerygma e storicità di Gesù, la cui legittimità Bultmann aveva negato. La nuova ermeneutica ha ritenuto di non poter eludere il problema. Ha cercato di fissare i criteri di continuità e discontinuità20, attraverso i quali accedere a quella storia di Gesù, che pur legata alla storicità in senso bultmanniano del termine, si impone come problema che esige una risposta non solo dallo storico, ma anche dalla coscienza credente ed ecclesiale.

20 Sui criteri cfr. R:FABRIS, Gesù di Nazareth, op.cit., 60-63.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 7.Cap

CAPITOLO VII. DAL SUPERAMENTO DELLA «STORIA DELLE FORME» AD UNA

«BIOGRAFIA TEOLOGICA» DI GESÙ

1. La contraddizione della «nuova domanda» su Gesù all’interno della «Storia delle forme»

Gli autori che hanno raccolto l’invito di Käsemann a riaprire la questione sul Gesù storico, hanno tutti prodotto, come si è visto nel capitolo precedente, opere o saggi che riescono ad attingere nei vangeli elementi storici importanti sulla predicazione e sulla prassi di Gesù. Sebbene nessuno osi ormai più affermare che si possa scrivere una biografia di Gesù, alcuni tratti non secondari relativi alla sua vita oggi sembrano essere un patrimonio comune, una base pressoché indubitata anche per chi affronta l’argomento su un piano cristologico1. Ma queste ricostruzioni parziali non sono esenti da problemi. Allo stato attuale delle conoscenze storiche odierne su Gesù, si può affermare che la domanda da esse sollevata non riguarda i contenuti, ma piuttosto il metodo con il quale si è pervenuti a questi risultati.

Coerente fino alla fine con le premesse metodologiche della «Storia delle forme», Bultmann aveva già ravvisato questa difficoltà metodologica, quando reagendo alla «nuova domanda» dei suoi discepoli, ne sconfessava la legittimità metodologica, e vi vedeva il pericolo di ricadere nella ricerca storica precedente e già superata2. Una tale illegittimità è ribadita nel suo libro Jesus, che viene ad affiancare gli altri, che sullo stesso argomento avevano scritto i maggiori teorici della storia delle forme3, ma solo per riaffermare che non il Gesù in sé ma «il complesso di pensieri sottostante allo strato più antico della tradizione è l’oggetto dell’esposizione»4. A differenza dei suoi discepoli, Bultmann esclude anche la possibilità di intitolare la trattazione Predicazione di Gesù e di parlare di Gesù come Predicatore. Di Gesù, afferma, si può parlare solo tra virgolette, giacché Gesù indica solo il fenomeno storico di cui si tratta. Questo non può essere altro che la tradizione più antica. Sicché il Gesù storico è solo la premessa, da supporre come fatto antecedente alla tradizione, ma per sé inattingibile sia per ciò che riguarda il come che per le modalità del fatto medesimo. Per queste ragioni, accusa di incoerenza i tentativi compiuti da alcuni suoi discepoli, allo stesso modo con cui anche Käsemann si era espresso contro Jeremias, che avrebbe oltrepassato il limite impostogli dalla «Storia delle forme».

2. La barriera invalicabile della Storia delle forme

Il punto di partenza metodologico che Bultmann e Käsemann ritengono illegittimo valicare è il fatto che ogni passo evangelico, ogni pericope, è comunque il frutto di una credenza teologica. Essendo impregnata teologicamente, ogni singola pericope ha un valore funzionale, perché deriva da particolari interessi e circostanze vitali (il Sitz im Leben) della comunità dove essa ha un suo contesto e la sua origine. Se, ad esempio, la comunità aveva un problema di correzione fraterna, ha

1 Cfr., a titolo d’esempio, J. BLANK, Der Jesus des Evangeliums, München 1981, che accetta molti dei risultati suddetti per la sua Sulla “Historia Jesu”, ivi, 88ss.

2 Cfr. R. BULTMANN, Das Verhältnis der urchristlichen Christusbotschaft... cit. L’autore si esprime espressamente contro Fuchs, ivi, 461.

3 K. L. SCHMIDT, Jesus Christus, in: Die Religion in Geschichte und Gegenwart, III (1929) 110-151; M. DIBELIUS, Jesus, Berlin 1939.4 R. BULTMANN, Jesus, München-Hamburg, 1964, 14.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 7.Capredatto un logion di Gesù relativo a questo problema. Non che abbia in ogni caso semplicemente inventato ex novo un discorso di Gesù, quale quello riportato nel cap. 18 di Matteo, ma, riferendosi a un qualcosa di Gesù conservato nella tradizione, ha ricostruito intorno a questo nucleo un discorso vero e proprio, un logion. La stessa origine del logion, anonima e storicamente irricostruibile nei suoi singoli passaggi e nella sua evoluzione, rende impossibile l’accesso alle parole effettivamente pronunciate da Gesù e ai suoi gesti, che sono anch’essi funzionali alla stessa situazione della comunità primitiva.

Secondo la Storia delle forme, la ricerca può solo dimostrare alcune caratteristiche letterarie, tipiche di ciascuna «forma», la struttura e l’impianto formale di tali «generi letterari», ma non ciò che è storico. Mancano in queste «forme» proprio quei caratteri indispensabili per la ricostruzione storica: l’irripetibilità e la puntualità di un fatto, che è sempre, per intenderci, come un punto individuabile attraverso due coordinate, quella spaziale e quella temporale. Per loro natura, le «forme» letterarie evangeliche sono invece di tipo sociologico e sono anonime e ripetitive. Mancano dell’esattezza e della documentabilità di cui ha bisogno la storia.

Chi prenda sul serio la base teorica e metodologica qui esposta, vedrà preclusa davanti a sé ogni possibilità di effettiva ricerca storica a partire dai testi di cui disponiamo. Sono testi dove la confluenza di pericopi, già di per sé sociologicamente problematiche, è avvenuta attraverso il lavoro redazionale di autori mossi da un’intento teologico particolare. La teologia ha plasmato e riplasmato più volte testi, che restano pertanto storicamente inattendibili. In conclusione, la pregnanza teologica, che comunque risale a dopo la pasqua, non ci consente di accedere a fatti avvenuti prima della pasqua. È una sorta di barriera che può cercare di oltrepassare solo chi è incoerente con le premesse della Storia delle forme.

2.1. Verso un superamento della teoria della «Storia delle forme»?

È merito di due fratelli l’aver rotto l’incantesimo e sfatato l’immunità di cui la teoria in questione godeva e complessivamente ancora gode, indicando le contraddizioni, già stigmatizzate da Bultmann, in cui cadono i suoi seguaci ed evidenziando alcuni suoi punti deboli. In un libro, scarsamente citato, e pressoché sconosciuto persino a quanti si sono occupati dopo di loro dell’argomento, Rupert e Wolfgang Feneberg hanno provocatoriamente parlato nel 1980 di Vita di Gesù nel Vangelo5.

Gli autori hanno un punto di partenza comune: vogliono riaprire il discorso della possibilità di scrivere, dopo Bultmann e i suoi seguaci, la vita di Gesù, non nonostante i vangeli o a prescindere da essi, ma al contrario a partire dal vangelo, perché ritengono che il vangelo è la vera e l’unica fonte dove attingere la vita di Gesù.

È possibile una tale impresa? Gli autori ritengono di sì, a condizione di rivedere la Storia delle forme in alcuni presupposti che normalmente sono ritenuti intoccabili. Sono del parere che questa teoria abbia il merito di aver dato importanza al «quadro» della vita di Gesù, ma abbia tuttavia il demerito di aver sempre presupposto la frammentazione e il relativo assemblaggio di tante singole pericopi, condannandole inesorabilmente ad un’origine anonima e quindi astorica. A causa delle sue premesse, affermano, la Storia delle forme non può dare una valutazione univoca sull’apporto dato dai singoli evangelisti, né sulla loro personalità letteraria. Tutto diventa fluido ed incerto e gli stessi risultati della Storia delle forme sono spesso contraddittori, e quindi arbitrari.

5 R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit. Rupert è autore della prima parte: “Storia delle forme e Gesù storico”; Wolfgang ha scritto la seconda parte: “Coscienza, sviluppo e pensiero di Gesù”.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 7.CapCosì, ad esempio, all’iniziale, comune riconoscimento del valore storico di Marco, seguì, ad opera di Wrede e di altri, una svalutazione quasi completa, riparata successivamente dall’apprezzamento dell’evangelista come personalità letteraria di scrittore6.

Per tutte queste ragioni, R. Feneberg ritiene maturi i tempi per un superamento della teoria della Storia delle forme, relativamente alle singole, piccole pericopi dei vangeli. Questo metodo parte dal presupposto, mai dimostrato, che ogni singola unità letteraria costituisca una struttura chiusa che risale ad una propria tradizione, differente da ogni altra, che avrebbe dato origine alle restanti pericopi. L’applicazione fa registrare una discordanza talora notevole tra gli esegeti proprio per la ricostruzione della storia di queste piccole forme. Ora i risultati cambiano radicalmente se si avanza l’ipotesi che ogni singolo vangelo non è un collage di tante pericopi, aventi ciascuna una sua storia, ma è esso stesso, nel suo insieme e in quanto unità letteraria completa, una lunga pericope. Partendo da questo nuovo presupposto, gli evangelisti non hanno redatto il vangelo, nel modo comunemente ammesso, ripescando i dati della tradizione, selezionandoli, accostandoli e ritoccandoli in base alla propria individuale impostazione teologica, ma hanno già trovato nella tradizione il «genere letterario del vangelo».

Il vangelo è pertanto una forma letteraria complessiva, ma avente tutte le caratteristiche delle piccole unità letterarie. È anch’esso una forma sociologica, nel senso che è espressione di una modalità comunicativa sorta e cresciuta da sé nel contesto della vita di una comunità che si era trovata dinanzi al problema di dover unire insieme l’annuncio di Cristo e vita di Gesù, il kerygma e la sua biografia7.

Le differenze tra la Storia delle forme classica e questa versione radicalmente corretta dei Feneberg sono profonde. Per la prima, il genere del vangelo è una forma letteraria particolarissima, senza precedenti, né consequenti. Sarebbe stata inventata da Marco, che avrebbe fatto uso del materiale della tradizione secondo le modalità già viste. Per i Feneberg, invece, il genere del vangelo è già presente nella tradizione ed ha un suo Sitz im Leben (situazione vitale) proprio. I singoli vangeli non sono pertanto redazioni che si avvicinano e si allontanano in riferimento ad uno sviluppo discorsivo storico sulla vita di Gesù (historischer Wortlaut), ma piuttosto un’unità letteraria contenente una «biografia teologica» di Gesù, che comunque era già preesistente ai singoli evangelisti.

In questo modo, i Feneberg riescono a spiegare i tanti punti insoluti della Storia delle forme, tra i quali: l’unità e la diversità tra origine e sviluppo delle pericopi, la sorprendente convergenza del materiale sinottico e giovanneo sul materiale della passione, la storicità del racconto eucaristico, così come questo è riportato nei testi sinottici. Il tentativo sembra essere anche a noi di fondamentale importanza, perché ci consente di motivare criticamente e letterariamente la continuità teologica in cui possiamo cogliere il Gesù storico. Per i nostri autori, tale continuità appare nitidamente, come vedremo, alla luce del Sitz im Leben della celebrazione della pasqua giudaica, che fa da sfondo storico e teologico al racconto della passione.

2.2. La biografia teologica, unica alternativa al biografismo psicologico

Gli sforzi, pur fruttuosi, di quanti, accettando le premesse della Storia delle forme, sono pervenuti ad alcuni capisaldi storici della vita di Gesù, sono, secondo i Feneberg, in contraddizione con il metodo stesso di quella teoria. Per noi la necessità della nuova domanda e le conclusioni alle quali i

6 Ciò avvenne soprattutto dopo la pubblicazione di: W. MARXEN, Der Evangelist Markus, Göttingen 1956.7 R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit., 89ss.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 7.Cappostbultmanniani sono arrivati costituiscono una conferma dell’idea fondamentale dalla quale muovono anche i Feneberg: non si può leggere la storia di Gesù al di fuori di un contesto teologico. Chi non accetta la storicità di questo dato essenziale, si trova di fronte a degli spezzoni storici che anche se sono ormai unanimemente riconosciuti, in campo evangelico e cattolico, sono però differentemente interpretati. Non di rado per dar ragione dello sviluppo storico effettivo contenuto in questi fatti, gli autori devono ricorrere ad espedienti di vario genere, che sembrano essere a metà strada tra un’impostazione etico-esortativa e un riaffiorante, anche se inconfessato, psicologismo. In molti altri casi invece, la disparità sui risultati storici manifesta le lacune e i limiti del metodo di partenza.

L’esempio più vistoso può essere costituito dal dato non secondario della coscienza di Gesù sulla sua morte. Per Bornkamm, nell’ingresso di Gesù a Gerusalemme c’è solo la decisione di dovere tirare le conclusioni della sua vita8. Schürmann si pone la domanda come Gesù abbia vissuto e compreso la sua morte9 e la mette in rapporto alla sua coscienza escatologica. Gnilka ritiene, a ragione, che non c’è opposizione tra il modo più antico di comprendere la morte di Gesù da parte della comunità e la volontà e l’agire di Gesù: c’è piuttosto un’unica «direzione di pensiero»10. Anche Jeremias scorge tratti indubitabili della coscienza di Gesù circa l’imminente incombere della morte11, così come Kasper ed altri ritengono estremamente verosimile che Gesù la prevedesse dal precipitare degli avvenimenti intorno a lui12. La lapidaria affermazione di Bultmann sull’impossibilità di sapere come Gesù avesse compreso «la sua fine, la sua morte» non ha avuto seguito. Eppure si deve dire che le diversità degli autori citati non sono che pochi esempi di una pluriformità di vedute, che proprio perché non saldano tale coscienza della fine ad un teologia di Gesù e in Gesù, devono ricorrere a criteri di verosimiglianza, talora psicologizzanti, oppure alla coscienza apocalittica dell’ultima crisi tra eoni contrapposti, che avevamo già visto in Schweitzer e in altri. Eccone un esempio: «Dobbiamo supporre che egli (Gesù) abbia previsto e dovesse prevedere una fine violenta della propria vita. Chi si propone come lui si è presentato deve mettere in conto le conseguenze più estreme»13.

Il giudizio di R. Feneberg, che ritiene che cadano nello psicologismo tutti i tentativi di attingere la coscienza di Gesù sulla sua morte, è in qualche modo da attutire. Su un piano di correttezza logica, oltre che metodologica, sembra avere ragione. Tuttavia i risultati ai quali gli autori arrivano, pur essendo parziali, sembrano accostarsi in ogni caso ad un’effettiva coscienza di Gesù, che non è solo da leggersi in uno schema di verosimiglianza psicologia, ma anche in una contestualità teologica, alla quale essi arrivano per altra via, dandola spesso per scontata, e quindi non sottoponendola ad un’ulteriore analisi. Così ad esempio, anche Kasper, dopo le parole citate, fa riferimento al contesto escatologico, in cui Gesù si muoveva, così come faceva lo stesso Jeremias e, in un impianto più sistematico, anche Schillebeeckx14.

8 G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 142ss.9 H.SCHÜRMANN, «Wie hat Jesus seinen Tod bestanden und verstanden?», in: IDEM, Jesu ureigener Tod. Exegetische

Besinnungen und Ausblick, Freiburg 1975, 16-65.10 J. GNILKA, Wie urteilte Jesus über seinen Tod?, in: K.KERTELGE (Hg), Der Tod Jesu. Deutungen im neuen Testament,

Freiburg 1975.11 J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, cit., 326ss.12 W. KASPER, Gesù il Cristo, cit.152ss13 Ivi, 158, dove l’autore condivide la spiegazione escatologica.14 Schillebeeckx, pur recensendo i diversi schemi ermeneutici della morte di Gesù distingue tra una sua “graduale certezza di

una morte violenta” e la “questione inevitabile: quale senso diede Gesù alla propria morte”: cfr. E: SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia di un vivent…e, CIT., 309ss.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 7.CapCondividiamo, invece, pienamente l’opinione dei Feneberg, quando affermano che bisogna

considerare come primaria la forma del vangelo. Si tratta anche per noi di una forma teologica, che ci consente di uscire dal dilemma di Schweitzer: esistono solo due riposte alla questione di Gesù: o quella letteraria (di Wrede) o quella escatologica (di Schweitzer). Il dilemma viene superato nel momento in cui si dà valore a tutto il vangelo come forma teologica, come raccordo tra la predicazione kerygmatica e la realtà storica di Gesù di Nazareth.

Su questa base, diventa praticabile la strada di una ricostruzione storica di Gesù, non nel senso che noi scriviamo una sua nuova biografia, ma nel senso che noi la ritroviamo nel vangelo, in quanto forma letteraria unitaria. Questa

«è espressione di una vita di fede di una comunità, che non poteva essere se non quella giudaica. Come tale esisteva prima di Gesù. Costituiva il reticolo (Raster) di domanda e di interpretazione per la sua stessa vita e per la riflessione conseguente. Gesù si è identificato, in modo diverso dagli altri, in questa fede. Ha fatto coincidere la sua vita con la fede espressa in questa forma. La particolarità della sua vita non consiste in questa forma a lui precedente o sottostante, ma nella totalità della sua accettazione. E precisamente ha identificato la sua vita in quest’espressione di fede e non solo nel suo contenuto(...) Non ci fu prima una vita di Gesù e poi una sua immagine. Parlando in termini di storia delle forme, c’è prima un’immagine, che solo dopo viene ad essere riempita e impregnata dalla vita di Gesù. Da Gesù non proviene la forma, ma ‘solo’il suo riempimento. Di conseguenza, si può a ragione affermare che l’immagine della sua vita nei vangeli è Gesù stesso. È la sua immagine e, come tale, è realmente storica»15.

Con queste parole, viene affermata con decisione la storicità dell’immagine di Gesù riportata nei vangeli. Essa non è più il risultato di un’operazione redazionale e dottrinalmente seriore a Gesù, ma è la sua stessa immagine teologico-esistenziale, quella che egli stesso ha plasmato, dando un nuovo contenuto ad una forma biblico-giudaica a lui antecedente. Possiamo pertanto attingere nel vangelo una biografia dogmatica di Gesù, espressa attraverso quella forma teologica con la quale egli ha fatto coincidere la sua vita, la sua decisione suprema, il suo soffrire ed il suo morire.

2.3. Nella celebrazione del «pesaq” la chiave ermeneutica della storia di Gesù

Di che forma teologica si tratta? I Feneberg ritengono che data la centralità del racconto della passione, e considerando il valore quantitativo oltre che qualitativo di quel materiale evangelico, che registra una convergenza sorprendente dei quattro racconti, dobbiamo cercare proprio qui la chiave di volta di tutta la biografia teologica di Gesù. La passione, affermano, è articolata intorno alla celebrazione della pasqua ebraica, del pesaq, con la sua struttura fondamentale, consistente a)nella rievocazione degli haggadà (le opere salvifiche di Dio verso il suo popolo) e b) nella cena, come comunione con lui e festa della comunità mentre si mangiava l’agnello. Sono due momenti che ritroviamo, anche se in ordine inverso, esattamente nel racconto della passione, che consta a) del racconto della celebrazione del banchetto pasquale (che diventa l’ultima cena), e b) del racconto delle opere salvifiche operate da Dio attraverso la passione, la morte e la risurrezione di Gesù.

Questa rilettura del materiale evangelico centrale (istituzione dell’eucaristia, passione, morte e risurrezione) è suggestiva. Ma ci si chiede immediatamente: può essere suffragata da prove critiche, che superino la suddivisione minuziosa operata in genere dalla Storia delle forme anche per questo blocco narrativo, che pur sembrerebbe in sé molto compatto? Quali argomenti si possono addurre a favore di questa ipotesi?

15 R. FENEBERG -W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit., 107.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 7.CapNel libro, che stiamo esaminando, le prove non mancano. La prima è di carattere generale e

rimanda a procedimenti teologico-letterari similari, già evidenziati e normalmente accettati per alcune sezioni dell’Antico Testamento. Come può dimostrare l’analogia con le ricerche sul Pentateuco, si afferma, ci sono anche nel racconto evangelico elementi che, pur essendo differenti e distinti, sono teologicamente in una struttura unitaria molto solida. Ad esempio, la tradizione sinaitica della teofania e dell’alleanza e quella delle gesta storiche esodali, pur essendo distinte, confluiscono nell’unica celebrazione del Pesaq e diventano un corpo compatto. Alla stessa maniera, elementi distinti quali la celebrazione eucaristica (situata nella notte) e la via di Gesù fino alla morte (situata nel giorno seguente) sono parti costitutivamente inseparabili nel vangelo, perché corrispondono ai due elementi strutturali della celebrazione della pasqua antica: il banchetto e la celebrazione delle gesta salvifiche di Dio.

Per poter affermare tutto ciò, bisogna superare la teoria che spesso, nella Storia delle forme, ritiene il banchetto eucaristico e il racconto della morte di Gesù distinti e separati perché risalenti a due situazioni vitali della comunità, distinte e separate: la spiegazione dell’origine della celebrazione eucaristica e quella dell’origine del battesimo. Secondo questa spiegazione critica, quelle situazioni cultuali sono alla base di due sezioni che solo più tardi sono state cucite insieme nell’opera redazionale degli evangelisti, ma che originariamente costituivano due racconti separati. Erano: a)il racconto della notte, per l’istituzione eucaristica e b) il racconto del giorno, per la giustificazione del battesimo. Un confronto con questa posizione metterà meglio in luce l’unità esistente tra il racconto della notte e quello del giorno.

2.4. Non una nuova pasqua, ma la pasqua con nuovi contenuti

A sostegno della separazione dei due racconti, Schille ritiene che l’anamnesi eucaristica abbia una sua tradizione precisa che fa riferimento a «quella notte». Lo dimostra il racconto dell’istituzione eucaristica fatto da Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Paolo sottolinea di aver ricevuto ciò che, a sua volta ha trasmesso, facendo un chiaro riferimento a un dato della tradizione, e ponendo immediatamente il gesto di Gesù relativo al pane e al vino «nella notte in cui veniva tradito» (1 Cor 11, 23-26).

I dati letterari relativi alla struttura unitaria del racconto della notte sono impressionanti. Riguardano la triplice predizione di Gesù e le somiglianze del testo sinottico con quello dell’antichissimo scritto della Didaché.

Gesù preannuncia: 1) il tradimento di Giuda (Mc 14, 20); 2) la fuga dei discepoli (Mc 14, 27) e 3) il rinnegamento di Pietro (Mc 14, 30). Le tre predizioni si verificarono inesorabilmente prima che spuntasse il nuovo giorno. Giuda consegnò Gesù, dopo la sofferta preghiera di lui nell’orto di Getsemani (Mc 14, 43-45). «Tutti» coloro che erano con Gesù «lasciandolo, fuggirono», al momento del suo arresto (Mc 14, 50). Pietro lo rinnegò tre volte, prima che il gallo, che annunciava la fine della notte, facesse in tempo a cantare due volte (Mc 14, 66-72). Sicché la fine della notte è accompagnata dall’amaro singhiozzare di Pietro, che ricordatosi dell’ironica e affettuosa premonizione di Gesù, «piangeva dirottamente» (Mc 14, 72), mentre il racconto riprende sottolineando che è un nuovo giorno, è il mattino (Mc 15, 1), quello della condanna e della via di Gesù verso il Golgota.

Le somiglianze tra il racconto sinottico relativo all’anamnesi eucaristica e la preghiera eucaristica della Didaché sono anche notevoli. A Mc 14, 21, in cui Gesù parla di sé come del Figlio dell’uomo (immagine apocalittica), dicendo: «guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito!»

