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Istituto Comprensivo di Solesino Scuola Primaria “ B. Croce” Granze Classi III^ - IV^ - V^

Cd libro granze1

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Istituto Comprensivo di SolesinoScuola Primaria “ B. Croce” GranzeClassi III^ - IV^ - V^

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Il presente libro è stato realizzato dagli alunni di classe terza , quarta, quinta della scuola Primaria “ B. Croce” di Granze, dopo un impegnativo lavoro di ricerca, come prodotto del Progetto “ Informatica a Scuola” a.s. 2007/ 08

Ins. coordinatrice Emanuela Rizzi

Hanno collaborato le ins. Corso Donata Rabachin Tiziana Zuccolo Caterina

Un viaggio nel tempo ….

Abbiamo fatto un viaggio “all’indietro”per scoprire il nome del nostro paese “ Granze”e la storia del territorio in cui si trova.Così, attraverso il ricordo ancora vivo e preziosodi molti “nonni” e persone competenti sulla storia della Bassa Padovana, abbiamo potuto rivivere momenti di vita passata, attraverso i ricordi e gli oggetti, che ci hanno fatto riflettere e ci hanno insegnato l’importanza di “fare memoria”…….andando proprio nel passato ora sappiamo cosa significa “ Granze”.Scopritelo anche voi!

Un ringraziamento particolare ai “nonni”,al sig. Paolo Sette, al sig.Gianni Barollo,al parroco d. Antonio, al prof.Camillo Corrainper l’interessante “ viaggio” nel Museo CivicoEtnografico di Stanghella.

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Indice

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Granz

e

Clicca su uno degli argomentiPoi, nelle diapositive corrispondenti clicca suavanti o torna.

Buon viaggio!

Granze si trova qui

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Guardando i tuoi campimessi in fila, così,verso l’orizzonte,

senza voce ho gridato:regalatemi gli ultimi tocchi di

tramontoaffusolati nel cielo,

gli aghi di brina sullo sterpo,il riverbero di sole

sul vetro piccolo del casolare,vedrò i visi,le mani,le case,

sentirò le parole,i battiti del vostro cuore.

(M. Padoan Tecchio )

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Le “grange” “Grange” è una parola francese che deriva dal latino “granica” ( granaio) da “ granum”( grano).In Francia, con la riforma di Cluny, operata da Bernardo di Chiaravalle nel 910, i monasteri non dipendevano più dai signori feudali ma direttamente dal papa; diventarono vere e proprie cittadelle autosufficienti. In seguito , con la riforma cistercense, iniziata a Citeaux ( Cistercium) ad opera dell’abate Roberto e diffusa da Bernardo di Ch. venne data più autorità all’Abate . L’abbazia divenne centro di vita e “le grange”(fattorie, officine e case) ne erano l’elemento operante perché trasformarono zone incolte fino all’anno 1000, in terreno coltivabile attraverso la bonifica, l’arginatura dei fiumi, la coltivazione dei campi.L’ordine cistercense nel corso del XII, XIII sec. si diffuse anche in Italia.Qui, la gràngia o grància ,formata da edifici rurali sui terreni di un’abbazia benedettina per la custodia dei prodotti agricoli, in seguito allo sviluppo dell’agricoltura ad opera dei monaci cistercensi, nel XII sec.,si trasformò in una piccola comunità monastica con cappella ed edifici governati da un rappresentante dell’Abate e da fattorie amministrate dal cellerario o monaco “ grangiere”.

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Il territorio che ora abbraccia i due comuni di Granze e Vescovana, era anticamente noto con il solo nome di Vescovana e faceva parte della Corte Elisina. Nel 1126 Cunizza o Cunegonda, figlia di Guelfo II, Duca di Altdorf, signore di Ravensberg in Svezia, sposò Azzo II d’Este e portò in dote la Corte Elesina o Solesina. Dalla transazione tra il comune di Padova e Azzo II d’Este conclusa nel 1260, si è saputo che la “Curia Solexini” oltre a Solesino , Santa Lena ( S.Elena) e Stanghella, comprendeva anche Vescovana(che comprendeva Granze e Boara). “La sua Parrocchiale era l’ Ecclesia Sancte Cristine de Veschovana” elencata nella Decima Papale del1297, il cui rettore era un certo prete Luca. Nella cartina del 400 – ‘500 che si trova presso il Museo Civico Etnografico di Stanghella, si vede la località allora “Contrà de Vescovana”, ora “ I Livelli” di proprietà Barollo, dove si nota la posizione della chiesetta di S. Cristina. Nel 1429 fu nominato parroco di S. Cristina il prete Antonio Giacomo da Padova, ma lo stato di questa chiesa era già decadente e successivamente andò in rovina per gli allagamenti del canale Fossa Lovara( Santa Caterina)La chiesa di Santa Cristina, quando venne a visitarla il vescovo Barozzi, il 24 ottobre 1489, era abbandonata, senza il SS.mo e senza l’altare. I fedeli adempivano ai loro doveri religiosi presso la chiesa dei padri benedettini olivetani di Santa Lena.

Livello:contratto in vigore durante il Medio Evo in base al

quale un concedente consegnava a una persona detta livellatorio,

un terreno con l’obbligo di migliorarlo e di prestare servigi

al concedente stesso.

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Il territorio dove sorge il paese di Granze anticamente formava un unico paese con Vescovana. Esso faceva parte della corte Elesina.Questo vasto territorio appartenne di volta in volta agli Estensi, ai Romani , Carraresi , agli Scaligeri, alla repubblica Veneta , al Regno Italiano,al regno Lombardo –Veneto e nel 1866 al Regno d’Italia.Durante tutte queste vicende di successioni e quindi anche di guerre, Vescovana subì varie devastazioni ;le due più importanti furono :•nel 1251 quando dovette passare con Monselice ed Este sotto il il dominio di Ezzelino di Romano •tra il 1502 -1517:guerra per la lega di Cambrai, compiuta da bande spagnole, quando Andrea Grippi , per conto della Repubblica Veneta riprese la Corte Elisina ad Alfonso II d’EsteI n questa seconda devastazione subì i maggiori danni proprio lo stesso territorio in cui sorse Granze, perché venne incendiato e la popolazione dovette spostarsi.Solo dopo la pace con Venezia gli abitanti tornarono e iniziarono a coltivare le terre. Vescovana e Granze furono dominate dalla Repubblica di Venezia dal 1468 fino alla sua caduta ,dalla famiglia Pisani, patrizi veneti.

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Il territorio di Granze fu dominato dai Romani dal II sec. A. C.Il più importante monumento romano fu scoperto nel 1902 nel fondo “Calalte” allora proprietà del sig. Federico Ferretto.E’ una stele funeraria in calcare con ritratto del defunto e iscrizione che ricorda Papinio Sereno figlio di Pubblio.Il busto del defunto, in posizione frontale è vestito con tunica e toga.Si nota la pettinatura a ciocche virgolate sulla fronte ,le orecchie larghe e sporgenti, la mano destra stesa sul petto che tiene un lembo della toga:questa posa forse era tipica di qualche rituale religioso. Questo pezzo risale al I° secolo d. C. ed è opera di un’ officina locale ed esempio di arte romana “popolare e provinciale” .E’ conservato presso la fattoria in località Ca’ Rizzi.Un altro monumento è un coperchio di ara-ossuario in pietra tenera sormontato da due leoncini accovacciati che tengono tra le zampe anteriori una testa d’ ariete, viene scoperto l’ 8 gennaio 1915 nel fondo “La Campagnola” di proprietà Rizzi. Il coperchio risale alla prima metà del primo secolo d.C., si aggiunge ad altri pezzi trovati nella zona di Este di cui Granze faceva parte in epoca romana.Il leone ha il significato di “guardiano del sepolcro” con la funzione di allontanare influenze maligne o di scoraggiare i profanatori della tomba. I leoncini del coperchio invece raffigurano belve che uccidono animali più deboli ( in questo caso l’ariete ) per rappresentare la potenza della morte che sopprime la bellezza e felicità della vita. Altri reperti sono stati trovati in località” I livelli “di proprietà Barollo: due pesi da telaio di argilla (per la tessitura o ex voto).Una fusaiola ( elemento da tessitura e per collane).I primi reperti dell’ esistenza del territorio di Granze risalgono all’età PALEOLITICA. Infatti è stato ritrovato il corredo di una tomba che risale al 7° secolo a.C. circa. Il materiale si trova al Museo Nazionale Atestino.

