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Comunità artistiche - L'esperienza di Weya e Tengenenge in Zimbabwe

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Lungi dal pretendere di fornire un quadro complessivo ed esaustivo su persone, ricerche e movimenti, questo documento intende porre l’attenzione su alcuni esempi che possono costituire un’interessante e originale interrelazione fra esperienza artistica e commercio equo e solidale.

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Nell’ambito dei nuovi movimenti mondiali contemporanei, l’arte

dello Zimbabwe rappresenta una delle manifestazioni più interessanti e

conosciute. Pietre, legno, metallo, tele, stoffe, stampe, sono alcuni dei

materiali che hanno ispirato alla pittura e alla scultura di questa terra

un cammino che ha abbondantemente varcato i confini nazionali e

continentali, per porsi all’attenzione in esposizioni e gallerie di tutto il

mondo. Sud Africa, Zambia, Stati Uniti, Australia, Regno Unito,

Danimarca, Olanda, Belgio, Germania, Francia e Italia sono alcuni

dei paesi che hanno ospitato, con successo di critica e pubblico,

rassegne personali e collettive legate alla nuova arte dello Zimbabwe.

Continua, quindi, quel processo di profondo rinnovamento artistico

iniziato nel paese cinquant’anni fa e proseguito dopo la

proclamazione della Repubblica dello Zimbabwe, nel 1980. Tre

generazioni di artisti, ormai, hanno segnato in modo forte e

irreversibile differenti percorsi culturali, innestandoli intensamente nel

tessuto sociale del Paese.

“Comunità artistiche. L’esperienza di Weya e Tengenenge

in Zimbabwe”, lungi dal pretendere di fornire un quadro

complessivo ed esaustivo su persone, ricerche e movimenti, intende

porre l’attenzione su alcuni esempi che possono costituire

un’interessante e originale interrelazione

fra esperienza artistica e commercio equo e solidale.

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Introduzione

Le decadi degli Ottanta e dei Novanta e i primi anni del nuovo secolo sono statimolto importanti e ricchi di sviluppi per l’arte dello Zimbabwe. Accanto alla crescitae alla definitiva consacrazione della scultura in pietra, grazie all’attività dellaNational Gallery of Zimbabwe e della comunità di Tengenenge, si sono posti all’at-tenzione del mercato internazionale alcuni pittori legati all’esperienza del BAT Wor-kshop, una scuola artistica legata alla stessa National Gallery e animata per moltianni da Paul Wade, laureato in Tecniche della tessitura e pittura di arazzi e pittoreegli stesso. L’attività del BAT ha rappresentato una sorta di alternativa agli scultori inpietra, valorizzando forme di espressione legate alla pittura. Nella seconda partedegli anni ’80, infatti, pittori come Fasoni Sibanda, Luis Meque e Never Kayovahanno cominciato a esporre con successo presso alcune gallerie di Harare. FasoniSibanda e Luis Meque, che condividono una pennellata di tipo espressionista, purcon tecniche e materiali differenti, si ispirano a scene legate alla vita quotidiana;Never Kayova predilige la pittura a olio su tela e i soggetti rurali, ritraendoli conuno stile più legato all’istante, quasi impressionista.

Un altro pittore degno di nota è Barry Lungu, pittore trentacinquenne che, guar-dando a Van Gogh, viaggia per le aree rurali del paese ritraendo paesaggi e per-sone dai vividi colori. Arthur Fata, suggestionato nel periodo della sua prima forma-zione artistica da Picasso e Matisse, si è rivolto successivamente a sperimentazionicon svariati materiali e a un linguaggio astratto.

Stanford Derere e Keston Beaton sono tra gli scultori più originali usciti del BATWorkshop: il primo rappresenta soprattutto animali (in particolar modo uccelli), trat-teggiati con un’estrema cura per i dettagli, oppure tematiche legate alla tradizioneShona (ad esempio, i rituali degli antichi guerrieri); Keston Beaton combina pietra,ferro e legno e altri materiali di recupero, costruendo soprattutto strumenti musicali.Tapfuma Gutsa è uno scultore della seconda generazione – attiva negli anniOttanta – particolarmente poliedrico e aperto a contaminazioni con alcune espres-sioni dell’arte europea: celebri i suoi volti, le visioni immaginarie e le sculture a fortecontenuto politico e sociale.

Nel panorama artistico femminile spiccano i lavori di Agnes Nyanhongo, scul-trice raffinata che sempre più sposta la sua ricerca dal mondo naturale a quello inte-riore, Colleen Madamombe, legata soprattutto alla rappresentazione della donnazimbabwana e Roselyn Marikasi, pittrice poliedrica dal tratto molto forte, in bilicotra figurazione e astrattismo.

L’arte al femminile vive uno dei capitoli più fecondi con l’esperienza delle donnedel villaggio di Weya, che, grazie a una singolare esperienza al limite tra accade-

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Introduzione

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mia, raffinato laboratorio artigianale e comunità autogestita, ha saputo individuareun’originale forma di comunicazione culturale e sociale, abbinando ai temi propridella tradizione Shona un forte messaggio di riscatto della condizione femminilenello Zimbabwe.

Un posto a parte merita la scultura in legno che, gravitando soprattutto intornoalla città di Bulawayo, nel sud del paese, costituisce un vero e proprio alter ego cul-turale e geografico al polo artistico della capitale Harare. Tra gli esponenti più signi-ficativi vanno ricordati Zephania Tshuma, artista della prima generazione – è natonel 1932 – dalle sculture lucide, colorate e umoristiche e Danson Mancini.

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L’arte delle donnedi Weya

1. Il contesto sociale di WeyaIl villaggio di Weya è posto 180 Km a est di Harare ed è situato in una delle più piccole Aree

Comunali del Paese. “Area Comunale” è un termine che cerca di ingentilire un doloroso retag-gio storico, quelle “Terre Tribali Fiduciali” o “Riserve dei Nativi” utilizzate dai governi razzistidella Rhodesia per segregare la popolazione nera: il nome è cambiato ma le condizioni dellepersone non hanno subito grandi mutamenti (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). Laprincipale fonte di reddito è ancora costituita dall’agricoltura, sebbene il ciclo climatico degliultimi due decenni, fortemente siccitoso, abbia causato notevoli problemi a questa tradizionalerisorsa economica. Non sorprende, quindi, che in molti nuclei familiari gli uomini cerchino unlavoro più stabile e redditizio nelle città, nonostante queste siano distanti centinaia di chilometrie poco preparate ad accogliere e gestire un flusso migratorio di portata sempre più ampia. Lalontananza, in molti casi, si traduce in vero e proprio abbandono, senza rimesse economicheda parte dei padri e dei mariti, che decidono di non tornare nei villaggi natii. Il ruolo femminile,di gran lunga il più importante nella vita quotidiana delle comunità dello Zimbabwe (e africanein genere), assume un ulteriore peso all’interno della famiglia, imponendo compiti ed emer-genze del tutto imprevisti. Questa situazione, negli ultimi trent’anni, ha avuto forti ripercussioniin numerosi ambiti della vita della comunità di Weya: non è casuale, infatti, che un centro di for-mazione professionale importante come quello gestito dalla “Mukute Farm Society”, rivolto inparticolar modo ad attività prevalentemente maschili, abbia dato origine, a partire dal 1987,all’esperienza del gruppo di donne di Weya, con un rovesciamento di ruoli e competenze sor-prendente, seppure di non sempre facile assimilazione da parte del tessuto sociale dell’interacomunità.

