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COLLANA ELEMENTI - csvpadova.org · con il mondo del volontariato padovano, il Mo.V.I. si è chiesto, al di ... Lo sviluppo di tutto il terzo settore ha contribuito a creare

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COLLANA ELEMENTI

ISBN 88-901601-6-0

© 2005 - CSV Centro di Servizio per il Volontariato della Provincia di Padova via dei Colli, 4 - 35143 Padova tel. 049 8686849 - 0498686817 fax 049 8689273 www.csvpadova.org - [email protected]

Copertina e pagina di rispeto: InscenaImpaginazione: Anna Donegà

COLLANA ELEMENTI Progetto editoriale: Alessandro Lion

Messaggi - Nuove comunicazioni di solidarietà

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È con piacere che il Comitato di Gestione del Fondo Speciale per il Volontariato della Regine Veneto presenta questa pubblicazione del Movimento di Volontariato Italiano.

Il Veneto è una regione da sempre impegnata nei confronti dell’altro in difficoltà, una regione in cui il valore della solidarietà ha trovato e continua a trovare un fertile terreno di sviluppo, per questo dobbiamo continuare ad operare per creare le premesse per un continuo sviluppo del volontariato nella società civile. Questa ricerca, voluta e progettata dal Movimento di Volontariato Italiano, ci aiuta in questo processo di comprensione e di maturazione del mondo del volontariato veneto. Sicuri che il rinnovamento di cui abbiamo bisogno passi attraverso una seria analisi della situazione in cui siamo chiamati ad operare, riteniamo che questa pubblicazione sappia aiutare le associazioni di volontariato regionali ad elaborare nuove e concrete possibilità di incontro con l’universo giovanile, così da continuare a crescere, per dare risposte sempre più articolate ad un territorio complesso come quello veneto.

Silvano SpillerPresidente del Comitato di Gestione del Fondo

Speciale Regionale per il Volontariato

La veloce evoluzione del volontariato contemporaneo fa nascere la necessità di studiare il fenomeno nella sua interezza. Oggi si discute e si scrive sui valori, sui principi, sulle leggi che sempre più trattano di sussidiarietà, partecipazione e di co-progettazione, molte sono le analisi e le ricerche in tal senso ma esse non riescono a rispondere al continuo sviluppo del fenomeno né danno voce a chi è realmente impegnato nel volontariato, cosa che invece questa ricerca fa, ascoltando e riportando, in particolar modo, il parere dei giovani.

Dalla ricerca emerge che il termine volontariato viene usato come parola chiave per esprimere concetti come solidarietà, altruismo, gratuità fino a coniugarlo con quello di cittadinanza attiva. Mi sembra di capire da queste interviste che il volontariato può essere visto come quel cittadino, di una città organizzata, che, ad un certo punto del suo sviluppo supera il suo “guardarsi” per accorgersi dell’altro in difficoltà.

Ci sono sempre state persone di buona volontà che nel loro cammino hanno avuto la possibilità di aiutare il vicino o l’amico: personaggi ad “interesse zero” che si sono donati per gli altri senza tanti perché, coscienti che è importante soprattutto impegnarsi, dedicando risorse ed energie anche in situazioni che sembrano non avere soluzioni.

Non vi sono infatti solo problemi insormontabili ma vi sono soprattutto persone che operano (singolarmente o assieme) per la tutela e il sostegno di chi è in difficoltà. Questo è dovuto al fatto che ogni persona nel compiere la sua azione sociale scopre che: chiunque dona qualcosa, all’altro in difficoltà, ne trova sempre gratificazione.

La comunicazione (elemento essenziale di questa epoca) aggiunge a tale gratificazione personale la scoperta di altri che operano nello stesso modo, strutture, associazioni già avviate ed organizzate nelle quali la collaborazione fra persone, per un fine comune, non ha solo valore sommatorio, ma contribuisce a quella positiva sinergia esponenziale che genera i grandi risultati e rende coscienti i volontari del loro operare politico (nel loro occuparsi delle cose che interessano la polis).

In questi anni abbiamo raggiunto traguardi inaspettati, sta però alle nuove generazioni tenere ossigenati i principi ed il tessuto

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ispiratore del volontariato: gratuità e continua innovazione sia nella difesa dei diritti umani così come nella tutela del territorio e dell’arte.

Un documento, questo, che diviene quindi un appello ai giovani che li sollecita, in questo contesto creativo ma sempre carente rispetto ai bisogni presenti, ad un apporto nuovo e forte di creatività e testimonianza capace di stimolare il vecchio e nuovo volontariato.

Giovanni Busnello Emilio Noaro presidente MoVI Treviso presidente MoVI Padova

MESSAGGI

NUOVE COMUNICAZIONI DI SOLIDARIETÀ

Da alcuni anni nel territorio della Provincia di Padova, in particolare, e nella Regione Veneto, in generale, si percepisce uno scollamento fra i giovani e le associazioni di volontariato operanti a livello locale. Nonostante Padova ed il suo territorio rappresentino per gli “addetti ai lavori” nel non profit un punto di riferimento (si ricordino le più di 2000 OdV venete, Civitas, il fenomeno delle Cooperative e molte altre esperienze) i giovani, quelli che desiderano intraprendere un percorso di solidarietà, preferiscono appoggiare grandi organizzazioni nazionali e Ong coinvolte in progetti di cooperazione allo sviluppo in Italia e all’estero, piuttosto che mettersi a disposizione delle piccole associazioni locali. Nell’ultimo rapporto regionale sulla condizione giovanile nel Veneto più della metà dei volontari locali ha un’età media tra i 45 e 65 anni, mentre i giovani, al di sotto dei 29 anni, sono meno del 10%. Da questo dato statistico, ma anche da una serie di confronti con il mondo del volontariato padovano, il Mo.V.I. si è chiesto, al di là dei luoghi comuni che coinvolgono i giovani e il volontariato quali ragioni e quali processi abbiano determinato questa situazione.

Le organizzazioni di volontariato stentano a farsi conoscere: nonostante timidi tentativi di campagne dal titolo “cercasi volontari” tendono a rivolgersi ad un target di giovani già identificato. Dall’altra parte le nuove generazioni troppo spesso non credono che le associazioni siano in grado di confermare i principi di solidarietà di cui loro stesse si fanno promotrici.

Queste brevi considerazioni ci portano a pensare che alla base del problema sussiste un problema di comunicazione interrelazionale che conduce le associazioni all’autoreferenzialità e causa un erosione progressiva di significato della parola “volontariato”. Non esiste, infatti, un campo semantico condiviso né all’interno dell’universo giovanile né nelle stesse associazioni. Cosa significa “fare volontariato”, cosa“essere volontari”? Lo sviluppo di tutto il terzo settore ha contribuito a creare

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INDICE

Condividere la passione del prendersi cura degli altri e di sé: un incontro difficile tra generazioni di Italo De Sandre 11

I – Giovani e volontariato: molteplici punti di vista1. Le questioni in gioco di Carla Bertolo 212. Giovani e volontariato nella letteratura di Michela Drusian 233. Adulti e giovani: tra rappresentazioni ed esperienze di Carla Bertolo 313.1. Cornice uno: i giovani hanno un deficit di senso civico 313.2. Cornice due: i giovani non considerano il volontariato quale opportunità 353.3. Cornice tre: i giovani non sanno assumersi un impegno continuativo 383.4. Cornice quattro: i giovani sono egoisti 434. La ricerca: nota metodologica di Michela Drusian 45

II - I giovani non impegnati di Michela Drusian1. Chi sono 472. Le rappresentazioni del volontariato 492.1. Rappresentazione uno: tra comunicazione e senso comune 492.1.1. Raccogliere le idee 542.2. Rappresentazione due: l’esperienza diretta 572.2.1. La paura di non farcela 652.3. Rappresentazione tre: l’esperienza altrui 672.3.1. L’habitus: Il livello latente dell’impegno 71

III - I giovani impegnati di Carla Bertolo1. Cominciare 792. Continuare 813. Esperire 864. Condividere 905. L’esperienza con l’organizzazione 976. La gestione dei conflitti 100

confusione, non tenendo conto dei vari significati, valori e riferimenti confluenti nel mondo della solidarietà e del volontariato. I riferimenti legislativi si sono moltiplicati ed infatti, è nato il volontariato internazionale (ex L. 47/87), il servizio civile nazionale (ex L. 64/01), quello regionale (ex L.R. 18/05), il volontariato di protezione civile... i giovani sono portati a confondere le categorie di volontariato, associazionismo e solidarietà.

Per dare vita ad una riflessione condivisa ed allargata su questi temi il Movimento di Volontariato Italiano ha pensato e realizzato il progetto Messaggi – nuove comunicazioni di solidarietà. Attraverso la collaborazione con il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova e con le Odv del territorio sono stati attivati tre distinti focus groups all’interno dei quali giovani impegnati e non e rappresentanti di associazioni di volontariato hanno discusso ed elaborato, punti di vista, esperienze, aspettative. Attraverso un attento lavoro di analisi e di confronto questi risultati sono confluiti in una ricerca presentata a Padova lo scorso 23 novembre. Da questo ulteriore momento di confronto e discussione è stata elaborata l’analisi che stiamo presentando.

La ricerca ha preso avvio dall’ipotesi che il problema non si racchiuda soltanto o semplicemente nella perdita di valori dei giovani, e neppure nell’invecchiamento anagrafico delle associazioni. La società di cui siamo cittadini è sempre più complessa ed articolata, il compito che abbiamo è quello di impegnarci nella sua comprensione: capire che ruolo e quali spazi di azione, di educazione e di critica abbia ancora il “volontariato”, quale ruolo possa ancora ricoprire nello sviluppo della società contemporanea.

La ricerca, qualunque ricerca, è un punto di partenza che deve fornire strumenti di analisi e comprensione utili per migliorare il nostro operato, utili a capire, come si scriveva, il ruolo e gli spazi di azione che il volontariato ha di fronte, le nuove sfide cui è chiamato.Speriamo che da questa analisi si sviluppino strategie di comunicazione e confronto capaci di contribuire al ri-lelazionarsi del volontariato con l’universo dei giovani.

Claudia Marcolin e Guido Turuscoordinatori progettuali

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7. Rappresentazioni dell’essere volontario e del contesto dell’azione 1037.1 Avvicinare i giovani 108

IV - Problematiche e rappresentazioni del volontariato nelle interviste ai rappresentanti di associazioni

di Carla Bertolo1. Uno sguardo esterno 1132. I giovani visti dalle associazioni 1173. Il volontariato visto dai volontari 1244. Altre criticità 1295. La comunicazione, i giovani e le associazioni 133

Alla ricerca di nuove architetture comunicative di Carla Bertolo e Michela Drusian

I giovani non impegnati 142I giovani impegnati 143Le associazioni 146Alla ricerca di nuove architetture comunicative 149

Note 153

Bibliografia 157

CONDIVIDERE LA PASSIONE DEL PRENDERSI CURA DEGLI ALTRI E DI SÉ: UN INCONTRO DIFFICILE TRA

GENERAZIONI

1. Il presente è sempre generato dalla memoria di esperienze e di azioni personali e collettive, nate in anni diversi, che però lasciano tracce che vengono continuamente rielaborate, e continuano a convivere, alimentando progetti o sollevando problemi. Per interrogarsi su come oggi condividere meglio lo spirito e le pratiche del volontariato con i giovani, non si può non rievocarne lo sviluppo in una sintesi rapidissima, restando a tempi recenti, che coincidono per alcuni con il proprio quadro di sfondo biografico. Dobbiamo ricordare le iniziative di studio critico e di innovazione professionale ed organizzativa che sono state costruite a partire dagli anni ’70. In fondo è in quegli anni che è stato elaborato un nuovo modo di “vedere” il valore delle persone, che hanno dignità e diritto di considerazione a prescindere dal loro valore economico e dalla loro “normalità”, normalità di cui si è capito il profondo condizionamento sociale, a cui dare una risposta “pubblica”, con una responsabilizzazione culturale e politica insieme. La malattia, a partire da quella mentale, più emarginante, la disabilità psico-fisica, la subalternità socio-economica, la mancanza di istruzione, la stessa devianza che andava assumendo nuove forme (data l’espansione dell’uso di stimolanti), andavano rilette, per progettare una società capace di riconoscere i diritti di tutti e di riorganizzarsi per aiutare coloro che sono svantaggiati ed emarginati a non esserlo più o a ridurre i danni e le sofferenze. È stata una reale, nuova, assunzione di corresponsabilità, di gran parte della società, un modo politico e professionale insieme di assumersi un compito di giustizia sociale (non di beneficenza) che doveva essere a vantaggio di tutti, da realizzare con cambiamenti su più fronti: sul piano scientifico-culturale e tecnico delle professioni, che dovevano maturare orientamenti e strumenti adatti a mettere in pratica in modo generalizzato le nuove consapevolezze, sul piano delle strutture politico-amministrative, per dare a tutti, in rapporto alla loro collocazione sociale e territoriale, la capacità di trovare risposte efficaci ai bisogni ed alle aspettative di

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miglioramento, divenuti almeno formalmente diritti di cittadinanza. L’enorme cambiamento attivato ha avuto realizzazioni in alcuni casi

ottime ma in altri casi anche mediocri o che disattendevano spirito e lettera delle leggi; la generalizzazione dei nuovi servizi comportava risorse economico-finanziarie ingenti, l’espansione delle iniziative dello stato non erano gradite a chi vi vedeva pericoli o realtà di irrigidimento e tecnicizzazione della vita delle persone e delle famiglie, o rischi per la messa in secondo piano del mercato privato dei servizi.

Le aspettative crescenti di valorizzazione delle persone hanno mosso la volontà di iniziativa di persone e gruppi pro-attivi nella società “civile”, sensibili alle esigenze di persone e di situazioni di vita al margine della società. Ciò ha indotto, al di fuori della pubblica amministrazione e del mercato, la crescita di un differenziato spirito di azione, per far fronte direttamente a disastri come inondazioni e terremoti, ma anche a nuove emergenze sociali (ad es. comunità per aiutare ad uscire dalla tossicodipendenza), spesso in modo critico o conflittuale rispetto alle iniziative degli enti centrali e periferici dello stato. L’espansione delle associazioni di volontariato negli anni ’80 è stata forte, con una via via più consapevole ricerca sia di collegamento reciproco sia di auto-rappresentazione e di definizione di identità; in quegli anni mettono radice alcune parole-chiave, che da allora assumono una carica simbolica importantissima: altruismo, dono, solidarietà, gratuità, che oggi fanno parte del lessico comune con cui confrontarsi, o ri-confrontarsi. L’elaborazione è stata appassionata, con il contributo non solo di animatori e teologi ma anche di studiosi di scienze sociali, per chiarire e contemporaneamente legittimare le nuove forme autonome di intervento sociale.

Successivamente, man mano che è maturata l’esperienza delle associazioni più attente, sia rispetto alla qualificazione ed alla continuità da dare ai propri servizi, sia nei rapporti reciproci tra associazioni di volontariato, sia nei rapporti con le amministrazioni politico-amministrative locali, si è posta l’esigenza di una migliore elaborazione di tutti gli aspetti centrali della loro vita. Si è capito che il volontariato doveva assumersi una responsabilità “politica”, cioè di fronte alla polis, come frontiera di attenzione e di aiuto concreto ai processi di emarginazione che in parte si modificano di continuo,

come soggetto di responsabilità “pubblica”, che non vuol dire statale né vuole sostituirsi allo stato, ma che è tale perché ha a cuore il bene di tutti, l’interesse generale, in vista del quale deve trovare forme di collaborazione anche con gli enti centrali e locali dello stato governati da rappresentanze politiche. Non solo. La necessità di continuità e di professionalizzazione aveva mostrato presto anche l’opportunità di spazi di lavoro retribuito, di organizzazioni produttive di beni e servizi in un mercato diverso, non regolato dal profitto, di una economia sociale (o “civile”) appunto non-profit, in forme soprattutto cooperative, che sulla spinta di motivazioni solidariste diventavano “imprese sociali”. Un mercato sociale che non svaluta la gratuità ma cerca di far fronte a nuovi obbiettivi con nuovi strumenti e nuovi rapporti sociali.

Accanto a questi sviluppi evidenti sulla scena pubblica, è rimasto da sempre, e rimane tuttora attivo, un altro tipo di volontariato, sommerso, che vuole fare e dare direttamente a chi ha scelto di aiutare ma non vuole avere nessuna particolare amministrazione interna né rapporti esterni con amministrazioni pubbliche, iscriversi a registri istituzionali, ma nemmeno con altre associazioni o con i comitati di coordinamento che altre associazioni si sono date. Queste associazioni vivono di grande impegno basato su persone che dedicano le proprie energie, con fonti di finanziamento proprie o reperite direttamente attraverso iniziative soggette alla vitalità ma anche alla precarietà della fantasia e della capacità di progettazione-realizzazione di singoli. È il volontariato che probabilmente resta sommerso perché non ha fiducia né nelle istituzioni pubbliche né in altre associazioni: una serie di iniziative vitali e utili, che però non accrescono - al di là delle buone intenzioni soggettive - la civicness, il senso di cittadinanza, di responsabilità pubblica condivisa all’interno della popolazione locale. Si fidano di se stesse, delle proprie buone intenzioni, dei risultati ottenuti direttamente. Il fatto che nascano nuove iniziative di volontariato spesso si intreccia anche con la difficoltà di sopravvivenza di realtà poco strutturate, che vivono il tempo di vita e di energie dei fondatori. Poi qualcuno crea qualcos’altro.

Negli ultimi anni, infine, alcuni sondaggi (ad es. quelli curati da I. Diamanti, con l’Osservatorio sul capitale sociale degli italiani, che ha evidenziato la crescita di un “volontariato individuale”) hanno

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cominciato a mettere in luce l’incremento di un altro fenomeno, per fortuna sicuramente sempre esistito: l’agire altruistico è dichiarato anche da molte persone singole, che non vogliono associarsi, non vogliono avere vincoli se non con la propria disponibilità di risorse e di tempo e la propria coscienza. Una volta si sarebbe detto di persone che fanno “buone azioni”, fanno beneficenza, fanno del bene ad altri in modo individuale più o meno discreto, oggi questo viene chiamato, ed anche autorappresentato, “volontariato” individuale. È il prendere conoscenza e coscienza della diffusività ma anche aleatorietà di un agire che per alcuni aspetti arricchisce i legami sociali ma in modo segmentario, che riduce ulteriormente, rispetto al volontariato associato sommerso, i confini della propria responsabilità, accorcia ancora di più gli spazi della fiducia.

Fiducia che in ogni caso si mostra nella nostra società come una risorsa critica, che è fragile e di cui c’è molto bisogno, come capitale sociale, a livello interpersonale, associativo, istituzionale. Per accrescere la quale c’è bisogno non di pubblicità ma di trasparenza, di disponibilità a dar ragione di quel che si fa e dei modi e risultati delle proprie azioni, a lasciarsi valutare e confrontare.

Parallelamente, in un quadro internazionale, sono nate e si sono espanse in Europa e nel mondo associazioni che si assumono scopi di aiuto e di cooperazione su scala mondiale, le ONG, Organizzazioni private, non governative: e accanto ai problemi dello sviluppo diventano gravi in molte parti del mondo le guerre. Negli anni ‘70 ad es. nasce «Médecins sans Frontières» per portare cure sanitarie a popolazioni che ne sono prive, e testimoniare nello stesso tempo le violazioni dei diritti umani nelle aree di intervento; negli anni ‘90 nasce «Emergency» per portare interventi sanitari urgenti in zone di guerra. Si è sviluppata cioè la spinta ad un volontariato internazionale qualificato che trovava spazi sempre più ampi di intervento, sia per disastri provocati dagli uomini sia per disastri provocati da eventi atmosferici e ambientali in genere. Una prospettiva in cui la globalizzazione dello sviluppo mostra tutte le difficoltà mescolate con gli scacchi della globalizzazione dei diritti dei popoli e delle persone, che propone motivazioni forti di impegno, anche rischioso, come difficili e pericolose sono le situazioni sociali da cui persone e collettività mostrano di aver bisogno di attenzione e di aiuto.

Oggi questi tipi di iniziative coesistono, non sempre in modo pacifico, sia per le diverse motivazioni e i diversi obbiettivi scelti, ma anche perché la ricerca di nuove persone e nuovi fondi si rivolge comunque ad ambienti con risorse non infinite, in una società italiana dove (secondo il Rapporto IREF-ACLI del 2003) quasi il 50% della popolazione “sta con le mani in tasca”, cioè né dà né fa nulla per altri, ma con l’altra metà che qualcosa fa. Fa cose diverse, con una diversa socializzazione dei problemi, con un senso di responsabilità pubblica diverso, con matrici di solidarietà, modi di concepirla e viverla anche molto diversi, anzi in conflitto ideologico e morale tra di loro. Questa diversità strutturale, “politica”, di socializzazione interna va considerata in tutta la sua importanza.

Val la pena fermarsi solo un momento sul fatto appena accennato dell’esistenza di molte differenze nei modi di concepire la solidarietà, che nella accezione di senso comune (all’interno di ampia parte del volontariato) dovrebbe coincidere con un atteggiamento universalistico di riconoscimento di pari dignità a tutte le donne gli uomini ed i bambini del mondo, a qualsiasi popolo cultura e religione appartengano, verso i quali si ritiene di avere delle responsabilità collettive perché tutti abbiano una vita dignitosa e dignitose opportunità di crescita. In realtà moltissime persone ritengono di avere “buone ragioni” per non essere affatto disposte a riconoscere a tutti pari dignità né a rispettare le altre culture e religioni, non sono disposte a condividere responsabilità che non siano direttamente individuate ed individualizzate (e talora cercano di sfuggire anche a quelle), né sono disposte a dare fiducia a chi è attivo in questi impegni di cooperazione e di aiuto (sospettando secondo fini e tornaconti), e tanto meno alle istituzioni statali eventualmente impegnate. Responsabilità, riconoscimento, fiducia che diventano risorse preziose, relativamente rare, che non possono essere date per scontate, le cui “buone ragioni” che ne giustificano la limitazione vanno comunque ascoltate e considerate prima di criticarle e proporne delle alternative. E in questo quadro così diversificato, non si può dare per scontato che l’idea di volontariato sia conosciuta, chiara e condivisa, che le idee di altruismo, di dono, di gratuità, abbiano automaticamente una credibilità tale da essere interiorizzate da adulti e giovani in modo da generare azioni conseguenti.

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2. In realtà per cogliere meglio il senso di questa amplissima vitalità che nasce dallo spirito e dalle mani di moltissime persone, che sanno guardare ai bisogni di ancor più numerose altre persone che vivono in tutte le parti del mondo oltre che vicino a casa, non possiamo analizzare l’agire volontario, pro-sociale, soltanto nel suo specifico, nella sua genealogia. Dobbiamo ri-chiedercene la ragione nel contesto della società attuale, soprattutto se vogliamo avere una attenzione particolare per le motivazioni e le azioni delle generazioni giovani, che stanno entrando nelle strutture portanti (nel bene e nel male) della società-mondo. Sarà ripetitivo, ma non banale ricordare che questa società vive per alcuni - i privilegiati delle società ricche, le nostre - una eccedenza culturale ed economica, per altri una intollerabile carenza (culturale, economica, politica). Tale eccedenza culturale di opportunità e di risorse si intreccia con il protagonismo di una platea infinitamente articolata di soggetti che vogliono veder riconosciuta la propria esistenza, identità, autonomia: anzi in molti casi lottano fisicamente, fanno la guerra per essere riconosciuti. È entrato nel parlare comune l’espressione: società del rischio, società dell’incertezza, perché non possiamo più calcolare bene le probabilità negative degli eventi, le alternative che vengono offerte sono molte, l’esito (voluto o sperato) delle proprie azioni è fortemente condizionato dall’agire di altri soggetti, che magari nemmeno conosciamo e sono fisicamente lontanissimi da noi. Forse anche per reagire a questo, più o meno consciamente, i genitori (italiani) sono diventati sempre più protettivi ed i giovani (italiani) rimangono a lungo a casa; i lavori sono flessibili e spesso precari, anche gli affetti sono spesso brevi, le scelte spesso sono fatte “con diritto di revoca” (come... per gli acquisti fatti tramite TV). Vi è di frequente, cioè, una riduzione dei confini delle responsabilità, concentrate su di un neo-familismo che spesso è “a-morale” perché non si interessa dei problemi e dello sviluppo della collettività, ha poco senso civico, ha poca fiducia negli altri e ancor meno nelle istituzioni civili. La riduzione o viceversa l’ampliamento delle responsabilità è una dimensione fondamentale di ogni normale processo di socializzazione, del normale stare insieme: in fondo quando parliamo da un punto di vista sociologico di solidarietà parliamo delle ragioni per

cui io sento che è un dovere, è bello, è importante far qualcosa con qualcuno e per qualcuno che io conosco o almeno riconosco come significativo, almeno quanto me, perché mi fido di lui e di noi, e voglio farmi carico sia delle intenzioni sia delle conseguenze di quanto farò e faremo. È una cosa del tutto normale, che però a seconda del senso che vi si dà può avere confini ristrettissimi, me e basta, o vastissimi, tutte le persone al mondo, può essere concepita pensando che noi siamo migliori e più degni degli altri cui possiamo fare anche volentieri della beneficenza, o che siamo uguali ma più fortunati e quindi più responsabili. Questi orientamenti, la desiderabilità o l’avversione per queste pratiche di vita, si assimilano - emotivamente ancora prima che razionalmente - condividendole innanzitutto nelle relazioni intime che vi sono in famiglia, nella parentela, nella cerchia di amici con cui si ha familiarità, tra gli adulti che stanno insieme perché si stimano e si vogliono bene, tra genitori e figli. Figli che imparano, non tanto attraverso il linguaggio verbale ma attraverso le emozioni e le azioni degli adulti, ciò che val la pena vivere, il perché certe relazioni hanno valore e non altre, ecc. È in questo flusso fondamentale di condivisione di esperienze tra generazioni che si impara ad avere ed apprezzare una memoria, una storia vissuta della vita delle persone che ci hanno preceduto, oppure non si apprende niente di questo e la vita sembra nascere dall’individuo, senza aver da condividere valori di altri che hanno vissuto prima di lui. Nel primo tipo di relazione “lunga” adulti-giovani, da bambini si comincia a far esperienza pratica e simbolica del ricevere: doni di tutti i tipi e dono di tutto. Una esperienza antropologica in cui facciamo esperienza dell’importanza vitale di essere riconosciuti dagli altri, e che è alla radice dell’essere riconoscenti, del valore simbolico del ricambiare, prima ancora che del donare ex novo. Esperienza che rende stimabile una relazione, o le relazioni personali in genere, in cui si intrecciano il senso della libertà con quello della obbligazione morale e psicologica, che fa ri-vivere lo scambio di doni come arricchimento psico-sociale reciproco.

La teoria del volontariato come sappiamo si è incentrata e si incentra molto sull’idea, potremmo dire anche sullo stereotipo del dono, ma nella sua socializzazione profonda forse dovrebbe essere centrata piuttosto sull’esperienza allargata del ricevere-ricambiare-

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donare. Questo emerge in modo significativo anche dalla presente ricerca, condotta con finezza da C. Bertolo con la collaborazione di M. Drusian, ma era stata evidenziata da alcune precedenti riflessioni antropologiche e filosofiche sul dono. Alcuni giovani dicono che hanno cominciato a fare volontariato perché hanno sentito, sono stati consapevoli (non si tratta di un mero sentimento, ma di un percorso riflessivo) di avere ricevuto molto e perciò si sono sentiti “liberamente obbligati” a dedicare proprie risorse ed energie ad altri che non hanno.

È vero che questo problema va posto in primis agli adulti, ai genitori, perché ha a che fare con una testimonianza ed una interiorizzazione remote rispetto all’appeal di questa o quella proposta di azione pro-sociale, ma è un problema che va sollevato, perché - sempre - parlando di giovani bisogna mettere in questione gli adulti che hanno contribuito a socializzarli. Senza una storia, senza riconoscersi dentro una memoria condivisa, senza responsabilizzazione sul fatto che innanzitutto si riceve, è improbabile che nascano motivazioni a donare; ricevere - essere riconoscenti - ricambiare - donare costruiscono in sequenza una storia di relazioni sociali fondamentali, di legami che via via riescono ad aprirsi anche verso persone anonime da cui non si ha bisogno di ricevere direttamente un ricambio, perché è la rete di responsabilità che assume un valore simbolico tale da non averne più bisogno. La relazione diventa ricompensa a se stessa.

3. Un altro aspetto, che è sempre e strettamente legato alla costruzione di senso del vivere delle persone e della società, è dato dal fatto che in questa società dell’incertezza la prima risorsa per vivere, magari inconsapevolmente, è sapere e capire chi si è, quali sono i propri talenti e i propri limiti. Prima di diventare curriculum l’identità personale è una risorsa fondamentale, radicale, dell’essere soggetti in una convivenza sociale. Oggi conosciamo meglio del passato i percorsi complessi e problematici della costruzione dell’identità, accettando almeno per convenzione la distinzione che è stata proposta tra idem-tità, identificazione, quello che abbiamo in comune ed impariamo a condividere con gli altri, ed individuazione, o individualità, che ha che fare con ciò che ci caratterizza in modo idiosincrasico e ci differenzia dagli altri. Il senso comune dell’idea di identità di fatto contiene entrambi

gli aspetti, e da vari anni viene studiato con più attenzione perché i cambiamenti culturali e tecnologici sono più rapidi e influenti, i mass media intervengono in modo pervasivo (si parla di colonizzazione) nella socializzazione fin dalla prima infanzia, la conoscenza e prossimità con culture altre entra a far parte dell’esperienza quotidiana di quasi tutti. Per tutto questo, l’identità risulta un percorso piuttosto che un quadro fisso, è un costrutto piuttosto che un dato impresso su di un ragazzo dalle generazioni precedenti, è un insieme plastico anche internamente contraddittorio piuttosto che totalmente integrato e coerente. Identità che quindi non è più frutto di un meccanico imprinting etnico generazionale, di una replicazione dell’identità genitoriale nei figli. Anzi, le generazioni giovani si costruiscono le proprie identità personali navigando, spesso a vista, ascoltando, sperimentando, provando e cambiando, sicuramente lontano dal replicare il già fatto da altri.

Allora anche il voler condividere un tratto fondamentale di una identità adulta come quello delle convinzioni e delle pratiche del volontariato non può (più) essere fatto semplicemente definendo pregi, vantaggi, valori, cogenza morale, come se fossero dovuti da parte dei giovani apprezzamento e sequela. Ognuno di loro è ingaggiato in una ricerca di identità, come lo sono anche gli adulti anche se spesso questi credono di aver risolto una volta per tutte i loro problemi e non ci riflettono più sopra. Un sociologo, che era anche psicoterapeuta, A. Melucci, in un’analisi dell’azione volontaria tracciata già negli anni ‘80, aveva espresso la convinzione che in gioco nel volontariato, nell’operare per gli altri, c’è anche la ricerca e la conferma dell’identità del volontario stesso, del suo associarsi ed agire. Non si tratta di un percorso necessariamente strumentale. E personalmente avevo aggiunto che proprio in quello consisteva uno degli aspetti più forti della “ricompensa simbolica” che il volontario riceveva nel donarsi, attraverso una reciprocità simbolica allargata (in amichevole dissenso rispetto alle riflessioni di C. Ranci sui “doni senza reciprocità”, che avevano avuto molto successo nel trattare di gratuità).

Oggi anche da questa ricerca emerge che gli adulti delle associazioni di volontariato, cercando di condividere con i giovani i loro obbiettivi e valori, debbono essere consapevoli che sia per loro stessi che per i

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giovani è in gioco una ricerca di identità, che va fatta crescere, e non applicata, o tentando di applicarla, come un vestito pre-confezionato. Se non sembrasse retorico, si potrebbe dire che il volontariato - da questo punto di vista - non è qualcosa che si fa, ma un percorso in cui si cercano altri con cui lavorare e per cui lavorare perché contemporaneamente si cerca anche il proprio profilo, i propri valori, talenti, entusiasmi, passioni. Li si scopre e li si mette alla prova, se ne vedono gli effetti, le conseguenze, i costi, i benefici. Gli adulti debbono riflettere, per se stessi, mettersi in gioco, e accompagnare i giovani a fare il proprio percorso, e per quanto possibile farne una parte insieme.

Questo può parzialmente scombinare l’esperienza di adulti che ritengono di aver già capito, già trovato, che sia sufficiente seguirli e fare quanto loro hanno già progettato sulla base della passata esperienza. La comunicazione che nasce da simili atteggiamenti culturali ed organizzativi non può che essere - pur in buona fede - monologica (utilizzando un’espressione del sociologo e filosofo tedesco Habermas), autoespressiva, autoassertiva. È probabile che pochi giovani riflessivi abbiano voglia di essere coinvolti in qualcosa di simile. Una ricerca di relazione con altri e di costruzione di sè è più probabile si costruisca con un agire dialogico, che voglia esprimersi sia nelle relazioni interpersonali sia nei rapporti organizzativi.

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GIOVANI E VOLONTARIATO: MOLTEPLICI PUNTI DI VISTA

1. Le questioni in gioco

Obiettivo di questa indagine esplorativa è di individuare temi e problematiche utili a stabilire se è possibile una comunicazione sociale (se sì, con quali modalità) che sensibilizzi maggiormente i giovani al tema del volontariato e incentivi la loro disponibilità ad entrare in contatto-impegnarsi in associazioni che si occupano di disagio. L’ipotesi di sfondo è che i giovani siano sempre più disaffezionati nei confronti dell’impegno organizzato nel volontariato, e che una delle cause prevalenti di tale disaffezione sia riconducibile ad alcune caratteristiche della condizione giovanile nella società attuale.

Nel dibattito in corso - alimentato da riflessioni che nascono da ricerche focalizzate sul rapporto giovani e volontariato (FIVol, Ambrosini, Boccacin e Rossi, ISTAT, e altri) o da ricerche più ampie sui giovani (IARD, Osservatorio Regionale del Veneto sul volontariato) - non vi sono letture univoche del problema che viene articolato attorno a quelli che individuiamo come temi chiave nella definizione degli aspetti di pro-socialità nell’esperienza giovanile: partecipazione, impegno volontario, sentimento civico, comportamenti solidaristici.

Abbiamo scelto per la nostra indagine giovani tra i 18 ed i 26 anni, in ragione del fatto che si possono considerare alla fine dell’adolescenza (termine della scuola superiore) e già impegnati in una fase della vita caratterizzata da maggiore autonomia ed impegno su più fronti (l’università, la ricerca di lavoro, la definizione di cerchie relazionali proprie che marchino una separazione più netta dall’ambito familiare) ma che non è non ancora, almeno per la maggioranza dei giovani, sfociata nel passaggio a status più riferiti all’età adulta (occupazione stabile, famiglia propria).

Questa scelta è collegata alla considerazione che l’essere in

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questa fase di transizione, nella quale si gioca su più fronti la visione-ricerca del proprio modo di stare al mondo da adulti, pone il giovane in una continua interrogazione/valutazione del rapporto sé/mondo circostante che egli sperimenta nella quotidianità (fare/non fare) e che viene significato attraverso le rappresentazioni di sé e dell’altro che si confrontano e consolidano attraverso le esperienze.

Poiché le rappresentazioni sono sistemi simbolici con la funzione di fornire codici per lo scambio sociale, abbiamo considerato utile per lo scopo della nostra indagine rilevare le rappresentazioni sull’azione di volontariato dei giovani (impegnati e non impegnati in associazioni di volontariato) e degli adulti (impegnati stabilmente in associazioni), al fine di rilevarne quegli elementi di vicinanza e di lontananza che possono aiutarci a circoscrivere le possibilità e le eventuali ragioni di difficoltà di una comunicazione efficace.

Incrociando le rappresentazioni che emergono dalle interviste e dai focus group con quelle veicolate tramite la letteratura sul tema, ci siamo proposti di problematizzare degli assunti (le cornici) che spesso sono presi come riferimento (più o meno consapevolmente) nel progettare i messaggi di comunicazione tramite i quali ci si propone di sensibilizzare i giovani al volontariato presentato quale esperienza significativa per la costruzione del proprio futuro e della qualità della vita sociale.

Ricorrere a stereotipi e pregiudizi1 è inevitabile poiché sono parte del modo in cui ciascuno ha appreso a conoscere il mondo. Essi possono tuttavia essere resi espliciti, e se necessario messi in discussione, allorché percepiamo che la loro messa in scena impedisce di comprendere un problema e di trovare soluzioni a determinate questioni. È quanto accade se nell’interpretazione dei fatti sociali ci adagiamo nella ripetizione di nozioni o di interpretazioni che diventano, se riproposte senza più esplorarle, schermo opaco che ci impedisce di curiosare e di scoprire quanto sta accadendo nella realtà del mondo della vita2.

Tale prospettiva richiede di uscire da cornici che rischiano di porsi come luoghi comuni sulla disaffezione dei giovani nei confronti di forme di impegno sociale, per articolare il problema in termini di relazione tra sé e alter e di processo di costruzione dell’identità (individuale e sociale) nelle forme dell’agire sociale degli individui di cui l’azione

volontaria è uno dei campi possibili di azione collettiva e come tale luogo di identificazione e di realizzazione di senso.

Crespi (2004) definisce il senso quale originario ambito pre-riflessivo, connotato da bisogni, stimoli, emozioni, all’interno del quale diventa possibile ogni riflessività cosciente del soggetto, ogni attività cognitiva e ogni determinazione di significato. Il senso può essere visto come l’insieme delle indeterminate potenzialità e risorse a partire dal quale, grazie alla sua capacità innata di intenzionalità riflessiva e di memoria, l’individuo può pervenire - attraverso l’acquisizione del linguaggio, la memoria, l’elaborazione delle sue esperienze e lo scambio relazionale - ai significati più o meno codificati attraverso i quali interpretare se stesso, gli altri e il mondo.