MONUMENTI ETA’ PRE-ROMANA E ROMANA

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L’antica chiesa di Santa Cristina ( chiesa campestre o cappella della Grangia de Veschovana) che si trovava nei pressi del Canal Negro ( oggi Gorzone) in un fondo di circa due campi, era lunga 10 metri e larga 7, con l’abside semicircolare, illuminata da due finestre nella parte meridiana, possedeva molte pitture sulla parete a Nord e, davanti alla porta maggiore aveva un atrio.Nel tempo questa chiesa “ jus patronato” cioè fatta dal popolo, andò in rovina e fu abbandonata, la sua posizione si può ancora notare nella carta topografica del ‘500, ‘600 che si trova al Museo Civico Etnografico di Stanghella. In questo territorio le condizioni ambientali erano precarie fino a quando Venezia lo affidò a grandi famiglie come i Pisani e i Conti ( già presenti a Granze)Nella visita del Vescovo Barozzi il 24 ottobre 1489 viene descritta senza altare e non era più frequentata dai fedeli. Intanto il centro di Vescovana si era spostato a destra del Fossa Lovara ( canale Santa Caterina). Infatti i Pisani nel 1468 acquistarono terre in Solesino, Stanghella Vescovana, Boara, concentrandovi la popolazione con la costruzione di chiese. Così vennero abbandonati i vecchi villaggi che si spostarono vicino alle chiese. Il card.Francesco Pisani prima del 1570 aveva fatto costruire vicino alla sua villa la chiesa intitolata a S. Giovanni Decollato, mentre il nuovo centro di Granze si sviluppò in terreni meno acquitrinosi poco lontano dalla villa Conti ( oggi Rusconi-Camerini). Nel 1582 la popolazione cominciò a costruire la nuova chiesa a S. Cristina che fu terminata dopo diversi anni, tanto che nella corona del vecchio pozzo, che si trova vicino alla chiesa, si può leggere ancora la scritta”Non essendo ancora completata la chiesa, nell’anno di salute1586, Cristina, benedetta a Dio Eterno, diede il titolo al pozzo”La nuova chiesa fu consacrata il 17 ottobre 1594 dal vescovo di Chioggia ,Massimo Beniamino. Successivamente fu visitata da San Gregorio Barbarigo nel1689 e dal card. Rezzonico nel1748. Nei secoli successivi ha subìto interventi di manutenzione e fu allungata di 4 metri.

La chiesa

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”Non essendo ancora completata la chiesa, nell’anno di salute1586, Cristina, benedetta a Dio Eterno, diede il titolo al pozzo”

La chiesa …

capitelli

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… e Granze divenne comune

La consacrazione della nuova chiesa di Granze, nel 1594, motivo ancora oggi della sagra paesana, segnòl’indipendenza religiosa dei Granzetani. Tre secoli più tardi, maturò negli animi l’ideale dell’indipendenza civile. Nacquero frequenti liti tra gli abitanti di Granze e quelli di Vescovana soprattutto in località “Gorzon”che segnava il confine tra il comune di Vescovana e la frazione di Granze. Il ponte sul “Gorzon” per poco non venne distrutto a colpi di piccone dai Granzetani, dopo una disputa più accesa delle altre. Perché Granze diventasse comune era però necessario avere un minimo di 4000 abitanti, mentre la frazione ne possedeva solo 1993; era quindi necessaria una legge speciale.L’Onorevole Stoppato, deputato del Collegio Elettorale di Montagnana, presentò la causa dei Granzetani in Parlamento e, grazie al suo preziosissimo interessamento, la Camera approvò un decreto legge che riconosceva Granze Comune Autonomo il 19/2/1913.

Lo stemma fu predisposto dallo Studio Araldico di Genova e basato sui caratteri topografici ed agricoli del luogo. E’ a forma di scudo a punta, con la spiga di grano che simboleggia il complesso agricolo della terra di Granze e una bordatura di colore azzurro, che ricorda il corso del fiume Gorzone.

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IL CAPITELLO DEL CRISTO

Il primo capitello costruito nella zona di Granze, nella località “Quattro Vie” , fu costruito probabilmente al tempo dell’impero Austro Ungarico (1800) . Il capitello che veneriamo oggi, è stato ricostruito al posto di quello primitivo divenuto impraticabile. Nel 1969 grazie al generoso interessamento delle famiglie vicine, che hanno raccolto delle offerte dalla gente del paese per comprare il materiale, e al lavoro gratuito di alcuni muratori, questo capitello fu completamente ristrutturato. Il crocifisso ligneo, pieno di grande umanità, è ancora quello del primo capitello ed è stato ristrutturato nel 1922 da un “girovago” veneziano.Quell’uomo sostò alcuni giorni alle “Quattro Vie” e, poiché era falegname, si offrì di restaurare i piedi del Crocifisso, rovinati dalle fiamme e dal fumo delle candele.Punto di confine e di incontro tra Granze e Sant’Elena il “ Cristo delle Quattro Vie” viene festeggiato l’ultima domenica di Ottobre,(un tempo,prima della Riforma Liturgica, Festa di Cristo Re dell’Universo) dalle famiglie della zona con la partecipazione di tutto il paese di Granze e anche di Sant’Elena. ( parroco d. Antonio)

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IL CAPITELLO DI VIA VOLTADILANA

Il capitello che si trova nell’ incrocio tra via Volta di Lana e via Ponticelli è soprannominato “della Madoneta.” E’ stato costruito nel 1855 da Nin Giovanni a ridosso della sua abitazione, per voto e riconoscimento di un miracolo: lì sì era fermata l’ epidemia di colera. Si dice infatti che la signora Rinaldo Scolastica, contagiata dal colera, sia stata guarita per intercessione dei Santi protettori delle pestilenze: la Madonna,San Sebastiano e San Rocco. Il capitello è un sacello, cioè una chiesetta rettangolare, con all’interno un altare , ha due finestrelle nelle pareti laterali, due gradini d’ingresso, ha il tetto spiovente ed è chiuso con un vecchio portone di legno. Sulla facciata esterna sopra la porta d’ingresso c’è l’ iscrizione “ B. V. IMAC. PER VOTO 1855”(BEATA VERGINE IMMACOLATA PER VOTO 1855). Sulla parete, sopra all’altare, si trova la tela della Madonna Assunta con la crocetta dorata di S. Sebastiano, acquistata all’epoca dalla gente della contrada. Sopra l’altare si trovava la statua di legno della Beata Vergine seduta in trono e in una parte laterale era anche venerata l’immagine di San Rocco, scomparse entrambe durante la seconda guerra mondiale.Si svolgeva infatti un’ importante sagra con la celebrazione di una messa il giorno del Santo, il 16 Agosto e una messa di Rogazione con la benedizione delle croci di legno ,che andavano poste sui campi coltivati a protezione del raccolto.Attualmente il capitello viene utilizzato solamente per il fioretto di Maggio e la messa di Rogazione.

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LE ROGAZIONI

Per chiedere la fertilità dei campi, c’era la tradizione di rivolgere a Dio particolari preghiere. In primavera, il parroco, si recava in processione nelle varie contrade e, recitando le litanie dei Santi, si fermava presso i capitelli o gli altari, appositamente allestiti e benediceva le “ crosette” ( croci di legno) , rinnovate ogni anno, da porre sui campi.