Il Centro di Formazione e la Mukute Farm Society

Per capire il significato del gruppo di donne di Weya occorre risalire all’inizio degli anniOttanta, quando Amon Shonge, presidente della Mukute Farm Society, decise di dare vita a uncentro di formazione permanente, con l’obiettivo di creare nuove competenze professionali.

«Fino a qualche anno fa, non avrei mai creduto di poter dipingere qualcosa chequalcuno sarebbe stato disposto a comprare. Quando mi chiedono dove lavoro,rispondo che sono un’artista. Ho scritto “Artista” sul mio passaporto. Quando mi reconella capitale Harare, i miei amici mi chiedono dove lavoro. Lavoro al mio villaggio,ma sono un’artista».

(Pittrice della comunità delle donne di Weya)

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L’arte delle donne di Weya

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Corsi di vario tipo, dalla carpenteria all’edilizia alla meccanica, pur non risolvendo il problemacomplessivo dell’eccessiva dipendenza dal reddito agricolo, furono in qualche modo in gradodi fornire nuove opportunità di lavoro, a beneficio quasi esclusivo della componente maschile.Le donne incontrarono forti difficoltà e resistenze, soprattutto a causa della concezione del ruolofemminile nella società Shona, tradizionalmente subalterno a quello dell’uomo. Le partecipanti,quasi esclusivamente indirizzate ai corsi di taglio e cucito, non godettero di eccessiva fortuna,essendo la sartoria artigianale ben poco concorrenziale nei confronti dell’industria tessile nazio-nale e di importazione. Accantonati alcuni altri possibili sbocchi, come l’artigianato in terra-cotta o la cesteria, abbastanza estranei alla tradizione locale e quindi di difficile differenzia-zione sul mercato, rimase come unica soluzione praticabile, accettata da tutte le donne, propriol’attività da poco intrapresa, seppure con forme di organizzazione in grado di conservare,migliorare e promuovere il patrimonio di conoscenze e creatività acquisito durante il corso.

Sul finire del 1987 Ilse Noy, insegnante d’arte e scrittrice tedesca presente in Zimbabwe daalcuni anni, iniziò a collaborare con la Mukute Farm Society, in modo particolare con AgnesShapeta, formatrice e docente del corso di sartoria. Ilse vantava un’esperienza di oltre tre anninella gestione di corsi di formazione legati in particolar modo al disegno e alla creazione dicapi d’abbigliamento, attività che aveva svolto soprattutto nella capitale Harare. Il trasferimentonella realtà rurale di Weya impose un repentino cambio di prospettiva nell’impostazione dellavoro, e sia Ilse come il gruppo di donne coordinato da Agnes, a partire dall’analisi deglierrori che portarono alla precedente fallimentare esperienza, decisero di muoversi in due dire-zioni distinte, sebbene strettamente dipendenti. La prima azione consistette nella conversionedei corsi di cucito a macchina in una serie di lezioni impostate prevalentemente sulla manualità,sul recupero di abiti usati e sull’approvvigionamento di materia prima, così da garantire inter-venti a livello di economia familiare sostenibili e compatibili con la disponibilità di tempo gior-naliera. Era ormai perfettamente evidente a tutte, infatti, come la produzione a telaio meccanicoavesse avuto un impatto piuttosto problematico sulla gestione quotidiana delle famiglie, senzagenerare un corrispettivo economico soddisfacente. A questa prima fase, che potremmo definiredi riduzione delle spese (intese in senso lato, dal tempo al costo della materia prima) ne seguìuna focalizzata in particolar modo sull’individuazione di prodotti in grado di generare reddito.

2. Forme ed espressioni dell’arte WeyaGli appliqués e le prime sperimentazioni artistiche

La soluzione si presentò, quasi per caso, sfogliando una pubblicazione dedicata agli “appli-qués” tradizionali del Benin (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). L’uso del termine“appliqué” è riferito a una composizione ottenuta cucendo su una base di tela, stoffa o panno,tessere di tessuto di vario colore e forma, fino a costituire un vero e proprio mosaico. Gli appli-qués sono utilizzati generalmente per impreziosire basi di tessuto o nella creazione di decora-zioni da muro, e richiedono una buona manualità in ogni fase della realizzazione, dal disegnodei modelli alla cucitura sulla base di tessuto. L’appliqué si distingue per la particolarità deimodelli e per prestarsi a realizzazioni “comunitarie” nelle tecniche di elaborazione e disegno.La struttura a collage, inoltre, consente l’uso di materiali tessili di svariata natura, dai più pre-giati ai più comuni e “poveri”, permettendo un notevole lavoro di riciclaggio della materiaprima. Un prodotto, quindi, particolarmente indicato per le donne della comunità di Weya e perle loro disponibilità di tempo e denaro. Il primo quadro costruito con tecnica appliqué fu “comu-nitario” per eccellenza e attirò la curiosità (ma anche la perplessità) di molte donne partecipantial corso. Si trattava, infatti, di trasferire sulla tela disegni, materiali e tecniche di cucitura locali,passando dallo “spirito” del Benin a quello di Weya. L’opera fu venduta con facilità e profitto,tra lo stupore quasi generale delle donne che l’avevano ideata. Uno dei segreti del successo fusenza dubbio l’immaginazione; se si eccettuano alcuni dipinti del Benin osservati direttamentesul catalogo, nessun libro o rivista aveva influenzato la fase di ideazione dei soggetti: una con-quista fondamentale per le donne di Weya, abituate a considerare praticamente nulla la lorosensibilità artistica. Si susseguirono presto altre realizzazioni, nel corso delle quali vennero affi-

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nate le differenti fasi della preparazione dei dipinti. La novità dell’artigianato di Weya assunsein breve tempo rilevanza nazionale, mutandosi in vera e propria espressione artistica. Un annodopo, la Galleria Nazionale d’Arte di Harare dedicò un’esposizione temporanea ad alcuniappliqués, con buona eco sulla stampa locale. Per le donne si trattò di un’affermazione improv-visa, con risvolti e ripercussioni del tutto inaspettati. Alcuni tabù della dimensione sociale diWeya, infatti, vennero clamorosamente infranti; le stesse neo artiste, che, in quanto donne,secondo la tradizione locale non avrebbero neppure potuto affrontare determinati discorsi, uti-lizzarono il nuovo mezzo espressivo per parlare liberamente di tutto. Se il soggetto o la fantasialo richiedevano, si poteva parlare dei segreti femminili, di storie d’amore e sesso, potevanoessere derisi gli uomini ubriachi, prepotenti e fannulloni, si dava voce ai racconti delle prosti-tute… L’arte Weya funzionava così da potente detonatore per fare esplodere preconcetti, con-traddizioni, meschinità e quotidiani soprusi.

Il primo appliquédell’originariogruppo di Weya.Tratto da “The art of theWeya women”di Ilse Noy - Baobab Books.

