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8 Febbraio 2011 chiaro s curo NUMERO S Sommario Forum sulla legalità Generazione precaria Mal-educazione civica Speranze sopra un foglio bianco L’angolo della vergogna Dentro la guerra, dentro la vita 22 Novembre 1943 Corpi a perdere Bambini da favola La disintossicazione La verità vi prego sull’Amore Un giorno nella vita Tiro le somme 13.15.18.15.19.5. ... Parole senza tempo Il matrimonio nel Corano e nei Vangeli Una musa socialista? Peppinà e Carlà Le cucitrici di camicie rosse Nel Novembre del 1860 Strade La nave Argo Portafortuna, amuleti, fatture, occhiaccio La cartiera Sordini di Pale Alla ricerca di un popolo amico Il calderaio Scuola, maestra di vita Le gambe corte del linguaggio Vip a Pomonte Fabio Tacchi: l’arte senza regole 3 5 6 8 9 10 11 12 14 16 18 20 22 24 25 26 28 30 31 32 34 36 37 38 39 40 41 42 44 46 /Slow Press ANNO II

ChiaroScuro numero 8

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ChiaroScuro numero 8

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8Febbraio 2011

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O SSommario

Forum sulla legalitàGenerazione precariaMal-educazione civica

Speranze sopra un foglio biancoL’angolo della vergogna

Dentro la guerra, dentro la vita22 Novembre 1943

Corpi a perdereBambini da favola

La disintossicazioneLa verità vi prego sull’Amore

Un giorno nella vitaTiro le somme

13.15.18.15.19.5. ...Parole senza tempo

Il matrimonio nel Corano e nei VangeliUna musa socialista?

Peppinà e CarlàLe cucitrici di camicie rosse

Nel Novembre del 1860Strade

La nave ArgoPortafortuna, amuleti, fatture, occhiaccio

La cartiera Sordini di PaleAlla ricerca di un popolo amico

Il calderaioScuola, maestra di vita

Le gambe corte del linguaggioVip a Pomonte

Fabio Tacchi: l’arte senza regole

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ANNO II

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Claudio Stella[Editoriale]

Autorizzazione Trib. Perugia N. 35/2009

Direttore responsabile: Guglielmo CastellanoDirettore editoriale: Claudio StellaImpaginazione e grafica: Riccardo Caprai, Gabriele Contilli

Stampa: Tipolitografia Nuova Eliografica di Fiori Roberto, Via Cerquiglia 7, Spoleto

Bimestrale dell’Associazione Chiaroscuro

Il 17 marzo 1861 è stata proclamata ufficialmente la nascita del regno d’Italia. Siamo contenti che sulle pagine della nostra rivista Fabio Bettoni ci racconti come quei giorni concitati furono vissuti a Foligno. Non si può dire che l’Italia arrivi a questo anniversario in buone condizioni. C’è una grave crisi economica mondiale che coinvolge anche il nostro paese; c’è un’emergenza – lavoro che colpisce i giovani in modo sempre più preoccupante. Ma c’è anche qualcos’altro, un malessere più profondo che sembra essersi annidato nell’anima stessa della nazione. Proverò, per quel che può valere, a individuarne alcune componenti.C’è in Italia un deficit di legalità. Un problema antico, direi quasi endemico nella storia del nostro paese. C’è una macro-illegalità diffusa: la vita economica di intere regioni sembra essere sotto il controllo di associazioni mafiose, con inevitabili collusioni del mondo politico. Ma c’è anche una illegalità meno eclatante che accompagna i comportamenti di am-pie fasce di popolazione: mi riferisco, ad esempio, al fenomeno dell’evasione fiscale, all’edilizia abusiva, all’inquinamento, al rispetto del codice stradale, in cui appare una spensierata attitudine nazionale alla trasgressione. Sembra esserci, nei cittadini “comuni”, una difficoltà a percepire lo Stato come la casa di tutti. Per quanto riguarda gli am-ministratori della cosa pubblica, voglio ricordare la bellissima metafora coniata per definirli: servitori dello Stato. Invece, sembra spesso prevalere in loro la tendenza a considerarsi “padroni” delle istituzioni: così, anziché “servire”, si sentono au-torizzati a “spadroneggiare”, ponendo in essere comportamenti corrotti o clientelari.Ma parlando di illegalità, è inevitabile fare un riferimento all’attualità politica e allo scandalo che coinvolge il nostro Presidente del Consiglio. Ogni giorno sui giornali abbiamo modo di leggere gli sviluppi di questa squallida vicenda: i dettagli su festini, neologismi di incerta etimologia africana, ragazzine fameliche e pronte a tutto, incitate dai genitori a diventare ancora più fameliche, ladre minorenni spacciate per nipoti di Mubarak e sottratte con l’inganno alle istituzioni che se ne do-vevano occupare. Un brulichio disgustoso di avidità e ambizione, di sordida concupiscenza senile. Il processo, se mai ci sarà, ci dirà se ci sono stati anche i reati, ma sicuramente si respira un clima di degrado morale e civile, che sembra avvolgerci con i suoi maleodoranti miasmi.In Italia c’è un deficit di speranza. Mi sembra un paese vecchio, che si occupa poco dei giovani, che concede poche opportunità ai giovani, che spesso costringe i suoi figli più in gamba a cercare all’estero una possibilità di realizzazione. Siamo un paese che non investe quasi nulla nell’istruzione, nella formazione, nella cultura. Siamo un paese che ostacola in tutti i suoi settori più vitali il ricambio generazionale, soprattutto nel campo politico. E proprio questo è a mio avviso l’ambito in cui la crisi italiana emerge in tutta la sua drammaticità. Manca un orizzonte reale di cambiamento, manca una proposta convincente, uno scatto di speranza e di entusiasmo capace di coinvolgere la gente in una nuova sfida. Si parla tanto di ber-lusconismo ma non dimentichiamo che nei 17 anni della cosiddetta “era Berlusconi”(iniziata nel l994) in realtà per ben sette anni ha governato la sinistra; non dimentichiamo che Berlusconi, considerato un fuoriclasse della comunicazione e dotato di imponenti mezzi finanziari e mediatici, ha perso per due volte le elezioni; e tutte e due le volte la sinistra ha perduto la sua occasione, disperdendo energie in futili ripicche interne, in una conflittualità spesso puerile e autolesionistica. Insomma, la sinistra non è stata capace di aggregare un blocco sociale, politico e culturale convincente, non ha saputo neppure produrre, a livello nazionale, un’adeguata cultura di governo.E dunque arriviamo a queste celebrazioni per l’Unità d’Italia in una situazione paradossale, in cui l’unica offerta politica che sembra convincere la gente, almeno al nord, è quella della Lega, ossia di un partito che queste celebra-zioni non le vorrebbe neppure, i cui consiglieri regionali, in Veneto, sono usciti dall’aula del Consiglio appena è stato intonato l’inno nazionale. Una forza politica dentro il cui ventre si agita il desiderio tutt’altro che segreto della secessione. In questo quadro desolante, in cui appare impossibile additare ricette e soluzioni, ci si attende un sussulto di digni-tà, ci si attende che forze giovani subentrino a reinventare la scena della politica. Ma credo che l’errore più grande sarebbe quello di evocare o di attendere l’eroe liberatore, l’uomo della Provvidenza che risolve tutte le cose. L’Italia non ha mai avuto fortuna con questa categoria di persone. In questo lungo “inverno del nostro scontento”, ciò che possiamo fare, tutti, subito, ciascuno nel proprio ruolo sociale e indipendentemente dal modello ideologico a cui facciamo riferimento, è riaffermare ad esempio il principio della legalità, sostenerlo con rigore, con intransigenza, spargerlo come un piccolo seme di speranza.

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SPERSONE

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Abbiamo aspettato che il turbinio degli eventi su-bisse (almeno per il momento) una sua naturale decan-tazione. Intervenire proprio all’interno di un infuocato dibattito cittadino, fatto di avvisi di garanzia, prese di posizione ultimative, intercettazioni velenose nonché accesi dibattiti in Consiglio comunale, non era proprio nello stile di Chiaroscuro che, come consuetudine, in-tende guardare a ciò che accade in città con un ap-proccio meditato al problema, Cosi, a distanza di quattro mesi dall’emergere dei “noti” fatti, abbiamo deciso di affrontare il tema della legalità in politica e nell’amministrazione della cosa pubblica, mettendo intorno al nostro tavolo alcuni pro-tagonisti della vita politica della città, portatori, sulla vicenda “sanitopoli” o “tuttopoli”, di pareri opposti. Ospiti di Chiaroscuro sono Alessandro Borscia, con-sigliere comunale del PD, nonché componente della segreteria cittadina dei democratici, Daniele Mantuc-ci, leader del centro destra e Stefania Filipponi, ca-pogruppo consiliare della lista civica Impegno Civile. Come ci si attendeva, è andato in scena un confronto sereno e costruttivo, con qualche spunto che “non ti aspetti”...soprattutto dalle parti del centro destra.Ma partiamo dall’inizio. L’ouverture spetta ad Alessan-dro Borscia, del PD.

“Nei confronti delle vicende che hanno coinvolto il pri-mo cittadino, esponenti politici e amministratori loca-li, il nostro atteggiamento non può che essere in linea con il garantismo più assoluto. Siamo assolutamente fiduciosi nell’operato della magistratura ma, conte-stualmente, abbiamo la certezza che tutti coloro che sono coinvolti nell’indagine, a tutti i livelli, non hanno utilizzato le prerogative delle rispettive funzioni, per propri fini peculiari. Anzi, la loro onestà e la professio-nalità politica e amministrativa non è mai stata messa in discussione. In tutta questa vicenda – prosegue Borscia – vorrei sot-tolineare il comportamento esemplare di taluni (vedi il presidente della VUS n.d.r.) che hanno fatto un pas-so indietro per permettere agli organismi di partito di adottare nuove decisioni in totale tranquillità, ma anche di chi, e il riferimento va al sindaco Nando Mi-smetti, altrettanto coerentemente ha deciso di con-tinuare nella sua azione, consapevole del suo ruolo e della forte solidarietà della maggioranza che, proprio in questo frangente, si è concretizzata intorno alla sua

persona”.Ora il microfono passa a Daniele Mantucci, esponente di punta del centro destra folignate:“Il tema della legalità è di strettissima attualità. E non solo a Foligno. Registriamo, inutile negarlo, un abbas-samento generalizzato della guardia rispetto a questa tematica ma, anche in questa sede, mi sembra giu-sto ricordare che a mettere per prima in discussione la fonte stessa della legalità è stata la cultura marxi-sta che con le sue derive rivoluzionare e contrarie ai principi del diritto, soprattutto quello privato legato alla regolamentazione della proprietà, ha cominciato a minare i fondamenti della legalità così come si erano stratificati da secoli. Questo a livello di principio gene-rale, poi, nel commentare i fatti locali, posso solo sot-tolineare che le indagini attualmente in corso contro alcuni esponenti della politica folignate, seppur poste in essere con la dovuta accuratezza, non hanno fatto registrare i toni roboanti , alla “Di Pietro”, che hanno connotato, e stanno connotando, altre realtà similari. Quello che è emerso – insiste Mantucci – è un preoc-cupante spaccato, peraltro da noi già denunciato in campagna elettorale, fatto di clientele diffuse, conni-venze politiche e distorsioni amministrative, che hanno degradato il tessuto morale della politica ed inferto colpi durissimi anche all’economia locale, retta da un sistema di sponsorizzazioni e spartizioni partitiche che nulla hanno a che vedere con le reali esigenze di svi-luppo professionale della città e che si è consolidato in oltre 50 anni di potere clientelare messo in piedi dalla sinistra”. Quello della degenerazione del sistema è anche il ca-vallo di battaglia di Stefania Filipponi, di Impegno Ci-vile, la quale afferma: “Siamo in presenza di una pura e semplice deriva del sistema di potere sia a Foligno che in Umbria. L’arro-ganza del potere è assurta a logica politica e il tut-to, purtroppo, sembra passare inosservato, senza una reale reazione delle coscienze. Coscienze che, ormai, sono totalmente assuefatte a questo sistema, rassegna-te a conviverci o pronte, in molti casi a beneficiarne. Il problema è il quadro complessivo della gestione del potere a Foligno. Vogliamo parlare delle logiche che hanno portato il sindaco a nominare decine di consu-lenti? Vogliamo affrontare il tema dello stato di degra-do in cui versano le numerose Società partecipate del Comune, dalla VUS al Mattatoio, per finire alla FILS?

Forum sulladi Guglielmo Castellano legalità

Sguardi incrociati(ovvero come dialogare, pur pensandola in modo assai

diverso, senza gridare, sbraitare e insultarsi)

Disegno di Alessio Vissani

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IDEE

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Per non parlare poi dei veri e propri “comitati d’affari” che dirigono e sovraintendono le innumerevoli varianti al Piano Regolatore Generale che ormai si susseguo-no nella più totale indifferenza. Questi sono le grandi questioni aperte, e insolute, che contraddistinguono l’agenda politica della terza città dell’Umbria. Anche queste sono riconducibili al grande tema della legali-tà”.La parola torna ora ad Alessandro Borscia del PD: “Quella che descrivono i miei colleghi è una realtà che non esiste. L’Umbria e Foligno non sono cresciute sotto la cappa di piombo del clientelismo di sinistra. Anzi, è palese proprio il contrario. Se è vero che il controllo “rosso” della regione è indistruttibile, come spiegare il fatto che diverse amministrazioni locali della regione sono passate sotto il controllo del centro destra? La verità è quella di una classe dirigente, quella di cen-tro sinistra, competente e accorta, che ha valorizzato l’Umbria e Foligno, con risultati riconosciuti anche da-gli indicatori nazionali. Soprattutto sul versante della

sanità. Infine, permettetemi una battuta. Come si può parlare di sistema clientelare a Foligno, quando a Roma, ad ap-pena due anni dall’insediamento della giunta Aleman-no, la parentopoli è impazzata alla grande?”. Alessandro Borscia difende, come logico, i suoi. Da-niele Mantucci e Stefania Filipponi spiegano invece le motivazioni che in Consiglio comunale hanno condotto a delle interpretazioni finali diverse.“Sono convinto dell’onestà personale di Nando Mi-smetti e della grande professionalità della dottores-sa Rosignoli – evidenzia Daniele Mantucci – tuttavia queste figure si collocano all’interno di questo sistema clientelare che, prima o poi, presenterà il conto del suo fallimento politico ed economico a tutti gli umbri. Noi abbiamo denunciato questi mali e l’ordine del giorno di richiesta di dimissioni al sindaco, peraltro posto in essere senza acrimonia, andava in questa direzione”. Un ordine del giorno non votato da Stefania Filipponi.

“Abbiamo detto no alle dimissioni di Mismetti per due ordini di motivi. Il primo, perché il Pdl ha ritenuto, del tutto legittimamente, di non contattare gli altri grup-pi di opposizione per la stesura dell’ordine del giorno. In secondo luogo votare quel documento, secondo le nostre valutazioni, non avrebbe sortito nessun effetto pratico; anzi, oltre a non riuscire nell’intento origina-rio, ha fatto sì che la voce della maggioranza, non pro-prio compatta su molte scelte dell’esecutivo, si ritro-vasse unita e schierata in difesa del primo cittadino”.Chiaroscuro ha ottenuto il suo scopo. L’argomento “principe” del dibattito politico cittadino di queste ul-time settimane è stato gestito e sviluppato in modo serio e costruttivo. Nessuno si è alzato sdegnato dal ta-volo o se nè andato sbattendo la porta. Sul piano politi-co, registriamo un’attenuazione dell’asprezza critica, soprattutto da parte di Daniele Mantucci. L’accenno all’onestà del sindaco e alla professionalità della dot-toressa Rosignoli, pur nella negatività del quadro ge-nerale tratteggiato, potrebbe lasciare intravedere, da

parte del centro destra, l’intento di un approccio meno aggressivo a quelli che saranno i futuri sviluppi politici e giudiziari della vicenda.E del resto, non sembra che esistano le condizioni per ipotizzare reati o situazioni corruttive particolarmente gravi. Anche se, come è giusto che sia, saranno i magi-strati a dire l’ultima parola al riguardo. Con ciò, non è nostra intenzione minimizzare quanto accaduto. L’autocritica all’interno del centro sinistra, come lo stesso Alessandro Borscia ha ammesso, sta an-dando avanti cercando di capire, anche sulla base delle istruttorie ufficiali, se ci sono stati comportamenti non consoni. Pur nel rispetto delle singole idee legittimamente espresse, non vogliamo e non possiamo credere che l’Umbria, comunque terra di eccellenze e di apprez-zabile vivibilità, sia quella tratteggiata da Daniele Mantucci. Tuttavia, occhio a non sottovalutare nessun campanello d’allarme. Vero, o presunto che sia.

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SPERSONE

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to della madre che ha dovuto fare da garante! Infatti, quando la vedo, mi ripete sempre che senza la madre non ce l’avrebbe mai fatta e che non ha capito bene se dovrebbe essere felice di questo o preoccuparsi seria-mente per il futuro.A pensarci bene, quei tipi seduti sulle comode poltrone dei talk show forse sono preoccupati anche per quelli come Gabriella (ventinove anni), che guadagnano 500 euro al mese lavorando in uno studio di avvocati, che condividono l’appartamento con altri coinquilini per-ché, come all’università, non si possono permettere neanche un affitto intero. Ma forse è colpa di Gabriella perché se avesse vissuto con i suoi genitori non avrebbe

certo avuto questo problema!Peccato che invece non si faccia mai l’esempio di quelli come Fran-cesca (trentaquattro anni) che dai genitori ci è tornata veramente, dopo che il contratto non le è sta-to rinnovato, pur avendo avuto la forza di andarsene in un’altra città e ricostruire una nuova vita, il suo viaggio è finito proprio dove era ini-ziato e, dopo quattro anni, si ritro-va a sperare in un prossimo futuro.Incredibile, queste sono le storie delle mie amiche, ma non credo che quando si parla di giovani precari si interessino proprio a loro, eppure loro sono così vere, così umane! Ci vorrebbe un test di identificazio-ne: hai bisogno dell’aiuto dei tuoi per vivere? Allora sei un precario! Non sai se fra tre mesi ti rinnove-

ranno un contratto? Allora sei ancora un precario! Non sai se ti accettano un finanziamento? Forse non ti sei accorto che sei precario! Non riesci a progettare il tuo futuro? Sei giovane, ma precario! Sei una donna senza lavoro fisso? Allora sei un po’ più precaria!Questa è la generazione precaria…e mi sa tanto che ci sono anch’io!

Ultimamente in televisione e nei giornali si sente spesso parlare di giovani precari. La cosa interessan-te e alquanto paradossale è che ne parlano persone che hanno in media sessant’anni, politici in testa, che descrivono le situazioni come se stessero parlando di concetti astratti e non di persone in carne e ossa. Ma di chi stanno parlando? A chi si riferiscono?Eppure mi sa che ce l’hanno anche con me, ma non solo con me, anche con le mie amiche di infanzia e i figli dei miei vicini di casa.Mi sa che sono io una di quelle insegnanti che, dopo sette anni di lavoro precario, a settembre si svegliava la mattina con l’attesa di una chiamata da chissà qua-le scuola della provincia per chis-sà quante ore a settimana e chis-sà quanti giorni di lavoro. Ma forse non ce l’hanno con me, perché non hanno fatto riferimento all’ansia di controllare ogni ora se il telefono funzioni o non suoni perché per ma-gia si è spento.Immagino che quando parlano di “fuga dei cervelli” si riferiscano alla mia carissima amica Miriam (trent’anni) che, dopo un dottorato di ricerca in Italia, per continuare i suoi progetti è andata in Irlanda dove, però, guadagna 2500 sterli-ne invece di 800 euro. Ma forse non parlano proprio di lei, visto che non hanno mai menzionato la sua vita spaccata in due con il fidanzato a Bologna, le sue e-mail piene di dub-bi e le sue chiamate, di sera, che mi chiedono conforto perché si sente sola, con mezza vita da ricominciare.Sono certa, però, che quando parlano in televisione “contratto a progetto” rivolgono l’attenzione a quelli come Cristiana (trentatrè anni), la mia migliore amica, che lavora a Milano, guadagna 1200 euro, ma sicco-me ha un contratto a progetto, oltre a non avere ferie né giorni di malattia, non ha ottenuto dalla banca il mutuo per comprarsi una casa e andare finalmente a vivere da sola. In realtà forse è lei che ha sbagliato a non avere neanche un fidanzato con cui dividere le spese e a pensare di potersi comprare casa senza l’aiu-

di Daniela CerasaleGenerazioneprecaria

Disegno di Fabio Tacchi

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IDEE

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Si parlava, nel numero precedente (Dai diamanti non nasce niente, Chiaroscuro, novembre 2010), del manifesto che invitava i cittadini a tenere Foligno pulita, delle diverse reazioni alla sua uscita e del senso civico.E’ evidente che chi non solidarizza con il manifesto del Sindaco non ha coscienza del fatto che tenere la città pulita è anche un proprio dovere di cittadino e non un lavoro ex post, tanto più da organizzare (e pagare!) quanto più imperversano cittadini incivili che buttano carte e ammennicoli vari in terra.Risale ormai a due anni fa l’episodio che mi fece aprire gli occhi e guardare la mia città da straniera, cioè con l’atteggiamento di chi la vede per la prima volta.In treno un uomo, chiaramente di origine extracomunitaria, inizia a parlarmi ottenendo lì per lì risposte monosillabiche con la diffidenza di donna che pensa si voglia attaccare bottone. Mi impongo di essere libera, cioè di avere fiducia nell’altro, e scopro un padre di famiglia residente ad Assisi che ogni giorno si reca a Foligno per lavoro e percorre a piedi la strada dalla stazione alla zona industriale La Paciana e ritorno. Così parlando, viene fuori un suo commento su quanto Foligno sia sporca, come ha modo di vedere in quel suo camminare su e giù per la città ogni giorno lavorativo e di come lo sia diventata da qualche anno in qua. Realizzo quello che i miei occhi avevano registrato e che la mente non aveva razionalizzato perché ci si abitua a tutto, anche a vedere i lati delle strade costeggiate da erbacce da cui occhieggiano moderne infiorescenze di latta, carta, plastica.Diventa normale vedere in terra mozziconi di sigarette e ti accorgi che normale non è quando, girando per altri luoghi, vedi che la pavimentazione è pulita e non necessariamente dotata di portacenere. Perché altrove il senso civico induce i cittadini, in primo luogo a non fumare dappertutto, poi almeno a gettare la cicca nel tombino o spegnerla e buttarla dove si può alla prima occasione. L’eventuale assenza di cestini per rifiuti – o

di silos-parcheggi annessi alle scuole, tanto per tornare sul tema lanciato sul precedente articolo riguardo all’inciviltà delle automobili – non giustifica l’assenza del senso civico che induca a ricercare e ad adottare, comunque, il corretto comportamento.Essere cittadini attivi e consapevoli è la condizione primaria perché la nostra città possa essere semplice-

mente bella. L’attivismo e la consapevolezza si eser-citano anche mangiando la pizza e bevendo una bibita ed avere cura di non lasci-are in giro carta, tovagliolo e vuoto a perdere. Il nostro comportamento corretto, oltre ad evitare un danno alla collettività, diviene esempio ed alimenta azioni positive, in un meccanismo di riproduzione automatica di gesti civili, anziché

incivili. Se poi l’esempio non basta, la cittadinanza attiva e consapevole può manifestarsi anche non lasciando passare nell’indifferenza e nella rassegnata accettazione i piccoli gesti di decadenza quotidiana. La disapprovazione manifestata verso chi compie gesti di inciviltà è il primo passo perché tali comportamenti si sradichino naturalmente. L’intervento è sicuramente impopolare e, spesso, assicura una buona dose di insulti, ma può essere proficuo: la persona chiamata a rendere conto della propria maleducazione, la volta successiva ci pensa su perché prima, quanto meno, si guarda attorno per accertarsi che sia sola. Inoltre, l’azione decisa di uno induce alla solidarietà dell’altro e si alimenta una catena di sostegno del vivere civile basata sulla reciproca fiducia.È interessante un articolo di L. Evangelista (2007) “Il senso civico in Italia, ovvero l’Italia in cui vogliamo vivere”, reperibile sul sito www.orientamento.it ed il binomio senso civico-fiducia che in esso viene trattato.Vi si legge che il senso civico può essere definito come un atteggiamento di fiducia negli altri orientato alla disponibilità a cooperare per il miglioramento della società in cui si vive. La sfiducia, al contrario, provoca

Mal-educazionedi Maria Paola Giuli civica

Foto di Alessio Vissani

L’attivismo e la consapevolezza

si esercitano anche mangiando la pizza e bevendo una bibita,

avendo cura di non lasciare in giro carta,

tovagliolo e vuoto a perdere.