BENEDIZIONE DELLE STALLE

In occasione della festa di S. Antonio Abate ( 17 gennaio)il parroco benediceva le stalle. Il sale veniva prima benedetto, poi sciolto nell’acqua per abbeverare gli animali.

LITANIA: preghiera collettiva costituitada brevi formule dette dal parroco e ripetute,intere o in parte, dalla gente.

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Tanto tempo fa, a scuola ,ci si andava a piedi e i più fortunati in bicicletta. C’ era chi si faceva anche 5 km a piedi col bello o brutto tempo,anche con la neve perché una volta qui da noi nevicava molto . Ogni classe era formata da numerosi alunni che indossavano il grembiule nero con il colletto bianco e un fiocco, rosa per le bambine, blu per i maschi.Per scrivere usavano il pennino che intingevano nel calamaio, era quindi indispensabile la carta assorbente. Per cancellare usavano la mollica di pane. La merenda consisteva in un frutto o un pezzo di pane. Gli insegnanti erano severi e, a volte, utilizzavano anche le punizioni: bacchettate sulle mani o sulle gambe, o mettevano gli alunni in castigo inginocchiati sui semi di granoturco. D’inverno, le classi venivano scaldate con la stufa a legna e , nei bagni, l’acqua era contenuta nei secchi.

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Il corredo scolastico era formato da una cartella di cotone , due quaderni con la copertina nera, il sillabario, un bastoncino con il pennino, un astuccio in legno. Nell’aula si potevano vedere la cattedra posta sopra una pedana,la lavagna, un armadio in legno dove tenere i quaderni di “ bella copia”, la carta geografica, la stufa a legna, i banchi a due posti con il “ buco” per il calamaio. Avevamo un unico maestro o maestra.I giochi durante l’intervallo erano: nascondino, moscacieca, scalone, a biglie, a corda, a fazzoletto, a bandiera.

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ANCHE LE PAROLE

Tutto può essere mutato in gioia tranquilla;anche le parole recuperate,

le parole semplicida tempo dimenticate,a torto credute logorate

dal tempo che fa liscia la pietra della roccia,o falciate dalla voce roca del lavoratoreche alterna la bestemmia alla preghiera.

“ Ciao, come stai, guarda come splende il sole …”parliamo così, qualche volta,

in qualche ora del giorno,e lasciamo apparire la luce,

la forza tranquilla delle parole,negli occhi, nella stretta della mano,

quando ci lasciamoper poi ritrovarci.

( M. Prosdocimi)

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Ricerca sul lavoro dei nonni I nonni mi hanno raccontato che una volta moltissime persone lavoravano nei campi. Il lavoro iniziava la mattina molto presto nei campi ed era molto faticoso .Veniva fatto da uomini e anche da donne .Si partiva presto e a mezzogiorno , quand’era estate e c’era tanto da fare nei campi , si mangiava in mezzo alle campagne .C’era molta solidarietà fra persone e spesso si dividevano anche il cibo .Lavoravano anche i giovani ,finita la scuola aiutavano nei campi.Il periodo invernale invece solo gli uomini lavoravano la terra o sistemavano le piante , mentre le donne si dedicavano alla cucina , al cucito o al ricamo .Persone meno fortunate che non avevano terreno o non c’ era lavoro per tutti , visto che le famiglie erano molto numerose , erano costretti ad andare all’estero .Anche i miei nonni sono andati a lavorare in Francia e mi hanno raccontato che era molto duro il lavoro e non c’era molto cibo .Le mie nonne invece sono state costrette ad andare a lavorare nelle risaie .Partivano molto presto alla mattina e tornavano tardi la sera ,anche per loro il lavoro era piuttosto duro .Le famiglie erano molto numerose tutte avevano molti figli e il cibo che c’era non bastava per saziarli tutti.Anche i bambini erano costretti a lavorare, tanti non finivano neanche le scuole .( nonna Adelina )

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I contadini usavano gli animali per lavorare i campi. Ai buoi o ai cavalli venivano attaccati l’aratro o altri attrezzi; i buoi venivano usati a coppie e, per tenerli uniti veniva usato il GIOGO. I cavalli e gli asini venivano usati per il trasporto delle persone o di piccoli carichi. La semina veniva fatta a mano prendendo i semi da un cesto e lanciandoli sul terreno camminando. Durante le calde giornate d’estate i contadini tagliavano un pugno di spighe per volta con un falcetto, poi le riunivano in covoni.

ARATRO

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GIOGO

VENTOLOSEPARAVA IL CHICCO DALL’INVOLUCRO CHIAMATO PULA

TREBBIATURALA TREBBIA SEPARAVA I CHICCHI DALLE SPIGHE.( La pianta del grano senza i chicchi prende il nome di PAGLIA.)

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I lavori delle donneNella società contadina tutti i componenti della famiglia avevano un compito ben definito: gli uomini facevano i lavori più pesanti nei campi e nelle stalle, mentre le donne si occupavano della casa, dei numerosi figli, dell’orto, degli animali da cortile e, molte volte , nei momenti del raccolto, aiutavano nei campi. In cucina usavano i prodotti dell’orto, poche volte la carne delle galline che servivano soprattutto per le uova; il pane vecchio, quando avanzava! veniva usato per zuppe o per qualche semplice dolce, mentre le “ croste di polenta” ( la parte di polenta che si attaccava alla pentola mentre si cucinava) venivano mangiate nel latte alla mattina. Compito delle donne poi era quello di lavare ( lissia) stirare, rammendare, cucire, lavorare a ferri. Le ragazze lavoravano ad uncinetto e si occupavano del ricamo della “dote”( lenzuola, tovaglie, asciugamani ….) Le donne andavano nei campi per la raccolta delle barbabietole che venivano levate a mano, private delle foglie e caricate sui carri per essere portate al zuccherificio, per la raccolta delle piante di tabacco, per la vendemmia o zappavano la terra per togliere le erbacce dalle piantine.

lavori

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I grappoli d’uva, dopo essere stati vendemmiati, venivano pigiati con i piedi, in contenitori chiamati tini. Successivamente si è iniziato ad usare macchine come la pigiatrice, all’interno della quale si mettevano i grappoli. Le bucce dell’uva ( le graspe) venivano pressate all’interno del torchio e si otteneva un vino leggero ( la graspia).Pigiando l’uva si ottiene il mosto che, per diventare vino ha bisogno di fermentare. La fermentazione è un processo chimico durante il quale lo zucchero del mosto si trasforma in alcool.Il vino viene fatto riposare nelle botti: dopo 5 – 6 mesi si ha un vino giovane, mentre per ottenere vini più pregiati occorrono anche 4 o 5 anni.