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 7.Capcorrisponde Didaché 10, 6, con accenti escatologici ed un invito al proprio autoesame: «Venga la grazia e passi questo mondo! Osanna al Dio di David! Chi è santo di avvicini, chi non lo è si converta. Maranathà. Amen». Al logion sulla vite «In verità vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14, 25) corrisponde, nella Didaché, il ringraziamento per la vite di David: «Ti ringraziamo o Padre nostro, per la santa vite di David tuo servo, che ci hai fatto svelare da Gesù Cristo tuo servo» (Did 9, 2). Così gli appelli di Gesù alla vigilanza e alla preghiera (Mc 14, 38) hanno chiari riscontri nella Didaché: «Vigilate sulla vostra vita, le vostre lampade non si spengano e le cinture non si sciolgano dai vostri fianchi, ma state pronti, perché non conoscete l’ora nella quale il nostro Signore verrà» (Did 16).

Le testimonianze bibliche esaminate ci consentono certamente di affermare l’unità strutturale del racconto dell’istituzione eucaristica. Ciononostante, la sola anamnesi eucaristica non spiega la forma presa dal racconto considerato. La celebrazione eucaristica può, al più, spiegare la sua origine, ma non la forma che questo ha assunto. L’unità riscontrata in ciò che viene chiamato il «racconto della notte» non esclude una superiore unità tra questo e l’altro successivo, il «racconto del giorno». Anzi solo se si coglie quest’ulteriore unità, si può avere una ragione della forma dell’uno e dell’altro. A ciò aggiungiamo, a nostra volta, che l’eucaristia e la via di Gesù al Calvario sono unite non solo narrativamente, ma anche teologicamente. Le predizioni di Gesù sulla dispersione dei discepoli fanno da contrappunto all’istituzione eucaristica, del segno più grande che ci possa essere sull’unità tra Gesù ed i suoi e tra i suoi nel loro interno. La via solitaria di Gesù verso il calvario ricorda quella mancata vicinanza dei suoi, che Gesù aveva cercato con tutti i mezzi. Ne sono prova la volontà di Gesù di celebrare con loro quella pasqua, particolarmente evidenziata da Luca («Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione»: Lc 22, 15); l’insistenza verso Pietro, Giacomo e Giovanni perché restino svegli, pregando con lui (Mc 14, 37.40.41-42) e la stessa istituzione eucaristica.

Nel cammino di Gesù si compie inoltre quanto egli aveva già anticipato nelle predizioni e nel segno del pane spezzato e del vino versato proprio nella notte. Non si può pertanto artificiosamente separare il racconto del giorno da quello della notte, perché un’inscindibile continuità teologica lega entrambi.

Ma anche se si volessero rifiutare queste ultime considerazioni perché più schiettamente teologiche, non pensiamo ci siano argomenti irrefutabili contro la spiegazione unitaria dei Feneberg. Approfondendo i tratti della continuità teologica e letteraria da essi evidenziata, questa si può cogliere ancora a vari livelli. Il primo, più immediato e diretto, è la continuità tra l’anamnesi eucaristica della comunità e la celebrazione eucaristica di Gesù. Quella di Gesù è una celebrazione particolare che unisce la nuova pasqua agli antichi riti del Pesaq ebraico. Riprende la stessa forma, ma ne trasfigura i contenuti. Gesù fa coincidere la sua via dolorosa, la sua morte e la sua incrollabile fiducia nella vittoria su di essa, con le opere salvifiche di Dio, come venivano raccontate e riattualizzate negli haggadà, ma fa coincidere nello stesso tempo la cena pasquale ebraica con quella eucaristica celebrata con i suoi e fa coincidere questa con l’anticipazione del suo imminente destino, attraverso il pane spezzato e il vino versato.

3. Punti basilari per una «biografia teologica» di Gesù

I due saggi dei Feneberg, dei quali si è finora preso in considerazione il primo (relativo alla storia delle forme), vengono a confermare e a documentare ulteriormente quanto andiamo affermando dall’inizio del nostro lavoro: la inseparabilità a livello storico tra la vita di Gesù e la sua interpretazione teologica. La biografia di Gesù, che non può certamente essere scritta secondo

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 7.Caple modalità moderne di esattezza cronologica e topografica, può essere nondimeno attinta nei suoi tratti fondamentali attraverso quella forma teologica che è il vangelo, nella misura in cui si dà valore storico proprio a questa forma teologicamente pregnante, che non appanna la storicità di Gesù, ma piuttosto la manifesta. Non essendo più un quadro teologico cristiano, postpasquale, ma una cornice giudaico-cristiana, il vangelo ci permette di cogliere i momenti evolutivi di una storia che, saldata al suo contesto teologico originario, ha uno sviluppo esterno ed uno sviluppo interno. L’approdo a questo risultati non può essere smentito dall’accusa che così si sfocia nelle ricostruzioni biografiche di Gesù da altri effettuate. In queste infatti mancava l’elemento essenziale, la storicità della fonte, che essendo ritenuta «dogmatica» era scartata come tale. L’alternativa era di ricercare vie d’approccio di valore molto dubbio, perché o basate su ricostruzioni psicologiche arbitrarie o su supposizioni letterarie critico-ricostruttive.

Lo sviluppo esterno ed interno che si coglie nella vicenda evangelica di Gesù è un tutt’uno con la sua identità teologica e la sua autocoscienza messianica. In questo contesto, è allora possibile cogliere non solo il fatto dell’esistenza di Gesù, ma anche il come di questa. È l’obiettivo del secondo saggio, di Wolfgang Feneberg, il quale ricostruisce le varie tappe della messianicità di Gesù nell’orizzonte della torah, della Legge, e del regno di Dio. Poiché ci riserviamo di intervenire sull’argomento nel capitolo successivo, possiamo concludere questo con l’evidenziazione di alcuni punti basilari, indispensabili per una comprensione storica di Gesù.

Il primo, che ci sembra assolutamente irrinunciabile, è l’autocoscienza che Gesù ha della sua missione, che anche se si andrà chiarendo successivamente per ciò che riguarda le sue modalità effettuali, è presente almeno dal battesimo. Il secondo è il legame tra questa missione e il mondo giudaico-teologico in cui Gesù opera. Egli ha di mira non solo la rifondazione della torah, ma anche del popolo di Dio, verso il quale la sua volontà di riaggregazione è ugualmente fondamentale. Un terzo elemento basilare è la congiunzione operata da Gesù, prima ancora che dai discepoli, tra il regno di Dio, la sua persona e la sua storia. Di conseguenza, come quarto punto, ribadiamo l’identificazione di Gesù con il servo di Dio e con l’agnello sacrificale, in un’ermeneutica che collega la fedeltà al Padre e la fedeltà al suo popolo.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Cap

CAPITOLO VIII. LA PRASSI DI GESÙ E LE SUE MOTIVAZIONI TEOLOGALI

1. La nuova ricerca su Gesù tende ad una «biografia teologica»

Al punto in cui siamo nella nostra ricerca, ci domandiamo che cosa realmente si opponga a ciò che è stato chiamato una «biografia teologica» di Gesù, intendendo con questa espressione una ricostruzione della vita di Gesù che parta dalle sue motivazioni e dai suoi convincimenti più profondi.

A prima vista, l’ostacolo sembrerebbe l’esplicito rifiuto degli autori di una specifica ermeneutica teologica di Gesù, sempre per le stesse ragioni: il carattere astorico del dato evangelico. Così, ad esempio, Bornkamm può dichiarare che la storia di Gesù

«è tanto trasformata nella tradizione in una testimonianza (s’intende di fede) su Cristo, al punto che non ci è lecito interrogarci su ciò che essa abbia significato per lo stesso Gesù, le sue decisioni, ed il suo intimo sviluppo»1.

Ciononostante, proprio Bornkamm, come del resto molti altri dopo di lui, riconosce la non irrilevanza di quest’evento (“Ereignis”), ricostruito, successivamente, attraverso una serie di indicazioni, che costituirebbero uno schizzo storico di Gesù, con elementi sicuri o avvenimenti e tappe fondamentali della sua vita.

A questi appartengono, in primo luogo, ciò che R. Fabris chiama «cartella anagrafica di Gesù»2, comprendente, con certezza: 1) il nome: Jeshù, abbreviazione di Jehoshùa; 2) i genitori: Joseph e Myriam; 3) il tempo della nascita: l’epoca del re Erode (in genere si parla del 5/6 a. C.)3; 4) lo stato civile: celibe; 5) la professione: carpentiere. Sul luogo di nascita si discute, anche se in genere la propensione è per Nazareth e non per Bethlem, giacché l’informazione della nascita in questa città, data di Matteo e Luca, è ritenuta funzionale ad interessi teologici. Vuole evidenziare la discendenza davidica di Gesù e la somiglianza della sua nascita con le altre nascite di precedenti modelli biblici (Isacco, Giuseppe, Mosè, ecc.).

Ai dati ritenuti certi di questo schizzo storico di Gesù, si aggiungono alcuni riferimenti esterni, come, ad esempio, il suo rapporto con Giovanni il Battezzatore e il ruolo avuto dalle autorità che sancirono la sua condanna a morte (Ponzio Pilato e l’autorità giudaica). Ma si aggiungono anche dati interni, cioè relativi all’originalità dell’insegnamento di Gesù, all’impressione da lui suscitata nei suoi ascoltatori, al carattere particolare della sequela e del discepolato, ai quali egli chiama, al modo con il quale egli si pone di fronte al patrimonio biblico-religioso del giudaismo e a coloro che in esso avevano seri problemi, i peccatori, i pubblicani, il «popolo della terra” ecc. Ciò che

1 G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 49. La chiarificazione contenuta nella parentesi è mia.2 R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit., 85ss.3 Com’è noto, la singolare divergenza di 5/6 anni tra la data fissata dalla tradizione e quella effettiva è dovuta ai calcoli di

Dionigi il Piccolo (497-540), che erroneamente fissò l’inizio dell’era cristiana all’anno 754 dalla fondazione di Roma; un autore che ebbe comunque molti meriti, tra i quali l’aver posto fine alla controversia della data della pasqua, che travagliò gli inizi della Chiesa. Cfr. Lexikon für Theologie und Kirche III, voce Dionisius Exiguus, 336-337. Sulla data della nascita di Gesù e gli argomenti che la fanno anticipare a 5 o 6 anni prima a quella fissata da Dionigi, cfr. IDEM, II, voce Chronologie des NT, 330-332; ma vedi anche R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit., 91ss, nota 31.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Capinvece in questi autori resta storicamente inaccessibile, o almeno problematico, è, come si è già visto, la coscienza di Gesù circa la sua morte e la sua missione in genere, tema strettamente collegato con la coscienza messianica e, perciò argomento tabù, oppure trattato con estrema cautela.

Ciononostante, anche coloro che, secondo i canoni della «Storia delle forme», esplicitamente negano che si possa attingere la coscienza che Gesù aveva di se stesso, finiscono di fatto con il tratteggiarne una, legandola all’annuncio del regno di Dio, alla continuità e discontinuità di questo annuncio con quello apocalittico dell’epoca e soprattutto di Giovanni Battista.

Siamo dinanzi a una situazione abbastanza singolare. Da un lato, si esclude un’interpretazione teologica da parte di Gesù sulla sua persona e sulla sua identità; dall’altro, si delinea un profilo dottrinale piuttosto preciso del suo insegnamento e del suo stesso agire. Non ci si rende conto abbastanza che proprio quell’insegnamento costituisce uno schema ermeneutico, nel quale l’identità teologica di Gesù non può essere separata dal suo messaggio, la sua autocoscienza non si può disgiungere dall’interpretazione religiosa che sorregge la sua predicazione e quindi il suo pensiero. L’avevano già ammesso, anche se piuttosto implicitamente, quei discepoli di Bultmann che avevano situato la predicazione di Gesù nel suo agire, nello stile della sua vita e della sua condotta, sicché il suo annuncio era visto nelle due accezioni principali, già presenti nei profeti: i gesti comportamentali e la chiarificazione di questi, l’agire e la sua spiegazione, la prassi e la parola. L’inestricabile rapporto che intercorre tra questi elementi non può essere solo spiegato su un piano pedagogico o didascalico, ma implica un coinvolgimento totale della vita di Gesù con il suo messaggio, sicché questa e quello non dovrebbero essere mai separati.

È molto vicino a questa concezione, unificante l’agire e l’interpretazione, la coscienza e l’autocoscienza di Gesù, R. Fabris, il quale parla di un progetto di Gesù, la cui chiarificazione avviene nel confronto con la missione del Battista e a partire dal battesimo in poi:

«Da allora il regno di Dio irrompe con forza nella storia degli uomini chiamati ad una decisione radicale (Mt 11, 12-13; Lc 16, 16). Accogliere il regno di Dio vuol dire prendere posizione di fronte a Gesù e al suo annuncio salvifico perché la sua persona è talmente implicata con il suo progetto che egli può riferirsi all’immagine battesimale per esprimere il suo impegno di fedeltà totale a Dio e di solidarietà estrema con gli uomini (Mc 10, 38; Lc 12, 50). Questo è ora il ‘suo battesimo’. In questa prospettiva anche il rito battesimale, segno di penitenza, al quale egli si è sottoposto...e che ha segnato una svolta nel suo progetto storico, diventa espressione della sua condivisione del destino dei peccatori»4.

In conclusione, se la predicazione di Gesù non può essere isolata dalla sua prassi, non può esserlo nemmeno dalla sua autocoscienza, giacché questa sarebbe del tutto immotivata. Si contraddirebbero inoltre tutte le più elementari norme sia dell’agire, che dell’interrelazione, secondo le quali il progetto è sempre una sintesi dinamica tra coscienza, possibilità storiche ed avvenimenti. Ma è anche una continua verifica e un costante rimbalzo allo stesso soggetto delle reazioni e delle modifiche che il suo atto comunicativo (qui la predicazione) suscita. Ora, nemmeno in questo caso Gesù si è sottratto alla logica dell’incarnazione: accettando il dinamismo interrelazionale, la sua autocoscienza è da considerarsi profondamente legata al suo agire e al re-agire di quelli che ne restavano coinvolti. Ciò riguardava in primo luogo i discepoli più vicini a Gesù, con i quali egli condivise la coscienza che aveva della sua missione e quindi, in ultima analisi, la sua “cristologia”.

4 R. FABRIS, Gesù di Nazareth, op, cit., 114-115.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.CapMa, in questo modo, si dovrà prima o dopo convenire con ciò che scrive R. Feneberg, il quale

ritiene che i vangeli appartengano alla cristologia esplicita, e non più implicita, a motivo della coscienza teologica di Gesù. Sicché

«Gesù ha ripensato a se stesso. Ebbe una teoria della sua vita e con ciò una cristologia esplicita. Naturalmente questa non esisteva al di fuori o al di sopra della prassi, quindi in modo astorico, ma ebbe un suo sviluppo solo insieme con essa»5.

Con ciò, pensiamo di aver indicato anche una base teorica per comprendere le varie modalità espressive della prassi di Gesù. Esse corrispondono ad alcune tappe fondamentali della sua vita, secondo delle «forme» o degli schemi di interpretazione teologica, reperiti nella Scrittura e rivissuti e rielaborati dalla sua coscienza. Sono, nondimeno, piùmodalità che tappe storicamente delimitate ad alcune fasi storiche precise. Sono infatti in ordine di progressivo approfondimento e radicalizzazione, ma si possono tutte ricondurre all’ermeneutica della fedeltà a Dio e della solidarietà con gli uomini, un’ermeneutica che potremo alla fine compendiare come prassi di pace. Questa si esprime attraverso una prassi profetica e convocatrice, una prassi della misericordia e della liberazione e una prassi diaconale ed oblativa

2. Prassi profetica e convocatrice

L’agire di Gesù è certamente da contestualizzare nella situazione storico-geografica del tempo, ma avvertendo che l’interpretazione di tale contesto avviene in Gesù attraverso le categorie religiose nelle quali egli si muoveva e con le quali viveva. Come riconosce la maggior parte degli autori già citati, Gesù, pur agendo come profeta e come maestro, si distingue da tutti i profeti e da tutti i maestri d’Israele per una sua originalità e peculiarità, che hanno fatto parlare qualcuno di un’immediatezza senza confronti e senza precedenti6. Come però si diceva, la forza e l’immediatezza di questa originalità sono tratti di un ‘interpretazione teologica che non può risalire che a Gesù e alla sua stessa prassi. Questa si colloca a diversi livelli, ma intercetta e attraversa realtà che sono di carattere biblico ed etico, profetico e politico. Tocca, in primo luogo l’interpretazione circa il popolo di Dio che vive nella Palestina dell’epoca. A ciò dovremo ora fare riferimento per meglio comprendere l’agire di Gesù, i suoi interlocutori e le concrete situazioni nelle quali egli era venuto a trovarsi.

2.1. L’impiantazione dell’impero e la predicazione del regno di Dio

La Palestina del tempo di Gesù vedeva convivere in maniera conflittuale, di una conflittualità che talora esplodeva esteriormente, ma spesso ribolliva internamente, strutture di dominatori e situazioni di adattamento da parte dei dominati, idealità religiose ed opportunismi e calcoli politici7. Ridotte forzosamente ad essere province dell’impero, la Galilea e la Giudea erano entrate

5 R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit., 125.6 Bornkamm parla di una “Unmittelbarkeit”, un’immediatezza così propria e tipica di Gesù, che questa non solo appartiene al

quadro storico del Vangelo, ma lo ha segnato profondamente lasciandovi tracce indelebili. Cfr. G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 52.

7 Le contestualizzazioni storico-geografiche hanno notevole rilievo nella maggior parte delle opere già citate. Ciò che qui si riporta cerca di tener conto dei fattori sui quali esse convergono, con una particolare attenzione a quelli che sembrano nevralgici per la prassi di Gesù. Cfr., a titolo d’esempio: R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit., L’ambiente di Gesù, ivi pp. 64-85; e Prese di posizioni di Gesù, ivi, pp. 135-149. Cfr. anche A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, cit., soprattutto la III parte: La buona novella. Per la parte relativa alla convocazione operata dalla prassi di Gesù, cfr. J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento I, cit., 194-205: Il raduno della comunità dei salvati. Cfr. H. ECHEGARAY, La prassi di Gesù, Cittadella Ed., Assisi 1983, cui siamo debitori dell’espressione “prassi convocatrice” (ivi 10 ss.) e di alcune indicazioni tanto di carattere sociale che di carattere biblico.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Capin un circuito amministrativo, economico e militare, che non solo era molto più grande di esse, ma minava inesorabilmente la loro compagine socio-religiosa, perché aveva innescato un processo disgregante che scatenava una profonda crisi strutturale e teologica.

A livello economico ed agrario, si diffondeva sempre più la proprietà latifondiaria, che soppiantando i piccoli appezzamenti di terreno, faceva aumentare il numero dei braccianti a giornata.

Il censimento condotto agli inizi del primo secolo da Publio Sulpicio Quirino aveva come scopo la compilazione di un catasto avente per oggetto persone e proprietà per una loro accurata tassazione. Produceva effetti economici molto nocivi su una popolazione di per sé già abbastanza povera ed effetti ancora più devastanti sulla stessa anima religiosa dell’israelita.

Il censire la terra come proprietà dell’imperatore significava infrangere uno dei cardini della struttura socio-religiosa ebraica, che ascriveva la terra alla proprietà di Dio, il quale la dava in usufrutto al suo popolo. Quanti avevano responsabilità politiche e religiose in Israele si erano invece piegati alla nuova situazione imposta dal dominio romano. Avevano comunque cercato di trarre da ciò tutti i benefici possibili. Tra costoro c’erano naturalmente i collaboratori attivi alle operazioni di esazione, l’aristocrazia sacerdotale, i sadducei, la famiglia di Erode ed i circoli a lui legati. A questi sono da aggiungere i latifondisti, che, d’accordo con l’autorità romana, potevano ampliare e migliorare la coltivazione della terra, ed infine i grandi commercianti.

I detentori del potere religioso e giudiziario, raccolti nel Sinedrio, godevamo di un’autonomia fittizia, che se accontentava i suoi membri, scontentava ogni giorno di più il popolo che si sentiva sfruttato e tradito. Sicché, mentre l’impero e le sue strutture s’impiantavano, cresceva il disorientamento di quella gente, che era chiamata ’am ha-arez, il popolo della terra, che al tempo di Gesù indicava gli incolti e, più genericamente, costituiva la gente semplice e modesta, cui si aggiungevano quanti nella nuova situazione avevano perso i loro pochi beni o la loro identità socio-religiosa.

Di fronte all’impiantarsi dell’impero e al rispettivo sgretolarsi dell’identità e delle speranze di un popolo siffatto, l’agire di Gesù si va delineando come sovrana, libera e decisiva predicazione del regno di Dio e dei suoi irrinunciabili diritti.

Si tratta di un regno la cui originalità sulla bocca di Gesù è ben sottolineata dai commentatori, che ne mettono in luce l’inafferrabilità e l’immediatezza della presenza8, ma anche il suo inarrestabile venire, a favore dei piccoli, dei poveri e dei lontani9. A ciò sono tuttavia da aggiungere le modalità implicate in quest’annuncio, i caratteri con i quali il regno viene attraverso la prassi di Gesù, la quale ad essi si ispira e da essi resta modellata.

2.2. Prassi di gratuità e di solidarietà

La predicazione del regno avviene, in primo luogo, nella e attraverso la prassi di Gesù, che è essa stessa messaggio di gratuità e contestazione della logica dell’accumulazione e del profitto.

8 Cfr. G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 57-84.9 Cfr. R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit., 116-132 e la già citata III parte di A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, cit., 65ss. Per il

“popolo della terra” cfr. S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù, cit., 89.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.CapIn una situazione che sul piano etico-economico stravolge il cuore della torah, perché favorisce il

profitto, l’accumulazione e l’opportunismo, il messaggio e la prassi del regno di Dio ne contestano l’impostazione complessiva perché sono prassi ed annuncio del dono e della gratuità. È la prassi di una povertà, che mentre si esprime in Gesù con il fatto di non avere nemmeno dove posare il capo (Lc 9, 58; Mt 8, 20)10, si radica nella strabiliante certezza di avere Dio per padre. L’invito a scorgere l’agire provvido ed amorevole di Dio nel nutrire gli uccelli del cielo e nel vestire i gigli dei campi (Mt 6, 26-32; Lc 12, 22-31) non è pertanto panacea consolatoria ed alienante per i derelitti, è piuttosto denuncia e profezia contro chi si affanna, dicendo: «Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?...Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi... Poi dirò a me stesso: Anima mia hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia» (Lc 12, 17-19). Su colui che ragiona così, nella logica della tesaurizzazione e con la soddisfazione dell’avidità appagata, la parola di Gesù si abbatte con la virulenza delle più dure profezie: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12, 20).

Gesù vuole inoltre sottolineare che la prassi della solidarietà, legata alla coscienza dell’agire di Dio nei confronti dell’uomo, è indispensabile per far parte del regno ed esprimere la sua novità e le sue caratteristiche. Perciò condanna l’ingordigia di chi banchetta lautamente tutti i giorni, lasciando Lazzaro fuori della porta (Lc 16, 19-30) e di chi è occupato esclusivamente in problemi di eredità e di garanzie economiche (Lc 12, 13-15; Mt 6, 25); l’altalenarsi di chi non sa mai decidersi tra il servizio al denaro, a «mammona», e il servizio a Dio (Mt 6, 24; Lc 16, 13).