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SSTORIE

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indifferenza e in alcuni casi atteggiamenti predatori verso gli altri e le risorse pubbliche. Ogni società è caratterizzata da reti di comunicazione e scambio, alcune delle quali definite orizzontali, in quanto mettono in contatto tra loro persone su base egalitaria e diventano veicolo di reciproca solidarietà. Tanto che l’insieme di queste reti orizzontali viene chiamato capitale sociale.Senso civico e reti orizzontali si rafforzano a vicenda e la fiducia negli altri favorisce società con un elevato numero di relazioni orizzontali. Il potere dei comportamenti individuali è forte nel creare fiducia o sfiducia nel prossimo.In una società dove la fiducia è scarsa, alcuni

comportamenti tendono ad essere più frequenti. Ne voglio citare tre: strade ed altri luoghi pubblici sporchi a causa di rifiuti gettati per strada, muri imbrattati da graffiti; mancato rispetto di semafori, dell’obbligo del casco e della cintura di sicurezza, del codice stradale in generale, del divieto di fumare in luoghi pubblici; ostruzione di luoghi pubblici di passaggio (strade, ingressi dei negozi, passi carrabili, parcheggi riservati a disabili, corridoio dei treni).Come singoli cittadini, possiamo agire su più livelli, adottando nella nostra vita quotidiana comportamenti opposti a quelli sopra indicati e manifestare un atteggiamento di gentilezza e di cooperazione verso gli altri, essere disponibili a collaborare, ritenere

di poter soddisfare i propri bisogni attraverso l’iniziativa personale e la collaborazione, avere atteggiamenti di rispetto e verificare che chi viola le regole del vivere civile paghi pegno.Fiducia. L’ho abbinata, prima, alla libertà. Senza fiducia nell’altro, le nostre azioni sono condizionate da fattori esterni negativi che minano fortemente la nostra percezione di essere liberi. Sarà banale, ma pensate solamente a quale senso di libertà provereste nel poter utilizzare un bagno pubblico senza dover chiudere occhi e naso e fare peripezie acrobatiche per evitare ogni contatto con superfici insozzate dall’incuria degli avventori. Non pretendo la musica di sottofondo, che pure con infantile meraviglia ho ascoltato in un bagno di una stazione di rifornimento, questa volta in Germania, ma che non debba diagnosticare problemi intestinali osservando escrementi altrui, questo sì! La fiducia, quindi, è il fattore strategico, la base per recuperare il senso civico perso per strada negli ultimi anni. Anche questo dipende da ciascuno di noi. Atteggiamenti di rassegnazione perché tanto-sono-tutti-uguali, noncuranza perché tanto-nulla-cambia, indifferenza perché mica-dipende-da-me, alimentano la spirale perversa dell’ignavia e dell’inciviltà. Nel prossimo numero, il seguito. Che possiamo sviluppare anche insieme: scrivete alla redazione, se volete comunicare le vostre riflessioni sul tema, esprimere le vostre sensazioni, evidenziare piccoli fatti di civile o incivile quotidianità che, messi in luce, possono muoverci verso il miglioramento.

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IDEE

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Eccomi un’altra volta davanti al mio computer, foglio bianco e cursore lampeggiante. Pronto a scrivere un nuovo articolo. Il primo di quest’anno. Mouse, tastiera e video pronti all’uso, manca solo un piccolo particolare….l’argomento da trattare. Non è certo incoraggiante per chi ha il piacere di scrivere e la pretesa di essere pubblicato e quindi…letto da qualcuno! Si dice che l’ispirazione viene quando meno te lo aspetti e, infatti, una “chiacchiera” ad alta voce tra donne di altri tempi attira la mia attenzione. L’argomento è quello dei “panni stesi”, ci si lamenta del bucato che dovrebbe profumare di pulito ma non è così a causa dei gas di scarico delle automobili. La discussione si conclude inesorabilmente con: ”….a li tempi mia”. Ecco quindi trovato l’argomento. L’inquinamento. No, non va bene, di questo abbiamo già parlato. Lo smog, le polveri sottili, le malattie e le infezioni al nostro sistema respiratorio, per non parlare poi delle migliaia di morti all’anno a causa di quello che respiriamo. Anche se un po’ amareggiato per l’insuccesso, cerco di non perdermi d’animo e continuo la mia ricerca. Tutto ad un tratto un sordo fracasso distrae la mia infruttuosa ricerca. Mi affaccio alla finestra e noto che è crollata l’ultima capriata metallica della copertura dell’ex zuccherificio. Tra me e me ho pensato di aver risolto il problema. Scriviamo un bell’articolo su quanto sia insensato costruire un altro ipermercato al posto dell’unica espressione di architettura industriale dei primi del novecento presente a Foligno. No, neanche questo va bene. La questione è già stata ampiamente trattata. Abbiamo gridato a gran voce il problema, ed ora sembra che l’ultima parola sia quella di un potente braccio meccanico che lavora senza tregua per abbattere tutte le nostre speranze e aspettative. Fa freddo, chiudo la finestra e mi rimetto a fissare quella pagina vuota e quel cursore che senza tregua sembra scandire un ritmo che devasta ogni mia idea. Ho deciso. Accendo la televisione, sperando che un messaggio subliminale

salvi la disastrosa situazione in cui sono finito. Quale miglior cosa di un sano momento di zapping, proprio quello che serve per trovare l’ispirazione tanto cercata. Ed ecco, come una lampadina che si accende, i miei neuroni riprendono vigore. Stanno trasmettendo lo spot sul nucleare, quello in cui durante una partita a scacchi si cercano le risposte sul problema. Finalmente ci siamo. Spengo la televisione, arrivo al computer e….nulla. Tutto il mio entusiasmo si spegne nel momento in cui la mia memoria prende il sopravvento e, gentilmente, mi ricorda che anche questa…”non s’ha da fare”. Sul problema delle centrali nucleari abbiamo già scritto! Tante parole sulla difficoltà di accettare un’energia che potrebbe risolvere la situazione energetica del nostro paese a discapito sempre e solo delle persone che ci abitano, e che oggi non avranno nessuna certezza di come una politica sbagliata potrà influenzare le sorti di questa nostra amata terra. Quest’ultimo tentativo fallito miseramente mi aiuta a capire che forse, oggi, dovrei scrivere una riflessione, piuttosto che ostinarmi a cercare un argomento. Nei precedenti articoli abbiamo manifestato con rabbia situazioni che riteniamo non debbano mai perdere la nostra attenzione perché qualcuno è sempre pronto ad approfittarne. Cercando, spero senza presunzione, di condividere le paure ma anche le speranze con chi ha il piacere di leggerci. Questo nuovo anno deve iniziare con tutti i buoni propositi, come si fa sempre quando si decide di ripartire. Perciò vorrei tanto non sentire mai più le lamentele di quelle signore che vorrebbero un bucato profumato anche se abitano in città. Augurandomi di vedere al più presto un avviso in tutte le strade di tutte le città che dice: “accesso vietato a tutti i mezzi che ancora vanno a combustibili fossili”. Sognare che ogni distributore possa mettersi a vendere corrente elettrica e non più petrolio raffinato. Vorrei ritrovare la gente che passeggia nelle vie del centro perché è quella la vera città. Non

Speranze sopra unfoglio biancodi Federico Berti

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SIDEE

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certo immensi ipermercati che ci sequestrano per intere giornate illudendoci di essere nella città del futuro. Potranno fare qualsiasi sforzo per rendere accogliente, conveniente ed efficiente una scatola, quello che non riusciranno mai a fare è darci un cielo sopra la testa, migliore di quello che abbiamo, mentre si passeggia in un vicolo strabordante di ricordi, di profumi e di indescrivibili sensazioni. Mi auguro di non vedere più forum sul nucleare che mi domandano: “nucleare si o nucleare no”. Ma che domande mi fanno! Come si può pensare di risolvere un problema con un altro problema! Perché questo è, pensateci bene. Non credo sia così difficile sperare che milioni di euro spesi per il nucleare possano invece servire a trovare il modo di

garantire un sistema pulito di energia che soddisfi tutte le nostre esigenze. Siamo arrivati a studiare pannelli fotovoltaici che lavorano per produrre energia anche di notte, e mi vogliono far credere che costruire centrali nucleari sia la soluzione energetica del futuro? Illusi.Non ho oggi la presunzione di trovare soluzione per il domani, ma sole speranze che riescano ad alleviare le mie paure. Nelson Mandela ha scritto: “La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda, è di essere potenti oltre ogni limite. E’ la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più…..”.

L’angolo dellavergognadi Rita Barbetti

Ma come si fa a dire quando un leader politico bestemmia in pubblico semplicemente per far ridere, “Beh, ma la bestemmia va contestualiz-zata!”CON-TE-STUA-LIZ-ZA-TA?Monsignore emerito, spero che un giorno rinsavi-sca, che si vergogni, che si penta, perché la sua affermazione è un’altra bestemmia, più grave della prima!Ma come si fa a rispondere, quando si chiede al padre di una ragazza belloccia di 23 anni, se è lei la fidanzata segreta di un uomo ricco e potente di 74 anni: “Magari!”Mi tremano le gambe: come si può guardare al futuro, se la situazione è questa?Ma come si fa a ristabilire quali sono i valori, qual è la verità?Io non so se è più colpevole chi commette il male e lo nega, chi lo vede e lo copre, chi lo ascolta e lo passa sotto silenzio,Noi esseri comuni, senza volto e senza voce, ma

con una dignità profonda, con un senso del pu-dore e della decenza radicati, affacciamoci tutti insieme alle finestre delle nostre case a un’ora prestabilita e urliamo tutti insieme il nostro di-sgusto, la nostra nausea, la nostra stanchezza, il nostro

Spero che un’onda di fango, anche solo metafori-ca, possa coprire per sempre con l’oblio le vergo-gne e l’insipienza di tanti uomini politici del no-stro tempo, che dovrebbero governarci al meglio o almeno opporsi costruttivamente al malgover-no e invece sono persi nelle loro luride passioni, volgari e sfacciate bugie, scandali inenarrabili.

BASTA!

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Oggi l’ ospedale di Lashkar-gah in Afghanistan ha di nuovo riaperto i battenti dopo le vicende che in aprile ne avevano visto la chiusura: il Pronto Soc-corso è di nuovo affollato, le corsie sempre piene, medici e infermieri sono impegnati in sala operato-ria più di prima. Questo è il prezzo per aver scelto la violenza come strumento per la risoluzione dei conflitti.A nove anni dall’inizio dell’intervento militare, in-fatti, le vittime non accennano a calare e il 90% dei feriti si ha tra i civili, di cui il 39% sono bambi-ni: una tragedia continua che ogni giorno si colora di tinte più forti, con combattimenti, bombe che

esplodono, mine o IED (Improvised explosive devi-ce- ordigno esplosivo improvvisato) che infestano strade e campi.Quadratullah ha più o meno 12 anni e non ha più le gambe: stava giocando fuori da una casa con i suoi due fratelli, Nanai di 14 anni e Naquibullah di 10, quando una porta socchiusa li ha incuriositi. Si sono avvicinati in fila indiana: quando Nanai ha aperto la porta è stato dilaniato da una esplosione; dietro di lui Quadratullah, parzialmente riparato da suo fratello, si è ritrovato a terra con metà del

viso ustionato, le gambe ridotte a moncherini, la mano sinistra ferita dalle schegge.Il fratello più piccolo, coperto dai corpi dei due fratelli maggiori, è stato colpito da alcune schegge agli arti superiori.È più di un mese che Quadratullah è ricoverato nel Centro Chirurgico di Lashkar-gah: è stato ope-rato, curato, nutrito e riabilitato. Ora è autonomo, riesce a fare quasi tutto sulla sedia a rotelle che non abbandona mai. Gira per il giardino insieme ad altri coetanei, tutti vittime della guerra. Ha sem-pre un sorriso per chi gli si avvicina, cosa incom-prensibile per noi che viviamo fuori da quei luoghi.

Verrà dimesso a bre-ve e lui parla dei suoi desideri, fa proget-ti: vorrebbe andare a scuola, ma nel suo villaggio non ce n’è nemmeno una. È feli-ce di sapere che tor-nerà a casa con la sua sedia a rotelle, per lui un grandissimo re-galo. I medici riman-gono senza parole, la felicità per una car-rozzina è veramen-te disarmante! Ma la vita dentro la guerra cambia i suoi conno-tati e ha bisogno di

pochissimo per continuare a pulsare. La vitalità dei bambini, poi, è strabiliante: in un paese martoria-to come l’Afghanistan avranno mille altre occasio-ni per rischiare, ma questo ora non conta: si è vivi, si è superata la morte con il coraggio di sorridere, nonostante tutto.

Dentro la Guerradi Francesca Rossini

dentro la Vita

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Non mi pare ancora vero. Hanno bombardato Fo-ligno. Ho tanta tristezza e paura ma non sono riusci-ta ancora a piangere. Sento che ho male allo stomaco ma non dico niente. Mamma è uno straccio. Papà non sa più cosa dire né cosa fare. Mia sorella Tatiana pare inebetita. È notte. Non andiamo a dormire. Restiamo in cucina dove c’è ancora un po’ di tepore della stufa. Dallo sportelletto aperto si vede più cenere che brace. Papà non ci fa andare ancora di là, nelle camere. Le fi-nestre danno sulla Via Pescheria che porta all’Ospeda-le. Si sente passare ancora tanta gente che va e viene dall’Ospedale. Si sentono pianti di disperazione conti-nui, di persone che hanno perso qualcuno, famigliari, amici, parenti. Papà ci ha lasciato sole alcuni momenti per correre in Officina a vedere che cosa è successo là. Ci ha detto poi che solo il refettorio è stato colpi-to, però alcune persone che lui conosceva non ci sono più. Al ritorno, dalla parte di Ponte Antimo, si è dato da fare, con altri amici, a soccorrere i feriti. “Via Pia-ve è la più massacrata...e la gente...è uno strazio” ci ha detto. E intanto piange-va. Dio mio! E’ successo così all’improvviso!Avevamo quasi finito di mangiare. Suona l’allarme; ma, ormai siamo abituati a sentirlo quasi tutti i giorni. Però, questa volta, suona a più brevi riprese, di conti-nuo. Pare non voglia smette-re mai. Dopo poco sentiamo un certo rumore. Sempre più forte, sempre più distin-to. Riconosciamo quello de-gli aerei alleati che anche qualche giorno fa erano passati sopra Foligno. Qualche persona diceva di averli visti. Questa volta non mi fac-cio scappare l’occasione. Mi alzo da tavola e via di corsa giù per le scale. “Marì aspetta... vengo giù anch’io... li voglio vedere!” Così grida mamma dietro di me mentre papà e mia sorella ci dicono “Noi andiamo a vederli dalle finestre di là...” Io apro il portoncino, salto lo scalino, svolto subito da Via Scortici, mi fermo in mez-zo a Via della Pescheria proprio sotto casa dove papà

e Tatiana già hanno spalancato le persiane e guardano verso l’alto. Anch’io guardo in alto. Il cielo è azzurro. Il rumore si fa sempre più forte, più vicino. Poi... “Eccoli eccoli, li vedo!” cerco di gridare, ma esce poca voce. Resto immobile, sono impaurita. Gli aerei si avvicina-no sempre di più...mamma mia quanti sono! Brillano al sole, sembrano d’argento. Si avvicinano ancora, li vedo più grandi, sono sopra di me, il rumore è assor-dante, mi fa troppo male alle orecchie, le riparo con le mani. Ma ecco un fortissimo fragore, davanti a me un immenso fuoco si spande... sale verso il cielo come una grossa nube nera. Pare che bruci l’Officina del Gas, resto ammutolita, sento altri fragori, altri scoppi, li sento dentro lo stomaco come tante martellate. Poi all’improvviso vengo sollevata da terra, ricado in pie-di, ora mi sento come un pezzo di legno. Accanto a me, distesa sulla strada, c’è mamma. Si alza a fatica, è scalza, le ciabatte sono finite lontano, anch’io sono

senza zoccoletti. Mamma mi afferra, scalze corriamo dentro il fondo di casa che papa è corso ad aprire, ci abbracciamo stretti. È così che aspettiamo che finisca l’inferno. I muri sembrano caderci addosso, porte e persiane che sbattono, ru-more di vetri che cadono in pezzi. Poi cessa ogni rumo-re, ci appressiamo alla por-ta, un odore acre e fumo e polvere ci arrivano alla gola.Dalla porta, ora spalancata, vediamo venire, per tutta Via Scortici e da Via Fossa-ceca, una marea di persone

che corre per mettersi in salvo. I bambini sono in brac-cio alle mamme ma piangono disperatamente. Gli uo-mini portano le biciclette a mano con sopra della roba, sembrano coperte. Papà dice “Mi raccomando, ripa-ratevi qua dentro, non andate all’aperto che possono tornare ancora.” Nessuno pare ascoltare. Tutti vanno come impazziti. Ci dicono che vanno verso la campa-gna, fuori Porta Firenze, nella speranza di essere più al sicuro.

22 Novembredi Maria Rosaria Tradardi 1943

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Corpidi Paola Nobili

Il 5 gennaio 2011 è morto un altro ragazzo in carce-re: si chiamava Yuri Attinà, aveva 28 anni, era recluso alle Sughere, il carcere di Livorno, dove negli ultimi mesi ci sono stati 3 suicidi. “Si vive di ingiustizie, si muore di carcere” hanno scritto su uno striscione i ma-nifestanti che il sabato seguente hanno protestato da-vanti alle Sughere.È l’ennesima vittima del carcere, ma non ha merita-to grandi titoli. Chi vuole sentirne parlare in periodo di feste? “Sempre allegri bisogna stare” e, parliamoci chiaro, quelli in galera se la sono cercata. Ma siccome io, proprio in periodo natalizio, sono particolarmente incline al nervosismo, seppure con un certo ritardo ho deciso di rendere indigeribile l’ultima fetta di panetto-ne scampata al massacro. Il catalogo è questo: 173 morti nel corso del 2010, di cui 66 per suicidio. Alcuni casi hanno fatto scalpore, suscitando scandalo e riprovazione generali, perché hanno sollevato il velo sui pestaggi e sulle percosse di cui sarebbe responsabile la polizia penitenziaria. Nien-te di nuovo, in realtà; i detenuti sono abituati a fare i conti con i metodi spicci di certi agenti e la fama delle cosiddette squadrette punitive rimbalza di bocca in bocca, sottovoce, e talvolta riesce perfino a filtrare all’esterno. Senza dimenticare i GOM, i Gruppi Opera-tivi Mobili, che hanno brillantemente operato anche a Genova nel 2001. Insomma, normale amministrazione. Allo stesso modo, ricade nell’ambito dell’ordinarietà la mancanza di cure sanitarie. Guai ad ammalarsi in car-cere, dove medici e infermieri hanno l’aria perenne-mente annoiata e disturbata, pronti a fronteggiare con un misto di indifferenza e fastidio la seccatura di qual-cuno che lamenta un malessere, addestrati a essere sospettosi verso quei maestri di simulazione che sono i carcerati. L’approccio terapeutico adottato in carcere è il seguente: quando un detenuto dice di sentirsi male, l’attesa è il miglior rimedio. Se il malessere è di poco conto, passerà spontaneamente: perché darsi pena? Se invece il malessere dovesse persistere, si potrà avviare l’iter tortuoso e lento al termine del quale sta la visita in infermeria e forse, nei casi più gravi, una trasferta, debitamente scortata, in un ospedale delle vicinanze. Fortunati coloro che hanno avuto il bene di un esame specialistico, o di un ricovero esterno. Altrimenti, la

malattia porta con sé un supplemento punitivo, che consiste nella permanenza nel centro clinico del car-cere, un reparto di raro squallore, dove un detenuto non trova conforto neppure nella possibilità (concessa ai sani) di sfuggire al vitto penitenziario. Accade che un detenuto si metta a urlare “Sto male” per richiama-re l’attenzione degli agenti della sezione, ma di solito nessuno accorre; nel prontuario tascabile di psicologia penitenziaria c’è scritto: regola numero uno: diffidare. Se poi lo stesso detenuto lo ritrovi accasciato a terra, con le mani ancora contratte intorno alle sbarre, morto per un infarto, puoi dolerti e con rammarico ammette-re che, purtroppo, ogni tanto capita. E poi c’è il mal di denti. Prima di avere analgesici o essere sottoposto a cure, un detenuto può arrivare a strapparsi da solo un molare dolente. Giuseppe l’ha fatto ed è venuto a scuola mordendo un fazzoletto di carta per tamponare il sangue. Non ho mai notato tante bocche sdentate come in carcere. Sembra che i denti siano la prima cosa a soffrire della reclusione, a subirne le conseguenze. Giovani uomini vigorosi che quando sorridono sembrano bambini, mostrando quelle che da piccola chiamavo “finestre”, oppure di colpo di-ventano vecchi, molto più vecchi della loro età. Se hai fatto tanti anni di carcere e hai ancora un bel sorriso, sei fortunato. Non si possono avere medicine, di norma; solo gli psi-cofarmaci sono distribuiti generosamente. Regola nu-mero due: sedare, e ancora sedare. Dal 2002 ho visto diversi studenti ammalarsi e mai una volta essere curati.

a perdere

Sembra che i denti siano la prima cosa a soffrire

della reclusione, a subirne le conseguenze.