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L’arte delle donne di Weya

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I primi dipinti

Nel giugno del 1988, un anno dopo le prime sperimentazioni, circa sessanta donne lavora-vano in tredici gruppi differenti, sviluppando con fantasia ed evidente successo l’arte e la tec-nica degli appliqués. Tre nuclei, ognuno proveniente da villaggi diversi, decisero di orientarsidecisamente verso la forma del dipinto, elevandolo da semplice tappa per la realizzazionedegli appliqués a forma espressiva con propria vita e dignità. Per tutte fu necessario parteciparea un corso, così da acquisire la quasi totalità delle tecniche fondamentali del disegno e della pit-tura, nonchè l’utilizzo dei colori. Grazie all’assistenza di Ilse Noy, a poco a poco si formò ungruppo di venti donne, dalla cui ulteriore selezione ne emersero cinque in grado di proporre iprimi quadri da destinare al mercato delle gallerie. Il prezzo delle opere, stabilito collegial-mente, venne accolto favorevolmente nella capitale, tanto che, in breve tempo, furono vendutefacilmente. Nei mesi seguenti, il gruppo decise di passare dalla gestione comunitaria delleentrate alla remunerazione individuale, in base alle opere realizzate.

Nei tre anni successivi lo stile di pittura mutò sensibilmente, e non sempre in senso positivo.Un’importante novità venne mutuata dalla composizione degli appliqués: le tele cominciarono aessere suddivise in sezioni regolari, ognuna narrante una parte della storia. Successivamente, aquesta struttura “narrante” si preferì uno sfondo unico, in cui il senso cronologico fosse svelatoda differenti linee, punti e colori. Quest’ultima scelta si prestò, per un primo momento in mododel tutto inconsapevole, a una semplificazione degli stili e delle narrazioni: i dipinti divenneropiuttosto scontati, ricchi di elementi ripetuti, e quasi sempre rappresentavano poche storie “stan-dardizzate”. La reazione dei galleristi, immediata e fortemente critica, costrinse il collettivo a unprofondo ripensamento, generando un dibattito intenso e scelte profondamente diverse dalleprecedenti.

Il secondo periodo e la nuova pittura

La produzione in serie indusse parecchie artiste a riflettere sugli stili utilizzati e a ricercarenuovi elementi per comunicare attraverso i dipinti. Fonte di ispirazione fu, all’inizio del 1989, lavisione di alcune opere di Valente Malangatana – pittore mozambicano annoverato tra i piùgrandi artisti africani contemporanei – nella cui arte sono frequenti il dramma della sofferenza ela denuncia delle atrocità della guerra. Il tratto, che ricorda lontanamente Picasso (sebbene siaormai riconosciuto l’influsso che l’arte africana ebbe sul grande artista spagnolo, soprattutto nelperiodo giovanile) predilige gli oli dai colori forti: il rosso dei decenni passati e oggi, in tempodi pace, il blu. Sono frequenti, inoltre, i disegni dell’epoca della carcerazione (Malangatana fuun fermo oppositore, nel suo paese, della dominazione coloniale portoghese), spesso eseguiticon segni netti di inchiostro su cartoncino che lasciano pochi vuoti, evidenziando i contorni deicorpi e i volti della sofferenza.

Le pittrici di Weya si dimostrarono affascinate, per molti tratti impressionate, dall’opera del-l’artista mozambicano; l’esplosione di quei colori, la nettezza dei tratti e la “densità” deglispazi cromatici indussero molte di loro a rivivere nei loro quadri questa tecnica, al punto che,senza troppi giri di parole, alcune fra esse parlarono apertamente di “stile Malangatana” perdefinire molte loro composizioni (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992).

Un secondo motivo di elaborazione e confronto fu l’utilizzo della tridimensionalità, fino adallora ritenuta di esclusiva pertinenza dei colleghi artisti. Il superamento di questa barriera psi-cologica e culturale avvenne ricorrendo a un vero proprio confronto aperto fra l’opera di unadelle pittrici e quella di un collega maschio. Il confronto tra le tecniche di Mathilda e David,infatti, segnò un momento memorabile nell’evoluzione degli stili e, aspetto ben più rilevante,nella consapevolezza delle qualità soggettive, indipendentemente da pregiudizi e tradizioni piùo meno imposti. David era riconosciuto come pittore affermato, avendo già esposto con suc-cesso alla Galleria Nazionale d’Arte di Harare; egli, inoltre, aveva avuto modo di confrontarsicon la stessa Ilse, perfezionando così la rappresentazione del disegno. L’analisi dei due dipinti,eseguita collegialmente, rivelò differenze significative, senza portare tuttavia a presunte inferio-rità dell’una rispetto all’altro. Il quadro di David evidenziava una tensione continua dell’opera,a tratti nervosa e incontenibile, quasi a voler frantumare la cornice, mentre il dipinto di Mathilda

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esprimeva una straordinaria calma e serenità, risolvendosi perfettamente all’interno dello spaziopittorico. Entrambi i dipinti, quindi, oltre a dimostrare soggettive sensibilità e capacità, chiari-vano la notevole differenza della concezione maschile e femminile all’interno dell’arte Weya.Osservando il dipinto di una pittrice Weya, ci si sorprende davanti alla poca importanza attri-buita alla rappresentazione realistica e naturalistica e alla subordinazione di quest’ultima al sim-bolo e al particolare. Il significato e il dettaglio riescono a convivere, a discapito dell’armoniadelle forme, che diventano statiche nei loro profili. Il grado di difficoltà del dipinto, in una pit-trice Weya, non dipende dall’abilità tecnica, bensì dal fatto che la storia narrata sia o meno per-cepibile a partire da pochi dettagli. Narrare con un frammento, un segno particolare e precisoche diventa simbolo perfettamente riconoscibile, in un incastro fra elemento specifico e signifi-cato che rivela, come per magia, un senso compiuto; è forse questa l’essenza della pittura delledonne di Weya. Diviene facilmente comprensibile il fascino esercitato sulle artiste dalla pittura diValente Malangatana, un mondo fatto di segni energici, netti, dai colori esplosi con un semplicetratto sulla tela e dai contrasti evidenti: una vera e propria miniera di codici, a cui queste pittricihanno attinto a piene mani. Non stupisce, quindi, come una tecnica da loro elaborata porti,come dedica affettuosa, il nome di “Malangatana”.

Enesia“Drinking beer”DIPINTO SU TELA

Tratto da “The art of theWeya women”di Ilse Noy - Baobab Books.

Mavis“Hair styles”

RICAMO

Tratto da “The art of theWeya women”

di Ilse Noy - Baobab Books.