Il regno esige una prassi di gratuità e di condivisione, quella stessa con la quale Gesù va incontro ai peccatori e agli afflitti, ai poveri ed ai sofferenti. L’appello di Gesù non è prevalentemente etico, ma è un invito ad entrare nel circuito della sua prassi, che è poi quella del regno di Dio che viene. In quest’ottica acquistano una nuova luce parole come queste: «Ebbene io vi dico: procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché quando verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16, 9). Per questa ragione, Gesù non esita ad andare a casa di quel pubblicano, dal nome Zaccheo, nel quale sono chiari i segni di un’inversione di tendenza, dall’avidità alla convivialità e dall’abuso di potere con frode, a scopo dilucro, alla condivisione solidale; come dimostrano inequivocabilmente gli impegni che costui assume solennemente davanti a Gesù e ai convitati: «Ecco, Signore, io dò metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (Lc 19, 8). Nella condivisione e nella solidarietà, praticata ed esigita da Gesù ritroviamo la sua volontà aggregatrice dell’intero suo popolo.

10 Pensiamo che le parole di Gesù siano ancora da prendere nel senso letterale. Gesù insegna mentre è in cammino e chiama e riceve i peccatori e i derelitti, strada facendo. La sua sequela non ha bisogno di un luogo, simile ad una casa o una sinagoga, dove egli possa insegnare, anche se Gesù è talora intento a farlo nell’una o nell’altra. La casa, che egli avrebbe avuto a Cafarnao, insieme con Pietro e Andrea e le rispettive famiglie (Cfr. Mc 1.21.29.35; 2, 1-2; Mt 4, 13), è considerata da qualcuno come una vera e propria dimora di Gesù (cfr. A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, cit., 56, che si appoggia a E. LOHMEYER, Das Evangelium des Markus, Göttingen 1967 e J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento, cit.). Si invoca a dimostrazione di ciò l’espressione di Mc 2, 15, che parlando di Gesù che siede a tavola con i pubblicani e peccatori, parla di una “casa di lui” (oikìa autoû). Non deve però necessariamente trattarsi della casa di Gesù, perché il pronome “di lui” può essere riferito alla casa di Levi, che, chiamato da Gesù, allestisce per i suoi amici, per Gesù ed i suoi discepoli un banchetto. Questa interpretazione è quella corrente e sembra più convincente, considerando il valore del gesto, innovatore ed inaudito per i farisei, di andare nella stessa casa del peccatore, come avviene anche nel caso di Zaccheo (Lc 19, 1-10), così come succederà per Pietro nei confronti del pagano Cornelio (At 10, 1-33).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Cap2.3. La prassi che riaggrega un popolo diviso e disperso

2.3.1. Situazione all’epoca di Gesù

Il quadro della società palestinese che Gesù si trova davanti è senza dubbio avvilente. All’avidità delle classi emergenti e alla penetrazione subdola dell’opportunismo e del calcolo dei più ricchi, fa riscontro, come si diceva, un diffuso disagio tra i più poveri, la cui identità di popolo di Dio attraversa momenti di crisi dovuta anche alla risposta assolutamente inadeguata, da parte della classe sacerdotale, dei rabbini e dei dotti del tempo. La sua coscienza teologica gli consente di scorgerne le contraddizioni e di proporre una nuova riaggregazione.

Gesù aveva di frontedifferenti scuole rabbiniche, che si diversificavano in una miriade di interpretazioni della torah, e che si possono disporre a ventaglio tra due estremi, un’ermeneutica rigorista, risalente a Shammai, ed una moderata, che faceva capo a Hillel. Ciò aveva per risultato la proliferazione di molteplici partiti religiosi e politico-religiosi, ma anche la confusione e la divisione del popolo. Come anche Ben-Chorim riconosce, la particolarità dell’insegnamento di Gesù non consiste nel fatto che egli abbracci l’interpretazione di Hillel e la diffonda, poiché la sua interpretazione è talora umanizzante, talora rigorista11. Egli si pone piuttosto al di fuori e al di sopra del dibattito, perché afferra, ci sembra, il vero capo del problema: l’urgenza di una riconvocazione del popolo d’Israele.

La coscienza messianica si manifesta in lui attraverso questa prima forma di ermeneutica teologica: l’impellenza di una raccolta escatologica del qehal Jahvè, cioè del popolo di Dio. Dicendo ciò, noi non ricadiamo nello psicologismo delle vite di Gesù precedenti a Bultmann, né nell’interpretazione dell’“escatologia conseguente” di Schweitzer. Infatti non ricorriamo a spiegazioni di tipo psicologico, dicendo, come Schweitzer, che Gesù si sarebbe sbagliato nell’attendersi un’irruzione imminente del regno di Dio e ne avrebbe ripensate le condizioni fino a considerare la sua morte indispensabile per forzarne la venuta. Ma ricorriamo ai tratti teologici di quella “biografia” di Gesù, che può essere riletta solo alla luce delle «forme” ermeneutiche con le quali egli giudica la sua missione. I vangeli ci testimoniano senz’ombra di dubbio questa volontà convocatrice di Gesù, mentre i risultati dell’indagine storico-sociale della Palestina dell’epoca ci parlano di alcune cifre, anche se approssimative: circa seimila farisei, quattromila esseni e un numero ancora più ridotto di sadducei, di fronte ai sei-settecentomila membri del «popolo della terra».

È a quest’ultimo che Gesù pensa e al quale si indirizza, perché lo vede sbandato come gregge disperso, in cui ognuno va per la sua strada come «pecore senza pastore» (Mc 6, 34; Mt 9, 36; cfr. Nm 27, 17; Ez 34, 5; 1 Re 22, 17). Il vangelo sottolinea ripetutamente lo sguardo di attenzione e di misericordia di Gesù per questo popolo12, che accorre intorno a lui come era accorso alla predicazione del Battista. Mc 8, 1-2 parla della compassione di Gesù per la folla che lo segue da tre

11 Cfr. S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul nazareno, Morcelliana, Brescia 1985, 3ss. L’autore documenta che già per Hillel era centrale l’idea dell’amore del prossimo.

12 L’atteggiamento di Gesù verso non è di commiserazione, dall’alto in basso, ma di misericordiosa compartecipazione ed accoglienza, come si può notare confrontando Mt 14, 14 , Mc 3, 34 (dove si racconta che Gesù “vide” le folle) e Lc 9, 11 che parla esplicitamente di un gesto di “accoglienza” (“avendole accolte = apodexàmenos”) da parte di Gesù. Del resto, anche il solo verbo “vedere” indica, al pari di “fissare lo sguardo”, “guardare intorno” ecc., molto di più che una percezione o un’annotazione narrativa. Esprime l’avvicinamento misericordioso e solidale, salvifico e amorevole di Gesù, come provano, ad esempio: Mc 10, 21.23; Mt 19, 26; Lc 18, 24 (il ricco); Lc 6, 10 (l’uomo dalla mano inaridita); Lc 19, 5 (Zaccheo); Lc 22, 61 (il pianto di Pietro); Gv 1, 38.42 (i primi discepoli).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Capgiorni e non ha nulla da mangiare. Mt 14, 13-14 e Mc 6, 34 mettono in risalto il moto di commozione che coglie Gesù nel vedere la gente che lo ha preceduto a piedi lungo la riva del lago, per poterlo ascoltare. Mt 15, 29-31 indica la composizione di queste «folle» (ochlòi, cfr. anche Mt 15, 36), che però in 15, 32.33 sono indicate con il termine al singolare (òchlos). Si tratta di un popolo in cui ci sono zoppi, storpi, ciechi, muti e molti altri, che Gesù guarisce, ma è anche un popolo assettato di ascoltare la sua parola.

Non è un’iperbole letteraria, ma un concetto teologico, l’informazione: «e una grande moltitudine dalla Galilea e da Gerusalemme e dall’Idumea e dalla Trasgiordania e dai dintorni di Tiro e Sidone, una gran folla venne da lui, avendo udito ciò che faceva» (Mc 3, 7-8). Come, del resto, è teologico il concetto «lo seguì» (da acoluthein), in parallelismo con «venne da lui», perché è lo steso verbo che indica la pronta reazione degli apostoli e di quanti Gesù chiama ad essere suoi “compagni di strada”, concetto che sembra implicito in acoluthein.

2.3.2 Le folle e il popolo di Dio

I luoghi evangelici in cui compare il popolo, nelle diverse accezioni di «folla», «le folle» o «popolo» (rispettivamente corrispondenti a ochlos, ochloi, e «laos) sono molto numerosi. La traduzione italiana scambia spesso questi termini che, a rigore, anche se non sempre presentano una netta distinzione, nondimeno possiedono sensi differenti. Volendo dare delle indicazioni generali su queste differenze, si può dire che il senso concettuale oscilla tra quello narrativo (la folla o le folle = la gente), sociologico (la popolazione), politico (il popolo d’Israele e gli altri popoli) e teologico (il popolo di Dio), che non di rado è indirettamente o implicitamente in alcuni dei sensi precedenti.

Siamo dinanzi a un senso più che altro narrativo lì dove si parla di folla, che fa ressa e si accalca da ogni parte, come, ad esempio, nel caso dell’emorroissa (Lc 8, 42), o della folla che accompagna il feretro del figlio della vedova di Naim (7, 11) o della folla sobillata a chiedere la liberazione di Barabba e la morte di Gesù (Mt 27, 20; Mc 15, 11; Lc 23, 1, che ha «moltitudine» = plethos). Il senso tende a diventare sociologico, quando invece si parla del «popolo» come di un’unità a sé stante, come quando si dice che si teme un suo tumulto (Mt 26, 5; Mc 14, 2; Lc 22, 2; Mt 14, 5; Mt 26, 5) o che viene sobillato da Gesù (Lc 23, 5). Con maggiore chiarezza si può individuare un senso politico nei contesti che parlano dei «popoli» al plurale, indicando le genti (éthna, o laòi) (Mt 11, 17, che riprende Is 56, 7 e Lc 2, 31, che riprende Is 52, 10).

Nella restante maggior parte dei casi la situazione diventa più complessa. Il popolo può essere un’entità chiaramente biblico-teologica, il «popolo di Dio», salvato, conformemente alle antiche promesse (Mt 1, 21; Mt 2, 6; Mt 4, 16; Lc 1, 68; Lc 2, 11; Lc 2, 32) o il popolo rimproverato da Gesù, come dai profeti, perché manifesta un cuore duro e lontano dal suo Dio (Mt 13, 15; Mt 15, 8). Anche se a prima vista sembra debba subire l’ira di Dio (Lc 21, 23), è un popolo per il quale Gesù muore (Gv 11, 50; Gv 18, 12) e perciò è ancora chiamato alla salvezza.

Lo troviamo pertanto intento ad ascoltare la parola di Giovanni, sulla cui identità esso si interroga e dal quale tuttavia si lascia battezzare (Lc 3, 7.10; Lc 3, 15; Lc 3, 21), ma è intento più frequentemente ed intensamente ad ascoltare Gesù (Lc 7, 1; Lc 8, 42; Lc 19, 48; Lc 20, 1.9.45). A questo popolo Gesù parla, perché lo vede assetato di ascoltare la sua parola e perché le maggiori controversie con i suoi oppositori avvengono alla sua presenza (Mc 2, 2; Mt 14, 13-14; Mc 6, 34; Lc 20, 26.45). La disponibilità del popolo all’ascolto, tanto che esso pende dalle labbra di Gesù, quando egli parla nel luogo più qualificato, nel tempio (Lc 19, 48; Lc 20.1; Gv 8, 2), e la sua

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Capfrequentazione di Gesù, sottolineata soprattutto da Luca, sembrerebbero connotarne l’identità teologica. L’esistenza e la vita del popolo di Dio, suggerisce il Vangelo, dipendono direttamente dalla parola del «Signore», che in questo caso è Gesù, subentrato ai profeti che parlavano a nome di Jahvé. Sembrerebbe confermarlo anche il brano di Marco che presenta Gesù circondato dalpopolo, seduto ad ascoltarlo e che Gesù riconosce sua famiglia, prendendo lo spunto dal fatto che sono sopraggiunti i suoi consanguinei (Mc 3, 31-35).

Il senso concettuale del popolo pertanto oscilla tra l’accezione teologica e narrativa lì dove si parla di esso come di un’entità temuta dai potenti, perché in qualche modo fa da sentinella all’autenticità profetica di Gesù, così come aveva fatto nei confronti del Battista (Mt 14, 5; Mt 26, 5; Mc 14, 2; Lc 22, 6). Ha un’identità più teologica, quasi liturgica, quando loda Dio per ciò che vede compiersi in Gesù (Mc 2, 12; Mt 2, 8; Lc 18, 43), così come era in preghiera nel tempio al momento dell’offerta di Zaccaria (Lc 1, 10). Ciò che Gesù compie avviene «davanti a Dio e a tutto il popolo» (Lc 24, 19) ed è, come si è detto, per la sua liberazione e salvezza. Sembrerebbe un popolo che segue Gesù, e dovrà seguirlo -suggerisce forse l’evangelista- fino al calvario, giacché la folla composita che gli sta dietro sulla via dolorosa ricorda l’umanità peccatrice e dolorante che correva da lui ad ascoltarlo sulle rive del lago. Ora che l’ora della croce è scoccata, dietro Gesù troviamo «un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna», cui è imposta la sua croce (Lc 23, 26), ma troviamo anche, intenta a seguirlo, (il verbo è di nuovo acoluthein) una gran moltitudine di popolo (“plethos toù laoù”), in cui ci sono le donne che fanno lamento e persino i due malfattori che stanno per esseregiustiziati (Lc 23, 27-32). Di questi ultimi uno seguirà Gesù, in quello stesso giorno, fin nella sua dimora del Paradiso (Lc 23, 39.43).

Sembra essere, infine, del tutto ambivalente ciò che riferisce Luca, a proposito di un popolo, e qui il tono si fa più discorsivo, che «sta a guardare» Gesù ormai pendente dalla croce, quasi a sottolinearne, - si direbbe - se non proprio l’indifferenza, la curiosità, che lo avrebbe spinto fin là (Lc 23, 35). Ma dello stesso popolo (questa volta indicato con ochloi), Luca però afferma di lì a poco che, avendo visto il modo con cui Gesù era morto, se ne tornava a casa percuotendosi il petto, in un atteggiamento quasi liturgico-penitenziale (Lc 23, 48). Ciò solleva naturalmente il dubbio se l’interpretazione dello «stare a guardare» sia da intendere solo in un senso narrativo o se piuttosto, come ci sembra, in un senso più teologico: cercare di scorgere in quella morte l’agire di Dio attraverso la persona di Gesù. Non è da escludere un’allusione alla fondamentale ambivalenza delle masse e degli uomini di ogni tempo di fronte alla croce del Signore: la compunzione del cuore e la conversione, oppure una sostanziale indifferenza, ammantata di fredda e abulica curiosità.

Per ciò che riguarda complessivamente la coscienza di Gesù sul popolo di Dio, si deve, in conclusione, ritenere che egli aveva ben chiaro il concetto del qehal Jahvé della Scritture, ma confrontandolo con la realtà dell’epoca, vedeva anche l’urgenza non tanto di un intervento come quello del Battista, ma di una sua riconvocazione e di un suo profondo rinnovamento interiore. Il suo parlare quasi senza tregua a quel popolo e a coloro che Gesù associa a sé nella predicazione, al di là di tutti i problemi letterari sollevati dalle raccolte dei discorsi, manifesta questa sua volontà riconvocatrice. In questo contesto riceve anche significato la vocazione dei «dodici», che oggi comunemente si mette in rapporto alle dodici tribù d’Israele, la cui unità e conversione stanno sommamente a cuore a Gesù13. Attraverso tale convocazione, predica il regno. Esso è venuto ed è

13 Sul legame tra i dodici apostoli e le dodici tribù d’Israele cfr. Mt 19, 27-28 (i dodici troni del giudizio finale). Apc 21, 14 (i dodici basamenti della città escatologica), 1 Cor 15, 5 (apparizione del Risorto ai dodici, quando in realtà erano solo undici) e la preoccupazione di integrare il numero voluto da Gesu, come racconta At 1, 15-26, testimoniano l’importanza che tale numero ha per la comunità primitiva.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Capgià in mezzo agli uomini (Lc 17, 21). Il tempo è compiuto, perciò occorre convertirsi (Mc 1, 15; Mt 4, 17). È la raccolta escatologica dove pubblicani e peccatori, prostitute ed emarginati da un lato, ma anche farisei e sadducei, esseni e zeloti, dall’altro, vengono tutti convocati ad una radicale conversione per entrare, rinnovati, nello stesso regno14.

Gesù avverte l’impellenza della raccolta escatologica del regno, alla quale lega la coscienza della sua messianicità, anche perché i responsabili d’Israele non pensano che a pascere se stessi. Egli riprende l’invettiva di Ezechiele che denunciava: «Per colpa del pastore si sono disperse (le pecore) e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura» (Ez 34, 5-6). Anche la denuncia di Gesù è netta: chi si comporta così «è un mercenario e non gli importa delle pecore» (Gv 10, 13). Gesù avverte di essere venuto per radunare il gregge che è del Padre: «Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio» (Gv 10, 29-30).

Gesù riconvoca solennemente il popolo di Dio disperso (Mt 11, 28-30) e accusa quanti non compiono il loro dovere verso il popolo di Dio, di inettitudine e rapina: «Chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte è un ladro e un brigante» (Gv 10, 1). Sono parole che non possono essere fraintese in senso spiritualistico, ma testimoniano una forte prassi di riaggregazione, che si basa sulla coscienza di un profondo legame con il Padre. Lo dimostra il fatto che queste parole furono intese in un senso così concreto da alcuni giudei che si erano sentiti investiti dalla denuncia di Gesù, che essi «portarono di nuovo le pietre, per lapidarlo» (Gv 10, 31).

3. Prassi della misericordia e della liberazione

È singolare nel Vangelo il movimento crescente e contrapposto tra l’amore misericordioso ed aggregante di Gesù, che si va sempre più affinando e precisando fino al dono della propria vita, e l’ostilità sempre più dura e minacciosa, fino a diventare omicida, di quanti detenevano il potere nella Gerusalemme di allora.

Gesù aveva iniziato a realizzare sua la missione messianica cominciando ad annunciare il vangelo dopo l ‘arresto di Giovanni ordinato da Erode e nel triangolo costituito da Cafarnao, Betsaida e Corazin (Mc 1, 14-15; Mt 4, 12-17; Lc 4, 14-15), più a al Nord di Nazaret, sulla punta settentrionale del lago di Tiberiade. Il fatto che Gesù non si sia recato dalla sua città di Nazaret direttamente a Gerusalemme, ma si sia spinto verso il Nord, ci indica la coscienza della continuità, ma anche del superamento che egli ha rispetto alla missione del Battista. Mostra anche la sua intenzione convocatrice del popolo di Dio, a partire da quella regione che era a confine con i pagani, sicché si potesse realizzare la parola profetica di Isaia: «il popolo che sedeva nelle tenebre ha visto una grande luce, e per coloro che sedevano nella regione ed ombra di morte è sorta una luce» (Is 8, 23-9, 1 riportata da Mt 4, 12-15, ma cui allude anche Lc 1, 78-79). Di là Gesù si reca fino a Cesarea di Filippo, nella regione pagana di Tiro e Sidone (Mt 16, 13; Mc 8, 27), dopo aver espresso la sua amarezza per la poca accoglienza che trovata in città come Cafarnao, Corazin e Betsaida ed aver affermato che proprio Tiro e Sidone sarebbe state, al confronto, più sensibili e si

14 Pubblicani e prostitute, credendo al Battista, sono passati avanti nel regno (Mt 21, 28-32). Gesù è celiato come “mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (L 7, 34). “Tutti” costoro si avvicinano a lui per ascoltarlo (Lc 15, 1). Il pubblicano pentito è elogiato, a differenza del fariseo autossufficiente (Lc 18, 9ss), così come è elogiato il capo dei pubblicani Zaccheo, per la sua conversione (Lc 19, 1ss). Sugli zeloti cfr. cap. II, 1.2. Si è accennato al rapporto di Gesù con seguaci del Battista e alle differenze della sua predicazione e del suo agire da costoro, anche se anche a loro Gesù ha proposto la sua strada, come dimostra la presenza di suoi discepoli che provenivano da quegli ambienti. Anche i farisei e i dottori della legge non sono esclusi dal regno, quando mostrano segni di ravvedimento, comprendendo il primato dell’amore (Mc 12, 28-34).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Capsarebbero convertite (Mt 11, 20-23; Lc 10, 13-15). In questa regione, distante da Cafarnao circa 40 chilometri, avvengono la domanda di Gesù sulla sua identità rivolta ai discepoli, la risposta di Pietro e il primo annuncio della passione (Mc 8, 27-33; Mt 16, 13-23; Lc 9, 18-22).

Ma proprio qui si intravede un primo ganglio coscienziale e decisionale di Gesù nel contesto della risposta di Pietro, che lo riconosce come Messia.

«A partire da questo avvenimento, -scrive W. Feneberg- c’è una doppia risposta di Gesù, la cui seconda parte è tematizzata solo da Matteo: è deciso che io debba andare volontariamente incontro alla morte, che come servo di Dio debba portare i peccati di molti (cfr. Mc 10, 45); ma per adesso mi dedico alla fondazione (“Gründung”) del vero Qahal. La formazione dei discepoli e un nuovo modo di esprimersi in parabole - diventare come i bambini, il perdono, non darsi alcuna preoccupazione, il Padre misericordioso - segnano questa via di circa 150 chilometri, che Gesù ha rifatto da Cesarea di Filippo in direzione di Gerusalemme”: Qui l’aspetta la citta santa. È la citta del Messia»15.

Ma Gerusalemme è anche il luogo del tempio. Proprio per questa ragione è il crocevia obbligato di ogni transazione civile, religiosa ed economica. Ma è anche il luogo che visualizza le tante contraddizioni e tensioni presenti in Israele. In questa citta è palese più che altrove il divario tra la crescente ricchezza delle caste legate al potere politico e religioso e l’impoverimento di un popolo lasciato in balìa di se stesso e delle suggestioni di gruppi nazionalisti estremisti. Ma a Gerusalemme le aspirazioni più genuine delle classi popolari sono verso una purificazione ed una restaurazione insenso messianico delle istituzioni religiose. Mentre, come si è accennato, a ciò corrisponde, nelle classi elevate una situazione di commistione e compromesso con il potere, con casi evidenti di corruzione, intrighi e ipocrisie istituzionali.

In questa amministrazione il popolo geme dappertutto sotto un giogo di pesanti fardelli legati sulle sue spalle dalle autorità civili e religiose. Le invettive di Gesù a questo riguardo fotografano, come molti personaggi delle sue parabole, la società del tempo. Qui sono da trovare, infatti, un giudice iniquo e arrogante che si sottrae ripetutamente al suo dovere di compiere giustizia ad una povera vedova (Lc 18, 1-8); un fattore che si garantisce il futuro favorendo i suoi clienti con la manomissione degli atti amministrativi (Lc 16, 1-13); i nuovi ricchi, spensierati e spendaccioni che ammazzano il tempo banchettando lautamente, mentre i nuovi poveri, come Lazzaro, aspettano che si svuotino fuori della porta i contenitori dei rifiuti, per mangiare gli avanzi (Lc 16, 19-31). Nella regione di Gerusalemme e dintorni non mancano ancora, si diceva, diatribe teologico- dottrinali senza fine16.

Chi detiene il potere della scienza non solo non lo mette a servizio degli umili, ma si abbandona ad atti sistematici di indottrinamento forzoso e perfino di plagio verso gli sprovveduti. Le parole di Gesù a questo riguardo sono collocate da Matteo, molto significativamente, dopo la purificazione del tempio. Sono di una chiarezza e di una forza inaudite: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi ed i farisei. Quanto vi dicono fatelo ed osservatolo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23, 2-3). E poco dopo, apostrofandoli direttamente, esclama: «Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi» (Mt 23, 15).