Giovani uomini vigorosi che quando sorridono

sembrano bambini

Disegno di Fabio Tacchi

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Il primo è stato Ciro, uno dei “pionieri” dell’Alta Sorve-glianza; la prima volta che l’ho incontrato mi ha detto: “Noi siamo i cattivi. Anzi, siamo molto cattivi”. Lui e Giuseppe (lo stesso del molare), quando non erano as-sorbiti in interminabili discussioni di politica, sono sta-te le mie “guide” nel mondo carcerario, in quei gironi popolati da un’umanità sofferente, magari colpevole ma non per questo priva di dignità. Ciro soffriva di cuo-

re. A un certo punto è stato precipitosamente trasferito a Parma: lì il suo cuore malandato sarebbe stato curato a dovere, dicevano. Ciro tornò a Sollicciano dopo poco tempo e ci raccontò che nel carcere parmense non ave-va mai visto un medico. Poco dopo ebbe un infarto, dal quale si salvò. Poi, per sua fortuna, è tornato a casa. Ogni volta che vedo il ministro Brunetta ripenso a lui, che al solo sentirlo nominare (ai tempi imperversava come economista) andava su tutte le furie, diventava rosso in viso, le vene del collo gonfie, e cominciava a sbraitare. Lungimirante.

Poi c’è stato Massimo, uomo mite e grande pescatore subacqueo, con un problema alla colonna vertebrale causato proprio, sosteneva lui, dalla posizione assunta per la pesca all’aspetto. Si è ritrovato in breve tempo su una sedia a rotelle, incapace di camminare, piegato su se stesso, finché non è stato trasferito in un altro carcere toscano per subire un intervento mal riuscito. La guarigione, che alla fine c’è stata, non è avvenuta

in carcere ma fuori, quando Massimo è tornato in libertà e ha potuto avere cure appropriate.E infine Guglielmo. Ginocchio fuori uso, stam-pelle, corollario di depressione. Da quando ha iniziato a stare male Guglielmo si è lasciato an-dare e non è più venuto a scuola, perso nel suo mondo di sofferenza e nelle preoccupazioni per la propria salute, per le difficili condizioni eco-nomiche familiari, per la morte del padre, per la paura di perdere la casa che il Comune aveva assegnato al genitore, per i mesi di galera scon-tati in Inghilterra e non riconosciuti qui in Italia, per essere rimasto solo dopo il trasferimento di Tonino, suo compagno di cella, al quale

Guglielmo faceva da spalla negli irresistibili racconti di scene di vita carceraria a due. Mesi e mesi in attesa del necessario inter-vento chirurgico. Poi la notizia: Guglielmo

si è appeso. Ha tentato di impiccarsi. E’ sta-to tirato giù in tempo da Mauro, nuovo com-pagno di cella. L’agente di servizio in sezio-ne è passato ma non ha fatto niente. “Stai tranquilla, Paola, non facevo sul serio” - mi ha scritto Guglielmo, quando ha saputo che mi ero messa a piangere dopo aver appreso

l’accaduto – “Volevo solo attirare l’attenzio-ne sul mio caso”. E infatti, dopo, gli educatori si sono accorti di lui, si sono ricordati del suo ginocchio e lo hanno fatto operare. Eppure, per me la drammaticità del fatto non ne viene affievolita. In questa storia qualcuno potrebbe trovare la conferma alla subdola tendenza alla simulazione da parte dei detenuti, pronti a tut-

to pur di ottenere ciò che vogliono. Ma se Mauro non avesse fatto in tempo? Si è trattato di una messa in scena, ma pur sempre di un tentato suicidio. In quale abisso di disperazione deve trovarsi un uomo per farsi del male a tal punto, anche se per finta? In tanti, come Guglielmo, ricorrono ad atti di autolesionismo per re-clamare attenzione, ascolto. E’ anche per questo che i detenuti si tagliano, dentro e fuori, sulle braccia op-pure ingerendo sostanze e oggetti che squarciano gola, esofago, stomaco. Un modo estremo per dimostrare di esistere. Un urlo contro l’indifferenza.

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Lo scorso novembre, la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia ha compiuto venti anni. Venti lunghi anni in cui l’attenzione nei confronti dei «bambini, ragazzi e adolescenti», è questa la traduzione proposta per la parola children, è cresciuta sempre di più ed è entrata nelle logiche culturali e sociali di molti paesi. Approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, la Convenzione definisce «bambini, ragazzi e adolescenti» gli individui di età inferiore ai 18 anni (art. 1), il cui interesse deve essere tenuto in primaria considerazione in ogni circostanza (art. 3). Tutela il diritto alla vita (art. 6), nonché il diritto alla salute e alla possibilità di beneficiare del servizio sanitario (art. 24), il diritto di esprimere la propria opinione (art. 12). I bambini hanno diritto al nome, con registrazione all’anagrafe subito dopo la nascita, nonché alla nazionalità (art.7), hanno il diritto di avere un’istruzione (art. 28 e 29), quello di giocare (art. 31) e quello di essere tutelati da tutte le forme di sfruttamento e di abuso (art. 34).Rimangono tuttavia grandi disuguaglianze, che mostrano quanto sia ancora lungo il cammino da percorrere. I dati del Rapporto UNICEF del 2005 sono eloquenti.

In Africa un bambino ha 1 possibilità su 6 di morire prima di compiere i cinque anni, per complicazioni neonatali, malaria, morbillo e AIDS. I dati sono sicuramente impressionanti, ma nessuna statistica è in grado di raccontare fino in fondo l’infanzia negata, i dolori e le gioie di bambini speciali, costretti ogni giorno ad affrontare la lotta per la vita.Sobonfu Somé, autrice e insegnante africana, scrive: «Immergetevi profondamente nel vostro cuore, ascoltatene il ritmo. Gli esseri che avete invitati nella vostra cerchia hanno il loro personale linguaggio e vi parlano. Il problema è che di solito non ascoltiamo abbastanza e dunque non li udiamo!». Ascoltare. Fermarsi ad ascoltare il battito del proprio cuore e le vibrazioni dell’animo di chi ci è accanto. Leggere. Imparare a leggere negli occhi degli altri pensieri, emozioni, percorsi di vita. Amare. Accettare di non essere onnipotenti ed amare la vita per quello che è, con le sue luci e le sue ombre.È questa la magia dell’Africa. Una terra che aiuta a riscoprire, attraverso i suoi odori, suoni, colori, l’essenza prima ed unica del vivere. Essenza visibile nei gesti e nelle storie dei bambini, che ci guidano

verso una sorta di porto sepolto, in cui è possibile cogliere «quel nulla di inesauribile segreto» che permette un approccio alla vita completamente nuovo. I tanti bambini che ho incontrato nella mia Africa sono protagonisti di fiabe moderne, degne di essere raccontate.

CALIMEROOgni lunedì sta seduto sulle radici dell’antico albero che copre con il suo ombrello il piazzale antistante la missione. Aspetta e osserva circospetto tutto ciò che accade intorno. Aspetta i suoi genitori che dall’alba sono in fila, insieme agli altri poveri, per avere la razione settimanale di polenta, olio e, se è un giorno fortunato, anche di fagioli e sapone. Aspetta che padre Max venga a sedersi sulla sua seggiola, davanti al grande cancello, per ascoltare chi è venuto a cercare un filo di speranza per sopravvivere.Finalmente arriva il suo turno, si avvicina piano, con due occhioni tristi che

Bambinidi Carla Tacchi da favola

Numero di bambini

nel mondo 2.2 miliardi

che vivono in povertà più di 1 miliardo

Bambini dei PVS che vivono

in case prive di acqua potabile 1 su 5

in case prive di servizi igienici 1 su 3

Bambini senza assistenza sanitaria 1 su 7

Speranza di vita media per un bambino

nato in Giappone 85 anni

nato in Zambia 33 anni

Totale dei bambini

nati in Canada nel 2003 319.000

morti in Ruanda nel 1994 300.000

Rapporto UNICEF 2005

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guardano sempre in basso, e sussurra al suo angelo bianco: «Sugar…», zucchero. Allora padre Max lo manda dalla signora bianca che, in situazioni davvero speciali, è autorizzata a rubare dalla dispensa dei frati per accontentare bimbi speciali.Questo cucciolo d’uomo ha meno di quattro anni e apparentemente non ha nome, tutti lo chiamano «il figlio del vecchio cieco». Per me è Calimero, perché mi ricorda tanto il personaggio d’animazione della mia infanzia, con il suo fagottino e quel goffo modo di camminare. Il suo papà in realtà non è vecchio, probabilmente ha meno di cinquant’anni, e non è più cieco. Lo è stato, però, per quasi tutta la sua vita, fino a quando ha incontrato uno stregone bianco, un oculista di Arezzo, che ha compiuto una straordinaria magia: un’operazione di cataratta. Dopo trent’anni di buio assoluto la vista è tornata e, in casa del «vecchio Chikombola», insieme alla vista è arrivato anche un nuovo bambino. Un piccolo pulcino nero che non ride mai, ma non piange neanche. Non sa esprimere quello che prova, intorno a lui nessuno lo ha mai fatto. Ma un giorno anche padre Max decide di compiere una magia: riuscire a strappare un sorriso a Calimero. Un paio di pantaloncini, un giubbetto di jeans e uno zainetto colorato i suoi assi nella manica. Come sempre accade, però, sono i bambini a sorprendere e a donare sorrisi in modo del tutto inaspettato. Ho ancora negli occhi l’immagine del nostro pulcino piccolo e nero, con la sua solita faccina imbronciata, che si presenta con una maglietta sporca e strappata, regalata chissà quando e chissà da chi, con la scritta… Calimero.

CINDERELLALa prima volta che sono arrivata alla Missione S. Giuseppe mi sembrava di essere nel giardino dell’Eden ma anche su Marte. Catapultata in un mondo di cui non capivo nulla e nel quale era difficilissimo orientarsi.Il secondo giorno, come un’aliena, cerco di raggiungere il refettorio di suor Carmela, una suora italiana che vive in Zambia da cinquant’anni e dirige la scuola di

sordomuti della missione.Mentre attraverso il piazzale, mi viene incontro una bambina con un grande sorriso, che mi prende per mano e mi invita a giocare con lei. Mi accorgo che è muta, ma non ha nessuna difficoltà di comunicazione. È stato amore a prima vista.Cinderella (Cenerentola), che all’epoca aveva meno di cinque anni, non ha più i genitori e deve convivere con «quella terribile malattia», l’AIDS. Ma lei è una forza della natura, niente la può fermare: non può sentire la musica ma balla con un ritmo straordinario; non può parlare ma riesce ad ottenere ciò che vuole con grande

facilità. Quando ancora non sapeva scrivere, assoldava qualcuno dei suoi compagni per farsi preparare dei bigliettini con scritto «I love you», da consegnare al momento opportuno.La sua voglia di vivere le ha permesso di superare qualsiasi ostacolo. La scorsa stagione delle piogge ha avuto una terribile malaria, ma ce l’ha fatta. L’anno prima per un’infezione con una febbre altissima aveva quasi perso l’uso di una manina, ma ce l’ha fatta.Ogni estate aspetta il mio arrivo e oltre ad anellini e braccialetti di semi e cortecce d’albero, accompagnati da bigliettini d’amore, mi regala lunghe lettere in cui descrive i suoi piani per venire in Italia con me.Dopo averle spiegato tante volte, con un grande peso sul cuore, che non la posso portare con me; dopo tanti discorsi sul fatto che ormai è grande,

che ha quasi dieci anni e che deve capire che non è possibile perché gli zii che si occupano di lei non lo permettono, etc. etc. etc.; dopo i miei giuramenti sacri e inviolabili di tornare l’anno successivo e le sue promesse solenni di non fare capricci per la mia partenza; quest’anno al momento dei saluti mi consegna un foglietto segreto, da leggere più tardi. Un messaggio in una lingua tutta sua, fra l’inglese e il bemba che tradotto suona più o meno così: «Ho avuto un’idea bellissima. Quest’anno mi puoi portare con te, non ci sono più problemi. Posso fare il viaggio nella tua grandissima valigia!».

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La regione in cui vivo un anno fa passò al digita-le terrestre rendendo i televisori vecchia maniera e senza decoder dei cubi gracchianti che non tra-smettevano immagini, ma delle bande orizzontali grigie che si muovevano caoticamente. L’incon-veniente, risolvibile con un salto in un negozio di elettrodomestici per procurarsi un decoder, diven-ne l’occasione per dimostrare a me stessa che in fondo non avevo bisogno della televisione in nessun momento della giornata, feci insomma di necessità virtù. La povera e nera scatoletta in breve tem-po si riempì di polvere e decontestualizzata dalla propria funzione divenne nell’ordine mensola per i libri, tavolino provvisorio, supporto per tazze di tè, caffè, bottiglie d’acqua, piano per appoggiare il cellulare in carica o delle candele. Non sono mai stata una teledipendente, ma nella mia vita posso apertamente dichiarare che ci sono stati momenti di vero attaccamento compulsivo. Tutta la genera-zione degli attuali trentenni (la mia generazione) non può nascondere di essere cresciuta a latte e cartoni animati giapponesi, che venivano trasmes-si dalle innumerevoli televisioni commerciali che negli anni ’80 sembrava nascessero dal nulla. I lun-ghi pomeriggi dopo la scuola si trasformavano in uno spettacolo infinito da guardare da soli o con gli amici, con il freddo o il bel tempo. Anche quando i genitori ci incoraggiavano a uscire per giocare, noi restavamo incollati agli schermi per vedere come andava a finire l’ennesimo episodio della serie dei grandi robot combattenti, della dolce ragazza dai capelli biondi, dei buffi esserini blu. Nonostante i palinsesti pomeridiani fossero divisi strategicamen-te per fasce d’età e, in base al genere, destinati a bambini o bambine più o meno grandi, noi ci beve-vamo tutto e ci adattavamo a ogni forma di conte-nuto con una prontezza camaleontica. La forbice della censura nelle TV private era estremamente indulgente e raramente trovo nell’attuale televi-sione per l’infanzia scene violente e forti come ri-cordo di averne viste a dieci anni. Mondi post apo-calittici in cui bande rivali si guerreggiavano con arti marziali dagli effetti mortali spettacolari, armi nucleari, poteri magici dalle conseguenze nefaste,

i giapponesi con la loro cultura del sacrificio e del-le passioni estreme non si risparmiavano neanche nelle serie televisive per i piccoli. Non ricordo di essere mai stata traumatizzata dalla visione di uno di questi cartoni animati, certo è che fanno parte del mio bagaglio culturale e della mia formazione di bambina, ma non sono affatto un caso isolato, chiedete a chiunque sia nato negli anni dell’edoni-smo paillettato di “Drive in” di cantarvi una sigla di un cartone animato qualsiasi e vedrete che, a distanza di decenni, avrà ancora in testa le parole di una canzoncina della D’Avena. Insomma il mio rapporto con la Tv è stato benedetto già in tene-ra età, ma arrivata a questo punto, con la testa indipendente e lo spirito critico sviluppato dopo anni di progressiva sottrazione al giogo mediati-co, ho deciso di rinunciare definitivamente a quel gesto meccanico che accendeva lo schermo e mi rendeva automaticamente una telespettatrice. Il distacco non è stato difficile, anche perché negli ultimi anni guardavo la Tv solo per un telegiornale e qualche raro programma che poteva ancora de-finirsi di qualità, ma qualche problemino è emerso quando mi sono ritrovata sola a cena, immersa nel silenzio di una casa, di fronte al piatto da consu-mare. Nonostante ami e apprezzi il silenzio, il mo-mento dei pasti, che culturalmente è il momento del convivio, della condivisione e dello scambio di idee, risulta estremamente deprimente quando si è da soli, per questo la maggior parte della gente accende la televisione, proprio per non sentire la solitudine che sembra tracimare in certi momen-ti della giornata. Anche nelle famiglie numerose o nelle coppie collaudate, il pasto quotidiano è sempre accompagnato dal sottofondo televisivo di voci di giornalisti, jingle pubblicitari, dibattiti. Per cercare una valida soluzione cominciai ad ascol-tare la radio già di prima mattina e scoprii, con la dovuta selezione, quante belle stazioni viaggiano nell’etere, dai programmi di jazz ai dibattiti sul cinema, dai lavori parlamentari agli approfondi-menti sull’attualità, niente lustrini, donne tirate e semi svestite, niente presentatori dall’espressione scaltra, solo le voci e i contenuti delle parole. La

La disintossicazionedi Marta Angelini

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disintossicazione televisiva passò anche attraver-so una riscoperta del silenzio e dei piccoli rumori che lo interrompono, questa volta più profonda e analitica di come io l’abbia mai sperimentata, che mi fece scoprire che il vicino del piano superiore usa la centrifuga soprattutto la sera verso le sette, qualcuno nei piani bassi fa esercizi con il violino, a volte riesco a capire le conversazioni delle perso-ne che sono in strada, il bimbo della famiglia che abita al quarto piano spesso e volentieri canticchia felice. Un universo brulicante entrò nella mia real-tà lievemente, senza clamore e anche le giornate più silenziose come la domenica, quando tanti la-sciano le proprie case per gite fuori porta o visi-te ai parenti, le passai assaporando le campane di una chiesa lontana o i suoni distorti di un concerto in un quartiere periferico. Ricominciai a comprare giornali per avere notizie fresche e anche internet, già ampiamente utilizzato per la posta elettronica e un aggiornamento quotidiano, divenne un mezzo per ascoltare radio straniere in tempo reale, legge-

re giornali di tutto il mondo e di tutte le posizioni politiche. Senza dimenticare i programmi culturali della Rai che nel web si possono vedere on demand, senza dover aspettare un’ora precisa, senza pub-blicità e con la possibilità di rivedere delle parti che magari vogliamo approfondire o capire meglio. Insomma non subivo più la tirannia dei palinsesti predefiniti e non c’era l’ansia di perdersi qualcosa perché in fondo potevo scegliere quando e come volevo il programma più adatto al mio umore e alle mie esigenze. Naturalmente la lettura, già in vetta alle mie preferenze nel tempo libero, è divenu-ta sempre più presente, la sera soprattutto passo delle ore con un libro sotto gli occhi prima di an-dare a dormire, cosa che si riduceva drasticamente se accendevo la televisione. Con il suo famigerato ipnotismo lo schermo luminoso mi intrappolava in un immobilismo passivo e anche se il programma non era un granché, continuavo a guardarlo, ma-gari non seguendolo veramente e pensando tra me e me al lavoro o alle faccende da fare in casa. La

vera liberazione dall’elettrodomestico più acceso al mondo, è stata quando capii che anche il mio pensiero se ne stava giovando così come il mio linguaggio, che risultava più originale e aderente alle mie sensazio-ni e alla mia personalità. Abbandonai ben presto quelle parole spurie del linguaggio mediatico fatto di neologismi e di frasi fat-te, prestiti dall’inglese e termini da luogo comune che ascoltiamo continuamente e che, anche non volendo, a volte escono dal-la nostra bocca come singhiozzi incontrol-lati. Questa manipolazione del linguaggio e di conseguenza del pensiero, cominciai a scovarla ovunque, facendo attenzione al lessico dei discorsi di amici e parenti che pronunciavano parole standardizzate, tan-to artificiali e lontane dalla loro realtà che sembravano fossero riportate letteralmen-te da un altro contesto. Nonostante spesso ci dichiariamo i primi a rifiutare il confor-mismo rassicurante della Tv, dopo anni di teledipendenza, ormai abbiamo imparato a parlare il suo linguaggio, come dei figli che, pur volendosi distanziare dai genitori, parlano, si muovono e pensano come loro.

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PERSONE

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Nell’VIII libro delle Metamorfosi, Ovidio narra di una coppia di anziani sposi, Filemone e Bauci, che, meritevoli di un premio da parte degli dei, chiesero il dono di poter morire contemporaneamente, affinché l’uno non dovesse soffrire per la perdita dell’altro.Gli dei li accontentano e “(…) Giunti al termine della vita, si trovarono per caso sui gradini del tempio a narrarne la storia ai visitatori. A un tratto Bauci vide Filemone mettere fronde, mentre il vecchio Filemone, dal canto suo, vedeva le membra di Bauci irrigidirsi e metter fronde anch’esse. Intanto che la cima degli alberi cresceva, i due sposi si scambiavano parole di saluto, fino a quando fu loro possibile. “Addio, sposo mio” si dissero a un tempo. In quello stesso momento le loro labbra scomparvero sotto la corteccia. Ancora oggi, in quel medesimo luogo, i cittadini di Cibra in-dicano i due tronchi, l’uno accanto all’altro, nati dai due corpi”. È questo l’amore? È essere così legati, così empatici da desiderare di morire insieme?È possibile sapere cos’è l’amore?Se lo chiede anche il poeta Wystan Hugh Auden:Dicono alcuni che amore è un bambino,e alcuni che è un uccello,alcuni che manda avanti il mondo,alcuni che è un’assurdità(…) La verità, vi prego, sull’amore.

È pensabile dire qualcosa che sia vero, sull’amore, qualcosa che sia generalizzabile? L’amore è una materia che mal si presta a semplifica-zioni, o ad analisi sommarie per misurare il valore che gli si riconosce a livello sociale.Quale indicatore potremmo utilizzare al riguardo?Se ritenessimo un valido parametro il giro di affari della festa degli innamorati, potremmo subito conclu-dere che questo sentimento è tenuto in gran conto nel nostro Paese. Il S. Valentino-business, infatti, non co-nosce crisi, e pare ammontare a oltre mille milioni di euro, spesi in fiori, cioccolatini, gadget, cene al risto-rante e - sempre più in voga - trattamenti di coppia nei centri benessere.Non oso neanche ipotizzare quanti interventi in campo culturale, sociale, educativo, potrebbero essere realiz-

zati con una cifra del genere, invece di bruciarla, nel

breve lasso di tempo di 24 ore, in peluche, dolciumi, e lampade solari a due piazze.È questo dunque che ci dà la dimensione di cosa è l’amore? Qual è la verità sull’amore? Secondo Zygmunt Bauman, la verità è che l’amore è divenuto liquido. La lucida analisi del grande sociologo rileva che la mo-dernità si è divisa esclusivamente intorno all’idea di consumo e che il valore dei rapporti stessi tra le per-sone si è coagulato intorno a questa categoria. Poi, nel momento in cui questo modello, legato alla crescita continua dei consumi, non ha retto, tutto si è liquefat-to, comprese le relazioni tra le persone. Anche l’amore risente di questa dimensione: la solitu-

La verità vi pregodi Anna Cappelletti

sull’Amore

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SPERSONE

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dine genera insicurezza, ma i legami stabili appaiono insopportabili (cfr. Z. Bauman, Amore liquido, edizioni Laterza). Il quadro che ne emerge può apparire a qualcuno piut-tosto inquietante, e si può essere presi dal desiderio di trovare risposte più rassicuranti.A questo genere di richiesta risponde, a mio parere, il lavoro del sociologo Francesco Alberoni (autore di Inna-moramento e amore, 1979), secondo il quale la verità sull’amore si può reperire nei libri (suoi) e in internet, tramite una serie di ricettine fast food. Se, per esempio, vi chiedeste “Come sappiamo che sia-mo innamorati?”, potreste andare a vedere sul suo sito ufficiale e – a questa voce - trovereste una risposta semplice e perentoria (ancorché estremamente opi-nabile): “Studiando i sentimenti che provi quando sei lontano dall’amato. Non basta il desiderio ossessivo e insistente di rivederlo, di sentirti dire ti amo, di fare all’amore. Quando sei davvero innamorato vieni preso da terrore panico che non ti ami più, dalla disperazione perché sai di non poter vivere, respirare senza di lui”E così via: catalogate sotto parole-chiave come “la cot-ta” “seduzione”, “fedeltà”, “cacciato e cacciatore” (sic!), si trovano consigli e verità in abbondanza.Neanche l’amore, dunque, si sottrae al bisogno di cer-tezze e codificazione che sta invadendo ogni settore della vita - anche quelli più intimi e interiori - e, come in tutti gli ambiti che generano incertezza e ansia, c’è chi cavalca il bisogno di risposte fornendole già confe-zionate (Maria de Filippi, con la sua trasmissione sui rapporti tra uomini e donne, Moccia con le sue faci-li storie scritte in un improbabile italiano), esimendo ognuno di noi dall’attività più squisitamente umana: pensare, riflettere, interrogarsi.