“Come ha mostrato Heidegger - scrive Crespi - la dimensione della significatività emerge come modalità della comprensione che non ha luogo inizialmente nel pensiero, bensì nei rapporti concreti nei quali si manifesta l’atteggiamento del prendersi cura delle cose e degli altri che caratterizza ogni essere umano” (Crespi 2004, 75-79).

È, allora, a partire dalle esperienze nella singolarità delle biografie che possiamo ricercare i significati che gli individui danno alle proprie azioni, alle scelte e alle incertezze o alle ambivalenze, sapendo che tali significati non sono mai dati una volta per tutte, perché nella rielaborazione del proprio vissuto ciascuno si confronta con i propri limiti, acquisisce nuove consapevolezze e può aprirsi a nuove possibilità.

2. Giovani e volontariato nella letteratura

La letteratura sui giovani e il volontariato è molto vasta, dato che, ogni qual volta si fa ricerca sui giovani, una delle dimensioni indagate è l’associazionismo e la partecipazione. Non solo quindi indagini mirate alla comprensione del rapporto tra giovani e volontariato nello specifico, ma anche ricerche più ampie, in cui il volontariato rientra come un’attività che completa il quadro insieme a lavoro, studio e tempo libero. Chiaramente, un grosso limite nel considerare ricerche

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diverse è la disparità di metodi utilizzati nella rilevazione dei dati, sia in termini di coorte, cioè di fasce di età considerate, sia in termini di definizione di attività volontaria, in altre parole ad esempio, se si considera volontario anche chi non è iscritto a nessuna associazione, oppure se si considera solamente l’attività attuale o anche l’esperienza passate. Al di là di queste disparità di metodo, una prima esplorazione attraverso i dati di alcune rilevazioni aiuterà comunque a posizionare meglio l’oggetto di analisi rispetto al panorama generale e locale del rapporto tra azione volontaria e giovani.

In una ricerca non recentissima, i giovani sono stati etichettati come una “generazione invisibile”: pochi e frammentati, non fanno notizia, si sottraggono ai movimenti del presente e si ripiegano in un intorno quotidiano senza diventare protagonisti, incapaci di grandi trasformazioni (Diamanti 1999). Il volontariato qui è un “fenomeno collettivo”, non movimento, e quindi “strumento di affermazione, canale di formazione, di inserimento professionale”, che promuove l’integrazione sociale e l’altruismo, ma non fa miracoli, non sfida il mondo “con messaggi e esperienze dirompenti”, rimanendo sommerso e sparso (Diamanti 1999, 19).

Nell’ultimo rapporto della Fondazione Nord Est emerge ancora questo atteggiamento sebbene a un livello più generale. Nell’insieme, l’orientamento civico dei Veneti sarebbe caratterizzato da “strumentalità e disincanto”, il rapporto con lo stato registra una domanda crescente, ma anche molta insoddisfazione (Diamanti, Bordignon 2005). Allo stato ci si rapporta per necessità, senza passione e con scarsa fiducia. Ma anche il privato non è soddisfacente. I Veneti quindi sarebbero “sospesi a mezz’aria”, tra il contrasto tra pubblico e privato, centro e periferia. L’impegno volontario, strettamente legato al senso civico e alla partecipazione politica, comunque presente per il 29% della popolazione, risentirebbe di queste pressioni e a lungo andare sarebbe condannato al logoramento (Diamanti, Bordignon 2005).

Nel primo rapporto dell’Osservatorio sulla condizione giovanile nel Veneto (2002) viene evidenziato che il Veneto è l’area in cui è più elevato il tasso di partecipazione alle riunioni di gruppi di volontariato (13,7%)3, inferiore comunque alla partecipazione a gruppi culturali o ricreativi (15,2%; De Colle 2002, 111).

Nei rapporti sulla condizione giovanile in Italia effettuati dallo IARD, il volontariato è stato considerato, anche se in modo marginale, all’interno della partecipazione associativa, che fino al terzo rapporto del 1992 ha registrato un aumento dei partecipanti (65,2%; Cavalli, De Lillo 1993). La cifra rimane pressoché invariata anche nel quarto rapporto in cui si comincia a esplorare la multiappartenenza dei giovani. L’ultimo rapporto IARD (2002) conferma una presenza consistente di partecipazione associativa giovanile. Bisogna sottolineare che la rilevazione si sofferma non sull’azione volontaria nello specifico, bensì sull’associazionismo in genere, e cioè i dati rilevati riguardano la partecipazione ad associazioni sportive, parrocchiali, culturali, politiche, turistiche, solo per fare qualche esempio. Il volontariato è solo una voce tra le altre.

In generale, il quadro che emerge dalla ricerca IARD evidenzia che i giovani si associano soprattutto in associazioni di fruizione, anche se nel tempo le associazioni di impegno e quelle religiose stanno crescendo in termini di partecipazione (Albano 2002, 443). Le variabili legate al genere e all’età influenzano l’associazionismo (i maschi si associano di più; la partecipazione declina all’aumentare dell’età), così come anche il background familiare e la classe sociale appaiono importanti nella propensione alla partecipazione. Il quadro tracciato dallo IARD mette in evidenza che il protagonismo giovanile, che si esprime attraverso la partecipazione associativa, non è assente dallo spazio pubblico, ma piuttosto è silenzioso. Si distacca dalla sfera politica, che è percepita come sempre più lontana e invece si realizza nella responsabilità e nell’impegno verso la collettività, che, secondo lo IARD, cresce nella considerazione dei giovani. I giovani si isolano dalla politica convenzionale, hanno meno fiducia nelle istituzioni, ma non per questo sono carenti di spirito civico. Nello specifico, il 7,6% di giovani tra i 15 e i 29 anni fanno “attualmente” parte di gruppi di volontariato sociale e assistenziale, il 3% a organizzazione di soccorso umanitario, il 9% a gruppi parrocchiali (Albano 2002).

Per quanto riguarda le motivazioni all’entrata nel mondo del volontariato, Ambrosini è molto chiaro: si tratta del risultato o della continuazione di altri cammini educativi (2004, 197). L’impegno non si radica in un vuoto sociale, ma è caratterizzato da radicamento

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relazionale e radicamento culturale (Ambrosini 2004, 197). Il primo è connesso alle reti amicali, che si sviluppano e si supportano

attraverso l’impegno associazionistico, ma soprattutto si esplica attraverso il ruolo di socializzazione e di trasmissione della famiglia. Anche per Rossi e Boccacin reti amicali e famiglia sono fondamentali nel percorso di sviluppo della prosocialità legata all’azione volontaria (Rossi 2004, Boccacin 2004).

Il radicamento culturale dipende dalla matrice ideale e religiosa in cui crescono gli individui e dalle opportunità di impegno sociale a loro disposizione. Si tratta certamente di fattori dipendenti dal tessuto sociale, ma l’impegno non può prescindere dalla soggettività, dato che, in epoca di disincanto dalla politica e dalle ideologie, non è più pensabile un’adesione alle associazioni per il loro valore intrinseco.

La ricerca svolta da Ambrosini ha permesso di creare una duplice tipologia di giovani impegnati nel volontariato. Il primo asse riguarda il significato dell’esperienze del volontariato nella vita dei giovani, come guadagno per sé che essi ritengono di conseguire (Ambrosini 2004, 206). Si individua così in primo luogo un volontariato della scoperta, tipico dei più giovani, che attiene alla sperimentazione di ruoli, alla sfida e alla verifica delle proprie capacità, strettamente collegato alle cerchie amicali e primo passo verso l’affrancamento dai vincoli familiari.

In secondo luogo, si riconosce un volontariato dell’inserimento, che si colloca in una fase più matura del corso di vita del volontario e che assume i caratteri della transizione alla vita attiva, di processo professionalizzante, coerente o meno con il percorso di studi effettuati. È un modo cioè per rispondere all’insicurezza occupazionale, per costruire collegamenti con il mondo esterno e reti di relazioni che potranno rivelarsi vantaggiosi.

Vi è poi un volontariato del riequilibrio, tipico di coloro che magari lavorano in azienda o in ambiti eticamente sterili e desiderano recuperare la dimensione della solidarietà e il senso dell’impegno per qualcosa di più ricco e autentico.

Il secondo asse che costituisce la tipologia è quello del volontariato come servizio agli altri, che individua innanzitutto un volontariato della cura, che si incentra sulla relazione di aiuto agli altri. Il volontariato della responsabilità si esplica sostanzialmente come dovere civico e

impegno a livello locale, come espressione cioè di cittadinanza attiva nella società civile. Infine, il volontariato della militanza è quello che ha come obiettivo il cambiamento della società nel suo insieme, come nello specifico ad esempio le attività legate al commercio equo e solidale oppure l’impegno ambientalista. È per i volontari un “abito mentale”, piuttosto che un’attività, che regola molti aspetti della vita quotidiana. Tra gli elementi emersi dalla ricerca di Ambrosini, sono da sottolineare alcuni aspetti importanti: in primo luogo, i giovani volontari non esigono più autonomia, ma maggiore accompagnamento, nell’affrontare lo stress di situazioni conflittuali e problematiche in cui non vogliono essere lasciati soli. Questo si lega chiaramente alla concezione che l’organizzazione di volontariato ha del volontario stesso. In secondo luogo, viene sottolineato il carattere di selettività sociale del volontariato, in altre parole hanno più probabilità di diventare volontari i più istruiti, provenienti da classi medie e medio-superiori, con famiglie integre alle spalle (Ambrosini 2004, 212).

Tra gli altri elementi che caratterizzano il volontariato come esperienza, è opportuno sottolineare ancora un’altra considerazione di Ambrosini, il quale lo definisce come una “palestra di democrazia” (Ambrosini 2004, 194) nel senso che non solo stimola ed è luogo di discussioni e decisioni collettive, ma deve anche fare fronte ai vincoli delle risorse disponibili. Nel fare volontariato, poi, si rende necessaria da parte del soggetto l’esperienza dell’assunzione di responsabilità, per sé e per l’altro, elemento che è sicuramente di fondamentale importanza nel percorso di costruzione di identità degli individui in crescita. Anche per questo, si configura come una via di socializzazione alla politica ed è “portatore di una politicità intrinseca” (Ambrosini 2004, 197), poiché orienta verso la cittadinanza attiva. In tempi in cui la disaffezione dei giovani verso la politica è crescente, l’esperienza volontaria può diventare una nuova espressione di politicità.

In virtù delle disparità di metodo richiamate in precedenza, emergono dati alle volte contraddittori, che invece di rendere più chiaro il campo di indagine, lo offuscano, come nel caso delle conclusioni tratte dall’indagine Fivol. Se il quadro delineato dallo IARD è sostanzialmente positivo, i dati che emergono da quest’ultima indagine citata vanno in direzione opposta.

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Secondo l’ultima ricerca della Fivol del 2001 la partecipazione giovanile al volontariato sarebbe in contrazione: solo l’8,3% delle organizzazioni di volontariato registra una presenza giovanile, dato che si restringe ancora di più per il Nord Est con il 5,8%. In generale i giovani impegnati in organizzazioni di volontariato in modo continuativo sarebbero meno del 10%. Le variabili positivamente correlate con la presenza sono il livello di istruzione formale raggiunta dai volontari, la dimensione religiosa e il background familiare (Frisanco 2004).

Le ragioni della contrazione della presenza giovanile, secondo Frisanco (2002), sarebbero molteplici. In primo luogo, i giovani agirebbero con pratiche “micro sociali” di interazione quotidiana, flessibili e in forme alternative di cittadinanza sociale. Si tratterebbe della dimensione dei gruppi informali, dislocati sul territorio al livello dell’interazione faccia a faccia quotidiana e quindi “invisibili”, così come sottolineato in precedenza anche da Diamanti (1999). Il volontariato poi è una scelta tra le altre che il giovane può fare, e in quanto tale è sempre reversibile, anche perché non proviene da una motivazione collegata alle appartenenze ideologiche e strutturanti come poteva accadere in passato.

Tra gli elementi “macro”, la precarizzazione e la crescente instabilità e flessibilità che caratterizzano il mondo del lavoro si ripercuoterebbero sulla disaffezione dei giovani nei confronti del volontariato, nonché su ogni aspetto della vita dei giovani, dato che i livelli di incertezza a cui devono fare fronte gli individui sono sempre maggiori. Un’altra ipotesi riguarda la “caduta dei valori della solidarietà attiva e diretta in una società a crescente cultura neoliberista” (Frisanco 2002) di cui i giovani risentono in modo più forte per il fatto di essere individui in crescita. In altre parole, la cultura di stampo economicista impostata sul libero mercato di cui i giovani sarebbero fruitori diretti diventerebbe un forte deterrente all’impegno solidale, che di per sé è in contraddizione proprio con quella cultura.

Un altro aspetto, sempre secondo Frisanco, riguarderebbe i rapporti intergenerazionali difficili, caratterizzati da dipendenza nei confronti del mondo degli adulti, dovuti anche alla crisi delle agenzie di socializzazione primaria –famiglia- e secondaria –scuola, oratorio, associazionismo tradizionale- che non preparerebbero ai valori della

cittadinanza attiva. Infine, le motivazioni vanno ritrovate anche all’interno del mondo del volontariato, nella capacità di disseminare la cultura della solidarietà attiva, del reclutamento di nuovi volontari, di accoglierli, seguirli e formarli adeguatamente, incontrando le loro esigenze di partecipazione, rispondendo alle domande espressive, socializzanti e autoformative.

In generale, quando partecipano, i giovani si orienterebbero soprattutto verso i settori della partecipazione civica, dell’educazione, della protezione civile, della tutela ambientale e culturale. Sarebbero meno inclini alla relazione di servizio di assistenza ai malati o ai soggetti con bisogni sociosanitari conclamati o da sostenere nei luoghi di cura, mentre sarebbero più disponibili ai servizi ausiliari dell’assistenza, come il trasporto dei malati o non autosufficienti, al soccorso, all’organizzazione della donazione del sangue (Frisanco 2002).

I risultati dell’indagine Fivol, come anche ricordato da Ambrosini (2004), hanno avuto una grossa risonanza proprio perché hanno messo in primo piano il normale problema di tutte le organizzazioni in merito al ricambio e all’attrazione di nuovi volontari, e se i giovani si disaffezionano al volontariato, la questione diventa oltremodo spinosa.

Tuttavia, i dati Fivol possono essere letti sotto un’altra luce: considerato il fatto che la popolazione giovanile ha subito una forte contrazione negli ultimi anni, di circa il 2% annuo, la diminuzione dei volontari giovani sarebbe apparente. In realtà, i giovani volontari non sono diminuiti, anche se è vero che sono meno, perché meno sono i giovani in complesso. I dati Fivol quindi avrebbero dato voce all’impressione della diminuzione apparente di volontari giovani, ulteriormente suffragata poi dal senso comune che delineerebbe i giovani come dotati di poca coscienza civica.

La tavola che viene presentata di seguito offre un’altra lettura sulla base di dati ISTAT4 dell’ultimo rapporto sulle organizzazioni di volontariato (2005), secondo cui il Veneto si colloca al quarto posto dopo Lombardia, Toscana e Emilia Romagna con il 9,6% di organizzazioni di volontariato, e il numero di volontari è cresciuto negli ultimi anni (da 39.357 unità del 1995 a 62.139 del 2003). Nella

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tavola 1 sono riportati i dati che indicano il numero di volontari per classe di età e l’incidenza che risulta dalla relazione tra numero di volontari e popolazione totale, riportata in tavola 2. A livello nazionale, si può osservare che la quota dei volontari è aumentata per tutte le fasce di età, compresa quella giovane, dal 1995 al 2003. Per quanto riguarda il dato veneto, si nota anche in questo caso un aumento nell’incidenza dei volontari sulla popolazione totale che riguarda tutte le fasce di età nel corso degli anni.

Tavola 1 - Volontari per classe di età. Anni 1995 e 2003

AREA GEOGRAFICA

Classe di etàFino a 29 anni Da 30 a 54 anni Oltre i 54 anni

N. Incidenza N. Incidenza N. IncidenzaANNO 1995

Veneto 10.042 1,01 17.831 1,12 11.663 0,90Italia 146.522 1,15 188.936 0,90 146.522 0,90

ANNO 2003Veneto 8.885 1,14 26.409 1,49 26.844 1,89

Italia 182.536 1,77 339.467 1,61 303.951 1,71

Rielaborazione da ISTAT, Rilevazione delle organizzazioni di volontariato. Anni 1995 e 2003

Tavola 2 – Popolazione totale per classe di età. Anni 1995 e 2003

Anno Classe di etàFino a 29 anni Da 30 a 54 anni Oltre i 54 anni

Veneto1995 990.627 1.582.012 1.245.0982003 776.783 1.761.567 1.415.002

Italia1995 12.721.319 19.520.186 16.208.3692003 10.298.676 21.071.018 17.803.238

Rielaborazione da ISTAT, dati demografici anni 1995 e 2003.

I dati quindi presentano una situazione che non conferma la mancanza di partecipazione dei giovani all’azione volontaria, in Italia come in Veneto. I giovani non si sarebbero disaffezionati al volontariato, ma anzi l’incidenza dei volontari in relazione alla popolazione totale sarebbe aumentata, ferme restando tutte le considerazioni sulla disparità dei metodi di rilevazione. Bisogna sottolineare nuovamente che i giovani in complesso sono diminuiti e quindi la sensazione di calo della partecipazione giovanile non è falsa, ma essa è solo appunto una sensazione. Inoltre, questi dati non ci consentono di riflettere sul tipo, sulla qualità, dell’impegno giovanile (se costante o discontinuo, se caratterizzato da multiappartenenza o monoappartenenza, se attivo a livello organizzativo oppure no ecc.). Si tratta di un punto di partenza per riflettere sulla effettiva partecipazione dei giovani al volontariato, al di là del senso comune.

3. Adulti e giovani: tra rappresentazioni ed esperienze

3.1. Cornice uno. I giovani hanno un deficit di senso civico.È necessario premettere che qui assumiamo l’affermazione che

la maggioranza dei giovani non fa volontariato come espressione di un sentire di senso comune, tema che riprenderemo più avanti. Ponendoci oltre i dati proposti da ricerche diverse (vedasi paragrafo precedente), la percezione da parte degli adulti di una crisi di vocazioni giovanili all’impegno organizzato nel volontariato di disagio alimenta un controverso dibattito sulla “insensibilità” o “incapacità” dei giovani di impegnarsi in azioni di solidarietà organizzata.

Il problema, a nostro parere, sta nel fatto che i due poli di riferimento, adulti volontari e giovani, appartengono a due fasce di popolazione che vivono un ciclo della vita caratterizzato da problematiche oggettivamente e soggettivamente molto differenti il che, a nostro parere, segna le esperienze soggettivamente ricercate in quanto significative nel processo di costruzione della propria identità, personale e sociale. Tali “differenze” di rappresentazioni e significati vanno compresi non solo riferendoci alle dinamiche intergenerazionali,

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ma anche collocandole nel cambiamento di società e della relazione individuo/società nell’attuale momento storico. Diversamente che nella società moderna, nella tarda modernità il problema del senso ritorna e questo è un cambiamento che porta anche a rivedere o a riformulare i significati assegnati a scelte considerate socialmente rilevanti/significative e di come queste si traducono in pratiche. È un rimescolamento di elementi che dobbiamo ricercare per riconoscere e riconoscerci nel cambiamento.

La realtà dei giovani viene spesso descritta come caratterizzata da mancanza di progettualità esistenziale e di capacità di assumere impegni a lungo termine “come effetti” della società dell’incertezza, di cui uno degli elementi caratterizzanti è la precarietà del lavoro. Nei discorsi degli adulti appare diffusa la preoccupazione per un mondo giovanile percepito come opaco rispetto a valori sociali inclusivi e ai problemi sociali come qualcosa che li riguarda: “non pare sopravvivere (nella cultura giovanile) alcuno spazio significativo per un agire dotato di senso, volto all’ampliamento di spazi per relazioni intersoggettive buone e alla costruzione dal basso di circuiti di integrazione sociale” (Ambrosini 2005, 10).

Questa rappresentazione della condizione giovanile ha alimentato il senso comune diffuso ed ha disegnato un preciso modo di pensare pregiudiziale che riguarda trasversalmente un po’ tutti gli aspetti dell’interazione giovani-società.

La crisi di adesioni giovanili al volontariato viene infatti spesso ricollegata, nella letteratura utilizzata per questo lavoro, alla più generale crisi di partecipazione civica, evocando un problematico rapporto tra istituzioni e cittadini del quale, per lo più, la chiave di lettura è quella delle dinamiche di fiducia.

In quasi tutte le società post-industriali avanzate si riscontra da parte dei cittadini la disaffezione verso le istituzioni politiche, problema complesso nella sua articolazione e che qui non affronteremo, ma che porta a chiederci se stiamo pagando lo scotto di quella che Bobbio (1984) evidenzia come una delle promesse mancate della democrazia, sta a dire la non educazione alla cittadinanza nel significato di prendere parte attiva alla vita pubblica, essere disposti a cooperare ad essa in varie forme e gradi.

Dato che molte “voci adulte” affermano che il fatto che la maggioranza dei giovani non fa volontariato è la cartina al tornasole di un più “ampio” problema di allontanamento dall’assumersi un ruolo di cittadinanza attiva, quindi di riconoscimento della solidarietà come elemento indispensabile della coesione sociale, la questione che qui ci interessa è definire se effettivamente la crisi di impegno dei giovani nel volontariato organizzato va inquadrata (e quindi comunicata) come assenza di civicness5 e se la promozione alla partecipazione alla vita associativa possa essere effettivamente strumento per un processo di coinvolgimento civico.

Nella sua ricerca Sciolla6 smentisce l’automaticità di questa correlazione di significati ed evidenzia addirittura la possibilità di un legame negativo tra vita associativa e civismo7. Il partecipare ad associazioni non solo non instilla un sentimento di difesa della cosa pubblica e di rispetto della legalità, ma addirittura lo può disincentivare. Né la vita associativa genera qualche tipo di fiducia e inclinazione a cooperare in questi contesti come mostra l’assenza di legami sia con la fiducia negli italiani che con la fiducia istituzionale. […] La vita associativa si connette positivamente solo con valori civili di tipo libertario8 […] è isolata, l’impegno e la fiducia chiusi su se stessi, entro i confini dell’associazione”. Le reti associative, continua l’autrice riferendosi ad ampia letteratura, a seconda del contesto in cui si integrano, della loro maggiore o minore chiusura, possono dare luogo a esiti diversi (promuovere valori libertari o fiducia istituzionale) o possono rimanere come isole o arcipelaghi non comunicanti (Sciolla 2004, 217-218).

Ci rendiamo conto che riportando queste riflessioni di Sciolla apriamo ad un dibattito controverso che non rientra nel nostro obiettivo di lavoro9. Ciò che dal nostro punto di vista è interessante sottolineare in queste affermazioni è che se questa è una possibile lettura della realtà sociale anche nell’immaginario collettivo non esista automaticamente la correlazione tra l’essere soggetti attivi in pratiche di solidarietà organizzata e l’essere “buoni” cittadini. Se così è, ciò porta a leggere criticamente una rappresentazione che spesso fonda una promozione (comunicata) del volontariato abbinata al diritto/dovere di cittadinanza attiva.

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Un altro aspetto problematico che può essere influente a livello di immagine diffusa e percepita del volontariato è la frammentazione e talora la competizione visibile tra associazioni e nel rapporto tra associazioni ed istituzioni pubbliche. Ci si riferisce a quei comportamenti indotti talora dalla visione settoriale dei problemi propria delle associazioni single issue, che rappresentano la maggior parte delle associazioni di dimensioni locali10, oppure a comportamenti di orientamento dell’azione in funzione strumentale dei flussi di finanziamento.

Ritornando al parallelo tra partecipazione ad azioni organizzate di volontariato ed azioni di cittadinanza attiva, rileviamo inoltre che la questione richiede, innanzitutto, che sia esplorata la rappresentazione che sottende la definizione di “attivo” che sembrerebbe associata a un giudizio morale (il “buon cittadino”11). Percorrere le argomentazioni di Sciolla ci aiuta a porre in termini critici anche la nostra riflessione, al fine di arrivare a riconoscere se la crisi percepita nell’attitudine dei giovani verso forme di partecipazione-impegno possa essere riletta alla luce di altri originali modi e significati di partecipazione. Il che aprirebbe alla possibilità di pensare a forme e a messaggi di comunicazione che valorizzino modalità altre da quella di un “dover essere” nel quale i giovani cittadini potrebbero non riconoscersi. E questo ci sembra possibile realizzarlo attraverso la comprensione del punto di vista dei soggetti (individuali e collettivi).

Sostanzialmente la questione apre al tema della presenza o meno di una declinazione del sentimento di appartenenza, cioè del punto di equilibrio (non necessariamente dato una volta per tutte) che ciascuno soggettivamente, più o meno consapevolmente, riconosce come proprio, soddisfacente, tra l’essere parte e il prendere parte alla vita sociale. Punto rispetto al quale si definisce per ciascun individuo la linea di confine nelle esperienze quotidiane di inclusione e di esclusione (di temi, di problemi, di azioni, di soggetti), le quali esprimono sistemi di significati e di orientamenti culturali (definizione di bisogni, valori, vincoli, interessi) che si concretano attraverso la messa in campo di quadri cognitivi, interazioni, dimensioni affettive e emozionali.

Tale prospettiva richiede di uscire da cornici che rischiano di cristallizzarsi come luoghi comuni -quali, come già evidenziato, la

disaffezione dei giovani nei confronti di forme di impegno sociale- per articolare il problema della formazione e riproduzione dell’agire sociale dei giovani. Agire del quale l’azione volontaria è uno dei campi possibili di azione collettiva e si pone come luogo di identificazione e di realizzazione di senso con riferimento al processo di costruzione dell’identità individuale e sociale.

Come già ci ha indicato Melucci (2000), è nella vita quotidiana che gli individui costruiscono attivamente il senso della propria azione che non è più assegnato dalle strutture sociali e sottoposto ai vincoli rigidi dell’ordine costituito. Le domande e le sperimentazioni dei giovani di azioni socialmente significative, che in questo rapporto esploriamo con riferimento al focus della partecipazione o meno ad azioni organizzate di volontariato, ci ri-portano, da diversi punti di vista, ad una ricerca di senso che tenta di conciliare dimensione soggettiva e dimensione relazionale/intersoggettiva. Il senso è sempre più prodotto attraverso relazioni e questa dimensione costruttiva e relazionale accresce nell’azione individuale la componente della ricerca di significato. Ciò sposta l’attenzione verso le dimensioni socio-culturali dell’azione umana; nella società del multi-sé non esiste più un canale esclusivo nella produzione di identità sociale, la quale diventa la risultante che ogni soggetto compie delle molte parziali identità nelle quali riconosce parti di sé e che si formano nei diversi mondi di vita che compongono la quotidianità12.

3.2. Cornice due: i giovani non considerano il volontariato quale opportunità

Ricordiamo con Frisanco13, che il volontariato si definisce quale valore in sé e, per le caratteristiche che si riconosce, quale orizzonte di senso. Nei discorsi che il volontariato diffonde su se stesso ricorrono frequentemente alcuni caratteri distintivi che formano la cornice di senso comune, il quale si esprime tuttavia - per la pluralità di sfere di appartenenza degli individui - in una molteplicità di sensi comuni14 che, nell’incontro con le appartenenze ideologiche, porta a elaborarne visioni diverse. Il volontariato pertanto non esprime una cultura omogenea ma è un insieme di diverse componenti.

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Al volontariato si riconoscono caratteristiche che lo rendono esperienza in grado di influenzare molte dimensioni della vita degli individui che si impegnano nella vita associativa. Ne ricordiamo alcune: - occasione di esplorazione di sé; - esperienza della solidarietà che si fonda sul dono e la gratuità; - antidoto ad una chiusura egoistica (nel piccolo gruppo familiare o amicale); - occasione formativa in grado di trasmettere competenze trasversali (il saper essere con gli altri, lo sviluppare una mentalità di problem solving ecc.) e, per questo, potenziale volano per trovare lavoro nuovo nelle pieghe delle economie locali.

Questi argomenti “a favore” sono i temi utilizzati spesso nelle comunicazioni di promozione del volontariato nell’intento di trasferire ai giovani valori quali: gratuità, altruismo, cultura del dono, solidarietà, reciprocità15. Trasmissione che avviene per lo più tramite due canali:

1. un notevole investimento in attività di informazione, concentrate per lo più in istituti scolastici per la convinzione che è con la diffusione di tale cultura tra i giovanissimi che si mettono le basi per un impegno in successivi cicli di vita;

2. l’organizzazione di attività promozionali che consentano il coinvolgimento attivo dei giovani, e l’identificazione di spazi di impegno strutturati o predisposti ad hoc per i giovani. Come dire che si creano spazi nei quali i bisogni di espressività e di auto-imprenditività dei giovani possano realizzarsi in un contesto di azione solidale.

Questa scelta di diffondere una conoscenza del volontariato con modalità che valorizzano il contatto diretto (che sembra essere il canale più efficace per la diffusione di questo genere di tematiche) si accompagna necessariamente -affinché sia una promessa mantenuta- alla riflessione sulla riorganizzazione interna delle associazioni, per comprendere se e in che modo le modalità organizzative attivate tengano conto delle esigenze specifiche dei giovani quali le esigenze di flessibilità e di non rigidità nella strutturazione dell’impegno nella vita associativa.

Una tendenza che sembra oggi riguardare per lo più le organizzazioni di grandi dimensioni, in grado di disporre di risorse e di attività diversificate, mentre risulta più problematica, se non considerata talvolta non applicabile, per le associazioni di piccole e medie

dimensioni focalizzate sul servizio alla persona, le quali necessitano di competenze specifiche e di continuità di impegno.

Un’altra strategia adottata dal volontariato organizzato per coinvolgere i giovani e per fidelizzare quelli che vi sono già impegnati si sviluppa con un significativo investimento in formazione tanto all’interno dell’associazione (tutoraggio per tirocini, stage) quanto all’esterno (si vedano i dati FIVol del 2001 sull’aumento esponenziale di attività di formazione da parte dei Centri di Servizio per il Volontariato provinciali).

Molte sono quindi le azioni progettate e attuate per “svecchiare” il volontariato organizzato e consentire da un lato il ricambio generazionale e d’altro lato l’alimentazione di un tessuto sociale il più inclusivo possibile dei valori di solidarietà. E tali azioni appaiono adeguate nella loro articolazione rispetto alla molteplicità dei problemi che interessano il reclutamento di giovani nuovi volontari. Dove sta allora il problema?

A nostro parere il problema sta nella relazione tra il volontario adulto e il giovane, e più precisamente nelle dinamiche interpersonali che caratterizzano l’esperienza concreta.

Un esempio: Pellegrini nel suo saggio sulla relazione tra volontariato organizzato e giovani evidenzia come siano rari i casi di coinvolgimento dei giovani nei processi decisionali. A fronte di modalità differenti nella continuità dell’impegno si introduce una sorta di gerarchia nel processo di gestione con gradi di inclusione differenziati (Pellegrini 2005, 52-53). Il che lascia supporre che all’apertura verso nuove modalità organizzative, maggiormente inclusive dei giovani, non corrisponda una ridefinizione delle gerarchie interne che riproducono nei fatti la distanza generazionale e le dinamiche che le sono proprie. Fatto che introduce al problema che pone, rispetto al mantenimento dell’interesse per il giovane ad essere componente attivo della vita associativa, l’assenza di spazi di propositività e di imprenditività la cui presenza è considerata particolarmente significativa dal punto di vista della sua necessità di sperimentarsi e di sperimentare i propri limiti e le proprie capacità.

Le esigenze, comprensibili, delle organizzazioni di mantenere gli impegni e di realizzare i propri obiettivi alimentano comportamenti

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orientati ad un agire che ri-produce modalità rigidamente stabilite, frutto di esperienze e di competenze di cui indubbiamente l’adulto è portatore ma che non utilizza come materiali di apprendimento esperenziale nello scambio paritetico bensì come cornici rigide delle azioni possibili.

La questione, allora, per gli adulti associati non è più solo conoscere meglio chi sono i giovani e le loro motivazioni all’azione ma di ri-conoscere come essi stessi si rapportano a loro nella quotidianità della vita associativa. Il che richiede di porsi con uno sguardo più ampio nei confronti del problema, che sia in grado di comprendere nel campo visivo tutti gli attori della relazione. A seconda del punto di vista dal quale guardiamo i problemi possiamo arrivare a conclusioni diverse.

3.3. Cornice tre: i giovani non sanno assumersi un impegno continuativo

Nell’ultima rilevazione FIVol si sottolineano caratteristiche di dis-continuità nella partecipazione giovanile in associazioni di solidarietà organizzata, e si ipotizza che i giovani esercitino un volontariato occasionale, per lo più intenzionati a partecipare in occasione di eventi significativi e promozionali (Frisanco 2004, 2, doc.3). Nel discorso di senso comune tale situazione viene genericamente sintetizzata con la parola “crisi”, in un contesto di significato che esprime un orizzonte cupo per il destino della solidarietà organizzata.

Ma cos’è una crisi? E a seconda di come la definiamo in che direzione ci può portare?

Riprendiamo su questo punto le osservazioni di Fabbrini e Melucci (1992). L’etimologia della parola “crisi” contiene i due significati di separazione e di scelta, e “la sua radice più antica contiene anche il senso del ‘giudizio’ e del ‘giudicare’. Nei caratteri cinesi, la parola è formata dalla combinazione di due ideogrammi che separatamente significano ‘pericolo’ e ‘opportunità’” (Fabbrini, Melucci 1992, 31).

La crisi denota la presenza di un qualche disagio, è momento carico di tensioni, ma la possiamo cogliere anche come momento di cambiamento. Evento che spiazza, porta fuori controllo la situazione,

apre ad una incertezza sul futuro, la crisi esprime sempre una qualche rottura e quindi è superabile solo attraverso un percorso/lavoro di ridefinizione che parta dalla comprensione della dinamica dell’evento, guardando cioè in modo diverso la situazione stessa.

Importante diventa, allora, come ci collochiamo in questa comprensione, se manteniamo solamente uno sguardo ‘su’ o se ci guardiamo anche ‘dentro’, percependoci come soggetti non passivi (es. subiamo una crisi dovuta ai cambiamenti di valore) ma co-agenti, e portatori di una response-ability, sta a dire dell’abilità di rispondere ai e dei mutamenti.

Frisanco, tra i molti autori che intervengono sul tema i cui riferimenti si trovano in bibliografia, cerca le spiegazioni del fenomeno in una doppia direzione. Da un lato riferendosi alla condizione giovanile nel contesto sociale attuale, la tarda modernità caratterizzata come già ricordato più volte da elevata incertezza (che produce il binomio instabilità/flessibilità in molti ambiti della vita, per es. il lavoro). Tra i fattori critici si può porre l’accento sulla crescente cultura neo-liberista piuttosto che sulle difficoltà nei rapporti intergenerazionali (effetto del prolungamento della dipendenza dalla famiglia di origine per le caratteristiche odierne del sistema formativo e del mercato del lavoro), o ancora sulla crisi della socializzazione primaria e secondaria nel preparare ai valori della cittadinanza attiva.

Dall’altro lato la spiegazione viene cercata all’interno del mondo del volontariato, con riferimento ai problemi di capacità di diffondere la cultura della solidarietà, di darsi una strategia di reclutamento di nuovi volontari, di saperli accogliere, di fornire loro stimoli formativi e possibilità di partecipazione (Frisanco 2004, p.3 doc.3)

La citata indagine FIVol approfondisce le caratteristiche distintive del volontariato a prevalente componente giovanile con l’intento, ci sembra, di mettere in luce qual’è il volontariato su cui i giovani investono, si impegnano. Non mi soffermo sui molti stimoli che la ricerca offre, non è questa la sede, tuttavia vi è un’osservazione che vorrei riportare poiché la considero utile per ampliare l’orizzonte della nostra riflessione.

I giovani, si afferma, preferiscono occuparsi di utenze anagraficamente più vicine a loro (minori, adolescenti, giovani) e di

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disabili, mentre sembra meno ricercata l’utenza anziana.L’apertura che ci consente questa considerazione ci riporta al tema

dell’identità, quale processo e punto di riferimento nella ricerca di senso che gli individui attuano attraverso le esperienze. Le dinamiche dell’identificazione e dell’individuazione si giocano nell’andirivieni di uno scambio tra il sé e l’altro da sé, dove l’altro è specchio/proiezione di parti di sé che a seconda delle fasi della vita, del momento della crescita e delle esperienze vissute sono più o meno dissonanti. Questo ci porta ad ipotizzare una strada per approfondire perché minori o adolescenti siano sentiti dai giovani come un’esperienza affrontabile mentre gli anziani non sembrano essere presi in considerazione. L’interesse per i disabili potrebbe sembrare contraddire questa affermazione; in realtà la disabilità evoca delle questioni che sono al centro delle insicurezze che sperimentiamo con particolare sofferenza nell’età adolescenziale e giovanile, nel qui ed ora della vita quotidiana, quali le proprie potenzialità e il grado di libertà e di autonomia di scegliere, agire, rischiare.