PIGIATRICE

TORCHIO

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Page 23: Cd  libro granze1

El botàroCostruiva le botti per contenere il vino. Nella nostra zona el botàro era il signor Rosin di Villa Estense che da più di tre generazioni aveva la falegnameria. Per comperare una botte, che poteva contenere dieci quintali di vino, ci voleva il raccolto di un anno di lavoro per un’azienda media. Per costruire una botte ci volevano tre anni : el botàro si procurava il legno di rovere, lo lasciava seccare all’aria aperta e al sole, lo tagliava con la sega a mano e formava le “ doghe” che faceva incurvare con dei pesi. Per tenerle unite metteva dei cerchi in ferro o in legno. Le doghe si chiudevano con due fondi circolari in cui veniva incavato un piccolo solco per fermarle. Nella parte più gonfia della botte veniva praticato un foro che serviva per fare entrare il vino. Per farlo uscire, invece, veniva praticato un buco vicino al bordo di uno dei fondi e chiuso con un tappo chiamato “canoìn” ( nonno Isidoro)

lavori

Page 24: Cd  libro granze1

Una volta, nel mio paese, si iniziava a lavorare molto presto, verso i 10 anni, dopo aver finito la scuola. I lavori erano vari: le bambine, oltre ad aiutare nei campi potevano fare la lavandaia, la balia, la mondina..Mentre i maschi lavoravano nei campi,accudivano il bestiame,potevano fare il mugnaio, il maniscalco, l’arrotino,il calzolaio, il minatore,il fabbro, , il canevino( costruttore di corde). Altri lavori che venivano fatti allora e che oggi sono scomparsi erano:el spassacamin, saliva sui tetti delle case, soprattutto in primavera e autunno con gli arnesi del mestiere e liberava i camini dalle incrostazioniel favaro,costruiva utensili e attrezzi in ferroel moeta,era l’arrotino, passava per le strade i bicicletta o con un carrettino trainato da un asino e affilava coltelli, forbici,…su una specie di ruota di pietra chiamata “ mola”el caregheta, impagliava le sedieel marangon,costruiva e riparava mobili in legno e utensiliel sestaro, intrecciava rametti di salice, di castagno oppure di nocciolo per costruire cesti e per rivestire fiaschi o damigiane.

marangon

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Page 25: Cd  libro granze1

Una volta per scaldare il letto si adoperava uno scaldaletto in rame con il manico lungo, col coperchio, e con alcune fessure da cui usciva il calore che si formava dalle braci poste all’ interno. Per lavare i panni si faceva bollire l’ acqua in un grande pentolone a cui veniva aggiunta la cenere. A questo punto si immergeva il bucato che veniva lavato. Oltre a questi lavori c’erano molti altri tra cui il calzolaio che aggiustava le scarpe con le pezze, copriva i buchi nelle suole con dei pezzi di cuoio, e costruiva le ciabatte utilizzando il panno dei cappelli vecchi o il cartone e per la suola adoperava i copertoni delle vecchie biciclette. C’era poi lo straccivendolo che andava per le famiglie e raccoglieva gli stracci e poi li sistemava e li vendeva per guadagnarsi da vivere. C’era ancora il lavoro del “mazzin” che era colui che uccideva i maiali nelle varie fattorie. Qui dopo aver ucciso l’animale lo metteva in quello che chiamavano la “pelaora”, si trattava un contenitore di acqua bollente dove veniva immerso il maiale morto per togliergli il pelo. Del maiale veniva utilizzata ogni cosa, anche il pelo che veniva utilizzato per fare i pennelli per la barba. C’era anche il “ conciaole” che era colui che aggiustava le pentole di alluminio, di terracotta e di smalto; le stagnava quando si bucavano, mentre quelle di terracotta che si “crepavano” le aggiustava con dei fili di ferro che inseriva all’interno facendo dei piccoli buchi.

Sgàlmareavanti

Page 26: Cd  libro granze1

Il maniscalcoIl lavoro del maniscalco consisteva nel curare,tagliare e ferrare gli zoccoli degli animali da lavoro o da “tiro” che erano vacche, buoi, asini e cavalli. Egli doveva saper mettere i ferri adatti che venivano fatti a mano con il ferro riscaldato nella forgia e poi modellato sull’incudine. Ferrare gli animali era un lavoro di precisione: bisognava tenere con forza la zampa, limare l’unghia e fermare il ferro con i chiodi molto bene, altrimenti zoppicava e si causava danni alle zampe. Il lavoro del maniscalco viene esercitato tuttora, infatti mio zio lo fa per professione da vent’anni ed è una passione che aveva fin da piccolo. (Alice e zio L. Raffagnato)

El boaroLavorava presso il contadino e, a lui, era affidata la cura della stalla e degli animali: li teneva puliti, faceva loro il letto con la paglia e portava gli escrementi ( boasse) in un luogo vicino alla stalla chiamato “ letamaio”, mungeva le vacche e accudiva i vitelli.

forgia

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Page 27: Cd  libro granze1

Il lavoro dei miei nonni e i lavori che non ci sono piùI miei nonni facevano gli agricoltori: oltre tanti altri lavori seminavano e raccoglievano il grano.Il grano si mieteva con la falce a mano, si riuniva in covoni che poi si trasportavano sopra un carro trainato da buoi e venivano distesi nell’ aia, dove venivano trebbiati con la trebbia fissa.Il grano poi veniva portato a spalle nei sacchi e messo nei granai mentre la paglia si riuniva nei pagliai. Il grano veniva poi portato dal mugnaio che lo macinava per fare la farina con la quale si faceva il pane. I mulini si trovavano in riva ai fiumi perché sfruttavano la corrente dell’acqua per far muovere le pale.Le lenzuola e le camicie venivano fatte con il filo di canapa, perché la coltivazione era molto diffusa. La semina della canapa si effettuava a Marzo a righe molto fitteper ottenere fusti alti e senza rami, quindi fibre più lunghe e più fine. La raccolta avveniva tra la fine di luglio e primi di agosto tagliando le piante alla radice.Dopo averle essiccate al sole si toglievano le foglie, quindi rimanevano fusti nudi detti “bacchetti,” di 2 o 3 metri. Poi venivano ripartiti in fasci uguali per lunghezza e grossezza e messi a macerare in piccoli stagni artificiali detti “maceri,” facendoli ammorbidire per 10-15 giorni, poi si facevano asciugare all’ aria.Una volta asciugati si battevano con un attrezzo detto“gramola” distruggendo così lo stelo esterno e rimanevanole fibre interne chiamate stoppa. Con questa si faceva il filo a mano:Le donne,tirandolo con le dita e con l’aiuto di una ruota facevano delle matasse di filo per poi lavorarlo e filarlo. Oggi la coltivazione della canapa in Italia è scomparsa. (Targa Isidoro)

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TELAIO

Lavorazione della canapa

FILATOIO

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Page 29: Cd  libro granze1

Il filò

Nelle giornate o nelle sere d’inverno, le persone si radunavano nelle stalle per stare al caldo; si mettevano, di solito, disposti a cerchio: gli uomini giocavano a carte, le donne lavoravano a maglia e chiacchieravano, i bambini giocavano. A volte si raccontavano storie o favole ai bambini, a volte gli uomini facevano “ i crivei” cioè le gabbie per le galline, fatte con i rametti “de salgàro” , una specie di salice che cresce lungo i corsi d’acqua.

Proverbi•La secia, forza de ‘ndare al pozo, la ghe assa el manego•Quando vago sui campi co la cariola, me se sgonfia la roa.•Chi mestiere no sa, botega sara.•La volpe perde el pelo, ma el vizio mai.•El can de do paroni, el more de fame•El pare mantien sète fioi, ma sète fioi no i xe boni de mantegnere on pare

Indovinelli•No vago a leto se no lo meto dentro, me alzo la matina, lo tiro na s-ciantina ( il catenaccio)•Go na roba che no ga fondo e no ga quercio, però ghe sta la carne dentro ( la fede nuziale)•Onta , bisonta, soto la tera sconta, bona da magnare. Prova a indovinare! ( la fugassa)

Mi … me ricordo …

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BoJi boji fasoiOn dì na femena ghea rancurà on mucio de fasoi.La jera tanto contenta che la ghe voea ben come i fusse sta so fioi-On dì la i ga messi a bojre e la ga scomissià a dire: “ Boji, boji fasoi che si tuti me fioi”. Ma cusina, cusina, i fasoi se ga tuti desfà. Quando la i ga visti tuti cussì, la pora femena la ga scumizià a pianzare parchè no la ghea più so fioi. Alora salta fora da dedrio la porta el pi picenin disendo: “ no sta pianzare ghe so mi”. A chel momento la ga scumizià a basarlo e abrazarlo. Da alora i xe vivesti feici e contenti ( nonna Lucia)