C’è stata una generazione di donne (coloro che sono state giovani negli anni 60 e 70) che invece lo ha fatto: ha portato la riflessione, il raccontarsi e l’interrogar-si sulle emozioni e i sentimenti, su un piano inusuale, quello della politica e del cambiamento.Sembra opportuno ricordarlo proprio in questo momen-to, non solo perché siamo vicine all’8 marzo, ma per-ché si tratta di quella stessa generazione che ha usa-to il corpo non per accedere al potere e alla politica, ma per tematizzare politicamente le categorie che la cultura maschile patriarcale intendeva lasciare dentro le stanze più private e chiuse - per poterle gestire a suo piacimento. Utilizzando l’analisi dei temi più pri-vati come chiave di cambiamento, queste donne hanno liberato l’amore dall’obbligo, producendo trasforma-zioni non solo culturali e sociali, ma anche legislative, cosicché ogni donna finalmente potesse dire:Amore, sto con te non perché sono obbligata dal fatto che non lavoro e non mi posso mantenere,

non perché sono obbligata dal diritto di famiglia,non perché sono obbligata dal modello sociale e cultu-rale dominante,che vede la donna realizzata solo come moglie e madre: amore, sto con te perché ti amo.

È questa una generazione di donne che spesso si rac-conta tuttora, che non ha paura di scandagliare la me-moria, di continuare a interrogarsi anche nell’età ma-tura. Sono queste stesse donne, che hanno scritto di sé nei laboratori autobiografici della ricerca “Reinventare l’età matura” e che hanno raccontato con autenticità la loro verità intorno ai temi apicali della vita: mater-nità, lavoro, politica, corpo, e … amore.

Leggendo questi testi - centinaia di narrazioni di sé – s’intuisce che l’unica verità sull’amore è quella che sta dentro le storie, dentro la vita delle persone che non hanno avuto paura di viverla.(…)È pungente a toccarlo, come un pruno,o lieve come morbido piumino?È tagliente o ben liscio lungo gli orli?La verità, vi prego, sull’amore. E se, con Auden, ci chiedessimo quali sono le caratteri-stiche dell’amore, leggendo alcuni frammenti di questi testi, troveremmo che dentro ogni vita si sperimenta che l’amore talvolta è “pruno” a volte “piumino”. Ancora oggi, dopo aver attraversato delusioni ed en-tusiasmi, giudico l’amore l’esperienza più esaltante della vita, quella che compendia e coniuga ogni sen-timento ed emozione, dal più nobile al più meschino; nella sua complessità, l’esperienza dalla quale non ci si può sottrarre e di fronte a cui è immorale esprime-re valutazioni e giudizi generalizzati.Per qualcuna l’amore è stato tagliente, e ne è stata ferita, ma poi è stato morbido, e vi ha trovato conso-lazione.E lo chiamano amore, quando sei arrivata in fondo, non lo cerchi più, anzi lo eviti, ed ecco, APPARE: in-credula, timidamente riassaggi l’emozione di sentire la sua voce, il contatto del suo corpo, lo assapori, lo respiri, ti riempi, ti unisci di nuovo, (...)… e c’è chi, dopo alcuni decenni di convivenza, scrive così del proprio rapporto di coppia:Certo che lo chiamo ancora amore, ma non con paro-le banali ed abusate perché quelle non dicono nien-te, ma con i pensieri gentili, con le cose che fanno piacere e sorprendono, con la pazienza, il rispetto, il sostegno e la gioia di stare ancora insieme.E, a conclusione della nostra vita, come premio, vor-rei il dono che gli dei hanno fatto a Filemone e Bauci, per non rimanere da soli.

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IDEE

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sarebbe stata totalmente rivoluzionata. Era anche chia-ro, per Alexander, che se ciò fosse accaduto, l’universo in cui lui era cresciuto sarebbe scomparso per sempre. Aveva compreso che l’unificazione delle due Germanie non sarebbe stata una fusione armonica, né la ricca sintesi di due modelli differenti. “Wir sind ein Volk”, “Noi siamo un popolo”, era lo slogan della riunificazio-ne tedesca. Significava che l’Ovest avrebbe assimilato l’Est, cancellandone il modello economico, sociale e culturale e sostituendolo, senza troppi fronzoli, con un altro modello, che dicevano essere migliore. Ma lui, in Unione Sovietica, c’era nato. La Repubbli-ca Democratica Tedesca era casa sua. I problemi era-

no tanti, ma non c’erano solo problemi. In questo modello economico, che il mondo aveva dichiarato un fallimentare, la madre di Alexander era riuscita a crescere suo figlio da sola, lavorando come biologa, senza finire sul lastrico, protetta da a un solido si-stema di garanzie sociali. Le famiglie avevano pochi soldi, ma questo non era un grande problema: già nell’adolescenza, Alexan-der poteva permettersi di andare tutte le settimane a teatro, o all’Opera, per-

ché i biglietti per gli studenti erano molto economici e il governo finanziava la cultura e le arti. Non poteva comprare molti libri, ma poteva leggerli in una delle numerose biblioteche pubbliche. Non aveva un motori-no o una macchina, ma i trasporti pubblici erano effi-cienti. A un ragazzo di sedici anni poteva bastare. Ma a tanti altri non bastava, rifletteva Alexander. E quindi si correva ad abbattere il muro. In molti, negli anni passa-ti, avevano cercato di raggiungere quel posto favoloso chiamato ovest. Da Berlino est si cercava di scappare: ci aveva provato anche suo zio che, essendo un grande nuotatore, si era allenato per mesi a nuotare in apnea, cercando poi di attraversare il confine con la Germania Ovest sott’acqua, con il favore delle tenebre. Purtrop-po era stato catturato e da due anni era in prigione. Se

Repubblica Democratica Tedesca, 1989La notte in cui il muro venne abbattuto dai suoi com-pagni di classe, un pensieroso Alexander, sedicenne, leggeva Sartre, chiuso nel silenzio del suo “atelier”. Lui lo chiamava così, con quel sottile tono di aristocra-tico distacco che, già da adolescente, lo separava dalla volgarità del resto del mondo: “l’atelier”. Si trattava, nella pratica, di una specie di officina, un locale ampio e basso, stipato di utensili per scolpire e dipingere; da pochi mesi Alexander ci aveva portato anche un letto, che navigava in mezzo a pile di libri e giornali. L’atelier era distante solo poche centinaia di metri dalla casa dove Alexander abitava insieme a sua madre. La signora

Polzin si era decisa a comprarlo perché non poteva più sopportare l’odore dei colori ad olio e dei solventi usati dal figlio per dipingere, e le decine di quadri accata-stati in salotto, in bagno, nel corridoio. In quella notte di novembre, Alexander aveva ascoltato con attenzio-ne, senza rispondere, le voci eccitate che da fuori lo chiamavano. Aveva sentito il rullare dei passi gonfiare le strade come al passaggio di un’armata di fanteria e l’eccitazione impregnare i muri e sgocciolare dai tetti. Ma non aveva risposto. Non ci voleva andare, lui, ad abbattere il muro. Non che non avesse afferrato la portata storica e l’im-portanza cruciale dell’evento, tutt’altro. Era chiaro che, se quella notte, davvero, il muro fosse caduto, come dicevano, la vita dell’Europa e del mondo intero

Un giornonella vita

di Elisa Brandi

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SIDEE

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il muro fosse crollato, rifletteva Alexander, finalmente lo avrebbero rilasciato. Alla fine, quella notte, il muro cadde per davvero. L’Ovest era arrivato e il confine tra i due Paesi, che correva a cinquecento metri da casa sua, poteva es-sere attraversato. Alexander quasi non ci credeva. Il giorno seguente, si alzò per andare a scuola. La scuola era deserta: tutti gli alunni e i professori erano corsi dall’altra parte della città, a vedere com’era l’Ovest. Ma Alexander, no. Tornato a casa, Alexander si chiuse nel suo atelier e passò quasi un mese a leggere e dipin-gere. Sua madre quasi tutti i giorni gli chiedeva: “Ma ci sei andato, a vedere l’Ovest?”. E lui: “No, non ho avuto tempo oggi”.Poi un giorno arrivò la notizia che i musei francesi con-cedevano l’ingresso gratuito a tutti i cittadini dell’ex Repubblica Democratica Tedesca. Fu allora che Alexan-der decise che sarebbe andato nell’Ovest; comprò un biglietto per Parigi. Ci rimase tre settimane, divoran-do voracemente musei e gallerie d’arte, assorbendo avidamente l’arte dell’Ovest. Nelle silenziose sale del Louvre, un Alexander sedicenne veniva iniziato all’Oc-cidente.

Stati Uniti D’America, 1989L’avevano chiamata Summer Noel, perché era stato il loro piccolo Nata-le nel bel mezzo dell’estate. Quella bambina, nata nel mese più caldo dell’anno, era stata accolta come una benedizione da Trish e Mark, che ringraziavano il Signore per i suoi ca-pelli rossi e gli occhi verdi. La fami-glia di Summer era molto religiosa; il padre era sacerdote della Chiesa Evangelica americana. La madre si occupava delle bambine e della casa e dedicava il tempo libero alle nu-merose attività di volontariato e di assistenza sociale, all’interno della parrocchia. A Summer e sua sorella piaceva andare in chiesa la domenica, ad ascoltare il papà che parlava alla piccola comunità di fedeli. L’in-teresse di Summer, durante la cerimonia religiosa, era tutto per la musica: passava ore ad ascoltare e cantare gospel e musica sacra di ogni tipo. Fin da piccolissima, aveva sviluppato un precoce talento e una naturale passione per la musica e la danza. All’età quattro anni, comunicava ufficialmente alla famiglia di voler diven-tare attrice, per recitare e danzare in teatro.Ogni cinque o sei anni, il padre di Summer veniva as-segnato dalle autorità religiose locali ad una parroc-chia differente, e l’intera famiglia doveva spostarsi. Le bambine erano dunque abituate a viaggiare, a cambia-re scuola ed amici. California, Arizona, Nevada, Ore-gon. Per alcuni anni vissero anche in una riserva india-na: Summer ricorderà sempre il giorno del loro arrivo

nella riserva, in cui il capo del villaggio fece omaggio a suo padre, come regalo di benvenuto, di una cintura di pelle di serpente, da lui personalmente cacciato e scuoiato in suo onore. La famiglia cambiava casa, le bambine cambiavano scuola. I problemi erano tanti, ma non c’erano solo problemi. Ad esempio, a forza di viaggi, Summer aveva imparato un sacco di cose: a fare amicizia velocemente, e, altrettanto velocemente, a scordarsi delle persone da cui si separava. A riconosce-re i serpenti velenosi, a stare lontana dagli scorpioni, a rimanere immobile davanti a una tarantola. Ad impa-rare quel tanto che serviva per avere voti decorosi ed essere lasciata in pace. Dopo la scuola e durante le vacanze estive, Summer la-vorava: in supermercati, o ristoranti, shopping centres, dove capitava. I soldi gli servivano per poter accedere alla scuola d’arte drammatica. Passava i prodotti alla cassa mentre ripassava mentalmente i passi dell’ulti-mo balletto, impilava fette di pomodoro, formaggio e hamburgers e intanto imparava a memoria i testi delle canzoni da portare alle audizioni; arrotolava felaffel e inventava coreografie. Nonostante i suoi sforzi, però, i soldi per l’Accademia, non ce la faceva a metterli via, ce ne volevano troppi. Ma gli Americani, si sa, han-

no una marcia in più. Pensano sempre che, in qualche modo, alla fine ce la faranno: e, a vol-te, ce la fanno davvero. Summer inviò doman-de d’ammissione alle scuole di recitazione di mezzo mondo. Chiede-va borse di studio, la possibilità di studiare per fare l’unica cosa al mondo che davvero le interessa fare: ballare. Poi un giorno, dalla

Germania, arriva una lettera. Era stata accettata come allieva nella prestigiosa scuola di teatro della capitale. Mentre saliva sull’aereo, non poteva smettere di can-tare: sottovoce, per non disturbare gli altri passeggeri.

Berlino, 1999Nell’autunno del 1999, a casa di Danny e Marco, dopo la première, gli attori con pochi amici si ritrovano a casa dei due ballerini per mangiare qualcosa. Un Ale-xander annoiato entra nella stanza. Conosce poche persone, lancia un’occhiata obliqua agli altri invitati. Il suo sguardo si inchioda sui capelli di Summer, che danzano verso di lui, rossi come una bandiera. E qui inizia un’altra storia.

La scuola era deserta:

tutti gli alunni e i professori erano corsi dall’altra parte della città,

a vedere com’era l’Ovest.

Ma Alexander, no.

Si chiuse nel suo atelier e passò quasi un mese a leggere e dipingere

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IDEE

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Com’è avvenuto che abbiamo permesso che il nostro corpo di donne, sorelle, figlie, madri venisse denudato insieme ai nostri sentimenti?E che il nostro privato, la nostra intimità venisse “vomitata” attraverso i mass media e guardata con disgusto e finta solidarietà da altre noi giudicanti e graffianti qualche brandello di vita finta da inserire in un mondo ancora più finto?Quand’è avvenuto che tutto questo ci è sembrato normale?Mi verrebbe da dire: “che passaggio ci siamo perse?”Quand’è che abbiamo abbassato la guardia?Abbiamo ancora una volta introiettato il nostro essere donne, come quelle delle piccole cose, alla Gozzano, abbiamo guardato per terra, affaticate dal vivere giornaliero e così abbiamo perso di vista il mondo, e con il mondo noi stesse!Com’è avvenuto che abbiamo pensato, facendo parte di una specie protetta, di non avere responsabilità negli accadimenti del mondo?Com’è avvenuto che abbiamo permesso nuove guerre, abbiamo creduto in guerre buone e guerre cattive? Abbiamo avallato le torture giuste?Com’è avvenuto che abbiamo permesso che i figli delle altre donne fossero massacrati, immolati, seviziati, senza dire niente? Dov’è che abbiamo perso la nostra dignità di esseri umani, di donne e di madri?Dove abbiamo occultata la nostra tanto sbandierata maternità?Se per maternità s’intende quel sentimento di amore incondizionato e pietoso verso l’umanità, che accoglie in un unico abbraccio tutti come nostri figli, ricerchiamolo nei recessi più intimi della nostra memoria dove si nasconde tremebondo e confuso!Quand’è che la nostra coscienza, la nostra mente e il nostro cuore sono stati anestetizzati e resi poco reattivi all’altro?La televisione, lo strumento diabolico della nostra

epoca, la babysitter dei nostri figli, mentre noi lavoravamo, tese a costruire un mondo sereno da regalare alla nostra progenie, rimandava, dallo schermo, un mondo in confezione di comodo, in cui realtà e finzione si mescolavano, diluendo così ogni accadimento e ogni sentimento.Le telenovele americane ci rimandavano l’immagine di donne sempre giovani, sempre vestite e truccate in modo perfetto ( anche di notte e al risveglio mattutino), intriganti, ricche, competitive e gelose delle altre donne, sempre a

competere per un lui o per un sogno di ricchezza in un mondo in cui sofferenza e vecchiaia erano state bandite.Noi, stanche, sfinite, a testa bassa, abbiamo cercato di modellarci su quelle donne, credendo che bastasse sembrare giovani, essere ben

di Lucia GengaTirole somme

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truccate anche di notte, magre e sorridenti oltre l’impossibile, per avere successo, per “mantenerci” i nostri uomini, la nostra famiglia, i nostri amici.Non abbiamo saputo vedere il tesoro di esperienza, amore e intelligenza che avevamo dentro di noi e che era sufficiente a scegliere e a farci scegliere giornalmente da un uomo, dai figli, dagli amici.Abbiamo accantonato la parte migliore di noi perdendo sempre più fiducia in noi stesse, fingendo di crederci “superdonne”.Siamo state noi stesse, cedendo alla lusinga dell’immagine, a lottare per adeguarci a quella per sentirci immortali e credere che la vecchiaia fosse stata debellata, al prezzo di venderci il cervello, l’anima, il cuore, come novelle Faust.È a quel punto che siamo entrate in competizione con le nostre figlie, accecate dalla loro giovinezza, e abbiamo rinforzato così il messaggio che i media inviavano di continuo e che noi madri avevamo fatto nostro. Quello dell’immagine, del simulacro a scapito della vita.Quand’è che abbiamo permesso alla realtà, alla vita di confondersi ed assimilarsi ad un grande videogioco con cui nutrire i nostri giovani?Abbiamo tirato fuori la parte peggiore del nostro essere donne, cibandoci dell’intimità

vera o finta che veniva messa a nudo dai mezzi di comunicazione, senza dignità, senza pudore, solo per fingere di provare sentimenti di cui non conosciamo più il nome. Si è creata una nuova dipendenza : alla televisione e alla finta realtà che ci proponeva e continua a proporci.Abbiamo rinforzato il rapporto di estraneità con la

realtà e i sentimenti, prima attraverso videogiochi solitari, poi con le comunicazioni e le amicizie attraverso internet, telefonini multifunzionali con cui massaggiare continuamente a testa bassa, tenendo lo sguardo lontano dagli altri esseri , non ascoltando parole, non annusando effluvi di umanità, preparandoci alle relazioni asettiche e ingannevoli, per via telematica. Più facili da gestire della realtà. L’umano ci sta diventando sempre più estraneo, stiamo diventando dei mutanti. Di qui il passo alla dimenticanza, alla finta memoria è stato breve e all’avallare altre dipendenze come droga, alcool, assenza di desideri. Non siamo state in grado di aiutare le nuove generazioni perché abbiamo dimenticato noi stesse, ci siamo illuse di essere loro. Abbiamo scoperto all’improvviso che il mondo è cambiato con il nostro assenso. Forse è bene riprenderci la nostra responsabilità nei confronti del mondo, insieme alle nostre rughe, alla nostra età anagrafica. Ammettiamo pure che abbiamo paura della vecchiaia, della morte, della sofferenza, ma accettiamole come realtà ineludibili. Chi ci aveva detto che bastavano alcune conquiste di genere per deresponsabilizzarci e sederci in prima fila, davanti allo schermo della televisione, senza renderci conto dello sciacallaggio che veniva e viene perpetrato nei confronti delle nostre sorelle e delle nostre figlie! Non possiamo più dire che con il mondo noi non c’entriamo. Noi, dov’eravamo? Alziamo gli occhi da terra, guardiamo il cielo, l’orizzonte e riprendiamoci la nostra maternità negata nei confronti del mondo e nutriamolo!

Noi, stanche, sfinite, a testa bassa,

abbiamo cercato di modellarci su quelle donne, credendo che bastasse sembrare giovani,

essere ben truccate anche di notte, magre e sorridenti oltre

l’impossibile, per avere successo

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STORIE

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13.15.18.15.19.5 19.16.5.3.9.1.12.9.25.25.1.25.9.15.14.9

Amore e marzianità, alias handicap, disabilità o diver-sa abilità che si voglia, è un tema forse un po’ troppo scuro e troppo poco in chiaro, o forse talmente chiaro da dover essere tenuto un po’ alla scuro, in buona so-stanza potrebbe calzare a pennello per questa edizione di questa testata.Anni fa (molti a dire il vero) nella mia vita da opera-tore sociale con” le mie ragazze e i mie ragazzi” fum-mo invitati ad un raduno di motociclisti. Invito tanto “equo” quanto originale. Capita nel sociale di concerti benefici e partite del cuore, ma raramente la vicinanza con centauri vestiti di catene e pelle nera, avvezzi a valutare cromature luccicanti e micidiali “derapate”. Così accettammo!La “bancarella” con il nostro artigianato faceva bella mostra tra caschi aerografati, marmitte, cambi, ricam-bi, luci e gadget “motomonoassor-titi”. Avevano allestito anche una gigantesca gru che offriva l’eb-brezza di quella che allora era una novità il “Bungee jumping”, ovve-ro buttarsi da lassù legati per i pie-di ad un elastico ,e poco distante da noi, lo “stand” semplicemente dei tatuaggi ma già in odore di “ta-too”.Tanto per tornare al tema è indub-bio che l’amore, ovviamente con le più svariate e motociclistiche implementazioni e implicazioni, era oltremodo presente. Sotto zip, legacci, pelli nere e borchiate vi-bravano con grande evidenza pelli vere e pulsanti. Ovvio che questo “pulsare” fosse percepito anche dal nostro gruppo e un paio di ragazzi, un ragazzo e una ragazza, forse per conseguenza logica e persino scontata, pensarono che quello potesse il luogo giusto per concedersi un “amo-roso” e costante tenersi per mano.Certamente non diedi il giusto peso all’amoroso gesto, forse distratto nell’impegno di “mediare” nei confronti del mio gruppo altre oneste ma più evidenti perfor-mance degli amici centauri.Ma la portata di quelle mani reciprocamente legate ini-ziò a profilarsi con chiarezza quando alcuni colleghi mi avvisarono che il genitore di una di quelle mani mi sta-

va cercando con aria tutt’altro che affettuosa. Indubbi e definitivi i contorni della tragedia quando incontrai l’alterato padre che mi invitava, con scomposte, vivaci e non negoziabili argomentazioni, a fere meglio il mio lavoro evitando che la sua prole, a me improvvidamen-te affidata, potesse essere coinvolta in simili indegni atteggiamenti.E’ passato tempo da allora, Da allora ho osservato molte altre mani incontrarsi nel gesto “disabile” di un amore. Mani di amori down che compaiono con misu-rata regia nei format postal-televisivi, aumentando commozione ed audience. Mani che con un aiuto più discreto ma concreto avrebbero potuto avere storie di amori autonomi e indipendenti non tanto più diversi di tanti altri. Mani che continuano a non avere queste storie da raccontare.

Qua e là nelle agenzie stampa compare l’idea di “assistenti” al disabile amore, “lanci” subito se-guiti (e sopititi) da puntuali pole-miche.La ASL 3, ovvero la nostra, aderi-sce al progetto di ricerca “Amaa-bili”. E’ a cura del “Dipartimento di Culture Comparate, dell’Uni-versità per stranieri di Perugia, un “progetto socio sanitario integra-to sulla ricerca rispetto ai bisogni affettivi e sessuali di persone di-sabili”. Se potrebbe essere curioso che sia necessaria una “ricerca” per indi-viduare gli ardenti bisogni in og-getto, il fatto che a patrocinarla

sia una “Università per stranieri” avvalora la mia tesi dell’evidente marzianità di tali presunti umanoidi.E se tanto mi dà tanto e nella norma si va a cavallo mentre nell’handicap si fa “ippoterapia”, questi dipin-gono e quelli fanno “arte terapia”, i primi ballano e i secondi fanno “danza terapia”, resto in fiduciosa atte-sa, magari per il prossimo San Valentino, di una ade-guata, amorosa, specialità terapeutica.