Dalle interviste effettuate per la nostra ricerca sembrerebbe che non vi sia una tipologia di “utente preferito” ma che i giovani, a seconda delle esperienze e della fase del ciclo di vita, si indirizzino verso un’utenza che consenta nel qui ed ora del proprio percorso esistenziale di verificare o di esplorare qualcosa di sé. Sembrerebbe necessaria la presenza di una dimensione empatica per consentirsi di esprimere le proprie sensibilità verso i problemi, ma, contemporaneamente, appare altrettanto necessario il sentirsi sufficientemente forti o sostenuti nell’azione. Questa riflessione ci ha apre verso un’altra questione: l’importanza per il giovane di percepire che vi sia scambio nella situazione. Il “motore” dell’azione non sembra possa essere il richiamo al dovere ma che debba essere messo in circolo qualcosa di più costruttivo, un alimento più completo che dia soddisfazione nella ricerca di esperienze gratificanti e possibilmente vantaggiose per il corso successivo della propria esistenza. Strumentalità o altra modalità che si sta socialmente affinando per far fronte a una vita di adulto rappresentata in un scenario di sfondo un po’ inquietante?

L’impegno appare in parte come il prodotto di altre esperienze educative (scout, parrocchie, famiglie impegnate nel volontariato

più o meno organizzato), in parte come conseguenza di un percorso culturale, di condivisione di ideali, e in altra parte come frutto di motivazioni relazionali (altri amici che sono impegnati,... ); ma il passo all’azione concreta avviene se il giovane lo sente come soggettivamente significativo e sostenibile rispetto al processo di costruzione di un proprio progetto.

Numerose ricerche sui giovani hanno descritto un loro forte orientamento verso l’auto-realizzazione, la resistenza ad ogni determinazione esterna del progetto di vita, l’aspirazione ad una certa variabilità e reversibilità delle scelte. Il futuro è incerto e allo stesso tempo ricco di possibilità con un forte accento sulla “responsabilità del singolo” nel “sapersi” organizzare e attrezzare per cogliere ed utilizzare le varie opportunità. L’essere designati come “autori del proprio destino” non è compito facile da realizzare ed aumenta l’ansia verso le proprie scelte e le decisioni da prendere; un’ansia che forse è gestibile solo, o per l’appunto, accettando quegli orientamenti di differenziazione e flessibilità propri della cultura contemporanea (Fabbrini, Melucci 1992, 68).

Il sistema formativo scolastico ed extrascolastico veicola tali orientamenti, ritenuti necessari per la formazione di individui in grado di interagire in un mercato del lavoro che ne necessita per mantenere livelli alti di innovazione e competitività. Orientamenti che richiedono di rielaborare i riferimenti identitari della modernità, improntati a persistenza e stabilità, alla luce di nuove capacità/abilità che consentono di ridefinire e mantenere allo stesso tempo un equilibrio tra identità individuale e identità sociale alla luce dei nuovi caratteri/requisiti di incertezza, mobilità, provvisorietà, disponibilità al cambiamento.

Se questi sono gli orientamenti culturali dominanti nella nostra società non possiamo pensare all’individuo come ad una entità rimasta immutata; questa continua adattabilità richiesta non può essere confinata solo all’identità e ai ruoli sociali; poco a poco è diventato un modo di essere perché caratterizzante i molteplici ambiti di esperienza.

Questa ridefinizione di coordinate dell’identità ha ‘effetti’ anche sulle modalità dei giovani nelle loro appartenenze a gruppi ed associazioni,

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che interessano e coinvolgono se e in quanto consentono una esperienza finalizzata verso specifici obiettivi che hanno una doppia valenza: sociale (culturali, politici, solidaristici-assistenziali) e personale (sperimentare sé nel mondo, mettersi alla prova, accogliere un sfida).

Le appartenenze assumono anch’esse caratteristiche di molteplicità, di im-permanenza (temporaneità o riconferme) e di instabilità (variabilità); se rimaniamo ancorati a cornici tradizionali si possono stigmatizzare queste modalità come negative (egoismo, immaturità ecc.) mentre se accettiamo che società e individui siano l’uno lo specchio dell’altro16 possiamo cogliere contemporaneamente la necessità di tali orientamenti e la maggiore responsabilità con cui ci si orienta nella scelta e quindi nelle modalità di presenza e di partecipazione.

Il punto di vista richiesto è quello della comprensione - nel senso weberiano - di quale senso i giovani assegnano e riconoscono in quello che fanno e di quali significati sono messi in campo. Diventa più importante non solo ciò che si fa ma anche, altrettanto, il come lo si fa; è nell’esperienza stessa che il giovane si mette in gioco, e non solo rispetto all’obiettivo-scopo finale.

L’assunzione di impegni sembra comportare la scelta di un’esperienza che contenga caratteristiche di autonomia, di espressione di sé, di esplorazione delle possibilità: deve poter essere vissuta come apprendimento.

L’azione sembra legata alla necessità di rispondere a un bisogno e non essere solo l’espressione dell’adesione ad un sistema di valori socialmente ritenuti come positivi. Nel passaggio dalla “sensazione” percettiva (“essere predisposti” dicono gli intervistati) all’azione (identificazione di un bisogno e quindi di un interesse) interviene la dimensione affettiva nella quale prendono piede i significati che per ciascuno hanno questioni come la paura, la delusione, la fiducia. Tale dimensione si gioca nella relazione e nella reciprocità che, nell’esperienza, questi giovani scoprono nel rapporto con l’utente proprio, sottolineiamo, in quanto relazione e non solo perché l’altro è portatore di un problema. E come tale la relazione è portatrice di un riconoscimento reciproco.

Oggi pensiamo tutti che ci sia poco tempo (il tempo non ci

basta mai) e ciò produce ansia, malessere; sembra di dover ridurre continuamente il campo dell’esperienza. Le offerte possibili sono molte (una delle caratteristiche della nostra società è il moltiplicarsi delle appartenenze), e rispondono a bisogni diversi ma compresenti; esse si equivalgono perché ciascuna risponde a una parte di sé, ma “quando le alternative si equivalgono, è difficile fare qualcosa e si resta bloccati” (Fabbrini, Melucci 1992, 92).

3.4. Cornice quattro. I giovani sono egoistiLa quarta cornice porta a soffermarci su uno dei temi che emerge

dalle interviste: quello della relazione tra giovani e adulti volontari. Poiché, inevitabilmente, Il rapporto con il dolore e il disagio induce

sofferenza, sentimenti di ansia e di inadeguatezza, sembra opportuno chiedersi come gli adulti (esperti) accompagnano i giovani che si avvicinano al volontariato in questa esperienza?

Il “ritirarsi” dei giovani di fronte al disagio, invece che in termini di egoismo potrebbe essere letto come espressione di paura, di insicurezza, di scarsa fiducia nelle proprie capacità di far fronte alla sofferenza. Cambiamo punto di vista e invece di chiederci cosa vuole il giovane chiediamoci com’è, quali sono le tensioni che accompagnano le sue scelte, le sue decisioni, le sperimentazioni e le sue azioni. E queste tensioni come incidono nella relazione con l’adulto, con gli adulti che sono l’associazione?

Il giovane è nell’orizzonte di una cultura giovanile, socialmente costruita con propri codici (non sempre cumulabili), che esalta specifici valori quali l’originalità, l’individualismo, il mantenimento di molte opportunità che alimenta il senso di libertà, e tale libertà personale si pretende sia definita secondo l’umore del momento. Caratteristiche ‘giovanili’ che la società dell’immagine esporta quali modelli di identificazione adulta (il che tende a rappresentarsele, ad immaginarle come caratteristiche non di un passaggio di ciclo di vita ma di modi di essere socialmente im-posti e quindi verso i quali non è scontato assumere atteggiamento critico (Fabbrini, Melucci 1992, 29).

La vita si impara. Si impara lentamente, col tempo e, sempre, con l’aiuto di qualcuno (Fabbrini, Melucci 1992, 125). Nella nostra

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società si sono professionalizzate le forme di aiuto al crescere, e gli adulti sembrano avere abdicato ad instaurare legami fondati sul riconoscimento delle competenze esperienziali, delle paure e delle emozioni, delle fragilità che attraversano e segnano i processi per cui le azioni si concretano. Si cade nell’equivoco che l’insegnamento sia infondere conoscenze nel modo giusto per non sbagliare (c’è un’offerta di formazione o di scambio con esperti pressoché per qualsiasi problema) cadendo o in schemi astratti e ideali (quindi inutili) oppure in tecnicismi. Gli adulti interpretano generalizzando la figura dell’esperto o si affidano ad esso. Il giovane sembrerebbe ricercato e utilizzato come risorsa (apprendistato) più che come relazione (si dà valore al contesto più che al testo?).

Le diverse modalità ed intensità ricercate dai giovani nelle relazioni ci inducono a sperimentare uno sguardo diverso e nuovo che metta in gioco il proprio rapporto con l’oggetto, e perciò contribuisce a modificare il contesto e la relazione. L’esserci dell’adulto non solo nel fare ma nello stare della relazione e nel riconoscere l’interdipendenza come sistema di relazioni e di scambi (Fabbrini, Melucci 1992, 136), e che assume la reciproca capacità di negoziare e di scambiare.

Si parla dei problemi ma sembra che non si faccia sufficiente attenzione ai modi di essere in relazione (l’ascolto). La comunicazione è il risultato di una pratica che implica l’accettazione della differenza dell’altro (e non solo dell’altro come utente) e di sé verso l’altro.

La retorica dell’egoismo è l’altra faccia della retorica del dono come se questo termine esprimesse un valore univoco, e per definizione ‘buono’. Ambrosini, nel suo libro più volte citato, introduce una riflessione che problematizza l’idea di dono e della gratuità, che ne è il riscontro fattuale, esplorando diversi significati che il dono può contenere ed esprimere, e che fanno sì che si possano distinguere diversi tipi di dono (Ambrosini 2005, 118-120). Richiamiamo l’attenzione sulla seguente considerazione: il dono “gratuito” è un fenomeno sociale ambivalente, che può in certi casi manipolare le relazioni sociali o acuire le distanze, anziché simboleggiare una comune appartenenza (Godbout 1999, 44).

4. La ricerca: nota metodologica

La ricerca ha utilizzato una metodologia qualitativa attraverso interviste in profondità e focus group. L’approccio qualitativo, pur non essendo standardizzabile e generalizzabile come potrebbe avvenire con un questionario a campionamento probabilistico e rappresentativo, offre indubbi vantaggi qualora si vadano a indagare le dimensioni del senso delle esperienze degli individui, che attraverso domande chiuse difficilmente emergerebbero.

Per le interviste e per i focus group è stato utilizzato il metodo dell’ascolto attivo elaborato da Marianella Sclavi (2000) che permette di mettere al centro le esperienze dei soggetti a cui ci si rivolge con un atteggiamento di coinvolgimento e distacco. L’obiettivo principale di questo metodo di intervista è quello di far raccontare ai soggetti le loro esperienze di vita quotidiana, evitando quindi più possibile le considerazioni generali di senso comune che poco dicono sul senso che le esperienze hanno per gli individui. Soprattutto nel caso dell’azione volontaria, questo metodo è apparso il più appropriato per il fatto di andare a cercare un accordo cooperativo con i soggetti intervistati i quali si sono resi disponibili non solo a raccontare e a raccontarsi, ma anche a condividere la loro definizione della situazione, la loro cornice di riferimento con degli esterni. È chiaro che un metodo simile alle volte appare molto faticoso per chi vi partecipa, che messo dentro la cornice dell’intervista o del focus group si aspetta di ricevere domande precise a cui rispondere con decisione. Al contrario, le domande della traccia di intervista e del focus group che sono state elaborate hanno alle volte messo in difficoltà alcuni partecipanti.

Per la definizione dei temi e la costruzione degli strumenti si è organizzato un brain storming con un gruppo di studenti del corso di Comunicazione Pubblica (di Scienze della comunicazione).

La selezione dei soggetti che hanno partecipato alla ricerca è avvenuta con un metodo a valanga, utilizzando i contatti a disposizione delle ricercatrici e del personale del CSV. In complesso sono state intervistate dieci persone, di cui 2 responsabili di associazioni, 4 volontari e 4 non volontari. Le interviste hanno avuto la funzione secondaria di test per la traccia del focus group che è

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stata successivamente elaborata sulla base dei feedback ricevuti dalle interviste.

I partecipanti ai focus sono stati in totale 24, di cui 8 non volontari, 7 volontari, 9 responsabili di associazioni. I giovani che hanno partecipato alla ricerca hanno un’età compresa tra i 18 e i 26 anni. I volontari sono stati scelti in base all’appartenenza alle associazioni locali di disagio, da almeno due anni, distribuiti tra città e provincia e tra associazioni laiche e cattoliche. I partecipanti al focus dei responsabili sono stati scelti in base alla loro appartenenza all’associazione da almeno due anni, distribuiti tra associazioni laiche e cattoliche, di piccole e grandi dimensioni sulla base del numero degli iscritti. Il focus group con i responsabili delle associazioni è servito soprattutto come verifica delle percezioni emerse dalle interviste e dai focus con i giovani.

I focus group hanno avuto una durata di circa due ore ciascuno, sono stati registrati, filmati e successivamente sbobinati.

- II -

I GIOVANI NON IMPEGNATI

1. Chi sono

Le ricerche sul volontariato attivo in Italia e quelle sui giovani volontari in particolare si soffermano abbondantemente sulle motivazioni all’accesso, i canali, i valori condivisi, le soddisfazioni, i pregi del fare volontariato. È innegabile che prestare servizio gratuitamente sia encomiabile sotto tutti i punti di vista. È essere cittadini attivi, che partecipano alla vita sociale, che si impegnano e quindi hanno consapevolezza del loro agire; essere volontari significa condividere valori etici, essere inseriti nel tessuto sociale in modo attivo. Dare il proprio tempo e la propria opera non è semplicemente il comportamento di individui “buoni”, più buoni o migliori di altri, ma più profondamente rappresenta una visione del mondo e della vita. Allora, non essere volontari cosa rappresenta? In realtà, nonostante il proliferare di ricerche sul volontariato e sui giovani volontari, poco viene detto su chi non fa volontariato. Ora, è chiaro che le ricerche dello Iard o del Censis tracciano uno spaccato dei giovani nel loro insieme, volontari e non volontari, ma se sappiamo molto sui volontari, invece il ritratto dei non volontari non può essere semplicemente una sottrazione tra i due insiemi. In altre parole, possiamo avere uno spaccato in generale e in genere dei giovani, così come lo possiamo avere dei volontari, ma dei non volontari, considerati nello specifico, non c’è molto. In effetti, definire una categoria di non volontari non è possibile, perché definire una categoria per negazione non è un procedimento logico molto ortodosso. Tuttavia, in fase di costruzione della ricerca, è sorta l’ipotesi di indagare quali sono le rappresentazioni e le immagini del volontariato presso i giovani che non operano come volontari. Questo è possibile in virtù di un’assunzione di partenza: che tutti sappiano, in qualche modo e in qualche forma, cos’è il volontariato e cosa significa essere volontari.

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Il volontariato è una parte importante della società italiana e della cultura del Nordest, è possibile non solo parlarne come oggetto ma anche come esperienza. In quest’ultima accezione, di volontariato come esperienza anche per chi non lo fa attivamente, è possibile recuperare i significati a livello di senso comune, soprattutto, sul volontariato come esperienza del vivere sociale, cioè come un tassello di cui si può dire qualcosa, e a livello di vissuto personale attraverso contatti diretti con terzi (Jedlowski 1994). È innegabile dunque che in qualche modo il volontariato sia parte della vita anche di chi non lo fa, e questo grazie alla diffusione dei saperi di vita quotidiana data dai mezzi di comunicazione di massa (Stella 1999), e in generale alla cultura testualizzata contemporanea (Eco, Fabbri 1978) che accomuna tutti gli appartenenti ad essa.

Dire che il volontariato è un fatto culturale implica alcune considerazioni17: in primo luogo, racchiude in sé significati collettivi, condivisi e stabili; in secondo luogo, è il risultato di comportamenti cristallizzati nel tempo, ha una storia, è soggetto all’evoluzione e ai cambiamenti; infine, anche se non comporta sanzioni morali, tuttavia esso è profondamente morale nelle sue conseguenze, nel senso che l’entrata e l’uscita sono controllati, una volta dentro richiede un determinato set di comportamenti regolati, crea identità.

Da non sottovalutare poi l’aspetto legato alla socialità, dato che il volontariato potrebbe essere oggetto di network analysis, di una lettura cioè basata sull’osservazione delle reti sociali e socievoli che attiva, delle loro caratteristiche e delle evoluzioni nel corso del tempo.

Analizzare i significati e le esperienze legate al volontariato di soggetti non impegnati offre l’altra faccia della medaglia. Ci si chiede: se il volontariato propone così tanti risvolti positivi, allora perché non è molto più diffuso di quello che è oggi? E se il volontariato è cosa buona e giusta, analizzandolo nelle sue varie componenti, allora lo è anche l’immagine che dà di sé?

Partiamo allora dalle esperienze raccontate dai ragazzi e ragazze non impegnati che raccontano i loro mondi di vita in relazione con il volontariato.

2. Le rappresentazioni del volontariato

Come detto in precedenza, il volontariato come fatto culturale è oggetto di riflessione da parte degli individui, esso può cioè essere pensato, definito, criticato. Possiamo distinguere le rappresentazioni che i giovani ci hanno fornito in tre classi: in primo luogo quelle basate sulla comunicazione che hanno ricevuto, sulle informazioni in genere, sul senso comune; in secondo luogo, quelle che costruiscono sulla base delle esperienze dirette; infine quelle derivate da esperienze di terzi.

2.1. Rappresentazioni uno. Tra comunicazione e senso comuneNel primo gruppo di rappresentazioni consideriamo le comunicazioni

e le informazioni che derivano dai mezzi di comunicazione di massa, soprattutto la pubblicità in televisione e sulla stampa, e tutto l’insieme di considerazioni che raccogliamo sotto l’etichetta di senso comune. Il senso comune altro non è che un insieme di orientamenti accettati e cristallizzati a livello collettivo che entrano a fare parte delle definizioni e dei significati individuali, sia come integrazione sia come confronto, quando è possibile, con la propria esperienza particolare (Jedlowski 1994).

Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione di massa, i soggetti dicono di non avere molto “materiale” a disposizione, non ricordano chiaramente le campagne informative delle associazioni di volontariato. Solo il Servizio Civile, che ha avuto un battage pubblicitario piuttosto sostenuto attraverso la televisione, evoca qualche ricordo, anche in virtù del fatto di appellarsi direttamente ai giovani e di suscitare il loro interesse. Ma in generale sia dal punto di vista della televisione che da quello della stampa, i giovani non ricordano di avere visto campagne informative sul volontariato,

«Allora io mi ricordo quelle del servizio civile…ciao mondo, ciao….che ci sono appunto questi ragazzi che fanno la pasta per gli handicappati mi sembra, mi ricordo soltanto a dire la verità quelle del servizio civile che c’era la canzoncina ciao mondo, ciao che tra l’altro

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devono averla cambiata perché mi ricordo che la pubblicità più recente aveva un’altra canzone che adesso non mi ricordo per niente e basta non me ne ricordo altre. Ho visto alcune pubblicità in televisione sulla giornata della arance vendute nelle piazze o cose del genere…basta non me ne vengono in mente altre, non ricordo altre pubblicità, non mi sembra che ce ne siano di pubblicità». (1A)

«Se ne sa poco del volontariato. La gente ne sa poco e poco se ne interessa.... ad esempio la televisione... l’unica pubblicità che mi viene in mente è il Servizio Civile... di volontariato non ne ho mai vista una.. anche nella scuole superiori non c’è niente... dovrebbe esserci sensibilizzazione». (6D)

Di conseguenza, la rappresentazione che ne deriva è piuttosto debole, nel senso che non contribuisce in maniera evidente alla costruzione dell’immagine che i giovani hanno del volontariato. Anzi, si evidenzia una certa confusione, poiché nel calderone del “volontariato” viene messo di tutto e in special modo il fund raising, il quale non solo è più visibile in televisione, ma lo è anche grazie ai banchetti di raccolta di fondi attraverso la vendita di varie merci,

«esempio, ti danno l’uovo di pasqua ma non ti mettono in mano il volantino, te lo devi prendere tu». (2D)

«Più che altro chiedono un’offerta» (4D)

«non è che ti sensibilizzano... tu ti senti meglio perché hai comprato il bonsai, ma». (6D)

«Mi ricordo quelle di Giobbe Covatta che si avvicina al volontariato perché li è sempre lì, al massimo l’8 per mille.. quelle di Covatta mi sono rimaste in mente.. sono molto umane nel senso che sono spiritose e quindi fanno trasparire una certa simpatia e lui fa vedere che crede in quello che fa, si vede». (4A)

«alcune le trovi banali, sempre con la carrozzina, io non sono molto

fantasiosa, però ce ne sono tantissime così, non mi viene in mente nessuna che mi sia piaciuta. sì una: c’erano delle rotaie collegate ad altre con un filo, con un fiocco, ma non mi ricordo cos’era, forse riguardava la ricerca». (3A)

Se non fosse per il servizio civile o per il fund raising, dunque, i giovani non sentirebbero mai parlare di volontariato attraverso i mezzi di comunicazione. Uno dei presupposti per essere informati è quello di avere l’interesse a recepire l’informazione (Wolf 1985), perciò il fatto che i giovani considerati non siano impegnati in associazioni fa sì che nella loro esperienza non sia attivabile questa attenzione. Tuttavia, più che la disinformazione, il dato da rilevare qui è la confusione tra servizio civile, fund raising, volontariato, che in effetti è sentito come un tema di discussione a vari livelli. Non è una novità infatti che si senta il bisogno di definire meglio cosa sia e cosa non sia il volontariato, e cosa significhi nelle sue conseguenze. Anche nel corso del focus group sono emersi interrogativi di questo tipo, che non si giustificano semplicemente per il fatto che vengano posti da individui non impegnati, ma sono in effetti lo specchio di un sentire comune:

«boh alla fine non so cosa intendo... speravo di capire qui cosa è volontariato». (5D)

«anch’io sono venuta qui per cercare di capire meglio, ho un sacco di punti di domanda… anche se ho sentito parlare, di altri.. poi tutti i dubbi che ha lei sono dubbi che anche a me passano... se è servizio che io presto nei confronti di qualcuno di qualcosa non retribuito, se è solo questa la definizione, è troppo ampia.. nel momento in cui aiuto la mia amica, lei, lei, me stessa faccio volontariato.. quali sono i limiti del volontariato? Esistono?» (3D)

Non è chiaro cosa si intenda per volontariato, ma al di là delle definizioni, il volontariato non è un soggetto ben definito nell’immaginario dei giovani. Sembra un insieme di pratiche, messe in atto da vari attori sociali, ma esso non è considerato un soggetto, riconoscibile, definito, interlocutorio. Viene rappresentato piuttosto

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come un’idea, più o meno vaga, del fare gratuito per il bene degli altri. Il volontariato non ha volto, non ha segni, simboli né linguaggi condivisi, e forse non ha nemmeno voce.

L’immagine che ha il volontariato a questo livello è piuttosto sfumata e stereotipata:

«se penso al volontariato penso a qualcosa di molto legato con la chiesa, non so perché, percezione istintiva. Svincolandomi da questo anch’io lo incastro nei disabili, nonnetti da soli, bambini infelici... poi però le esperienze di volontariato a cui ho partecipato io, ok, sì, le cucine popolari si avvicina un po’ di più alla concezione comune, ma quella in Russia...» (4D)

«a me no, è vero che la maggior parte sono legate all’ambiente religioso, ci sono anche molti laici, ho conosciuto anche molte persone laiche che ci lavoravano...» (2D)

«il volontariato ha il problema immagine, che è triste, grigia, malinconica…» (BS)

«…ogni volta che serve un servizio a persone bisognose penso sia volontariato.. ma non solo alle persone ma anche per la propria città per esempio, pulire le strade.. non so se rientri nella categoria se possa essere considerato volontariato.. Una persona che non viene pagata per svolgere un servizio utile dove non c’è un interesse economico, a persone disagiate.» (4A)

«l’ho sempre visto volontariato con disabili e con persone con problemi, fisici e mentali. L’ho sempre visto sotto questo aspetto, poi crescendo ho pensato all’ospedale, magari si esce da un’operazione e si ha bisogno, ma la maggior parte sì l’ho sempre collegata con problemi...» (3A)

Sempre a livello del preconcetto, c’è un’altra immagine, altrettanto sfumata e vaga come quella precedente, ma meno negativa.

«è una cosa positiva, tutti hanno questa percezione che il volontariato è una cosa positiva... la vedo come fare del bene, di positivo vedo la voglia di rendersi utile, di mettersi in gioco, di fare qualcosa per gli altri, una cosa nobile, buona da fare…poi vedo le persone che lo fanno che sono contente che lo fanno e non dicono “che palle anche oggi mi hanno chiamato”, non ho mai visto aspetti negativi da queste persone, non c’è qualcosa di negativo». (1A)

La differenza è chiara: nel primo caso si parla del campo di azione del volontariato, che è “triste” allorché si interfaccia con situazioni di disagio; nel secondo caso il riferimento è all’agire volontario che invece è positivo nelle conseguenze. Anche questi due piani sembrano confusi, mescolati nella creazione di un’immagine vaga.

Inoltre, c’è un’altra accezione su cui gira l’idea di fare il volontario, che è la seguente:

«quando stai a contatto con i disabili, quando capisci donarsi, dare ad un’altra persona.

Ci sono diversi tipi di volontariato, per esempio guidare un furgoncino non c’è contatto, di volontariato vero si parla quando le persone vengono a contatto con altre, quando capiscono i loro problemi, cosa potrebbe servire». (3A)

«quello che mi piace è un azione diretta, essere a contatto, faccio qualcosa senza filtri, agisco.. lavoro con gli anziani, lo vado a tenere, a portare… certe volte in alcune associazioni ambientaliste partecipi a discussioni riunioni, belle a livello di discussioni però mi attraggono meno… non hai un contatto diretto, mi attraggono meno». (2A)

«Il mio amico del Mato Grosso, mi dice che a livello attuale non gli piace intervenire nel volontariato del suo paese perché le associazioni tolgono quella emozione di fare tu il volontariato. Lui fa il Mato Grosso perché è lui a contatto con la gente, cioè non è che intervenivano le associazioni, per cui tu ti iscrivi e ogni tanto intervieni...» (1A)

Il volontariato “vero”, quindi, sarebbe quello in cui si presta il

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proprio aiuto in situazione di disagio, in cui si viene a contatto diretto con le persone che hanno bisogno. Questa dimensione sembra molto importante nell’immaginario dei non impegnati.

Del resto, i giovani sono spesso alla ricerca di situazioni in cui valicare le proprie cerchie per entrare in relazione con l’altro da sé. Il mondo dei disabili, degli anziani, dei malati sembra molto spesso lontano e questo crea curiosità, voglia di mettersi alla prova, ma anche paura, come vedremo in seguito. La relazione con l’altro e il superamento dei confini delle proprie cerchie rappresentano una sfida di cui sentirsi protagonisti. È chiaro che la relazione diretta di aiuto comporta un riscontro immediato della propria azione, si sa cioè subito il valore, l’esito di ciò che si sta facendo. Ma, come vedremo, può anche creare frustrazione. È forse questo il senso principale di un’azione di volontariato vista “dal di fuori”: mettersi in relazione con l’altro e fare esperienza del senso delle proprie azioni.

In sostanza, l’immagine del volontariato è molto confusa, non è definita né riconoscibile e poggia ancora su un set di preconcetti che a loro volta non fanno che aumentare la confusione. La comunicazione pubblicitaria non pare efficace, i soggetti non ricordano né le pubblicità, né i volantini, né gli slogan. Se i messaggi, invece, sono costruiti in modo efficace, a prescindere dall’interesse del ricevente rispetto all’oggetto reclamizzato, essi verranno comunque in qualche modo ricordati.

2.1.1. Raccogliere le ideeSempre in riferimento all’informazione, i soggetti sollecitati rispetto

ai canali che utilizzerebbero per raccogliere informazioni hanno dato risposte piuttosto convergenti. Il punto comune infatti è il generale disorientamento. I soggetti non saprebbero dove e a chi rivolgersi, tant’è che alcuni hanno risposto che proverebbero su internet, allargando cioè la ricerca a dismisura.

«Anche appunto perché le poche persone con cui ho parlato sono partite loro da una loro iniziativa, per cui penso che alla fine quasi tutti si muovono così, almeno non mi è capitato mai di avere richieste dalle associazioni, mi sembra ce ne siano poche e non pretendo che mi vengano a suonare il campanello a casa,... non saprei a chi chiederlo

effettivamente, forse sono disinformato, ma adesso se dovessi fare volontariato lo chiederei ad un amico che l’ha fatto, magari sbaglio, magari ci sono più occasioni di quelle che io vedo, più informazioni rispetto a questo argomento di quelle che io percepisco, non ho idea a chi rivolgermi se ora dovessi fare volontariato». (1A)

«Inizierei da internet perché è una fonte molto ampia di informazioni. Poi cercherei un contatto più diretto.. con le persone che organizzano, ma non ci ho mai pensato...» (4A)

«Privilegerei 2 canali: internet da casa, motore di ricerca cerchi volontariato e hai l’imbarazzo della scelta; per parlare all’Informagiovani, poi ho molti amici che lavorano alla sede di Greenpeace… se avessi voglia di cose precise gli amici, in generale...» (2A)

Viene riconosciuto in generale il valore delle reti amicali e informali come canali per raccogliere informazioni, ma anche come accesso. Posto che un individuo voglia provare l’esperienza del volontariato, la cosa migliore pare sia rivolgersi a qualche amico o conoscente che già lo fa. In questo modo, chiaramente si diminuisce l’incertezza per qualcosa di nuovo, si rende il passaggio del confine più morbido perché accompagnato da una persona di cui ci si fida e a cui ci si affida.

Nessuno dei soggetti afferma di avere avuto proposte dirette, anzi anche quando si sono trovati in situazioni di vicinanza con volontari o con associazioni, non sono stati coinvolti apertamente. In realtà, questa informazione non aggiunge molto, visto che il coinvolgimento da parte di altri inizia sicuramente dal diretto interessato, tuttavia questo atteggiamento rivela piuttosto una mancanza di attivazione delle associazioni. In altre parole, se in alcuni giovani l’essere volontario è qualcosa di latente o potenziale, non sembra che questa latenza venga direttamente attivata, come vedremo in seguito. E se lo è, avviene appunto attraverso la rete personale, la relazione individuale.

«forse quando ero al CSV, c’era l’AVIS che mi aveva chiesto, ma non era niente…no sinceramente no in concreto niente, nessuno

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mi ha chiesto di venire in una associazione, di andare a lavorare in un’associazione». (3A)

Una volta sollecitati, i soggetti riconoscono la mancanza di informazione a vari livelli, non solo per quanto riguarda l’aspetto pubblicitario, ma anche dal punto di vista dell’esistenza delle associazioni.

«alla fine si vede che l’informazione sul volontariato è scarsissima, io sono venuta a conoscenza di questo centro perché in biblioteca c’era il corso di fotografia, sennò io manco ci pensavo!» (3D)

«di tutte le buste inviate di auguri per natale, non ne conoscevo manco una! A parte l’AIDO.. e non è che vado in giro con gli occhi chiusi, leggo il giornale ogni giorno,... non c’è informazione» (6D)

«non c’è informazione sul volontariato ma neanche sulle problematiche… c’è il liveday ma poi dopo un mese te ne sei dimenticato…» (1D)

«Non mi pare che vi siano molti input dalle associazioni, forse perché sono piccole, io molte associazioni locali non ne avevo mai sentito parlare prima di questa esperienza, c’erano difficoltà logistiche nel comunicare, mi pare sia carente il livello di comunicazione che mi arriva dal mondo del volontariato». (1A)

È lapalissiana la deduzione che se non si conoscono i soggetti che offrono l’azione di volontariato, la domanda rimane inespressa, non trova canali di accesso. Infatti, non è detto che le reti amicali o relazionali funzionino per tutti. Inoltre, non bisogna fare troppo affidamento sulle reti amicali e sul passa parola, che in alcuni casi funzionano, in altri possono non attivare la latenza di chi vuole impegnarsi. A quest’ultimi è necessario fornire canali di accesso e di informazione riconoscibili ed efficaci.

2.2. Rappresentazioni due. L’esperienza diretta Una delle dimensioni fondanti l’impegno volontario è l’etica

del dono: la gratuità del donare e del donarsi agli altri è lo spirito con cui è necessario avvicinarsi. Ma questo non è un fatto legato esclusivamente all’impegno: in quanto esseri sociali condividiamo il riconoscimento e la reciprocità, che più in generale sono, per dirla con Durkheim, un imperativo morale della solidarietà precontrattuale che rende possibile la società. Ogni individuo, in varie forme, si è occupato di altre persone non appartenenti al suo intorno familiare e amicale, eppure questo “occuparsi di” è talmente radicato nel comportamento che alle volte è difficile riconoscerlo e ricordarlo.

«mi capitava di venire in contatto qualche momento con l’organizzazione di volontariato Marcellino Vais e perdere del tempo con gli utenti scambiare qualche parola, ma non mi sono mai presa cura». (3A)

«ad esempio mia mamma come lavoro ogni tanto tiene dei bambini ed è capitato che una famiglia che non ha parenti qui e ci sono molto affezionati a noi, tra l’altro il figlio è molto malato ha una malattia genetica quindi sono diventati parte della nostra famiglia per cui mi è capitato qualche volta di stare con il bambino, giocare…andare lì per fargli compagnia…andargli un po’ dietro…» (1A)

«ho avuto un amico che è uscito da una storia particolare, di tossicodipendenza. Lì c’è stato un aiuto di tipo psicologico». (3A)

«avevo conosciuto a Parigi per lavoro una ragazza che era in una situazione difficile perché era Turca aveva grossi problemi, psicologicamente aveva avuto una crisi, disturbi alimentari, e le sono stata molto vicina in questo senso, l’ho seguita in amicizia è stato terapeutico per lei però è durata un paio di mesi poi lei è andata dallo psicologo quindi da qualcuno di più competente. Credo di averle dato un aiuto, lei me l’ha sempre detto successivamente». (2A)

I giovani attuano in continuazione nel loro intorno amicale la logica

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della reciprocità generalizzata, che funziona più o meno così: se oggi stai male tu ti do una mano perché so che se starò male io qualcun altro darà una mano a me. Tra pari è molto ricorrente che si mettano in atto pratiche di mutuo aiuto, sotto diversi punti di vista18. Anche se la condivisione e la collaborazione mantengono alcune differenze di genere, questo non toglie che gli individui cerchino il contatto con l’altro da sé. I valori di reciprocità e aiuto sono ben radicati e vengono molto spesso anche messi in pratica quando si presenta l’occasione adatta.

«Ho conosciuto questa ragazzina di 14 anni, con capacità di intendere e di volere, e si rendeva ben conto della situazione, era maltrattata, io ho scatenato il terzo conflitto nucleare..!» (4D)

Molti hanno fatto esperienze associative durante l’adolescenza, soprattutto in ambito parrocchiale con l’animazione giovanile. Altri hanno dato ripetizioni o aiutato bambini con difficoltà scolastiche.

«io ho seguito un bambino a fare i compiti per casa per qualche mese. Era ingestibile, motivo per cui i genitori chiedevano qualcuno per dare una mano… è rimasta ingestibile anche con me, motivo per cui ho mollato, mi sembrava di rubare i soldi ai genitori...» (5D)

«qualche figlio di amici di famiglia, fratello di amici... qualche ripetizione a volte mi piaceva, a volte no quando vedeva che non capiva… non ho mai colmato le sue lacune... non è che stavo lì a guardare il quarto d’ora, però lo facevo più che altro per fargli capire... alcune volte mi piaceva, altre volte era deprimente, quando ti rendi conto che le cose che gli hai spiegato tre mesi prima sono svanite nel nulla.. mi dava soddisfazione vedere le volte che capivo che capiva.. sei riuscito in qualche modo a dargli qualcosa... intuisci che c’è il barlume dell’intuizione, ma quando dopo tre mesi svanisce nel nulla...» (1D)

«ho fatto 3 anni l’animatrice all’ACR… con i piccoli è divertente, è più facile anche stare dietro, meno con i più grandi, cominciano a fare

domande, anche in ambito religioso e non sapevo che risposte dare loro, non mi pareva giusto. Poi per tre anni ho seguito un bambino d’estate, amici di genitori, gli ho insegnato un po’ a leggere…» (4D)

«non sapevo come rispondere, io non potevo dare loro. Per esempio, un bambino mi fa: io non voglio diventare prete, e se Dio mi chiama e vuole che diventi prete.. cosa gli dici? No, ma il Signore sa se sei adatto.. per fare l’animatrice dovevi tu stessa essere animato da quelli più grandi e allora ho chiesto, sì, sì, poi dopo non mi sentivo e stop, mi dispiace.. sono arrivati altri ragazzi, c’è sempre un giro...» (4D)

«animatrice nei centri estivi… prendersi cura dei bambini piccoli è bello ma è difficile, dai pianti notturni che devi assisterli, a lavarli perché non sono capaci, perché sono lavati dalla mamma, imboccarli perché non gli piacciono le carote… giorno e notte... ne ho parlato con i responsabili che non hanno capito molto, è il tuo lavoro per adesso, vedi te come gestirti, in pratica: arrangiati». (6D)

Queste esperienze sono state metabolizzate in vario modo, come si è visto. Emerge un senso di disagio in quelle situazioni in cui non si riesce a fare fronte alle emergenze o ad altri tipi di problemi, soprattutto nei confronti dei bambini, che sono impegnativi, delicati. Prendersi cura dei bambini innesca processi di assunzione di responsabilità che per alcuni non sono facili da metabolizzare. Di fatto, queste esperienze non del tutto positive incorniciano poi le esperienze successive.