Par colpa de on toco de panMia nonna Lucia racconta un episodio di vita di suo papà Giovanni…“Jera l’inverno del 1917 e jero drio combatare contro i tedeschi sol monte Baldo. On dì, finio de magnare, a go visto butare dal generale on toco de pan in tel fango, parchè el jera on fià onto.Me so butà par torlo, ma no ghevo calcolà che lì vizin ghe jera el buron e so sivolà; go ciamà Gigi chel me tirase su. Mentre Gigi el toea la corda, a me so spostà on fià a sinistra; quando che l’è rivà, deboto el fasea on colpo. Na volta tirà su i me ga infasà le man par quatro mesi, parchè, tacandome, me jero roto tute le onge.Da alora no me so pì desmentegà de sto fato.” ( nonna Lucia)

Mi … me ricordo …

avanti

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La fola de PieretoGhe jera na volta na bruta vecia che la se ghea messo in testa de magnare on toseto che se ciamava Piereto .Ogni dì la ‘ndasea de qua e de là par catare sto toseto e par metarlo in tel saco.Na bea volta, Piereto el jera in zima a on peraro, la vecia se ne ga incorto e cussì, stando soto l’albero, la ghe disea :- Piereto, Piereto, butame basso on pereto ca me bagna la boca par filare la stopa.Alora Piereto el ghe lo ga butà zò.Ma la vecia :-A no lo vedo sto pereto,portameo basso ti .:-Ah no,no,bruta vecia scanopiosa, che ti te me meti sol saco!Risponde Piereto :- Ma no Piereto,portame basso on pereto ca me bagna la boca par filare la stopa.Alora a Piereto la ghe ga fato pecà, el ghe o ga portà, cussì la vecia la o ga ciapà e la o ga messo in tel saco, la o ga caricà so la cariola e la xe ‘ndà verso casa. Par la strada la vecia ghe scapa da fare io so bisogni; la ga assà la cariola col saco so la strada e la xe ‘ndà a farli sol fosso. Intanto Piereto che in scarsea el ghea la corteina,el ga tajà el saco,el xè scampà fora e dopo el ga impinà el saco de piere.Quando che la vecia la xè vegnù su dal fosso, la ga ciapà la cariola e la xe n’dà verso casa ciamando so sorea Regina e disendoghe:-Regina miti sù el parolon ca so qua col capòn.Ma quando che la ga verto el saco la se ga incorto che el jera pien de piere !E cussì la vecia furiosa la se ga messo a sberegare :-AH.......... che brutto birbante el me la ga fata !-Alora la xe ‘ndà ancora soto el peraro, dove ghe Jera Piereto e la ga cumizià da novo la stessa solfa: - Piereto, Piereto, butame basso on pereto……..- Anca sta volta la convinze Piereto a portargheo zo, ma so on atimo la o ciapa e la o mete sol saco! Per la strada ghe scapa da fare i so bisogni, ma sta volta la se tien! Rivà davanti casa , la ciama so sorea Regina , disendoghe :-Regina miti su el parolon che sta volta gò el capòn.La Regina verze el saco ma Piereto , pi furbo e svelto de ela , el la ciapa e la buta dentro el parolon e , de corsa , e scapa de sora dea casa .Intanto la vecia vien fora dal gabineto sfregandose le man e disendo :-Che el sia coto sto Piereto?!-La va a smisiare co on manego de scòa el parolon e la dise:-Speta ca senta come che el xe-.Col piron la ciapa on deo e la se incorze che el ga l’ anelo, la sponcia oncora e la ciapa na recia e la vede che la ga on recin!De colpo la capisse tuto :-Ma questa la xe la Regina!Ah che bruto birbante el me la ga fata n’ altra volta! – E disperà la scapa fora, e la se ne incorze che Piereto el xè là che el ride de sora la casa.- Bruto birbante vieni basso! – dise la vecia.- Vieni a ciaparme ti! Dise Piereto.Alora la vecia la toe la scala par ‘ndare a ciapare Piereto, ma la scala la jera de legno marzo. Cussì la vecia la xe cascà e la se ga copà, e Piereto tuto contento xe ga salvà!

( nonno Cesare)

Mi … me ricordo …

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On dì me so svejà presto e so ‘ndà a s-ciarezare e biètoe.Zapando , ghe ne tajavo la metà, alora le ciapavo e le butavo nel foso de Stela parchè se no me opà el me dava. Finiò con le bietoe so’ ndà a catare la ua e quando toevo on grapoeto me lo magnavo o se no me lo metevo in scarsèa par darghelo a la me cavala.On dì me opà el me ga scoperto, alora el me ga mandà in Toscana a laorare e stare drio a le bestie.Così go fato presto a imparare la lezion, pulendo i escrementi de le vacche.

(nonna Accademis)

Me ricordo…Me ricordo che, a le diese el paron ne portava ,a noialtre femane del pan e on formajn. Ma, na volta , a ghea ancora cossì tanta fame ca go magnà do rane crue.Fin che lavoravi no se cantava, se ridea e se godevino on pasto. A le quattro del pomerijo a se trovavino nel cama ron dove se magnava. La cuoca la preparava pastasuta e salado o panzeta.A la sera zogavo con le tose a corarse drio,saltare la corda, saltarse in gropa, con le balete de terra, o a scondarse e a tanti altri zoghi. A’ndasevino in leto presto, parchè jerino strache morte. Me piasea fare i schersi a la cuoca ( la Bortola). Na sera ghemo ligà el leto dove la dormìa e la ghemo tirà fin in mezo a la corte. La Bortola bacaiava:- Portème dentro ,si tute mate! Ma la ghemo assà là che la bacaiasse e noaltre se copavino da ridare. El dì dopo,però, el paron invesse de darne la pastasuta, el ne ga dà pan e acqua. Alora a no ghemo pì ridesto. Dopo quaranta dì so vegnù a casa tuta contenta che dopo tanto laoro, ma anche tanto ridare, a gò portà a casa par la me fameja on saco de riso: quea la jera la paga.

( nonna Lucia detta “Cia”)

Mi … me ricordo …

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Mia mamma è rimasta vedova molto giovane, con otto figli in età compresa tra i due mesi e i diciotto anni.Io sono la penultima figlia e mi chiamo Teresina. Mia mamma doveva mantenere una famiglia così numerosa, quanto povera, e lavorava con i miei fratelli maggiori in una fattoria. Io avevo solamente due vestiti: uno per il giorno di lavoro e uno per la domenica; quando mia mamma lavava il vestito da lavoro, dovevo rimanere a letto finché si asciugava. Il cibo era poco e semplice, si mangiava pane fatto in casa, polenta, patate americane e fagioli. Non ho mai posseduto giocattoli, giocavo a carte o a cucucce.Per scaldarci, alla sera, andavamo nella stalla e poi a letto presto. Per andare a scuola dovevo percorrere tre chilometri e mezzo a piedi con un paio di scarpe di legno ( le sgalmare), a volte camminavo scalza per non consumare quelle misere e allo stesso tempo preziose scarpette, avevo un solo libro che comprendeva tutte le materie.Ricordo che durante la seconda guerra mondiale, un giorno, mentre mi trovavo fuori, sentii un forte boato e vidi innalzarsi del fumo grigio e pezzi di pietra nel cielo: era la chiesa di Lusia che era stata bombardata. Il giorno dopo arrivò la famiglia della figlia del padrone di mia mamma, che era rimasta senza casa perché distrutta da una bomba: ci trovammo così, da un giorno all’altro, da nove a venti persone a dividere tutti la stessa casa. Non è stato semplice andare tutti d’accordo, ma abbiamo certamente dimostrato disponibilità e tolleranza tutti quanti. Un altro fatto successo durante la guerra è rimasto nella mia mente: un giorno appena suonata la sirena del coprifuoco, io, i miei fratelli e mia mamma, ci nascondemmo in un rifugio sotterraneo ma fummo scoperti e ci trovammo un mitra puntato: erano arrivati i tedeschi. Mia mamma con voce disperata disse:-“Camerata, sono solo bambini!” e fece vedere i miei fratelli. Poi dividemmo con loro quel poco cibo che avevamo e, per paura che ci facessero del male, mia mamma diede loro le sole tre uova che avevamo. Capì che erano soltanto giovani affamati, che neanche loro volevano la guerra, ma che erano obbligati a farla. Io, quando tutto questo accadde , ero solo una bambina, ma il mio ricordo è vivo come se fosse accaduto ieri. ( nonna Teresina)

Mi … me ricordo …

Me ricordo …

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HO una spina regalata, ma non so chi me l’ ha data.Me l’ha data mia sorella che si chiama mortadella,me l’ ha data mio cugino che si chiama formaggino,me l’ ha data mio cognatoche si chiama scornacchiato,me l’ ha data mio papàche si chiama bacalà.