15 R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit., 274.16 Si possono considerare un’eco di tali discussioni, vertenti spesso sulla gerarchizzazione dei comandamenti, le domande

rivolte a Gesù sull’argomento, da parte dei dottori della legge (Mc 12, 28-34; Mt 22, 34-40) e dello stesso ricco (Mc 10, 13-17; Mt 19, 16-22; Lc 18, 18-25).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.CapLa proposta di Gesù è invece liberante. Il suo insegnamento non è quello di una scuola tra le

altre, ma si può indicare in un rapporto personale e dinamico tra lui ed i suoi discepoli. Egli supera ogni discussione, che spesso era solo accademica, sulla gerarchia dei comandamenti, proponendo non un altro comandamento, ma il suo modo di vivere la torah: l’amore che diventa fedeltà e sequela. Tutta la torah ruota intorno all’amore e non avrebbe ragion d’essere, senza di essa (Mc 12, 29-33; Mt 22, 36-40; cfr. anche Gv 15, 9-17). A chi chiede di poter accedere all’esperienza nuova e radicale dell’amore di Dio attraverso l’amore dell’uomo, Gesù propone come al «giovane» ricco di Matteo l’unica strada possibile, quella che egli ha tracciato: lasciare tutto e seguirlo (Mt 19, 20-22; Mc 10, 20-22; Lc 18, 22-23). In questo modo si realizza l’unità di intenti e di destino tra lui e quanti sono diventati suoi compagni di strada, quell’unità profonda che è il fondamento e la giustificazione ultima dell’amore (Gv 15, 1-8).

In questa nuova ottica, Gesù riporta la “legge” al suo nocciolo essenziale: la giustizia, la misericordia, la fedeltà. Riporta l’uomo al cuore di sé stesso: la fiducia , l’amore, il perdono. Per questa ragione il modo di intendere la torah da parte di Gesù avviene su due piani: la radicalizzazione della stessa legge, perché egli ne coglie l’anima profonda che l’ha generata e la sua umanizzazione, perché la vede sempre a beneficio dell’uomo e mai contro l’uomo. Può affermare ripetutamente «Avete inteso che fu detto agli antichi...», ma può aggiungere ogni volta «ma io vi dico...», perché sa di non abolire ma di dare spessore e compimento alla stessa «torah» (Mt 5, 17-48). La chiave di volta del suo insegnamento è nell’essere

perfetti, come il Padre è perfetto (Mt 5, 48), cioè essere radicali nell’amore, giacché non viviamo più nella logica del servo o nel timore dell’uomo religioso, ma viviamo nella logica dei figli (Mt 6, 5-18).

Sarebbe errato ritenere la posizione di Gesù rispetto alla legge come semplice liberalità o maggiore tolleranza, perché egli in effetti esige un cambiamento radicale di prospettiva. Capirne le tensioni ideali che lo muovono significa entrare nella sua prassi di misericordia e di amore incondizionato verso i disprezzati e i derelitti, a differenza non solo dei farisei, che insistendo sulla legge ne hanno dimenticato il cuore ed hanno dimenticato l’uomo (Mt 23, 23; Lc 11, 42; Mc 7, 6-17; Mt 15, 1-20), ma anche degli zeloti e degli stessi esseni, la cui intransigenza li rendeva sprezzanti verso gli erranti ed i pubblicani. Gesù può perciò affermare un principio che contiene, in maniera lapidaria, ciò che egli pensa della legge. Questa ha valore salvifico per l’uomo, non può schiacciarlo, ma, al contrario, lo libera, perché lo immette in un circuito di vita e di benedizione che è quello di Dio: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2, 27), o , come traduce Ben-Chorin, «Il sabato è dato a voi e non voi siete dati al sabato»17.

È ancora la pratica di una misericordia liberante che giustifica la convocazione dei poveri del popolo della terra, ai quali non si sarebbero mai rivolti né i dottori della legge (chabherim), né i farisei (perushim). Ciò apparirà ancora più rivoluzionario, se si pensa che in costoro il disprezzo verso l’‘am ha-arez è tale che essi consideravano, come riferisce Ben-Chorin, il matrimonio tra uno della loro casta e una ragazza del popolo della terra alla stessa stregua dei rapporti di bestialità aborriti dalla Scrittura18.

L’annuncio del vangelo ai poveri non deve perciò destare scandalo in nessuno (Mt 11, 5-6; Lc 7, 22-23). Le beatitudini (Mt 5, 1-12; Lc 6, 20-23) e il discorso programmatico, ed il suo modo di agire

17 S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù, cit., 88. L’autore citando una sentenza simile, riportata nel Talmud (Joma 85b), commenta dicendo “il sabato è dato come un piacere e una gioia, e non come una camicia di forza imposta dalla legge”.

18 Ivi, 89.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Capin ogni circostanza dimostrano che Gesù è cosciente dell’importanza di questo fatto per la sua missione (Lc 4, 16-21). Anche in questo caso la sua prassi è informata alla misericordia che libera gli oppressi. Egli non vuole offrire semplicemente sollievo a chi soffre ed è economicamente, culturalmente o moralmente oppresso, ma propone un nuovo modo di guardare alla vita, alla società, perché propone un modo nuovo di guardare a Dio e a se stessi. È come se dicesse: «Voi che soffrite e siete disprezzati e poveri, affamati e dimenticati, state in piedi e camminate a testa alta, perché il regno di Dio appartiene a voi!»19.

La misericordia di Gesù, sembra il filo rosso che percorre trasversalmente tutto il Vangelo. Storicamente, nessuno più dubita che sia una delle caratteristiche della sua predicazione e del suo agire. La prassi di misericordia si esprime in motivazioni teologiche che hanno il loro centro nell’atteggiamento misericordioso di Dio. Gesù si sente in piena comunione con il Padre proprio per la sua prassi di misericordia e di liberazione. Egli trasalisce di gioia indicibile, nel constatare che il vangelo viene compreso da quei piccoli e poveri ai quali egli ha inteso rivolgersi (Mt 11, 25-27). Interviene con tutta la sua autorità per precisare che è venuto per i malati che hanno bisogno del medico (Mc 2, 16-17; Mt 9, 9-13; Lc 5, 30-31). Illustra l’amore misericordioso e liberante di Dio con le più toccanti parabole che siano state mai pronunciate (Mt 18, 12-14; Lc c. 15). Interviene a favore dei bambini (Mc 10, 13; Mt 19, 13-15; Lc 18, 15-17; Mt 21, 15-17) considerati incapaci di rapportarsi a Dio e alla torah fino al giorno della loro iniziazione alla lettura della legge, quando si diventa «figli del comandamento» (bar-mitzvàh). Difende la peccatrice e ne elogia la sua conversione e l’amore nei suoi confronti (Lc 7, 36-47; Mc 14, 3-9; Mt 26, 6-13). Salva dalla lapidazione l’adultera, prendendo le sue difese (Gv 8, 1-9ss). Valorizza la donna (Mc 1, 29-31 e paralleli; Lc 13, 10; Gv 4, 1-21; Gv 20, 11-15) ed ammette, cosa inaudita per l’epoca, le donne alla sua sequela e al suo discepolato (Lc 8, 1-3; Lc 10, 38-42)20. Cerca un ultimo, estremo contatto con Giuda, nell’ora del tradimento (Mt 26, 21- 25.48-50; Lc 22, 47-48). Perdona i suoi crocifissori (Lc 23, 34). Ha comprensione e parole di salvezza per il «ladrone» che pende accanto a lui dalla croce (Lc 23, 39-43).

Oltre a provare misericordia per il popolo, come già si è visto, e per i tanti sofferenti ivi presenti, egli aveva anche voluto allestire per loro una sorta di banchetto messianico, in un luogo deserto, dove la gente era accorsa ad ascoltarlo (Mc 6, 35-44; Mt 9, 15, 21; Lc 9, 12-17; Gv 6, 4-14). Aveva voluto «ardentemente» mangiare la Pasqua con i suoi, nell’ora suprema della sua vita, nell’imminenza dellla dispersione dei discepoli e della sua consegna ai crocifissori (Lc 22, 14-18).

Sono tutti momenti che ci manifestano il mondo interiore che muoveva Gesù. Ci additano non solo e non tanto i tratti umani del suo carattere, ma le sue intime convinzioni e le sue ragioni teologiche autentiche. In forza di queste, si può dire che dal tempo della confessione di Cesarea di Filippo, Gesù va operando un collegamento che diventa sempre più chiaro, sempre più ineludibile tra la sofferenza e la sorte del suo popolo e la sofferenza e la sorte della sua persona. In lui la prassi misericordiosa della liberazione è così legata alla sua persona e alla teologia che la sorregge, da essere prassi diaconale e, alla fine, oblativa.

19 Senza entrare nel merito di una discussione e della bibliografia sull’argomento delle beatitudini, che meriterebbe una trattazione a sé, basti qui ricordare i risultati dell’opera di J. DUPONT, Les Béatititudes, I-II, Paris 1969. L’autore escludendo un’interpretazione spiritualista, come si diceva nel nostro cap. II(1.1), mette in rapporto la proclamazione “beati voi” che Gesù fa ai poveri, non con una disposizione spirituale di questi, ma a motivo della “natura del regno di Dio che viene, nella disposizione di Dio, che vuole esercitare la sua regalità a favore degli svantaggiati. Le beatitudini sono innanzi tutto una rivelazione della misericordia e della giustizia, che devono caratterizzare il regno di Dio” (ivi, II, 15).

20 In Lc 8, 1-3 le donne sono al seguito di Gesù subito dopo i Dodici: “era in cammino...e con lui i Dodici e alcune donne”. In Gv 10, 38-42 Gesù dice che Maria ha scelto la parte migliore, quella di sedersi ai suoi piedi per ascoltarne la parola.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.Cap4. Prassi diaconale ed oblativa

Il modello di un esercizio di potere come arrivismo, sistemazione personale e dominio sugli altri, dominante nella Palestina dell’epoca, contagiava anche i discepoli di Gesù. Luca ce li presenta intenti a discutere animosamente su chi di loro debba essere il più grande, proprio mentre Gesù parla della sua fine imminente. A questo punto egli smaschera la logica del dominio che si ammanta, in molti, con la virtù della beneficenza, e propone un modo nuovo di esercitare una qualsiasi autorità. Dice: «I re delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così. Ma chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi, come colui che serve» (Lc 22, 23-27). L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù mentre dà un esempio sconcertante di questa nuova prassi del servizio, nella scena della lavanda dei piedi (Gv 13, 1-15).

L’atteggiamento critico di Gesù davanti al potere esercitato dai grandi della terra muove dalla consapevolezza che se esso viene dall’alto, come si dice, non può non essere esercitato che a beneficio degli uomini, altrimenti viene dal maligno. Per questo motivo, nessuno può fermare la sua missione, perché questa viene dal Padre. Gesù inizia a predicare subito dopo l’arresto di Giovanni Battista (Mc 1, 14), dimostrando che l’Erode di turno della storia, anche se può fermare e perfino uccidere un profeta, non può arrestare la Parola di Dio, il correre della buona novella. Quando Erode Antipa vorrà sbarazzarsi di lui, facendogli pervenire minacce di morte, Gesù risponde dicendo che egli deve compiere la sua opera fino a quando non avrà terminato e che deve andare per la sua strada, non esitando a chiamare il re «quella volpe» (Lc 13, 32).

È da leggere nella stessa ottica il tanto citato (spesso a sproposito) logion” del «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12, 13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20, 20-26). Alla domanda se sia lecito o no pagare il tributo, postagli dagli erodiani (collaborazionisti con l’impero) e dai farisei (che pur essendo contro l’impero, vorrebbero sfruttare abilmente l’occasione propizia, ai danni di Gesù), Gesù risponde facendosi mostrare la moneta del tributo. Su di essa c’è l’effigie dell’imperatore con l’iscrizione che a lui si riferisce. Ad un ebreo era vietato dalla “legge” farsi qualunque effigie «di ciò che sta su in cielo o giù sulla terra, nell’acqua o sotto terra” (Dt 5, 8). Adottare monete con l’effigie dell’imperatore, in una terra che era di Dio, era una contraddizione stridente, una bestemmia per gli ebrei osservanti quali i farisei. La controdomanda di Gesù è vòlta ad evidenziare questa contraddizione: «Di chi è l’immagine e l’iscrizione?». La risposta non può essere che «di Cesare». «Allora restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Ma cosa apparteneva a Cesare? Cosa appartiene a Dio? Cesare era un intruso in quella terra, in quella religione. Doveva essere ridimensionato al suo ruolo, giacché aveva preteso di essere Dio, come alludevano sia l’immagine che l’iscrizione della moneta. Ben lo sapevano i cristiani lettori del Vangelo di Marco, che subivano ogni genere di persecuzione perché negavano a Cesare un culto che si deve dare solo a Dio. Tale diniego deve essere ricondotto - suggerisce il Vangelo - alla volontà di Gesù.

In conclusione, anche in questo caso, e sopratutto qui, l’agire di Gesù ci riporta al suo progetto messianico più profondo: restituire a Dio ciò che gli appartiene: il suo popolo disperso, la sua terra dominata, il suo culto inquinato. In questo contesto va anche intesa la purificazione del tempio (Mc 11, 15-17; Mt 21, 12- 13; Lc 19, 45-46) e la conseguente attività messianica, con la predicazione e le guarigioni ivi operate (Mt 21, 14). I rischi che Gesù corre sono tanti. Ne è coscienze e prende le sue contromisure, come appare evidente da altri riferimenti evangelici relativi alla sua prassi messianica.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.CapIl fraintentimento più grossolano in cui poteva incorrere l’agire di Gesù agli occhi dei suoi

discepoli e delle folle che lo seguivano, era quello di pensare che egli volesse e persino dovesse prendere in mano le redini di un messianismo politico-rivoluzionario, rispondendo alle attese del popolo con una sorta do golpe politico-popolare. Diventare insomma un vero re d’israele, visto che l’altro re non era che un fantoccio di re, lontano dal cuore e dall’anima d’Israele. Gesù è cosciente di correre questo rischio, date le attese semplici ed immediate dei suoi ascoltatori. Perciò deve ripetutamente intervenire su questo punto, fino a respingere chiaramente l’idea di impadronirsi di un potere terreno, sfruttando l’ondata di favore popolare dopo il banchetto messianico (Gv 6, 15). Anche in questo momento Gesù smaschera la vecchia tentazione che si era affacciata fin dall’epoca del ritiro nel deserto, agli inizi della sua attività pubblica (Mt 4, 8-10; Lc 4, 5-8), così come la respingerà pochi istanti prima di morire (Mt 27, 39-37; Mc 15, 29-32; Lc 23, 35-38). Proprio allora l’iscrizione che sarcasticamente lo indica come «re dei Giudei» e gli scherni degli astanti ripropongono la tentazione di sempre: «mostra quello che tu sei», «manifestati come re e tutti saranno con te!».

È un dilemma esistenziale: apparire come colui che regna o come colui che incarna le profezie del profeta perseguitato e del servo sofferente di Jahvé? Gesù non ha dubbi. Quando vengono a proporgli di diventare re, non può essere più esplicito: «voi mi cercate non perché avete visto dei segni» (non avete capito chi realmente io sia e che cosa io voglia), «ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati...Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il figlio dell’uomo vi darà» (Gv 6, 26-27).

Il discorso del pane è fondamentale per comprendere la missione di Gesù. Egli non sarà un distributore di pane, nè sfrutterà l’ondata di simpatia che il miracolo della cosiddetta «moltiplicazione dei pani» gli ha suscitato attorno. Il banchetto messianico, ivi sotteso, come giustificazione teologica (cfr. Is 65, 13-14), è il punto di partenza per presentare se stesso come il pane. Gesù vuole diventare il pane del suo popolo. Offrirà non pane a buon mercato, ma la sua esistenza, spezzata come il pane, per la salvezza di tutti, e il suo sangue costituirà la nuova alleanza, una nuova e definitiva fonte di aggregazione. La sua è perciò una prassi che si può chiamare diaconale ed oblativa, oltre che convocatrice, misericordiosa e liberante.

Gesù ha davanti agli occhi la situazione del suo popolo, descritta con molta vivacità da un salmo con queste parole: «I malvagi divorano il mio popolo come il pane» (Sal 14, 4). Capovolge la situazione e si presenta come il pane che sarà mangiato dal suo popolo e che conferisce la salvezza e la vita: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6, 51), perché, aggiunge, «la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6, 55).

Il racconto dell’istituzione dell’eucaristia realizzerà queste sue parole, le drammatizzerà liturgicamente nella luce tragica e gloriosa della crocifissione ormai imminente. È il momento di andare fino in fondo su questa strada. È l’ora di aggregare nel patto del suo sangue una Chiesa che sta nascendo umanamente disgregata. Nella notte del tradimento, come già si è detto nel capitolo precedente, Gesù raduna i suoi e dà per la loro unità tutto ciò che può donare. Cerca, crea unità nel momento della fuga e della dispersione. Nell’ora delle tenebre il pane spezzato e il sangue versato illumineranno di gloria discreta e regale una Chiesa che nasce nell’angoscia, nell’incertezza, ma alla quale Gesù, dopo il dono del pane, darà sulla croce anche il suo Spirito. Come infatti interpreta una certa esegesi, teologicamente bene informata, Gesù muore sulla croce non solo semplicemente “spirando” (come sembra dire Luca), ma facendo dono del suo Spirito: «E chinato il capo, donò il suo Spirito» (Gv 19, 30).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 8.CapIl dono del suo Spirito, si aggiunge, è da contestualizzare con l’indicazione che dal suo costato

ferito scaturiscono acqua e sangue. Da qui, l’interpretazione teologica ritiene che la comunità dei seguaci nasce dunque dalla croce, con i sacramenti fondamentali del battesimo e dell’eucaristia, ma nasce soprattutto con l’ultimo dono di Gesù, il piùgrande, il suo Spirito. Per il suo popolo egli dà veramente tutto. La sua regalità è nell’atto di questo supremo sacrificio e ciò non può essere che la suprema evidenziazione di tutta la sua prassi e dei motivi che l’hanno sorretta. Per questo motivo il suo regno «non è di questo mondo», nel senso che non è nella logica e nella prassi dei regni di questo mondo, non può essere paragonato ad essi, e tantomeno a quello rappresentato da Pilato, che si impone con la forza e la violenza delle armi (Gv 18, 33-38). Gesù dimostra come si deve regnare nel regno di Dio e cosa vuol dire diventare pane per il proprio popolo. Con la sua croce pone il segno profeticamente più alto della critica al potere, a un potere che non è servizio, ma asservimento degli altri ed indica la strada del servizio e del dono che arriva ad offrire anche la vita per i propri amici (Gv 15, 13-15).

Cosa può giustificare un sacrificio così grande, un’offerta così totale, una critica così radicale? Sono le convinzioni profonde di Gesù, le motivazioni teologiche che lo hanno spinto. Ma è anche, contemporaneamente, l’avvenuto collegamento tra il regno di Dio e la sua stessa persona. Gesù sa ormai, dal tempo della decisione di salire a Gerusalemme, che la sua vita e lo stesso regno di Dio sono inscindibilmente uniti nell’unico atto dell’oblazione e dell’offerta di sé. Con questo dono egli realizzerà la riaggregazione salvifica del popolo di Dio. Egli interiorizza e fa suoi i modelli biblici che offrivano una chiave ermeneutica per comprendere il rifiuto e la sofferenza che stavano per abbattersi su di lui. Anche in questo caso, come vedremo nel capitolo seguente, la sua prassi è teologicamente fondata e il suo modo di porsi dinanzi alla ineluttabilità della condanna, prima, e durante la stessa esecuzione, poi, dimostra la presenza in Gesù di un preciso progetto, che è parte costitutiva della sua «biografia teologica”.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.Cap

CAPITOLO IX. LA MORTE DI GESÙ COME FEDELTA’ AD UN PROGETTO DI PACE

1. Il progetto, punto d’incontro tra passato e futuro

Abbiamo già analizzato nel I capitolo la natura della conoscenza storica. Qui gioverà ricordare che questa è di indole antropologica, avendo una sua caratteristica del tutto particolare che esige l’affinità partecipe e la riflessione critica. Sono due aspetti di un unico dinamismo conoscitivo che comprende nel coinvolgimento, e che riorganizza il dato attraverso la distanza ermeneutica. In questo modo si comprende la differenza tra l’interprete ed i personaggi storici dei quali ci si occupa e si coglie ciò che ad essi ci accomuna.

Se ci chiediamo che cosa giustifichi questo dinamismo di partecipazione e di distacco, arriveremo facilmente alla conclusione, che, trattandosi di una realtà umana intrisa di temporalità, alla base c’è il tempo stesso, che consta di passato, di presente e di futuro. Sarebbe però un errore considerare queste tre modalità temporali come semplici successioni cronologiche, quasi scansioni di tappe che si succedono l’una dopo l’altra, e nulla più. Anche il tempo, e soprattutto il tempo, va considerato antropologicamente, giacché una sua concezione meramente cosmologica ci precluderebbe ogni accesso al passato e al futuro. Le uniche possibilità restanti sarebbero un ricorso al passato solo per inventariarne i relitti e un ricorso al futuro solo come freddo calcolo delle probabilità. In un’accezione rigorosamente cosmologica del tempo, non ci sarebbe storicità, ma solo collezione di pezzi storici da antiquariato. Forse non ci sarebbe nemmeno questa, perché anche il collezionare cimili antichi presuppone un interesse ed un’affinità per ciò che si va raccogliendo.

Il tempo certamente trascorre e la sua scansione non è cosmologicamente arrestabile da parte dell’uomo. Qualcosa accomuna l’uomo e il tempo che passano ed anche l’uomo paga il prezzo della sua cosmologica materialità, non potendo mai disporre delle leggi che ne regolano il suo nascere ed il suo morire, e quindi il suo inevitabile fluire. Ma immaginare il tempo come trappola mortale che corrode ogni cosa è ancora mitologia, così com’era mitologico il pensiero greco dell’immodificabile fato. Forse non andremo lontano dalla verità, dicendo del tempo ciò che Gesù ha detto del sabato: non l’uomo è fatto per il tempo, ma il tempo è fatto per l’uomo. L’uomo che pure è cosmologicamente sempre in balia di esso, tuttavia ne può disporre e ne dispone, con modalità proprie che sono sorprendenti.

1.2.Visione antropologica del tempo e valore del passato

Nella visioneantropologica passato, presente e futuro costituiscono un intreccio tale, da consentirci di gettare continuamente dei ponti tra l’uno e l’altro, sicché dal presente possiamo andare a ritroso al passato, dal passato ritornare al presente e da questo spingerci persino verso il futuro. Ecco i tratti della storicità. Essa consente un sistema comunicazionale tale, che ciò che è accaduto diventa, attraverso la memoria, rilevante per ciò che accade e sta per accadere, e ciò che accadrà diventa ugualmente determinante, attraverso il progetto, per ciò che accade nel momento attuale. Memoria e progetto impastano la temporalità umana del presente ed il presente prepara, anticipandolo, il futuro.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.CapEssendo attività tipiche dell’uomo, la memoria ed il progetto includono tanto la sua coscienza

conoscente, che la sua intenzionalità anticipatrice. A prima vista, sembrerebbe che il presente coinvolga solo il futuro, in ciò che la coscienza vive come conoscenza e tensione anticipatrice. Gettandosi in avanti, pro-gettando, la coscienza anticipa finalità da conseguire e strumenti per potervi arrivare. Ciò di cui ha bisogno è l’accuratezza e il rigore dell’analisi del presente e la proporzione tra le mete prefissate ed i mezzi adoperati. L’uomo vive di presente e di futuro, o meglio vive il presente in vista del futuro e commisura il suo progetto alla fattualità dell’oggi. Che c’entra il passato?