Ci si potrebbe chiedere come mai esperienze simili abbiano poi esiti diversi, cioè perché ragazzi con simili percorsi associativi in ambito parrocchiale poi non si incanalino tutti verso il volontariato. Molti di quelli che fanno volontariato provengono dall’associazionismo cattolico o dall’animazione e per alcuni di loro questo ha rappresentato un percorso fondamentale, come si vedrà a proposito dei giovani volontari. In effetti i ragazzi non impegnati evidenziano molto chiaramente ciò che li ha messi in difficoltà: la responsabilità dell’aiuto, la mancanza di risultati, la sensazione di doversela cavare da soli in situazioni al di sopra delle loro possibilità. Non significa certo che invece gli impegnati non abbiano trovato lo stesso tipo di problemi,

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ma evidentemente alcuni riescono a superarli in modo più fluido. Al di là delle diverse caratteristiche individuali, probabilmente una grossa parte la gioca anche il contesto in cui i ragazzi si relazionano, le reti di protezione che riescono ad attivare. Si tratta dunque di attrezzare adeguatamente i giovani che iniziano percorsi associativi, il che non significa evitare loro i problemi, ma anzi renderli attivi e propositivi per la loro risoluzione.

I giovani hanno bisogno di mettersi alla prova e di misurarsi con le difficoltà, hanno bisogno della crisi, intesa come opportunità di identificazione, per comprendere chi si è. Nella società postindustriale, dove i riti di passaggio sono diventati sempre più radi, i giovani si ricavano autonomamente prove di abilità al transito alla vita adulta, alle volte con esiti imprevedibili (Fabbrini, Melucci 1992).

Accompagnare i giovani in un percorso di azione volontaria non deve implicare la loro protezione da situazioni difficili, ma piuttosto l’attivazione di risorse individuali in un contesto aperto di confronto, in cui affrontare e comprendere ciò che succede, per sé e per gli altri.

Il punto cruciale è a questo proposito la capacità di relazione e di ascolto delle associazioni, il rapporto tra volontari e tra giovani e adulti, come si vedrà nella parte dedicata ai giovani volontari.

Un altro elemento di critica nei confronti dell’associazione di cui si è fatto esperienza riguarda il livello di impegno richiesto che alle volte travalica le proprie aspettative o quello che era stato pattuito in precedenza.

«mi sono anche iscritta ad una anche se un po’ particolare: un’associazione che si occupa di tutela dei cani, quindi una cosa un po’ diversa. Allora lì ho scritto qualche newsletter e oltre a qualche incontro non potevo fare nient’altro , ma poi ti chiedevano di essere più disponibile e pagare l’iscrizione, lavorare nel canile… ecco nel canile ho fatto qualcosa, ad agosto andavo al canile 2 volte la settimana». (3A)

«ma ho sempre paura, perché io faccio fatica a dire di no alle persone e allora ho paura di essere coinvolta in una cosa e non potere più uscirne, e mi è successo già altre volte di essere incasinatissima e poi non riesco a dire di no e mi incasino la vita, i tempi, i rapporti con le persone… se

fossi sicura che chiedono una cosa e rimane quella…» (4D)

«sapendo che mi piacciono i bambini mi hanno incastrato tante di quelle volte..!» (6D)

È come se i soggetti “incastrati” perdessero di vista il senso globale dell’azione volontaria e cominciassero a sentirla come una giacca troppo stretta. L’assunzione di responsabilità va di pari passo con il sentirsi liberi e autonomi nel farlo. Però, è latente una sorta di cortocircuito tra queste due dimensioni, che non è risolto né dai soggetti né dalle organizzazioni, che a loro volta richiedono, necessariamente, impegno, costanza, responsabilità. Bisognerebbe fare in modo però che in questo meccanismo gli individui non sentissero venire meno il loro senso di libertà di azione. Parafrasando Melucci, gli individui dentro le organizzazioni devono avere gioco, come quegli ingranaggi che per funzionare non devono aderire troppo, ma devono essere lasciati liberi di muoversi.

Inoltre, come avviene normalmente in tutte le organizzazioni, il non rispetto degli accordi presi o il confine sfumato tra lavoro pagato e non pagato può ripercuotersi negativamente sull’immagine del volontariato nel suo complesso.

«Ho lavorato con associazioni che svolgono queste attività, e ne ho ricevuto un emolumento, per esempio ho insegnato italiano in un corso per donne immigrate, sono stata pagata molto poco ma pur sempre pagata. Sempre con l’idea di fondo di aiutare e non di dire ci guadagno, ci vivo con questa cosa, l’unico fine che poteva avere questa esperienza.. delle volte mi chiedo: il volontariato dove sta? Nel volontariato uno fa il suo lavoro a titolo completamente gratuito, non c’è alcun compenso, e questo è chiaro è volontariato; altre volte ti offrono compensi irrisori che poi aspetti mesi e mesi se non addirittura anni prima che arrivino… cioè c’è bisogno di serietà, se faccio volontariato faccio volontariato, se mi dite che mi pagate mi pagate è giusto che ci sia il rispetto per questo patto... metti in dubbio la serietà di queste associazioni, pensi che ti prendano in giro e hai la sensazione di essere sfruttato ed è molto brutto, perché basta

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questo per dimenticare certe cose positive e allora è meglio mettere in chiaro i ruoli di ognuno e stabilire le proprie aree di lavoro...» (2A)

«una cosa che mi blocca è il fatto di non essere d’accordo con le idee di un’associazione, credo che un po’ il mio blocco sia questo, io non mi iscriverò mai a una associazione perché iscriversi vuol dire essere pienamente d’accordo con tutto.. che è un atteggiamento criticabile, ma secondo me vuol dire essere d’accordo con tutto, con tutto lo statuto…» (2D)

Decidere di fare parte di un’organizzazione è una scelta che esclude altre cose che si potrebbero fare. Inoltre, l’appartenenza comporta la condivisione di obiettivi e regole e alcuni non sono disposti a mettere a disposizione una parte del proprio self in questo modo. Questo aspetto fa riflettere da un lato sul fatto che le organizzazioni non sono attraenti per quei giovani che nel loro personale percorso di costruzione dell’identità hanno bisogno di sentirsi svincolati, letteralmente, per poter fare diverse esperienze; dall’altro, dice che l’adesione dei giovani trae motivazioni dalla sfera soggettiva e da quella collettiva, in altre parole non è più pensabile un’adesione intrinseca e acritica a ideali che rimangono astratti anche se condivisi.

Gli aspetti positivi, comunque emergono soprattutto a proposito delle relazioni che si vengono a creare tra gli attori, siano essi volontari o utenti.

«a livello di impegno, quando si fa volontariato, hai modo di parlare con altri volontari, magari loro hanno più possibilità di confrontarsi, io che non faccio volontariato non ho modo di confrontarmi... mi piacerebbe se dovessi fare volontariato, confrontarmi con gli altri volontari». (1A)

«La cosa più bella che ricordo di questi momenti è che le donne con cui lavoravo ti facevano intravedere qualcosa della loro vita privata, qualche racconto di vita quotidiana, sentire lo scarto delle esperienze...» (2A)

«loro (i disabili) hanno sempre un pensiero in più per te, le persone normali lavorano non hanno mai tempo, ti chiamano un attimo, quando hanno bisogno, loro invece ti cercano sempre, loro non hanno per forza di qualcosa di raccontarti, ti vedono e ti fanno un sorridono. Avevo chiesto un disegno a Marco, e dopo un mese me l’ha dato, dicendomi che non si era dimenticato... aveva disegnato un asino!! Non mi ha spiegato perché, c’erano delle palme, un paesaggio. non voleva dire qualcosa.

Nella la persona disabile si può trovare quello che manca a te, è difficile da spiegare, magari la serenità , oppure il piacere di fare le cose più semplici… anche solo stare all’aperto». (3A)

Il bello è il confronto, ancora una volta, con l’altro da sé, lo scambio in cui c’è chi presta aiuto e chi si dà attraverso le emozioni o i racconti di vita.

Secondo i teorici dello scambio sociale, gli individui interagiscono tra di loro perché ne traggono una reciproca soddisfazione; vige la norma dell’utilità marginale, secondo cui gli individui interagiranno con altri finché non ne trarranno più ulteriore beneficio, sulla base delle caratteristiche che possono scambiare. Analizzare le interazioni sul piano dello scambio aiuta a comprendere solo un livello più superficiale del significato che le relazioni hanno per gli individui, i quali attivano universi di senso legati alla fase del corso di vita che stanno vivendo, e soprattutto alle emozioni. Ci sono scambi emozionali incommensurabili, che difficilmente possono essere ricondotti a una logica dare-avere. Purtroppo però, lo scambio è diventato un paradigma interpretativo non solo delle azioni degli attori ma anche dello spirito del tempo, facendo perdere di vista così il senso profondo delle relazioni e delle proprie azioni.

L’epoca in ci viviamo è in assoluto quella che ha maggiormente la capacità di analizzare se stessa e di produrre interpretazioni su di sé, è per questo che utilizzare la logica dello scambio – spinta anche dal dilagare del paradigma economico - può rivelarsi un boomerang, perché la legittimerebbe ulteriormente.

Allora, l’azione volontaria può aiutare a mettere in luce tutto quello che sfugge alla logica dello scambio.

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Una delle dimensioni fondamentali per uscire dall’impasse è il self.

«ti senti di fare qualcosa di utile ed è una bella sensazione ogni tanto». (2A)

«magari facendolo si capisce, a livello personale ti rilassa, e stai aiutando un’altra persona, ti dedichi a loro, ti toglie dei pensieri che hai costantemente.

Era un ragazzo di trenta anni a volte mi faceva trovare dei disegnini, mi faceva sentire importante, ma se una persona dopo 3 volte ti è così vicina ti fa sentire importante capisci che a loro fa piacere parlare con te, ti rendi conto che è utile stare con loro. e che li ascolti

Utile ed importante, è la stessa cosa?Utile quando è necessario dare una mano, nel momento del bisogno

ci sono e allora faccio un piacere, magari quando uno ha delle cose da sfogare.

Importante è un po’ più difficile da spiegare, diciamo un punto di riferimento, per loro (i disabili) dipende sempre da dove vanno, magari in palestra hanno una persona di riferimento, qui Marco aveva me, parlava con me ed Ilaria...» (3A)

«è gratificante per quello poi se posso essere d’aiuto visto che i suoi genitori sono un po’ soli dato che sono originari dalla Puglia per cui i parenti sono lontani quindi lo faccio anche volentieri… non mi pesa…se capita mi fa piacere.

Gratificante nel senso che sono contento di aiutare una persona comunque in difficoltà, non è che lo faccio perché provo piacere, lo faccio perché so che c’è bisogno poi è una cosa positiva quindi mi fa piacere ecco… positiva nel senso che sono d’aiuto a qualcuno… » (1A)

«è bello vedere che una persona si fida totalmente di te… ti fa sentire importante e dà tanto». (6D)

Il processo di identità si costruisce attraverso una duplice dinamica di riconoscimento e autoriconoscimento (Sparti 1996), che consente all’individuo di diventare ciò che è e che è evidente nelle frasi sopra

riportate. Al di là della logica dello scambio, quello che emerge qui è esattamente il movimento del soggetto che si conosce attraverso l’altro da sé che diventa uno specchio che riflette cosa si è agli occhi degli altri. È un’esperienza potente perché lo “specchio” è costituito da individui a cui si presta servizio (anziani, malati, immigrati ecc.), che sono nella maggior parte dei casi molto diversi dalle proprie cerchie sociali abituali e di conseguenza rimandano un’immagine di sé differente. Questa dimensione è comune alla costruzione dell’identità degli individui, perché come detto sopra è un tassello dell’essere sociali.

La sensazione di utilità e importanza che scaturisce in una relazione di aiuto rappresenta la funzione espressiva ed è una delle molle per l’azione volontaria (Melucci 1992, 104). “L’intensità emozionale che deriva dal contatto con certe forme di sofferenza” (ibidem) costituisce un modo per gli individui per fare conoscenza di sé. Impegno, dedizione, condivisione, da un lato, gratificazione, senso di utilità, appagamento, dall’altro, sono una miscela molto potente perché scatenano emozioni importanti per il riconoscimento di sé. Infine, le emozioni non sono solo un mezzo per conoscere meglio se stessi, a patto che se ne sia consapevoli, ma rappresentano anche lo spirito del tempo, nel senso che si confanno alle determinanti di un’epoca, la descrivono.

2.2.1. La paura di non farcelaUn discorso a parte merita il senso di paura che molti giovani

provano. La paura è un contenitore che al suo interno presenta varie componenti: può essere disagio o senso di colpa nei confronti della disabilità, imbarazzo, inadeguatezza, timore di non reggere l’impegno o la portata emotiva e così via.

«il disabile non è una persona normale, io mi troverei in difficoltà non saprei come rivolgermi, non so come mi comporterei, come prenderlo». (3A)

«dopo questo slancio di volontariato non l’ho più fatto, non ce la facevo, mi faceva troppa impressione…» (1D)

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«se fossi in situazioni del genere, anche vicino a bambini con handicap, mi sentirei.. avrei paura dei fargli del male.. se giochi con un bambino disabile e sei a disagio forse non gli fai del bene in quel momento, il tuo disagio, il tuo senso di colpa.. ma in realtà non mi sono mai messa in queste situazioni...» (3D)

«nel momento in cui decido di fare qualcosa per gli altri, vorrei essere sicura di starlo facendo nel migliore dei modi, se devo aiutare una persona.. se io gioco con un bambino handicappato e non accetto il suo handicap non gli sto facendo del bene.. forse è un discorso troppo radicale, perché magari gli fai anche del bene...» (2D)

Le situazioni cariche emotivamente di sentimenti di paura bloccano. Gli individui si attrezzano a confrontarsi con la paura attraverso l’esperienza, per prove ed errori, ma in generale c’è una tendenza a eludere i momenti impegnativi. Nella maggior parte dei casi, si tratta del timore di non sentirsi all’altezza del compito, di non sapere come fare, di nuocere alle persone con cui si sta interagendo. È, in fondo, la paura del diverso, dello sconosciuto, che mette alla prova in modi non consueti. I giovani poi, soprattutto nella modalità di interazione scolastica, sono poco abituati a trovare soluzioni in modo autonomo, ma sono piuttosto disciplinati a risolvere problemi con un set di azioni predefinite e predeterminate. Le difficoltà sono tanto peggio vissute quanto più contemplano la fatica di mettersi in gioco.

La paura è una parte importante della vita quotidiana degli individui, che bisogna imparare a riconoscere e affrontare, accettando i propri limiti. Per alcuni la paura diventa una sfida, altri la ricercano attivamente attraverso pratiche di loisir, altri ancora invece la rifuggono. La paura richiama l’universo semantico del dolore, che la società del benessere tende a nascondere o a mostrare senza pudore (Boltanski, 2000), a patto però che sia abbastanza lontana.

Il disagio di fronte a un disabile o a un malato rivela non solo la paura del diverso, ma anche e forse soprattutto la difficoltà di cambiare punto di vista, di mettersi nei panni degli altri, di cambiare cornice.

Una parte rilevante della paura è costituita dal senso di colpa che viene proiettato sulla relazione con persone disabili o malate.

«conosco i ragazzi ma non me ne occupo.. ce ne sono troppe.. situazioni pesanti.. ho pensato tante volte al volontariato ma non mi sento psicologicamente in grado di sostenerlo, credo di non esserlo, in realtà non lo so, emotivamente ho paura che mi farei prendere troppo e non saprei… perché con i ragazzi in carrozzella con handicap, mi diverto con loro però sto male, piango e allora non credo che sia giusto che nel momento che li aiuti tu soffra, se stai male non riesci ad aiutarli, non riesci a essere totalmente per loro, perché in realtà avresti bisogno tu di un po’ di forza…

Mi è capitato di stare tre mesi in ospedale per mio nonno e vedevo tutta una serie di persone con problemi, ti arrabbi, ti senti impotente, ti sembra che tutto giri nel modo contrario in cui dovrebbe girare, a me scatena tutta una cosa.. cioè vai fuori di testa, io vado fuori di testa, non riesci a controllare la tua emotività e filtrarla nel senso positivo, dando un aiuto, non riesci a canalizzarla perché sia costruttiva e magari senti solo... umano...» (3D)

Nella maggior parte dei casi queste remore spariscono molto presto dopo aver stabilito un rapporto con i soggetti che vengono aiutati. Il senso di colpa viene mitigato dalla reciprocità a patto che ci siano la disponibilità e la volontà di mettersi in gioco da un lato, e dall’altro la possibilità di essere ascoltati da parte delle associazioni, degli adulti.

2.3. Rappresentazioni tre. L’esperienza altrui Le rappresentazioni del volontariato mediate dall’esperienza

personale di terzi è il più delle volte riportata in modo positivo. «Lei studia psicologia e praticamente ha fatto uno stage e si è

trovata bene, le è piaciuto e adesso è contenta me ne parla sempre in modo positivo [del servizio civile]. Nel senso che è proprio quello che le piacerebbe fare come lavoro una volta terminati gli studi, lo fa con passione insomma non lo fa tanto per guadagnare qualcosa lo fa proprio perché le piace». (3A)

«Molti sono partiti con lo Servizio Civile Internazionale, altri

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con piccole associazioni che organizzano campi di lavoro. Non ho mai sentito nessuno tornato scontento, sono sempre tutti molto entusiasti… penso che sia un’esperienza sempre più diffusa come esperienza di vita... di crescita, esperienza personale… abituato a vivere nella città con tutte le comodità decidi di metterti alla prova e contemporaneamente fai qualcosa di utile per qualcuno meno agiato di te, vai a fare qualcosa di faticoso… per poi uscirne con esperienze che non avresti altrimenti fatto: temprato. Vieni a contatto con realtà anche dure, realtà che possono segnarti…» (2A)

«non mi sentirei adatto… forse una sorta di sfiducia in me stesso… non mi sentirei in grado di aiutare un’altra persona, in situazione di disagio... può sembrare anche brutto da dire.. non è facile .. bisogna essere portati… bisogna riuscire ad essere appagati dall’aiutare gli altri… bisogna essere veramente convinti di quello che si sta facendo… poi io tendo sempre a pensare che bisogna aver studiato per poter aiutare gli altri, di sapere già come si fa, o forse bisogna imparare sul campo… io faccio un po’ di fatica... può essere una predisposizione, bisogna essere portati di istinto, dal tipo di educazione, educazione religiosa… ci vuole una predisposizione di istinto…» (1A)

«credo sia un’attività che richiede una certa identificazione nelle altre persone e una certa superiorità, senza entrare troppo, ci vuole polso e pazienza e soprattutto la volontà di farlo... al di là di volerlo fare ci vogliono delle caratteristiche, sia di sporcarsi le mani, andare a vivere delle situazioni particolari e viverle nella maniera giusta senza troppi coinvolgimenti emotivi... aiuta anche la simpatia, le doti di carisma, perché si può aiutare anche psicologicamente una persona. Poi la volontà di fare le cose gratis, la capacità di immedesimarsi nell’altra persona... Il fatto che vengano chieste delle doti superiori alle mie capacità... troppo buoni per sacrificare se stessi, troppo i primi della classe...» (4A)

Passione ed esperienza di vita costituiscono un parte molto importante del senso attribuito all’azione volontaria di altri. La prima è considerata qualcosa di innato, che si possiede oppure no.

La seconda fa parte delle opportunità di scelta a disposizione dei giovani. Il valore aggiunto di questa scelta è che diventa una parte importante del bagaglio esperenziale, molto più di quello che potrebbe essere un’analoga esperienza a livello locale. In tempi non lontani si andava a fare le ragazze alla pari, oggi si sceglie il volontariato internazionale.

La passione si accompagna ad altre definizioni: indole, sensibilità, istinto, vocazione. Da un punto di vista esterno, è come se la spinta all’azione volontaria fosse qualcosa di poco definibile altrimenti se non con concetti sfumati, poco densi. Si tratta di elementi che non sono facilmente spiegabili, ma che veicolano un’idea di ineluttabilità: c’è o non c’è. La vocazione è innata, così come lo sono l’istinto, l’indole e la passione. Al di là delle caratteristiche personali di ciascuno, queste definizioni hanno più che altro la veste di alibi, di qualcosa al di fuori della propria portata, perché è altro da sé, qualcosa che non riguarda chi non le possiede. È un altro modo di mettere un’ulteriore barriera alla propria presa di coscienza. Dire che il volontariato è fatto per persone speciali, particolari, fuori dal comune, significa in buona sostanza tirarsi fuori, mettere una barriera, rendere più rigida la propria cornice e non vedere che si tratta soltanto di attivare quella riflessività che fa capire chi si è e cosa si può fare. Secondo Melucci (1992), in passato quando ancora erano ben saldi i riti di passaggio, un individuo arrivava a comprendere chi era attraverso le prove che gli facevano capire cosa era in grado di fare, e di conseguenza anche ciò che non poteva fare, il proprio limite. Oggi, in mancanza di riti di passaggio, gli individui, oltre a dover imparare a loro spese quali sono i limiti, si trovano a vivere uno scollamento tra la loro capacità riflessiva –ciò che pensano di poter fare- e la loro capacità di azione –ciò che fanno-, che può portare a restare fermi. Non si è più attraverso le cose che si sanno fare, e del resto non si sa più cosa si sappia fare. Diventare ciò che si è si rivela un processo sempre più difficile.

Togliere, allora, l’aura di eccezionalità e di ineluttabilità all’azione volontaria, renderla accessibile a tutti come esperienza importante nel processo di costruzione dell’identità, significherebbe avvicinarla agli individui, rendendo più morbido il confronto, togliendo un alibi al non impegno.

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Alcuni invece hanno bisogno dell’eccezionalità come stimolo per l’identità; in altre parole essere volontari, che non è un’attività estremamente diffusa, per alcuni diventa un modo per distinguersi, per ricevere un maggiore riconoscimento.

Il confine è sottile, ma probabilmente rendere meno rigide le cornici smitizzando l’idea della vocazione permetterebbe una comunicazione più efficace. Anche perché chi si avvicina all’azione volontaria per il desiderio di esclusività ed eccezionalità che dà al proprio self, poi cambia punto di vista, e vi ritrova motivazioni più profonde.

Un altro aspetto è legato all’ammirazione che si prova nei confronti delle persone che si impegnano, ma anche qui c’è una sfumatura: l’impegno per essere ammirevole deve essere autentico e non avere funzioni latenti, come il riconoscimento sociale.

«si può solo aver stima di persone così e vedi anche che i bambini sono contenti, cercano di insegnarti il russo, è bello.. li trattano come se fossero figli loro. Conosco altri che lo fanno ma ‘povero ragazzo dall’Ucraina..’. Lo fai perché ci credi, non lo fai per farti bello agli occhi del mondo e non tutti sono capaci...» (4D)

«Poi conosco un amico che hanno adottato una bambina down, sono tre fratelli, è una cosa che mi ha affascinata. La bambina è molto più piccola dei tre fratelli, non è solo una scelta dei genitori… ci vuole coraggio». (3D)

Le scelte che implicano un rovesciamento delle routine quotidiane sono percepite sempre come faticose. Non c’è solo l’ammirazione per chi fa scelte che modificano la propria quotidianità, ma anche un senso di eroismo, quasi appartenesse a un mondo altro rispetto al proprio. Ancora ci si chiama fuori da un gioco che sembra al di là delle proprie possibilità.

C’è da chiedersi allora quale sia il tasto da premere, l’aspetto su cui insistere: da un lato riportare l’azione volontaria alla portata di tutti, sciogliendo la paura legata all’esperienza ‘più grande’ di sé; dall’altro il richiamo dell’esclusività dell’esperienza, che attrae perché fuori dal comune e per questo dà identità.

Infine, uno dei modi per dare legittimità a un discorso è il riferimento a ricerche e statistiche o pareri di esperti che veicolano un’idea di scientificità. Soprattutto le statistiche sono tra gli artifici maggiormente usati per costruire il senso comune su una base legittimata (Van Dijk, 1985).

«Dicono che in Veneto ci sia la più alta percentuale di giovani che fanno volontariato… io non ho questa impressione, non ne conosco così tanti di giovani che fanno volontariato.. non so cosa intendono perché non mi sembra che ci sia questa grande percentuale…» (5D)

Il senso comune si confronta con la propria esperienza dacché ne deriva la propria costruzione del mondo e anche se si ammanta di un’aura di scientificità, tuttavia se non trova riscontro con la propria percezione viene messo in dubbio. In questo caso infatti, al di là dei meccanismi proiettivi messi in atto dagli individui, il “si dice” non corrisponde alla propria esperienza e perde di conseguenza di senso.

2.3.1. L’habitus: il livello latente dell’impegnoUno dei principali motivi addotti al non impegno è la mancanza di

tempo. Il tempo è in effetti una dimensione problematica del vissuto nella società postindustriale, in cui si è divisi tra lavoro, famiglia, loisir. Il tempo è sempre e comunque qualcosa da riempire, si è persa l’idea dell’otium latino, sicché non fare niente viene sanzionato moralmente, poiché il tempo è prezioso e deve essere riempito di qualcosa, sia che abbia senso sia che non lo abbia. Ne deriva necessariamente una cronica sensazione di mancanza di tempo, non perché non ci si sappia organizzare, ma proprio effettivamente perché il tempo non c’è più. L’allargamento a dismisura dei possibili, soprattutto per i giovani, può causare frustrazione: “un tempo dai troppi possibili si trasforma in una possibilità senza tempo, cioè in un puro fantasma della durata” (Fabbrini, Melucci 1992, 79). Anche il tempo è esperienza del limite, di ciò che si può e ciò che non si può fare, e per questo alle volte diventa problematico, o meglio, diventa il problema per eccellenza, quello che viene sempre chiamato in causa per la mancanza di azione. Si potrebbe –dovrebbe?- fare tutto, ma non è possibile, la responsabilità

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della scelta è ineluttabile. Accusare la mancanza di tempo, in buona sostanza, significa non prendersi la responsabilità di avere scelto.

«ma poi ho iniziato a lavorare e non ho avuto più tempo». (3A)

«non l’ho mai fatto, ormai il tempo è passato, sarebbe piaciuto anche a me però ormai è passato il tempo, ma mi piacerebbe molto perché deve essere un’esperienza positiva.

Però sono sempre stata lì per farlo, ma adesso inizi a lavorare e non è più facile trovare un mese, due mesi di vacanza per partire...» (2A)

«dipende dal tempo, dalla disponibilità, dal lavoro, se uno lavora 12 ore ed ha figli, non può farlo per questioni di tempo, però organizzandosi potrebbe farlo… dire che non si ha tempo non è vero, perché uno lo trova». (1A)

«magari piuttosto mi è capitato di fare dei lavori in questi 25 anni così vado a guadagnare qualcosa, non ho fatto servizio civile, alla fine ho sempre fatto altro, non stai a pensare di renderti utile, di fare il servizio civile, anche se con il servizio civile guadagni qualcosa, alla fine ho sempre fatto altro, pigrizia: devi fare questa cosa e poi non la fai… non ho fatto volontariato per cui alla fine dai la priorità ad altre cose, io ho sempre pensato a guadagnare dei soldini, secondo me l’età dello studente è l’età in cui hai più tempo, poi ti occupi di altre cose, cercare lavoro, fare uno stage, magari non avrei la costanza…» (1A)

«lavoro tutto il giorno e la sera e non mi rimane tempo, faccio la commessa, potrei trovare lavoro nel sociale, e continuare comunque ad avere un altro lavoretto, ma volontariato…» (3A)

«ora ho la priorità di guadagnarmi la vita, il tempo purtroppo, ci tengo che il tempo che lavoro venga pagato, lo scambio, cioè voglio dare e ricevere... ora vedo il volontariato come qualcosa che ho fatto nel periodo degli studi, hai tempo libero, oppure più avanti nell’età... probabilmente molte persone possono fare entrambe le cose, in realtà non trovo un’associazione di cui sposo completamente la causa, non ho avuto ancora una motivazione forte per cui sacrificare

delle cose, in questo momento della mia vita, sono troppi pochi anni che sono nel mercato del lavoro e bisogna sopravvivere...» (2A)

Il volontariato è spesso messo in relazione con il tempo del lavoro e non con quello del loisir. L’idea del tempo è reificata, cioè il tempo è denaro, e il volontariato viene percepito come appartenente alla classe del lavoro e non a quella del tempo libero o del divertimento. Fare volontariato non viene percepito dai non volontari come tempo per sé, come potrebbe esserlo il tempo dedicato allo sport o ad altre attività istituzionalizzate di loisir. È percepito come tempo dedicato, donato, agli altri, in una relazione di aiuto di qualcuno o qualcosa, dove si presta servizio e per questo semanticamente si avvicina alla sfera del lavoro, dove si “fa per ricevere”, il tempo volontario invece è fare senza ricevere compensi monetari.

«È una scelta molto importante. Se la facessi diventerebbe qualcosa di definitivo che assorbirebbe gran parte della mia vita, non credo che sarei pronto a fare un’ora al giorno, penso che preferirei fare un mestiere collegato... per questo non credo che la farò... non penso, forse fra qualche anno, per adesso non ci penso... Aiutare le persone un pochino non mi sembra il modo giusto.. farlo un pochino non mi sembra il modo di farlo, e per questo non lo faccio...» (4A)

Eppure, in alcuni si apre la consapevolezza che il volontariato non è solo donare il proprio tempo agli altri, ma significa anche dedicarsi a se stessi.

«se dovessi farlo nella vita non mi dispiacerebbe del tutto, è bello vedere che una persona si fida totalmente di te... ti fa sentire importante e dà tanto. Più, che so, fare dei lavori che ti danno una soddisfazione personale, mi sono fatto il culo, ho preso questi soldi, quello è un successo diverso. Quello che ho fatto io è diverso, ti sei reso utile e hai fatto contento qualcuno, che è diverso». (6D)

«è chiaro che quando si fa volontariato si fa qualcosa per gli altri, ma si fa qualcosa anche per se stessi...» (5D)

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«l’idea del volontariato che fa bene solo agli altri è un po’ idealizzata perché alla fine, forse riesci a fare di più… senti che cominci a volere bene al bambino di cui ti occupi è logico che se lui sta male tu stai male.. e aiutarlo oltre a far star bene lui stai bene anche te, e in questo si è egoisti…» (4D)

Tuttavia, questa dimensione dell’agire volontario come qualcosa che si fa anche per aiutare se stessi alle volte è vissuto in modo problematico. L’esperienza della ragazza riportata sotto, è un esempio di come il dilemma dell’aiuto di sé attraverso l’aiuto dell’altro non sia risolto.

«si deve essere fatti per queste cose mi sembra che bisogna essere troppo buoni perché anch’io possa partecipare a queste cose, ci vuole dedizione verso gli altri... non ho mai capito che parte di sé si debba tirare fuori per non essere infinitamente egoisti nel momento in cui si fa una scelta del genere, appunto di dedizione per gli altri.. il discorso di Francesca, del io sto male nel momento in cui entro in contatto con una certa realtà e questo mio star male non mi permette di interagire del tutto positivamente con la realtà con cui entri in contatto.. capisco quello che dice.

Per me probabilmente l’approccio sarebbe unilaterale… ah no io ho fatto volontariato adesso che mi viene in mente! Stavo molto male! L’inverno scorso e sono andata qualche volta alle cucine popolari a servire i pasti; stavo talmente male che l’avevo rimosso.. e avevo, so perfettamente di aver deciso di fare quella cosa facendomi un discorso: non riesco a volermi bene quindi cerco almeno di fare del bene agli altri. Questo è il meccanismo che interviene in me, e a quel punto penso che non faccia per me perché devo aspettare di essere veramente.. per decidere di fare una cosa del genere devo aspettare di sentirmi lo zerbino di me stessa e poi cerco di elevarmi servendo i pasti? No, prima lavoro su me stessa». (5D)

A volte la fase del corso di vita è cruciale non solo dal punto di vista dell’impegno lavorativo, ma anche da quello del disagio psichico. I giovani, che vivono in un’epoca di estrema flessibilità, hanno l’obbligo

di scegliere tra moltitudini di possibilità il loro percorso futuro. Spesso queste scelte sono molto difficili e si ripercuotono sull’immagine che si ha di se stessi. Entrare in contatto con il disagio degli altri significa poi vedere un possibile che mette in crisi perché potrebbe essere il proprio, significa in buona sostanza aprire i propri confini, mettere in dubbio la propria stabilità, diventare profanabili al dolore degli altri, e questo può causare molta paura. Gli individui sono alla strenua ricerca del mantenimento delle impressioni, di dare un’immagine di sé che sia coerente con quella che gli altri vedono. Aprirsi agli altri da sé implica la messa in dubbio di quest’immagine, cosa che per alcuni è sostenibile, per altri no. Anche qui, non si tratta di un discorso legato al mero dare-ricevere, ma va a toccare corde più profonde che attengono alla costruzione del proprio self e al proprio essere sociale. “L’incontro con l’altro è un viaggio nella vertigine del senso”, scrive Melucci (1992), intendendo che l’interazione tra individui è carica di emozioni, che aprono al significato, e quello che si era all’inizio poi non si è più, come in un viaggio, che è un processo di conoscenza e di cambiamento.

L’immagine sembrerebbe quindi quella di una gioventù fragile, poco capace di intraprendere viaggi nel senso, di esperire emozioni profonde che vanno a toccare i processi di costruzione del self. Eppure, si tratta di una generazione che si fa domande, che si chiede, che mette in pratica la riflessività quando trova momenti di difficoltà, molto più che in passato. Del resto, i giovani sono esperti di quello che gli inglesi chiamano pop-psychology, ovvero la pratica di elementi per l’autoanalisi che vengono appresi attraverso i mezzi di comunicazione di massa. C’è l’abitudine a pensare a se stessi, a riflettere sul proprio percorso di vita, perché si è costretti a farlo, oggi molto più che in passato, quando le reti di protezione del self – famiglia, lavoro, religione, comunità- erano ancora salde e dicevano chi si era. Del resto, già Simmel nel 1912 aveva descritto l’individuo blasé della metropoli, che indicava il continuo confronto a cui si era sottoposti tra oggettività e soggettività, tra il dentro di sé e il fuori, tra essere per sé ed essere per gli altri, contrasto irriducibile e continuo. La storia seguente ne è un buon esempio.

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«Una signora aveva proposto anche a noi in famiglia di prendere due bambini… ma mi fa un certo che, io ho conosciuto due bambini in particolare che vengono da una zona, adesso non mi ricordo, sono stata una serata con loro, però.. non so… scattava un meccanismo non riuscivo a pensare di affezionarmi e poi lasciarli, non capivo come loro potessero stare qui, dal non avere nulla a avere tutto, attenzioni, famiglia, non solo beni materiali, affetto e poi tornare lì e trovarsi di nuovo nella situazione precedente, non che sia meglio che non abbiano nulla però.. cioè, a un livello psicologico anche per loro non riesco a capire». (3D)

L’esperienza delle emozioni degli altri è allo stesso modo difficile come quella delle proprie.

Se nella pratica il volontariato non viene sentito vicino, in termini di intenzioni e di latenza dell’impegno invece viene espresso. In altre parole, tra i non impegnati ci sono anche quegli individui che hanno una motivazione latente all’impegno che se fosse attivata in qualche modo diventerebbe fattiva.

«parlando di volontariato nessuno è mai riuscito a motivarmi, per esempio chi mi aveva proposto di fare dei corsi, non mi ha motivato, se dovessi io dare delle motivazioni, non darei delle motivazioni, ma direi prova e vedi tu se riesci a motivarti da solo». (3A)

«Se qualcuno mi parlasse di una causa importante… sono aperta, però non me la vado a cercare, ho tante altre cose da fare, sono molto in evoluzione per quanto riguarda il lavoro». (2A)

«Lo farei molto volentieri se mi capitasse ma non mi è mai capitato. Non è mai capitato nell’ambiente in cui vivo». (1A)

Si tratta chiaramente di affermazioni di tipo proiettivo che nulla dicono sulle pratiche effettive degli individui, tuttavia indicano un’intenzione o meglio un potenziale. I giovani sono potenzialmente attivi, infatti non pochi sono quelli che vanno a fare volontariato all’estero o che fanno il servizio civile e così via. E lo sono in virtù del

fatto che è richiesto dall’epoca in cui vivono di farsi alcune domande e trovare le risposte, per se stessi. Il volontariato, che comporta il contatto con l’altro da sé, innesca molte domande, a cui alcuni non sanno ancora rispondere, perché non hanno sviluppato una adeguata capacità di riflessione su di sé, oppure perché non hanno il background culturale cattolico o socialmente impegnato che fornisce loro una rete di protezione adatta. L’idea è che si tratti di un’epoca di passaggio verso altre definizioni. Mai come oggi è chiesto all’individuo di essere riflessivo, mai come oggi viviamo in un mondo che pensa se stesso. Si tratta di passare dal fare il volontario trovando le motivazioni al di fuori di sé, al farlo trovando le motivazioni per sé, al di dentro, attraverso un processo di riflessione che prescinde dalla famiglia, dalla socializzazione ricevuta. Dire che i giovani oggi sono individualisti, atomizzati, privi di valori significa solo spostare il problema e non vedere che invece i giovani sono alla ricerca di qualcosa che dia loro il senso della propria esistenza, a differenza di un tempo in cui il senso era intrinseco al modello di vita. Avviare percorsi di senso sembra l’unico modo per attivare il potenziale degli individui, che oggi hanno bisogno di altre reti di protezione che sono soprattutto costituite non dai legami comunitari, ma da quelli amicali e socievoli.