Il gobbino va al caffèE domanda se ce né,se ce n’ è un goccettinoper il povero gobbino!

Staccia bracciaGigi è andato a caccia,ritorna molle mollelo dice alla moglie.La sua moglie non c ’ era c’era la sua cameriera,che faceva le frittelle.Gliene chiese una gliene chiese duegliene chiese tregliene chiese quattrosotto c ‘ era il gattoil gatto in camiciascoppiava dalle risee i topi su per il muroche suonava il tamburo!

C’ era una voltaChicchi rivolta che rivoltava i maccheroni:si sporcò i bei calzonie la mamma lo sgridò.Chicchirivolta si ammalò si ammalò di malattia: Chicchirivolta all’ ospedale all’ ospedale si sente male Chicchirivolta col naso stortogrida, grida di dolore:esci fuori, per favore!

Ciò, ciò, ciòson la coda del caneson la coda del gattala pace è fatta!

Grin, grontre galline, tre cappon,per andare sulla cappellac’è una figlia molto bella,che suonava la chitarrapin, pun, sbarra!

L’ orologio dell’ arcipreteconta le ore ventisetteUno, due, tre…ventisette!

Mi … me ricordo …

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San Giuseppe vecchierellose ne viene pian pianino . Tiene il fuoco nel mantello

per scaldare Gesù belloper scaldare Gesù divino .Gesù bello è riscaldatotutto il mondo è illuminato,illuminata è casa mia un Pater noster e un’ Ave Maria .

La bella donna che ha perso la roccaper tutto il lunedì la va cercando il martedì la trova mezza rotta il mercoledì la va rassettandoil giovedì le pettina la stoppa il venerdì la viene incannandoil sabato si liscia un po’ la testa la domenica non fila perché è festa .

Domani è festa si mangia la minestra,la minestra non mi piace si mangia pane e brace,la brace è troppo nerasi mangia pane e pera,la pera è troppo biancasi mangia pane e panca,la panca è troppo dura si va a letto addirittura .

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Din, don, campanonquattro vecchie sul balcon :una che fila una che taglia una che fa capelli di pagliauna che fa coltelli d’ argentoper tagliar la testa al vento.

‘La Gigiota la ga un putinch’el se ciama Faso’ lin,ch’el se ciama Fraccanapa‘la Gigiotta’ la deventa mata !

Un, due , tre , quattro‘la cava’la de San Marco,‘la ga fatto un pulierintanto be’lo e picinin,fin ch’el mondo durael mondo ga duràel pulierin , ‘xe ‘ndà struca .Tre naranse , tre limoni par ‘ ndar a pescheriaciche , ciachete , manda’lo via!

Ciripiciri ‘la mussa de Ciriga fato un vede’losi che’xe vero ghe gero anca mi!

Risi e bisi moscateitutti quanti ‘xe porseifora che mi , fora che tian flin flanfiol d’un can fiol d’un beco mori qua seco! avanti

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Soto el ponte de Angui’lara

ghe se ‘ na vecia co’la

manara

che taia legna tuto el dì

a ,bi ,ci, di !

Tegna , tegna , rognachi ‘ la ga ‘la se vergogna fora mi , fora ti ,te ‘la ghe proprio ti!

Galo, galinaoca, balessaanara contessagato sgrafignoncompare moltonoseleto mato

compare volpe no te cato.

Siamo tredici fratellitutti quanti disoccupatialla casa del fascio siamo andatiper poterci ricoverar.Fortuna aiutacioh Dio proteggicinoi siamo in tredicisenza on quatrin

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LA FIONDASi cerca un rametto a forse’la , abbastanza robusto , lungo circa 20 cm .Alle due estremità della forse’la si fissano due elastici che si legano poi ad un pezzo di cuoio rettangolare .Si inserisce un sasso dentro al pezzo di cuoio e lo si tiene con una mano ; con l’altra si impugna il rametto al di sotto della forse’la , si tendono gli elastici e si lascia la presa in modo che il

sasso parta velocemente.EL SUPIòTOSi cerca un rametto dritto di salice lungo circa 20 cm , del diametro di circa 2 cm .Si intagliano delle tacche sulla corteccia in modo da incidere anche il midollo nei punti corrispondenti .Si estrae il midollo e si intagliano su di esso dei fori e sfilando ritmicamente il midollo dalla corteccia , si soffia , modulando un fischio più o meno forte .EL SBINDO’LOPer costruire uno sbindo’lo basta appendere le due estremità di una corda robusta al ramo di un albero , in modo che penda a circa 70 cm da terra .Si può anche arrotolare alla corda un sacco che serva da sedile . Quindi ci si siede sullo sbindo’lo e , puntando i piedi per terra , ci si dà una spinta .Si comincia a dondolare e , muovendo opportunamente le gambe e il busto , si cerca di accelerare il movimento .

PER costruire un aquilone si prendono 2 canne di bambù piuttosto sottili , una lunga circa 80 cm , l’altra 40 , e si legano saldamente a croce , esattamente nel punto mediano di ciascuna .Le 2 canne di bambù vengono cosi a formare le diagonali di un rombo , che viene disegnato su carta velina e successivamente incollato alle diagonali .A tre vertici del rombo si legano altrettanti pezzi di filo che vengono uniti con un nodo nel punto di equilibrio , da qui si fa partire la lunga cordicella che serve a tenere l’aquilone .La coda viene attaccata al quarto vertice rimasto senza filo ed è fatta con una catena di anelli di carta .Non resta che attendere una giornata ventosa per poter collaudare l’aquilone .

Mi … me ricordo … i giochi

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Una delle case più antiche di Granze1500 circa. ( p. Rizzi)

Testimonianza dei nonni sulla 2° guerra mondialeQuando è scoppiata la 2° guerra mondiale, mia nonna aveva 13 anni e mio nonno 15. Appena si è saputo che era iniziata la guerra, i miei nonni erano giovani e non si rendevano conto a cosa andavano incontro. La nonna mi ha raccontato che i suoi fratelli erano PARTIGIANI e di sera andavano a dormire lungo i fossi per paura che di notte i FASCISTI venissero ad arrestarli. I Tedeschi usavano la casa della nonna come ospedale e ci portavano i feriti. Sul tetto della casa avevano sistemato una grande “ croce rossa “ in modo che l’ edificio non venisse bombardato. I soldati russi, d’ inverno, si lavavano con la neve che ricopriva l’ aia situata davanti alla casa . La prima BOMBA caduta vicino alla casa della nonna ha formato un cratere di 6 metri di diametro.Il 25 Aprile 1945 , quando sono arrivati a Granze gli Americani, le famiglie mettevano le lenzuola bianche sulle finestre ed erano in festa perché la guerra era finita . I miei nonni avevano fatto amicizia con un soldato tedesco di nome Franz . Questo rapporto è durato anche negli anni successivi e Franz , tolta la divisa ed avviata una pasticceria in Germania , è tornato più volte in Italia ad incontrare i vecchi amici. ( nonna Teresa)

Mi … me ricordo …

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Una volta quando mio nonno materno era giovane il lavoro che andava per la maggiore era il lavoro dei campi .Si arava con i buoi , si seminavano il grano e l’ERBA MEDICA e dopo la fioritura si tagliava , si lasciava seccare, si ammucchiava,veniva caricata su un carro e portata nel fienile dove veniva tenuta come scorta per darla da mangiare alle mucche d’inverno. C’erano piccole stalle con mucche che venivano munte a mano per poi vendere il latte .