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Dal ricamo al disegno

Sul finire del 1989, la fama dei corsi di appliqués e pittura varcò i confini del territorio diWeya, al punto che, quando venne organizzato il corso di ricamo, ben sessanta donne prove-nienti da villaggi vicini vollero iscriversi, certe di trovare un lavoro e un guadagno sicuro (IlseNoy, “The art of the Weya women”, 1992). Terminate le lezioni, buona parte delle allieve deci-sero di produrre ricami senza curarsi minimamente di effettuare una ricognizione sul mercato cir-costante. Il corso aveva assunto una dimensione quasi taumaturgica, caricandosi di attese e cer-tezze molto forti; l’impatto con la realtà dei fatti fu, purtroppo, ben diverso e duro. La tecnica delricamo, rispetto alle precedenti, richiede una manualità particolare e un lavoro intenso, esal-tando le capacità artigianali, decorative e ripetitive; il risultato inevitabile, pertanto, è il prezzodi vendita, strettamente rapportato ai materiali e al tempo impiegato. L’abilità artigianale, forte-mente soggettiva, costituì un vero e proprio scoglio culturale per molte partecipanti, convinte dinon dover badare più di tanto al risultato finale. Il tentativo delle insegnanti di dissuadere alcuneiscritte ad abbandonare il corso, fu interpretato come favoritismo nei confronti di quelle ritenutemaggiormente in grado di apprendere le tecniche. Il ricamo, probabilmente, si rivelò come il piùgrande insuccesso della scuola artistica di Weya, al punto che, per molte donne, divenne sino-nimo di fallimento; ciò non impedì, tuttavia, il raggiungimento di pregevoli livelli di qualità daparte di un piccolo numero di esse, con risultati economici soddisfacenti. Alcune delle parteci-panti che lasciarono gradualmente il corso decisero di tentare altre esperienze all’interno delcontesto artistico di Weya, mentre la maggioranza abbandonò in maniera più o meno definitivala scuola.

Il problematico esito del ricamo impose una seria riflessione alla scuola d’arte di Weya, sem-pre alla ricerca di alternative ai corsi professionali tradizionali. Il primo corso di pittura avevaportato alcune artiste ad approfondire in modo particolare alcune tecniche legate al disegno e a

Sarudzai “An ex-combatant” DISEGNO. Tratto da “The art of the Weya women” di Ilse Noy - Baobab Books.

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scoprirne l’importanza nella composizione del quadro. L’attenzione al segno e al dettaglio, inol-tre, tipiche della pittura al femminile di Weya, suggerirono un percorso particolare intorno aldisegno. Come la nascita della pittura Weya avvenne per “sedimentazione” di una tappa parti-colare della realizzazione degli appliqués (la fase del dipinto, appunto), così il disegno venne“estratto” dal contesto del dipinto e riconsiderato come entità a sé, pienamente indipendente.Traendo ispirazione da personali e precedenze esperienze, venne adottata come tecnica condi-visa la rappresentazione su uno sfondo comune, costituito dalle carte geografiche dello Zim-babwe. L’approccio al corso fu diverso rispetto al precedente, e tutte le candidate (sedici intotale) accettarono come condizione importante il criterio selettivo, inteso non come esclusionefrutto di una semplice competizione, bensì come orientamento e comprensione delle propriecapacità. Un test di ingresso, comprendente alcune prove di abilità grafica, consigliò a cinquedi esse di frequentare la scuola. La maggior parte dei disegni, eseguita con colori a pastello sucarte geografiche di varia dimensione, ottenne un buon successo di critica ma non di mercato,a causa soprattutto di problemi tecnici legati all’esposizione (le mappe richiedevano una cor-nice in vetro, con rischi di danneggiamento che le gallerie normalmente non erano disposte adaccollarsi). Per sopperire a questo inconveniente, le disegnatrici sperimentarono una tecnicacon mappe su compensato e disegno a pastello rifinito con fissativo.

La tecnica “Sadza”

La tappa del corso di disegno si rivelò determinante per la qualità artistica e per il maggiorgrado di fiducia che si venne a creare tra partecipanti, insegnanti e organizzatori. L’urgenzada affrontare era ora costituita dal numero sempre elevato di donne che bussavano alla scuoladi Weya; nel volgere di poco tempo fu chiaro a tutti come la gestione dei corsi dipendesse sem-

Mai Stanley“Un giorno in un villaggio”TECNICA SADZA

Tratto da “The art of theWeya women”di Ilse Noy - Baobab Books.

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pre più da un’esperienza condivisa. Venne nominato un comitato di cinque donne in grado diindividuare nuove attività e prevedere selezioni incentrate su criteri di orientamento e non esclu-sive; questo gruppo, basato sul lavoro volontario, concordò con il centro la fornitura di materialiper sperimentare nuove forme di creazione. Dopo alcuni mesi di tentativi, la tecnica “Sadza” sirivelò tra le più efficaci e accessibili, combinando elementi nuovi con materiali appartenenti allacultura dello Zimbabwe. Il termine “Sadza” indica il nome, in lingua Shona, della tradizionalepolenta di mais, cibo fondamentale nella cucina dello Zimbabwe. La tecnica omonima prevedela realizzazione di dipinti su stoffa eseguiti utilizzando la polenta di mais in sostituzione dellasolita cera o altre sostanze di contrasto, con una procedura simile alla tecnica “Batik” (Ilse Noy,“The art of the Weya women”, 1992).

La siccità prolungata che ha colpito lo Zimbabwe negli anni Novanta ha provocato una forteriduzione della produzione di mais, imponendo alle artiste l’abbandono di tale materiale,troppo costoso e indispensabile all’alimentazione umana. Le nuove tele, pertanto, sono ottenuterealizzando contrasti non per sovrapposizioni e sottrazioni di colore, bensì con un affinamentodella fase del dipinto, affidato a cure più meticolose.

3. L’arte e il villaggioVerso Harare?

Il progressivo abbandono della tecnica Sadza originaria, a causa di mutate condizioni cli-matiche, introduce una riflessione fondamentale sul rapporto tra arte Weya e contesto locale,inteso nelle sue differenti espressioni (culturali, sociali ed economiche). La stessa nascita dell’arteal femminile è dovuta alla risposta attiva a una reale discriminazione nei confronti delle donnedel villaggio. Altri fattori esterni, come già evidenziato, hanno via via orientato l’evoluzionedella scuola d’arte, indirizzandola più o meno intensamente nella scelta delle forme espressive edelle tecniche di realizzazione. Una delle influenze più significative è dovuta al contesto produt-tivo per eccellenza, quell’agricoltura familiare destinata all’autoconsumo che in larga partedipende dal lavoro femminile. L’essere nubili o sposate, inoltre, può condizionare sensibilmentele scelte fatte presso la scuola d’arte di Weya, dato il lavoro che la conduzione familiarerichiede alle donne.

L’impatto delle entrate dovute alla vendita delle opere sul bilancio familiare pose dinamichesociali, economiche e relazionali totalmente nuove; in molteplici situazioni, infatti, il redditofamiliare mensile garantito dalle donne appartenenti alla scuola d’arte sopravanzò quello deimariti, creando un rimescolamento dei ruoli e degli equilibri non sempre accettato positiva-mente. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, le aumentate entrate si tradussero in un migliora-mento complessivo delle condizioni familiari, con ricadute significative sull’economia locale e inparticolar modo sull’attività dei piccoli negozi e artigiani del villaggio.