Se il futuro è la molla che attiva il dinamismo della storicità, il passato costituisce il contesto, la materia base dalla quale si plasma il progetto. Il passato è, per così dire, l’insieme delle radici, che reggendo il tronco e i rami del presente, consentono la fruttificazione del futuro. Senza futuro il tempo cadrebbe nell’eterna ripetizione fatalista; ma senza passato non ci sarebbe nemmeno futuro. Il progetto, in tutte le sue forme, ivi inclusa la progettazione esistenziale, non potrebbe avvenire, perché non avrebbe non solo radici, ma nemmeno consistenza. Mancando la memoria, l’uomo non sarebbe che un segmento insensato, un brandello di essere, che non saprebbe mai dove sta andando, perché non sa da dove viene. Né potrebbe immaginarsi una qualsiasi meta, perché anche l’anticipazione cosciente di una meta esige la memoria, almeno come luogo vago e lontano di cui un giorno si è sentito parlare.

2. Il progetto come mediazione comunicativa e sorgente della storicità

Ma a ciò è da aggiungere che se mancassero il progetto e la sua esecuzione, non ci sarebbe ugualmente futuro. La cangiante ed inarrestabile serie dei movimenti cosmologici già in atto proseguirebbe inarrestabile, come un convoglio vuoto e senza conducente che va verso l’ignoto, per essere lentamente inghiottita dall’entropia. I cambiamenti intercorsi prima del punto zero non arriverebbero mai al livello della storicità, essendo solo fasi intermedie di un moto obbligato da leggi deterministiche o, al più, come ritiene una certa fisica atomica, da nuove combinazioni e riaggregazioni casuali.

La storicità inizia lì dove inizia l’uomo, un uomo che non è un pezzo del cosmo, relitto abbandonato alla corrente dell’insuperabile mutamento, ma parte cosciente di una totalità, con la quale interagisce e comunica attraverso la memoria ed il progetto. In quest’accezione, la storicità è molto di più che la pura e semplice autorealizzazione dell’individuo, che dell’“altro”, esistente intorno a lui e prima di lui, usa in modo strumentale solo i pezzi che gli consentono la sua propria costruzione, come farebbe un bambino con il gioco del meccano.

La singola persona, nonostante l’inevitabile esistenziale solitudine con la quale si pone di fronte alla sua storia, afferra i legami che la congiungono a quest’alterità che trova intorno a sé, a ciò che, in quanto passato, le dà sostegno ed appiglio e, in quanto presente, la protegge e l’avvolge.

In sintesi, la storicità include la possibilità d’intervento sul divenire, per farne uno strumento di progetti nuovi, costruiti creativamente sulla base del passato. La capacità di leggere la propria vita in funzione del futuro, afferrando le nuove possibilità che si dischiudono nella comunicazione con il passato e con il presente, risiede nella coscienza. Chiunque vive da uomo, vive secondo il parametro di questa storicità.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.CapQuesti elementi sulla fenomenologia della storicità devono essere tenuti presenti anche nel caso

di Gesù di Nazareth. Essi diventano indispensabili, nel momento in cui ci apprestiamo a vedere più da vicino il suo progetto d’esistenza e la sua coscienza di fronte alla morte.

Una contestualizzazione della vicenda di Gesù nella fenomenologia della storicità è stata fatta magistralmente da A. Rizzi, al quale si rimanda per gli eventuali approfondimenti1. L’autore ne presenta le linee essenziali e entra nel merito di alcune questioni che tale visione della storicità solleva. Ma ha anche il merito di prendere sul serio il testo evangelico, ed in genere il Nuovo Testamento, ai fini di una ricostruzione storica di Gesù. Pur partendo da altre premesse, legate alla conoscenza «per connaturalità” dei fatti del passato e con le quali sostanzialmente ci ritroviamo2, egli arriva alle stesse conseguenze che abbiamo visto nei fratelli Feneberg. Come loro, ritiene il dato scritturistico non solo attendibile, ma indispensabile per comprendere la storia di Gesù. E tuttavia il suo studio differisce dal loro, cui del resto è anteriore, perché non si cimenta direttamente con le premesse della «storia delle forme”, ma con tutta la problematica relativa alla storicità in genere e a quella di Gesù e dell’uomo in particolare.

Dal canto nostro, attribuiamo a tale convergenza una notevole importanza. Facendo riferimento agli autori postbultmanniani, abbiamo anche potuto notare come elementi di convergenza su punti non secondari affiorino poi di fatto nell’impostazione storica complessiva che gli autori propongono su Gesù. Così come vi sono sorprendentemente vicini alcuni tratti evidenziati in opere provenienti dall’ambito giudaico.

Tenendo presenti tutti questi presupposti, vogliamo ora vedere più da vicino in che maniera la coscienza di Gesù si collochi tra una memoria, che non poteva essere che teologica e quel progetto teologale che abbiamo già considerato nel suo stesso esplicarsi attraverso la prassi. Qui la memoria teologica e il progetto teologale di Gesù vengono ora a intersecare il progetto di Dio e quello degli oppositori di Gesù, quelli che la sua prassi liberante e destabilizzante di un certo potere aveva esasperato. La sua morte sembra apparire, in questo contesto, un crocevia dove s’incontrano il progetto di Dio, il progetto di Gesù di fronte alla sua morte e il progetto di coloro che vogliono proprio la sua morte. Egli legge negli avvenimenti la volontà del «Padre”, non però secondo una concezione greca, cui era del resto alieno, limitandosi solo un’accettazione passiva e fatalista, ma scorgendo in essi la riproposizione attualistica di forme e modelli biblico-teologici. In questo modo, il passato diventa per lui memoria teologica ed il futuro diventa progetto teologale che non indietreggia ma va fino alla fine, aprendosi un varco oltre la morte stessa.

3. Il progetto di Gesù tra memoria e promessa

3.1. La nozione del tempo e della storia nel mondo di Gesù

Il mondo in cui vive Gesù è il mondo giudaico. A condizionare la sua prassi non sono solo le circostanze storiche e socio-ambientali che abbiamo già visto, ma anche il contesto culturale e teologico, con il quale egli interagisce. La sua concezione della storia e del tempo, inquadrata in quel mondo, ci riserva qualche sorpresa. Come si evidenzia oggi da più parti3, la concezione cosmologica del tempo, come di una serie di segmenti che si susseguono, e a ciascuno dei quali

1 A.RIZZI, Cristo verità dell’uomo, cit. 2 Cfr. il nostro cap. II., 2.3 Cfr. A.NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, op. cit, 103ss. che rimanda a G. VON RAD, The Message of the Prophets, London

1968.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.Capogni accadimento va attribuito, è del tutto lontana dal mondo biblico e dall’epoca di Gesù, così com’è distante anche dalla nostra concezione. Per noi, ciò che è accaduto nel passato può essere riferito a un punto, contrassegnato dalla doppia coordinata spazio-temporale, ed ogni punto è qualitativamente simile all’altro, perché immaginiamo lo scorrere del tempo come un asettico fluire, un contenitore riempito da fatti. Una simile visione del tempo è sostanzialmente quantitativa, giacché lo coglie come astratta unità di misura. Per l’ebreo il tempo era invece una nozione qualitativa, nel senso che ogni epoca era diversa dall’altra nella misura in cui rispondeva ad alcuni requisiti particolari conferitigli da Dio.

Molto sinteticamente, si può esprimere tutto ciò dicendo che «c’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare” (Qo 3, 4) e che ciascun tempo va valutato e va preso per come esso è, per non correre il rischio di danzare quando invece bisogna fare cordoglio o di lamentarsi quando invece è venuta l’ora della gioia.

L’uomo non dispone dell’intima qualità di ogni “tempo”, e tuttavia è chiamato continuamente a comportarsi in conformità con esso, perché questo, comunque esso sia, è manifestazione dell’agire di Dio. Integrando infatti la concezione, talora pessimistica di Qoelet, influenzata dall’ellenismo, con quella potentemente profetica precedente, si perviene alla conclusione che Dio è all’opera nella storia, per convocare e salvare il suo popolo, anche a costo di purificarlo attraverso la prova dell’esilio e dell’apparente suo abbandono.

Gesù condivide questa concezione del tempo, per cui diventa per lui teologicamente rilevante saperne discernere la qualità, leggendone i segni, ed invitando i suoi ascoltatori a fare altrettanto (Mt 16, 2-3; Lc 12, 54.56), perché possano entrare in rapporto salvifico con esso. Ritorna più volte su questa vigilante attenzione da coltivare nei riguardi del tempo, perché la sua qualità potrà essere riconosciuta solo dai suoi segni, come l’albero dai frutti (Mt 7, 15-20; Lc 6, 43-45), così come dalle gemme del fico si comprende l’approssimarsi dell’estate (Mc 13, 28-29; Mt 24, 32-33; Lc 21, 29-31).

Il regno è in mezzo agli uomini perché «il tempo è compiuto” (Mc 1, 15). Gesù ne indica i segni (Mt 11, 4-6; Lc 7, 22-23), e ciò di cui egli maggiormente si rammarica è l’indifferenza che talvolta incontra, simile a quella dei bambini che si rifiutano di giocare sulla piazza sia quando si balla, che quando si cantano lamenti (Mt 11, 16-17; Lc 7, 31-35). Qui non c’è un’interpretazione errata dei segni, c’è il rifiuto netto di volerli leggere. Perciò c’è una chiusura allo stesso tempo salvifico. È ciò che Gesù chiama «bestemmia contro lo Spirito Santo” (Mc 3, 28-30; Mt 12, 31-32; Lc 12, 10).

Gesù è consapevole che il tempo da lui inaugurato è un tempo decisivo per la salvezza. La sua prassi ci dà l’esatta portata teologica dei suoi convincimenti. Se si può parlare di un progetto in lui, lo si deve considerare in quest’ottica dell’interpretazione del tempo, come momento decisivo e storicamente determinante per il suo popolo e per la sua stessa vita. Le tappe, attraverso le quali egli passa dalla convocazione escatologica dell’alta Galilea al coinvolgimento della sua vicenda di sofferenza e di morte, sono già state illustrate nei loro caratteri generali. Qui resta da aggiungere che il progetto di Gesù, con questa dimensione teologica del tempo, si colloca tra la memoria biblica e il compimento delle promesse messianiche.

3.2. Coscienza messianica e profezia di pace

La memoria biblica giustifica infatti l’attualizzazione che egli opera di quelle varie forme teologiche che in lui diventano teologali, perché sono riempite dei contenuti della sua vita e delle

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.Capsue scelte. Se la prima di queste era la riconvocazione messianica del popolo di Jahvè, la seconda era l’identità incompresa e sofferta del profeta, la cui figura era nella sua coscienza unita a quella profetica del figlio dell’uomo. Approfondendo successivamente tale modalità messianica, Gesù può identificarsi nel giusto sofferente e nel servo di Dio. Egli può dare così, come si è visto altrove4, una attualizzazione radicale ed esistenziale alla memoria della pasqua e allo stesso banchetto in cui essa si rivive.

Ma grazie alla memoria biblica, Gesù recupera tutto il valore delle promesse, anzi dell’unica promessa che era quella messianica. Egli ne conosceva i tratti con i quali i profeti l’avevano descritta. Poteva appellarsi a questa o a quella profezia particolare e riferirsi al tenore complessivo che si rinveniva nei profeti e anche nella loro storia, che del resto era nota ai suoi tempi.

Si è già evidenziata l’ermeneutica apocalittica del tempo di Gesù, legata al messianismo giudaico, fatta dalla ricerca sulla vita di Gesù da Reimarus in poi. Questa, si è detto, costituisce l’attualità storica della coscienza messianica, fino al punto che Schweitzer ha pensato di indicare nella coscienza escatologica di Gesù delle tappe psicologiche precise attraverso le quali questa sarebbe passata.

A noi sembra invece che se ci si limita alla sola coscienza apocalittica, si dà poco valore al messianismo in genere e ai caratteri del regno messianico, dei quali Gesù certamente era al corrente, come era al corrente delle varie tradizioni popolari che ormai lo infioravano, come, ad esempio, il ritorno di Elia, che egli vede nella venuta del Battista (Mt 11, 12-14). Ma Gesù non può non pensare alla realizzazione delle promesse messianiche, come appare dalla sua prassi di convivialità, di misericordia e di servizio. Il perdono predicato e praticato, la resistenza al male con il bene, le reiterate indicazioni a recare un messaggio, che risuoni innanzi tutto come pace5

dimostrano che la sua coscienza messianica non poteva limitarsi a quella del «figlio dell’uomo” apocalittico, ma si accompagnava a un modo nuovo di intendere e di volere il regno che stava per venire.

Nella beatitudine «Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9) Gesù parla del regno di Dio e di coloro che vi appartengono. Essi sono chiamati, cioè sono realmente, figli di Dio perché facitori di pace (“eirenepoioi”), così come egli è stato in tutto il suo agire un realizzatore della pace, quella messianica legata alle profezie e alla venuta del regno.

Gesù certamente coglieva i legami biblici tra il regno di Dio e la prassi della pace come prassi di misericordia, di liberazione e di giustizia, temi tutti legati all’alleanza. Infattinell’Antico Testamento il tema centrale dell’alleanza, e del conseguente regno messianico è sempre un regno di pace (Sal 72, 3-7). Questo è in rapporto con la sedaqà (giustizia) di Dio che opera misericordia e salvezza e interviene a favore delle vittime dell’ingiustizia umana, sicché «effetto della giustizia sarà la pace” (Is 32, 17).

Perciò pace e giustizia sono spesso menzionate insieme, in un binomio che qualifica i tempi messianici. Ciò si trova, per esempio, in alcuni salmi, dove ricorrono anche la misericordia e la verità: «misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno, la verità germoglierà

4 Cfr. cap. VII., 2.4.5 I suoi discepoli sono espressamente mandati per una prassi e un messaggio di pace: “guarite gli infermi , risuscitate i morti,

sanate i lebbrosi, cacciate i demoni” (Mt 10, 8; Lc 9, 2-3; cfr. Mc 16, 15-18), tutte opere esemplificative della stessa prassi di Gesù, che si può intendere come espressione concreta di un messaggio di pace di cui parla Matteo, che dà valore a l’uso ebraico di salutare le persone di casa con l’augurio messianico “Shalom!”: “Entrando nella casa, rivolgete il saluto (cioè l’augurio di pace, come aveva già tradotto la Vulgata)” (Mt 10, 11).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.Capdalla terra e la giustizia di affaccerà dal cielo” (Sal 85, 11-12). Altrove la giustizia e il diritto dell’agire regale di Dio si associano alla grazia e alla fedeltà (Sal 89, 15; Sal 97, 1-2), perché il Dio dell’alleanza è «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà” (Es 34, 6), secondo le parole con le quali egli stipula l’alleanza con Mosè. In Zaccaria pace e verità sono da amare insieme, in un contesto di salvezza messianica (Zc 8, 19; Zc 8, 7-8.12: la salvezza nasce da un «seme di pace”). Il messianismo fiorisce dalla pace perché l’alleanza si identifica con essa. Malachia la chiama «alleanza di vita e di pace” (Ml 2, 5), mentre alleanza di pace ricorre ancora in Nm 25, 12; Is 54, 10; Ez 34, 25.

Il progetto di Gesù muove pertanto dalla memoria di questa alleanza d’Israele ed in vista della realizzazione di un regno messianico che appare come promessa di pace, per la quale il credente prega, professando la fede nell’alleanza. Sicché di un «popolo giusto che mantiene la fedeltà” il profeta può esclamare: «il suo animo è saldo; tu (Dio) gli assicurerai la pace, pace perché in te ha fiducia” (Is.26, 2-3).

Uniformando il suo agire alla realizzazione della prassi messianica, Gesù è cosciente della novità del regno, che se viene nei termini apocalittici a noi noti dal discorso escatologico (Mc cap. 13; Mt cap. 24; Lc 21, 5-36), è tuttavia un appello a discernere la maturità del tempo e a gioire perché il regno irrompe nel mondo. «Alzatevi e sollevate la testa, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21, 28) è un annuncio e un proclama messianico: ripete il tenore delle beatitudini, nel capovolgimento da una situazione di persecuzione e di sofferenza in una situazione di gioia e di liberazione messianica.

A questo rinnovamento che il regno porta con sé si deve aggiungere anche la palingenesi, la rigenerazione totale, dell’intero cosmo (Is 66, 22; cfr. Is cc. 60-62). Perché non leggere le immagini, che nel discorso escatologico di Gesù annunciano il tramonto di un mondo violento e peccaminoso, in funzione di una riplasmazione dell’intero creato, della quale egli ha coscienza?

Del resto, alla ristabilita armonia creaturale, tipicamente messianica, allude anche la scena di Gesù nel deserto, in compagnia con le fiere e con gli angeli, di Mc 1, 12-13. Ciò potrebbe essere una testimonianza precisa che la coscienza messianica era nell’interpretazione teologica di Gesù, poi passata a quella della comunità primitiva, non una coscienza vuota, ma dai contenuti tipicamente messianici.

Lo dimostra il fatto che il regno messianico era indubitabilmente un un regno di pace, come dimostrano anche tutte le profezie che parlano del messia come di colui che abolirà le armi ed instaurerà la pace: «Farà sparire i carri (di guerra) da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco da guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle genti” (Zc 9, 10), sicché ogni arma sarà trasformata in strumento di lavoro: «forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 9, 4).

In quest’ottica, non esagera chi scrive a questo riguardo: «Si annuncia un disarmo generale che non è imposto da nessun conquistatore umano, ma è voluto da Jahveh»6. È un disarmo, tuttavia, che realizza la pienezza della vita e della benedizione dello shalom i cui effetti benefici si estendono all’intero popolo ebreo, a tutti i popoli e allo stesso creato. Non parlavano forse i profeti di una nuova creazione, che con l’avvento del regno si sarebbe estesa perfino agli animali dei campi, agli uccelli dell’aria e ai rettili della terra (Os 2, 20).

6 ISAIA, (a cura di S. VIRGULIN), Ed. paoline, Roma 1974, 81.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.CapAnche questa nuova genesi era nella promessa messianica e Gesù, in quanto messia, ne deve

avere avuto coscienza. Essendo il messia, Gesù era anche re di pace, perché realizzava profezie quali: «Un bimbo è nato per noi, c’é stato dato un figlio...ed è chiamato: ...Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno che egli viene a consolidare e a rafforzare con il diritto e la giustizia” (Is 9, 5-6).

Il progetto di Gesù che rafforza la giustizia ed il diritto, come Dio voleva, a favore dei poveri e dei derelitti, èsostenuto da profezie come queste, così come alla base della modalità da lui scelta per entrare in Gerusalemme (Mc 11, 1-11; Mt 21, 1-11; Lc 19, 28-40) c’è indiscutibilmente quanto già scritto sull’ingresso del Messia: «Ecco viene a te il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9, 9).

Proprio nell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, Luca, quasi esplicitando l’acclamazione messianica che negli altri evangelisti è «Osanna al figlio di David”, la riformula con: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli”, richiamando più direttamente la «gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini da lui amati” dell’annuncio della natività (Lc 2, 14). Come si può evincere da un confronto tra le due esclamazioni, la «pace in cielo” invocata dai discepoli, non è da intendere in senso locale, ma piuttosto in senso teologico: «si realizza oggi la pace che Dio vuole nel cielo”, così come «si fa festa in cielo per un peccatore pentito” (Lc 15, 7).

Dio dunque gioisce perché la misericordia si compie attraverso Gesù e la pace da lui voluta si diffonde tra gli uomini. Questi è infatti «il Figlio, l’Eletto” che bisogna ascoltare” (Lc 9, 35; Mc 9, 7; Mt 17, 5). Egli porta agli uomini la pace delle beatitudini, nella liberazione degli oppressi, che è l’opera messianica di proclamazione della lieta notizia ai poveri (Lc 4, 16-18).

3.3. Un progetto di pace che incontra la morte

Così Gesù passo tra noi: con nel cuore le parole delle profezie messianiche, con questo suo mondo interiore che quasi gli esplodeva dentro e del quale il vangelo ci consente di cogliere di tanto in tanto alcuni sprazzi. Egli coltivava un progetto che sapeva non essere suo, e che tuttavia non si sarebbe realizzato senza la sua accettazione convinta e sofferta, maturata in quel suo cammino, strada facendo, insieme con i discepoli. La coscienza della sua identità, certa fin dall’inizio per ciò che riguardava il suo orientamento di fondo e la sua direzione esistenziale, si andava chiarendo nelle modalità storiche di quel suo passare tra gli uomini con le inevitabili incomprensioni, indifferenze ed ostilità, di alcuni e l’ammirazione incondizionata, ma anche i facili entusiasmi, i fraintendimenti, e le delusioni di altri.

In una «biografia teologica” è possibile ripensare ad un affinamento e approfondimento progressivo di quella missione di pace che Gesù avvertiva come sua. Ma è anche possibile cogliere il passaggio da un’oggettivizzazione di tale progetto ad una sempre più vicina, inesorabile e sempre accolta con amore, personalizzazione di esso. Gesù poteva trovare espresso il piano di Dio in parole come quelle di un profeta tragico eppure aperto alla speranza, qual era Geremia, che sebbene in un contesto di esilio e di sofferenza, spalancava davanti agli occhi di quanti amavano Jahvè il vero intento di lui: «Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza” (Ger 29, 11).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.CapMa poteva parimenti trovare in un altro profeta come Micheal’identificazione della pace con lo

stesso messia: «e sarà lui la pace”, come si trova in alcune accurate traduzioni di Mi 5, 47.

Ma, in questo modo, Gesù passava da un coinvolgimento della sua prassi a quello della sua stessa sorte in quel progetto di pace che diventava sempre più il suo stesso progetto esistenziale.

Questo non era più la conseguenza del suo rifiuto e della sua condanna, ma si attuava e compiva proprio in quel ripudio e in quella drammatica fine.

La comunità cristiana primitiva era, dal canto suo, ugualmente convinta che Gesù aveva operato la pace ed era egli stesso pace. La lettera agli Efesini afferma che Gesù è la pace. «Egli infatti é la nostra pace (Ef 2, 14). Colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo un muro di separazione che era framezzo, cioè l’inimicizia” (Ef 2, 14). In una tradizione ininterrotta che va dai profeti alla coscienza di Gesù e al pensiero della prima comunità cristiana, si afferma che l’unto, il Cristo è all’origine della prassi della pace ed è la prassi della pace stessa.

Essendo facitore di pace in se stesso, nel suo corpo e attraverso la croce, Gesù Cristo ha ricoperto adeguatamente questo modello teologico, come testimonia Ef 2, 15-17. Paolo evidenzia una delle conseguenze storiche che a lui preme di più: la riconciliazione tra ebrei e pagani. Eppure il fondamento è lo stesso: non semplicemente la predicazione e l’agire, ma Gesù, è la nostra pace.

Se Paolo ha potuto indicare in Gesù il primo e fondamentale «artefice di pace” così (poiòn eirenen), cosa hasignificato per Gesù operare la pace, se non questo divenire egli stesso pace? Osserviamo ancora per un momento la sua prassi. Questa è frutto di scelte, che, se sono riconciliazione con Dio e tra gli uomini, gli procurano anche una crescente ostilità, perché, come già visto, egli denuncia con coraggio il formalismo, l’abuso del potere civile e religioso, l’ingordigia e l’ambizione delle classi emergenti. Riprendendo le profezie di denuncia della falsa pace, che convive con la frode e l’ingiustizia (Ger 7, 4; 8, 11) egli ritiene, con la tradizione profetica, come già visto, che questa sia da realizzare non nelle attività cultuali di un tempio (Ger 7, 4; 8, 11), ma nell’amore all’alleanza di Dio (Is 48, 18) e nell’amore verso il prossimo (Is 58, 6 ss).