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- III -

I GIOVANI IMPEGNATI

1. Cominciare

L’esperienza di volontariato nasce spesso da precedenti esperienze di socialità vissute nel periodo dell’adolescenza; queste creano un orientamento a determinati valori e comportamenti che influiscono (in maniera più o meno consapevole) sulle scelte successive. I luoghi sono la famiglia (per lo più esperienze di aiuto a vicinato da parte della madre), lo scoutismo, la parrocchia. Queste esperienze sembrano mettere le basi su cui poi scorrono le possibilità di incontro/ricerca di proprie modalità di impegno solidale.

Canali ed esperienze si caratterizzano secondo l’età e le opportunità dell’ambiente in cui si vive. Quando si è più piccoli si accompagnano i genitori, l’adolescenza vede prevalere lo scoutismo o la parrocchia, gli anni del liceo vedono già la partecipazione ad iniziative associative, fino all’università.

«le prime esperienze dove ho fatto volontariato quando ero al liceo a Padova, è un gruppo di Mani Tese,... e poi un gruppo della parrocchia dell’Arcella che d’inverno andava in giro a portare coperte ai barboni. Mi sono avvicinato così, tramite amici, attraverso gente che faceva cose di questo tipo, che s’informava e che si passava le informazioni vicendevolmente... in realtà a 13, 14 anni frequentavo rimasugli delle relazioni familiari, la parrocchia, anche lì c’erano parecchie persone che avevano esperienze di questo tipo, le prime cose quindi sono arrivate da persone che stavano vicino a me, che ti incuriosiscono». (3B)

«la prima volta... è stato nell’estate tra la prima e la seconda superiore, nell’ambito parrocchiale... Avevo 15 anni… 15 giorni di campi estivi per bambini in montagna… l’avevo già fatto a livello di animazione quindi mi sono offerta. È stata un’esperienza bella...

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dopodiché ho sentito il bisogno di continuare… così per i successivi 4 anni, ogni estate per 15 giorni, più la preparazione prima». (4B)

Al volontariato si arriva quindi, per lo più, grazie a determinate esperienze in luoghi di socializzazione dell’adolescenza (scout, parrocchia) o a persone (famigliari, sacerdoti, più raramente un amico/a). Tuttavia la “familiarità” con ambienti facilitatori non basta da sola e necessita di innescarsi su una sensibilità, una motivazione propria. Sembra che perché vi sia passaggio all’azione tale familiarità debba contenere un significato importante all’interno della ricerca personale del giovane. A volte appare già chiaro il campo di interesse, altre volte è il partecipare ad una esperienza sul campo che fa fare il “collegamento”, che sembra traghettare più facilmente verso la scelta di essere volontario. In altri casi la scelta può derivare dal bisogno di cambiare qualcosa nella propria vita:

«ho iniziato un anno fa, avevo già le idee chiare sapevo di voler lavorare con gli immigrati… mia sorella già fa volontariato da tanti anni, facendolo lei mi sembrava una cosa abbastanza normale, avrei potuto farlo anche prima ma non ero mai andata ad informarmi, ho cercato in internet e sono andata all’associazione.» (3E)

«io non avevo mai pensato di fare volontariato però nel 2002 siamo andati a fare un campo scuola con la Parrocchia a Roma con la comunità di sant’Egidio, e li andavamo a fare smistamento di vestiti o alle cucine popolari.. e quindi cominci a capire che c’è tutta una società che ha bisogno di te… poi vicino a casa mia c’era questa comunità di disabili e così ho iniziato». (5E)

«tutto è partito dall’associazione scout, l’input è partito da un prete che ha saputo che mi spostavo a Padova per l’università e mi ha chiesto se potevo dare una mano per vivere assieme a questi ragazzi... il nostro progetto è quello di fare famiglia convivere». (4E)

«ho iniziato tre anni fa, era un periodo un po’ brutto... non sapevo cosa fare… poi abbiamo costituito l’associazione dei volontari... Mi

aveva mollato il mio moroso dopo 5 anni e... questo ha causato una svolta abbastanza grande… il master sul Terzo settore, il servizio civile… il volontariato era lontano da me... non ci avevo mai pensato più per paura che altro, anche quando sono entrata in cooperativa l’educatrice mi ha detto che c’erano un gruppo di volontarie che uscivano con i ragazzi del CEOD e io le ho detto subito no, non avevo molta fiducia in me stessa, sono molto timida». (2E)

2. Continuare

Per i giovani che in età adolescenziale sono impegnati in attività di volontariato organizzato il passaggio dalla scuola superiore agli studi universitari sembra renderne problematica la prosecuzione, e le loro spiegazioni riconducono in parte al moltiplicarsi degli impegni e in parte al fatto che la gamma di opportunità di attività, di interessi e di problemi si amplia:

«Di continuare? C’è un meccanismo che funziona così…quando cresci in un paese piccolo e quando senti che hai avuto un supporto da persone che sono al di fuori della famiglia ti senti in dovere poi, nel momento in cui tu riesci a far qualcosa per gli altri, di ricambiare con la stessa moneta che gli altri hanno dato a te, nel momento in cui tu avevi bisogno… Per me c’era un forte bisogno materiale di rendere il favore… agli altri per permettere loro di passare quella fase formativa che per me era stata fondamentale. Anche oggi, pur facendo tutt’altro tipo di volontariato, agisco con questa logica… Secondo me dovrebbe essere questa la logica che regola i rapporti di scambio tra le persone… dare il mio aiuto anche a persone che possono trarre vantaggio dal mio operato, e che non hanno necessariamente bisogno ma possono volere il mio aiuto». (2B)

Anche se i termini usati sono del tipo “mollare”, dando l’impressione di una interruzione drastica, in realtà non appare vi sia un allontanamento vero e proprio ma piuttosto un cambiamento di modalità, una sorta

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di personalizzazione dell’impegno e/o una diversificazione degli ambiti di azione.

Il periodo degli studi universitari sembra corrispondere ad un periodo di sospensione dell’impegno in attività verso terzi. Appare l’esigenza di auto-centrarsi, di fare i conti con le scelte che si stanno facendo e che orientano il proprio futuro la cui incertezza sembra in parte pesare sul sentimento di responsabilità del singolo nel determinare il proprio destino.

Si sperimentano anche forme nuove di autonomia e si entra a far parte di altre cerchie amicali, ci si incontra e ci si confronta anche con altri sistemi di valore. Si allargano le conoscenze e le appartenenze, con la necessità di collocare sé nelle nuove coordinate. È una fase della vita nella quale si sperimenta anche una maggiore autonomia nell’organizzazione del proprio tempo, contemporaneamente alla moltiplicazione di opportunità e di occasioni offerte dall’ambiente circostante.

La nuova fase del ciclo di vita del giovane è un periodo di ridefinizione identitaria, che richiede una significativa centratura sul sé che tuttavia non è da leggere, a nostro parere, come chiusura dall’altro da sé. Essa appare come bisogno di cercare proprie esperienze e significati in una cornice di nuova autonomia; la definizione della propria identità personale richiede il riconoscimento dei propri desideri ed aspirazioni, di un proprio sistema di valori, che non nega necessariamente quelli che sono stati i riferimenti fino a quel momento ma necessita di nuove o riconfermate assonanze nelle relazioni che si sceglie di vivere. Da quanto emerge dalla nostra indagine sembra fuorviante spiegare la questioni in termini di mancanza di tempo; anche se questo rappresenta oggettivamente un vincolo non appare l’elemento determinante perché in realtà ci si impegna su altri, nuovi fronti. Più in là vedremo come, semmai, la questione tempo debba essere affrontata in termini di flessibilità, di spazi di auto-organizzazione:

«Poi ho mollato all’università perché era troppo impegnativo... ma ho mantenuto i contatti.... non ho 3 o 4 ore alla settimana, faccio qualche ora, 1 o 2, come babysitter domiciliare… E poi ho fatto il Servizio civile nazionale alla fine dell’Università». (1B)

«nel momento in cui ho iniziato l’università non è stato semplice, gli studi, nuove amicizie, avevo bisogno di più tempo per me, e poi volevo uscire da vincoli parrocchiali, ho interrotto, ma sapevo che era una cosa temporanea, avevo bisogno di riorganizzarmi». (4B)

«nella fine dell’adolescenza ci sono periodi un po’ difficili… poi ero un po’ angosciato dagli studi, non sai se stai facendo la facoltà giusta, magari sei più involuto in te stesso, è difficile guardarsi intorno». (3B)

È il momento in cui ci si confronta/distingue con scelte di autonomia. Essere grandi significa anche sentirsi e voler sperimentare una nuova responsabilità:

«era un modo per uscire da sé stessi, al di fuori delle proprie problematiche, delle preoccupazioni per sé stessi; è l’età in cui si inizia a prendere consapevolezza anche a livello politico, a non pensare più come un bambino, a guardasi in giro, a reagire politicamente nella comunità di cui fa parte, è una maniera di rendersi conto di certe situazioni e pensare che ci fosse un senso di giustizia nel tuo contributo, in quello che facevi, utile o non utile che fosse... al di là dei risultati ottenuti, è una cosa che è giusta fare... Percepisci dei disequilibri intorno a te, ti rendi conto dei disequilibri sociali e devi dare un tuo contributo, non darlo è sempre andare verso una certa direzione». (3B)

Si comincia a guardare il mondo come a qualcosa che ci riguarda. Le occasioni di sperimentarsi ed impegnarsi in azioni di solidarietà trovano canali nuovi, autonomi e talvolta l’esperienza di volontariato marca una differenziazione rispetto allo stile di vita familiare.

Di sfondo rimane una visione della vita e delle relazioni maturata nell’ambiente familiare e nel contesto, anche se rielaborata con una propria ridefinizione della forma di scambio e di impegno:

«Mia mamma ha sempre aiutato il Patronato, è molto legata alla chiesa.. donazioni…ma volontariato attivo no... Io sono la pecora nera in famiglia... Mio padre è dirigente d’azienda ed i miei fratelli sono

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ingegneri, lavorano nel marketing… io sono l’unica che ha seguito questo percorso… Faccio un percorso che mi porta a prendere una decisione mia e ad andare avanti da sola… Anche perché a livello di volontariato sono sempre stata sola... Non avevo un’amica che faceva già volontariato... È una cosa che è nata da me, spontaneamente e che ho fatto da sola…» (4B)

«Poi ho re-iniziato facendo varie cose, ho lavorato come volontario nel tema dell’immigrazione, con un’associazione che gestiva una casa in via Anelli, dando consulenza amministrativa... poi con amici ho fondato il gruppo locale di Greenpeace, un’associazione in ambito ambientale... poi sono partito per andare in Colombia,... Sono andato via con Peace Brigates International, brigate della pace,... perché volevo lavorare in America Latina, e avevo voglia di stimoli nuovi... ho sentito di quest’associazione che cercava gente, e così da un giorno all’altro ho deciso, lo ho fatto senza un motivo particolare». (3B)

Compaiono canali istituzionali, collegati al percorso di formazione e di professionalizzazione: lo stage oppure il servizio civile. Sembra prevalere l’attivazione tramite comunicazioni di tipo informale-relazionale in cerchie sentite più vicine, amici per lo più, ed il coinvolgimento avviene tramite passaparola.

Si rimodellano forme e tempi dell’impegno in precedenti esperienze associative ma accade che si mantengono relazioni, anche frequenti, con le persone di cui ci si era preso cura durante l’impegno strutturato.

Quello che sembra interessare e che motiva a continuare sono le relazioni ed i contenuti dell’esperienza (assistenza, compagnia, sensibilizzazione). Questo consente da un lato di sottolineare il fatto che la questione non può essere liquidata con gli stereotipi sull’indifferenza o sull’egoismo dei giovani e, d’altro lato. di porre l’accento sul fatto che le esigenze di organizzazione dell’impegno volontario strutturato sono vissute come conflittuali con i bisogni di un giovane in determinate fasi del ciclo di vita. Appare inoltre un altro aspetto, e cioè l’esigenza di un impegno più espressivo, che contempli anche una certo margine di autonomia di iniziativa e di responsabilità.

Per i giovani, fasi di impegno si possono alternare con fasi di

disimpegno; il ri-aggancio sembra avvenire sul riconoscimento di un ruolo e di una competenza, oppure sull’incontro tra il modo di essere di un’organizzazione e i propri interessi.

«…e poi faccio parte di un’altra associazione culturale a scopo “ricreativo” che è nata per organizzare la festa della birra nel paese… poi questa crescendo è diventata un festival conosciuto a livello nazionale; poi ho fatto festival/musica/informagiovani… ho collaborato con la Pro Loco per fare altre feste». (1B)

Lo stage sembra avere un ruolo importante, consente di far combaciare esperienza di volontariato e motivazione, aspirazione, investimento professionale o di formazione; è un’opportunità per utilizzare le proprie conoscenze e competenze o per avere l’occasione di precisare meglio il proprio orientamento.

«Non c’è stato un elemento scatenante… al Cuam sono entrata nell’ufficio comunicazione e ho visto che le due cose, campo di studio della comunicazione e terzo settore del non-profit, potevano essere conciliate. C’erano molte tematiche di studio che andavano prese in modo professionale e serio… il volontariato non è solo persone di buon cuore... Io penso che alla fine quello che mi ha fatto scegliere definitivamente è stata l’esperienza al Cuam (stage) quindi il sentire raccontare esperienze e, volente o nolente, la lettura di determinati argomenti che hanno loro… cose che mi sono dovuta imparare in fretta, volevo imparare ad orientarmi in quel campo... E poi la scelta di mettere nel mio piano di studi ad esempio la comunicazione sociale… C’è stata la concatenazione di cose che mi hanno portato ad avvicinarmi a quel campo… Ad esempio la mamma del mio ex ragazzo che lavorava in una cooperativa che assisteva le persone disabili, quindi il sentire lei parlare delle sue esperienza con i disabili mi ha interessato…» (4B)

È pertanto una concatenazione di fattori che porta a sperimentare e a continuare l’impegno di volontariato, il che evidenzia come nell’approccio di comunicazione rivolta ai giovani sia utile avere a

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monte una chiarezza dei vari livelli di esperienza che concretamente, cioè nei diversi campi di intervento, si rendono possibili e quindi prevedere una molteplicità di canali e di strumenti che valorizzino l’esperienza diretta come strumento di conoscenza.

3. Esperire

Spesso, nel descrivere la propria scelta di impegno ricorre la parola “prova”. Il “provare” rivela la sfumatura emozionale che accompagna la scelta, che alcuni giovani descrivono come una sfida con se stessi, un mettersi per l’appunto alla prova, confrontarsi con il disagio che l’incontro con il diverso provoca, fa sentire. Il caso più emblematico riguarda la scelta di impegnarsi con persone disabili.

La differenza normale/disabile nella rappresentazione è disagevole/disturbante perché asimmetrica, esprime due orizzonti di vita opposti, l’uno contenente tutte le possibilità e l’altro tutti i limiti nell’accesso alle risorse che definiscono la “normalità”, identificata con precisi ambiti esperienziali che hanno valore sociale: essere autonomi, divertirsi, lavorare,

«…tra i progetti che c’erano per i quali fare domanda c’era questo… e cosi ho detto “proviamo”… rappresentava una sfida con me stessa. Per me era una prova… vedere qualche ragazzo disabile per strada mi provocava un certo effetto… disagio… però l’ho superato subito perché ho scoperto i loro pregi… loro sono sorridenti solari, trasmettono cose belle… sono molto attaccati alla vita, anche in quelle condizioni… malattie genetiche purtroppo incurabili… non è una situazione rosea… Sfida per me è quella parte di sé… vedere un giovane che ha determinati problemi… mi creava disagio, era un forte impatto emotivo, facevo fatica a socializzare... ma era solo una sensazione... una persona sulla sedia a rotelle… non ha le possibilità che ho io (sport, ballare, lavorare…)... Mi sentivo in dovere di stare attenta a quello che dicevo... avevo paura di ferire qualcuno parlando di qualche argomento… avevo paura di sbagliare… ma anche curiosità...

per come loro affrontano la vita... che sono solari è stata una bella scoperta, dopo averli conosciuti… non mi aspettavo che fossero cosi legati alla vita». (1B)

La relazione esperita diventa esperienza di sé e per sé oltre che per l’altro; in un certo senso consente di prendere le misure più da adulto di cosa conta e cosa no:

«l’idea è partita con un prete, questo è un progetto solo di ascolto noi andiamo in stazione e stiamo li ad ascoltare nasce da un idea cristiana, ma fino a febbraio non esisteva… Beh io partecipavo alla vita della parrocchia… poi sono stata all’estero… un amico mi ha detto che facevano questa cosa e io mi sono voluta mettere in discussione… la prima volta è stata un po’ traumatica… Quel giorno portavamo dei vestiti, era marzo e faceva abbastanza freddo e si sono cambiati li e c’era una ragazza che aveva appena fatto un incidente, aveva mezza gamba in cancrena… una ferita non curata, mi sono molto preoccupata, l’abbiamo portata in ospedale, aveva la scabbia. e io non so come si trasmetta… un approccio un po’ brutale ma ho continuato a lavorare, è un continuo faccia a faccia molto forte». (1E)

Accettare l’esperienza è mettersi in gioco, sentire quel tanto di sicurezza in sé che ti rende possibile sperimentarti in un campo diverso dalla routine, dal noto; riuscire a convivere con il proprio disagio, con i propri limiti che creano il disagio stesso. Entrare insomma in altri codici, con la difficoltà e le ambivalenze che questo richiede a tutti:

«mi è capitato di avere dei momenti di debolezza di avere dei momenti in cui mi sembrava di non essere capace. La figura del volontario è un po’ un incognita, non sai sempre come comportarti, avevo fatto l’animatrice prima, avevo queste idee sbagliatissime, uno deve provare. Alla fine ce l’ho fatta anche per me stessa». (3E)

«all’inizio li osservavo per capire, anche per come comportarmi…mi sentivo impacciata, in imbarazzo, non riuscivo a essere me stessa… non ero spontanea... ero timorosa. Per me sentirmi cosi a disagio

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era una cosa strana, era un limite… forse è per questo che non mi ricordo proprio bene… il primo periodo era un mix di sensazioni... di emozioni… C’erano emozioni positive, ma anche emozioni negative, forti, perché mi sentivo molto impacciata. Per loro invece era tutto normale... Era una sensazione mia di non essere all’altezza. Ero io che provavo il disagio stando con loro all’inizio. Per loro è diverso. Sono in quella situazione da tempo, sanno come relazionarsi... Sentivo troppo disagio, avevo anche paura di trasmetterlo a loro» (1B)

Il tema della diversità si collega a quello dell’incertezza della propria identità; il passaggio dall’adolescenza, i noti problemi di differenziazione ed individuazione, di malessere legato al passaggio, ai mutamenti di corpo, di nuove o diversamente prorompenti emozioni. Paura del diverso, del sé diverso; la diversità dell’altro fa da specchio alla propria insicurezza, incertezza, conflittualità, ci parla di vergogna, di tabù legati ad una condizione (di disabile). Emozioni e confronto di realtà e di regole che riguardano il sé, con lo specchio che ci è fornito dall’altro.

Sfida, prova, paura, disagio: parole che accompagnano i primi tempi della scelta di fare volontariato e i primi tempi dell’esperienza. Il passaggio all’azione sembra richiedere tuttavia che sia forte, più forte della paura, l’elemento curiosità (nel senso di voglia di provarsi, di sperimentarsi) rispetto ad altre leve emozionali.

Sembrerebbe che questi giovani che scelgono di impegnarsi nel volontariato non lo facciano per rispondere a un modello sostenuto o incoraggiato da adulti, ma perché le tematiche o i territori (simbolici) con cui decidono di confrontarsi hanno un senso nel loro percorso di sperimentazione e nel formarsi della propria identità. Che sia la malattia, o la povertà, o la libertà, ciascuno individua la sua ‘sfida’ per affrontare quella parte di sé che in quel momento ha bisogno di “crescere”, di essere alimentata.

Allora forse non è più sufficiente parlare/centrarsi sull’idea che il motore della motivazione sia un appello “generico” di solidarietà in quanto azione che genera responsabilità in/per un sociale che ti sta attorno ma che viene rappresentato come reificato, oggettivato (creiamo una società migliore... la qualità della nostra vita…). Forse

non si tratta di “assumere” il problema dell’altro, ma di mettersi in gioco partendo dal problema dell’altro che è anche tuo, non tanto o non solo per un dovere di solidarietà/generosità ma anche perché fa parte delle tue paure, esiste nella tua sfera emotiva. Ed è questa correlazione che crea il terreno di scambio, di reciprocità. L’azione produce, si richiede che produca un certo benessere (un miglioramento concreto e tangibile nella situazione di cui ci si occupa), ma esso è il risultato di una forma di aiuto che non è unidirezionale. I destinatari dell’azione si scambiano nella bidirezionalità della relazione: io do un aiuto alle tue fragilità e ricevo, sul piano affettivo e simbolico, aiuto per le mie fragilità.

La negazione di valore a questa reciprocità fa sì che nell’immaginario collettivo la non azione alimenti un senso di colpa (vedi le interviste ai giovani non impegnati) che, oltre a distorcere il significato dell’azione, alimenta un meccanismo di blocco nel considerarsi in grado di farlo.

Il problema forse non è re-agire a queste osservazioni ponendosi sul piano della “autenticità” dei comportamenti, bensì quello di capire quali rappresentazioni e dimensioni dell’azione solidale arrivano, attraverso i messaggi diffusi, a giovani diversi che vivono situazioni diverse. Affinché le emozioni in gioco prendano un posto esplicito nel percorso personale di crescita e ricerca andrebbe valorizzato (perché riconosciuto e quindi legittimato) il fatto che non è un male sentirsi gratificati da quanto si fa, e che vi è un qualcosa che “si prende” anche per sé.

«È gratificante sentire un genitore che si complimenta con te perché il figlio è tornato a casa contento, perché sei simpatica... non ho bisogno di gratificazioni... anche se sicuramente ho un ritorno a livello di sensazioni e di emozioni è una cosa bellissima». (2B)

La significatività dell’esperienza invade il mondo di vita del giovane, tutto lo riguarda ed è collegabile, è parte della sua ricerca e riflessività quotidiana dove il sé si misura e costruisce nella relazione con alter. La centralità delle relazioni si conferma come il collante fondamentale, e non solo la relazione con l’utente ma anche quella tra volontari:

«(mi piace) il rapporto con i ragazzi, sono persone che riescono a

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dare così tanto, al di là delle prime volte io ho imparato a volere bene a loro; mi piace il fatto che il gruppo con cui lavoro è un bel gruppo, nessuno mi ha mai accusato di aver sbagliato, o “io te l’avevo detto”, cerchiamo di avere una coesione interna, prima di fare una cosa, la dobbiamo verificare tra di noi... poi in questo tipo di gruppo hai un rapporto di amicizia e ci vediamo anche al di fuori dell’associazione… mi serve molto l’attività di volontariato per ridimensionarmi, soprattutto quando studio molto e sono stufa,... guardando i bambini, penso a quanto sono fortunata e allora mi ridimensiono, a volte mi impunto su cose molto stupide e quindi ho bisogno di ridimensionarmi molto, ci sono cose molto più importanti delle lite con la compagnia di appartamento». (2B)

4. Condividere

Dal racconto di esperienze in associazioni nate da gruppi di amici giovani emerge un aspetto significativo; di queste viene infatti sottolineato l’aspetto della condivisione, la quale risulta nell’associazione formata da una maggioranza di adulti talvolta assente o trasformata in uno scambio di tipo tecnicistico (l’adulto ‘esperto’ insegna al giovane “come si fa per non fare danni”), con conseguenze sulla motivazione a continuare o meno l’impegno nell’associazione stessa.

Se, come abbiamo visto, le prime volte che il giovane si trova sul campo sono vivacemente in gioco emozioni contrastanti, l’assenza di scambio e di sostegno affettivo, simmetrico rispetto alla comunanza che offre l’esperienza, fa sì che il giovane si ritrovi da solo. Come se nell’accoglierlo e nell’inserirlo nel fare non si sia messo in conto l’aspetto emozionale. Che si ignori che vi sia questa difficoltà iniziale o che ciò sia frutto di una scelta di messa alla prova, viene in tutti i casi negata nella relazione la molteplicità di significati attivati dall’esperienza e dall’azione. L’aspetto di razionalità tecnico-strumentale sembra essere il solo previsto, pianificato; mentre la dimensione emotiva non riguarda esplicitamente l’esperienza collettiva

«è la prima volta che ne parlo con qualcuno». (1B)

Cosa chiedono con questo atteggiamento i volontari o i responsabili adulti delle associazioni ai giovani? Vengono in mente luoghi comuni, per esempio “è una palestra di vita”, ma a quale vita si vuole addestrare? Una sorta di selezione (chi ce la fa e chi no) lasciata a se stessa, in un silenzio che non rappresenta di certo modelli solidali di relazione e di interazione.

I giovani distinguono chiaramente nel raccontare le loro esperienze tra livelli diversi di relazioni: c’è lo scambio asimmetrico tra chi (l’adulto) è già esperto ed ha la funzione di trasmettere i confini di legittimità dei comportamenti (dà “la dritta”), c’è lo scambio di reciprocità nella relazione con gli utenti, e lo scambio di sostegno e rassicurazione o di condivisione con altri giovani volontari:

«La psicologa (responsabile dell’associazione) mi ha fatto vedere l’associazione, mi ha affidata ad un obiettore che mi ha spiegato come fare certe cose... per esempio pulitura della sede... segreteria... telefono… posta... . E ho conosciuto alcuni utenti... la dottoressa mi ha aiutato a mettermi in contatto con loro, a fargli compagnia mentre aspettavano di fare fisioterapia. Il primo giorno è stato bello, positivo, non vedevo l’ora di entrare di più nell’associazione... mi piaceva stare in compagnia con loro... Il primo periodo è stato duro però, dovevo fare la tesi, ero sotto stress... non era facile conciliare le due cose e prendere il ritmo... comunque meglio la compagnia, il contatto con loro che il lavoro di segreteria, anche perché il computer non lo so usare bene». (1B)

«Qualche episodio misto di disagi... imbarazzo l’ho avuto ultimamente con un ragazzo che stava male, uno che di solito sta per i cavoli suoi... Faceva fatica a parlare ed era difficile capire quando parlava…mi sentivo in imbarazzo perché non riuscivo a capire bene quello che diceva... era un limite per me non riuscire a essere di aiuto... Raccontavo alle mie colleghe i miei disagi (due tirocinanti)… con le colleghe condivi, sei più sullo stesso piano… davano consigli pratici... rassicuravano anche perché conoscevano la situazione, io

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ero una novizia… dopo mi sentivo meglio... parlare fa sempre bene, sentirsi compresi, anche nelle emozioni». (1B)

L’intervistata sottolinea l’importanza che la stessa condivisione che è possibile tra pari avvenga anche con l’adulto, perché nelle relazioni inter-generazionali essa assume altri significati e conferma altri aspetti di sé:

«Faceva più effetto parlarne con lei (la responsabile dell’associazione), sentirsi capiti da lei, che ha più esperienza... era un punto di riferimento,... Dava un certo tipo di consigli, del tipo non dire qualcosa di un certo tipo ai ragazzi… sennò gli metti delle preoccupazioni non necessarie... poi dà delle dritte, forse perché ha visto che io con loro mi trovavo bene… mi dava indicazioni». (1B)

L’importanza che assume il saper fare sembra sottolineata dal ricorrere della parola “tipo”, che risuona come una razionalizzazione di situazioni problematiche che si risolvono con “quel” comportamento adatto per l’utente. L’effetto è rassicurante (se l’esperto dice che è così sarà così, non sto sbagliando) ma si perde forse l’occasione di esplorare altri significati messi in gioco dal problema incontrato; si corre il pericolo di trascurare i sentimenti e le ambivalenze, si trascura l’elaborazione della competenza emotiva ingabbiandola nelle risposte di tipo razionale.

Una questione tanto più importante se consideriamo che spesso i giovani che scelgono il volontariato lo fanno come scelta individuale e quindi non necessariamente con il sostegno del gruppo amicale; il che comporta che se l’esperienza non è condivisibile con il gruppo (perché non comune) e se nell’associazione non si è previsto questo specifico spazio, i momenti di difficoltà vengono rielaborati e affrontati in solitudine. È difficile che sia il giovane a prendersi o richiedere esplicitamente questo spazio di condivisione, perché esprimere la difficoltà o il disagio (che spesso deriva o investe persone o modalità dell’associazione) richiede molta forza, presuppone una personalità in grado di affrontare e gestire il conflitto, quindi una personalità già matura e con una certa esperienza di gestione di relazioni, il che può non

essere il caso del giovane. Le difficoltà sembrano segnare soprattutto l’inizio dell’attività; anche se i motivi possono essere diversi a seconda del tipo di associazione con cui si comincia a operare, i primi tempi sembrano importanti nell’accompagnare, sostenere il giovane:

«Faccio un percorso che mi porta a prendere una decisione e ad andare avanti da sola… Anche perché a livello di volontariato sono sempre stata sola… Non avevo un’amica che faceva già volontariato. È una cosa che è nata da me, spontaneamente, che ho fatto da sola». (2B)

«(è stato faticoso) ad inserirsi: si trattava di lavorare in altra lingua in un ambito di lavoro nuovo,... vivevo e lavoravo con altre 12 persone una dimensione di vita in a cui non è facile adattarsi vivere e lavorare 24 ore con le stesse persone, in situazioni in cui non hai spazi di privacy, devi condividere molte cose. L’impatto è stato forte fino a che non riesci ad immergerti nel lavoro e a credere nel lavoro, poi è un entusiasmo crescente. All’inizio ricevi solo la cosa negativa». (3B)

Nello spazio sociale codificato del “fare” volontariato, cioè nella definizione di ciò che è rappresentabile e dicibile pubblicamente dell’esperienza, si delinea uno scenario di conferma di valori, di stili, di modi di essere nella loro rappresentazione formale, perché pubblico. Sentimenti e affetti non riguardano la relazione di “dono pubblico” nel suo mostrarsi ma riguardano, per dirla con Goffman, un retroscena che può esistere solo nelle relazioni private. Non riguarda la definizione della scena, per l’appunto:

«il fatto di avere questi pensieri era una cosa personale, e che non si poteva discutere tra gli amici, salvo con l’amica che stava facendo volontariato con te, quando vai fuori parli di altre cose,... era un po’ imbarazzante... non ho mai sentito la necessità di esternarla, un po’ con i ragazzi che facevano volontariato, ma anche con loro non ho tirato fuori tutto... è qualcosa che nasce dentro e si sviluppa dentro, io sono così di carattere, non andrei a raccontare le mie preoccupazioni ad altri». (4B)

Importante per non mollare è anche il sentire che impari delle cose,

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che sviluppi delle competenze; il sentirsi bene nell’ambiente che si è scelto, nelle relazioni,

«mi è piaciuta perché culturalmente è stata una bellissima formazione dopo 3 anni di esperienze post universitarie, master; mi ha dato molto anche come conoscenza geopolitica». (3B)

«adesso lo faccio anche se qualcuno può dirmi che lo sto facendo male, ma io lo continuo a fare. se nella parrocchia qualcuno mi diceva che lo facevo male ci rimanevo male». (2B)

Per essere motivati a continuare l’esperienza, e affrontarne i costi personali (tempo... periodi di sovraccarico di impegni) è necessario incontrare situazioni non ripetitive, il che fa pensare che nell’esperienza debba essere viva la percezione che accada qualcosa anche per sé,

«sono andato avanti per 6 anni... poi ho visto il rischio della routine e un paio d’anni fa ho iniziato a frequentare i comboniani e ad un incontro ho conosciuto l’associazione». (6E)

«quando ho visto che le cose si erano fermate non imparavo più nulla gli ho detto che non avevo più nulla da fare». (4B)

Le esigenze di una razionalità gestionale dovrebbero armonizzarsi con la motivazione del giovane a proseguire quell’esperienza, la sua ricerca personale di sviluppo di abilità; e l’associazione potrebbe arricchire l’esperienza complessiva aprendosi anche alla sperimentazione di attività e di modalità organizzative messe a punto dai giovani:

«tra colleghe cercavamo di venirci incontro per esempio in qualche manifestazione (Telethon, farfalline,…) su orari, es. per il sabato e la domenica ci accordavamo per qualche sostituzione... Se qualcosa non andava per lo più era la questione amministrativa;... resistevamo a scambiarci i lavori come ci chiedevano, tendevamo a fare quello che ciascuna sapeva... ma ci riprendevano». (1B)

«Mi piace stare insieme agli utenti, quando si organizzano gite, cene, si sta tutti insieme in relax. Non mi piace quando ci sono pochi volontari e non si riescono ad organizzare le attività ricreative... l’associazione più che altro fa servizio di […] e poche altre attività per gli utenti... mentre si potrebbe fare laboratorio, lavoretti di arte, teatro... Non sono mai riuscita a parlarne dal mio punto di vista; sono diverse le cose da fare in associazione ma non ho mai espresso le mie idee... sono arrivata lì con l’idea di fare qualcosa io... ho sentito il limite di non poter realizzare questi ‘pensieri’... c’è un progetto da seguire, ci sono lavori da fare tutti i giorni... il progetto è fatto dal responsabile». (1B)

Ad esempio, la condivisione del progetto di impegno del giovane, la co-definizione del quadro e dei vincoli, potrebbe diventare un vero e proprio patto di collaborazione e non fermarsi a un mero atto burocratico.

Il “problema organizzazione” si accentua nelle associazioni più grandi, che hanno al loro interno anche dipendenti; si crea in questi casi una gerarchia decisionale e il volontario, soprattutto se giovane, è come se appartenesse un po’ meno o in maniera differente all’organizzazione stessa:

«C’e una situazione un po’ particolare che è la divisione in due gruppi… Ovviamente una divisione implicita, non ufficiale ma che si sente… Le persone che stanno ai piani alti e le persone che stanno ai piani bassi… Siamo una cooperativa quindi lo spirito dovrebbe essere di condivisione… Io l’ho vissuta dal punto di vista di chi stava ai piani bassi…sono entrata come volontaria e c’erano quelle che lavoravano in Tortuga che vedevano quelli che erano “dirigenti” come responsabili che ti impongono cose senza spiegartele, cose per cui loro non erano d’accordo… fondamentalmente c’era pochissimo dialogo…» (4B)

La via percorribile è quella che porta a ripensare l’organizzazione aprendo a spazi di ascolto e di imprenditività, alla disponibilità a nuove proposte, a nuove visioni che i giovani possono portare. Mettersi in gioco è la sola possibilità di fare spazio al nuovo:

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«Secondo me nella (associazione) hanno molte potenzialità che non sfruttano». (4B)

«Io ho visto che i volontari più anziani si sentono questo ruolo di persone che ormai le cose le sanno e tu che arrivi per ultima devi stare zitta e farti la tua gavetta che poi ne riparliamo…Non si fa così…Se io arrivo per ultima tu anzi, visto che sai mi devi insegnare… E rendermi partecipe anche con altri ruoli, io facevo la commessa, ed è uno spreco, non tanto per me ma in generale, perché non fai la commessa in un negozio normale ma in un negozio commercio equo e solidale e allora fai degli incontri con persone che fanno approfondire certi temi, oppure… organizziamo un gruppo che riordina i libri e s’interessa a quella parte lì, quindi vediamo come possiamo ampliare i libri, cosa approfondire di più… Magari anche una persona che anche quando c’è gente che viene a chiedere dei libri la informa, una persona che sta dietro alle bomboniere, una persona che sta dietro la ceramica… Coinvolgere di più su queste tematiche e un lavoro maggiore a livello di gruppo. Ad esempio io non conoscevo gli altri volontari al di fuori del mio turno, cosa assurda perché i volontari sono una risorsa e si devono conoscere tra loro». (4B)

Aprirsi a questa nuova modalità di essere dell’organizzazione richiede necessariamente un lavoro continuo su sé stessa, sta a dire un investimento di energie e di risorse dedicate alla riflessività interna che solo apparentemente è “altro” rispetto allo scopo di azione dell’associazione. Ma cosa significa la parola associazione? E quale la relazione vi è tra scopo e condizioni della sua azione? Ritorna più volte la dimensione dell’ascolto, del riconoscimento dell’importanza della persona con le sue caratteristiche, abilità, limiti:

«Secondo me il problema non sono i volontari ma nell’incapacità dei responsabili del volontariato di saperli organizzare. Alla fine hai a che fare con persone che hanno idee diverse e diversa provenienza e la capacità sta nel saperle organizzare perché non tutte le persone sanno stare insieme agli altri… se hai un gruppo di persone numeroso… Io ad esempio mi trovo bene a lavorare in piccoli gruppi… se fossi a

capo di un gruppo di volontari sicuramente non li farei lavorare tutti insieme alla stessa cosa ma cercherei di capire dove ogni singola persona può essermi utile… Ad esempio se una persona non si trova bene in mezzo alla gente, non la metto a fare la cassiera… Dando comunque la possibilità di scelta…». (4B)

5. L’esperienza con l’organizzazione

Innanzitutto ricordiamo un aspetto già evidenziato nel paragrafo che precede e che ritroviamo anche nelle rappresentazioni dei giovani che non sono impegnati in modo continuativo: è la presenza di un’esperienza di vissuto associativo che evoca un sentimento o disagio o di opportunità ma che, in entrambi i casi, può influenzare la motivazione del giovane nel continuare il proprio impegno.