Immagine: Serigrafia di Aurelio C. - Cartella “Arcevia 37° - 25 aprile 1981 - Nell’originale la chiave di let-tura è 16,18,15,12,5,20,1,18,9 - 4,9 – 20,21,20,20,15 – 9,12 – 13,15,14,4,15 – 22,14,9,20,5,22,9

di Giorgio Raffaelli

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SSTORIE

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Una custodia in cellophane. Dentro ci sono dei fogli ingialliti, scritti a mano con calligrafie diverse. Vecchie lettere in cui si nasconde la vita di due perso-ne. Leggendole, mi sono sentita come se stessi ad os-servarle dal buco della serratura, ferma immobile con il respiro leggero per non farmi scoprire e per non rovi-nare la delicatezza dei sentimenti che si raccontavano. Grazie a Lilli, che mi ha consegnato queste lettere e ha pensato che sarei stata in grado di scrivere di Alma e Antonio, i suoi genitori: lo farò con piacere e con grande pudore. Grazie soprattutto per avermi aperto lo scrigno dei ri-cordi e per aver condiviso una memoria così intima, in cui ogni pagina parla di un amore profondo, di rispetto, di sacrifici, di lontananza, di attesa, di speranza.

Nel 1950 Alma è insegnante elementare a Monticello, vicino a Todi, e vive presso una famiglia che gestisce l’unico negozio del paese. Torna a Foligno solo quando il Direttore le dà il permesso, usando mezzi di fortuna fino a S.Terenziano e poi con la corriera. Non le piace la montagna, è abituata a vivere in città, ma segue i consigli che Antonio le scrive: “Ciò che stai facendo è un dovere verso te stessa e verso la società e i doveri è necessario accettarli senza recriminazioni di sorta”. Sarebbe da scrivere un tema su queste due righe, ma mi limito a una battuta: allora, con tanti diritti ancora da conquistare, si parlava di doveri e della necessità di rispettarli: ora con tanti diritti conquistati, la parola “dovere” non esiste quasi più.

Antonio era nato a Volperino da una modesta famiglia, aveva studiato in seminario a Foligno, che raggiungeva in bicicletta dal suo paese. Dalle sue lettere ad Alma viene fuori un uomo delicato e tenero, quando scrive di loro, con un grande rispetto per lei e per i suoi ruoli di donna e di insegnante. Quando Alma raccon-ta di doversi sgolare tutte le mattine in due classi di tredici bambini ciascuna, Antonio le scrive: “Insegna loro molte cose, insegna loro ad essere cittadini one-sti ed intelligenti, insegna loro ad amarsi l’un altro, dì loro che siamo tutti fratelli e tutti uguali, dì loro che bisogna vivere in pace con tutti e insegna loro ad odia-re la guerra. Solo così adempierai ai tuoi gravi doveri d’insegnante oggi e ti preparerai ad essere una madre perfetta domani e gli scolari di oggi ed i figli di doma-

ni ti saranno eternamente riconoscenti per ciò che hai loro insegnato”. Ma Antonio è altrettanto determinato e forte quando scrive dei suoi ideali. Ho trascritto la lettera che se-gue perché vorrei che fosse attuale per tutti coloro che oggi si occupano di politica, come Antonio ha fatto fino al 1985. A prescindere dallo schieramento.

“Foligno 08/01/1950… e son convinto che insieme potremo essere felici; però ti ripeto quello che già ti dissi nella mia prima lettera: non ci sarà amore, per quanto forte possa es-sere, capace di farmi dimenticare i doveri che sento di avere verso un’idea che per me è infinitamente giusta, profondamente umana.Soffro nel più profondo del mio essere quando vedo un mio simile stendermi la mano, sono profondamente rattristato dal quotidiano spettacolo d’infinita miseria e di assoluto abbandono in cui vive tanta parte della nostra infanzia, mi commuove fino alle lacrime lo spet-tacolo dell’infelice che, buttato per terra come un sac-co di stracci, grida la sua infelicità ai passanti perché essi gli buttino un soldo per un tozzo di pane. Allevato con sani principi cristiani dalla cara ed indimenticabile mamma, cresciuto in una famiglia nella quale non si è rifiutato nulla a chi ha bussato alla propria porta, col crescere e con lo scoprire il vero mondo che ci circonda mi sono sempre più convinto della pochezza della ca-rità cristiana la quale nel XX secolo non è riuscita non solo ad eliminare questo triste spettacolo di povertà, ma che troppo spesso se ne dimentica addirittura.Cara, ecco da quale profondo convincimento trae ori-gine la mia fede, ecco perché non sono e non sarò mai capace di tralasciare di fare tutto quanto è nelle mie possibilità perché essa trionfi ed al più presto.Adoro l’umanità, ogni sua sofferenza è un mio dolore, ogni sua miseria è una mia spina; lo so, forse pensi che sia esagerato, forse ne riderai, ma questa è la verità, e la verità va sempre detta.In me non c’è odio di parte, in me non c’è desiderio di sterminio; credo fermamente alla vittoria della nostra causa e ad essa ho consacrato tutto me stesso.” Antonio

Parole piene di un significato che supera i confini di ogni tempo, parole che vanno oltre ogni gesto.

Parolesenza tempo

di Tania Raponi

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Non saprei dire cosa sia l’amore, talmente complessi e contraddittori sono spesso i molteplici sentimenti in esso coinvolti. Non saprei neanche dire se l’amore è solo un sentimento o anche qualcos’altro, forse un’istituzione, un modo di vivere, di pensare, di rapportarsi con gli altri… Se penso all’amore come concetto astratto mi vengono subito in mente altri due concetti, più concreti, collegati ad esso: il matrimonio e la famiglia. Ma se cerco di capire cosa dicono le grandi religioni monoteiste a tal proposito, invece che trovare risposte alle mie domande, tutto diventa ancora più confuso e così finisco per avere in testa più dilemmi di prima. Qualche esempio? Facilissimo. Facendo una breve analisi comparata delle due grandi religioni monoteiste, Cristianesimo e Islam, ho potuto constatare degli elementi interessanti e forse anche abbastanza controversi che toccano il tema del matrimonio e della famiglia, e quindi, credo, anche quello dell’amore, nella sua versione “istituzionalizzata”. Inutile dire che, nell’Islam, i versetti coranici che regolamentano il matrimonio e il rapporto uomo-donna sono innumerevoli, per questo voglio limitarmi a un aspetto che immagino la maggior parte delle persone conosca, quanto nel Corano viene detto espressamente, e cioè che un uomo può arrivare a sposare fino a un massimo di quattro mogli, tollerando la poligamia che viene invece rigettata dalla Chiesa cattolica. Il Corano autorizza a sposare fino a quattro mogli a patto che l’uomo che le sposi sia equamente giusto con ciascuna di loro: «[…] fra le donne che vi piacciono sposatene due, o tre, o quattro; ma se temete di non essere giusti, allora una sola […]» (sura 4, v.3) Questo è ciò che viene detto e questa è la domanda che allora può sorgere spontanea: ma come può un uomo essere perfettamente giusto ed equo con tutte le sue mogli? Come può non preferire certi aspetti caratteriali e fisici della prima, altri della seconda, eccetera? Come può riuscire ad essere imparziale fino in fondo con tutte e sotto ogni singolo aspetto? Se ci si riflette, è praticamente impossibile, nessuno è in grado di farlo. Soltanto, forse, un marito “ideale” che

non trova riscontri nella realtà. Ma allora questo potrebbe voler dire che sul piano teorico il Corano autorizza gli uomini a sposare fino a quattro mogli, ma che nella realtà pratica, concreta, consigli invece la monogamia, perché con una donna sola si può essere davvero perfettamente giusti ed equi e rispettare così l’armonia della famiglia. Da quest’ottica forse allora l’Islam sembra non pensarla poi così diversamente dal Cristianesimo… ma vogliamo davvero parlare di Cristianesimo? Beh, la famiglia tradizionale (monogamica ed eterosessuale) riveste un ruolo importantissimo nella nostra religione, senza ombra di dubbio… Ma ne siamo davvero così sicuri? La cosa più strana è

che le ombre sono gettate proprio da ciò che sta scritto da millenni sui testi sacri della religione. Da questo punto di vista si può davvero parlare di Gesù come di un grande rivoluzionario. Nel Vangelo di Luca si leggono infatti queste parole: «Grandi folle andavano con lui. Egli si rivolse loro e disse: “ Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e anche la propria vita, non può essere mio discepolo” […] » (Luca 14, 25-26) e ancora: «Pensate che io sia venuto per portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora in poi, se in una famiglia ci sono cinque persone, si divideranno tre contro due e due contro tre: il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora

Il matrimonio nel Coranodi Claudia Brandi e nei Vangeli

sembra che Gesù sia il primo a parlare male delle famiglie

dicendo di essere venuto

a dividerle e invitando al ripudio

di mariti, mogli, figli, fratelli, sorelle

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contro la suocera» ( Luca 12, 49-53). Dal Vangelo di Matteo: « Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Sono venuto a separare l’uomo da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora da sua suocera; sì, nemici dell’uomo saranno quelli di casa sua. Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me.» (Matteo 10, 34-37), e ancora: « […] E chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna. » (Matteo 19, 29). Nella lettera di San Paolo ai Corinzi: « […] è cosa buona per l’uomo non avere contatti con donna […] se non sanno contenersi, si sposino; è meglio sposarsi che ardere!» (1 Corinzi 7, 1 e 7, 9)A sentire le parole di Gesù in questi passi dei Vangeli e quelle di San Paolo, la famiglia sembra

essere relegata ad una condizione subalterna e degradante, quasi un ripiego rispetto a quella di coloro che scelgono il celibato, e anzi, coloro che rinunceranno ad avere una propria famiglia o la ripudieranno non commetteranno peccato, ma addirittura troveranno la Via per il Regno dei Cieli spianata dinanzi a loro. Ma come? Eravamo tutti d’accordo poco fa a dire che la famiglia riveste un ruolo fondamentale nella religione cristiana, mentre invece sembra che Gesù sia il primo a parlare male delle famiglie dicendo di essere venuto a dividerle e invitando al ripudio di mariti, mogli, figli, fratelli, sorelle….La confusione regna di fronte a queste parole, parole dette da Gesù Cristo in persona, scritte nei Vangeli. Il suo discorso è abbastanza disorientante: se infatti a tutti noi è sempre stata insegnata la grande importanza dell’indissolubilità dell’unione coniugale e la sacralità del vincolo del matrimonio, in questi passi si fa capire quanto sia

più importante invece rinunciare alla procreazione, al matrimonio e alla famiglia per essere maggiormente ricompensati nel Regno dei Cieli: un premio che presuppone la distruzione della propria famiglia di origine o di quella che si è voluta creare…. A voi non sembra contraddittorio? Come mai non si leggono mai questi passi delle Sacre Scritture nelle omelie domenicali e non li si spiega? Qual è la posizione della Chiesa di fronte a questi palesi attacchi che Gesù rivolge al concetto di famiglia? Cos’è l’amore e cos’è il matrimonio se è meglio rinunciarvi? Queste questioni non intaccheranno la fede di chi la possiede, ma nella mia ignoranza questi dubbi restano ancora insoluti e le domande frullano nella testa una dietro l’altra, a volte emergono con forza e fanno riflettere su quanto, in fondo, i concetti di amore, matrimonio, famiglia, tutti capisaldi della nostra società, siano in realtà molto spesso argomenti controversi e oscuri, che se letti sotto ottiche diverse danno luogo a interpretazioni spesso contraddittorie rispetto a quelle offerte dalle istituzioni religiose.

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Ci sono molti modi per delineare la storia di un uomo, la sua personalità, il suo ruolo sociale, l’impatto che egli ha avuto sulla società coeva; per definire i suoi affetti, le sue espressioni, anche fisiche, anche verbali: un ritratto, una registrazione.Niente di tutto questo è esaustivo: la personalità è mutevole, pur permanendo un fondo sostanziale in ognuno di noi; il ruolo sociale è come lo specchietto per le allodole: ogni membro dell’umana società lo vede e lo proietta a seconda del proprio ruolo e della propria parte politica, finanche assente; la gamma degli affetti che ciascuno di noi emana e riceve nell’intero corso della sua esistenza è soggettiva e talmente variegata e complessa che quasi ci perdiamo; il ritratto, mille ritratti mai riusciranno a darci quella che è la mobile espressività di ciascun essere umano, neppure la più spontanea registrazione o ripresa filmica, comunque artefatte, fisse, avulse dal tempo, dallo spazio. Arrivo a dire che neppure consegnarsi alla storia tramite un’autobiografia, produce una conoscenza esaustiva: ciò che emerge, è un ego parziale, filtrato dalla stessa relativa conoscenza che il soggetto ha di se stesso, filtrato dalla selezione delle informazioni da lasciare ai posteri.Una disfatta?Non direi: è un prenderne atto e, scoperti i limiti, procedere nel tentativo di avvicinamento e di conoscenza di un qualcuno che pensiamo valga la pena di conoscere.Questo qualcuno si chiama Domenico Benedetti Roncalli. Occasione esterna (a noi umani piacciono tanto le ricorrenze: danno un senso rassicurante dell’ordine del tempo) è il centenario della morte, avvenuta il 29 marzo 1910.Ci sono molti modi per delineare la storia di un uomo: io ho scelto il frammento dato dalla poesia di Aleandra Bartolomei e di Filippo Fidati. Aleandra, moglie di Domenico, donna di pregio, professionalmente e

culturalmente impegnata, poetessa, nasce nel 1845 a Preci, tra i monti e le valli, sempre agognate, della Valnerina. A Perugia, presso le suore del collegio di Sant’Anna, si diploma come maestra nel 1866. Diventa ispettrice nei primi anni ‘90, nel settembre del 1896 viene nominata direttrice didattica, nel corso della carriera riceverà molti attestati di benemerenza. Negli ultimi anni della sua vita scrive la biografia del marito, deceduto nel 1910; Aleandra gli sopravvive, tra rimpianti e dolori intimi, con il sollievo della scrittura, per altri sedici anni: muore il 23 febbraio 1926. La Bartolomei ha pubblicato (Foligno 1922) una sola raccolta di

poesie, intitolata Alcune poesie, titolo che rimanda a una scelta tra tante poesie, inedite; tra quelle edite, moltissime parlano dell’amato marito Domenico, il quale, politico capace di feroci battaglie civili, amava le viole mammole: e amare le viole mammole sminuisce o ridicolizza l’imponente figura pubblica? Oppure questo suo amore per l’umile fiore, questa sua sensibilità aiutano a comprendere il trasferimento della sua sensibilità verso i deboli, gli indifesi che ogni umana società produce con le conseguenti iniquità sociali? Nel linguaggio frammentario, evocativo della poesia, appare anche l’immagine politica, pubblica di Domenico, filtrata dalla tenerezza amorosa, dall’ammirazione incrollabile della consorte; così in Al mio marito diletto, dal sottotitolo

che non vedrò mai più, dove c’è una nota dell’autrice che, a proposito della frase: “Nessun dei qui raccolti”, chiarisce di quale occasione pubblica si tratti: “I congressisti repubblicani umbri che si fotografarono in gruppo a Foligno il 2 luglio 1911.” Nella poesia, distinto è il passato dal tempo presente; sebbene, però, siano distinti i tempi, sono comunque emergenti quelle peculiarità che fecero di Roncalli un personaggio eminente e carismatico:

Una musasocialista?di Elena Laureti

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Eri nell’età prima e il forte ingegnoT’avea già posto in alto; ed eri caroAl popol tuo che suo duce ti elesseE quando a lui parlavi, ognun rapitoDall’eloquenza tua ti venerava.La severa tua fronte rivelavaL’alma radiosa di bontà e di fede.Nessun dei qui raccolti la fiorenteTua bellezza conobbe, e la potenzaDell’ispirata tua parola, pochi.Eri affranto, diletto, ché le lottePria del tempo tua vita consumàroMa dalla mente tua serena il faroDi verità raggiò fino al dì estremo.

Dai versi, eventi storici documentatibili e documentati. Ancora una poesia ci testimonia tali fatti, o meglio, i misfatti dei tempi: lotta contro gli amici rinnegati, vili…affaristi…e più. Un verseggiatore coevo, il maestro elementare Filippo Fidati, consigliere comunale e assessore di fede socialista nel 1920, passato al partito comunista nel 1921, di debole ispirazione poetica, ancorché il suo linguaggio sia alto e sonante, retoricamente fiorito, e i suoi sentimenti appaiano autentici, dedica “Alla cara memoria di Domenico Benedetti Roncalli che negli ultimi anni della sua vita trasfuse la sua fede repubblicana sincera nell’ideale socialista”, un opuscolo, stampato in Foligno e contenente tre sue poesie (tra queste: In morte di Domenico Benedetti Roncalli), dal suggestivo, e rivelatore titolo: Riverberi poetici di una Musa socialista, con l’aggiunta sul frontespizio: Ricordo del…1913. Un semplice opuscolo contiene quindi la risoluzione delle controversie biografiche, storico-politiche, sulla fede d’appartenenza del Roncalli? Fu un repubblicano tutto intero oppure passò alla fede socialista? Mai ebbe contatti con il socialismo, lui integro repubblicano, oppure dimostrò aperture e simpatie per il nascente movimento operaio? Anche le poesie aiutano le biografie:

Grande, nel nulla sei tornato: mutoil labbro tuo si fe’;ora che su di te chiusa è la baras’apre Foligno a te.Fosti e sarai tu di Foligno il core,il palpitante cor;pur chi t’irrise vivo or sul ferètroversa lamenti e fior.Fosti sì grande che la tua cittadetroppo piccola fu;vivo non ti comprese, ora ti piange,or che non vivi più.Ohimè!...il respiro gli togliesti, o morte,ed ei fu che svegliòtante e tante alme con la voce ardente

che dal cuore tuonò.[…]A liberarlo dall’estrema lotta,morte, giungesti tu:lotta contro gli amici rinnegati,vili…affaristi…e più.Tutto alla città patria e’ dette e questa a lui il disprezzo die’;ma calmo nel disprezzo e contro tuttimantenne la sua fe’.A te la nostra verde Umbria commossas’inchina come a un re;s’inchina e piange: il tuo corteo funèbreun trionfo è per te.[…]Popolo immenso al tuo ferètro accorre:su le teste ondeggiarecco il funebre carro e par che ondeggisul fluttuante mar.[…]Vivi nel cor di tutti e pur vivraieternamente ancor;gleba non torna nel fulgineo suoloil tuo fervido cor.La tua tomba è un insulto agli spergiuri;per noi tutti un altarove a te fede e agl’ideali nostrisì, verremo a giurar.

Una cronaca in diretta, in versi, del funerale di Domenico, testimonianza di un evento esterno, ed insieme il rinnovato consenso delle doti umane, civili e politiche che Roncalli seppe ben rappresentare per la sua città, ma anche acerbe accuse contro gli amici rinnegati: questa poesia è dedicata, sarcasticamente ritengo, a Francesco Fazi. Debole l’ispirazione poetica di Fidati, un leone nel coraggio dimostrato nello svergognare pubblicamente, proprio con la dedica, l’altro rilevante personaggio politico, che male si era contenuto nei confronti di Domenico Benedetti Roncalli. Anche le poesie, documenti storici, ben oltre il loro specifico afflato poetico, coadiuvano le operazioni di ricostruzione delle storie degli uomini.

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STORIE

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La storia della première dame è semplice: una battaglia, come si suol dire, vinta a tavolino, senza colpo ferire; la sua grazia, la sua soavità, la sua bellez-za, la sua intelligenza, la sua appartenenza alla socie-tà che conta hanno espugnato l’Eliseo, senza che sia stata opposta una vera resistenza, c’è stata una resa a discrezione.Molto più dure, più lunghe, più articolate le battaglie condotte da Peppina.Peppina nasce a Vescia nel 1921, le muore la madre a soli 14 anni, deve accudire da subito il suo fratellino, frequenta con grande difficoltà la scuola fino alla se-conda elementare, perché deve lavorare. Si sposa con un giovane imbianchino, ma il lavoro scarseggia, le dif-ficoltà economiche aumentano dopo la nascita di un secondo figlio.Nel 1957 si decide di tentare la grande avventura: si espatria in Francia, destinazione Marsiglia.Si parte con poche cose, tanta speranza e due bambini, uno di otto anni, l’altro di un anno soltanto.Il capofamiglia trova subito lavoro, il bambino più gran-de va a scuola, Peppina combatte le battaglie quotidia-ne con un piccolo bambino al seguito. Come fare la spesa? Lei non capisce una parola di francese, nessuno capisce lei.Ci sono molti negozi con una scritta grande: CASINO; lei crede che la parola significhi ciò che significa in Italia in quei tempi, quindi qualcosa da evitare! Non sa che in Francia, in un posto del genere, si vendono prodotti alimentari.Intanto comincia a lavorare anche lei, i lavori più pe-santi, nei campi con il caldo e con il freddo, dove capi-ta.. Nel frattempo i figli crescono, studiano, anche lei comincia a parlare un po’ di francese, un francese ita-lianizzato, mescolato al dialetto di Vescia: lu scioffage elettrico (riscaldamento), lu frigidero (frigorifero), lu pignottante (le frecce della macchina). Quando i figli e lei stessa si ammalano, è tanto difficile capire ciò che i medici dicono, ma tutto passa!Con il frutto del lavoro si costruisce una bella casa, ai lavori provvedono tutti e quattro i componenti della fa-miglia, facendo da muratori, da manovali, con Peppina che oltre a lavorare tiene i conti per potercela fare.

Pian piano i figli si sistemano, si sposano, nascono i ni-poti, cittadini francesi, che studiano fino a laurearsi.Quante soddisfazioni finalmente!Ora Peppina ha 90 anni, continua a parlare la sua lingua ibrida, “veciaro francesizzato” ma tutti la capiscono e la amano.La soddisfazione più grande? Uno dei suoi figli è il vice-sindaco del paese in cui abita.Peppina ce l’hai fatta!Un’altra italiana dietro le quinte della politica france-se!

Peppinà e Carlà di Rita Barbetti

due italiane alla conquista della Francia!Disegno di Fabio Tacchi

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SSTORIE

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È un’opera eseguita nel 1863 da Odoardo Borrani, pittore macchiaiolo contemporaneo dei forse più noti Lega, Signorini, Fattori, che scoprii, anni fa, proprio studiando la pittura italiana di quel periodo. Ho poi avuto modo di vederlo nel 2008 nell’ambito della mostra: Ottocento. Da Canova al Quarto Stato, alle Scuderie del Quirinale. Si tratta di un piccolo dipinto in cui un interno borghese è raffigurato nei minimi dettagli. Confesso che una delle prime cose ad aver attirato la mia attenzione, è stata la tenda ed il bastone a freccia su cui è appoggiata, perché recentemente ne avevo visto una pressoché identica in una nota rivista di arredamento. Sulla destra un piccolo mobile e su di esso oggetti disposti con cura: il vaso con i fiori, la lampada ad olio, l’orologio, la fruttiera di cristallo, una conchiglia. Si dice che la raffigurazione di alcuni di questi oggetti sia stata suggerita a Borrani dalla lettura di Flaubert, in particolare dalle descrizioni degli ambienti in Madame Bovary. Così come accadeva, d’altronde, anche agli impressionisti con i romanzi dei loro contemporanei Zola ed Hugo. Alle pareti alcune stampe, tra le quali se ne riconosce una raffigurante Garibaldi. Sopra questa una stampa di Venezia, che a quella data non era ancora stata liberata. La luce entra dall’ampia finestra illuminando il tavolo da lavoro; intorno ad esso quattro donne stanno cucendo camicie per i garibaldini. Una, forse la madre, è più anziana. Sono attente e silenziose, sembrano quasi raccolte in una muta preghiera. E’ una scena quotidiana, intima, realista; proprio perché comune, é quasi banale. Come voleva essere la pittura di quegli anni, per liberarsi definitivamente dei temi accademici

e rappresentare finalmente la vita. Quella vera. Quella di tutti. Quella della gente comune. Quella delle donne. Che vivono la storia stando ai margini, nel quotidiano. A cucire camicie che gli uomini indosseranno in combattimento. Il colore è già quello del sangue, e loro lo sanno. La testa è china sul lavoro non solo per l’attenzione richiesta. Chissà quali pensieri e presagi, tali da oscurare anche questo interno apparentemente sereno.