Proprio questa radicalità e questa critica intransigente hanno acuito l’ostilità intorno a Gesù fino al punto che egli ha avvertito l’imminenza della sua morte. Egli ha così operato l’ultimo collegamento teologico tra quel progetto umano di rifiuto e il suo progetto esistenziale con cui aveva già fatto proprio il progetto di pace di Dio.

Non deve sorprendere l’affermazione di tale progressiva individuazione delle modalità esistenziali del messianismo che noi ravvisiamo nella coscienza di Gesù. Ciò non significa mettere in dubbio il dato della cristologia tradizionale che afferma l’unione ipostatica (la compresenza nell’unica persona di Gesù della sua duplice natura, umana e divina).

La dottrina classica della visione di Dio presente in Gesù, a motivo dell’unione ipostatica, è senza dubbio conciliabile con quest’ipotesi di un progresso della sua conoscenza e coscienza storica. Alla luce dell’ontologia esistenziale, si può vedere anche in Gesù, vero uomo, oltre che vero Dio, nella profondità della sua coscienza esistenziale una «determinazione di fondo” (Grundbestimmtheit), che nel caso delle esperienze individuali diviene sempre più riflessa e tematica8.

7 Cfr., ad esempio, Das Neue Testament, la traduzione adottata dalle confereze episcopali di lingua tesdesca, che traduce: “Und er vird der Friede sein”.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.CapPer noi tale determinazione fondamentale è rappresentata dalla sua coscienza messianica che,

partendo dai vangeli, appare esistenzialmente decisiva per Gesù dal momento del suo battesimo. Da quel giorno in poi sono registrabili delle modalità tematiche che vanno specificando tale messianismo di Gesù come messianismo di pace, in tutto ciò che giustifica teologicamente la sua prassi convocatrice, misericordiosa e liberatrice.

L’ultimo atto, il momento tematico decisivo e riassuntivo di tutti gli altri è rappresentato per Gesù dalla sua prassi oblativa che unifica il progetto di Dio sul messia e quello inesorabile dei capi dei Giudei sul suo ripudio con quello suo proprio di offrirsi per diventare pace per il popolo nel suo insieme, compresi i discepoli in fuga e i crocifissori.

Ciò ci fa concludere che Gesù vi ha visto la possibilità di realizzare la promessa messianica della pace non sottraendosi a quel progetto umano teso ad annientarlo, ma assumendolo e trasfigurandolo nel suo progetto e in quello di Dio. Egli era cosciente di non compiere più semplicemente delle opere o l’opera di pace, ma di diventare, attraverso la morte che si abbatteva su di lui, la stessa pace. Gesù si faceva pace per il suo popolo.

Le commosse parole con le quali saluta Gerusalemme, mentre le si avvicina, manifestano la coscienza di Gesù che i «pensieri di pace”, che Dio aveva sempre nutrito per il suo popolo, sono stati da esso disattesi, giacché Gerusalemme continua ad uccidere i profeti. Ma questi pensieri di pace sono diventati i suoi stessi pensieri, sono la sua vita ed ora saranno anche la sua fine: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono stati mandati, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli, come una chioccia raduna la sua nidiata sotto le sue ali, e non avete voluto!” (Lc 13, 34; Mt 23, 37).

4.Gesù «si consegna” per diventare nostra pace

4.1. Il modello del servo di Jahvè

Il modello profetico aveva offerto a Gesù la possibilità di essere l’interprete autentico di tutte le profezie. Ora gli dava anche la possibilità di associare la sua sorte a quella sofferta e drammatica di non pochi profeti. Quanti ne onorano le tombe dissociandosi verbalmente dai loro padri, che li hanno uccisi, dice Gesù, ne colmano la misura, perché continuano ad uccidere, a flagellare e crocifiggere, termini tutti che anticipano il racconto della passione (Mt 23, 29-27; Lc 11, 47-49). Come gli operai della vigna, essi dopo aver perseguitato tutti i profeti mandati precedentemente, trascineranno «il figlio» fuori della vigna, fuori della città santa, e lo uccideranno (Mc 12, 1-12; Mt 21, 33-46; Lc 20, 9-19).

Gesù è dunque cosciente di ciò che sta per succedergli. Ma egli trova proprio nel paradigma del profeta perseguitato (cfr. Ger

26, 20-23; 2Cr 24, 20-22), simile a quello, di natura sapienziale, del giusto sofferente (Sap 2, 18-20), lo schema teologico ermeneutico per intendere la sua fine imminente. A queste figure bibliche si aggiunge quella che spiega il senso ed il valore delle due precedenti: il servo di Jahvè. Costui realizza la salvezza, porta la pace messianica al popolo di Dio e diventa luce delle genti proprio attraverso la sua sofferenza ed il rifiuto del suo popolo.

8 Cfr., a riguardo ciò che scrive K. Rahner nella prefazione all’opera cit. dei Feneberg, p. 12ss. Ma cfr., per l’impostazione generale, ciò che sull’ontologia esistenziale e la coscienza scrive M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tübingen 1979, 269ss.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.CapSul servo di Jahvè, i cui quattro testi fondamentali, sono rinvenibili in Is 42, 1-7; 49, 1-7; 50, 4-11;

52, 13-53, 12, non pochi autori sono d’accordo nel ritenerlo una figura centrale per la comprensione della passione di Gesù. Già gli evangelisti, che per noi riprendono un’interpretazione autentica di Gesù, citano, quasi ad illustrarla plasticamente, molti dettagli di questi testi e di altri simili9.

In essi viene sottolineata l’ingiustizia della condanna e del rifiuto del servo di Dio, la sua innocenza e l’intensità della sua sofferenza, ma anche, e soprattutto, il valore salvifico di questa ingiusta persecuzione. Sono, è vero, testi che sembrerebbero aver inizialmente ipostatizzato in una sola figura le tante traversie storiche di Israele, che è il servo di Jahvè per eccellenza. Tuttavia nell’interpretazione della comunità cristiana, che fu prima ancora teologicamente e autenticamente di Gesù, essi si prestavano più di altri ad esprimere il carattere volontario dell’andare incontro alla propria sorte, anche da parte del messia, che si identifica nella sorte del suo popolo. Ciò che ha fatto Gesù.

E tutto ciò a conclusione di una vita in cui, come il servo di Dio, Gesù non ha fatto altro che proclamare il diritto e la giustizia, liberando gli oppressi (Is 42, 3-4.6-7). Come lui, egli si consegna adesso alla morte, caricandosi delle sofferenze e delle colpe di tutti (Is 53, 4-7), sì da apparire sfigurato e disfatto, fino a destare ribrezzo (Is 52, 14; 53, 2-3).

Ma proprio perché si offre alla ingiusta sentenza che lo elimina (Is 53, 8-10), «dopo il suo intimo tormento vedrà la luce” (Is 53, 11), radunando così il gregge che andava errando (Is 53, 6) e ottenendo in premio «le moltitudini” (Is 53, 12), «perché dice il Signore, il liberatore d’Israele, il suo Santo, a colui la cui vita è disprezzata, al reietto delle nazioni, al servo dei potenti: ‘I re vedranno e si alzeranno in piedi, i principi vedranno e si prostreranno a causa del Signore che è fedele, a causa del Santo d’Israele che ti ha scelto’” (Is 49, 7).

In tutta questa vicenda e nella sua interpretazione teologica, perché di questo si tratta, sia Gesù che la comunità primitiva hanno visto il reticolo che sorreggeva e spiegava la tragica sorte del «Messia” e la sua fedeltà al piano di Dio, il suo diventare vittima di pace e pace medesima tra Dio e il suo popolo e tra gli uomini tra di loro.

4.2. I giorni in cui sarà tolto lo sposo

Il Vangelo nel suo insieme, prescindendo dalle singole caratterizzazioni di ciascun evangelista, contiene al centro della «biografia teologica» di Gesù non solo la coscienza della sua dolorosa fine, ma anche il suo volontario e motivato andarvi incontro.

Ancora agli inizi della predicazione, nella risposta ai discepoli di Giovanni e ai farisei, che gli chiedono spiegazioni sul carattere conviviale del suo agire e di quello dei suoi discepoli, egli parla della necessità di far festa, fino a quando lo sposo è presente, alludendo ad un momento in cui lo sposo, nel quale evidentemente s’identifica, sarà loro sottratto (aparthè) (Mc 2, 18-20; Mt 9, 14-15; Lc 5, 33, 34).

Il primo annuncio della passione avviene nel momento della confessione di Pietro (Mc 8, 31-32; Mt 16, 21; Lc 9, 22) e contiene, a quanto si dice, gli elementi fondamentali del kerygma: la riprovazione dei capi del suo popolo, la morte e la risurrezione «il terzo giorno”. Il brano non deve essere necessariamente considerato un’interpretazione postpasquale, che la comunità avrebbe messo sulle labbra del Gesù storico. La teologia del servo di Dio giustificava la coscienza di Gesù

9 Ci sono infatti riferimenti non solo ai carmi, ma anche a Sal 22; Sal 69; e Sap 2, 18-20.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.Capdi una vittoria sulla morte, così come, anche difendendo una concezione schiettamente apocalittica di Gesù, l’apparizione gloriosa del figlio dell’uomo (Dan 7, 13-14) costituiva in lui una sola realtà con il superamento della morte.

Ciò si può sostenere, precisando che l’espressione dei tre giorni, dopo i quali egli sarebbe risorto, indicava all’epoca un breve lasso di tempo e non un computo esatto. L’intero logion può dunque appartenere a Gesù e viene quasi a precisare in che maniera lo sposo sarà tolto: attraverso il suo ripudio e la condanna a morte. Ma contiene, al contempo, la certezza che il suo compito messianico non sarà arrestato da quella morte, ma si realizzerà attraverso di essa.

Gesù afferma tutto ciò proprio ora che Pietro e gli altri l’hanno riconosciuto come messia, dandogli l’occasione di pronunciare il più radicale paradosso che si conosca: chi vuol salvare la sua vita la perderà e chi perderà la sua vita la salverà (Mc 8, 35; Mt 16, 25; Lc 9, 24), ma che è nella logica del superamento della morte attraverso la prova.

Gesù non nasconde a se stesso e ai suoi che l’ora della sua violenta riprovazione sarà un fatto di cui si proverà paura e vergogna, come possono indicare anche le parole seguenti: «Chi, infatti, si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8, 38; Mt 10, 33; Lc 9, 26). Si è soliti spiegare queste parole riferendole in generale alla necessità di una coraggiosa testimonianza da parte dei discepoli. Nulla però vieta di intenderle in un senso più immediatamente storico e contestuale al brano, che ricordando l’uomo dei dolori di cui si prova ribrezzo, di Isaia, sottolinea l’appello di Gesù a non provare vergogna e imbarazzo nel momento della sua sofferenza, come, per esempio, farà Pietro, che già qui è energicamente richiamato dal maestro, perché gli vorrebbe impedire il viaggio a Gerusalemme.

La consapevolezza di Gesù sulla sua sorte appare subito dopo, nell’episodio della trasfigurazione (Mc 9, 2-10; Mt 17, 1-9; Lc 9, 28-36), che quasi è la visualizzazione dell’idea della gloria che appare attraverso la povertà e la sofferenza, alla presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono gli stessi discepoli che, stanchi e sgomenti, lo vedranno soffrire in preda all’angoscia, nell’orto degli ulivi (Mc 14, 33-42; Mt 26, 36-46; Lc 22, 39-46). Le parole che accompagnano la trasfigurazione e che invitano ad ascoltare il «figlio diletto” (Luca ha «l’eletto”) non possono essere rivolte che a questi tre discepoli, gli unici presenti. Sembrano contenere lo stesso invito a restargli fedeli nell’ora della prova.

4.3. Gesù diventa pane di pace per il suo popolo

Il primo annuncio della passione era introdotto da un «si deve», «è necessario» (dèi). Il Figlio dell’uomo «doveva soffrire molto ed essere riprovato». Sbaglierebbe completamente chi ritenesse quest’affermazione di Gesù come esplicativa di una fatalità subita con rassegnato passivismo. Essa esprime al contrario la sua volontaria identificazione in quel progetto messianico di pace che abbiamo già tratteggiato e che passava attraverso l’utilizzazione delle categorie bibliche che attestavano la vita dalla morte e la redenzione liberante dalla sofferenza.

Il secondo annuncio della passione (Mc 9, 30-32; Mt 17, 22-23; Lc 9, 44-45) sembra chiarire la forza teologica del precedente «dèi» proprio nei termini del tempo decisivo per la salvezza nel quale occorre operare. Anche in questo caso il «Figlio dell’uomo», «che sarà consegnato nelle mani degli uomini», parla con parole che restano incomprensibili o sono fonte di disagio per i discepoli.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.CapIl terzo annuncio sottolinea che Gerusalemme ormai è vicina e che lì il «Figlio dell’uomo» sarà

condannato a morte, dopo essere stato schernito e flagellato (Mc 10, 32-34; Mt 20, 17-19; Lc 18, 31-34).

I preannunci della passione scandiscono il cammino di Gesù insieme ai suoi discepoli, su una via che viene ripetutamente ricordata, particolarmente in Luca, come cammino verso Gerusalemme, dove la via (di solito indicata nei vangeli con odos) diventa éxodos (Lc 9, 31), traguardo fisico e teologico, ma, proprio per questo, nuovo e definitivo esodo effettuato da Gesù per la salvezza del suo popolo.

Questi e tutti gli altri riferimenti10, sottolineano la cosciente riappropriazione che Gesù fa del progetto messianico nel diventare egli stesso pace per il suo popolo e sono da comprendere alla luce del banchetto pasquale. Ne abbiamo già parlato come del banchetto che conferisce nuovi contenuti all’antica Pasqua, così come abbiamo visto i profondi legami che lo collegano alla passione11. Si deve qui aggiungere che il tema del sangue unitamente a quello del pane hanno un chiarissimo significato teologico-interpretativo. Gesù diventa pane per il suo popolo ed il suo sangue è sangue dell’alleanza. L’invito: «prendete, questo è il mio corpo» (Mc 14, 22) e «prendete e mangiate” (Mt 26, 26) non possono che significare: «questo è il mio corpo, che è dato (didòmenon) per voi» (Lc 22, 19).

Il riferimento è chiaramente a quanto sta per accadere con la consegna della sua persona prima, e della sua vita, dopo, «nelle mani degli uomini», di cui parlavano gli annunci della passione12. Sul calice del vino, Gesù proclama «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (Mc 14, 23). Matteo aggiunge, interpretando in tutta fedeltà , «in remissione dei peccati” (Mt 26, 28), giacché «questo calice - precisa Luca - è la nuova alleanza nel mio sangue», che è versato per voi» (Lc 22, 20).

Le diverse sfumature dei sinottici non solo non contraddicono, ma esplicitano ulteriormente il carattere volontario della morte di Gesù e l’offerta della sua vita come pane e sangue di alleanza e di pace. L’allestimento del banchetto pasquale voluto da Gesù, il suo porgere il pane spezzato ed il calice del vino, accompagnandosi con le parole «è il mio corpo» «è il mio sangue dell’alleanza”, ed il logion conclusivo che parla di quel banchetto come dell’ultimo, prima del nuovo nel regno di Dio (Mc 14, 25; Mt 26, 29; Lc 22, 18) lo confermano una volta di più: Gesù sa che la sua vita non è solo segnata, ma è persa; e nonostante ciò, anzi proprio per questo, sa che essa sta per rifiorire secondo le modalità del regno di Dio.

La comunità cristiana interpretando l’andare verso la morte di Gesù come dono della sua vita che egli faceva volontariamente, è fedele dunque a questa originaria ermeneutica di Cristo.

Paolo, che aveva ricevuto e trasmesso, ad esempio, il racconto del banchetto eucaristico (1 Cor 11, 23-25), trasmette anche questo dato del «Signore» parlando della sua morte come di un «dare se stesso» (paredòken eautòn), «per i nostri peccati» (Gal 1, 4); «in riscatto per tutti» (1Tm 2, 6); «per noi» (Tt 2, 14); aggiungendo anche la motivazione del suo amore: «per me» (Gl 2, 20; «per voi» (Ef 5, 2); per la Chiesa (Ef 5, 25).

10 Cfr. “il battesimo che devo ricevere” (Lc 12, 50); il logion del servizio e della vita “da dare in riscatto per molti” (Mc 10, 45; Mt 20, 28); l’unzione di Betania, che prepara il corpo alla prossima sepoltura (Mc 14, 1-8; Mt 26, 12); gli accenni al calice (della passione) da bere (Mc 10, 38; Mt 20, 22); l’eliminazione del Battista, raccontata a Gesù dai discepoli di lui, e che ha chiari riferimenti premonitori per la sua stessa sorte (Mt 14, 3-12; Mc 6, 17-29).

11 Cfr. cap VII, 2.3ss.12 Mt e Luca hanno mellei e l’infinito, tradotto di solito con: «(il Figlio dell’uomo) sta per essere consegnato»; Mc usa

semplicemente paradìdotai, «sarà consegnato».

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 9.CapIl motivo dell’obbedienza di Gesù al Padre (cfr., ad esempio, Fil 2, 8; Rm 5, 18-19) e dell’amore

(dei riferimenti precedenti) sono gli stessi registrati ed ermeneuticamente più esplicitati negli scritti giovannei. Qui si risale allo stesso amore (agape) che è Dio (1Gv 3.1; 4, 7.8.16) e che si manifesta nel Figlio (Gv 3, 16; 13, 1.34.35; 14, 21; 1Gv 3, 16; 4, 9-10) e si insiste sull’unità tra Gesù e il Padre, che per noi giustifica l’unità di intenti e di progetto (cfr. Gv 4, 34; 6, 57; 8, 59; 5, 19.30; 8, 28).

In questo contesto Gesù sulla croce può esclamare «tutto è compiuto» (Gv 19, 20). La Lettera agli Ebrei vede in ciò il sacrificio «perfetto», di chi è «reso perfetto», giacché ha offerto se stesso volontariamente, per solidarietà e per amore (Eb 5, 7-10; 7, 28; 9, 13-14).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Cap

CAPITOLO X. IL RISORTO VIVE CON I SEGNI DELLA PASSIONE

1. Bevendo fin in fondo l’ultimo calice

Il rituale del banchetto pasquale prevedeva che per quattro volte si innalzasse la coppa del vino a memoria delle quattro modalità storiche con cui Dio ha salvato e continua a salvare il suo popolo1. «Vi ho condotti via»; «Vi ho salvati»; «Vi ho riscattati». Così suonano le prime tre acclamazioni che accompagnano il gesto e così si ritiene che Gesù abbia fatto fino a quel momento, alternando quella triplice libazione agli altri atti del rito, che prevedevano, a conclusione della cena, la frazione dell’ultima focaccia azzima (aphiqoman) con la formula di benedizione. È a questo punto che Gesù pronuncia le parole

“questo è il mio corpo”, distribuendo il pane spezzato dell’ultima mazzoth. Il rituale prevedeva ancora l’ultimo calice, quello che esprimeva l’elezione e l’appartenenza a Dio di Israele, in quanto suo popolo, con le parole: «Vi prendo come mio popolo, voi, figli d’Israele». Alla menzione salvifica per Israele corrispondeva una formula di giudizio sui popoli, ritenuti nemici. Ciò che a noi sembrerebbe il brindisi augurale del quarto calice, diventava per gli ebrei un’impetrazione di giustizia, sconfinante nell’imprecazione. Infatti si ritiene che anche all’epoca di Gesù le parole sull’elezione fossero seguite dalla formula deprecatoria: «Riversa la tua ira sopra i popoli», con evidente riferimento ad alcuni testi biblici (Sal 79, 6-7; 69, 25; Lam 3, 66)2.

Ma come era già successo altre volte, Gesù anche qui opera in un modo innovativo, che in realtà ricontestualizza il dato tradizionale nella visione di un Dio che è padre misericordioso per tutti. Nel discorso inaugurale di Nazareth aveva incentrato la sua attualizzazione della profezia sulla predicazione del Vangelo ai poveri e la prassi della misericordia per gli oppressi, evitando qualsiasi allusione al testo successivo di Isaia, che preannunciava che il messia avrebbe promulgato «un giorno di vendetta per il nostro Dio» (Is 61, 2; Lc 4, 16-21). Ora porta fino alle estreme conseguenze quel programma salvifico, trasformando la richiesta che si riversasse l’ira di Dio sui popoli in parole di salvezza e di benedizione per «i molti». Sicché Gesù afferma esplicitamente che il calice ora versato è la nuova alleanza, che in questa circostanza si può ben interpretare come segno di pace e di oblazione che manifesta un amore senza confini (Mc 14, 23-24). Il gesto della lavanda dei piedi, riportato da Giovanni (Gv 13, 1-20) ne è il più efficace commento e costituisce un’ulteriore superamento del rito tradizionale della pasqua.

Gesù non rinnega il rituale antico e ciò che vi è sotteso, ma è proprio a partire da quel rito, che egli può interpretare in un modo autentico i suoi contenuti teologici. Già la formula rituale pronunciata sul pezzo di pane azzimo, presentato inizialmente a quanti partecipavano alla celebrazione, era evocatrice di immagini di amarezza ed era pervasa da toni di invincibile fiducia e speranza:

1 Cfr. S.BEN-CHORIN, Fratello Gesù, cit., 242ss.2 Ivi, 220-221.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Cap«Ecco il pane di miseria che i nostri padri hanno mangiato nel paese d’Egitto. Chi ha fame venga e

mangi; chi ha bisogno venga e faccia pasqua. Quest’anno da schiavi, l’anno venturo da uomini liberi»3.

Il dialogo tra il capo-famiglia e il più giovane dei partecipanti metteva in risalto l’attualità di ciò che si celebrava, secondo le indicazioni di Dt 6, 20ss. Evocando la liberazione avvenuta dalla servitù egiziana, il capo-famiglia la attualizzava, con la coppa alzata, dicendo: «...Ed è questa promessa che ci ha sostenuto, noi e i nostri padri! poiché non un solo nemico ha tentato di sterminarci, ma molti l’hanno fatto. Il Santo però -benedetto sia!- ci salva dalle loro mani». Non andiamo lontano dalla verità storica, immaginando l’intensità con cui Gesù ha dovuto pronunciare queste parole.

La cosa paradossale ed assurda in questa logica celebrativa era ora il fatto che l’ebreo che celebrava la pasqua non era perseguitato dai nemici d’Israele, ma dal suo stesso popolo. Egli per loro e per «i molti», che vuol dire «tutti», celebrava ed offriva la sua vita. L’affermazione solenne che ancora oggi risuona sulle labbra del capo-celebrante in uno dei momenti culminanti esprime l’attualità della celebrazione in una forma didascalica, ma che ha del sublime:

«Di generazione in generazione, ognuno di noi ha il dovere di considerarsi come se fosse stato personalmente liberato dalla schiavitù dì Egitto. È scritto infatti: Tu darai questa spiegazione a tuo figlio: è a questo fine che l’Eterno ha agito in mio favore quando mi fece uscire dall’Egitto (Es 13, 8). Non i nostri padri soltanto sono stati liberati, ma anche noi lo fummo. Il Santo -benedetto sia!- ci ha liberati con loro, com’è scritto: Egli ci fece uscire dall’Egitto per condurci qui e darci il paese promesso ai padri nostri (Dt 6, 23)...Ci ha condotto dalla schiavitù alla libertà, dalla desolazione alla gioia, dal lutto alla festa, dalla tenebre alla luce, dalla servitù alla salvezza. Cantiamo a lui un cantico nuovo, alleluja!»4.