(nonno Gianni)

Mi, quando ca ghea sedase ani, a so ‘ndà a la risara, a Novara e a Vercei. A rivavo la sera, verso le siè in cassina ( la casa del padrone). Pena rivà, ‘ndavo a farme el paiòn ( sacco di paglia che serviva da materasso), e con queo me fasevo el leto e ‘ndavo dormire verso e nove. A ‘ndavo in campagna de matina bonora, verso e zinque e, a piè scalzi, in mezo al fango, ‘ndavo a rancurare el riso. Magnavo el panin ae nove, in mezo a l’acqua. Dopo ‘ndavo avanti fin mezodì, ora de pranzo. Se ritacava all’una e meza e se finiva ae quatro. Stavo via anche de pì de on mese, finio sto tempo, insieme ae me compagne cantavimo:” Sior paron dae braghe bianche, tira fora le palanche che ‘ndemo a cà”. ( nonna “ Memi”)

Mi … me ricordo …

avanti

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El dì de Pasqua quando gavevo sedase dissette ani insieme con tante tose e tusi se’ndava sui monti a fare merenda. Dopo, verso sera , ognuno ‘ ndava casa co la so moroseta.,a mezzodì magnavino tutti in conbricola, dopo magnà se cantava,e se balava con la fisarmonica. Qando gavevo quatordese ani , de dì , ‘ ndasevimo sol campo a staccare le panoce col scartosso.Ala sera dopo zzena , noialtri tosi se trovaimo soe case par cavare i scartozi dae panoce, par iutare le fameie contadine .Dopo quando ghevimo finio , i ne dava on cafè de orzo e on “buonasera” e “note”.

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Un tempo avere il maiale era una ricchezza,in quanto assicurava cibo tutto l’ anno. Il maiale viveva nel “porcile” ,misera stalla costruita accanto alle povere case contadine“El porseo” veniva ucciso durante l’inverno, con una procedura che assomigliava ad un rito, dalla quale noi bambini eravamo rigorosamente esclusi.Era però una festa : insaccare saladi,museti e sopresse,riunire tutte le costicine,gli ossetti e separare il lardo(il condimento di una volta).Anche il sangue del maiale veniva utilizzato;raccolto ancora caldo in un paiolo (recipiente di rame ), lo si metteva sul fuoco finché solidificava, una volta raffreddato diventava “la dolse” , che tagliato in pezzetti e cotto come “el fegato a la veneziana” (fegato con cipolla )costituiva uno dei primi cibi mangiati. Anche la coda e i peli venivano utilizzati per fare attrezzi utili nelle case,o per essere rivenduti. Del maiale si diceva una volta e si dice ancora oggi che “non si butta niente”.

Pelaora

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Page 43: Cd  libro granze1

Le case erano modeste con poche stanze: al piano terra c’era l’entrata, la cucina, a volte il tinello, al primo piano le camere da letto. In alcune case, al piano superiore c’era il “granaro” in cui veniva messo il grano, le zucche, e i salami ad asciugare. Attaccata alle case c’era quasi sempre la stalla. I tetti erano ricoperti da coppi (tegole) sostenuti da soffitti con travi in legno. I pavimenti erano in pietra o cotto , le scale e i pavimenti al piano superiore erano in legno.L’illuminazione avveniva con candele, lumi a petrolio, a carburo ( canfin a oio). Veniva riscaldata una sola stanza con il camino o con stufe a legna

La cucina aveva tavola, sedie impagliate, credenza, madia, ganci per appendere le pentole

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Mastello, veniva usato in casa anche per farsi il bagno, di solito il sabato.parolo

ferroda stiro

moscarola

mestoli

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Moschetoriparava il cibodagli insetti

Madia: cassettone che conteneva la farina

Munega efogara

pestarello

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Camera da letto

Nelle camere da letto c’erano i letti con materassi di cartocci ( foglie di granoturco), paglia o piume. Si trovava anche “ la munega e la fogara” o lo scaldaletto per scaldare il letto poiché, d’inverno, era facile vedere pendere dal soffitto i ghiaccioli

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La lissia era un tipo di lavaggio in cui si usava la cenere. Veniva settacciata la cenere con il tamiso per mettere nell’acqua bollente quella più fine.Le robe da lavare venivano messe in un grande secchio, el mastelo, sopra al quale si stendeva un lenzuolo che serviva da filtro. Il miscuglio di acqua e cenere veniva filtrato attraverso il lenzuolo che tratteneva la cenere e lasciava passare l’acqua, che risultava scivolosa come se avesse del sapone: questo effetto era dovuto proprio alla cenere. Il bucato era lasciato immerso per l’intera giornata per disinfettarlo (la cenere ha un potere disinfettante pari alla nostra candeggina). Poi, le robe venivano lavate con il sapone fatto in casa, con il grasso di animale. Si lavava sull’asse per lavare che costringeva le donne a rimanere piegate a lungo. Le donne risciacquavano nei fossi anche quando era inverno, spesso andavano in gruppo per aiutarsi l’una con l’altra. Il bucato, quindi veniva steso all’aria e poi stirato con un ferro da stiro che, per essere scaldato, veniva riempito di carboni ardenti( venivano sostituiti di tanto in tanto per cui le donne dovevano preoccuparsi, nello stesso tempo, che il fuoco rimanesse sempre acceso)

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I nonni raccontano che mangiavano spesso la polenta, poche volte il pane che veniva fatto in casa e cotto nel focolare o nella stufa a legna. La pasta veniva fatta in casa: lasagne e tagliatelle con la mescola (matterello). Si cucinavano i polli e le galline allevate nelle fattorie e d’inverno si mangiava la carne di maiale ,per chi aveva la fortuna di allevarlo. Il dolce della domenica era, a volte , la torta “Margherita” che era soprattutto un dolce pasquale in quanto era fatto con 7 uova ( che venivano deposte dalle galline maggiormente in primavera), fecola di patate, zucchero.

Tanti anni fa, quando ero piccolo,il Natale era sentito come la venuta del Redentore. Il 15 dicembre iniziava la Novena e la gente faceva anche 3 o 4 chilometri a piedi per andare in chiesa. Durante questo periodo alcuni ragazzi venivano per le case a cantare la “ Ciara Stela”; dopo il canto , i ragazzi aspettavano che venisse dato loro qualcosa che consisteva in una ciotola di farina, raramente qualche soldo o qualche salamino. Alla vigilia invece si mangiavano” bigoi coe sardee” Il giorno di Natale si andava in chiesa e , per strada, ci si scambiavano gli auguri con la gente che si incontrava.Il pranzo veniva fatto in casa : brodo di gallina o capponetagliatelle fatte in casa, cotechino, la pinza con le grasipole ( pane impastato con pezzettini di carne grassa ricavata dallo strutto del maiale). Il dolce era il “ bussolà”: zucchero, uova, latte, burro, farina. Alla sera stavamo in famiglia, a parlare vicino al camino.

avanti

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Prendere una pentola in rame (el parolo ) riempirla a tre quarti di acqua poi aggiungere il sale grosso (una manciata),aspettare che arrivi a bollire, poi aggiungere la farina “gialla”. Mescolare con la frusta fino a che non diventa compatta e cuocerla per circa un’ora; quindi versarla sul tagliere di legno.