La raggiunta indipendenza economica e l’interesse dimostrato da molti galleristi portaronomolte artiste, soprattutto le giovani donne nubili, alla decisione di lasciare Weya per la capitaleHarare. La città offriva indubbiamente molti stimoli culturali e professionali, essendo la maggiorparte dei clienti lì residenti. L’essere stabili in città permetteva in secondo luogo, un controllo piùdiretto delle vendite, senza l’interposizione del centro e della cooperativa Mukute. La decisionedi abbandonare il villaggio suscitò, tuttavia, sentimenti contrastanti nell’ormai numerosa comu-nità artistica. Dei tre gruppi operanti all’interno della cooperativa Makute, due – composti inprevalenza da ragazze nubili – optarono per la città, mentre il gruppo di Magura, rappresen-tato per la maggior parte da donne sposate, scelse di restare a lavorare nel villaggio. Fu soprat-tutto quest’ultimo a vivere la contraddizione maggiore: da un lato la simpatia per quelle loro col-leghe così determinate nel decidere liberamente il loro avvenire, dall’altro la preoccupazioneper la sorte del progetto, nato come “riscatto” culturale delle zone rurali nei confronti della cittàe ora messo in discussione da un flusso (di persone e idee) opposto. E ancora: la partenza di unnutrito gruppo di giovani, indipendenti, in possesso di molte conoscenze, esperte nella loro artee riappropriatesi di un giusto livello di autostima, sanciva sicuramente un successo per tutto ilcentro e la scommessa fatta quasi tre anni prima. A queste riflessioni legate al significato stesso

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dell’esperienza di Weya si affiancarono alcuni interrogativi, certamente più pragmatici ma nonper questo meno laceranti. Se le artiste di Harare avessero goduto di un buon successo – si chie-deva il gruppo che aveva scelto di rimanere – sicuramente se ne sarebbero unite altre, con ilpericolo di saturare il mercato con centinaia di dipinti simili a quelli di Weya. Chi avrebbegarantito gli standard di qualità e prezzo consentiti dal controllo diretto della comunità? Le fuo-riuscite avrebbero potuto ancora fregiarsi del titolo di “Pittrici Weya”? L’ultima questione fu laprima a essere risolta, avendo accettato le giovani decise a emigrare di cambiare nome, mutan-dolo in “Pittrici Mbare” (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992).

Un certo numero di artiste, inoltre, visse il confronto in modo abbastanza netto e brusco, trin-cerandosi dietro opinioni nettamente contrapposte. Chi era intenzionato a intraprendere unanuova esperienza valutava in modo decisamente negativo l’atmosfera che si era venuta a crearenel villaggio, descritto come un luogo ostile all’esperienza artistica, invidioso, legato a tenacipregiudizi e per nulla propenso ad accettare l’indipendenza delle donne. La maggioranza delleartiste sposate, dal canto loro, ritenevano esagerata e dettata da eccessivo orgoglio la posi-zione delle più giovani.

Dopo il fallimento di un incontro pubblico, organizzato dalla cooperativa Mukute, fu chiaro atutti che la questione non sarebbe stata di facile soluzione. Il comitato e le donne del gruppo diMagura si appellarono al Consiglio degli Anziani, invocando l’incontro di un loro rappresen-tante con le pittrici “ribelli”. L’incontro, grazie all’ottima capacità oratoria del rappresentante eal forte condizionamento che la sua posizione di autorità riconosciuta esercitava su tutta lacomunità, si concluse con la dissuasione delle giovani dall’emigrare nella capitale e dal crearela pittura Mbare. Parve a tutti una vittoria della tradizione e dell’autorità delle regole del villag-

Jesca“Vita di villaggio”DIPINTO SU TELA

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L’arte delle donne di Weya

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gio, ma le vicende dei due anni successivi dimostrarono quanto le giovani pittrici avesseroappreso la lezione di indipendenza trasmessa dalla loro stessa arte. La maggior parte di esse,infatti, conseguì l’obiettivo originario, raggiungendo la capitale come donna sposata (la deci-sione della famiglia, in ultima analisi del marito, seppur convinto dalla moglie, non potevaessere messa in discussione), oppure come “side-marketing”, ossia artista che, periodicamente,si recava in città per vendere direttamente i dipinti creati nel villaggio.

L’evoluzione dell’arte secondo le donne Weya

All’inizio del 1990, i programmi di lavoro e studio di Weya Art abbracciavano più di centoartiste, in un contesto profondamente mutato rispetto ai primi tentativi del 1987. Accantoall’evoluzione artistica si era registrata una notevole complessità nella conduzione delle attività.Il comitato di gestione centrale, responsabile delle decisioni politiche e del controllo della qua-lità, era affiancato da piccoli gruppi, formati dalle stesse artiste e destinati a un confrontointerno su diverse tematiche. I gruppi ebbero inoltre il merito, almeno in una prima fase, di con-solidare l’esperienza di Weya, creando un senso di appartenenza e identificazione molto fortee teso a promuovere e difendere il significato profondo del progetto. La forma di commercializ-zazione dei dipinti, affidata a turno a una rappresentante per gruppo che, mensilmente sirecava in città per la vendita delle opere di tutte, testimonia quanto forte fosse il senso comunita-rio e di fiducia reciproca. La contrapposizione sorta tra i gruppi Weya e Mbare, tuttavia, deviòin maniera irreversibile il cammino dell’arte comunitaria e delle sue forme di gestione. Unita-mente a rivendicazioni di carattere collettivo, quali l’affermazione di un’esperienza artisticafemminile in un contesto fortemente sessista, il diritto di tutte di controllare attivamente la propriacrescita personale e la pari dignità nel contesto sociale del villaggio, sorsero esigenze più spe-cificamente personali, quali la volontà di autodeterminarsi, la libertà di agire secondo personaliaspirazioni e la propensione nel gestire autonomamente le proprie risorse economiche. Il bru-sco ridimensionamento di alcune richieste, deciso per salvaguardare lo spirito originario del-l’arte di Weya, portò di fatto alla conclusione opposta, accelerando quegli elementi di contrad-dizione che erano apparsi nei due anni precedenti. L’aspirazione alla vita nella città e a un per-corso autonomo, pur riconoscendo le radici comuni di un’esperienza artistica e umana, intende-vano andare oltre, rimarcando una crescita soggettiva non vincolata da regole e imposizioni.La difesa del gruppo e del valore del contesto del villaggio, per un altro lato, intendevano salva-guardare l’originale proposta di Weya, intesa come riscatto di un contesto rurale che avevasaputo proporsi come elemento culturale trainante ed estremamente vivo.

Il secondo grande elemento di dibattito fu (ed è ancora tutt’oggi) il confronto tra individualitàe unicità dell’arte e la sua standardizzazione (intesa come realizzazione in serie di prodotti arti-gianali e loro tutela tramite un marchio di produzione): la contrapposizione, se non è assoluta-mente originale nei contenuti, lo è sicuramente nel percorso. Il progetto iniziale di Weya, infatti,era riferito all’individuazione di attività in grado di generare reddito, quindi formazione profes-sionale e artigianale e non artistica in senso stretto. La ricerca di percorsi originali, indispensa-bili per sopperire al fallimento dei primi tentativi, portò alla valorizzazione di elementi artisticiin molte donne iscritte ai corsi e, nella maggior parte dei casi, a migliori condizioni di commer-cializzazione.