In questo contesto altamente evocativo, dove la celebrazione diventava vita e la memoria si trasformava in storia, Gesù ha compiuto gli adempimenti della pasqua, ne ha ravvivato e trasfigurato i contenuti e, a conclusione, ha potuto porgere il pane ed il vino identificandovi la sua sorte per la salvezza e non per l’ira sugli uomini e i popoli.

Il calice dell’ira, di lì a poco, si riverserà solo su di lui. Come ci informano attendibilmente i vangeli, uscito, infatti, nel luogo detto Getsemani (Gat Shemanim, «torchio delle olive») ed essendosi un po’ discostato dai discepoli che aveva voluto con sé (Pietro, Giacomo e Giovanni), prostratosi in preghiera, cominciò ad avvertire tutta l’amarezza di quell’ultimo calice, come lo chiama Ben-Chorin.

È il calice della passione, che è già iniziata, nella lucida consapevolezza di ciò che sta per accadere.

Lungo la via, ancora una volta, quell’ultima volta, il Maestro aveva affidato ai discepoli il senso di ciò succedeva: «Sta scritto percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse» (Mc 14, 27; Mt 26, 21) e le sue parole invitavano ancora a restare insieme, almeno a ritrovarsi dopo la dispersione, dopo il ravvedimento di Pietro (Lc 22, 31-33). Ma ormai la scuola stava per terminare e finiva proprio così, ingloriosamente, su quel sentiero percorso da un gruppetto di poveri, diventati allora ancora più poveri, perché sapevano che stavano per perdere tutto, l’amico e il maestro, il profeta ed il messia. Colui che li aveva tratti dal lago e dalle abituali occupazioni stava per andarsene e quegli uomini dovevano sentirsi umanamente falliti. Eppure, le parole di Gesù parlano ora di quella Galilea, dove, egli, aveva aggiunto, una volta risorto, li avrebbe preceduti.

3 R. ARON, Così pregava l’ebreo Gesù, Mondadori, Milano 1988, 145.4 Ivi, 147-148.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Cap1.1. Una preghiera cui non c’è risposta ?

Ci sono momenti nella vita anche dell’uomo più religioso, in cui la preghiera diventa fatica, perché Dio sembra lontano ed assente e alle invocazioni, anche quelle più accorate, non c’è una risposta. È vero, non c’è una risposta immediata, perché la vita stessa, gli avvenimenti ed il tempo in seguito parleranno e nel futuro si chiarirà il progetto di pace che ora solo Dio conosce, ma che ora sembra abbandoni il credente in balìa degli avvenimenti e, ciò che è peggio, in balìa della sua stessa paura.

La preghiera di Gesù è realisticamente descritta nei termini di un’angoscia senza fine (Mc 14, 33-35; Mt 26, 37-39; Eb 5, 7-8) e raggiunge una tale intensità da arrivare, a quanto riferisce Luca, al sudore di sangue, un fenomeno che la letteratura medica conosce5, e che qui è la conseguenza di un’emozione particolarmente intensa. Gesù è solo. I tre discepoli, gravati dal sonno e dalla tristezza, si sono assopiti. In quell’ora non gli sono di alcuno aiuto. Rimane solo, di fronte alla sua sorte che sta per compiersi ed è notte. Quella notte ricorda la notte di Giacobbe, presso il guado del fiume, quando Dio, diventatogli nemico, combattè con lui, lasciando nel suo corpo il segno perenne di una lotta impari e nella sua storia il nome nuovo di Israele (Gn 32, 23-32). Come lui, che «lottò con l’angelo e vinse, pianse e domandò grazia” (Os 12, 5), Gesù chiede ripetutamente che gli sia risparmiato quell’ultimo calice, il calice dell’amarezza e dell’ira (Mc 14, 35-39; Mt 26, 39-42), lottando contro ciò che maggiormente pesa ad un credente: il silenzio di Dio.

Come Mosè, di cui aveva poco prima celebrato la liberazione, egli si trovava ora al varco di un mare diventato infido. Era venuto il momento del vero battesimo, quello per il quale era da sempre angosciato, finché non fosse avvenuto, battesimo di acqua e di fuoco (Lc 12, 49-50). Ma quell’acqua ricordava parole bibliche con cui il credente invocava di esserne salvato: «Salvami, O Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Affondo nel fango e non ho sostegno; sono caduto in acque profonde e l’onda mi travolge» (Sal 69, 2-3). In una situazione senza scampo, egli viveva la prova (il peirasmòs escatologico), per la liberazione dalla quale aveva pregato ed insegnato a pregare (Lc 11, 4). Il suo battesimo si compiva con l’acqua che travolge e che salva e con il fuoco che brucia e rinnova. Il giudizio di Dio, presentato spesso con l’immagine del fuoco (Is 30, 27-28.30), così come aveva predicato anche il Battista (Mt 3, 11-12), sembra che si debba abbattere solo su di lui ed in questa situazione la sua preghiera non ha che un senso: «non lasciarci soccombere nella prova , ma liberaci dal male» (Mt 6, 13). Essa infatti ci è stata riportata con parole che ricordano, per molti aspetti il Padre nostro: «Abbà, Padre, tutto è possibile a te; allontana da me questo calice! Ma non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu!» (Mc 14, 36; Mt 26, 39; Lc 22, 42), giacché ripropone i temi del Padre e dell’incrollabile fiducia in lui, del compimento della sua volontà, e della liberazione dalla prova.

Ma la risposta del Padre, che sembra tardare a venire, è proprio in quest’ultimo atto di coraggio, nell’accettare la sua volontà, perché questa non può che essere salvifica. Come l’uomo biblico travolto dalle acque della prova, Gesù avrebbe potuto dire «sono sfinito dal gridare, riarse sono le mie fauci; i mei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio» (Sal 69, 4). Ma con lo stesso salmo poteva nondimeno concludere, come il servo di Jahvè, con parole di inamovibile fiducia, simile a quelle con cui si era riattualizzata la pasqua, il passaggio, attraverso quel male oscuro e minaccioso, il male dell’ira, diventato valico verso la vita: «Io sono infelice e sofferente; la tua salvezza, Dio, mi ponga al sicuro. Loderò il nome di Dio con il canto...Vedano gli umili e si

5 Si tratta della diapèdesi, che è la trasudazione del sangue o anche solo di cellule sanguigne attraverso le pareti vascolari, apparentemente indenni. Cfr. Dizionario Medico USES, Firenze 1981 (3.a), 466.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Caprallegrino; si ravvivi il cuore di chi cerca Dio, poiché il Signore ascolta i poveri e non disprezza i suoi che sono prigionieri» (Sal 69, 30.31.33-34).

Con questa certezza nel cuore, che costituisce sempre la tacita e discreta risposta di Dio anche alla più disperata delle preghiere, Gesù deve essersi alzato da terra, dove spesso si era prostrato, alla maniera con la quale si pregava nel tempio. Egli è pronto ad affrontare ciò che accade e chiama i discepoli, quando sopraggiunge Giuda, che viene a consegnare «il figlio dell’uomo nelle mani dei peccatori» (Mc 14, 41-42; Mt 26, 45-46).

1.2. Ruolo di Giuda nel complotto ordito contro Gesù

Con Giuda è venuta, per arrestare Gesù una folla (òchlos, con un senso qui chiaramente narrativo, indicante un gruppo di persone), armata di spade e bastoni, mandata dalle autorità giudaiche di Gerusalemme (Mc 14, 43; Mt 26, 47; Lc 22, 47). Giovanni aggiunge che era presente anche una coorte di soldati romani, che generalmente è interpretata come la guarnigione delle guardie del tempio, perché l’invio di altri soldati sarebbe dovuto avvenire tramite l’autorità romana. Ma questo sarebbe in contraddizione con tutto l’atteggiamento tenuto durante il processo da Pilato, che sembra completamente disinformato su Gesù.

In ogni caso, è però chiaro che se Gesù muore, è perché è condannato dall’autorità politica e religiosa. La responsabilità formale e giuridica soprattutto giudaica è stata talora messa in discussione6, ma ciò non toglie che ciò che sta per avvenire sia solo l’epilogo di un complotto, ciò che abbiamo chiamato progetto téso ad eliminare Gesù. Anticipazioni di questa macchinazione non mancano nelle indicazioni evangeliche (Mc 3, 6 Mt 12, 14; Lc 6, 11), che parlano anche dei tentativi già precedenti per arrestare Gesù (Gv 7, 30.44; 10, 39), fino al punto che «i gran sacerdoti ed i farisei avevano dato ordine che se qualcuno sapesse dove si trovava, lo segnalasse perché l’arrestassero”. L’arresto era pensato per la sua uccisione (Cfr.Gv 5, 18). Se ciò non era accaduto, era, come si è visto, per paura del popolo, che vigilava su di lui perché «pendeva dalle sue labbra, ascoltandolo” (Lc 19, 47-48).

Viene solitamente ritenuto storico anche il ruolo decisivo di Giuda per l’arresto di Gesù, anche se sempre più frequentemente il suo comportamento è spiegato con la delusione di questo discepolo, che pure risulta eletto da Gesù tra i dodici (Mc 3, 19; Mt 10, 4; Lc 6, 16), per l’agire non politico-nazionalista del maestro. Contrariamente alle sue aspettative, dovute alla sua vicinanza agli zeloti7, Gesù rifuggiva da ogni idea di capeggiare un sollevamento nazionalista. Per questo Giuda sembra l’abbia «consegnato”, forse sperando, come dice qualcuno, di forzare la mano a Gesù, quasi costringendolo a manifestare la sua identità e la sua gloria, trionfando sui nemici d’Israele, che erano i romani e mostrandosi come messia agli ebrei che in questo caso egli riteneva che l’avrebbero senz’altro seguito.

Questa ricostruzione della vicenda di Giuda sembrerebbe a prima vista arbitraria, eppure ha il merito di dare una ragione più che plausibile della decisione di impiccarsi, sopraggiunta quando Gesù è condannato e non si sottrae agli eventi (Mt 27.3-7), una decisione che Matteo sottolinea nella sua intensa drammaticità8, ma sulla quale ha influito non poco il comportamento tenuto da

6 Cfr. il nostro cap. II, 1.1.7 Il termine “iscariota” spiegato da alcuni come “colui che tradì” (ish-karya), indica invece, per chi parla di lui come di un filo-

zelota, l’uomo del pugnale (sica), cioè il “sicario”. Cfr. R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit. 152-153.8 Anche un artista come J. S. Bach, già nel 1700, ha presentato Giuda sotto una luce non infamante, ma nelle vesti di chi ammette

di aver commesso un gravissimo errore e chiede disperatamente alle autorità giudaiche di riavere Gesù, ma invano. In una delle

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.CapGesù con Giuda. I tre vangeli sinottici riferiscono infatti particolari del tutto singolari, quali il saluto e il bacio di Giuda. Matteo aggiunge l’appellativo di «amico” che Gesù scambia con lui, nella seguente forma letteraria: «Amico, fà ciò per cui sei venuto” (forma che sembra preferibile all’interpretazione della Vulgata: «amico, perché sei venuto?» (Mt 26, 59)9. Luca riferisce la reazione di Gesù con le parole: «Giuda, con un bacio consegni il figlio dell’uomo?» (Lc 22, 48). Nell’uno e nell’altro caso risulta evidente che Gesù tenta un estremo approccio con il suo discepolo Giuda, cercando di aprire una breccia nella sua cupa predeterminazione. E forse, (ma chi potrà mai dimostrarlo come storico?) il tenore delle sue parole potrebbe voler dire: «Stai sbagliando tutto, gli avvenimenti ci sovrasteranno, eppure io ti offro l’ultima possibilità, ti considero anch’io un amico e siccome stai sbagliando, ti perdono!». Se tale interpretazione fosse esatta, allora anche il bacio di Giuda non sarebbe stato il segno più vile ed ipocrita di del «traditore», come spesso si pensa, ma il gesto di chi vuole giustificarsi con il Maestro per quella sua consegna, perché è convinto che egli presto si manifesterà nella gloria.

È solo un’ipotesi e come tale ci sembra possa affiancare tante altre, anche quella che pur sembrando altamente suggestiva, appare molto più forzata, la quale vede nel bacio di Giuda un’allusione all’idea ebraica, di tipo haggadico, della morte del giusto attraverso il bacio del Signore10.

1.3. Le estreme conseguenze del discorso della Montagna

In ogni caso, il comportamento di Gesù non smentisce, ma conferma in pieno la sua prassi di misericordia che nasce da una prassi di pace. Egli vive fin in fondo quanto aveva proclamato nel Sermone della Montagna. Resiste al male con il bene ed offre una possibilità di dialogo e di salvezza anche a colui che sta per consegnarlo. È una prassi di pace che viene immediatamente confermata come normativa anche per i suoi discepoli, nell’episodio che segue, in cui si vede uno di loro (per Giovanni sarebbe Pietro) brandire una spada, sì da ferire all’orecchio il servo del sommo sacerdote (Mc. 14, 47; Mt 26, 51; Lc 22, 50). Ma a questo discepolo, secondo la redazione di Matteo, Gesù rivolge un severo monito, coerente con tutta la sua vita e il suo insegnamento: «Riponi la spada al suo posto; perché tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (Mt 26, 52). Luca aggiunge che Gesù guarì l’orecchio del servo, dopo aver espresso il suo disappunto: «Lasciate! Fino a questo punto!» (Lc 22, 51), ad ulteriore conferma della prassi pacifica di Gesù.

Molti ritengono l’episodio una leggenda, a causa della guarigione dell’orecchio e della contraddizione in cui incorrerebbe il racconto, narrando di Pietro che non viene affatto arrestato, ma può seguire, anche se a distanza, Gesù, fin nel cortile della casa di Caifa.

A noi sembra che il monito di Gesù riportato da Matteo, sebbene abbia la forma di un proverbio, corrisponda alla sua “mente” e sia da prendere sul serio, anche come indicazione relativa ai casi in cui si vorrebbe rispondere alla violenza con la violenza. Lo prova anche il brano successivo di Giovanni sulla reazione nonviolenta e tuttavia decisa di Gesù allo schiaffo, con il quale una delle guardie presenti lo ha percosso. Gesù dimostra che c’è sempre un’alternativa alla reazione violenta o alla rassegnazione passiva e vittimista. L’alternativa consiste nell’evidenziare l’ingiustizia ed il

arie più toccanti della sua Passione secondo Matteo, egli fa dire a Giuda ripetutamente : «Restituitemi, restituitemi, il mio Gesù».9 Cfr., ad es., J. SCHMID, L’Evangelo secondo Matteo, Morcelliana, 1965, 469.10 «Questa concezione si riallaccia alla morte di Mosè, la morte solitaria sul monte. A Mosè Dio trae fuori l’anima con un bacio.

Non l’angelo della morte col suo terrore si avvicina al giusto, bensì Dio, il Padre, gli si china sopra, bacia il suo figlio e nel bacio gli prende l’anima, che gli appartiene». (S.BEN-CHORIN, Fratello Gesù, op, cit., 250.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Captorto che l’altro sta commettendo, richiamandolo alla ragione, con il tentativo sempre da compiere, di tendere una mano, offrendo un cenno di comunicazione anche all’avversario. Le parole di Gesù in questo caso saranno: «Se ho parlato male, prova che è male, se bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23), e sono nella stessa linea del suo comportamento nei confronti di Giuda e del discepolo che ha usato la spada.

1.4. Un processo in cui i giudici restano processati

Dopo l’arresto, viene per Gesù il processo. Quello vero e proprio ha luogo senza dubbio davanti a Pilato. Ciò non impedisce che una sorta di istruttoria sia avvenuta anche nel Sinedrio. Le obiezioni sollevate contro la possibilità di tenerne uno, o almeno una parte, nella notte e contro la procedura adottata, in contraddizione con le prescrizioni legali giudaiche, non sono infatti di grande importanza. Le norme limitative, alle quali si fa riferimento, sono infatti successive all’epoca di Gesù, e del resto potrebbe essersi trattato, come si diceva, non vi vero processo, ma di un’audizione, motivata dalle dicerie che accompagnavano Gesù e dal suo comportamento tenuto nel tempio11.

Dopo un primo ascolto da parte di Anna, suocero di Caifa, avvenuto subito dopo l’arresto, Gesù è condotto dal sommo sacerdote Caifa che ascolta i testimoni sulle imputazioni relative alla legge, riassunte intorno all’avversione al tempio, fino a minacciarne la distruzione. I testi sottolineano la non concordanza di «falsi testimoni», per mettere in luce apologeticamente, si afferma, l’iniquità commessa dalle autorità giudaiche contro Gesù. Considerando però alcuni atteggiamenti e logia di Gesù rispetto al tempio e alla sua relativizzazione, le accuse non sembrerebbero tanto false. Non era forse la sua una spiritualità che insisteva sul carattere radicale ed interiore dell’uomo, relativizzando, in maniera profetica, un culto che è onorare Dio con le labbra ma, non con il cuore (Mc 7, 6; Mt 1, 8)?

Non aveva cercato di spegnere i facili entusiasmi dei discepoli sulla magnificenza del tempio (Mc 13, 2; Lc 21, 5-6) ed aveva presentato la povera vedova come il migliore esempio di una religiosità che non dà il superfluo, ma l’essenziale, esprimendo così la superiorità dell’atteggiamento interiore sul tempio stesso ed il suo tesoro (Mc 12, 41-44; Lc 21, 1-4)? E di fronte alle domande della Samaritana non aveva delegittimato tutti i templi, affermando che «è venuto il momento di adorare Dio in spirito e verità» (Gv 4, 24-25)?

Le accuse su una sua avversione al tempio avevano allora un fondamento. Se gli evangelisti le ritengono provenienti da falsi testimoni è perché conoscono il carattere pretestuoso e strumentale che si vuole fare di tali accuse, per eseguire il progetto di eliminazione di Gesù. Vogliono sottolineare non solo l’equivoco in cui cadono quanti pensano ad un piano di abbattimento della struttura del tempio da parte di Gesù, ma anche l’incapacità a recepire il nuovo portato da Gesù, perché «non si può mettere il vino nuovo in otri vecchi» (Mc 2, 22).

In tutto il processo, l’atteggiamento di Gesù colpisce per il suo silenzio, così come durante la preghiera nell’orto e durante l’arresto era emersa, ancora una volta, la sua prassi oblativa, misericordiosa e dialogale. Con i suoi discepoli egli ha tentato di dialogare fino all’ultimo, cercando solidarietà e condivisione in una ora difficile da accettare. Con il Padre il suo dialogo è diventato offerta della sua vita. Con quanti lo arrestavano Gesù ha affermato l’inutilità delle loro armi e la sua disponibilità a seguirli, senza opporre altra resistenza che non fosse quella dalla ragione e dell’innocenza. Ma ora che non c’è più possibilità di dialogo, perché i giochi ormai sono

11 Si trova quest’opinione anche in: G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 144.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Capfatti e la sentenza è stata pronunciata prima ancora del processo, ora che la suprema autorità giudaica vorrebbe che egli parlasse, per dare una parvenza di legalità a ciò che avveniva per una precisa macchinazione, Gesù si chiude in un ostinato silenzio. Non parla, come non parlerà davanti a Pilato e facendo ciò, farà apparire tutte le contraddizioni, le animosità e la trama omicida già tessuta di questo processo. Con questo suo silenzio processerà i suoi stessi giudici, mentre rivivrà le situazioni e le immagini dei carmi del servo di Jahvè, condotto a morte come un agnello muto al macello (Is 53, 7).

Davanti al sinedrio, costituito da circa settanta membri, tra notabili, anziani e scribi, il sommo sacerdote, che lo presiedeva, cercando di superare l’imbarazzo derivante dal silenzio di Gesù, gli rivolge la domanda, che Matteo riporta in una forma impegnativa e solenne, se egli sia il messia: «Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio» (Mt 26, 63; cfr. Mc 14, 61; Lc 22, 67). La domanda, si sostiene, riassume due titoli, quello del messia e quello del Figlio di Dio, che Luca riporta sdoppiata in due quesiti successivi (Lc 22, 67.70). Ma le domande e le risposte affermative, anche se attraverso la circonlocuzione: «Tu stesso lo dici, voi stessi lo dite» sono ritenute storicamente problematiche, giacché si ritiene, al solito, che contenendo specifici titoli cristologici della comunità postpasquale, non possono essere stati sulla bocca né del sommo sacerdote, né di Gesù12.

Domanda e risposta sull’identità teologica di Gesù si trovano in Marco in questa forma: «Di nuovo l’interrogava il sommo sacerdote e gli dice: ‘Sei tu il Cristo, il figlio del Benedetto?’. Ma Gesù disse: ‘Io lo sono, e vedrete il figlio dell’uomo sedere alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» (Mc 14, 61-62). Nella risposta si ravvisa una cucitura di due testi biblici: rispettivamente il salmo 110, 1 (“Oracolo del Signore al mio Signore: ‘Siedi alla mia destra’”) e Daniele 7, 13-14 (“...ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui che gli diede potere, gloria e regno...”).

Condividiamo l’idea che, essendo il tenore della risposta di Gesù eminentemente biblica, e in linea con la sua coscienza messianica, essa possa essere storica ed effettivamente pronunciata da Gesù, perché proprio le due citazioni accostate insieme esprimono la sua consapevolezza di essere il messia e di essere presto esaltato da Dio, ora che egli è rigettato dal suo popolo13.L’espressione «figlio di Dio» non può certamente avere sulle labbra del sommo sacerdote un valore teologico-metafisico, quale quello del Verbo incarnato della teologia cristiana. Indica il particolare rapporto di predilezione di Dio tanto nei confronti di Israele, che del suo «cristo», cioè del suo unto (masiah in ebraico, christòs in greco). Nella risposta di Gesù si può tuttavia ravvisare uno spessore teologico che va oltre quello abitualmente inteso dall’espressione e che certamente all’epoca della redazione evangelica era ormai acquisito. Se di per sè l’autoproclamazione messianica non poteva essere motivo di condanna a morte, il tenore blasfemo agli orecchi del sommo sacerdote, deve essere stato colto nell’allusione di Gesù a sedere prossimamente alla destra della Potenza (perifrasi per indicare Jahvè) e nella sua pretesa di di avere con Dio un rapporto del tutto particolare, certamente inammissibile per il garante dell’ortodossia giudaica.

Nel successivo interrogatorio di Pilato, l’unico ad avere competenza per pronunciare sentenze di morte, le accuse di tipo religioso sono tralasciate e cedono il posto a quelle di carattere politico-sovversivo. La storia registra casi di inflessibile durezza da parte di Pilato nei confronti degli zeloti

12 Cfr. G.BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 144.13 R. Fabris non esclude la possibilità che l’accostamento delle citazioni risalga a Gesù, anche se ammette che la formulazione

attuale risente della cristologia postpasquale.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Cape di altri, accusati di essere nemici di Roma e di fomentare discordia e ribellione contro il suo apparato bellico ed amministrativo.