Quella soffusa luce al tramonto promette lutto e dolore. Solitudine ed attesa. La storia entra da quella magnifica finestra arredata con gusto e ci travolge veloce attraverso i decenni e le guerre e le distruzioni, gli orrori, gli errori. Ci travolge e ci lascia sbigottiti a guardare un così semplice angolo di esistenza umana, con i suoi oggetti, le sue azioni, i suoi pensieri. La storia entra da quella finestra e con orrore percepiamo la distanza che separa quel silenzio raccolto e le urla e il clamore dei campi di battaglia. Tra quell’ordine, quella cura, e il fango e il sangue rappreso.Ma quella stessa luce incornicia con garbo le teste, dà sacralità ai gesti, rende immortali le donne che da sempre danno senso alla vita con la banalità

del quotidiano. Questo salotto è un luogo sicuro e privilegiato da cui si può partire e nel quale, con un po’ di fortuna, si può ritornare. E’ una promessa, una speranza, un premio. E’ la storia muta e discosta, senza nomi né date, che con ago e filo mette insieme pezzi di stoffa e pezzi di corpi. Brandelli di anime, frammenti di vite consumate nell’attesa o donate alla Patria. Borrani ha involontariamente reso immortali quelle donne: chi ha solamente cucito le camicie per i garibaldini, ha il diritto e l’onore di essere ricordato?

Le cucitrici didi Carla Olivacamicie rosse

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STORIE

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La repressione che colpì Ettore Sesti (Chiaroscu-ro, n. 6, nov. ’10) non fermò le manifestazioni. Ad un certo momento, busti di Vittorio Emanuele furono esposti nei “primari caffè” e il 17 maggio del ’60 (si badi: Garibaldi, il 15, aveva sconfitto le truppe bor-boniche a Calatafimi) la polizia li rimosse, assogget-tò alla più rigorosa sorveglianza i conduttori di caffè e negozi e vari cittadini “maggiormente sospetti”. L’ordine veniva da Perugia e lo aveva emesso addi-rittura il generale Lamoricière, comandante in capo dell’esercito pontificio. Perché tanta sollecitudine è presto detto: si era “rile-vata” una “intimidazione invalsa negli animi di quei funzionari governativi”. Con Sesti, altri Folignati fu-rono incarcerati: Domenico Cerretti, Feliciano Chiodi, Giuseppe Sodi, Giuseppe Spadoni, Daniele Zamboni. Una volta uscito di galera, Sesti prendeva la via della Toscana, come tanti Umbri; ed egli non fu il solo foli-gnate, in quanto partirono per la Toscana ad arruolarsi volontari nelle régie trup-pe Enrico Attili, Feliciano e Francesco Albanesi, Miche-le e Odoardo Alimenti, Cesare Cagnoni, Alessandro Fiordiponti, Giuseppe Gatti, Luigi Pargini, Ubaldo Toni e Mariano Tucci. Insieme a costoro, ripresero le armi Luigi Cecchini, Alessandro Mannucci, Luigi Petri, il te-nente Vincenzo Rutili che ho già ricordato, combat-tenti che avevano partecipato alle campagne e alla grande epopea repubblicana del 1848-1849; nonché Raffaele Bartocci, Raffaele Brunelli, Vincenzo Ghinas-si, Augusto Pagliarini, Raffaele Solani, che le armi le avevano riprese già dal 1859, con Garibaldi e i Caccia-tori delle Alpi quindi arruolandosi nella terza delle tre divisioni formate in Emilia (fine agosto del ’59) dalla Lega militare dell’Italia centrale, la divisione garibal-dina, nei reparti comandati dal colonnello Luigi Masi. Ma di Folignati “accorsi a difesa della Patria” tra il

1859 e il 1860 ve ne furono almeno altri ottantasei. Tutta gente del popolo. Lo stesso popolo che, il 15 settembre del ’60, si sarebbe rallegrato e avrebbe gridato evviva e sventolato il tricolore. Entrati i Pie-montesi in Foligno e insediata la nuova amministra-zione comunale provvisoria, presieduta, com’è noto, dal medico Francesco Mascioli, le giornate del Plebi-scito, con quelle che lo precedettero e quelle che lo seguirono, furono memorabili. Si trattava di esprimere nella maniera più consisten-te, plebiscitaria appunto, la volontà di “unire” (que-

sto era il verbo utilizzato nei documenti ufficiali) le provin-ce che formavano l’Umbria in quel momento - Perugia, Spoleto, Orvieto, Terni - alla Monarchia Costituzionale di Vittorio Emanuele II. La logi-ca della formula adottata era chiara: le province già pon-tificie, ovvero le componenti territoriali-amministrative di uno Stato in dissoluzione, con il sistema del plebiscito veni-vano “unite”, congiunte, non “annesse”, semplicemente, colonizzate, assimilate. Con l’unione, il Regno Sardo am-pliava il territorio dello Stato,

ma ciò avveniva perché un Plebiscito congiungeva un popolo ad un re, il quale, a sua volta, traeva il proprio potere da una costituzione fondativa dello Stato stes-so - lo Statuto Albertino -, la Carta fondamentale che unificava in sé, facendole diventare una sola cosa, la grazia di Dio e la volontà della Nazione.Un decreto di Gioacchino Napoleone Pepoli, Commis-sario generale straodinario per l’Umbria, “intimò” i comizî e il Plebiscito si tenne il 4 e il 5 di novembre del 1860. Come nel resto dell’Umbria, anche nella nostra città fu costituito un Comitato preparatorio: presieduto dal notaio Pio Valeri, era composto da Giovanni Ciancaleoni Ricci, Giuseppe Marini, Ettore Sesti: personaggi tutti del Risorgimento. Il 29 otto-bre, si aprì ufficialmente il ciclo plebiscitario: Questa

Nel Novembredi Fabio Bettoni

del 1860

Ma di Folignati “accorsi a difesa

della Patria” tra il 1859 e il 1860 ve ne furono almeno altri ottantasei.

Tutta gente del popolo. Lo stesso popolo che, il 15 set-

tembre del ’60, si sarebbe rallegrato e avrebbe gridato

evviva e sventolato il tricolore

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SSTORIE

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mattina - si scrisse su di un diario del tempo - hanno incominciato a toccheggiare le campane del Pubblico e della Cattedrale e si è ripetuto prima di mezzogior-no e prima dell’avemaria, e così si seguiterà fino alla votazione. Circa le 4 pomeridiane è arrivato il signor Commissario regio straordinario marchese Gioacchino Napoleone Pepoli da Perugia, col marchese Gualterio [vice commissario per la provincia di Perugia]. Sono stati ad incontrarli il concerto nostro e quelli di Spello e Bevagna. Sono smontati al palazzo Orfini preparato con tutto lusso. Vi è stato gran pranzo, durante il qua-le i Concerti suonavano alternativamente ed il popolo applaudiva. Nella sera vi è stata generale illuminazio-ne e i Concerti giravano per la città accompagnati da

molte file di torce con una bandiera per fila, e molto popolo. Le torce erano 100, ma tutte, come quelle del palazzo del comune, a spese del Comune, e così il pranzo ed il veglione in maschera dato nel teatro.Ripartiti (il 30) i due personaggi, il 31 fu un giorno di avvisi preparatori: Gira una deputazione – scrisse il diarista - composta dalli signori Luigi Casalini, Angelo Ambrosi, Luigi Alleori ed altri invitando i proprieta-ri delle case a metter fuori, domenica 4 novembre, le coperte e bandiere. Furono allestiti i seggi per l’espressione del voto: alle Logge in via della Fiera (oggi corso Cavour), nei locali del Palazzo Comunale, del Pubblico Ginnasio (allora nel Seminario) e del con-vento di San Domenico. Il 4 novembre, finalmente, l’evento. All’aurora - è an-cora il notista del tempo a raccontare - il suono delle campane del Palazzo e della Cattedrale annunziava

essere il giorno della votazione. Alle 7 tutte le case erano addobbate con coperte e bandiere tricolori. Alle dieci antimeridiane ha incominciato la votazione [...] Dopo le 11 ha incominciato una processione col Concerto cittadino. Precedeva una carrozza con entro la signora Giglia Gregori e la signora Filomena, figlia del signor chirurgo Mascioli, ed il signor Paolano Fren-fanelli che portava la bandiera da presentarsi al si-gnor Vice Commissario a nome dei reduci. Era seguita dal Corpo Municipale con tutti gl’impiegati. Venivano quindi molti plotoni di reduci del 1831, 1848, 1849, 1859 e ’60, ciascuno con una bandiera. Fra quelli del 1831 vi erano il signor marchese Girola-mo Barugi e il signor Francesco Gentili Spinola. Infine

vi erano in diverse carrozze tutti i superstiti reduci di Na-poleone I ed ognuno portava una bandiera. Suonavano le campane del Palazzo e della cattedrale, e tutti questi re-duci sono andati a votare. Vi erano molti “Evviva” al Re, Garibaldi, Cavour, ecc. In tut-ta la giornata giravano drap-pelli con bandiera. Nella sera tutta la città era illuminata, suonavano le dette campa-ne, ed il detto Concerto ac-compagnava un inno. Erano molti drappelli con bandiere e torce, ma pochi “Evviva”. Tutte le bandiere che porta-vano i reduci furono fatte a spese del Comune. La succes-siva giornata del 5, fu ancora giorno di votazioni fino alle 5 pomeridiane. Nella sera - si notò - nuova illuminazione,

coperte per le finestre, Concerto. Potevano votare soltanto gli uomini, con età superiore ai 21 anni e che godessero dei diritti civili; i Folignati aventi diritto al voto erano 5.281: nella città erano 4.486; gli aventi diritto nei centri comunali appodiati di Colfiorito, Rasiglia e Scopoli erano 795. Votarono in tanti: 4.182 furono i voti favorevoli all’unione, 6 i contrari, 3 i voti annullati. Il diarista, un papalino non pentito e addolorato, mise un pizzico di acredine sulle pagine del suo quaderno: La votazione è andata in piena regola - scrisse - e dicesi che i voti sono stati più di 4.000; ma vi erano di quelli che ne mettevano a manciate, e perfino per conto dei morti!!! La polemica sarebbe riesplosa alla fine dell’Ottocen-to, con l’immancabile Gazzetta falociana a far da battistrada.

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STORIE

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Stradedi Claudio Stella

Strade. Sentieri di montagna che si inerpicano. Mu-lattiere perdute tra i boschi, impercettibili percorsi tracciati da pecore e capre. Questi viottoli sono lo sce-nario delle mie passeggiate estive. Tutte le mattine di agosto, dal mio ritiro di Morro (la bambina de “L’ele-ganza del riccio” lo chiamerebbe il mio “buon nascondi-glio”) me ne vado per questi monti. Mi piace svegliarmi presto la mattina, il silenzio sublime del mondo che an-cora riposa, che accoglie le ultime carezze della notte, prima di immergersi di nuovo nel grande frastuono dei vivi; mi piace il profumo aspro dell’alba, i primi colori del cielo, il caffè forte che scende prendendo a pugni neuroni e succhi gastrici. E poi via, il mio vecchio ba-stone un po’ storto e il mio cane Mirtillo che scalpita, pregustando l’avventura del bosco. Mi piace camminare tra questi boschi: mi sento vivo, mi sento un corpo sano in una mente molto vigile e pronta ad assorbire odori e pensieri. Mi piacciono queste mattine d’estate pro-fumate di felci, di fiori nascosti nell’ombra, di funghi inviolati. Fruscii improvvisi evocano animali sconosciu-ti, esistenze che si consumano tutte nella penombra misteriosa, lontano dai nostri occhi invadenti. E poi il piacere di giungere in cima, la montagna che si spa-lanca, rivelandoci presagi d’infinito. Irruzione di luce, di sole, corone di monti che ci avvolgono, vertiginose pianure che si offrono al nostro sguardo riconoscente. L’aria limpida e dissetante che ci accarezza. È la gioia della meta, una piccola vittoria che si celebra con un sorriso, un’umile fierezza che ci riempie i polmoni.Arrampicarsi tra queste rocciose asperità oggi si chia-ma fare trekking, è il passatempo di signori molto adul-ti che essendo normalmente esentati da ogni fatica fi-sica nella loro vita lavorativa provano a farsi venire un infarto durante le ferie per raggiungere una cima, dopo otto massacranti ore di cammino. Ma per mio nonno cento anni fa questo era un posto di lavoro, qui si consumava, ogni giorno, la lotta faticosa per la sopravvivenza. Qui veniva a coltivare terreni che per la loro pendenza oggi potrebbero essere buoni solo come piste da sci; si combatteva per strappare ai sassi un pezzo di terra dove poter piantare patate o persi-no grano, per uno striminzito raccolto enormemente sproporzionato alla fatica. Mio nonno percorreva due chilometri per andare a prendere l’acqua alla fonte di

san Martino, costeggiando i ruderi di un antico mona-stero: vite ancora più remote, generazioni di frati me-dievali di cui restano solo pochi sassi e ossa nascoste nel ventre profondo della terra. Qui mio nonno trovava l’acqua che serviva per la casa: è divenuta proverbia-le la frase che il padre o la madre dicevano al figlio, magari appena tornato dal lavoro dei campi: “Intanto che ti riposi, vai a prendere l’acqua a san Martino”. Oggi Morro è un paesino quasi spopolato: d’inverno vi abitano solo sei persone, anche se negli ultimi tempi c’è stato un incremento demografico del 50%, visto che si sono aggiunte tre badanti ucraine e albanesi, confe-rendo questo tocco multietnico assolutamente impre-vedibile fino a ieri. Ma al tempo di mio nonno, parliamo dei primi anni del novecento, le case erano tutte piene di gente, le famiglie erano molto numerose: c’era vita, ma anche tanta miseria; c’era un analfabetismo quasi totale, c’era un isolamento culturale, una lontananza incolmabile dalla città e dai suoi mirabolanti progressi tecnologici. La vita, come nei villaggi della Sicilia ver-ghiana, si perpetuava immutabile, quasi cristallizzata nelle sue usanze e nei suoi gesti quotidiani. Eppure, in questa realtà apparentemente immobile, un giorno mio nonno Gaetano decise di partire per l’America. Non conosco molto di questa pagina della mia storia familiare, il pozzo del tempo ha inghiottito quasi tutte le memorie. So che è partito dal porto di Napoli, nel 1912, in compagnia di un parente, so che ha lavorato in miniera, in Pennsylvania e nel Wyoming. Mio nonno era un lavoratore straordinario, sostenuto da una grande forza fisica. Aveva diciannove anni quando è partito: provo a immaginare il timore e lo smarrimento di quel suo primo viaggio per mare, lui che il mare non l’aveva mai neppure visto; lo visualizzo mentre osserva sbigot-tito i primi grattacieli di New York (anche se nel 1912 ce n’erano solo un paio), mentre entra nell’immenso formicaio multietnico di Ellis Island, crocevia di innu-merevoli storie di dolore e di speranza. Il tragitto che lo ha portato da Morro a New York non è stato solo un viaggio transoceanico, la nave che lo ha trasporta-to era una macchina del tempo, un’astronave che lo ha proiettato in un vertiginoso futuro, in un pianeta inimmaginabile, popolato di automobili e di aerei, di macchine portentose che mietevano e trebbiavano il

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SSTORIE

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grano. Ma questo regno del futuro non era un paradiso: anche lì i poveri faticavano e i grattacieli non si ve-devano dal ventre polveroso della miniera. È tornato in Italia nel 1920, dopo otto anni: ormai era un uomo, arcigno e di poche parole. Ha vissuto a Morro il resto di una vita abbastanza lunga, serbando nella mente il ricordo dell’America.

Ho ripensato a lui una mattina di novembre di vent’an-ni fa, un treno che correva verso il nord e su quel treno c’ero anch’io. Il giorno prima una voce dall’accento lombardo mi aveva annunciato una supplenza in una scuola media di un paesino della val Seriana; quel tre-no, a ben vedere, mi conduceva verso la prima stazio-ne della maturità, mi costringeva a fare i conti con i cosiddetti doveri degli adulti. Ma per me era anche – soprattutto – qualcos’altro: esso viaggiava verso mondi

ancora inesplorati, era la mia diligenza per il west, era, appunto, la nave che aveva portato mio nonno in Ame-rica; era il treno dell’avventura e solcava una pagina nuova della mia vita, ancora tutta da riempire. Avevo paura, sapevo che mi sarei ritrovato totalmente solo in un luogo totalmente sconosciuto a fare un mestie-re riguardo al quale nessuno mi aveva insegnato nulla. Ma avevo voglia di oltrepassare questa nuova frontiera, sentivo dentro l’energia necessaria per le sfide che mi attendevano. Sono arrivato a Bergamo che era già not-te. Sono sceso dal treno con due pesantissime valige e mi sono infilato nell’albergo più vicino, che si chiamava

fantasiosamente albergo “Stazione”. Ricordo una pic-cola camera squallida e pulita, quadri floreali alle pare-ti, dipinti da una mano visibilmente priva di talento. Mi sono steso sul letto; sono rimasto immobile per alcuni minuti, respirando il silenzio di questa mia nuova soli-tudine. Giungevano dal viale sottostante suoni di auto, l’ansimare notturno della città sconosciuta. Dentro di me un groviglio di sensazioni diverse e contrastanti: nostalgia, eccitazione, senso di abbandono, bisogno di un surrogato di utero nel quale trovare rifugio. Finché, dopo aver guardato l’orologio e constatato che erano le otto e mezza, una brusca voce interiore mi ha riscos-so da questo stato di torpida inquietudine:“ Nessuno verrà a chiamarti per la cena. Ormai, che tu lo voglia o no, sei tu il padrone della tua vita.”Pertanto fieramente sono uscito a cercare una tratto-ria. Ma poiché le mie capacità di “homo faber” non

erano ancora ben col-laudate, ne scelsi una che rivelò poi di usur-pare in modo invere-condo il proprio nome di “Bolognese”. E più tardi, mentre mastica-vo svogliatamente una porzione di pessimi tortellini, per respin-gere i sintomi di una insorgente malinconia, provai ad immaginare che volto avrebbe avu-to la mia prima ragaz-za bergamasca.

Strade. Le strade che da Tirana o da Kiev portano a Morro. Le strade che da Morro portano a New York, da Foligno a Bergamo. Strade. Traiettorie di vita, incroci bizzarri di sogni e di bisogni, caos

brulicante di destini che si compiono. Qualcuno scrisse che ci affanniamo tanto solo per trovare un buon posto dove morire. Siamo, dunque, operosi viandanti del nul-la. Ma la strada è l’emozione della vita.

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PERSONE

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Ascoltando i racconti degli immigrati a Foligno raccolti nel dvd “Ti racconto il futuro. Interviste agli immigrati di Foligno”, realizzato dall’Officina della Memoria, noto come il loro italiano e il loro accento suonino al tempo stesso estranei e incredibilmente familiari. Alcuni di loro hanno una pronuncia insolita, ma una cadenza indubbiamente folignate; qualcuno fa qualche errore grammaticale, ma usa espressioni e modi dialettali umbri. In effetti, ciò che definisce lo straniero ai nostri occhi, l’elemento più evidente, il primo sensore di estraneità o, al contrario, di vicinanza, è indubbiamente la lingua. In passato le varie lingue straniere con cui l’italiano veniva a contatto lasciavano molte tracce come forestierismi, prestiti o calchi linguistici. Si pensi, ad esempio nell’ambito delle lingue orientali, all’influsso dell’arabo nel lessico matematico-scientifico. Al contrario oggi, le lingue dei nostri immigrati non hanno alcun influsso sull’italiano, sono prive, ai nostri occhi, di quel prestigio sociale e culturale, che invece permette ad una lingua dominante (oltre che necessaria e diffusa) come l’inglese di arricchirci copiosamente di termini che vengono velocemente assorbiti o anche italianizzati. Ai cittadini immigrati è richiesto di parlare la nostra lingua, nessun termine proveniente dall’Europa dell’est, dal Medio Oriente, dall’Asia o dall’Africa è riuscito a farsi strada nel nostro vocabolario. Credo sia importante riflettere sul perché.

Pensando al passato non proprio prossimo, mi vengono in mente due esempi riguardanti il rapporto nostra lingua/lingua degli altri: gli antichi Greci chiamavano barbari gli stranieri non parlanti la loro lingua, usando una parola onomatopeica per indicare coloro che danno l’impressione di balbettare o borbottare. Stando ad alcune testimonianze, addirittura non consideravano le lingue straniere neppure delle lingue (ad esempio nelle Trachinie di Sofocle la terra straniera viene definita “senza lingua”). Quasi due millenni dopo, quando Colombo arrivò nelle Americhe, poiché non comprendeva la lingua dei suoi interlocutori, pensò bene, di nuovo, che non si trattasse di una lingua.

In genere noi tendiamo a risolvere il nostro rapporto con lo straniero proveniente da culture lontane in due soli modi:

o convertiamo la differenza in diseguaglianza, ed era il caso dei Greci e di Colombo per cui la diversità diventa inferiorità e quindi esclusione, oppure confondiamo l’uguaglianza con l’identità: tu sei uguale a me quindi devi essere identico a me per essere accettato, parlare la mia lingua, adottare le mie abitudini, la mia cultura ecc. Quest’ultima è la soluzione adottata generalmente dal mondo occidentale. L’assimilazione diventa anche un desiderio, un’esigenza dello straniero, che vuole assomigliare il più possibile agli abitanti del paese dove si trova a vivere. Se pensiamo ad esempio ai termini più usati in riferimento all’immigrazione: “integrazione”, “inserimento” è difficile non percepirli come sinonimi di “assimilazione”, “omologazione”. Tornando alle interviste in “Ti racconto il futuro”, questo paradigma di uguaglianza/identità è pienamente espresso dal racconto di una donna riguardo alle difficoltà e ai pregiudizi incontrati in Italia per indossare il velo: in perfetto italiano, enunciando un paradosso, dice: “Ho capito che per essere libera mi devo adattare a quello che mi sta attorno” . La ragione per cui la nostra lingua è totalmente impermeabile agli influssi delle lingue dei cittadini immigrati, perciò, credo si trovi proprio in questo processo di assimilazione che richiede loro di adattarsi completamente alla nostra identità (anche linguistica) o esserne completamente esclusi.