Mettere 6 uova in una terrina ;aggiungere la farina (bianca ) quanto basta per avere un impasto normale ;domare con le mani . La pasta viene stesa con il matterello( mescola) finché diventa una sfoglia fine. Quindi viene arrotolata e , con il coltello si tagliano delle striscioline larghe circa un centimetro. Queste vengono aperte e stese ad asciugare in un palo. Quando sono asciutte si usano per la pastasciutta. Le tagliatelle hanno la stessa procedura ma sono tagliate un po’ più fine.

torna canti

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Ciara stela e Pastorela

Siamo qua co na gran stela, per dorare Maria e Gesù Su pe i monti e su par le grote, per dorare Maria e Gesù.Noi cantiam la pastorela e la cantiam di gran cuor.

San Giuseppe veciarelocosa avete in quel cestello?“ Ho una fassa e un paneselloper coprire Gesù bello.Gesù bello, Gesù d’amoreper coprire il nostro Signore

scherzi

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Ai tempi de me nono, par Nadale ,costumava de ‘ndare pae case a domandare la carità.I Torotea jera do persone, uno tuto querto dal tabaro ch’el tegnea soto do tole de legno, che le sbatea forte quando che le vegnea tirà co on spago. Par dentro le jera incolorie de rosso come se le fosse na boca spalancà. Ne vegnea fora na’ maschera co la facia da lupo: oci neri, cilie longhe e dentro la boca ghe jera impiantà tute broche, soto e sora.La lengua jera rossa e soto el tabaro ghe jera l’ omo col spago che, tirandolo, el fasea sbatere la boca, coi denti che jera le broche. Che l’altro el ghe fasea compagnia e spetava che i ghe desse la carità.I Torototea i vegnea da prima de Nadale a fine Vecia .I ‘ndava in giro in bicecreta, co par davanti e par de drio i portapacchi e, no i ghea i guanti, cussì i metea sul manubrio pèi de gato o de coneio roversà che le fasea caldo. E i cantava na storiela. La fasea:“Siora parona la vegna de qua, che no so miga indiavolàSo na povera mascherina che domanda la carità . O parsuti o saladi, qualcosa la me darà.La va in cusina e la tira el casetin e la trova un salamine se no la voe darmeo tuto, me ne basta on tochetin.Qua a gò n’altra sachetina, se la me dà anca dea fariname fago anca ‘na poentina.Tanti auguri de Nadale e Ano Novo.E naltr’ano se saremo in società pian pianin riveremo ancora qua’.Grazie, arrivederci e tanti auguriTorototea Torototà. ( nonno Corrado)

I TOROTOTEA

La lumazaSi prendeva una zucca, la si scavava all’interno, si facevano due buchi per occhi,Si incideva un triangolo come naso e sotto una linea per bocca. Dentro alla zucca si fissava una candela accesa in modo che, al buio, desse l’impressione di qualcosa di mostruoso. Alla sera, noi ragazzi, ci nascondevamo lungo la strada e quando sentivamo arrivare delle persone mettevamo la zucca ( la lumaza) in mezzo alla strada. La gente scappava spaventata.

brugneo

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El dì dea vecia jera de tradizion de brusarla.Se cumiziava tre dì prima , par rancurare cane, canoti ,fassine secche,casteloni , faive ect … Se fasea un mucio grande co tute ste robe e in zima se metea la vecia : on pupazo co indoso tute straze ligà so on palo de quatro zinque metri.Dopo,a’na zerta ora,se ghe dasea fogo.El gera on apuntamento par tuta la zente parchè ogni via la fasea el so brugneo .Partecipava veci , zovani e toseti.Dopo rivava le vecie , coi cavei longhi , el viso mascherà , e sol brazo sinistro i gavea on sesto pien de naranze , mandarini , poche caramele, carube e nosee .

La befana vien dai montivien dai monti alla cittàva gridando “ care done el camin sarà spazà”

Brugneo brusa la vecia sol careteoBrusea tuta che no la magna più zuca. Brugneo, brugneo, evviva la vecia sol careteo.

El veciòn e la vecia intorno al brugneoI balava e i cantava: La vecia s’intaca, la magna de tuto,poenta e

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Vestiti dei nonniI nonni usavano vestiti comodi, poco colorati e semplici, venivano confezionati dalle sarte o dalle donne di casa e dovevano durare a lungo. Si utilizzavano tessuti di cotone, canapa, lana, flanella e, per i vestiti più raffinati, lino, seta, velluto. Le stoffe venivano acquistate al mercato, nei negozi o dall’ambulante che, in bicicletta girava per le fattorie. Le donne indossavano vestiti e gonne lunghe, sottovesti, camicette, maglie di lana e cappotto per l’inverno. Gli uomini, invece, vestiti completi con gilet, camicie, bretelle e, d’inverno tabarri e cappelli. I bambini maschi portavano pantaloni alla” zuava”( appena sotto al ginocchio). Ai piedi, nei giorni di festa, le scarpe; negli altri, le “ sgalmare”( zoccoli con la suola di legno). Spettava alle nonne, la sera, quando si riunivano nelle stalle,produrre calzini guanti, maglioni , berrette, sciarpe lavorate a ferri per tutta la famiglia.A Natale e a Pasqua si comperavano il vestito nuovo o le scarpe.

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“Villa Ca’ Conti”Oggi Villa “Camerini Rusconi”

La costruzione del palazzi Ca’ Conti risale al 1500 con il suo corpo centrale e l’annesso Oratorio. Verso la metà dell’Ottocento l’intera proprietà passò ai Camerini, famiglia di origine romagnola. Questa famiglia acquistò vasti possedimenti terrieri nella zona, tra cui anche la Villa dei Contarini a Piazzola sul Brenta e il Palazzo in via Altinate a Padova, oggi sede del comando dell’Esercito italiano.Nella seconda metà del 1800, una nipote di Giovanni Camerini sposa il nobile Saverio Rusconi, da qui il nome della villa.I Camerini aggiunsero due corpi all’originaria villa Conti: il giardino d’inverno, presente nella maggior parte delle residenze nobiliari; il maneggio coperto che fu distrutto durante le due guerre mondiali. Sul lato Nord della corte sorge un fabbricato di servizio adibito alla lavorazione della canapa che veniva macerata nei “ maceri” e poi, qui lavorata per ottenere tessuti e cordami.

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VILLA ZANGIROLAMI

E’ una costruzione signorile che risale alla seconda metà del seicento e la cui edificazione è stata opera della nobile famiglia Zangirolami originaria di Rovigo.Oltre all’attuale costruzione sorgeva, nel giardino, un oratorio privato, ma di uso pubblico, dedicato ai SS. Pietro e Paolo, di cui si conserva , a memoria, un sacello dove è possibile leggere ancora l’iscrizione: L’ILL.mo Sig G. Pietro ZANGEROLEMO CON GIOVANNI BATTISTA, NOBILE DI ROVIGO, FECE FAR QUESTO ORATORIO L’ANNO 1707.Questo edificio sacro fu abbattuto verso la metà del secolo scorso a causa del decadimento a cui era andato incontro.

VILLA ProsdocimiSi tratta di un Palazzo le cui prime notizie risalgono al1711,anche se la costruzione è anteriore. Proprietario, a quel tempo era Crestin Martinelli Lunardo, ma, dal 1835 ne divenne proprietario l’ing.Matteo Prosdocimi. L’architettura dell’edificio segue le regole del grande architetto Andrea Palladio. Gli archi delle porte esterne fanno pensare alle costruzioni del’500, così pure la dentellatura sotto il tetto; i comignoli piramidali sono stati ricostruiti su modello di una mappa originale del1835.

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