Chi gli consegna Gesù conta su questa rigidità, che però sembra essere disattesa, sicché Pilato riconoscerebbe l’innocenza di Gesù, cominciando a tergiversare sul da farsi (Mc 15, 12-13; Mt 27, 22-23; Lc 23, 20-22; Gv 18, 28-31). Da abile politico, esperto nello scoprire e nell’ordire trame «conosceva infatti, che i gran sacerdoti l’avevano consegnato per invidia» (Mc 15, 10; Mt 27, 18). Il capo d’accusa principale, l’autoproclamazione di Gesù quale «re dei Giudei” non sembra lo preoccupi molto. Il silenzio di Gesù lo irrita, ma anche lo suggestiona. Le parole, riportate da Giovanni, pronunciate da Gesù, per sgombrare il terreno dall’equivoco di un regno politico-nazionalista, con la precisazione che il suo regno «non è di questo mondo» (Gv 18, 36), unitamente a tutto il comportamento di Gesù anche durante il processo, attestano la natura di una regalità che è servizio e che non è nella logica di questo mondo. Ma se ciò basta a scagionarlo, non basta a salvarlo.

Subentrano le ragioni di stato con la minaccia, da parte di chi voleva la morte di Gesù, di denunciare Pilato presso l’imperatore per connivenza o debolezza nei confronti di quanti attentavano il dominio romano in una sua provincia (Gv 19, 12). Sono le uniche ragioni che Pilato conosca, sicché anch’egli consegna Gesù perché sia crocifisso.

1.5. «E lo crocifissero»

Gesù è condannato ad essere giustiziato attraverso la crocifissione, la pena di morte introdotta dai romani nella Palestina per delitti di insurrezione, o di brigantaggio armato. Era la pena peggiore che ci potesse essere. Al condannato veniva imposto sulle spalle il braccio orizzontale della croce, il patibulum, ed egli lo portava fino al luogo dove era già infisso a terra il braccio verticale, al quale il patibolum veniva innalzato con il corpo del crocifisso, fissatovi attraverso perni metallici conficcati nei polsi.

Nel caso di Gesù, il patibulum viene imposto sulle spalle dell’uomo di Cirene, che tornava dai campi, il padre di Alessandro e di Rufo (Mc 15, 21; Mt 27, 32; Lc 23, 26). Probabilmente si temeva che Gesù non avesse retto alla fatica, stremato com’era dalle conseguenze della flagellazione a sangue, che aveva avuto luogo precedentemente, attraverso il flagellum, dalle correggie di cuoio terminanti con ossicini di animale o sferette metalliche. Di questa e degli altri scherni cruenti e del dileggio dei soldati raccontano ancora i vangeli (Mc 15, 15-20; Mt 27, 26-31; Gv 19, 1-5).

Ma la via verso il Golgota è l’ultimo tratto di quella strada che Gesù percorse quando era tra noi. La «via dolorosa», come viene indicata tutt’ora a Gerusalemme, è l’ultimo insegnamento del Rabbi della Galilea. Quando non ci sono più i suoi discepoli, è l’epilogo di una predicazione che avviene ora con il silenzio, il barcollare, e i segni della debolezza e dell’angoscia che precede l’esecuzione. L’agnello di Dio è condotto al macello. Ora che il vociare degli uomini sale e gli scherni dei passanti si fanno sempre più insistenti, solo i bambini forse fuggono alla vista dell’uomo sfigurato dalle ferite e dal sangue, mentre alcune donne, andando controcorrente, trovano il coraggio di piangere, accompagnando, con l’uomo di Cirene e con i due ladroni condannati come lui, il profeta perseguitato, il giusto angariato. Quel tragitto, che in realtà non sarà durato a lungo, assume il valore di paradigma di ogni tragitto, quello della sofferenza che colpirà Gerusalemme e di ogni sofferenza che farà gemere l’uomo: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma su voi stesse e sui vostri figli!» (Lc 15, 27-28).

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.CapE una volta arrivati al luogo stabilito, cercano di somministrargli una bevanda con effetto di

droga, per attutire il dolore, secondo una consuetudine suggerita dalla Scrittura: «Date bevande inebrianti a chi sta per perire e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore» (Pr 31, 6), ma egli la rifiutò. Lo crocifissero, come fecero con gli altri due ladroni e si spartirono le sue vesti, un gesto che con il dileggio dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani, fa ricordare le immagini tragiche del salmo 22 (Sal 22.8-9.19) (Mc 15, 22-25; Mt 27, 33-35; Lc 23, 33-34; Gv 19, 17-18).

I quattro evangelisti riportano il «titolo» della condanna: «Il re dei Giudei», che non poteva avere che un senso sarcastico e che tuttavia, come ricorda Giovanni, veniva invece ad esprimere la vera realtà di Gesù (Gv 19, 19-22; Mc 15, 26; Mt 27, 37; Lc 23, 38).

Sotto la croce di Gesù i sinottici ricordano che erano presenti alcune donne, quelle che l’avevano seguito dalla Galilea, mentre Giovanni menziona la presenza di Maria sua madre e della propria presenza. Ciò dà occasione a Gesù ormai morente di affidare l’una all’altro (Gv 19, 25-27; Mc 15, 40-41; Mt 27, 55-56; Lc 23, 49).

Ma viene l’ora della morte. Essa sopraggiungeva di solito soprattutto a causa dell’asfissia provocata dal peso e dalla posizione del corpo o dalla paralisi prodotta dal tetano. Gli spasmi potevano protrarsi anche per molte ore. In Gesù sembra che tutto si sia compiuto in tre ore, dall’ora sesta, circa mezzogiorno, all’ora nona (circa le tre pomeridiane). I sinottici riportano quest’annotazione, così come registrano le ultime parole di Gesù. Luca annota ancora una preghiera di perdono per i crocifissori (Lc 23, 34). Giovanni parla del dono dello Spirito, come si è già visto, dopo le parole «Ho sete» (Gv 19, 28) e «Tutto è compiuto” (Gv 19, 30). Matteo e Marco riportano il grido di Gesù, che è insieme domanda d’angoscia e preghiera: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34; Mt 27, 46), citando l’inizio del salmo 22.

È un salmo che esprime bene l’animo di Gesù, che sembrava rivivere le situazioni in esso descritte. L’angoscia con cui esordisce, la descrizione fosca della crescente ostilità degli uomini e di circostanze senza via d’uscita, diventano però, nel corpo del salmo, accorata preghiera, fino a mutare registro ed ad invitare quanti ancora temono Dio a lodarlo, perché egli al sofferente «non ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d’aiuto, lo ha esaudito» (Sal 22, 25). È un tema teologico, che assomma insieme la sofferenza più cupa e la speranza più indomita, che avevamo già trovato nel servo del Signore, e che nell’ora in cui il buio del cuore è più greve ancora di quello che invade la terra, dall’ora sesta all’ora nona (Mc 15, 33; Mt 27, 45; Lc 23, 44-45) squarcia le tenebre con l’affermazione convinta: «E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza» (Sal 22, 30). Luca coglie certamente il tenore complessivo e l’afflato di speranza del salmo, che si apriva con la domanda del perché dell’abbandono di Dio, quando prende a prestito le parole di un altra preghiera del salterio, per indicare i sentimenti con cui muore Gesù: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!» (Sal 31, 6). «E detto questo, spirò» (Lc 24, 46).

1.6. «E fu sepolto»

La morte di Gesù è seguita dalla sua sepoltura. L’informazione più antica che abbiamo sulla sua morte, sepoltura e risurrezione è costituita da ciò che Paolo annuncia, perché l’ha ricevuto, e perciò lo trasmette: «Che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve...» (1 Cor 15, 3-4). Il testo, scritto agli inizi degli anni 50, risale a poco più di due decenni dagli avvenimenti, perché la morte di Gesù,

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Capavvenuta, Venerdì 14 Nisan, sembra a molti doversi collocare nell’anno 30 d.C.14 Ad esso se ne possono affiancare tanti altri, che non riferiscono solo la nuda notizia della crocifissione, come abbiamo visto nelle testimonianze pagane15, ma ne danno anche un’interpretazione, vedendo nella morte un atto di donazione di Cristo, come si diceva a conclusione del capitolo precedente, e nella risurrezione la risposta del Padre a quell’offerta, in sintonia con le speranze di colui che identificò la sua sorte nel servo del Signore.

Contrariamente alla consuetudine romana, che lasciava i corpi dei crocifissi appesi al patibolo, presso gli Ebrei i corpi venivano staccati dalla croce prima che calasse il sole a motivo della impurità legale, che, secondo la Scrittura, si sarebbe estesa su tutto Israele, per colpa del cadavere pendente dal palo (Dt 21, 22-23). Il corpo di Gesù, morto prima degli altri due, fu così calato dalla croce e fu sepolto, grazie all’interessamento di un certo Giuseppe d’Arimatea, uomo sensibile alla predicazione di Gesù. Tutti gli evangelisti insistono sui particolari della sepoltura, della presenza di Giuseppe e delle donne, come testimoni, e della pesante pietra che chiude la tomba, per evidenziare la successiva realtà storica della risurrezione (Cfr. Mc 15, 42-47; Mt 27, 57-61; Lc 20, 50-55; 24, 2; Gv 19, 38-42; 20.1). A ciò si aggiungono i dettagli relativi alle modalità della sepoltura medesima, che trovano riscontro negli usi dell’epoca.

Così Gesù è deposto nella tomba, conformemente persino ai dettagli della sorte del giusto perseguitato e del servo del Signore (cfr., ad esempio; Is 53, 9).

2. «Non è qui, ma è risorto»

Con la stessa sobrietà con la quale davano notizia della sua crocifissione e sepoltura, gli evangelisti riferiscono della avvenuta risurrezione di Gesù, allorquando le donne che erano state presenti alla sua morte e sepoltura, all’indomani del sabato, si recano al sepolcro per ungere il suo corpo. Particolarmente Marco si distingue per la sobrietà e per il modo con il quale racconta l’avvenimento (Mc 16, 1-8), che schematicamente si può riassumere in questi momenti: 1) e donne si recano al sepolcro e, lungo la via, manifestano la loro preoccupazione per la rimozione della pietra sepolcrale che chiude l’accesso alla tomba; 2) una volta arrivate, trovano la pietra rimossa; 3) entrate nel sepolcro, un giovane vestito di bianco reca loro l’annuncio che Gesù, il crocifisso, non è lì, ma è risorto; 4) le donne spaventate fuggono e non hanno il coraggio di riferire l’accaduto.

A sua volta l’annuncio consta di tre momenti: 1)la menzione della loro ricerca; 2) l’affermazione della risurrezione; 3)l’invio delle donne ai discepoli per riferire che Gesù li precede in Galilea, dove lo vedranno, come egli aveva predetto. La risurrezione medesima è raccontata con tre espressioni: 1) «si è rialzato” (eghèrthe, aoristo passivo di eghèiro, che traduce il verbo ebraico qum); «non è qui”; «ecco il luogo dove l’avevano deposto”.

Tali espressioni, che costituiscono il cuore dell’annuncio della risurrezione, si trovano, anche se con qualche variante, negli altri due sinottici (Luca tralascia soltanto la prova del luogo), così come si ritrova lo schema complessivo: l’andata al sepolcro delle donne, la pietra rimossa, l’annuncio da recare o effettivamente recatoai discepoli (Mt 28, 1-8; Lc 24, 1-9). Intorno a questo nucleo si trovano particolari discordanti, ma che non inficiano la realtà centrale annunciata. Sono: 1)il numero dei messaggeri (uno in Marco e in Matteo, due in Luca; 2)la posizione del messaggero/messaggeri, che si trovano all’interno del sepolcro in Marco e - sembrerebbe- anche in Luca, all’esterno in Matteo, che racconta di un terremoto, dell’angelo che rimuove la pietra, sedendovisi sopra e delle

14 Il 14 di Nisan è coinciso con il Venerdì il 30 e il 33 d.C. Non pochi autori ritengono la seconda data troppo tardiva.15 Cfr. Cap. I.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Capguardia lì presenti, tramortite dalla paura; 3)il seguito del racconto: in Matteo le donne incontrano Gesù (Mt 28, 9-10); in Marco corrono via e non riferiscono nulla; in Luca e Matteo annunciano la notizia ai discepoli.

2.1. La tomba vuota, le testimonianze e le apparizioni

Il racconto del sepolcro vuoto di Giovanni è ritenuto oggi più antico di quello di Marco16. Narra di Maria di Magdala, che recatasi al sepolcro, trova la pietra rimossa. Corre da Pietro e Giovanni a riferirglielo, pensando che qualcuno abbia traslato il corpo. I due discepoli corrono al sepolcro ed, una volta entrati e trovatolo vuoto, ritornano a casa. Immediatamente dopo, Giovanni racconta di Maria in lacrime davanti alla tomba. Chinatasi a guardarvi dentro, vede due angeli, vestiti di bianco che le chiedono perché pianga. Avendo risposto, vede Gesù, scambiandolo per l’ortolano, cui espone il motivo del suo cruccio. Avendola chiamata per nome, Gesù viene riconosciuto e le affida il compito di annunciare ai discepoli che egli sale al Padre, sicché Maria viene dai discepoli, riferendo l’accaduto (Gv 20, 1-18).

Nonostante la notevole disparità tra questo racconto della prima esperienza al sepolcro e quello dei sinottici, non saranno sfuggiti alcuni elementi comuni. Sono: l’andata al sepolcro di una donna; la constatazione che la pietra è rimossa; la presenza di messaggeri; l’annuncio della risurrezione, che qui è fatto implicitamente dallo stesso Gesù; l’invio ai discepoli. La struttura fondamentale del racconto è dunque la stessa, anche se ciò che lo precede ed accompagna ha personaggi e situazioni differenti. Riteniamo che è a questa struttura che bisogna far riferimento per cogliere il nucleo storico della risurrezione. Questa, infatti, nell’atto del suo svolgersi non è mai raccontata. Anche la teofania-angelofania di Matteo (visualizzazione dell’agire di Dio, attraverso il terremoto, rimozione della pietra, venuta dell’angelo) (Mt 28, 2) non è nemmeno lontanamente assimilabile ad una cronaca sulla risurrezione, ma è solo l’evidenziazione di un fatto già accaduto. Non la storicità dell’evento nel suo svolgersi (Gesù che si alza dalla morte), ritenuto del resto incatturabile per gli stessi strumenti storici di cui disponiamo, ma la storicità dell’evento, come fatto storico realmente accaduto, è ciò che noi riteniamo ed è quanto asseriva già l’apostolo Paolo: «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Cor 15, 14). È la storicità di un evento documentabile in Paolo, in maniera lapidaria e per inciso, già all’affacciarsi del 50: «(I fratelli della Macedonia e dell’Acacia raccontano come voi tessalonicesi vi siate convertiti) allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura” (1 Ts 1, 9-10). In un contesto di fede escatologica, aggiunge: «Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui” (1 Ts 4, 14). Precisando che la nostra vita è in ogni circostanza insieme con Cristo, Paolo parla di un nostro vivere con colui che che è morto per noi, ma che ora vive per sempre: «(Dio vuole la nostra salvezza per mezzo di Gesù Cristo), il quale è morto per noi, perché sia che vegliamo, sia che dormiamo (s’intende il sonno della morte), viviamo insieme con lui” (1 Ts 5, 10).

Il testo paolino, ritenuto la testimonianza storica più antica della risurrezione, che comunque segue di alcuni anni gli accenni della prima lettera ai Tessalonicesi, si trova nella prima ai Corinzi. Qui, l’apostolo in un contesto che riprende i termini di una trasmissione attendibile e non manomessa (“vi ho trasmesso ciò che ho ricevuto” (1 Cor 15, 3), come aveva fatto per il racconto

16 Cfr. J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, cit., 347-348, che si appoggia allo studio: P. BENOIT, Marie-Madelein et les disceples au tombeau selon Jn 20, 1-18, in: W.ELSTER e a., Judentum, Urchristentum, Kirche, Festschr. f. J.Jeremias (2), BZNW 26, Berlin 1964, 141-152.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Capdell’eucaristia, scrive, in maniera quasi protocollare «che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato (perf. pass.di eghèiro) e che apparve (fu visto, ofthè, da orào) a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come ad un aborto”.

Il testo paolino riportato fa un elenco di coloro ai quali Gesù si è mostrato, dopo essersi «rialzato”. Quelle che sono chiamate «apparizioni” del Risorto, sono in realtà, unitamente ai racconti del sepolcro vuoto, la dimostrazione che l’avvenimento della risurrezione c’è stato ed è reale. Gli studiosi hanno messo in risalto le discordanze esistenti tra l’elenco paolino e quello del finale di Marco (Mc 16, 9-14) che nomina Maddalena, due discepoli incammino, gli undici) e le apparizioni degli altri evangeli. Giovanni parla di Maddalena, alla tomba; dei discepoli, la sera di Pasqua, a Gerusalemme; dei discepoli con Tommaso, all’ottavo giorno; di Pietro ed altri discepoli, sul lago di Tiberiade, aggiungendo la triplice professione di amore verso Gesù (Gv 20, 14-18; 20, 19-23; 20, 24-29; 21, 1-22). Matteo racconta dell’incontro di Gesù con le donne andate al sepolcro e con gli undici in Galilea sul monte indicato (Mt 28, 9-10; 28, 16-20). In Luca gli incontri con il Risorto sono quello dei due discepoli ad Emmaus; un incontro con Simone, riferito dagli undici ed altri discepoli a Gerusalemme, al sopraggiungere dei due e l’incontro di tutti costoro in quello stesso momento, cui segue il discorso della missione e il racconto dell’ascensione (Lc 24, 13-53).

Come si può notare, il materiale che si riferisce agli incontri con il Risorto appare ancora più multiforme e discordante di quello relativo alla tomba vuota. Ciò appare ancora più evidente in confronto con le convergenze che invece si registrano, nei quattro vangeli, a proposito della passione. Tuttavia, la cosa non sorprende più di tanto se si considera il fatto che mentre la passione era un’unità ben circoscritta nel tempo, meno di 24 ore, e con uno sviluppo drammatico contenibile in un solo racconto, la realtà che Cristo è risorto e che incontra i suoi discepoli si estende su un arco di tempo che sicuramente va oltre la settimana ed inoltre non si può afferrare e fissare con esattezza in un unico racconto.

I postbultmanniani mettono anche in rilievo che alcuni particolari ed accentuazioni narrative sono dovute ad interessi storici redazionali immediati. Così, si spiega il fatto che l’incontro con Pietro, così importante per la tradizione, sia appena accennato in Luca e manchi negli altri sinottici (mentre ha tutt’altra ambientazione in Giovanni) con la tendenza, in ambiente giudaico-cristiano a non voler mettere troppo in risalto Pietro, per le sue aperture univeralistiche17. Mentre i dettagli sulle guardie alla tomba di Gesù di Matteo, sono il segno evidente, secondo molti, della reazione alla diceria giudaica della sottrazione del cadavere. Le accentuazioni realistiche delle apparizioni (le ferite, il pesce arrostito mangiato da Gesù ecc.) dimostrerebbero, a loro volta, una preoccupazione antidocetista, volendo mettere in risalto la realtà corporea di Gesù, contro coloro che vi vedevano solo un’apparenza. Su questa scia si dà una spiegazione delle diversità e delle prospettive differenti di tali racconti.

2.2. La risurrezione, evento storico e realtà di fede

Si può concludere che simili spiegazioni possono essere plausibili, ma ciò non toglie la storicità dell’avvenimento raccontato, che parte da un’affermazione, «Gesù non è tra i morti» ed è suffragato da due constatazioni: il sepolcro vuoto e gli incontri che egli ha con i suoi discepoli. Se qualcuno insiste oggi sempre più sul fatto che la risurrezione in quanto tale esorbita dalla

17 J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento I, op, cit. 350-351.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Capsperimentabilità storica, non sempre sposa la tesi bultmanniana di una derivazione dell’intera dottrina della risurrezione dai miti pagani simili, che pure parlano di una risurrezione avente molte coincidenze con quella di Gesù18. Si deve senza dubbio difendere il fatto storico della risurrezione, rifiutando l’idea che essa sia solo il prodotto della fede dei discepoli di Gesù19. Il quesito se sia la fede all’origine della risurrezione o la risurrezione all’origine della fede non deve per ragioni logiche e storiche concludere, con Reimarus e Renan, che la risurrezione sia effetto e non causa della fede nel Cristo. Ma non si può tuttavia pretendere che come fatto storico esso sia constatabile anche fuori di un contesto di fede. Come molti sottolineano, sembra a ragione, già i discepoli stessi hanno avvertito la difficoltà che quest’evento poneva, perché esso non è il ritorno allo stato di vita precedente, ma è l’esplosione di quella nuova dimensione escatologica in cui Gesù aveva creduto anche nella passione. Anche in noi tale avvenimento ha sempre bisogno della speranza e della fede, se non altro perché sia colto in tutto il suo spessore teologico.

«Cristo non è tra i morti, ma è vivo» ci ricorda un dato fondamentale della «biografia teologica” di Gesù. Il suo “stare in mezzo” ai suoi discepoli, inatteso ed improvviso, dopo la risurrezione, ci ricorda il suo stare in mezzo a loro della sua vita terrena. Come nella proclamazione delle beatitudini e in tutte le altre circostanze in cui lo abbiamo visto per via o in casa nell’atto di insegnare o semplicemente di «stare con” i discepoli, Gesù esprime negli incontri dopo la risurrezione la sua particolare vicinanza ai suoi, sicché essi sono i suoi familiari, i suoi «consanguinei” (Mc 3, 31-35). Come allora e più di allora, può sedere o stare in mezzo a loro, come sottolineano i racconti degli incontri, che altro non sono che l’evidenziazione di quanto si trovava già in Matteo: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20).

2.3. Portando ancora i segni della passione

Tutto ciò costituisce la grandezza e la realtà della risurrezione, ma anche la sua attuale inafferrabilità, se non nella fede. Chi crede in lui sa che l’evento della risurrezione è ancora in atto, perché Gesù «si è rialzato» dai morti ed è vivente. Può afferrare il senso e talora la certezza di chi ha detto di essere presente«tutti i giorni fino alla consumazione del secolo» (Mt 28, 20).

Gesù storico è veramente storico, e storico è l’evento della sua risurrezione. Eppure, per comprenderlo ed afferrarlo, dobbiamo fare continuo riferimento alla sua fede e alla fede di quanti «sono stati con lui”. Solo questa ragione rende spiegabile il fatto che Gesù sia stato visto, dopo la risurrezione, solo da quanti avevano precedentemente creduto in lui e che ancora lo cercavano, anche se solo attraverso i resti del suo corpo, come Maddalena e le donne di Galilea, o attraverso il ricordo delle sue parole, come i discepoli sulla via di Emmaus, o solo e semplicemente attraverso l’angoscioso interrogativo su quale senso avesse la passione e la crocifissione del giusto.

Chi ancora, come loro, lo cerca, prima o dopo incontrerà Gesù, che recando i segni della passione, farà risuonare l’annuncio di quel mattino di Pasqua: il crocifisso, proprio lui è risorto!

Ma questo stesso annuncio non potrà non diventare testimonianza e prassi di pace. Il Risorto ha lasciato la sua pace a quanti sono riuniti nel suo nome e che egli ha salutato ripetutamente con l’augurio di pace (Lc 24, 36, Gv 20, 19.21.26. A loro ha conferito il dono del suo Spirito, ora che sono riuniti, perché non erano stati sotto la croce per poterlo ricevere (Gv 20, 21-23). Quello Spirito

18 Cfr. i miti di Siride, Attis, Adone cui fa riferimento J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento I, cit., 347.19 Cfr. anche alcune precisazioni di Giovanni Paolo II sulla storicità della risurrezione, considerata «evento storico ed

affermazione di fede», in OSSERVATORE ROMANO (26.01.1989) pag. 4.

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Mazzillo/Gesù storico/CZ-08/ 10.Capopererà la riconciliazione e con esso sarà possibile continuare tra gli uomini la sua prassi di pace (Mc 16, 15-20).

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