La maggioranza delle donne che si iscrivevano a Weya, inoltre, era spinta in primo luogodalla necessità di dimostrare che ogni essere umano possiede una propria naturale creatività, aprescindere da differenze sociali o di sesso. La polemica nei confronti del pregiudizio legatoalla superiore sensibilità artistica maschile, così diffuso nel villaggio di Weya, era evidente.Questa rivendicazione era tuttavia strettamente connessa al successo commerciale delle crea-zioni e agli obiettivi fondamentali dei corsi promossi dalla Cooperativa Mukute: generazione direddito, produzione di manufatti costante nel tempo, approvvigionamento sostenibile di materieprime e vantaggi condivisi. Per raggiungere simili traguardi era importante proporre prodottistandardizzati come dimensioni, tecniche e qualità. La formazione del prezzo, inoltre, era unpunto estremamente importante e dibattuto durante i corsi, essendo tradizionalmente legato aconcetti di urgenza di denaro del momento più che a caratteristiche qualitative intrinseche delmanufatto.

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L’arte delle donne di Weya

Una parte della clientela di riferimento (le gallerie d’arte in particolar modo), aveva delprezzo di acquisto un’idea differente da quella standardizzata, per cui il valore di ogni pezzocostituiva una storia a se stante, legata all’artista e al significato dell’opera. La decisione dimolte donne giovani di intraprendere un percorso personale di ricerca artistica fu influenzatofortemente anche dal contatto e dalle richieste dei galleristi di Harare.

La creazione artistica si rivelò quindi funzionale alla ricerca di linee di prodotti differenti, ori-ginali e riproducibili solo in un primo momento, mutandosi rapidamente in un elemento di piùdifficile conciliazione. Ancora oggi il dibattito è vivo, sebbene si stia orientando verso una piùampia indicazione di movimento artistico delle donne di Weya, all’interno del quale molteopere possono essere riprodotte secondo determinati canoni e tecniche. Ciò che rimane unica enon riproducibile è l’esperienza del gruppo e la concezione di arte come realizzazione dellapersona, rivendicata e sviluppata nel corso di quasi vent’anni di storia. Quest’ultima constata-zione introduce una riflessione di estrema importanza nella valutazione di un’opera d’arte, piut-tosto differente dalla critica estetica occidentale. La ripetitività, non solo per le donne Weya, nonè necessariamente un aspetto svilente; se una forma d’espressione o una tematica sono beneaccolti dalla critica e dagli acquirenti, la riproducibilità rafforza questo nuovo percorso intra-preso e lo stesso valore estetico. L’evoluzione e lo sviluppo di una corrente artistica o di unaforma di rappresentazione non sono così “automatici” nel gruppo Weya. Questa sorta di “fis-sità” può essere modificata più da interventi esterni (vale a dire da specifiche richieste di acqui-renti) che dalle stesse artiste. Due esempi possono essere illuminanti al riguardo: il tema del“N’anga” (Il guaritore del villaggio), introdotto su sollecitazione di un medico tedesco, e la rap-presentazione “Andando alla birreria”, divenuta ormai un classico dei dipinti Weya, richiestaespressamente da un gruppo di agricoltori bianchi.

J. Dzamunya“Vita di villaggio”DIPINTO SU TELA

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L’arte delle donne di Weya

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4. Figure e suggestioni dell’arte WeyaLe opere delle artiste Weya comprendono tutti gli aspetti della vita rurale delle donne dello

Zimbabwe. La vita quotidiana è il tema più diffuso, ripreso fino a diventare uno stereotipo. Lavita di villaggio, infatti, è l’elemento di più facile accesso, rappresentando un serbatoio sempredisponibile di immagini, colori e atmosfere; in questo caso il dettaglio e il simbolo, così impor-tanti nell’arte Weya, sono facilmente riproducibili e definibili. Come già ricordato, le tematichepossono essere di diretta ispirazione delle artiste, oppure provenire da input esterni. In alcunicasi l’ispirazione deriva direttamente dalla vita delle donne, come nel caso del soggetto “Mup-fuhwira” (“Medicina per l’amore”), introdotto da una giovane pittrice che abbandonò il marito,stanca di essere maltrattata da lui: “Mupfuhwira” è il rimedio, il filtro magico che avrebbe desi-derato per tramutare il consorte in persona amorevole. In alcuni casi le richieste degli acquirentipossono generare vere e proprie riflessioni filosofiche e stilistiche. “Kuoma rupandi” (letteral-mente “Le parti sono secche”), ad esempio, è l’evoluzione di una rappresentazione piuttostoimpegnativa, richiesta da uno psicologo olandese impegnato a lavorare con pazienti colpiti daalcune forme di paralisi (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). In questa situazione, ilcontesto è stato dilatato e inserito in una narrazione più ampia, in grado di sopperire allacarenza di simboli e segni implicita nella semplice descrizione.

I temi più ricorrenti nell’arte Weya possono essere così raggruppati: - vita di villaggio (attuale e degli antenati);- l’amore, il matrimonio e i figli;- la religione, il culto dei morti, gli spiriti e le stregonerie;- la medicina (tradizionale, moderna, la malattia e la sofferenza);- i problemi sociali e politici;- i diritti civili e la parità fra i sessi;- la guerra.

In molti dipinti, la rappresentazione per scene è la tecnica preferita. Il simbolo può essere unparticolare disegno, oppure può svilupparsi seguendo il filo narrativo. La descrizione degli epi-sodi, fondamentale ai fini della comprensione dell’opera, viene facilitata da un foglietto dida-scalico che stabilisce i tempi delle sequenze. La parola scritta, quindi, accompagna in moltesituazioni quella delle immagini, rientrando nella struttura complessiva del dipinto, del disegno odell’appliqué: le frasi brevi, a tratti sincopate, sono scelte dalle artiste per “introdurre” lo spetta-tore senza svelare tuttavia il significato profondo. L’intuizione dell’opera, quindi, deve avvenirein un particolare contesto, e solo in questa definizione (geografica, di tempo, di luogo, diazione, di spirito…) possono rivelarsi i segni, i simboli e i significati.

Le scelte dei colori, delle unità di spazio, dei contorni e delle proporzioni variano sensibil-mente in funzione delle tematiche da rappresentare e delle tecniche utilizzate. E’ abbastanzafrequente, ad esempio, l’utilizzo di scene in stretta sequenza, senza soluzione di continuità, daitoni scuri e dal forte contrasto, nelle tematiche legate alla medicina, alla religione o al contestosociale; nelle rappresentazioni della vita di villaggio, delle feste e della guerra la tela è menodensa, gli spazi tra un episodio e l’altro diventano importanti e la tavolozza dei colori si amplia,conferendo al racconto complessivo una struttura più dinamica e in evoluzione.

Nei disegni, prevalendo il pastello su cartonato o compensato, i colori sono generalmentepiù tenui e sfumati e affidano tutta la loro espressività a segni netti e decisi (linee spezzate, ondu-late, ripetizione di elementi geometrici); gli spazi tornano a ridimensionarsi mentre i piani delleazioni tendono a sovrapporsi, conferendo alla tavola una forte vitalità.