Il problema, ribadiamo ancora una volta, non è riconducibile o risolvibile con la lettura che circola nel senso comune dei volontari sulla instabilità autoreferenziale dei giovani che li rende incapaci di garantire una certa stabilità e continuità di presenza, anche se questo come abbiamo visto è uno degli elementi critici nel disegno personale del proprio modo di impegnarsi.

Il fatto è che se viene assunta questa lettura del problema come predominante si elude l’esplorazione di altre, eventuali, dinamiche influenti che possono aiutare a riconoscere altre dimensioni in gioco (abbiamo più volte incontrato quella della qualità e della tipologia di relazioni) e che si traducono nel sentire l’appartenenza come vincolo e rigidità, e come impedimento all’espressione di sé. Se si può, si sceglie la relazione personalizzata che poi è, come abbiamo avuto modo di vedere precedentemente, l’aspetto che più interessa e motiva una parte dei giovani volontari all’impegno solidale; oppure si creano o cercano altri tipi di associazioni più garanti sotto questi aspetti.

La questione è ancora una volta l’orizzonte di senso nel quale si colloca l’esperienza che si sceglie di vivere, e che non ha a che fare solo con una dimensione valoriale ma anche con la compatibilità di tale dimensione con altri bisogni del soggetto.

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A tal proposito Ambrosini (2004) sottolinea come sia difficile oggi, per tutte le considerazioni sui giovani nella società attuale che già sono state ricordate in diverse parti di questo rapporto, che per un giovane la partecipazione ad associazioni di volontariato sia prescindibile dal filtro della soggettività: non appare sufficiente “la causa” e il suo valore intrinseco e non può prescindere da un ambiente in cui sperimentare accoglienza, attenzione alle loro esigenze, relazioni positive con altre persone. Il giovane ricerca, nel suo processo di definizione dell’identità, ambiti di socializzazione che offrano un contesto affettivamente carico, con relazioni interpersonali dense e gratificanti, e che allo stesso tempo consentano esperienze di differenziazione che lascino spazio alla propria imprenditività al proprio bisogno di sperimentare e sperimentarsi (Ambrosini 2004, 24). La partecipazione non può assumere i caratteri dell’omologazione, e neanche diventare legame troppo vincolante o esclusivo.

Si ricerca un impegno che preveda flessibilità, possibilità di conciliare altri impegni della vita,

«… non è vincolante, se ho un esame posso stare a casa, ci gestiamo bene e riesco ad andarci, a volte sono rimasta 15 gg. a casa... quindi riesco a starci dentro… è un’associazione di tipo laico, riesco ad incastrarlo con i miei impegni e poi mi piace. Aspetti negativi non ne vedo altrimenti avrei cambiato l’attività, a volte quando mi trovo piena di impegni ecco non riesco a gestire le relazioni con gli altri amici o con i genitori, comunque il gruppo con cui opero è molto disponibile e ci mettiamo d’accordo. Questo per esempio non avveniva quando operavo nella parrocchia in cui c’era un lavoro immane, c’erano dei vertici e dei funzionari, i vertici decidevano e i funzionari che operavano, poi chi prendeva i meriti erano solo i vertici, si mangiava poco durante i campi, c’erano anche dei minorenni, non era molto “legale” questa cosa. c’erano degli aspetti molto pesanti, tutta una serie di valutazioni, per cui il tuo lavoro veniva analizzato nei minimi particolari, era pesante, non perché a me non piacciono le critiche, ma le critiche devono essere moderate soprattutto per le persone che come me erano giovani e inesperte». (2B)

L’organizzazione ben strutturata ma rispettosa e partecipata si rivela utile affinché l’esperienza di volontariato consenta di mettersi in gioco a diversi livelli di apprendimento. La ‘partecipazione’ riguarda per lo più le modalità utilizzate per la presa di decisioni, che se prevista di tipo partecipativo risulta faticosa anche per il giovane che si trova a fare i conti con la mediazione tra modi di pensare ma che poi si rivela, in un tempo successivo, diventare un modo di essere, di costruire condivisione e cooperazione con gli altri, come nell’esperienza che riportiamo di seguito:

«La sento come un’associazione di cui faccio parte. Trovo che sia molto ben organizzata, con obiettivi precisi definiti, magari limitati ma raggiungibili in modo efficace; gestisce bene i fondi e con un buon funzionamento decisionale. Si auto-governa in modo democratico. Credo sia un progetto molto bello, lucido, efficace. Quando sei nel terreno lo si può percepire come limitante perché vorresti lavorare a più livelli invece l’associazione si occupa solo di... è un po’ frustrante perché vorresti fare di più, ma... Nel complesso il giudizio è positivo.

Una cosa pesante è prendere qualsiasi decisioni per consenso, è faticoso.

In Colombia spesso lavoravamo in quattro gruppi discutendo ogni settimana di un tema, le decisioni vengono prese per consenso in ogni gruppo e poi i quattro gruppi si riuniscono e prendono la decisione per consenso e questo ti prende il fine settimana , i giorni liberi. È una situazione che innervosisce, soprattutto se non sei abituato a lavorare per consenso, è pesante. Pensi che ci sia il coordinatore che decide per te e invece sei chiamato a decidere su tutto, leggere documenti, riflettere, poi il consenso per chi lo ha provato è qualcosa che richiede un grande lavoro sulle proprie ragioni su sé stessi, devi passare ore e ore a prendere decisioni con persone, ragioni che corrispondono al desiderio di affermare il proprio punto di vista, invece devi imparare a discriminare le ragioni buone da quello meno buone altrimenti fai fatica a raggiungere degli accordi, devi imparare a capire se quello che si diceva aveva un senso, se faceva parte dello scopo del lavoro,... Come? ci si arrabbia prima, ci si perde la pazienza poi, si cerca di capire se ciò che si sosteneva aveva un senso, che cosa corrispondeva, ma

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alla fine si finisce per imparare a chiudere il cerchio... Ho provato poi in ufficio (si riferisce alla sua attuale attività lavorativa), il metodo del consenso non funziona sempre, ci vorrebbe un’orizzontalità perfetta, alla fine decide un capo, però ci ho provato mi piace fare il facilitatore, facilitare le discussioni…

E funziona? A volte si…e deriva dall’esperienza? si, prima era qualcosa che avrei detestato». (3B)

Quello che è emblematico e che ci riporta alla questione di come sono rappresentate le associazioni dal punto di vista organizzativo, è che queste competenze di governance non sembrano collegate all’obiettivo associativo, come se l’azione e il processo di decisione fossero dimensioni separabili nell’operatività:

«… non faceva parte direttamente del lavoro, ma è qualcosa da vivere in gruppo». (3B)

6. La gestione dei conflitti

Nell’affrontare il tema delle dimensioni in gioco nel fare volontariato in un’organizzazione abbiamo riscontrato la difficoltà ad instaurare delle relazioni tra adulti e giovani che aprano alla condivisione delle emozioni che fanno parte dell’esperienza dell’incontro tra sé e l’altro. La disponibilità all’ascolto sembra essere dedicata ad affrontare problemi e difficoltà riconducibili ad aspetti di saper fare (come parlare con l’utente, di quali problemi parlare, come affrontare con competenza situazioni pratiche, ecc.),

«Un’esperienza completa in tutti gli ambiti, è un continuo domandarsi sto facendo bene? Anche se ci sono sempre degli incontri di verifica in cui esporre i problemi, con questi incontri si capisce come comportarsi». (4E)

Questo scambio non sembra comprendere aspetti di gestione delle relazioni tra gli associati. Manca questa concezione della formazione quale occasione per rielaborare le esperienze comuni.

Nel fare parte di un’attività organizzata il giovane (ma anche l’adulto) sperimenta sé a tutto campo, e in questo contesto sono in gioco tutte le relazioni e non solo quella con l’altro identificato come il portatore di problema (colui che si aiuta). Il rapporto tra volontari e le modalità riflessive attivate rispetto al proprio modo di essere nell’associazione sembrano essere un terreno di cui non è contemplata l’esplorazione. La suddivisione dei compiti sembra essere una prerogativa dei responsabili delle associazioni che talvolta li diversificano tra quelli adatti ai giovani e quelli riservati agli adulti, ma senza una discussione sulle motivazioni delle decisioni:

«Una cosa che mi piace è quando portare avanti la mia attività di volontariato mi fa scoprire doti che non credevo di avere, una cosa che non mi piace è non riuscire a tenere i giusti rapporti con gli altri che collaborano con me… se siamo in gruppo 2/3 animatori, la cosa migliore è che tutti portino avanti le stesse cose, invece spesso è solo uno che porta avanti le cose sia perché gli altri non danno spazio che perché uno non ha voglia di impegnarsi... Ci sono due macro aree (nell’associazione), il doposcuola per minori... e l’ufficio di ascolto ed accoglienza tenuto da persone anziane in pensione e questo non mi piace». (6E)

L’assenza di una modalità partecipativa nel processo decisionale organizzativo, e quindi nella assegnazione dei compiti, fa sì che la realizzazione di attività, se non discussa e partecipata/condivisa nella sua progettazione, alla fin fine ripone sulla maggiore o minore disponibilità dei singoli. Il che porta ciascuno a fare i conti con il proprio dover essere e la maggiore o minore capacità a porre confini tra sé e l’altro (sapere o meno dire di no); il dare per scontato l’impegno può alla lunga diventare problema non esplicitato:

«Ci sono state situazioni con altri volontari… organizzi attività e poi non si vedono volontari, abbiamo organizzato degli incontri a

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Maggio, alle assemblee su quaranta ci troviamo sempre gli stessi sette o otto… del tempo ce lo impiego ed è un dispiacere vedere che non è condiviso, fare le cose sempre per gli stessi si perde un po’ il senso di quello che si fa. È una delusione mia». (2E)

«A me piace che mi far star bene… quando entro in cooperativa mi sento a casa è un rifugio… ma una cosa che non mi piace è che alcune volte mi faccio prendere troppo, se mi si chiede qualcosa dico sempre si, è una cosa brutta per me». (2E)

«C’è sempre tempo per tutti ma non c’è ne mai per sé». (4E)

Anche le dissimmetrie e le differenze che si creano nel concreto dell’attività, se non riconosciute e rielaborate, lasciano un segno perché rimangono come delusioni personali. E, talvolta, il non condividere nella pratica associativa questi aspetti non consente di crescere rispetto alla difficoltà del sé nella relazione e nella definizione di confini, anzi può portare il singolo a sentire l’associazione come fagocitante o pervasiva.

Se si ritiene che queste (proprie) emozioni non riguardino la dimensione collettiva dell’esperienza come componente integrante dell’esperienza stessa, ci si chiede allora cosa accada della dimensione associativa. Non bisogna dimenticare infatti (si veda la letteratura sul capitale sociale) che l’intensità dei legami e delle relazioni generano fiducia e disponibilità a cooperare.

La riflessione che proponiamo è se sia possibile voler rappresentare (nei messaggi diffusi attraverso differenti canali) l’esperienza nel volontariato come (anche) occasione di apprendere un saper essere nella gestione delle relazioni e della complessità (come appare dagli obiettivi di comunicazione destinati a motivare i giovani all’adesione a queste pratiche) se nel rapporto tra membri associati, nella quotidianità della vita associativa, questa “competenza” non è messa in campo.

Oltre agli aspetti di etica relazionale che qui non costituiscono oggetto della nostra riflessione, ci si dovrebbe soffermare sulla seguente considerazione: se, come sembra confermato da più voci e ricerche, la modalità di trasmissione e di motivazione all’impegno nel

volontariato trova nel passaparola il suo canale di maggiore diffusione, questa ‘qualità’ delle relazioni può significativamente influenzare o meno l’immagine percepita delle stesse ed influire sulle motivazioni all’azione.

7. Rappresentazioni dell’essere volontario e del contesto dell’azione

La difficoltà ad accogliere la molteplicità di significati che l’esperienza del volontariato assume per i giovani disegna una situazione confusa che possiamo cogliere nella difficoltà a comprendere e spiegare le caratteristiche valoriali dell’esperienza stessa.

Per esempio, come già riscontrato nelle interviste ai giovani “non impegnati”, c’è una difficoltà a definire il significato di gratuità, che appare con una certa ambivalenza come se da un lato fosse un punto fermo da non mettere in discussione perché ‘fondativo’ ma allo stesso tempo sia vissuto come poco traducibile, nella sua ‘purezza’, nella realtà concreta dei bisogni dei giovani.

Se scendiamo per l’appunto dai discorsi alla pratica si supera l’idealismo “buonista” che fonda un senso comune nel raccontare e raccontarsi la gratuità del volontariato e si apre al tema della necessità dello “scambio” che, nella relazione, diventa una specie di altra faccia della gratuità se ad essa non assegniamo un valore solo monetario:

«è la soddisfazione di essere utile, fare qualcosa di buono per gli altri, senza guardare il ricambio materiale... il servizio civile è pagato... non puoi dedicare 5 ore al giorno altrimenti... ma non l’ho mai visto legato ai soldi... Non remunerazione materiale, economica... è sbagliatissimo dare qualcosa, perché il volontariato è un’azione spontanea, senza nessun obbligo senza nessun sforzo solo per la soddisfazione che ne ricavi... In che senso obbligo?... la remunerazione creerebbe un obbligo cioè uno sforzo per farlo, non sarebbe più naturale... la soddisfazione è per l’azione che faccio e sentire che è apprezzata». (1B)

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Distinguere il problema della remunerazione materiale da quella simbolica potrebbe aiutare a fare un po’ di chiarezza ed aprire al riconoscimento degli interessi soggettivi in campo.

Nell’intervista che riportiamo di seguito questo aspetto viene rielaborato come presa di distanza dal volontariato considerato di tipo paternalistico, gerarchia tra chi dà perché ha e chi riceve perché non ha. I giovani sembrano avere preferenza per un volontariato che riconosce essere scambio, quindi reciprocità ma anche opportunità per sé (sia per la definizione della propria identità che per l’acquisizione di conoscenze e competenze); la possibilità di mettere insieme diversi ambiti di interesse:

«Perché fondamentalmente l‘ambiente da cui proviene la mia famiglia vede il campo del volontariato come qualcosa in cui non c’è lavoro non c’è studio, ma lo vedono da un punto di vista paternalistico, fare del bene a chi ha meno di loro che non è ciò che intendo io perché io... Faccio fatica a parlare di queste cose perché questo atteggiamento non mi piace, sono la pecora nera della famiglia,e cozza con i miei genitori, credo che il modo in cui loro vedono il volontariato, loro che possono in alto e sotto chi non può e aspetta loro, per me non è così, è il campo in cui io sono attiva è il campo di cui mi interesso, ci sono mille implicazioni, non ho denaro da dare non posso dire sono sopra di te, lo vedo più come uno scambio... il volontariato non è solo persone di buon cuore... non strettamente il volontariato ma l’associazionismo, il terzo settore, la cooperazione… Per ora sto cercando di fare delle esperienze a 360 gradi, non sapendo bene cosa fare e dove dirigermi… Come lavoro a me piacerebbe unire il campo della comunicazione e del sociale». (4B)

Superare la retorica della gratuità e articolarne i significati soggettivi nell’esperienza potrebbe aiutare a evitare interpretazioni “ingenue e semplicistiche” del volontariato e renderlo allo stesso tempo una attività integrabile con altre esigenze riconoscendo, come sottolinea anche Ambrosini, che ogni azione altruistica contiene elementi che si collocano sia sul versante della solidarietà sociale sia su quello della realizzazione personale (Ambrosini, 2004, 52).

La necessità di trovare nell’esperienza la risposta a molteplici interessi può rendere i giovani esigenti in modo diverso nei confronti dell’organizzazione; ci si aspetta o si tende a pensarla come efficace, in grado di gestire le risorse a disposizione con competenza. Collegando questa visione con la sensazione che alcuni giovani hanno di essere talvolta sotto-utilizzati rispetto alle proprie capacità o ai progetti possibili di sperimentazione di nuove modalità od attività, la sensazione è che il bisogno di competenze gestionali siano la speranza che si possa organizzare l’attività tenendo conto e valorizzando le tante diversità e rispettando le diverse esigenze di cui le persone sono portatrici:

«mentre l’organizzazione e la gestione del volontariato secondo me dovrebbe essere lasciata in mano a persone più competenti, persone che fanno solo quello nella vita». (4B)

Il volontariato viene rappresentato nel discorso comune come un universo di valori e una scelta di campo, ma questa rappresentazione rischia di renderlo un “oggetto” troppo lontano dalle incertezze e dalle ansie per il proprio futuro dei giovani. Nelle testimonianze raccolte in questa indagine la possibilità di avvicinare i giovani al volontariato sembra passare, tra l’altro, attraverso la capacità di renderlo facilmente esperibile anche per coloro la cui motivazione fosse debole o temporanea, oppure il tempo a loro disposizione fosse limitato:

«sì, tutti possono diventare volontari, anzi ad alcune persone farebbe bene perché farebbe vedere loro tante realtà diverse dalla loro. È questione di valori e di scelte perché, se di tuo non ti interessa quel campo, è inutile che ti parli di realtà diverse perché parti già prevenuto. Se si avvicinano a questo campo da sole, hai la possibilità di far capire loro alcune cose. Se si avvicinano in un modo… volendo solo sfiorare il campo, cerchi di limitare il danno. Dovrebbero esser date possibilità più agevolate di entrare in questo campo anche per i giovani. Secondo me si inizia o perché hai amici che lo fanno, o attraverso associazioni, o attraverso la parrocchia». (3E)

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«tutti possono fare volontariato? Sarebbe bello se tutti potessero provare, mi piacerebbe dire tutti possono farlo, ma non penso, dipende dalla sensibilità o da alcune doti personali, ma sarebbe bello poter provare». (4E)

«ci sono vari livelli di fare volontariato, di coinvolgimento personale, di sacrificio». (2B)

«è un’esperienza che ti aiuta a capire che c’è tutta una società che ha bisogno di te... è un’esperienza che ti cambia perché ti fa crescere e poi ti fa ragionare e ti fa capire che ci sono tante realtà che non conosci, e avere la possibilità di aiutare con ciò che puoi fare». (5E)

Appare innoltre la necessità di distinguere tra la finalità dell’azione e l’identificazione con la struttura dedicata all’azione: quello che crea legame è “lo spirito di fondo”,

«No, non mi identifico nell’associazione, magari ci sono associazioni che hanno maniere di portare avanti delle idee più funzionali di altre, aderisci alle associazioni che perseguono obiettivi che in un dato momento ti sembrano più urgenti più importanti, e richiamano la tua attenzione,... lo statuto, gli obiettivi, tutte le associazioni hanno i loro difetti, alcune che funzionano meglio di altre, ma non mi sono mai identificato più in una che in un’altra, mi piace pensare che ci sia uno spirito di fondo in tutte quante… è giusto che ogni associazione segua ambiti specifici… uno spirito di fondo che raccoglie le esigenze delle persone che vogliono cambiare le cose ma prima di tutto per loro stessi, per l’ambiente in cui vivono, non perché pensano che gli altri hanno bisogno di loro». (3B)

Ritroviamo la provocazione di Volterrani che ribalta la lettura del rapporto tra inclusione ed esclusione; il desiderio dei giovani sembra essere di sentirsi essi stessi inclusi e di agire allo stesso tempo per l’inclusione (di altri). È in questi termini che si delinea l’azione solidale, ed essa non è vissuta come vincolata alle appartenenze:

«Siamo un gruppo nato dal niente che opera nel comune… una quindicina di persone e abbiamo circa trenta, trentacinque ragazzi… Il presidente che fa il rappresentante si occupa anche di raccogliere i fondi, per fare le nostre attività; alcuni finanziamenti vengono da le altre associazioni legate alla Chiesa e spesso molti locali vengono messi a disposizione della parrocchia, però è un tipo di legame astratto». (2B)

Un altro aspetto della questione riguarda la definizione dei problemi. La forza con cui viene vissuta l’emozione legata al “problema”, per esempio nel caso disabilità/malattia, tocca la corda delle sensibilità. Appare il bisogno di superare un’idea di normalità definita da una serie di anormalità per collocarsi, tutti, sul piano delle diversità. Da tempo questo concetto è stato assunto nel linguaggio del volontariato che tende a sostituire il termine disabile con quello di “diversamente abile”; ma non è facile incidere a livello di rappresentazioni collettive e il linguaggio dominante esprime il codice socialmente condiviso e radicato nel senso comune. La questione diventa allora come condividere delle pratiche che producano i nuovi significati (e quindi nuovi linguaggi) a partire dalle esperienze delle persone, affinché siano integrati nel codice simbolico con la produzione di un nuovo senso comune.

La riflessività sui diversi significati dell’azione volontaria potrebbe portare a riconoscere gli stereotipi che fanno del volontariato qualcosa di distante perché eroico, ed anche a ripensare il modo in cui viene rappresentata la relazione volontario/destinatario:

«allora ci si formava sul campo, all’inizio non capivo come comportarmi, poi ti accorgi che sono loro a studiarti e se vogliono ti girano come un calzino, sono stati loro ad insegnarmi a giocare a briscola». (5E)

«un mio amico, il tontarello del paese, noi lo accompagnavamo fuori convinti di fare del bene, gli abbiamo fatto conoscere un non vedente, e adesso è lui che lo porta a spasso, gli telefona, se ne prende cura… siamo rimasti colpiti della capacità di prendersi cura di un altro…» (6E)

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«non si aiutano gli altri solo con il volontariato si aiutano tutti, tutti i giorni, non bisogna trovare scuse... mi capita tutti i giorni... il volontariato non è solo con chi sta morendo di fame, è una filosofia di vita... Volontariato è chi vede la vita e il suo relazionarsi in un certo modo». (3E)

Ciò che può essere utile qui è evidenziare la diffusività di una visione di senso comune che può essere elemento attrattivo o repulsivo, a seconda della grande varietà di individui e quindi di forme di sensibilità e di consapevolezze, di visioni del mondo e della vita. Una comunicazione tacita, che passa attraverso la pelle, quello che percepiamo nel non verbale dei volontari, o nelle discussioni sulle differenze di prospettive e di pensiero su di sé. Al di là degli argomenti razionali forse è in parte questa comunicazione quella che avvicina o distanzia, perché è al cuore della conflittualità che si può vivere singolarmente:

«Mi sento anch’io con il mio limite a cercare il risultato, se non combino niente ci sto male». (6E)

7.1 Avvicinare i giovaniI giovani, abbiamo ricordato più volte in questo rapporto, hanno

bisogno di non sentirsi chiusi in esperienze o appartenenze esclusive. Accettare questa caratteristica potrebbe comportare di rivedere le tipologie dell’offerta di attività volontarie, articolandole in flessibilità e tipologie di azioni modificabili nel tempo. Va tenuto conto che si ha a che fare con giovani “attivi”, che si spendono su diversi fronti e interessi e non necessariamente solo in quello associativo:

«lavoricchio ogni tanto. All’infuori di questo e dello studio faccio teatro, canto. Altre cose magari piccole come ad esempio ogni tanto faccio la babysitter ai miei nipoti. Ad esempio cerco di andare a seguire il maggior numero di spettacoli teatrali e musicali». (4B)

«faccio parte di un’altra associazione culturale a scopo “ricreativo”...

ci ritroviamo due sere alla settimana... siamo un gruppo di amici». (1B)

«io faccio sport, vado in palestra, non sono bravissima, adesso inizio a lavorare, vado fuori con gli amici, sia quelli dell’appartamento e altri, ho molti amici che vivono da altre parti, viaggio, vado sempre da qualche parte, mi piace girare, tra i nonni che non godono di salute ottimale, studio anche nel tempo libero, tipo sabato sera... niente di eccezionale». (2B)

I giovani vanno cercati, coinvolti, senza pregiudizi,

«le associazioni che non si fanno conoscere abbastanza e il comune... dovrebbe esserci una struttura dedicata solo al volontariato. Il problema è della mentalità diffusa nella società, abituata a non cercare queste cose. È un alto potenziale tra i giovani che non è sfruttato... È difficile che vengano da soli, ma è una cosa che si può sfruttare… Bisognerebbe cercare di rendere la cosa più interessante per i giovani… Magari anche con spettacoli, concerti che parlino di volontariato e lo facciano conoscere. Avvicinare i giovani da questo punto di vista ed iniziare a coinvolgerli da lì, chiedendo iniziativa in canali stabiliti. Io sono sempre stata coinvolta più che coinvolgere». (1B)

Se il passaparola sembra confermarsi come la modalità comunicativa più efficace non si dia tuttavia per scontato che sia la narrazione delle esperienze ad attirare; lo stesso passaparola dovrebbe diventare “intenzionale”, frutto di un pensiero strategico.

Sembra inoltre che il suscitare interesse debba andare di pari passo col rendere percettivamente fattibile, conoscibile e reversibile l’esperienza. Il “contatto” può accadere più che per canali di tipo pubblicitario con il coinvolgimento diretto, eventi, corsi, feste, esperienze brevi collegabili ad altri interessi del giovane:

«penso a quel compagno del corso che non si sente di fare qualcosa per gli altri, dipende dalla famiglia, dal contesto in cui vive, più che avvicinare i giovani avvicinerei i ragazzini, dalla mia esperienza sono cresciuta in un contesto che mi ha portato a farlo, adesso è difficile dire

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ad un ragazzo di farlo, mia sorella ha 18 anni, è difficile dirle dedica due ore il sabato pomeriggio al volontariato, è difficile che a quell’età una riesca a vedere lo slogan o la campagna promozionale come stimolo, penso che sia qualcosa che deve avvenire prima». (2B)

Per esempio, si tratta di valorizzare e comunicare adeguatamente le opportunità che collegano formazione per sé e impegno solidale:

«dipende da come ti motivano a farlo... e vi sono molti progetti all’estero e che danno una garanzia di autonomia... sono quelle organizzazioni che riescono a garantirsi una maggiore adesione ei volontari, e di qualifica». (3B)

Per quanto riguarda l’informazione invece il canale che sembra piacere di più ai giovani è quello degli interventi nelle scuole, ma non per raccontare o rappresentare l’associazione bensì per creare un contatto con realtà altre attraverso incontri esperienziali:

«Mi sembra molto interessante che oggi se ne parla di più, nelle scuole, a volte mi hanno chiamato per parlare del volontariato internazionale anche nelle scuole medie, quando si parlava di paesi extraeuropei, di fronte a ragazzi che dovevano scegliere università o no, credo sia stimolante a livello educativo presentare più variabili possibili ai giovani, dare un’idea dinamica di cosa si può fare. Magari io me ne sono avvicinato tardi perché poi ti interessi solo quando ne senti parlare. Questo sarebbe auspicabile e più proponibile rispetto ai mezzi di comunicazione che rispondono a loro logiche... i racconti di vita vissuta è ciò che fa più presa, ricavare idee generali dagli appunti, far si che loro si ricavano i principi generali da ciò che gli stai raccontando...» (3B)

Raccontare le cose nella loro quotidianità anche se si rasenta il folclore, è un altro modo di utilizzare linguaggi “vicini”:

«Ai ragazzi stavo raccontando qualcosa che loro facevano proprio facendosi un’immagine meno esatta e più un’immagine folcloristica,

ma più utile rispetto alla spiegazione formale sulla dissuasione in zona di conflitto ed il ruolo dell’osservatore internazionale». (3B)

Creare maggiore circolarità delle informazioni, e dare visibilità ai luoghi nei quali queste informazioni sono depositate:

«Ho avuto voce dell’esistenza di un corso che tratta argomenti che mi interessavano... anche per la cultura personale... Il corso costa, ma poco 10 euro... e così ho cominciato». (4B)

La proposta di aggancio tramite iniziative di formazione sembra funzionare, e richiama il tema dell’esigenza dei giovani di accumulare credenziali e competenze cognitive. Il modo di presentare il corso e i contenuti delle proposte diventano pertanto cruciali al fine di attivare la persona, ed il costo molto basso, simbolico, può funzionare come filtro.

Appare il problema di come si viene a conoscenza di queste iniziative: “averne voce”, il passaparola, che può essere visto tanto in una prospettiva negativa quanto in una positiva: negativa, perché rischia di rimanere chiuso in particolari cerchie e questo andrebbe a svantaggio dell’esigenza di toccar il maggior numero di giovani per maggiori probabilità di risposta; positiva, perché potrebbe essere un modo di preselezione; non conta più contattare tanti giovani ma arrivare già a quella cerchia di giovani che hanno maturato una certa sensibilità verso il problema.

Punto di partenza per definire la strategia di comunicazione è comunque avere chiaro da parte del mondo del volontariato organizzato perché esso si rivolge ai giovani, e quali giovani vuole realmente coinvolgere; ma per fare luce su questo aspetto è necessario guardarsi dentro e sapere cosa è disposto a mettere in campo e in gioco nella quotidianità dell’esperienza che fa parte di una quotidianità più ampia e complessa.

Pur se la dimensione culturale-simbolica nella quale si riconoscono le associazioni di volontariato è lo sfondo comune, dobbiamo considerare che le associazioni sono molte e diverse tra loro, e non solo per tipologia od area di intervento come in linguaggio tecnico

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si usa dire. Stili di relazione, rapporto con la dimensione valoriale, concezione del rapporto adulto-giovane e conseguenti stili di autorità sono alcune delle cruciali diversità tra associazione e associazione.

L’esperienza solidale non può riguardare solo una delle relazioni in gioco. Per non essere valore reificato essa deve permeare e interrogare tutte le relazioni e, come abbiamo visto, questo comporta il riflettere su quale tipo di organizzazione specifici stili di relazioni hanno contribuito a costruire e a proporre.

La crisi di adesioni dei giovani al volontariato organizzato viene presentata dagli associati anche come problema di ricambio dei partecipanti, ma non è possibile vedere la “giovane” risorsa prevalentemente come “replicante” di un modello che funziona per gli adulti che se lo sono “cucito addosso” e che è il frutto di quelle che sono state le loro esigenze e le loro esperienze.

Infine, ricordiamoci che si fa volontariato perché si desidera aiutare gli altri ma anche perché piace e fa star bene con se stessi, risponde cioè a un bisogno soggettivo che assume declinazioni diverse perché i giovani non sono una categoria omogenea. L’impegno domandato deve potersi inscrivere in un progetto del giovane e i progetti devono poter essere diversi perché i giovani sono diversi.

- IV -

PROBLEMATICHE E RAPPRESENTAZIONI DEL VOLONTARIATO NELLE INTERVISTE AI

RAPPRESENTANTI DI ASSOCIAZIONI

1. Uno sguardo esterno

Per il focus group con responsabili di associazioni abbiamo invitato a partecipare, con il compito di osservatore, una persona esterna al gruppo di ricerca al fine di avere un altro punto di vista, più distante dal coinvolgimento ai temi che le interviste e i due focus group con i giovani, molto ravvicinati nel tempo, potevano avere suscitato nei ricercatori.

Presentiamo in introduzione a questa parte di rielaborazione delle interviste alcune delle osservazioni formulate dall’osservatore.

“Erano presenti al focus nove persone di cui tre giovani. Innanzitutto si è osservato due modi differenti di porsi nella situazione: alcuni adulti hanno portato con sé agende e/o borse stile 24 ore, come fossero lì per lavoro mentre i tre giovani presenti non hanno portato con sé simboli particolari. I partecipanti erano per lo più piuttosto tesi e seduti rigidi nelle loro sedie tranne i due ragazzi più giovani che, al contrario, apparivano molto rilassati.

Ogni persona presente al focus si è sentita a casa all’interno della struttura del CSV ma al contrario quasi nessuno conosceva gli altri partecipanti al focus.

Colpisce l’assenza di un linguaggio comune. Molti hanno fatto fatica a condividere il racconto delle loro attività, e si sono spesso detti “bisognerebbe definire”. Sembra mancare un’idea comune di volontariato, che appare essere molto legata ai singoli leader delle singole associazioni.

Questo potrebbe essere vissuto dai giovani come instabilità,

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insicurezza, e emerge la loro preferenza per una realtà di gruppo, di un clima amichevole piuttosto che professionale senza che questo significhi non ricercare o apprezzare un buon livello di gestione e di organizzazione.

Se alcuni adulti descrivono la loro attività usando espressioni come “siamo specializzati” “per fare queste cose ci vuole esperienza” “si vive in trincea” “per sempre…” “fidelizzazione del volontario” “difficile…continuità” che connotano le attività come complesse e vicine ad una connotazione professionale, due giovani del focus, raccontando il come/perché del loro essere volontari in una determinata associazione, hanno parlato in questo modo: “è bello perché facciamo unione, gruppo… c’è complicità” “tutti portano avanti lo stesso ideale assieme…” “poi si impara a fare qualcosa, la formazione è bello!” “ho scelto loro perché erano ben strutturati, li ho scelti per la loro serietà” (Mimosa e Croce Verde).

La ripetitività di certe azioni (“usciamo assieme, condividiamo un ideale, poi ti conosci ed è più bello…”) aiuta ad allontanare il timore e il senso di solitudine dei giovani, ed un’associazione strutturata e bene organizzata li facilita nel proprio inserimento, aiuta a risolvere insicurezze e il possibile senso di emarginazione che potrebbe affrontare un nuovo volontario.

Il giovane sembra dare valore alla serietà, alla struttura, all’organizzazione, non tanto in termini di professionalità ma piuttosto in termini di fiducia. Al contrario si rifiuta - e questo è emerso in vario modo durante il focus - il fatto che spesso il volontario dà qualcosa generosamente e subito viene richiesto di più e di più ancora…”offri la mano, ti viene preso il braccio”.

Le nuove generazioni devono fare i conti con una serie di insicurezze e paure. In questo senso avere un’associazione che chiede prestazioni precise, con rituali definiti, segnali e simboli condivisibili piace e dà sicurezza. Il fatto di sapere “come fare” qualcosa allontana l’insicurezza nel giovane, gli affida un ruolo. Il fatto poi, di sentirsi in una struttura definita, seria, organizzata, incoraggia la propria attività.

Un altro aspetto utile per la nostra riflessione riguarda l’investimento emotivo nell’impegno che si assume come volontario; un volontario adulto riferendosi alle problematiche affrontate dall’associazione

dichiara di desiderare il volontario “equilibrato”, dunque con una certa maturità emotiva per sostenere situazioni spesso complesse emotivamente. Ma il giovane, per definizione, non è in grado di sostenere uno stress emotivo da solo (si vedano interventi focus precedenti) e può trovarsi in una situazione di disagio o di sofferenza nella gestione di dinamiche complesse e soprattutto di dinamiche che richiedono esperienza e una certa assunzione di responsabilità.

L’impegno in qualsiasi forma di volontariato, proprio perché libero, è forte e profondo e la richiesta di disponibilità a livello emotivo ed organizzativo non è di basso rilievo (lo testimonia il livello di polemica forte che aleggiava nell’aria quando si parlava di retribuzione o meno…).

Nel focus è emersa la dimensione interpersonale nello scegliere di fare volontariato: “mi ha convinto mia moglie” “mi hanno detto degli amici”.

Tanti si sono avvicinati al volontariato per il passaparola che ha definito per loro l’esperienza, ha creato e condiviso conoscenza. È necessario che qualcuno “traduca” all’altro cosa significa fare volontariato e spieghi alla persona di cosa si tratta. Questo significa che non si sa cosa sia il volontario e abbiamo visto che non pare esistere un’immagine comune e condivisa di volontario, spesso connotato da sentimentalismi (bontà… bravura…) o doverismi, quando invece il giovane stesso ha sottolineato “non si può essere troppo buoni, anzi, alle volte devi essere un po’ cattivo per trovare il compromesso necessario tra l’essere buoni e l’essere persona distinta dall’associazione”.

Ancora una volta emerge un problema di identità e ci ritroviamo con la domanda già posta in precedenza: cosa chiedono gli adulti volontari ai giovani? Quale tipo di collaborazione? Sono visti come “risorsa lavoro” come talune critiche paventano o come “risorsa persona” che rappresenta l’occasione per aprire a nuove dinamiche e a nuove potenzialità nonché energie? Una parte della risposta la si può intravedere nelle dinamiche organizzative, nello stile di relazione, nelle emozioni degli adulti e dei giovani, che entrano comunque in campo anche se spesso non sono esplicitate.

L’assenza di una condivisone sul significato di alcuni segni

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distintivi del volontariato (ad esempio, la gratuità) mette in luce l’assenza di una condivisione discorsiva a livello orizzontale (non tra leader ma tra i volontari di tutti i giorni per intenderci). Non è un problema da poco, poiché riguarda il discorso che il volontariato fa su se stesso, quindi la definizione della sua identità come soggetto collettivo, con una conseguente influenza sull’immagine percepita e soprattutto sull’immagine diffusa (prodotta dall’insieme dei testi di qualsiasi tipologia e di qualsiasi fonte che a partire dal soggetto e dalla sua azione sono messi in circolazione). L’idea che un individuo, giovane o adulto, si fa del volontariato sarà il prodotto del mixage di diversi livelli di esperienza: quella diretta (la propria esperienza, quella di persone vicine) che formerà l’immagine percepita, ma altrettanto influente sarà quella derivata dall’immagine diffusa, unica fonte per la gran parte degli individui esclusi dal contatto diretto.

È questo un problema noto agli esperti di comunicazione che per trovare soluzione richiede l’attivazione di una strategia di comunicazione interna all’organizzazione utile a produrre riflessività e condivisione.

Il prevedere come parte dell’azione associativa (e interassociativa) momenti di riflessività - utili anche per fare chiarezza su concetti che non appaiono più così scontati nell’interpretazione dei membri - potrebbe aiutare da un lato ad una comprensione maggiormente condivisa e quindi comunicabile sulle caratteristiche della propria organizzazione, sulla sua collocazione nell’ambito più vasto del volontariato, sulla propria “offerta” di azioni di solidarietà e sul senso attribuito alla propria azione e, dall’altro lato, sarebbe utile a mantenere uno sguardo attento su quanto accade tra le persone nell’associazione e per le singole persone nel corso del tempo.