A questo punto ci si chiederà: esiste un’altra soluzione che risolva il problema della “integrazione”, o forse sarebbe meglio l’aggregazione culturale? Tzvetan Todorov, studioso che si è occupato più volte di quella che potremmo definire la questione dell’altro e lui stesso immigrato in Francia dalla Bulgaria, sostiene che la soluzione, tutt’altro che facile, è “vivere la differenza in un contesto di egualitarismo”. Aggiunge Todorov: “Rispettando e proteggendo le proprie minoranze, un popolo opera per il suo proprio bene. Per il fatto che le minoranze sono un elemento particolarmente dinamico di ogni società” e “una cultura è come la nave di Argo della leggenda: fra la partenza e il ritorno, tutte le tavole e le vele hanno dovuto essere cambiate; nonostante ciò è sempre la stessa nave che ritorna al porto”.

La navedi Giulia Moriconi Argo

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SPERSONE

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Portafortuna, amuleti,di Mario Barbetti

fatture, occhiaccio

“A sta fija tocca faje sfascià l’occhiacciu”, andava sempre più spesso ripetendo mia suocera riferendo-si a mia figlia Luciana di due anni, perché questa non dormiva, non mangiava, non stava un attimo ferma... insomma non dava pace. Tanto fece e tanto disse, mia suocera, che un pome-riggio si presentò direttamente nella nostra casa a Vil-lamagina, dove allora abitavamo, Annetta, la speciali-sta locale in materia : una vecchietta bassa, arzilla e rotondetta, amante del buon vino, famosa per i suoi interventi risolutivi in materia di malocchio e fatture varie.Annetta, fra la malcelata curiosità di tutti i presenti, ottenuto il silenzio assoluto, altrimenti, ci disse, non faceva effetto, iniziò subito le sue pratiche magiche: si fece consegnare un indumento di Luciana, mise dell’acqua in un piatto e, pronunciando giaculatorie e incomprensibili frasi pro-piziatorie, lasciò cadere in essa delle gocce d’olio con il dito mignolo della mano sinistra, precedentemente in esso intinto. L’olio si di-sperse e scomparve nell’ac-qua: la diagnosi immediata fu di un malocchio molto forte ma, fortunatamente, benigno. Annetta gettò l’acqua dal piatto e ricominciò tutto daccapo. La procedura fu ripetuta diverse volte fino a quando, finalmente, la goccia dell’olio non rimase integra sul pelo dell’ac-qua: l’occhiaccio era stato sfasciato. Così ci assicurò l’esperta, bontà sua. Ovviamente l’indomani non cambiò nulla, mia figlia continuò a manifestare la sua naturale esuberanza di una bambina di due anni.Il fatto descritto, nella sua semplicità, è realmente ac-caduto: tutto vero, quindi, cause, ambiente, personag-gi e ruoli.La fascinazione ( malocchio, fatture ecc…) era abba-stanza praticata nella nostra montagna e soprattutto

in Valnerina fino agli anni sessanta/settanta del secolo scorso. Ampiamente conosciuta già nel mondo greco e romano essa consisteva in un insieme di comportamenti, rego-le, mezzi e riti che investivano tutto e tutti, uomini, donne, animali, usanze, comportamenti ecc…. ossia la vita in tutte le sue espressioni.Esisteva una vasta letteratura sui comportamenti per dare o non dare il malocchio e sul modo di comportarsi in particolari situazioni, su come individuarlo ed even-tualmente toglierlo a chi ne era vittima. Chiaramente i casi più ricorrenti di possibili forme di malocchio erano legati ai fatti salienti della vita quali il matrimonio, la nascita, l’allattamento e la crescita dei figli, gli affari, la cura del bestiame da lavoro, i lavori dei campi, i raccolti e la conservazione degli stessi, la carriera, le

malattie degli uomini e de-gli animali. Esistevano, ovviamente, re-gole di difesa contro il ma-locchio e adeguate formule protettive legate a partico-lari situazioni e/o a partico-lari azioni ( mio padre dice-va che quando si entrava in una stalla si doveva sempre dire Sant’Antonio te l’aiuti e il padrone doveva risponde-re Sant’Antonio lo faccia). La convinzione consolidata era che il malocchio non at-taccasse chi stava in grazia di Dio.Esistevano anche segni e

mezzi di difesa: la croce sul latte e sul pane, il sale co-sparso fuori la porta di casa, il cornetto di ginepro, le collane di corallo, la scopa messa a rovescio, i fiocchi rossi, il ferro di cavallo , il pelo di tasso ecc ….. .Con l’affrancamento dall’ignoranza delle popolazio-ni della nostra montagna questi comportamenti sono quasi del tutto scomparsi, restano ancora qua e là, nelle persone anziane, espressioni ed usi testimoni di un passato recente, ma sicuramente e fortunatamente dimenticato.

Disegno di Fabio Tacchi

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STORIE

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La produzione della carta nel Folignate, che ha la sua antica ubicazione a Pale, piccolo centro ai piedi del Sasso omonimo, lungo la Valle del Menotre, risale a molti secoli fa. Basti pensare che, proprio nella zona di Pale, sembra nella ex - gualchiera dei monaci benedettini, detta anche Villa di Carpineto, fu acquistata la carta per la prima edizione a stampa della Divina Commedia. Un documento del 1248 ricorda “carta de Alvio valkeri de Pale” mentre, un atto di donazione risalente al 1273, nomina gli opifici “modo valcherie nuncupantur”. L’arte della carta ebbe un ruolo trainante nell’economia locale: introdotta dalle Marche, si sviluppò nella zona tra Pale e Belfiore grazie alla presenza della forza idraulica del fiume Guesia, oggi Menotre, sfruttato fin dal Medioevo, e al fatto che quest’ambiente montano non apparteneva al territorio vincolato dalla rigida legislazione delle corporazioni cittadine. La produzione della carta, fiorente fino al secolo scorso, ha visto a Foligno un susseguirsi di diverse famiglie di cartai, Cecco di Andrea da Pale, Marco Cartaro, Silvestro “Speinante de Belfiore”, Mattiolo cartaro di Pale (…) ed è arrivata fino ai nostri giorni grazie all’attività della Cartiera Sordini, unico presidio produttivo ancora attivo nella zona che ha svolto, nel passato, un ruolo importante nell’economia della nostra zona: vi erano, infatti, 13 opifici per la fabbricazione della carta localizzati in prossimità e all’interno dell’abitato di Pale. Il nucleo centrale della cartiera “Abramo Sordini e Figli” risale al 1869, tuttavia risulta che già dal XVIII secolo i Sordini fabbricavano carta a Pale (naturalmente con il vecchio sistema della fabbricazione a mano). L’attività industriale vera e propria, con macchina continua, ha avuto inizio ai primi del ‘900 (ricordiamo che la produzione era destinata alla Stamperia Reale di Roma). Tale impianto ha lavorato fino al dopoguerra ed ha prodotto vari tipi di carta, tra cui carta bollata e carta moneta. Nel 1929 l’aumento della richiesta di carta e la necessità di aggiornarsi tecnologicamente comportò la costruzione di un altro stabilimento. Nel 1938 nella fabbrica lavoravano da 40 a 60 operai mentre, attualmente, vi lavorano circa 20 operai, tra

cui il sig. Ferdinando Allegrini che, gentilissimo, mi ha spiegato i diversi tipi di carta che usano: “la cartiera ricicla per il 90% carta da macero, opera dunque il riciclaggio della carta che già in precedenza ha avuto il suo impiego (cartaccia, colorato selezionato, archivio bianco, tabulato, schedina meccanografica, carta kraft). Infatti, le materie prime usate per la fabbricazione della carta hanno subito delle trasformazioni con il passare del tempo: all’inizio del secolo lo straccio era la materia prima predominante, ma il suo impiego è limitato a fabbricazioni speciali, sia per l’alto costo, sia per il lungo e costoso processo di lavorazione. Dallo straccio si è così passati alla cellulosa, che però ha un alto costo, sia per il procedimento d’estrazione, sia per le materie prime di partenza, soprattutto il legno di pino e abete, che l’Italia è costretta ad importare dall’estero, non avendo risorse del bosco. Un’altra materia prima usata è anche la pasta legno, molto meno costosa della cellulosa”. Oltre a illustrarmi le suddivisioni delle carte secondo i tipi, Ferdinando mi descrive anche le diverse fasi di preparazione della carta, chiarendomi subito che l’impianto per la preparazione degli impasti è molto complesso per le difficoltà che si hanno nell’eliminazione delle impurità presenti nella carta da macero (costituite da sabbia, spilli, stracci, elastici, plastica …) che devono essere del tutto eliminate per ottenere un foglio abbastanza pulito. Poi mi inizia a descrivere le diverse fasi del processo produttivo: “la maggior parte delle materie prime provengono da grossi fornitori della zona di Roma e, solo in parte, da fornitori locali: noi ritiriamo direttamente dai primi, i

La cartieradi Michela Ottaviani Sordini di Pale

Foto di Maksim Holas

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SSTORIE

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quali provvedono alla selezione e all’imballaggio della carta; poi si esegue una prima depurazione attraverso lo spappolamento della carta, in una vasca cilindrica, per eliminare le impurità più grandi. L’impasto, così depurato, viene travasato in altre vasche subendo, di volta in volta, altre depurazioni e giungendo, infine, in un’altra vasca, detta di colorazione. Qui viene colorato e preparato per essere trasferito nella tina della macchina continua; poi, tale impasto preparato subirà un’altra depurazione fine per eliminare le impurità più piccole rimaste. La formazione del foglio avverrà nella macchina continua (tale nome deriva dal fatto che il foglio è continuo, senza interruzioni): nel nostro caso si tratta di una macchina di tipo piano e con un formato utile di 150 cm ”.

Ferdinando conclude spiegandomi che, nel reparto allestimento, si provvede all’impacco della carta, la quale viene sistemata su apposite pedane per essere immagazzinata e spedita e, infine, si ha

l’immagazzinaggio, che viene eseguito su pedane con carrelli elevatori, ciò per avere un’impostazione razionale di tale operazione, con risparmio sia di tempo, sia di spazio. “Il nostro prodotto”, continua, “è venduto in tutte le regioni d’Italia, soprattutto nel Lazio, nelle Marche, in Umbria, in Campania e in Emilia Romagna, dove l’incidenza del trasporto è piuttosto bassa per le limitate distanze”. È grazie all’attività della Cartiera Sordini, che l’antica tradizione cartaria della Valle del Menotre è arrivata fino ai giorni nostri, con l’auspicio che essa possa continuare a produrre carta anche per le generazioni future.

Un particolare ringraziamento al sig. Ferdinando Allegrini che ha permesso, attraverso il suo contributo, la realizzazione dell’articolo.Testo consultato: “Le Cartiere della Valle del Menotre”, Electa, Editori Umbri Associati, 2008.

All’interno dell’astronave Match erano in tre. Duck era tutto viola, con mani e piedi palmati e una zazzera blu notte, Dark era nero come il carbone con i capelli gialli e un naso esagerato, Velianda era arancione e aveva quattro braccia ma era lo stesso molto carina. Erano molto diversi da noi, infatti erano extraterrestri. Questi esseri venivano dal lontanissimo pianeta Velios e cercavano un popolo con cui fare amicizia.“Base Velios ad astronave Match. Parlateci del pianeta azzurro!” Ordinò una voce metallica proveniente dal quadro dei comandi dell’astronave.“E’ un bellissimo pianeta!” Esclamò Velianda, e continuò: “L’azzurro dipende dal fatto che è fatto di acqua per la gran parte della superficie. E’ un’acqua piena di vita, abitata da meravigliose creature animali e splendidi vegetali multicolori. Anche sulla terra ferma ci sono bellissime specie animali e vegetali.”“Ci sono esseri intelligenti?” l’interruppe la voce da Velios.“Si!” rispose Duck, l’essere viola, “ci sono esseri che si chiamano umani, tutti fatti allo stesso modo. I loro colori sono poco vivaci e vanno dal bianco – rosato al nero ebano, ma…..”“Ma a parte il fatto di essere scoloriti,” l’interruppe di nuovo la voce, “sono pacifici?”I nostri amici rimasero un attimo in silenzio.“Beh? Che c’è? Siete tutti morti?” Gridò il loro capitano dal lontano pianeta.“No, non siamo morti” mormorò Duck, “è che…..”“Che c’è?” Chiese la voce. “Il pianeta è bellissimo, gli esseri intelligenti ci sono e sono tanti, che c’è che non va? Parlate, vi prego!”“Ecco..” riprese Velianda, “gli umani non si accontentano mai. Per impadronirsi delle ricchezze si fanno guerra tra di loro, il pianeta è tutto inquinato e molti di loro soffrono di patologie terribili a causa dell’inquinamento. Destinano pochi soldi alla ricerca per sconfiggere le malattie e molti a fabbricare le armi con cui si distruggono a vicenda. Pochissimi possiedono quasi tutta la ricchezza del pianeta e tutti gli altri hanno pochissimo. In alcuni luoghi muoiono di fame i loro piccoli.”Ci fu un attimo di silenzio, poi la voce, con un po’ di commozione, ricominciò a parlare.“Peccato! Non sono intelligenti come sembrano. Tornate a casa! L’universo è così grande! Troveremo senz’altro un popolo migliore!”

Alla ricercadi Isabella Caporaletti

di un popolo amico

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STORIE

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Durante il periodo natalizio ho condotto i miei bambini al Museo Archeologico Nazionale di Perugia, dove hanno imparato che l’età del rame, come impiego in un artigianato secondario nell’età della pietra, risale a circa 5000 anni fa. Poi ho scoperto che ritrovamenti archeologici nel deserto del Negev in Israele dimostrano che asce di rame 7500 anni fa erano già forgiate dai nostri antenati.La lavorazione del rame ha significato nella storia dell’umanità il passaggio dall’età della pietra a quella dei metalli e, con Edison, ha portato la luce nelle nostre case.Il percorso del rame nella storia, prima di essere soppiantato dal bronzo e poi dal ferro, è giunto fino a noi ed annovera fra i suoi più alacri artigiani un nostro concittadino, Dino, che da più di 60 anni, lavora questo metallo realizzando opere, arnesi ed oggetti utili e belli.Lo abbiamo incontrato per il nostro giornale mentre lavorava su alcune brocche e, avvicinandoci, l’inconfondibile martellio guidava i nostri passi.Dino lavora il rame da quando aveva 12 anni, quando iniziò presso la bottega artigiana di Mario, originario di Force (AP) dove tutti, ricorda Dino, erano calderai, anche perché a Comunanza c’erano le fonderie. Da piccolo si appassionò alla battitura del rame, le sue mani erano buone, aveva un certo talento e non smise più. È molto schivo, ha quella riservatezza propria delle persone consapevoli delle proprie capacità e che fanno parlare le loro opere.Il suo magazzino infatti è ricolmo delle sue realizzazioni: cuccume, padelle, preti, caldaie, scodelle, beccucci, copri lampade, e brocche. La differenza fra un bravo calderaio ed uno mediocre, ci tiene a dire, è nel saper piegare e battere le brocche.Gli strumenti del suo mestiere lungo una vita sono

pochi: i martelli in legno, il cavallo e i pali. Il cavallo è un tronco di legno ricurvo che termina con una incudine metallica per la battitura (glielo lasciò il suo maestro che lo aveva ereditato dal nonno, un attrezzo che ha già circa 200 anni); i pali sono dei cavalletti in acciaio, realizzati da Dino 60 anni fa, che terminano con dei pomelli piatti o stondati per la cesellatura.Di martelli di legno ce ne sono a decine, ciascuno con una propria funzione specifica, a seconda dell’oggetto che si deve produrre.I nostri occhi sono rapiti dalle cesellature delle brocche, quasi ricamate dalle abili mani di Dino, con i disegni di una stella o delle greche intorno. Ci racconta che ora usa il rame da lamina, che si trova facilmente ma un tempo era rifornito dai riciclatori marchigiani che avevano le fonderie a Comunanza. Il suo mestiere non è mutato nel tempo, tra una battitura e l’altra occorre ripassare il pezzo al forno e ricuocerlo, altrimenti il metallo si spezzerebbe.Ci confida che per realizzare una brocca per l’acqua calda

nel caminetto occorrono circa 10 giorni di lavoro, mentre per una padella una giornata è sufficiente. Ricorda che tanto tempo fa si realizzavano i preti (gli scaldaletto) per i ricchi (cesellati e rifiniti) e per i poveri (più piccoli e semplici) e che ancora oggi i prezzi delle brocche lavorate e rifinite lievitano.

In effetti i suoi oggetti lucidi e lisci sono davvero belli, Dino dice che è

un’attività primitiva ed oggi possiamo solo immaginare gli

occhi dei nostri antenati di 5000 anni fa di fronte a tanto fulgore.Chi è stato in un paese del nord Africa come Marocco o Tunisia ha visitato i mercatini dove i battitori di rame scandiscono i minuti con i loro colpi, ma Dino tiene a precisare che il loro metodo è diverso ed i risultati sono più approssimativi dei suoi, chi ha un caminetto in casa ha appeso sopra la cappa un oggetto in rame, una

di Rocco Zichella

Il calderaio

In effetti i suoi oggetti lucidi e lisci sono

davvero belli, Dino dice che è un’attività primitiva ed oggi

possiamo solo immaginare gli occhi dei nostri antenati

di 5000 anni fa di fronte a tanto fulgore.

(Il battitore di rame)

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SSTORIE

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padella, una brocca, magari tramandata dai genitori, e forse non si rende conto della difficoltà a realizzarla a mano.Da noi è sempre più difficile trovare un battitore di rame, i figli di Dino hanno percorso strade diverse. Dino amaramente dice che non ci si è mai arricchiti col rame, milioni di battiture, sempre le stesse dall’età della pietra, con poca redditività.La lavorazione del rame si è perfezionata nei laboratori specializzati dove usano distinguere le varie fasi in imbutitura, pulitura, martellatura, cesellatura, tecnica a sbalzo… Nel rivolgere qualche domanda al nostro artigiano scopriamo che un tempo gli arnesi di rame erano oggetti di lusso, ora rappresentano una rarità e costituiscono una suppellettile da esporre e appendere, ma il lavoro e la fatica per realizzarli è sempre la stessa da tempo immemore, singoli colpi con il martello di legno,

sagomatura a mano e forza delle braccia, pazienza certosina nella cesellatura, sudore ed ingegno.Insomma un altro mestiere in via di estinzione, un artigianato il cui inizio si perde nella notte dei tempi e che tramonta in silenzio dopo tanto martellare della battitura, dopo aver reso le nostre città più luminose, dopo aver condotto acqua nelle nostre case, dopo aver creato lavoro per uomini di ogni tempo.I catastrofisti (o i realisti) che preannunciano un ritorno della società alle attività manifatturiere e all’agricoltura dovrebbero annoverare tra i lavori da riscoprire anche quella del battitore di rame, creatore di padelle per cuocere cibo e lavarsi, di armi per la caccia e la scuoiatura delle pelli, asce per l’abbattimento di arbusti e di alberi per scaldarsi.Un ritorno all’età del rame dove Dino per qualche minuto ci ha fatto tornare.

Scuola,di Libero Pizzoni maestra di vita

Esame di geografia politica, giugno 1965. Ero abbastanza teso, questo sarebbe stato il mio secondo esame all’università.Non era difficile, geografia politica ed economica, ma il capo era un tipo destrorso e strano e io mi sentivo ancora tanto liceale. Avevo già iniziato il mio percorso rivoluzionario: via cravatta e camicia - e state certi che per quei tempi non era poco – prime assemblee come me le ero immaginate, e soprattutto primi tentativi di amore libero e peccaminoso.Le prime domande furono di riscaldamento: acque territoriali e simili, poi la lotta si fece più aspra:” mi parli del fenomeno dell’emigrazione “. Acqua per la mia gola assetata, ma lui voleva definizioni tecniche e scuoteva la testa ai miei tentativi di fissare il concetto su “ mancanza di lavoro “ o “ situazioni di precarietà socio-economica “. Nessuno dei due cedeva finché con il tono e l’atteggiamento di chi è portatore di verità e ne vuole donare una piccola parte a chi ne è privo, mi pone la domanda che avrebbe spento i miei fuochi sovversivi e palesemente dimostrato l’assolutezza delle sue tesi : “ perché secondo lei in Germania, alla catena di montaggio della Wolkswagen, il 70% degli operai sono italiani che provengono dal meridione? “.“ Ah, questo si è dato la fatidica zappa sui piedi !” mi comunica il mio io sindacalista nascosto, e giù ad

elencare disoccupazione, squilibri economici, assenza di investimenti, programmi di sviluppo e di ricerca nascosti così bene che nessuno riusciva a vedere, speranze per il futuro già morte alla nascita, giovani senza prospettive, mafia e camorra……” No, no, sta sbagliando tutto, la ragione è che la catena di montaggio è bassa e quindi hanno bisogno di gente bassa “. Fine.Ammetto che in un primo momento ho creduto che scherzasse e mi è rimasto anche un po’ simpatico, ma quando ho capito che non scherzava affatto mi sono sentito addirittura offeso. Ho ripetuto le frasi già dette più lentamente, forse non aveva capito bene i concetti che avevo esposto; invece no, aveva capito benissimo e si stava anche divertendo all’espressione stupida che il mio viso rifletteva. Poco prima di scoppiare sparai la mia ultima cartuccia :” E allora perché a lavorare alla catena di montaggio non prendono anche i milanesi bassi o gli inglesi bassi?”. Non mi ha risposto e mi ha congedato con un generoso, secondo lui, 24/30.Ho passato giorni a valutare con lo sguardo l’altezza degli studenti che sapevo calabresi o pugliesi, a Perugia ce n’erano tanti, e sì , qualcuno era basso, ma certi erano anche più alti di me, e io sono 1,83.