Negli appliqués, ogni singola figura si impone per la nettezza dei propri tratti e per i contra-sti dei colori, in un contesto fortemente dinamizzato da cornici fatte di segni o contorni pieni.L’appliqué, per la natura stessa della sua tecnica, è la soluzione che meglio si presta alla storianarrata a episodi. La possibilità di inserire collages di figure permette di creare fratture di tempoe spazio con relativa facilità. La semplificazione delle figure, rigide e statiche, esalta la ricercadei particolari (gli occhi dei volti, la forma di un recipiente o delle foglie di un albero, il coloredei tetti…) e dei soggetti, (tra cui molti animali).

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L’arte delle donne di Pauline“La raccolta dei frutti”

DIPINTO SU TELA

“Alcune persone stanno raccogliendo deimahavje (frutti commestibili) dall’albero,mentre altre li mettono nei cestini, per ven-derli al mercato e sostenere le loro fami-glie”.

C. Chibaya“Una ragazza cresciuta

senza seno”DIPINTO SU TELA

“Un giorno i genitori di una ragazza, cheaveva raggiunto l’età della maturità, ma acui non era ancora cresciuto il seno, deci-sero di andare dallo stregone per indivi-duare la causa (la colpa). Era presenteanche la zia.Il padre della ragazza non aveva capelli sumetà della testa.Quando arrivarono, lo stregone, famoso peri suoi poteri, spalmò un medicamento sulpet to del la ragazza e diede al padreancora un po’ di medicina, da spalmarequando fossero stati a casa; gli diede inoltreun’altra medicina, da applicare sulla suatesta e far crescere i capelli.Tornarono tutti a casa con gioia.Senza accorgersene, il padre spalmò lamedicina sbagliata sul petto di sua figlia,anzichè sulla testa. Così fece con la medi-cina di sua figlia.Il padre si accorse dei risultati quando, toc-candosi la testa, notò un grosso seno checresceva. Vide sua figlia con il petto pelosoe cominciò a urlare, disperato.

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Jesca“La vedova Mazana

e l’agricoltore Jangano”DIPINTO SU TELA

La signora Mazana era sorda e vedova.Smarrì il suo gregge di pecore e chiese alcontadino Jangano, anch’egli sordo e moltopovero, se l’avesse visto. Il signor Janganofece segno con la mano, indicando che erasordo, ma la signora Mazana pensò chestesse segnalando dove erano andate lepecore.Decise pertanto di dare un agnello al signorJangano come ringraziamento e passòalcuni giorni a cercare le pecore. Janganorifiutò il dono, temendo che l’agnello fossemalato e portò la questione in tribunale.Il giudice, sordo e un po’ miope, pensò chela vedova Mazana tenesse in mano un bam-bino e che il Signor Jangano fosse suomarito. Si convinse che Jangano volessechiedere il divorzio da Mazana e sentenziòche non poteva accordare il divorzio. Aidue fu detto che dovevano restare gentil-mente e felicemente insieme senza altri litigi.Il contadino Jangano, anche lui vedovo,prese Mazana in moglie. Ora vivono feliciinsieme, badando alle pecore e lavorandonel campo.

Ednight“A casa”

DIPINTO SU TELA

Una donna munge una mucca e dueragazze tornano dalla scuola: una portauna matita e l’altra un libro. C’è una gallinanella casa. Siamo nel mese di dicembre,quindi possiamo vedere il mais verde vicinoal cortile. Il cane è seduto accanto allacasa. Una madre e il suo bambino pren-dono l’acqua dal “bohole” (la pompa).

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Leticia“Botso”

DIPINTO SU TELA

“Il grande figlio primogenito (sjambok) maltratta sua madre. La madre è preoccupata e decide di andare a raccogliere del rapoko (sorgo) perfare della birra, nel tentativo di renderlo più buono. I figli più piccoli liberano il cane, aizzandolo contro sjambok, nel tentativo di liberarlodagli spiriti maligni e aiutare la loro madre. Dopo, con alcuni amici, fanno della birra per fare felici la madre e il fratello.

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Chipo Mugadza “L’anno della siccità”DIPINTO SU TELA

Una donna sta parlando con il marito, lamentandosi della sofferenza dei figli a causa della fame, e gli dice di cercare cibo per loro.L’uomo sta andando a cercare il cibo, trova un uccello sull’albero del miele e gli chiede: “Vuoi mostrarmi dov’è il miele?” L’uccello glirisponde: “Se ti mostro dov’è il miele, quando lo raccogli me ne darai un po’?” L’uomo risponde di sì.L’uomo raccoglie il miele, si siede sotto l’albero e comincia a mangiarlo, senza darne all’uccello, che comincia a cantare dicendo: “Puoidarmi del miele? Miele! Miele!” - Così potrò mostrarti altri alveari”. L’uomo non lo ascolta e continua a mangiare.Dopo mangiato, l’uomo va a casa senza niente.Si siede sotto l’albero con i suoi bambini e dice a suo figlio di portargli un po’ d’acqua da bere. Quando i bambini vedono il padre bere l’ac-qua gli chiedono: “Cosa hai mangiato, per bere così tanta acqua?” Il padre risponde: “Sono affamato e fa molto caldo”

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Barnaby Kanokora2004 SCULTURA SU SERPENTINO

Yusuf Sanziwe2004

SCULTURA SU SERPENTINO

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Thomas Makore2005 SCULTURA SU SERPENTINO

Sculture nella foresta di Tengenenge

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L’arte delle donne diBysider Gatsi2004 SCULTURA SU SERPENTINO

Last Mahwahwa2005

SCULTURA SU SERPENTINO

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24 Juja Tembo - 2004, SCULTURA SU SERPENTINO

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L’arte delle donne di Weya

Le tradizioni degli antenati e la cultura Shona

La vita degli antenati è indubbiamente un soggetto interessante dal punto di vista dei riferi-menti culturali delle artiste Weya. Un prototipo molto frequentato evoca la durezza della vita“primitiva”, paragonata a quella attuale, derivata dal modello occidentale e ritenuta migliore. Ilconfronto dimostra chiaramente il complesso di inferiorità nei confronti della cultura bianca, maè anche, paradossalmente, un tentativo per dialogare con modi di vita differenti e valorizzaretradizioni e consuetudini troppo frettolosamente ritenute inferiori. Scene come “Chipwa ” (unacerimonia per propiziare la pioggia) o “How chiefs are buried” (i riti da compiere quando ilcapovillaggio muore) dimostrano chiaramente di volere recuperare alcuni aspetti della culturarurale dello Zimbabwe, più o meno debitrice della cultura Shona.

“Shona” indica, più che un’entità omogenea vera e propria, il raggruppamento artificiale didiversi gruppi (Karanga, Manyika, Zezuru e Korekor), localizzati in differenti zone del paese -dal confine con lo Zambia e il Botswana alle regioni sudorientali, prossime al Mozambico e alSudafrica – e quasi mai in reciproca comunicazione; il termine Shona, infatti, è un retaggio del-l’epoca coloniale, sebbene comunemente accettato (B. Bernardi, “Il dibattito sulla scultura zim-babwana”, 1998). Il territorio che normalmente si assegna a questa cultura era anticamentestrutturato in città-stato governate da un re e da un Consiglio, e solo a partire dalla finedell’800, in seguito alla colonizzazione europea, questa organizzazione si dissolse. Pertanto,volendo mantenere questa semplificazione, sarebbe più corretto parlare di “culture” Shona.