L’assenza di confronto anche sulle divergenze rischia di appiattire lo scambio a livello di stereotipi o di malumori poco esplorati, che talvolta potrebbero logorare nel tempo la motivazione a continuare (si veda il problema, sollevato dai partecipanti al focus, della “fidelizzazione” o della “discontinuità”). Se non ci si apre all’ascolto anche interno (ascoltare e ascoltarsi) si tenderà ad insabbiare i problemi in pregiudizi e stereotipi, utili per la riproduzione standardizzata e routinaria dell’azione ma non per risolvere i nodi critici. Per esempio,

la percezione delle difficoltà di reclutamento di giovani può essere vista, in questo senso, stereotipata. È infatti talmente noto a tutti che questo problema va riferito a caratteristiche conosciute dell’essere giovani nella società attuale oppure a contingenze dovute alle esigenze proprie alle diverse fasi della vita che, in un caso come nell’altro, la causa viene stigmatizzata nella prevalenza di valori di tipo individualistico, cosicché non ci si è fermati per un lungo tempo per riflettere se ci fosse qualcos’altro da prendere in considerazione per definire il problema stesso.

2. I giovani visti dalle associazioni

Anche nelle interviste ai responsabili di associazioni appaiono i differenti temi già evidenziati nei capitoli precedenti. È diffusa l’idea che vi sia una diminuzione di adesioni al volontariato organizzato da parte di giovani, ed essa viene spiegata, da alcuni, come frutto di uno scarso interesse ad assumersi responsabilità organizzative, con la netta preferenza per l’aspetto relazionale dell’esperienza, e con la difficoltà a convivere con determinati vincoli (in particolare la quantità e le modalità temporali dell’impegno che richiedono continuità). Sono presenti delle nette differenze di interpretazione tra i volontari che ci sembrano collegate alla diversità di esperienze possibili a seconda degli ambiti di intervento.

Nella pratica emergono tanti modi di essere volontari, diverse “formule” di impegno, persone con diverse sensibilità e che attribuiscono differenti significati alla loro azione in relazione alla motivazione personale e alla fase di vita. Questo potrebbe essere uno dei punti di partenza per riconoscere che sono possibili tanti modi di essere volontario:

«Oggi il servizio, il sacrificio di donarsi agli altri è troppo difficile, cioè se prendi i giovani che assistono il portatore di handicap... .invece se prendi i giovani per farli partecipare ad attività ludiche, ginniche, è abbastanza semplice. […] Perché è legato sempre allo

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stesso discorso, quando sei strutturata comporta un obbligo, l’obbligo vuol dire sacrificio, dire “io vengo ogni giovedì della settimana” e già per loro è un obbligo, un impegno molto complesso e invece “faccio quando posso” è un’altra cosa». (1C)

«I volontari che lavorano per l’associazione sono più maturi di età... i giovani sono più disponibili a lavorare con i minori mentre sono più restii a assumersi responsabilità come responsabili... impegni più di gestione dell’organizzazione che comportano responsabilità.» (1F)

«... 500 volontari, di cui 80 giovani.... una volta erano di più, ma il volontario [nome dell’associazione] ‘desiderabile’ è quello che ha una certa esperienza... . e allora il giovane è in un periodo della vita che dedica tempo al volontariato ma poi le cose della vita lo travolgono... quindi ci sono problemi di questo genere. Siamo presenti in una sessantina di reparti,... mezza giornata settimanale, a cui siamo vincolati e anche questo è un problema, l’avere la continuità di servizio... Dobbiamo garantire che uno sia presente, non è accettabile dire oggi non ho voglia». (2F)

«In quattro anni non ho mia visto un giovane che faccia parte del nostro volontariato, difficile, anche qui, chi sono i giovani? che età hanno? C’è qualche tirocinante, ma giovani giovani non li ho visti mai... È arido, ecco perché i giovani non vengono...» (3F)

«Diciamo che c’è stato un momento di grosso… rispetto a quello che dicevamo prima la difficoltà nel recuperare volontari l’abbiamo eccome vissuta una volta che questo zoccolo duro di persone che a loro volta richiamavano o permettevano a quei pochi che arrivavano di integrarsi… lavoro e famiglia hanno cominciato... “non riesco a venire quest’anno”… abbiamo passato un periodo di fortissima difficoltà nel reperire volontari, una maggiore difficoltà a prendersi un impegno per 14 giorni per i soggiorni estivi, ma anche una difficoltà nell’avere un impegno costante un pomeriggio alla settimana 15 anni fa era più facile avere persone che si impegnavano un pomeriggio alla settimana o che mettevano a disposizione 15 giorni di tempo, fino all’ultimo

minuto prima di partire per il soggiorno non eravamo sicuri di portare via tutti i ragazzi perché non avevamo abbastanza volontari». (2C)

Le situazioni e le esigenze delle associazioni cambiano in relazione al campo di intervento ma sembra essere comune alla maggioranza di esse il problema della permanenza dei volontari, generalmente associato a problemi di disponibilità di tempo (lavoro, formarsi della famiglia,... ). Appare poco esplorata la possibilità che vi possa essere una compresenza di una oggettiva minore disponibilità di tempo con altri fattori quali, per esempio, lo stress da emergenza o dovuto al contatto con persone in gravi condizioni, ecc.:

«Siamo 1500-1600 volontari solo a Padova, facciamo corsi di formazione… Operiamo 24 ore su 24 per urgenze e emergenze, idem per i servizi sanitari, come i taxi sanitari, dimissioni, ricoveri, terapie... prevediamo un corso di formazione per tutti, previa analisi preventiva a spanne... viene fatto un colloquio, un certificato medico perché comunque andiamo a operare in casi particolari. Li formiamo in tre fasi: il primo corso... tirocinio di tre mesi obbligatorio con ore obbligatorie. Il secondo corso è più medico,... perché verremo chiamati a operare in situazioni in genere… tre mesi, in cui diventano aspiranti e poi militi effettivi della Croce Verde. Il terzo corso è separato... e viene insegnato le specifiche delle attrezzature.... Abbiamo tanti militi e tanto via vai di gente.... dopo alla fine non è che aumentano... rimaniamo 1500-1600. Purtroppo chi entra e pensa una cosa e poi a livello di coscienza non ce la fa perché molte volte andiamo a operare in situazioni critiche e siamo volontari laici, siamo preparati per il soccorso ma non siamo né infermieri né medici...purtroppo tra chi si trova in questa situazione e non ce la fa e si ferma al primo stadio per un trasporto normale e tra chi per impegni di vita perché purtroppo... noi chiediamo un impegno,... facciamo 7-13, 13-19, dalle 19 alle 7 di mattina monta la squadra che gestisce la notte,... Abbiamo un grosso via vai di persone, in genere le gente vuoi per problemi di soldi vuoi per altre cose comincia a vedere prima il discorso del lavoro e poi il tempo da dedicare al volontariato e comincia a accorciare i tempi e ne risentiamo a livello di organico... i volontari cominciano a vedere più i

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loro impegni a livello lavorativo e usano usare il tempo libero per affari propri, dovuti alla vita che si sta modificando. Si fanno i conti in tasca prima di venire a fare i volontari. Usano il tempo che potrebbero usare per il volontariato per fare altre attività.... abbiamo i problemi di quelli che appena entrano e di quelli che sono da anni e poi si sposano, hanno problemi finanziari e hanno esigenze di tempo libero…ma sono problemi generali, non sono problemi solo nostri insomma. Abbiamo 200 persone che si muovono ogni anno e poi di queste 200 non ne restano poi per una cosa o per l’altra». (5F)

Gli argomenti impiegati per spiegare l’allontanamento dall’associazione sono quelli “di sempre”: il lavoro, il tempo da dedicare alla famiglia, oppure un modo più individualistico di utilizzare il tempo libero. Il problema della permanenza o della continuità nel succedersi delle fasi dei corsi di vita in questo caso non riguarda più solo i giovani ma piuttosto i giovani-adulti.

Possiamo guardare la questione in due modi prevalenti: o ci si riconferma il discorso generalizzato sulla società (crisi dei valori nella società individualistica, influenza della precarizzazione e delle incertezze del mercato del lavoro sull’idea di futuro, eccetera…), oppure si sceglie di entrare nel merito delle motivazioni individuali degli “abbandoni”, al fine di poter realmente comprendere (o escludere) se vi sono altri elementi influenti nelle scelte, ed esplorando così le ragioni di ciascuno senza l’opacità o il silenzio che potrebbe creare la cappa del senso di colpa che aleggia inevitabilmente se si “ragiona” in termini di doverismo o di buonismo.

Non appare presente questa intenzione o comportamento di riflessività, che poi è l’ascolto cui si è accennato sopra, o quantomeno non è stata espressa e valorizzata nelle interviste.

L’esplorazione delle motivazioni reali appare un aspetto importante dato che, oltre al problema, del reclutamento si pone anche quello di motivare a continuare nell’impegno:

«Era molto ricca di volontari poi come tutte le associazioni per motivi diversi c’è anche per noi il problema della fidelizzazione dei soci e dei volontari... ci sono un sacco di input ed è meno facile

trovare una persona che dedichi un po’ di spazio un po’ di tempo... al servizio. Nella maggior parte dei casi abbiamo constatato che si riesce a integrare una persona che all’inizio era con il servizio civile e poi ci dedica qualche ora… rimane un rapporto di amicizia che ci consente di considerarlo socio a pieno titolo nel senso che se abbiamo bisogno di organizzare una manifestazione, la gita, sappiamo di poter contare su di lui. Rimane un contatto... ma è difficile avere continuità». (6F)

È la questione della fidelizzazione dei volontari e dei soci, ma anche quella della “competizione” con l’eccedenza di offerte culturali in questa nostra società. A questo proposito c’è un altro elemento di cui tener conto, a nostro parere, che tuttavia non è emerso nelle interviste: l’aumento di offerte di tipo associativo anche nel campo del disagio. Le statistiche segnalano infatti un aumento considerevole di associazioni con un numero di soci medio sostanzialmente statico.

Appare inoltre una differenziazione significativa nell’offerta di volontariato che sostanzialmente va da una interpretazione “pura” o “tradizionale”, per la quale nessuna utilità soggettivamente “consumata” deve contaminare il valore gratuito dell’esperienza, ad una posizione che consente ai soci di far convogliare diverse motivazioni:

«Volontari ragazzi e ragazze giovani non ne abbiamo assolutamente; siamo tutte intorno ai 35 anni in su. Tutta gente per esempio anche di 30 anni che vengono sono neolaureate che cercano lavoro o cercano di fare esperienza. Non sono persone che hanno voglia di fare volontariato, sono persone che vengono o per fare tirocinio o perché sperano dentro i progetti di trovare qualche lavoro». (7F)

Questa sottolineatura non vuole generalizzare un problema di percezione bensì porlo all’attenzione; non si è, infatti, di fronte ad una situazione monolitica e nelle associazioni esistono differenti modalità di coinvolgimento di giovani. Le posizioni sono variegate e la disponibilità o l’interesse a fare volontariato organizzato sembrano trasformarsi in passaggio all’azione qualora le associazioni rendano disponibili delle forme di scambio:

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«Devi offrire qualcosa, non è detto sia denaro, ma qualcosa altrimenti non si avvicinano mai, se il giovane non pensa ad un suo ritorno, non lo fa.... può essere anche la notorietà... In che senso? Faccio fare qualcosa e poi la presenta in pubblico, il giovane si presenta al pubblico, si esprime, è diverso dall’anziano, i giovani devono aver qualcosa in cambio, fa parte della loro crescita. (…) Non è impossibile ma difficile, uno che fa l’impiegato e poi va in pensione non ritrova più il vecchio mondo e si trova nel vuoto e quindi è ben felice di fare volontariato. I giovani non hanno di questi problemi. Due sono le cose fondamentali per loro: o realizzare la loro notorietà o di dare qualche compenso». (1C)

«Giovani ce ne sono, nei nostri appartamenti. Non facciamo pubblicità, non diamo nessun depliant, non facciamo volantinaggio e per passaparola arrivano... Ci sono dei giovani dai 27 ai 35 anni che sono diplomati e cercano lavoro e sono del meridione... e poi per la mobilità nelle scuole sono arrivati una decina di insegnanti che non ce la fanno a pagarsi l’affitto e ai nostri volontari diamo vitto e alloggio e un compenso come quello che si dava agli obiettori di consegna mensile. Diventa uno scambio di aiuto... . c’è la struttura dell’equipe che conosce tutti e che fa il lavoro di sostegno e di formazione permanente. Abbiamo un coordinamento educativo e un supervisore che fa sostengo ai volontari, ai ragazzi accolti e alle famiglie». (4F)

Il luogo comune controverso è: “non hanno voglia di fare volontariato ma cercano lavoro, esperienza”, come se ineluttabilmente sia data incompatibilità tra le due dimensioni e l’interesse per un impegno solidale debba escludere la compresenza di altro tipo di interesse -quello professionale per esempio, o dell’acquisizione di competenze- invece di vederlo come una reale opportunità che avvicina maggiormente l’esperienza ai “bisogni” anche socialmente definiti dei giovani.

La stessa preoccupazione si ripropone su altri “valori” caratterizzanti il fare volontariato, per esempio il tema della gratuità di cui abbiamo già accennato in altra parte di questo lavoro:

«Io non sono d’accordo che tutta l’attività del volontariato debba

essere tutta gratuita, non sono d’accordo... e proprio perché si sviluppano servizi con valenza sociale e la società deve contribuire anche parzialmente. Tutti i giovani che vengono da noi hanno bisogno di lavorare, ma se vengono a fare attività da noi nel pomeriggio questi qua vogliamo aiutarli? Io sono pensionato e posso andare quando ho tempo e voglia, ma un giovane che vuole impegnarsi». (1F)

«ma diventa lavoro!» (7F)

Se a livello di soddisfazione personale la remunerazione consiste in una ricompensa simbolica, la possibilità di prevedere una qualche forma di ricompensa economica o di tipo professionale divide ancora all’interno delle associazioni anche se alcuni riconoscono, come vedremo più avanti, che a causa della quantità di impegno richiesto diventa sempre più difficile trovare disponibilità.

La questione da comprendere, e che in questa sede non è stata approfondita, è di quale sia la posta in gioco che si vuole salvaguardare con questa forte carica ideale, difesa talvolta con toni drastici, sul significato dell’esperienza, la quale nella realtà delle pratiche richiede di fatto di essere articolata con uno sguardo più leggero e flessibile. Infatti, le esperienze di alcune associazioni dimostrano come l’avvicinamento all’associazione possa essere facilitato se il tramite è un interesse del giovane riferito anche a se stesso, al suo percorso formativo (da intendersi comunque in senso più ampio del percorso scolastico o professionale in senso stretto):

«È stato proprio un salto perché negli ultimi due anni, un po’ anche con la campagna legata al Servizio Civile volontario, probabilmente si sono riattivati, se ne parla di più anche nelle parrocchie, anche nelle scuole dove puoi acquisire dei crediti formativi… ci sono dei passi che si stanno provando a fare.... Io sono referente per quanto riguarda i volontari e da quest’anno abbiamo individuato un’altra figura in termini di collaborazione per la ricerca dei volontari e abbiamo deciso di agire in maniera diversa; l’avevamo già fatto 2 anni fa... però in questi due anni la persona individuata come referente, forse perché aveva poco tempo per entrare nel merito di alcuni percorsi tipici degli studenti...

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quest’anno abbiamo chiamato un educatore professionale che aveva già esperienze di questo tipo, abbiamo concordato una serie di passaggi dal volantinaggio alle locandine agli annunci che stanno rendendo qualcosa in più. In più abbiamo deciso come struttura di riconoscere i tirocini allora una persona riesce a trovare anche una motivazione in più, si è attivata una rete diversa. Io ho l’impressione che più che mai la pubblicità fatta per il Servizio Civile sta attivando risorse, noi abbiamo presentato un progetto di SC e abbiamo dodici volontari, molti laureati o laureandi in psicologia o in scienze dell’educazione, motivati, preparati, garantisci anche un livello pratico più corposo. Ma anche ragazzi che non hanno nessun tipo di esperienza, studenti di astronomia, di belle arti che non hanno nessuna esperienza di volontariato, di anziani, di disagio… una maturanda... persone pulite con molta voglia di fare naturalmente rispetto ad un’esperienza del tutto gratuita è più facile impegnarsi, avere un aiuto facilita, per le tasse universitarie per i libri, effettivamente un contributo aiuta. È un incentivo... molta gente ha voglia di provarci, sono sempre risorse che si sono attivate, infatti mi sto prodigando a dire e lo farò anche via lettera “siete passati con la voglia di sperimentare di provare, continuate un pomeriggio alla settimana un fine settimana... [quali sarebbero i punti di forza su qui bisognerebbe insistere?] Probabilmente sui punti capillari di cittadinanza attiva, all’interno delle scuole, credo ai crediti formativi, abbiamo dei ragazzi cui rilasciano dei crediti formativi…» (2C)

3. Il volontariato visto dai volontari

Talvolta, nel dibattito che si apre tra volontari di fronte a questi temi, si ha l’impressione di uno scarto forte tra un modello ideale, da difendere si direbbe perché sentito come fondativo dell’identità del volontariato stesso, e un modello reale, che nella vita associativa di tutti i giorni cerca forme nuove di gestione e di collaborazione.

L’idealizzazione risulta in molti casi di fatto scostata dalla realtà e rischia di non aiutare a comprendere o riconoscere appieno neppure

la mission della propria associazione, o quanto meno non si è proprio sicuri -nel confronto con altri- che si stia rappresentando un’esperienza di volontariato “puro”:

«è un volontariato ai limiti, non è assistenziale, è al limite del volontariato. Il volontariato secondo me deve essere assistenziale... questa non è assistenziale, è prevenzione, è aiuto, è cura, ma non è assistenziale. Il volontariato vero e proprio noi lo si vede in un’altra vita». (7F)

“È al limite del volontariato”: quante idee di volontariato ci sono? Quali confini pone l’espressione “limite”? Il pericolo è che in questa contrapposizione tra idealità e realtà composita non si apra ad altre, nuove, modalità, non si cresca con i mutamenti sociali che ci riguardano tutti. Ma c’è anche un altro aspetto della questione che interessa nel contesto di questo lavoro: se i discorsi sono contradditori, quanti messaggi diversificati sul volontariato arrivano ai giovani e più in generale al pubblico degli esclusi19 se gli stessi “protagonisti” non si riconoscono più in un codice simbolico e semantico condiviso?

«La parola volontariato è troppo usata, ha perso il suo significato.» (4F)

Il fatto che non esista una visione unica ma diversi punti di vista è oggetto oramai da anni del dibattito interno all’associazionismo,.Tuttavia la sensazione è che allorché si affronta l’argomento il piano della discussione si sposti ad un livello razionale (parlare astrattamente dei valori per esempio) o ideologico (cosa è buono e cosa non lo è) come se non ci si potesse aprire ai significati identitari, anche soggettivi, messi in campo con la scelta di questo tipo di azione collettiva:

«Per me il volontariato è volontariato e deve essere puro cioè io sono dell’idea che il volontariato deve essere completamente gratuito, io faccio volontariato perché è gratuito, perché ci credo e perché porto avanti un’idea mia, io dal volontariato non ci guadagno assolutamente nulla: se è volontariato deve essere assolutamente gratuito. Che poi

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l’associazione debba mantenersi giustamente ci sono progetti, le cose, ma chi si chiama volontario deve essere assolutamente non pagato, perché altrimenti diventa lavoro e il lavoro è un’altra cosa». (7F)

Di seguito, riportiamo, a titolo esemplificativo, alcune descrizioni emerse nel gruppo sul significato che si attribuisce all’esperienza di volontariato:

«Rispondendo a un impulso.. ognuno di noi ha un impulso dentro e basta rispondere alla passione che abbiamo dentro, ognuno di noi ha quello che basta per questa cosa.. il volontariato è parte della mia vita, quello che posso dedicare dopo la scelta primaria della famiglia, del lavoro. Dal fatto di sapere che siamo tutti vulnerabili, oggi ho bisogno io domani hai bisogno tu, questa idea ci è cresciuta molto dentro, con il bisogno di esplicitarla nelle forme più svariate». (4F)

«Uno non si improvvisa volontario da un momento all’altro... conta la visione politica che uno ha del mondo... vista come impegno sociale, come spazio che ciascuno di noi dedica al cambiamento della società che ciascuno di noi può portare in relazione alla sua visione del mondo è una cosa che fa parte della tua vita, per cui cambiano i tempi, le forme, ma come la vedo io lo spirito del volontariato deve avere a monte una visione della società in cui ciascuno di noi deve portare qualcosa di cambiamento, non è quindi solo il problema di occupare il tempo per fare qualcosa perché non ho nient’altro da fare, c’è anche questo nel volontariato però penso che l’attività del volontariato debba rispondere a mettere in evidenza in questa società le cose che non funzionano, per cui ci sono dei volontari ci sono degli spazi che il nostro vivere civile non è in grado di gestire... e il coinvolgimento dei giovani non può essere puro coinvolgimento… di quella visione del volontariato come assistenza, è una visione distorta... io non sono molto contento di come funzionano le cose dentro il volontariato». (1F)

«Ho costruito una grossa nuova famiglia, siamo una ventina, ci telefoniamo più dei familiari, ci incontriamo spesso, non riuscendo a fare tutto quello che pensi, abbiamo parecchi progetti da realizzare sia

con difficoltà economica che tecnica […] fare volontario uno lo fa per sé, dà soddisfazione e quindi lo si fa». (1C)

Le testimonianze che precedono pongono il problema sul piano del significato dell’azione e dell’interpretazione che soggettivamente gli individui ne danno, e appare una diversità di visione del senso dell’azione volontaria per se stessi. Essa può essere l’espressione di un legame sociale di tipo solidale, oppure di una solidarietà che si dà come strumento per il cambiamento di una società diseguale.

Esistono tuttavia anche altri significati che motivano soggettivamente all’azione, pure questi già argomento di discussione ma per lo più ancora affrontati in termini di diniego o difensivi o polemici, confinati sul piano del ‘personale-privato’. Una lettura serena e non colpevolizzante della questione potrebbe consentire di condividere la diversità delle rappresentazioni e dei significati, e riconoscere come risorsa e non come limite i plurimi sé che sono in gioco nello scegliere questa forma di azione e che, nella narrazione dell’esperienza, appaiono “naturalmente” compresenti:

«Si ha a che fare con un’attività non da laico sociale ma da paramedico e quindi è anche stimolante sotto l’aspetto personale perché ti viene insegnato a valutare e agire in determinate situazioni che non sono competenza tua e questo è molto stimolante. Perché comunque la persona che ti vede arrivare ti vede come un sanitario, pensa che sei un medico o un infermiere e l’80% delle persone non sa che sei altro... Avere la possibilità di conoscere cose nuove e avere un approccio fisico con le persone che ti danno piena fiducia quando ti vedono e tu devi fare il tuo compito nel miglior modo possibile, ti dà soddisfazioni incredibili. Dai il tuo tempo e lo vedi ripagato, nell’ambito professionale del volontario e nell’ambito umano... nel servizio... hai molto dialogo con le persone... hai una rosa di esperienze incredibile. In più noi facciamo unione, siamo 1600, io ne conosco di vista 1000, ma nel mo ambito facciamo gruppo, lavoriamo in gruppo, quindi hai a che fare, instauri con le persone una complicità, perché devi operare in emergenza... quindi instauri una sorta di feeling particolare. Le squadre sono come un gruppo di amici che una sera si trovano per portare avanti tutti lo stesso ideale». (5F)

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«È arido nel senso che non ci si può aspettare niente... la soddisfazione bisogna trovarla dentro di noi, perché nel mio volontariato abbiamo contro tutti...» (3F)

«Per me il raggiungimento più grande è uscire dalla soddisfazione personale, di non cercare la soddisfazione personale, ma capire che in questa umanità siamo tutti forti e tutti deboli.. l’essere umano è così, non siamo nati per vivere da soli ma per comunicare... per me la serenità della mia persona in questo momento è di essermi liberata profondamente di qualsiasi ritorno. Non aspettarsi gratitudine da niente e di nessuno vuol dire lanciare una freccia…» (4F)

«Io ho fatto un master in mediazione interculturale e alla fine era previsto un tirocinio; mi interessavano due cose, una il carcere ma ho capito immediatamente che era blindato, forse anche giustamente, per i tirocinanti, e la seconda la prostituzione. Da lì sono rimasta, continuo, mi è piaciuto molto la concretezza, le serietà, i contenuti e il modo di veicolare certi contenuti. Mi pare di poter dare un contributo, forse è illusorio… non avendo a che fare con lettere da scrivere come fa…, senza polemiche, ma avendo a che fare con persone con problematiche di varia natura, con enti, con la politica, portare il proprio pensiero su certi problemi, fare anche pressione sulle istituzioni rispetto a certe urgenze e sensibilizzare la cittadinanza, è questo che fa l’area comunicazione. L’auspicio è quello di spostare di un millimetro anche il pensiero su certe cose, la prostituzione, lo sfruttamento, i diritti delle persone… in questo senso, quando riesci a sposare di un millimetro il pensiero ti senti». (8F)

Il volontariato non esprime pertanto una cultura omogenea, sono presenti diverse componenti motivazionali in coloro che già lo praticano con continuità e da tempo. Ma l’immagine che si tende a diffondere e difendere a livello sociale lo identifica con un tipo di cultura che, come spiega Ambrosini, rimanda alle “disposizioni morali soggettive e all’iniziativa privata l’onere di rispondere alle lacerazioni del tessuto sociale” (Ambrosini 2005, 127-128).

Il riconoscere significati multipli nulla sembra poter togliere

all’aspetto solidale dell’esperienza e potrebbe invece aiutare a circoscrivere orientamenti diversificati dell’azione collettiva aprendo a una molteplicità di sensibilità. Il che renderebbe più consueto, diffuso, relazionarsi al giovane volontario non solo recependolo come risorsa indispensabile per la realizzazione delle prestazioni o dei servizi associativi ma anche mettendo consapevolmente a sua disposizione l’esperienza e le conoscenze maturate affinché siano risorsa per la sua crescita.

Di seguito riportiamo le parole di Ambrosini nel descrivere questo processo: “L’agire volontario implica necessariamente comunicare e interagire con l’altro da sé. Per fare ciò il giovane deve acquisire delle competenze sociali, ed in particolare la conoscenza di sé, la propria auto-percezione e quella degli altri, la capacità di accettarsi ed accettare gli altri. Il volontariato, in questo senso, è un processo in cui comunicazione e solidarietà si determinano vicendevolmente” (Ambrosini 2005, 97).

La diversità di significati assegnati individualmente all’azione sembra correlata anche a modalità diverse di avvicinarsi al campo. Esse possono essere più riferite al “passato”, al sentimento di appartenenza (con riferimento prevalente ai valori e alle esperienze religiose, famigliari, politiche... ) o più centrate, al presente, sul progetto individuale che nasce nel processo di costruzione identitaria. È la presenza di questo progetto che consente l’aggancio al tema o all’associazione in assonanza con i propri problemi nel percorso personale. Il che lascia intravedere un “altruismo” non più idealizzato (nel senso di dedizione all’altro senza nessuna gratificazione se non morale per colui che compie l’azione) ma concreto, quale interesse soggettivo che si sposa con una sensibilità sociale o civica.

4. Altre criticità

Accenniamo molto brevemente ad altre criticità emerse, che potrebbero essere oggetto di approfondimento in altra sede, al fine di notare le tante sfumature che colorano le rappresentazioni diffuse

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sul volontariato. Il tema cui abbiamo già accennato della gratuità, ma anche quello della relazione tra volontariato e istituzioni,

«Poi io penso che l’area del volontariato sia anche un’area di grosso sfruttamento per cui se molti non ne fanno parte è perché c’è anche una diffidenza nei confronti di questo sistema che utilizza il volontariato con finalità che poi... travisano lo spirito... diventa sempre più difficile farlo. È un’impresa molto impegnativa, dal punto di vista burocratico... o uno fa l’azione individuale così, ma impegnarsi in un’associazione è diventata un’impresa professionale e molto impegnativa e molto conflittuale e i giovani non ci arrivano... mancano i soldi, se abbiamo gli spazi li dobbiamo pagare, poi si percepisce la sensazione che copri degli spazi che servono al sociale». (1F)

«Nel mio volontariato abbiamo contro tutti, gli operatori, il direttore, gli agenti…» (3F)

«Qualche volta abbiamo difficoltà con il personale retribuito dell’ospedale. Noi facciamo tutto, nel concetto di aiuto, ma dall’altra parte a volte, partendo dal presupposto che è un ambiente difficile, alle volte avere scontri verbali con queste persone dispiace… in 5 anni sarà capitato 4-5 volte! Percepire l’ambiente a volte un po’ ostile...» (2F)

«Io sono d’accordo con […], la strumentalizzazione del volontariato, del coprire un vuoto. Una responsabilità che dovrebbe essere politica che viene coperta dal volontariato.. i problemi che ho avuto con le forze dell’ordine... e poi hanno un atteggiamento ostile». (8F)

Un cenno ancora al tema della formazione; piuttosto diffusa, si presenta come un percorso articolato ma per lo più orientato all’apporto di conoscenze tecniche. Non sappiamo per certo se i corsi di formazione non si preoccupino anche di approfondire con i partecipanti altre dimensioni, in particolare quelle emotive, ma se fosse il caso non è stato ritenuto importante evocarle nell’offrire un’immagine dell’organizzazione e della sua efficienza. L’impressione è di trovare conferma di quanto emerso nelle interviste coi giovani

volontari, sta a dire la mancanza di una concezione della formazione come possibilità di rielaborare le esperienze, a conferma di quanto sostiene lo stesso Ambrosini: “(manca) la possibilità di risistematizzare le esperienze, le relazioni e le conoscenze acquisite, attraverso modelli interpretativi che li supportino [i giovani] e forme di supervisione che li aiutino a crescere” (Ambrosini 2004, 104).

Ma per potersi aprire a questa concezione della formazione si deve accettare di mettere in campo parti di sé, dei propri significati all’azione e quindi di disarticolare le rappresentazioni ideali e forti nei rivoli dei problemi della quotidianità e delle emozioni che li accompagnano. Riconoscere la molteplicità di livelli della motivazione, quello sociale (il valore individualmente assegnato all’azione pro-sociale sulla base del sistema di valori di riferimento) e quello individuale (implicazioni personali e/o familiari appaiono determinanti in molte esperienze); il formarsi delle priorità nel succedersi delle fasi della vita (vedi l’aumento dei volontari pensionati); le incertezze e le ansie legate all’assunzione di responsabilità e al senso di adeguatezza.

La scomposizione dell’esperienza nei suoi molteplici aspetti, anche emotivi, potrebbe aiutare nel progettare l’azione e le attività combinando necessità oggettive (gestionali, strumentali) e bisogni soggettivi (di senso, di riconoscimento). La prospettiva più utile per questo cambiamento di dinamiche relazionali nell’organizzazione è a nostro parere quella dell’ascolto.

Ascoltare e ascoltarsi. Riconoscere le cornici che ciascuno mette in campo può consentire di trovare soluzioni e modalità innovative ai problemi, introducendo parzialità, flessibilità e aprendo a nuove forme di cooperazione e di comunicazione. Significa anche riconoscere che spesso l’associazione di disagio nasce da uno specifico bisogno individuale o comunque da bisogni presenti nella sfera privata degli individui, e sarebbe utile esplorare maggiormente in che misura l’incrocio tra bisogno soggettivo e bisogno sociale produca modelli di azione e aspettative di comportamento. Ascolto è anche avere cura della relazione, come racconta un’intervistata, e porsi la condivisione come strategia:

«Comunque devi avere cura delle persone, che siano persone che

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segui perché hanno delle difficoltà o che siano volontari, devono essere persone che vanno coltivate non possono essere buttate nell’esperienza e nelle situazioni senza tutela. Non si deve lavorare così. Questa cosa mi ha fatto star male, ho avvertito che a monte rispetto all’obiettore nessuno si preoccupa di capire queste persone chi sono, dove vanno… Questo ci ha fatto ragionare sulle esperienze che proponi ai volontari per fare le cose bene ci vuole anche una buona dose di professionalità a tutela di ragazzi che chiedono di venire qui... È tutto un percorso da fare di condivisione... Un maggior coinvolgimento, una maggior vivacità, avere idee nuove, potrebbero cambiare anche i rapporti con gli enti pubblici, siamo in un momento difficile comunque ci sono i tagli anche se i bisogni aumentano... anche il volontario se arriva non lo prendi solo per il buon cuore ma lo devi formare, si deve sentire sostenuto quello che fa deve essere importante, è un tassello fondamentale per costruire qualcosa di duraturo. Se restituisci senso e significato crei delle opportunità… una pizza, una festa… c’è bisogno anche di appartenenza, le persone sentono di essere parte di un progetto che non è solo delle famiglie, dei volontari o degli operatori un progetto sinergico in cui ciascuno, per il proprio ruolo, svolge una parte del dipinto generale». (2C)

Le associazioni che hanno cominciato a sperimentare strategie di innovazione rispetto alla crisi di reclutamento e di fidelizzazione dei soci insistono sull’importanza di alcune azioni “interne” quali: -far conoscere nei modi più adeguati la propria attività per orientare le motivazioni all’adesione; curare l’ingresso; sostenere le persone nella fase iniziale dell’ingresso nell’associazione; mantenere cooperazione; e condivisione nel tempo attraverso diversi tipi di azioni e di attività.

Comunicazione e formazione diventano strumenti di un unico processo. La situazione descritta come ‘critica’ viene ribaltata così in opportunità e porta a porsi di fronte ai cambiamenti di culture generazionali che esprimono anche determinati bisogni relazionali.

Se, come appare nella nostra indagine, la motivazione all’agire pro-sociale è attivata dall’incontro tra cultura solidale e percorso personale, si pone come cruciale la diversificazione delle opportunità e delle modalità di impegno e contemporaneamente la cura della relazione

in un percorso -che si delinea sempre più come processo di ricerca di sé, di conferma e di cambiamento- nel quale non si dà separazione di senso tra esperienza individuale e esperienza collettiva/comunitaria.

Il tema della comunicazione si amplia allora dagli strumenti e dalle tecniche alle pratiche e ai significati.

Ci sembra possa essere utile alla nostra riflessione il mettere in relazione la situazione di chiusura relazionale emersa in alcune associazioni (di tipo tradizionale, e con forte accento sulla gerarchia adulto/giovane) con quanto evidenziato in alcuni studi sul funzionamento organizzativo. Essi dimostrano che il coinvolgimento degli individui nell’organizzazione è correlato con l’importanza che essi sentono di avere per l’organizzazione stessa, con il grado di coinvolgimento con gli altri membri, con la condivisione degli obiettivi, con la presenza di prassi di co-decisione e con la qualità delle relazioni.

Pertanto appare oggi assodato che lo svolgimento cooperativo di attività di comune interesse richieda un clima associativo (organizzativo) che consenta/preveda creazione e negoziazione dei significati e dell’identità di riferimento. Condivisione e spazi di imprenditività consentono di sviluppare il capitale sociale e culturale dell’organizzazione, di dare consapevolmente valore ad un agire comunicativo orientato alla formazione di senso, di comunità, di cooperazione e di comunicazione.

5. La comunicazione, i giovani e le associazioni

Ci sembra utile fare il punto sulle strategie di comunicazione adottate o desiderate dalle associazioni contattate.

«Adesso stiamo andando a parlare nelle parrocchie, e vengono anche dei detenuti». (3F)

«Dentro le scuole se ne parla, è un’opportunità per le associazioni. Noi associazione acquisiamo una risorsa motivata e la persona ha un esperienza e vive una realtà di servizio, un idea della realtà sociale. Hai

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passato un messaggio e hai fornito un informazione i giovani forse in passato non avevano informazioni, entrare nelle scuole e far si che sia possibile dare informazione su delle esperienze possibili, lavorare in maniera attiva con le scuole è importantissimo. Far vivere la disabilita, la tossicodipendenza nelle scuole, conoscere queste realtà, i giovani hanno voglia sono convinta di questo, abbiamo ragazzi che hanno appena fatto al maturità, non è vero che i ragazzi non hanno voglia bisogna metterli nelle condizioni di esserci». (2C)

Sembra prevalere la scelta del contatto diretto con i giovani, soprattutto adolescenti. Può essere una modalità di comunicazione interessante, efficace? Come si è scelto questa modalità, in base a quali considerazioni ma anche a quali conoscenze? Cosa significa la presenza dell’utente? Punta sull’emozione e sull’eccezionalità dell’incontro? Come si inserisce questa comunicazione in uno spazio (scuola, parrocchia, ecc.) già ad alta intensità comunicazionale? Le istituzioni, le associazioni di disagio, le associazioni sportive, le associazioni culturali... Sono molti gli attori che oggi fanno comunicazione in questi spazi alimentando quell’eccesso di informazione di cui tanto si parla.

Una considerazione può essere utile per la riflessione: il secondo brano di intervista riportato sopra (2C) accenna all’importanza di “lavorare in maniera attiva nelle scuole”: è sul termine “attiva” che varrebbe la pena di soffermarsi a riflettere per progettare nuove azioni di comunicazione.