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STORIE

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Parole dalla bellezza impensabile possono nascondersi in suoni in apparenza disarticolati. Talvolta sono invece la sagacia e l’acutezza di pau-se ben azzeccate tra parola e parola a ricordarci un pensiero altrimenti dimenticato, costringendoci a un dialogo serrato con la nostra coscienza. Molti potrebbero affermare di aver sentito scandire niti-damente delle parole dal vento, da un tintinnio lon-tano, dal passaggio di cose o persone a pochi passi da noi, dall’interruzione improvvisa di un suono. Di certo molti, dopo aver sbagliato una qualsiasi scelta, guardandosi indie-tro ricorderanno di aver udito, poco prima di quel-la scelta, un suono flebile proveniente da un qualche angolo della propria testa: un miscuglio di sensazio-ni inafferrabili, come se si trattasse di parole di ragguaglio pronunciate in un’altra lingua, chissà da chi, e da noi ignorate con la stessa spavalda pigrizia con cui si leggono soltan-to i titoli dei giornali, per non dover affrontare la fatica di guardare attra-verso le righe. Mi chiedo a cosa serva oggi il linguag-gio così come lo conoscia-mo, cosa ci sia rimasto da dire. Se è vero che l’uomo si differenzia dagli animali essenzialmente per la sua capacità di parlare a se stesso, o di se stesso, con oggettiva astrazione, se è vero che il nostro salto evolutivo risiede tutto in questo dettaglio, allora viene spontaneo chiedersi con quale linguaggio, attraverso quale coscienza, oggi, spiegheremo

ai nostri figli la diversità d’intenti tra il bene e il male. Non è vero che all’interno di una stessa lin-gua esistono parole diverse per esprimere le stes-se intenzioni, esistono piuttosto ovunque linguaggi diversi in cerca delle stesse verità: non è che le pa-role non possano cambiare forma, solo che per far-lo debbono necessariamente cambiare linguaggio. Per alcuni il “rispetto”, ma è solo un esempio tra le parole più abusate, passa per una croce, oppure per un velo, passa attraverso un abito lungo fin sot-

to il ginocchio, o semplice-mente attraverso un abito pulito e senza rammendi, per un doppiopetto o per una tuta blu ben stirata: il rispetto insomma è un sog-getto attivo, agente. Quin-di verrebbe da credere che quello stesso rispetto non sia possibile anche subir-lo passivamente. Eppure c’è chi considera un se-gno di rispetto il silenzio, l’assenza di spiegazioni e diversità, costringere gli altri a nascondersi, a non emettere suoni riconosci-bili, a non passare troppo vicino, a non gesticolare in maniera comprensibile, a non dare nell’occhio. Come ricordava Paul Ricoeur, la dispersione, la separazione, operata da Dio dopo l’episodio biblico di Babele non cela in sé né una condanna, né una qualche maledizione:

essa svela piuttosto un progetto di fratellanza che proprio della varietà, anche linguistica, si nutre e si sostiene. Gli fa eco H.-G. Gadamer che vede nel mito di Babele la conferma della grandezza e

Le gambe cortedi Maria Sara Mirti

del linguaggio

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SSTORIE

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della dignità di “Adamo”: la torre di Babele, qui sinonimo della colpevole ricerca di una mortificante e depauperante lingua universale, non avrebbe forse diminuito il numero di nomi possibili da dare alle cose, limitandoci nella creatività del pensiero e riducendo la molteplicità d’espressione tanto del Creatore quanto della Creatura?Eppure la possibilità di dare nomi diversi alle nostre ideologie o alle nostre credenze, considerate universali, ci atterrisce. In un momento storico in cui si vuole credere possibile la creazione di cittadini consapevoli basandosi sul solo apporto di un linguaggio giuridico ed economico, in un momento in cui, cioè, non si può prescindere dalla riscoperta della molteplicità del linguaggio, preferiamo chiederci quale oscuro idioma parlino i giovani (e va da sé che si tratta di una sub-lingua sconosciuta) piuttosto che chiederci con quali parole possiamo giustificare la nostra posizione nei loro confronti.Tra tutte queste lingue disperse come semi tra gli uomini, è solo al suono di cose e parole che dobbiamo affidarci: il suono può rivelarci la consistenza, la quantità della poesia che si nasconde nelle buone parole, nelle testimonianze più o meno sincere.Qualcuno si è mai chiesto quali siano le parole che sussurrano senza sosta le uniformi dei poliziotti in tenuta antisommossa? Quali immagini o pensieri possano evocare i colletti inamidati dei burocrati o le espressioni goliardicamente amichevoli dei politici?Qualcuno si è mai chiesto che nome abbiano le competenze che studenti e ricercatori rivendicano nelle piazze? Quali parole escano da noi quando ci lanciamo, pur a bocche serrate, in gesti sconsiderati di cieca rabbia, quando siamo preda delle più violente convulsioni della ragione? Quali parole cerchiamo, senza trovarle, quando vorremmo riportare la calma in noi e negli altri? Quand’anche schedassimo i cittadini uno per uno, cosa sapremmo in più di loro?Eppure esistono parole più belle di quelle che pronunciamo ogni giorno, suoni a cui dar voce, suoni più dolci che a tratti sembrano concretizzarsi in creazioni migliori, creazioni di altre realtà, frutto prima della poesia che dei sensi, realtà che vivono interamente nelle parole, belle come e più delle stelle. Gli astri non ci appaiono belli soltanto perché capaci di risplendere al buio in cui siamo immersi, ma soprattutto perché somigliano a qualcosa di irresistibilmente caro, a qualcosa di simile a un tocco conosciuto, a una voce familiare. L’illuminazione delle cose create, nella metafisica

agostiniana, coincide con la loro differenziazione. La Creazione intera è un linguaggio della cui comprensione e dalla cui ulteriore differenziazione non si può prescindere per sopravvivere. Ma per sopravvivere bisogna anche saper scegliere linguaggi e parole attraverso la loro intrinseca, vera, bellezza:“La luminosità dell’apparire non è dunque solo una delle proprietà del bello, ma ne costituisce la vera e propria essenza. […] La bellezza non è semplicemente la simmetria, ma l’apparire stesso su cui essa si fonda. Essa ha la natura del risplendere. Risplendere però significa risplendere su qualcosa, come il sole, e quindi apparire a propria volta in ciò su cui la luce cade. La bellezza ha il modo di essere della luce. [H.-G. Gadamer, Verità e metodo, cur. G. Vattimo, Bompiani, Milano 2001, p. 551]Il manifestarsi del bello, come anche la luce, ha un carattere di evento. […] La differenza non è né classificazione, né struttura, ma è un evento che dà consistenza alle cose lasciandole apparire.” (Mirella Oliva, La differenza linguistica tra etica e ontologia, in P. Ricoeur, Tradurre l’intraducibile. Sulla traduzione, cur. M. Oliva, ed. or. Dei testi di P. Ricoeur in Sur la traduction, Bayard, Paris, 2004, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2008, pp. 79 - 80)La bellezza dunque è un evento unico che accade prendendoci di sorpresa, come ogni singola parola è di per sé un evento in nome del quale, e per quei barlumi d’infinita bellezza che ci rendono felici di essere vivi, bisognerebbe spendere parole notte e giorno.A questo serve il linguaggio.

Rock jumping più di 40 anni fa Petr Pranchtel e sua moglie Zorka, nella Repubblica Ceca, si sono catapultati nella storia del paese saltando da una vetta all’altra della catena montuosa di Eesky

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STORIE

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Vorrei inaugurare questo nuovo anno raccontandovi degli aneddoti esilaranti sugli abitanti di Pomonte, una piccola frazione del Comune di Gualdo Cattaneo; un luogo ricco di forti suggestioni paesaggistiche e naturalistiche, ma anche di memorie di un antico passato. Un luogo in cui il fascino, l’intelligenza e la genuina simpatia del suo popolo emergono in tutta la loro prepotenza. Questi personaggi, emblematici nei loro soprannomi, rievocano un mondo agreste ormai lontano in cui, nonostante la lotta per la sopravvivenza fosse spietata, il gusto per la battuta e lo scherzo riusciva a rallegrare un intero paese mettendo in secondo piano persino i conflitti, ben più aspri, che la storia era intenta a registrare. A Pomonte nacque e visse per 91anni Nicola Gambetti. Era nato “con la camicia della madonna”, per questo

aveva dentro di sé poteri eccezionali che gli valsero il soprannome di “el maghetto”. Ma quando e come si rivelarono questi poteri nessuno lo sa. Si diceva che una volta la Madonna si era presentata a Pomonte, travestita da mendicante e che per ricambiare la generosa ospitalità ricevuta dalla famiglia Gambetti aveva dato a Nicola i poteri magici e al fratello Giuseppe la forza di trenta uomini. Altri invece, che dubitavano degli interventi soprannaturali, dicevano che era stato un mago a dare al Gambetti la potenza di guarire le malattie e al fratello Giuseppe, detto “Nicchio”, una forza tremenda nel braccio sinistro. Forse è a causa dei suoi poteri magici che el maghetto

è ricordato da tutti alto come un gigante nonostante sfiorasse a mala pena il metro e sessanta. Aveva una lunga barba bianca e andava vestito tutto l’anno di mezza lana perché, secondo la sua teoria, dove non passa il freddo non passa neanche il caldo. Portava cosciali di capra e un cappello grigio a falda larga. Per lui il cappello era importantissimo, infatti un giorno d’inverno qualcuno lo aspettò nel bosco e gli sparò a tradimento, ma colpì solo il cappello. El maghetto tirò fuori i pallettoni dal cappello e li riportò a chi gli aveva sparato. Il cappello bucato lo regalò ad un amico come portafortuna. El maghetto nella sua vecchia casetta custodiva gelosamente libri del comando, vasetti, un rospo d’oro, una sella con le borchie d’argento e un violino raro che faceva suonare solo a un vecchio vagabondo, quando passava da Pomonte. Nella stanza dove riceveva i suoi devoti, sul muro dietro la seggiola dove era solito sedersi, aveva due quadri molto emblematici: uno raffigurava la storia di Pomonte, l’altro era una lettera contenente precetti morali e minacce di angustie, grandini e terremoti per chi non li avesse rispettati. Curava la risipola segnandola con un medaglione d’oro e uno d’argento e nei casi più ostinati con la candela distribuita in chiesa il giorno della Candelora. Guariva la malaria segnando il malato con un tizzo di cerro, il mal di testa con la pelle di serpente ammazzato durante il solleone. Aveva le fave miracolose. Durante la seconda guerra mondiale i militari andarono fino a Pomonte per requisire i cavalli del Gambetti. El maghetto mise in bocca a ogni cavallo una delle sue fave e alla visita risultarono tutti malati e zoppi. Così li rifiutarono; ma, tornati a Pomonte, i cavalli stavano benissimo ed erano guariti da ogni male. Aveva rimedi per l’infantigliole (poliomielite) e per la tubercolosi, ma se non portavano miglioramenti suggeriva la cerca der crucifisso. Sul maghetto si raccontano tante storie ma una è così strana che potrebbe essere anche vera: nel dicembre del 1956 Gelsomina, la moglie di notaio di Roma, doveva partorire. C’erano tanti professori ad assisterla, ma da otto giorni si aspettava inutilmente. Primo, un contadino del Puglia militare a Roma, diffuse la voce che, se fosse venuto el maghetto,

di Katia ColaVipa Pomonte

Il maestro Sisto aveva una voce particolare.

Non che fosse stentorea, o roca, o profonda, o acuta, semplicemente suscitava

echi misteriosi in chiunque l’ascoltava.

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SSTORIE

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Gelsomina avrebbe partorito. Allora il notaio udita la notizia mandò Primo a chiamare il mago. Dopo tre ore di viaggio el maghetto arrivò alla casa del notaio. Si fece largo tra i professori meravigliati dalla comparsa di un vecchietto con un gran cappello, una lunga barba, un vestito di lana e le scarpe piene di

grossi chiodi. Tutti, probabilmente, credevano fosse una presa in giro; ma dopo mezz’ora, il tempo che el maghetto trascorse da solo con la Gelsomina, nacque una femminuccia. Raccontano ancora i pomontini che el maghetto imponeva regole singolari per il pagamento delle sue prestazioni. Non voleva soldi, ma quando glieli portavano li faceva mettere dentro un cesto per il pagamento del suo funerale. Siro faceva il maestro elementare di professione, il ristoratore per diletto e l’antiquario per passione. Se si fosse vestito di un manto nero poteva sembrare anche un mago. A un certo punto della sua esistenza Siro aveva scoperto la sua fin lì recondita passione per l’antiquariato e girava per raccogliere oggetti vari abbandonati da secoli nelle canoniche e parrocchie, alcuni dei quali teneva esposti nel ristorante a incoraggiamento dei clienti, mentre i più pregevoli li custodiva gelosamente in un luogo segreto: ragione per la quale era stato facile affibbiargli il soprannome di “Rubamadonne”. Per la scelta del soprannome non è esclusa la responsabilità del suo nemico storico: suo cugino Sisto, maestro elementare a Gualdo

Cattaneo. Le ragioni dell’inimicizia sono misteriose; probabilmente erano di poco conto e, appunto per questo, destinate a durare in aeternum. Il maestro Sisto aveva una voce particolare. Non che fosse stentorea, o roca, o profonda, o acuta, semplicemente suscitava echi misteriosi in chiunque l’ascoltava. Emetteva ultrasuoni non percepibili all’orecchio umano tanto che quando chiacchierava con gli amici in piazza i cani abbaiavano. Ma Sisto era un gran maestro non solo con i suoi alunni ufficiali, ma con chiunque si avvicinasse per desiderio o per necessità al mondo delle cose scritte. Era responsabile della piccola biblioteca comunale che arricchiva scegliendo solo libri di suo piacimento. Quando qualcuno andava a restituirgli il libro preso in prestito, esigeva rigorosamente un riassunto per accertarsi dell’avvenuta lettura. In classe era severo ma giusto. Non usava la bacchetta, forse era sufficiente la voce; la punizione più grave era l’invio del colpevole dietro alla lavagna. Una volta, alla fine delle lezioni, dopo che gli alunni ebbero tumultuosamente lasciato l’aula, il maestro, uscendo anch’egli, chiuse la porta a chiave, dimenticandosi il punito dietro alla lavagna, dove fu ritrovato nel

pomeriggio svenuto per la fame.Carluccio, dopo essere ritornato dalla guerra, aveva intrapreso l’attività di

autotrasportatore con un vecchio camion acquistato con le cambiali. Questo camion aveva

però una particolarità rara per i tempi e i luoghi: era un ribaltabile. Una volta andò a portare un carico di terra in un podere dalle parti di Collepepe; arrivò a mezza mattinata e, a parte le donne, trovò solo un vecchietto, seduto al sole sul gradino davanti all’uscio di casa, col mento appoggiato sulle mani e le mani incrociate sul bastone. Era un grosso problema, la terra non si poteva scaricare disse il vecchio a Carluccio, perché gli uomini erano tutti nei campi e sarebbero tornati solo al buio. Mentre il vecchietto pronunciava preoccupato queste parole, Carluccio aveva avvicinato il camion al punto scelto per scaricare la terra e aveva azionato il dispositivo del ribaltabile. Il vecchio, che si era avviato verso casa, sentì alle spalle un forte rumore; si voltò e vide il cassone del camion rialzato da un lato e la terra che scivolava e si ammucchiava nell’aia. Allora allargò le braccia, col bastone puntato verso il camion, e pronunciò una frase poi divenuta storica: “Cristo, la scienza”.

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STORIE

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di Alessio VissaniFabio Tacchi:l’arte senza regole

Una porticina piccola bianca che si apre, Fabio mi fa strada verso il suo studio, quello che lui chiama il suo “mondo” e da una stanza con caminetto e piccolo cucinino entriamo in un’altro ambiente, alla mia de-stra uno scaffale pieno di centinaia di film, un grande divano “a elle” in un angolo, quadri sparsi per le pareti ed appoggiati in terra, una cassettina piena di colori e pennelli e un cavalletto con una tela a metà disegnata e a metà colorata. A un anno dalla mia prima intervista per Chiaroscuro eccomi a chiacchierare con un giova-ne artista locale, innamorato pazzo dell’arte e della pittura, con una gran voglia di emergere e mostrarsi semplicemente per quello che è.

Ciao Fabio, innanzitutto chi sei?Sono un ragazzo di 26 anni di Foligno. Nonostante sia-mo qui a parlare del mio hobby (la pittura) non pensare che mi senta così tanto pittore, piuttosto mi piace definirmi una persona con delle passioni.La tua formazione o percorso di studi?Mi sono diplomato all’Istituto professionale per geo-metri e appena uscito dalla scuola ho cercato di fare subito qualcosa di diverso dal mio percorso di studi. Avevo capito che non era quella la mia via e forse è per questo che ho puntato forte anche sul mio grande interesse: l’arte.Quando hai iniziato a interessarti all’arte?Da che mi ricordo io ho sempre disegnato. Sono sem-pre stato attratto dall’arte figurativa sin da bambino. Il mio passatempo preferito era fare illustrazioni, piccoli disegni o fumetti e non ho mai smesso di farli. Da tre anni a questa parte invece ho iniziato a dedicarmi alla pittura in quanto con il mero disegno non riuscivo a esprimere appieno ciò che avevo dentro, cosa che in-vece mi riesce con la pittura e con i colori. Io vivo con gli occhi e la pittura riesce a tirar fuori tutto ciò che vorrei esprimere: io racconto ciò che penso con la pit-tura e lei di contro racconta me con il suo linguaggio.Nell’era del digitale e dell’informatizzazione c’è an-cora voglia di prendere pennello e tela e dipingere?Sinceramente non vedo nessuna incompatibilità, anzi. Mi aiuto moltissimo con il digitale e con l’informatica, apprezzo il cinema (soprattutto contemporaneo) e l’arte grafica digitale. Credo che il pennello, anche se

nel 2011 è quasi visto come un congegno d’elite, sia anch’esso uno strumento tecnologico, uno strumento con il quale si cerca di esprimere ciò che si ha nel-la mente e non vedo problemi ad utilizzare il digitale come spinta e canale per imprimere nella tela i nostri pensieri.Ogni artista ritrova nella sua vocazione un mondo a sé, un mondo proprio: quando dipingi cosa provi?Generalmente io dipingo a fine giornata, quando torno dal lavoro, oppure nel fine settimana. Nell’istante in cui mi siedo davanti alla tela bianca la mente inizia a “staccarsi” dal corpo, elabora la giornata passata e in quel momento la mano inizia a dipingere, a mischiare colore, a creare forme: è come si mi sedessi davanti ad uno psicologo per raccontargli la mia giornata. Sulla tela ci butto sia il male che il bene, è una via di fuga per isolarmi dal mondo e rifugiarmi solo dentro la mia testa a prescindere dai soggetti che dipingo: siamo solo io e la tela!Come ti definisci in senso artistico?Per i soggetti che rappresento potrei rientrare benissi-mo nel surrealismo in quanto ciò che amo è rappresen-tare emozioni, sensazioni o comunque concetti astrat-ti. Per il mio stile di pittura sono invece molto istintivo, quasi violento nell’uso dei colori ed è per questo che mi sento molto vicino all’impressionismo. Solitamente quando devo realizzare un dipinto parto da un concetto che trasformo immediatamente in una serie di parole, dalle parole cerco di iniziare a visualizzare delle imma-gini e a comporre l’opera, dopodiché, a opera finita, cerco di ritornare al concetto iniziale che il più delle volte risulta ormai differente.Dal tuo lavoro e dal percorso di studi dovresti essere molto pragmatico o razionale. Come mai questa pas-sione per la pittura?Proprio per questa voglia di evasione. Cercavo un mon-do e una realtà dove non esistessero regole o almeno un luogo dove le potessi creare io.Le tue opere sono decisamente forti, emozionali, con delle pennellate decise e violente. Parlami delle tue opere o della tua tecnica.Non sono legato alla tecnica, semplicemente perché ho sempre disegnato (prima) e dipinto d’istinto. Sono un autodidatta puro, nessuno mi ha mai insegnato tecni-

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SSTORIE

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che pittoriche, non ho frequentato nessun corso parti-colare perché il disegno per me era una passione e lo facevo a prescindere dei giudizi altrui. Così è stato per la pittura: ritornando al concetto delle regole non vo-levo legarmi a nessun tipo di modello, probabilmente, da un punto di vista per così dire accademico, commet-to anche degli errori grossolani ma per me va benissimo così. Dipingo esclusivamente partendo dal cuore.Aneddoti particolare con alcuni quadri?Un quadro di nome “Pietà” l’ho realizzato tre volte, ciclicamente sento il bisogno di rifarlo ma un particola-

re curioso è correlato a un’opera chiamata “Giudizio”. Volevo rappresentare uno sguardo severo, qualcosa che desse fastidio, un’espressione degli occhi molto in-tensa e profonda. Appena finito di dipingere mi accorsi che lo sguardo era tremendamente identico a quello di mio nonno scomparso 6 anni fa e dopo che notai que-sta somiglianza riflettei anche sul fatto che mio nonno effettivamente è sempre stato un patriarca della mia

famiglia, colui che emetteva giudizi su tutti e tutto. Forse è per questo che dalle mie mani è nato quello sguardo.L’amore e l’arte, quanto amore c’è nella tua arte e quanta arte c’è nel tuo modo di vivere?Io amo l’arte, in tutto e per tutto. È principalmente amore, anche perché un vero e proprio riscontro eco-nomico non c’è: è una passione, un rifugio, un hob-by, un passatempo, una droga in quanto più dipingo più sento il bisogno di farlo e credo che tutto questo possa racchiudersi nella parola amore. Nel mio modo

di vivere non sono una persona canonica e legata all’uniformità e credo che anche questo sia “arte” in qualche modo, non vivo cercando di rappresenta-re qualcosa in quanto la mia arte rappresenta la mia vita e la mia vita è rappresentata dall’arte.Dipingere emozioni e stati d’animo è complesso?Penso che sia la cosa più difficile. È un mettersi in gioco continuamente. Credo che un paesaggio, sep-pur nella propria laboriosità tecnica e pittorica, sia molto più semplice da eseguire ma sicuramente non mi descrive affatto.Qualche tua particolare fonte di ispirazione?Ci sono moltissimi maestri che ammiro ed anche se parlare di pittori famosi (in contrapposizione a me) un po’ mi imbarazza diciamo che amo osservare il simbolismo di Salvator Dalì, la pennellata forte di Vincent Van Gogh, la dinamicità dei corpi di Miche-langelo, l’accademicità di Leonardo e l’introspezio-ne di Edwar Munch.Anche un pittore negli anni del digitale, per po-tersi far apprezzare, deve avere dei progetti: che ti riserva il futuro?Le difficoltà di emergere sono evidenti. Credo che l’importante sia l’autopromozione e credere in ciò che si fa, se facciamo qualcosa di bello verrà apprezzato o magari criticato ma il vero ostacolo è proprio nel mostrarlo. È importante avere l’ap-poggio delle persone vicine, condividere le proprie passioni con i “colleghi”. Poi penso che creare dei progetti fondendo anche altre arti ma mantenendo sempre la propria “individualità” sia un buon modo per cercare una vetrina e su questo sto lavorando.Fatti una domanda e datti una risposta.Che sto facendo oggi? È la vigilia di Natale, ascolto

musica, dipingo, parlo con un amico e questo mi fa sta-re bene…molto bene. Grazie per l’opportunità che mi hai dato ed in bocca al lupo per Chiaroscuro.Crepi il lupo e grazie a te per la disponibilità.

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Questo numero di Chiaroscuro è distribuito nei seguenti esercizi commerciali della città:

Libreria Carnevali – 3 libretti sul comò, via Mazzini 47Libreria Luna, via Gramsci 41Cartolibreria – edicola di Maggi Marzia, Corso Cavour 94Giocartoleria, via Sportella Marini 1Cartolibreria La Nave, via Monte Cervino 8/a

Se avete storie da raccontarci, se avete idee, problemi, proposte da sottoporci, scrivete a [email protected]

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Comitato di redazioneClaudio Stella, Giorgio Raffaelli, Carla Oliva, Rita Barbetti, Eleonora Doncecchi, Marta Pacini,

Gabriele Contilli, Riccardo Caprai, Alessio Vissani

RedazioneLuigi Adriani, Marta Angelini, Serena Angelucci, Mario Barbetti, Federico Berti, Claudia Brandi,

Elisa Brandi, Anna Cappelletti, Daniela Cerasale, Katia Cola, Lucia Genga, Maria Paola Giuli, Elisa Loreti, Giovanni Manuali, Maria Sara Mirti, Giulia Moriconi, Paola Nobili,

Michela Ottaviani, Alessandro Perugini, Libero Pizzoni, Gioacchino Properzi,Tania Raponi, Serena Rondoni, Francesca Rossini, Andrea Sansone, Stelvio Sbardella, Valentina Silvestrini,

Carla Tacchi, Cinzia Tomassini, Dario Tomassini, Luciano Trabalza, Rocco Zichella

Hanno collaborato a questo numeroFabio Bettoni, Elena Laureti, Maria Rosaria Tradardi

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REALIZZAZIONE DELLA COPERTINAa cura di Fabio Tacchi, che a partire da questo numero inizia la sua collaborazione con Chiaroscuro