Associazioni di generazione recente più ‘naturalmente’ si sono attrezzate dal punto di vista della comunicazione di tipo informativo che diventa uno strumento mirato e consapevole per suscitare interesse ma anche per selezionare il volontario in funzione di desiderati requisiti come l’età, il profilo (per lo più studenti universitari):

«L’associazione è piuttosto rigida sulla selezione dei volontari, un po’ perché, occupandosi di prostituzione, continua a attirare persone che vanno in cerca di forti emozioni,... e quindi abbiamo avuto anche alcuni problemi con i volontari e abbiamo creato un dispositivo di volontari e di informazione, non è un corso è un percorso perché è giusto che la persona sia preparata a ciò che trova in strada e in comunità.

Ciononostante anche noi abbiamo nuovi problemi sulla lungimiranza dei volontari, per vari motivi... i problemi sono di vario ordine... I dispositivi comunicativi per attirare i giovani sono tanti e abbiamo cercato di affinarli, c’è uno sforzo da parte nostra di crearne sempre di nuovi. Siamo partiti con incontri nelle parrocchie, gruppi scout, mettendo in chiaro che l’età poteva essere un problema, funziona anche per noi il passaparola... in passato... non facevamo molta pubblicità, promozione, avendo poi allargato l’attività ad altri target abbiamo cominciato a farla. Tra i dispositivi comunicativi più nuovi da quest’anno abbiamo avviato un percorso culturale, collaborazioni con personaggi dello spettacolo e della cultura che hanno più riverbero di noi, il primo è stato Marco Paolini, adesso faremo uno spettacolo con Paolo Rossi.. questo per veicolare una serie di messaggi ma con il tempo per far conoscere anche l’associazione e attirare persone». (8F)

Altre modalità puntano, sembra con un certo successo, al coinvolgimento diretto in iniziative che diventano occasione per i giovani di mettere in campo delle loro abilità o interessi espressivi, la musica piuttosto che il teatro o la danza, I giovani non vanno “pensati” ma riconosciuti nelle loro diversità che esprimono anche motivazioni all’azione diverse, le quali fanno sì che si possano incontrare utilizzando canali e strumenti differenziati.

«Questi gruppi, alla fine […] succede che hanno imparato qualcosa e questo qualcosa che hanno imparato forse hanno anche il piacere di esibirlo agli altri, e per esibirlo agli altri deve anche dare disponibilità, tempo, preparazione […] Ma allora questo volontariato che viene i giovani che fanno volontariato in questa maniera lo fanno collettivamente, non è che va una persona…per esempio, non so…fa una festa per gli handicappati…allora questi poveretti… […]

È questo il nostro orientamento, Perché abbiamo inventato queste scuole […] allora facendo queste scuole li hai in casa e questi che fanno la manifestazione, che gli diciamo “dai vieni qua, vai”…è sempre un volontariato. E questo secondo me è il modo più semplice e anche più appagante per i giovani, non gli fai neanche una fregatura, perché lui si stanca, segue, lavora, impara e dopo produce. Quello

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che produce, fa compagnia agli altri, e ha la sua soddisfazione. Ecco, questo secondo me, è quello che succede nel mio territorio. […] Nei territori di qua, facendo così, ci sono dei ragazzi giovani che hanno ballato, cantato…e anche questa è una forma di volontariato. Siamo agli inizi, magari ti si iscrivono in 10 poi magari un domani li perdi per la strada e ne restano 3-4, poi l’altro anno 10…poi dopo 3-4 anni hai il tuo gruppetto. […] E anche da questa esperienza... non so, abbiamo invitato anche il Gruppo musicale degli Angeli. Anche questo è nato così, anche loro hanno fatto qualcosa per non guardare sempre la tv; un tizio ha detto “dai, vi insegno a suonare la chitarra”, e allora un anno, dopo un anno, anche lui aveva 10, poi 2 poi 10 e dopo 3-4 anni quei 3-4 rimasti hanno fatto il gruppo degli angeli, perché vengono da S. Angelo, e quelli vanno in giro a cantare gratis, e non è volontariato, cos’è? Perché dopo 2-3 anni che hanno imparato questa cosa, la mettono a disposizione degli altri…è un tipo diverso di volontariato che non andare, non so, a chiedere all’anziano “vuoi che ti lavo la pentola?» (1C)

Alla luce delle problematiche emerse dalle interviste (che trovano conferme nella letteratura di settore) non può bastare la ridefinizione dei contenuti o degli strumenti della comunicazione del volontariato che si rivolge ai giovani; sembrerebbe opportuno ampliare il campo a quella fase di riflessività che precede ed accompagna la programmazione di una comunicazione efficace:

» una riflessione a monte sulla propria identità e sulla propria immagine (attesa, percepita e diffusa) tanto come singola associazione quanto come soggetto collettivo;

» una maggiore consapevolezza degli effetti che l’affollamento di attori comunicativi nella sfera pubblica produce in termini di ricezione e di comprensione dei messaggi diffusi;

» la produzione di comunicazione che non sia mera riproduzione di modalità comunicative note o consuete oppure proposta pre-confezionata da esperti, ma frutto di un progetto esplicito e condiviso che di volta in volta aiuterà a stabilire obiettivi reali, destinatari, contenuti, strumenti e canali;

» la creazione di spazi di riflessività-ascolto che utilizzino il

monitoraggio e la valutazione delle (proprie) strategie di comunicazione quali occasioni per mantenere attivo lo sguardo sull’insieme delle problematiche e delle dinamiche interpersonali e sociali.

Il fatto che ci si occupa di “buone” cause non garantisce di per sé nulla in termini di efficacia della comunicazione, tanto più se consideriamo con il dovuto peso, come già sottolineato, l’affollamento di concorrenti che pongono ai destinatari la necessità di scegliere. Non va, per esempio, in questa direzione sottovalutata l’influenza dell’agenda dei media che con i temi “esplosi” in toni che fanno leva sulle emozioni indirizza i pubblici più esposti a tali modalità comunicative verso temi e azioni.

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ALLA RICERCA DI NUOVE ARCHITETTURE COMUNICATIVE

Obiettivo dell’indagine esplorativa20 è stato l’individuare aspetti significativi, utili a stabilire se è possibile una comunicazione sociale (se sì, con quali modalità) che sensibilizzi maggiormente i giovani al tema del volontariato e incentivi la loro disponibilità ad entrare in contatto-impegnarsi in associazioni che si occupano di disagio. L’intento è stato quello di esplorare diverse possibilità di comunicazione a partire dai maggiori risultati dell’indagine, che verranno presentati di seguito.

Il tema è stato approfondito ricercando le rappresentazioni che giovani e adulti hanno del fare volontariato e dell’essere volontari. Poiché le rappresentazioni sono sistemi simbolici con la funzione di fornire codici per lo scambio sociale, abbiamo ipotizzato che la loro esplicitazione potesse consentire di rilevare quegli elementi di vicinanza e di lontananza che possono aiutare a circoscrivere le possibilità e le eventuali ragioni delle difficoltà di una comunicazione efficace.

Per questo si è scelto di partire dalle esperienze nella singolarità delle biografie per ricercare i significati che gli individui danno alle proprie azioni, alle scelte e alle incertezze o alle ambivalenze, sapendo che tali significati non sono mai dati una volta per tutte perché nella rielaborazione del proprio vissuto ciascuno si confronta con i propri limiti, acquisisce nuove consapevolezze e può aprirsi a nuove possibilità.

Di seguito presentiamo quelli che a nostro parere sono i risultati più significativi della ricerca suddivisi per i tre gruppi di intervistati; premettiamo tuttavia quelli che possono essere considerati dei punti “in comune”, rintracciabili in tutte le interviste e sono:

Significati. La mancanza di una definizione univoca del significato di volontariato. Non solo differisce tra volontari e tra rappresentanti di associazioni, ma anche tra i non volontari si nota una profonda confusione su cosa sia e cosa non sia il volontariato. A fronte di nuove possibilità, come per esempio il Servizio Civile remunerato o di esperienze che hanno comportato piccoli rimborsi spesa, volontari

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e non volontari sembrano non aver chiaro se e come collocarle nell’esperienza di volontariato che nella sua rappresentazione ideale utilizza il concetto di gratuità (peraltro non unanimemente condiviso) come fondativo e distintivo.

Linguaggio. Strettamente connesso al punto precedente, è la mancanza di un linguaggio comune, e di conseguenza di un soggetto collettivo identificabile e chiaro che rappresenti il volontariato. Oltre al concetto cui abbiamo accennato nel punto precedente di gratuità, altri significati non condivisi o non esplicitati riguardano il suo essere: - situazione e contesto di costruzione identitaria (incontro/confronto con l’altro, ma anche sperimentazione di competenze e abilità);- opportunità di sviluppare conoscenze e competenze professionali in vista delle future scelte di ambito occupazionale;- risposta a un bisogno di cittadinanza attiva;- risposta a un bisogno di sentirsi utili e riconosciuti;- opportunità per soddisfare bisogni espressivi soggettivi.

Rappresentazioni. Il volontariato viene rappresentato come un universo di valori e una scelta di campo, ma questa rappresentazione rischia di renderlo un “oggetto” troppo lontano dalle incertezze e dalle ansie per il proprio futuro dei giovani. Nelle testimonianze raccolte la possibilità di avvicinare i giovani al volontariato sembra passare anche attraverso la possibilità di renderlo facilmente esperibile anche per coloro la cui motivazione fosse debole o temporanea, o il tempo a disposizione fosse limitato.

Generazioni 1. Altri temi introducono al rapporto intergenerazionale adulti/giovani, questione rilevante dato che la maggioranza delle associazioni di disagio sono rappresentate e gestite da persone adulte. Emerge un senso comune sui giovani che a nostro parere è, almeno in parte, dovuto alla difficoltà degli adulti di rimettersi in gioco rispetto a cambiamenti avvenuti nelle sfere dei valori e dei comportamenti in una società molto mutata. Un cambiamento che si rende più visibile negli stili di vita dei giovani, e che comporta altre dinamiche e domande identitarie.

Generazioni 2. Appare la rappresentazione di un mondo giovanile percepito come opaco rispetto a valori sociali inclusivi e ai problemi sociali come qualcosa che li riguarda. Questa visione della condizione

giovanile ha disegnato un preciso modo di pensare pregiudiziale che riguarda trasversalmente un po’ tutti gli aspetti della interazione giovani-società, che spesso viene sintetizzata con espressioni quali: egoismo (altra faccia della retorica del dono come se questo esprimesse un valore univoco, e per definizione ‘buono’) e assenza di civismo, che spiegherebbero l’incapacità del giovane di impegnarsi con continuità, generosità e assunzione di responsabilità in una relazione di aiuto.

Generazioni 3. Dal punto di vista dei giovani appare una ridefinizione di coordinate con ‘effetti’ sulle modalità dell’appartenenza a gruppi e associazioni che interessano e coinvolgono a condizione che consentano esperienze in grado di soddisfare una doppia esigenza: sociale (interessi culturali, politici, solidaristici-assistenziali) e personale (sperimentare sé nel mondo, mettersi alla prova, accogliere un sfida). È nell’esperienza stessa che il giovane si mette in gioco, e non solo rispetto all’obiettivo o scopo finale.

Le appartenenze assumono, inoltre, caratteristiche di molteplicità, di im-permanenza (temporaneità o riconferme) e di variabilità.

Diventa importante non solo ciò che si fa ma anche il come lo si fa. All’assunzione di impegni devono corrispondere caratteristiche di autonomia, di espressione di sé, di esplorazione delle possibilità: l’esperienza deve essere vissuta come apprendimento.

L’azione è necessità di rispondere a un bisogno/desiderio e non solo espressione di adesione ad un sistema di valori socialmente ritenuti come positivi.

Generazioni 4. Un altro dei temi che appare riferito al rapporto tra giovani e adulti volontari riguarda le relazioni esperite dai giovani in momenti di partecipazione o di impegno. L’incontro con realtà di disagio apre inevitabilmente al rapporto con il dolore, con la sofferenza, e produce sentimenti di ansia e di inadeguatezza. Spesso i giovani rivelano di non essersi sentiti accompagnati dagli adulti in questo impatto.

Gli adulti sembrano avere abdicato a instaurare legami fondati sul riconoscimento delle competenze esperienziali, delle paure e delle emozioni, delle fragilità che attraversano e segnano i processi per cui le azioni si concretano.

C’è una notevole offerta di formazione volta a infondere conoscenze

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nel modo giusto di comportarsi verso i problemi diversi (tecnicismo). Gli adulti interpretano, generalizzando, la figura dell’esperto o si affidano ad esso. Il giovane sembra essere ricercato e utilizzato come risorsa lavoro (apprendistato) più che protagonista all’interno di una relazione.

I giovani non impegnati

Comunicazione. Al di là del servizio civile (spot televisivi) e delle campagne di fund raising (i banchetti o i grandi appelli televisivi) i giovani non ricordano le campagne di comunicazione fatte da organizzazioni di volontariato o a favore del volontariato. Una ipotesi plausibile è che la pubblicità del Servizio Civile richiami l’attenzione soprattutto per le sue qualità di esperienza che consente di rispondere a una pluralità di interessi (formazione, esperienza solidale, piccolo guadagno ecc.).

Accesso. Appare un generale disorientamento che porterebbe i giovani a fare affidamento per lo più sulle reti amicali o parentali. Ma il passaparola di questo genere non sembra abbastanza forte da attivare la latenza dell’impegno.

Latenza. C’è un potenziale dei giovani che domanda solo di essere attivato. I giovani si impegnerebbero se trovassero le forme più consone alla fase del loro corso di vita. Alcune organizzazioni vi si adeguano -con la flessibilità dell’impegno richiesto-, altre no, ma i giovani non lo sanno.

Immagine. L’immagine del volontariato è molto sfumata, si confonde con il fund raising e con il Servizio Civile, è stereotipata, risente di un’impronta ritenuta moralistica (pietismo, buonismo).

Paura e senso di colpa. I giovani trovano una barriera all’impegno nella paura non solo di non essere all’altezza dei compiti che li aspetterebbero, ma soprattutto di non saper reggere le emozioni che si potrebbero scatenare nell’incontro con l’altro da sé.

Vocazione. L’immagine del volontariato è stereotipata, nel senso che viene considerata una vocazione, per cui ci vuole una certa

indole, disposizione d’animo, bontà. Si tratta non solo di un alibi per tirarsi fuori da un impegno per cui non ci si sente all’altezza, ma soprattutto di un’immagine di esclusività che viene alimentata. Togliere l’aura di esclusività significherebbe togliere una barriera simbolica all’accesso.

Tempo. Il tempo del volontariato è strettamente connesso nell’immaginario con il tempo del lavoro e non con il tempo del loisir (tempo libero). È tempo non retribuito, ma non rientra nel tempo dedicato a se stessi, almeno come idea.

Rappresentazioni. L’idea del volontariato è costruita sulle rappresentazioni mediate, le esperienze proprie, le esperienze di terzi (amici, familiari). Ne deriva una rappresentazione sfumata, ancorché sostanzialmente positiva.

I giovani impegnati

Identità. Il volontariato è vissuto come un tassello importante del percorso personale di costruzione dell’identità. Un giovane si trova ad assumersi responsabilità, a confrontarsi con altre cornici di cui altrimenti non avrebbe esperienza e questo fatto è centrale nella definizione del sé anche se non esclusivo (vi è spesso contemporaneità con esperienze di impegno in altri ambiti).

Esperienza. Il volontariato è un’opportunità di conoscere e di incontrare altre persone con cui avere uno scambio. La scelta è significativa nella demarcazione della propria autonomia anche rispetto alla famiglia o a cerchie di prossimità.

Viene inoltre evocato come problema o come risorsa (dipende se l’esperienza l’ha consentito o meno) il fatto che consenta l’acquisizione di competenze utili in ambito lavorativo. Tant’è che, qualora sia positivo, diventa ipotesi professionalizzante, obiettivo per il lavoro futuro.

A volte è già chiaro il campo di interesse, altre volte è il partecipare ad una esperienza sul campo che fa fare il “collegamento”, che sembra traghettare più facilmente verso la scelta di essere volontario.

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Accettare l’esperienza è mettersi in gioco, sentire quel tanto di sicurezza in sé che rende possibile esperire e sperimentarsi in un campo diverso dal noto. Entrare insomma in altri codici.

Partecipazione. Emerge non solo l’esigenza di un impegno espressivo ma anche di autonomia di iniziativa e di responsabilità: spazi di ascolto e spazi di imprenditività aperti a nuove proposte, a nuove visioni che i giovani possono portare. Appare un’esigenza di impegno più espressivo, di autonomia di iniziativa e di responsabilità.

Fasi di impegno si possono alternare con fasi di disimpegno, il ri-aggancio sembra avvenire sul riconoscimento di un ruolo e di una competenza, oppure sull’incontro tra il modo di essere di un’organizzazione e i propri interessi.

Il problema “organizzazione” si accentua nelle associazioni più grandi, che hanno al loro interno anche dipendenti; si crea una gerarchia decisionale e il volontario è come se appartenesse un po’ meno, o in maniera differente, all’organizzazione stessa.

C’è la sensazione di essere talvolta sotto-utilizzati rispetto alle proprie capacità o ai progetti possibili di sperimentazione di nuove modalità o attività. Laddove è possibile, allora, il giovane sceglie la relazione personalizzata (il contatto diretto con l’utente) che poi è l’aspetto che più interessa e motiva una parte dei giovani volontari dell’impegno solidale oppure si creano o cercano altri tipi di associazioni più garanti sotto questi aspetti.

La partecipazione non può assumere i caratteri dell’omologazione, e neanche diventare legame troppo vincolante o esclusivo. Quindi si ricerca un impegno che preveda flessibilità, possibilità di conciliare altri impegni della vita. Il che potrebbe portare a rivedere le tipologie dell’offerta di attività volontarie, articolandole in modalità flessibili e in tipologie di azioni modificabili nel tempo.

Tempo. Il passaggio dalla scuola superiore agli studi universitari sembra rendere problematica la prosecuzione dell’esperienza maturata ad esempio negli scout o nelle parrocchie. Gli impegni si moltiplicano e la gamma di opportunità di attività, di interessi e di problemi si amplia.

Tuttavia, non appare un allontanamento vero e proprio ma piuttosto un cambiamento di modalità, una sorta di personalizzazione dell’impegno e/o una diversificazione degli ambiti di azione. La

questione tempo deve essere affrontata in termini di flessibilità, di spazi di auto-organizzazione.

Passaggi. L’attivazione dell’impegno si basa su canali istituzionali, collegati al percorso di formazione e professionalizzazione: lo stage oppure il servizio civile. Sembra prevalere l’attivazione tramite comunicazioni di tipo informale-relazionale in cerchie sentite più vicine, amici per lo più, e il coinvolgimento avviene tramite passaparola.

Si rimodellano forme e tempi dell’impegno di precedenti esperienze associative ma accade che si mantengono relazioni, anche frequenti, con le persone di cui ci si era presi cura durante l’impegno strutturato.

Condivisione. Sfida, prova, paura, disagio: parole che accompagnano i primi tempi della scelta di fare volontariato e i primi tempi dell’esperienza. Emerge la mancanza di momenti di condivisione, all’interno dell’associazione, delle immancabili difficoltà che si incontrano, che vengono superate il più delle volte singolarmente.

Un altro elemento di critica nei confronti dell’associazione di cui si è fatto esperienza riguarda il livello di impegno richiesto che alle volte travalica le proprie aspettative o quello che era stato pattuito in precedenza.

I giovani distinguono chiaramente nel raccontare le loro esperienze tra livelli diversi di relazioni: c’è lo scambio asimmetrico tra chi (l’adulto) è già esperto ed ha la funzione di trasmettere i confini di legittimità dei comportamenti (dà “la dritta”), c’è lo scambio di reciprocità nella relazione con gli utenti, e lo scambio di sostegno e rassicurazione o di condivisione con altri giovani volontari.

Avvicinare i giovani. Il suscitare interesse va di pari passo col rendere percettivamente fattibile, conoscibile e reversibile l’esperienza.

La giovane risorsa non è il replicante di un modello che funziona per gli adulti e che è comunque frutto di quelle che sono state le loro esigenze ed esperienze.

Lo stage o il Servizio Civile sembrano avere un ruolo importante, consentono di far combaciare esperienza di volontariato e motivazione, aspirazione, investimento professionale o di formazione; sono opportunità per utilizzare le proprie conoscenze e competenze o avere l’occasione di precisare meglio il proprio orientamento.

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I giovani sembrano avere preferenza per un volontariato che riconosce essere reciprocità, opportunità per sé e possibilità di mettere insieme diversi ambiti di interesse.

Appare la necessità di distinguere tra le finalità dell’azione e l’identificazione con la struttura dedicata all’azione: quello che crea legame è “lo spirito di fondo” (proporre un’azione o proporre l’appartenenza?).

Si tratta di :» riconoscere gli stereotipi che fanno del volontariato qualcosa di distante perché eroico e ripensare anche il modo in cui rappresentiamo la relazione volontario/destinatario;» valorizzare le opportunità che collegano formazione per sé e impegno solidale;» creare maggiore circolarità delle informazioni, visibilità dei luoghi nelle quali queste informazioni sono depositate.

Le associazioni

Poniamo una domanda, volutamente provocatoria: “cosa chiedono gli adulti volontari ai giovani? Quale tipo di collaborazione? I giovani sono visti come “risorsa lavoro” o come “risorsa persona”, occasione per aprire a nuove dinamiche, potenzialità nonché energie?

I giovani. Viene genericamente riconosciuto il problema della diminuzione dell’impegno, ma rimane a livello di constatazione, non innesta domande nuove, ci si chiude negli stereotipi e il problema non diventa molla per il cambiamento.

Un’argomentazione comune anche se controversa è: “i giovani non hanno voglia di fare volontariato, cercano lavoro, esperienza”, come se ineluttabilmente sia data incompatibilità tra le due dimensioni e l’interesse per un impegno solidale debba escludere la compresenza di altro tipo di interesse, quello professionale, per esempio, o di acquisizione di competenze.

L’esperienza associativa, nei fatti, non sembra vista come

opportunità che avvicina maggiormente l’esperienza ai “bisogni” anche socialmente definiti dei giovani.

La percezione delle difficoltà di reclutamento di giovani può essere pertanto vista in maniera stereotipata. È infatti talmente noto che questo problema va riferito a caratteristiche conosciute dell’essere giovani nella società attuale, oppure a contingenze dovute alle esigenze proprie alle diverse fasi della vita che, in un caso come nell’altro, la causa viene stigmatizzata nella prevalenza di valori di tipo individualistico, cosicché non ci si sofferma per riflettere se ci fosse qualcos’altro da prendere in considerazione per definire il problema stesso.

Questa tendenza a non esplorare il tema del reclutamento di volontari con chiavi di lettura più ampie non consente di affrontare strategicamente anche un altro problema, quello della permanenza nel tempo dei giovani volontari. Lo scambio si appiattisce a livello di stereotipi o di malumori poco esplorati che talvolta possono logorare nel tempo la motivazione a continuare.

Il problema della im-permanenza dei volontari viene generalmente spiegato con problemi di disponibilità di tempo (lavoro, formarsi della famiglia…). Appare poco esplorata la possibilità che vi possa essere una compresenza tra una minore disponibilità di tempo e altri fattori di tipo emozionale quali, per esempio, lo stress da emergenza, o da contatto con persone in gravi condizioni, eccetera.

Ascolto. Manca la dimensione della riflessività rispetto alla mission dell’associazione e ai percorsi personali condotti dai responsabili. Si chiede troppo ai giovani, si chiede che siano come loro sono stati.

Riconoscere le cornici che ciascuno mette in campo può consentire di trovare soluzioni e modalità innovative ai problemi, introducendo parzialità, flessibilità e aprendo a nuove forme di cooperazione e di comunicazione. Ascoltare e ascoltarsi.

Significati. Non c’è condivisione di significati né per quanto riguarda l’idea di volontariato né per quanto riguarda la questione della gratuità. Se a livello di soddisfazione personale la remunerazione consiste in una ricompensa simbolica, la possibilità di prevedere una qualche forma di ricompensa economica o di tipo professionale divide ancora all’interno delle associazioni anche se alcuni riconoscono,

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come vedremo più avanti, che a causa della quantità di impegno richiesto diventa sempre più difficile trovare disponibilità.

Si ha l’impressione di uno scarto forte tra un modello ideale e un modello reale che nella vita associativa di tutti i giorni cerca e sperimenta forme nuove di gestione e di collaborazione.

Il volontariato non esprime dunque una cultura omogenea, e sono presenti diverse componenti motivazionali in coloro che già lo praticano con continuità e da tempo.

Ma se i discorsi sono contradditori, quanti messaggi diversificati sul volontariato arrivano ai giovani e più in generale al pubblico degli esclusi dall’esperienza volontaria se gli stessi “protagonisti” non si riconoscono più in un codice simbolico e semantico condiviso?

Il riconoscere significati multipli potrebbe invece aiutare a circoscrivere orientamenti diversificati dell’azione collettiva aprendo a una molteplicità di sensibilità, il che renderebbe più consueto, diffuso, relazionarsi al giovane volontario.

Formazione. La formazione appare piuttosto diffusa; si presenta come un percorso articolato ma per lo più orientato all’apporto di conoscenze tecniche. Si trova conferma di quanto emerge nella letteratura sul volontariato, sta a dire la mancanza di una concezione della formazione come possibilità di rielaborare le esperienze, le relazioni e le conoscenze acquisite, attraverso modelli interpretativi che supportino i giovani e con forme di supervisione che li aiutino a crescere.

Un cambiamento di dinamiche relazionali nell’organizzazione potrebbe aiutare a articolare il volontariato come un mondo con molte possibilità, con diversificazione delle opportunità e delle modalità di impegno, delineandolo come un processo (di ricerca di sé, di conferma e di cambiamento) nel quale non si dà separazione di senso tra esperienza individuale ed esperienza collettiva/comunitaria.

Come già evidenziato nel quarto capitolo, non può bastare la ridefinizione dei contenuti o degli strumenti della comunicazione, bensì sembrerebbe opportuno ampliare il campo a quella fase di riflessività che precede ed accompagna la programmazione di una comunicazione efficace:

» una riflessione a monte sulla propria identità e sulla propria immagine (attesa, percepita e diffusa) tanto come singola associazione quanto come soggetto collettivo;» una maggiore consapevolezza degli effetti che l’affollamento di attori comunicativi nella sfera pubblica produce in termini di ricezione e di comprensione dei messaggi diffusi;» la produzione di comunicazione che non sia mera riproduzione di modalità comunicative note o consuete oppure proposta pre-confezionata da esperti, ma frutto di un progetto esplicito e condiviso che di volta in volta aiuterà a stabilire obiettivi reali, destinatari, contenuti, strumenti e canali;» la creazione di spazi di riflessività-ascolto che utilizzino il monitoraggio e la valutazione delle (proprie) strategie di comunicazione quali occasioni per mantenere attivo lo sguardo sull’insieme delle problematiche e delle dinamiche interpersonali e sociali.

Alla ricerca di nuove architetture comunicative

La comunicazione delle organizzazioni di volontariato si muove su un doppio binario: da una parte le campagne pubblicitarie (che però sono a portata delle organizzazioni di maggiori dimensioni e appeal) finalizzate per lo più alla raccolta di fondi o alla promozione di immagine, utilizzando gli strumenti di marketing e con toni che ricorrono all’impatto emotivo. Dall’altra parte una fitta rete di iniziative a livello territoriale (incontri, eventi, iniziative varie) che privilegiano il contatto territoriale al fine tanto di richiamare l’attenzione delle istituzioni quanto di far crescere una maggiore sensibilità/consapevolezza nei cittadini.

Non mancano le iniziative di comunicazione ma ne viene poco misurata l’efficacia rispetto agli obiettivi che le generano; spesso le iniziative di comunicazione non sono costruite in modo tale da prevedere un feed back sulla loro efficacia soprattutto se di medio termine, e non sappiamo pertanto se e come le iniziative di sensibilizzazione, per esempio nelle scuole, producano realmente il risultato desiderato. Molte associazioni, come abbiamo visto anche nel nostro piccolo

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campione, si orientano sempre più in questa direzione rischiando di rendere totalmente inflazionato lo strumento e quindi creando una opacità verso i contenuti che neutralizza qualsiasi possibilità di ricezione del messaggio.

I giovani vanno cercati, coinvolti, senza pregiudizi; se il contatto diretto o il passaparola sono le modalità comunicative più efficaci non si dia per scontato che sia la narrazione delle esperienze ad attirare; il passaparola deve diventare comunicazione intenzionale, strategica.

Sembra che il suscitare interesse debba andare di pari passo col rendere percettivamente fattibile, conoscibile e reversibile l’esperienza. Il “contatto” può accadere più che per canali di tipo pubblicitario con il coinvolgimento diretto; eventi, corsi, feste, esperienze brevi collegabili ad altri interessi del giovane:

E il passaparola può essere visto tanto in una prospettiva negativa quanto in una positiva. Negativa, perché rischia di rimanere chiuso in particolari cerchie e questo andrebbe a svantaggio dell’esigenza di toccar il maggior numero di giovani per maggiori probabilità di risposta. Positiva, perché potrebbe essere un modo di preselezione laddove non conta contattare tanti giovani ma arrivare già a quel cerchio di giovani che hanno maturato una certa sensibilità verso il problema.

Se la comunicazione è costruzione di condivisione di significati deve essere progettata sapientemente, per tenere conto delle conoscenze e delle aspettative di cui i soggetti ai quali ci si rivolge sono portatori. Darsi una “strategia comunicativa” significa quindi conoscere le rappresentazioni sociali che orientano le attribuzioni di significato e la rilevanza che soggettivamente viene data ai temi e ai problemi posti e che segnano il percorso di decodifica dei messaggi.

Il senso comune è la modalità con cui tutti entrano in relazione con gli altri e implica il “dato per scontato”, pregiudizi e stereotipi, ma non è immutabile e non è lo stesso per tutti; esso varia a seconda dello status di appartenenza e del capitale culturale degli individui e in quanto costrutto sociale non è immutabile ma è ricostruibile.

La definizione dei contenuti comunicativi in grado di supportare nuove esigenze e dimensioni presuppone, abbiamo già sottolineato, la chiarezza nell’organizzazione (sulle ragioni della comunicazione, sulle

dimensioni dei problemi, sui risultati che si vogliono conseguire, sugli strumenti posti in essere per gestire il risultato, ecc.). Ma necessita contemporaneamente di una approfondita conoscenza dei propri destinatari, propedeutica alla definizione delle modalità di produzione e di veicolazione.

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NOTE

1 Avere dei pre-giudizi discende dal fatto che dipendiamo per il nostro conoscere dagli effetti di innumerevoli ‘giudizi’ passati che, scrive Jedlowski, “non possiamo fare a meno di accogliere come parte della nostra cultura, e che funzionano per noi come dei presupposti, […] che danno forma alla nostra realtà prima ancora che ci accorgiamo di interpretarla” (Jedlowski 1994, 30).

2 Jedlowski definisce il mondo-della-vita un concetto limite. Il mondo qui significato è la “sfera vitale in cui il soggetto è inserito prima che riflessivamente, e innanzitutto, sensibilmente e praticamente. Il mondo-della-vita è il mondo che precede ogni categorizzazione della realtà. È ciò a cui tanto il senso comune quanto il pensiero riflessivo, o la scienza, o infine ogni “significato” o ogni “storia”, in ultima analisi si riferiscono. Ma è anche ciò che non può mai essere descritto esaustivamente: è il mondo del senso” (Jedlowski 1994, 155).

3 Elaborazioni secondarie su dati ISTAT 1998, indagine Multiscopo.4 Ringraziamo Valerio Belotti per averci portato a riflettere sulla

parzialità dei dati sintetici disponibili. Dobbiamo inoltre tenere conto che la fascia di età presa in

considerazione dall’ISTAT per la popolazione giovanile è più ampia (15-29) di quella considerata per la nostra indagine (18-26). Ci sembra tuttavia possa essere di un certo interesse introdurre una lettura dei dati che conferma l’opportunità di riflettere sulla percezione del problema “rapporto giovani e volontariato” anche in una dimensione di dinamiche intergenerazionali.

5 La civicness, o impegno civico, viene definita come l’espressione di quelle “virtù civili” che contribuiscono al riconoscimento e al perseguimento del bene pubblico, anche a scapito di interessi esclusivamente individuali e privati (Sciolla 2004, 30).

6 Si tratta di un lavoro di ricerca sulla cultura civica organizzato in due parti. Nella prima parte si confronta l’Italia con altri paesi in un arco temporale di vent’anni sulla base dei dati forniti dall’ European Values Surveys (Evs) e della World Values Survey (Wvs), integrati con i dati Eurobarometro. La seconda parte si riferisce ad un’indagine nazionale

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(periodo 1999-2000) promossa dal Consiglio italiano per le Scienze sociali su un campione rappresentativo di sei realtà locali (Caltanissetta, Milano, Modena, Teramo, Torino, Vicenza).

Nell’esplorare il problema della disaffezione dei cittadini nei confronti della qualità della vita democratica, di cui una delle conseguenze è la diminuzione della partecipazione politica, l’autrice si interroga sui fattori incentivanti o disincentivanti e richiama l’attenzione sui fattori culturali influenti. In particolare sottolinea come la stessa dimensione della sfera morale non sia omogenea e non garantisca una legittimazione sicura alle istituzioni democratiche. Per esempio, alcune configurazioni di valori, come il libertarismo morale (il diritto di scelta su tutto ciò che concerne la propria persona e che non leda la libertà altrui), costituiscono un forte incentivo alla partecipazione mentre altre, come lo spirito civico (rispetto delle regole e orientamento all’interesse pubblico) non producono lo stesso effetto di partecipazione (non hanno alcuna influenza significativa o si limitano a incentivarne le forme meno attive e impegnate). Elementi per riflettere sul fatto che spesso, come già accennato sopra, si dà per scontato che l’appello al civismo sia una delle strade efficaci per responsabilizzare i cittadini, e i giovani, all’assunzione di impegno attivo.

7 Con civismo si intende la dimensione riferita alla giustificabilità/ingiustificabilità di atti lesivi dell’intersesse generale e della legalità; significato affine a civility, comportamento retto e rispettoso della legalità, parte delle virtù politiche della cittadinanza (Sciolla 2004, 207).

8 Il libertarismo morale è riferito “alla giustificabilità/ingiustificabilità di comportamenti attinenti all’integrità della propria persona, e riferiti quindi ai diritti individuali di disporre di sé e della propria sfera privata secondo coscienza” (Sciolla 2004, 207).

9 Pensiamo sia oramai accettato da Weber in poi il fatto che non esiste una verità neutrale, ma che l’oggetto della conoscenza rientra in un campo di cui il ricercatore è egli stesso attore in quanto portatore di un proprio sistema di valori che influenza la lettura e l’interpretazione dei fatti a seconda dei punti di vista (ipotesi, quadri interpretativi di riferimento, eccetera).

10 Ambrosini sottolinea che “la single issue può rendere relativamente indifferenti e talvolta ostili nei confronti di altri problemi fino alla

concorrenza sulla distribuzione di risorse”, pubbliche e private quali le donazioni (Ambrosini 2005, 129).

11 La prospettiva che apre Sciolla parte dalla domanda su quali sono gli standard di cittadinanza attiva che ci poniamo. L’autrice, citando Dahl, sottolinea la necessità che tali standard non siano troppo elevati, che non richiedano eroismi o altruismi inattuabili nelle nostre società (Sciolla 2004, 9-10), offrendo una definizione di “cittadino adeguato” come un cittadino “buono abbastanza” di fronte ai cittadini occasionali, intermittenti, part-time.

12 Cfr. anche Leccardi 1999, 2000; Jedlowski 2000.13 Cfr. Frisanco 2004, 1 doc. 1.14 Le società rese complesse dalla differenziazione “si segmentano

in una serie di sfere, di istituzioni e di cerchie dotate ciascuna di saperi, pratiche e valori parzialmente dissimili fra loro. Ciascun membro di una società moderna non appartiene a una sola di queste, ma a una molteplicità di sfere che si intersecano. […] Il soggetto è costretto (di conseguenza) a riferirsi simultaneamente a una molteplicità di “sensi comuni” (Jedlowski 1994, 58).

15 Cfr. tra altri Pellegrini 2005, 52-53.16 L’intreccio fra fenomeni collettivi ed esperienza individuale è oggi

una chiave necessaria per capire ciò che accade, scrivono Fabbrini e Melucci 1992, 29.

17 Il riferimento è all’interpretazione di culture di Geertz (1998).18 Si tratta di una pratica osservata nelle cerchie amicali che iniziano

nell’infanzia: mentre i maschi tendono a creare un gruppo in cui il gioco è l’elemento centrale e la collaborazione al risultato e la competizione diventano i valori di riferimento, per le femmine invece è la diade la dimensione ideale di relazione che si struttura intorno alla condivisione, al contatto fisico, allo scambio emotivo (Thorne, Luria 1986).

19 Utilizziamo l’espressione “esclusi” nel senso dato da Volterrani, cioè di coloro che non condividono i valori e le scelte del volontariato. Di consuetudine gli esclusi sono i destinatari dell’azione del volontariato, e gli inclusi tutti coloro che non condividono direttamente esperienze di/con questa parte della società. Volterrani ribalta l’utilizzo dei termini, ritenendo - dal punto di vista dell’azione solidale organizzata - esclusi tutti coloro che non la accolgono, ri-conoscono (Volterrani 1999, 72).

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20 Ricordiamo che l’indagine è consistita nella somministrazione di interviste e focus group a tre differenti gruppi di soggetti: giovani impegnati, giovani non impegnati, rappresentanti delle associazioni.

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NEL MESE DI DICEMBRE 2005