La religione contempla due tipi di presenze sovrannaturali, gli “Spiriti erranti”, numi protet-tori del talento individuale e della creatività, e gli spiriti “Vadzimu”, appartenenti agli antenati,custodi dei valori morali che ogni Shona è tenuto a seguire. Essere supremo e inconoscibile ècomunque “Mwari”, e la “Voce di Mwari” – un oracolo che vive per molto tempo in solitudine eche spesso è donna – è il tramite fra la divinità, gli spiriti e il popolo (Martha G. Anderson,“Wide spirit - Strong medicin: African art and the wilderness”, 1989).

Gli spiriti sono estremamente importanti nelle culture Shona, costituendo la fonte di tutte leprosperità e disgrazie dei clan familiari. “Mhondoro”, lo spirito ancestrale del capo, è il respon-sabile del benessere di tutto il nucleo familiare. “Mudzimo”, invece, è lo spirito in cui si tramutaogni componente del nucleo familiare che abbia vissuto in armonia con le regole morali dellesocietà Shona. Gli spiriti “Ngozi” e “Uroyi”, invece, sono pericolosi, essendo la causa dellediscordie umane. Se una persona viene uccisa, si suicida, oppure muore senza possedere figli,lo fa perché posseduta da uno di questi spiriti, divenendo un “Ngozi” e non un “Mudzimo”.L’unico spirito in grado di proteggere una persona dal malefico potere di un “Ngozi” o un“Uroyi” è lo “Svikiro” (o “Masvikiro”).

Gli Uroyi sono gli spiriti maligni che, scagliati contro una persona tramite malefici e stregone-rie, possono mettere in serio pericolo la sua salute fisica e psichica, fino a portarla alla morte. Ilmaleficio diventa quindi un potente mezzo di controllo, soprattutto quando si debbano gestirecambiamenti forti che potrebbero in qualche modo minacciare la struttura tradizionale deinuclei familiari e degli equilibri sociali dei villaggi in genere. Affrontare un maleficio, infatti,quando ci si ritenga (o si sia ritenuti) colpiti diventa estremamente complicato e comporta inalcuni casi l’abbandono da parte delle persone vicine.

Circa la metà della popolazione dello Zimbabwe appartiene alle chiese cristiane, sebbene ilcredo praticato sia una commistione tra cristianesimo e credenze locali. La tradizione Mwari,infatti, rimane un punto di riferimento, con le suggestioni legate ai riti magici e alle comunica-zioni degli oracoli; quando, per qualsiasi motivo o evenienza, questa non riesca a fornire rispo-ste esaustive o confortanti, ci si rivolge alle chiese cristiane.

Nei dipinti Weya si evidenzia nettamente questa sorta di sincretismo religioso, con soggettiindifferentemente ispirati all’una o all’altra pratica religiosa, quando non rappresentanti, all’in-terno della stessa storia, esperienze religiose differenti.

Amore, matrimonio e figli

La struttura della famiglia del villaggio di Weya, e, per estensione, delle aree appartenentialle culture Shona, è notevolmente diversa da quella della cultura occidentale. Un europeo che

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L’arte delle donne di Weya

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si recasse in molte comunità dello Zimbabwe farebbe fatica a contare quanti padri, madri,sorelle e fratelli una persona possieda (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). La sud-divisione cui ognuno di noi è abituato (genitori, nonni, zii, cugini, ecc.) ha valore relativo aWeya; le relazioni familiari, infatti, dipendono dall’essere semplicemente uomini o donne e dal-l’anzianità, e il “Mutupo” (il “totem”) è la vera discriminante che definisce il senso di apparte-nenza dei membri verso la famiglia. Condividere lo stesso “Mutupo” significa condividere lestesse regole e responsabilità, e i membri di uno stesso clan non possono sposarsi, sebbene que-sti siano spesso geneticamente distanti, pena la condanna come atto incestuoso. Ogni famiglia,addirittura, ha codificato una forma speciale di saluto (saluto totemico), che è una sorta di rico-noscimento all’interno del nucleo (B. Bernardi, “Il dibattito sulla scultura zimbabwana”, 1998).Nel matrimonio è la donna che abbandona il suo “totem” per recarsi in un altro “clan” fami-liare. L’abbandono, tuttavia, è solo fisico, in quanto il “Mutupo” della famiglia in cui è cresciutasarà sempre il più importante; in caso di controversie, divorzio o morte del marito, infatti, ladonna dovrà seguire le direttive del clan originario, potendo tornare alla sua vecchia casa coni figli. La donna divorziata o la vedova, inoltre, può cercarsi un altro marito nello stesso nucleofamiliare dell’ex marito.

Un altro imprescindibile aspetto del matrimonio è il “Lobola”, il prezzo che il marito devepagare per sposare l’amata. Un uomo che si rifiutasse di pagare il “Lobola” dimostrerebbe dinon stimare la donna che intende sposare, e il clan familiare della futura moglie, in ogni caso, sirifiuterebbe di acconsentire al matrimonio prima di aver ricevuto la somma stabilita. L’obbligo dicorrispondere il “Lobola”, in molti casi, è alla base di litigi molto forti e prolungati e costituisceuno dei momenti più critici di molti giovani sposi e delle loro famiglie. Il “Lobola” è un rito lungoe complesso, che inizia con la richiesta di consenso dell’aspirante marito alla famiglia del-l’amata e la richiesta di quest’ultima della somma da pagare a titolo di risarcimento per la per-dita di una componente. Nella negoziazione del “Lobola” l’uomo si avvale di un intermediario, il“Munyai”, che lo assiste nelle trattative. Il pagamento avviene parte in denaro (“Mavuramu-romo”) e parte in oggetti, soprattutto vestiti (“Zvabada” e “Zvamai”) (Ilse Noy, “The art of theWeya women”, 1992).

Sebbene non siano permessi matrimoni tra membri dello stesso “Mutupo”, è prevista una ceri-monia particolare qualora un uomo e una donna dello stesso clan si amino e non intendano desi-stere dal loro progetto. In questo caso si ricorre a un rito sacrificale che coinvolge tutta la fami-glia e prevede l’uccisione di una vacca bianca o un bue e il taglio della corteccia di alcuni parti-colari alberi. Non è tuttavia permesso in alcun modo il matrimonio tra parenti consanguineistretti.

Nonostante l’onere della dote da parte dell’uomo, l’essere scapoli o nubili significherebbeuno status sociale inaccettabile; il grado di successo di una persona, infatti, è strettamentedipendente dall’avere una propria famiglia. Le persone che non abbiano fondato una propriafamiglia (intesa come moglie e figli all’interno di un clan più vasto), sono ritenute portatrici dihandicap fisici o spirituali gravissimi, potenzialmente dannosi per tutto il “Mutupo”. In questocaso viene interpellato il “N’anga”, il guaritore, che ha il compito di aiutare la persona a libe-rarsi da questa sorta di maleficio.

L’ultimo momento topico della vita familiare è il funerale, che viene celebrato in due momentidistinti, alla morte fisica della persona e un anno dopo, quando lo spirito del defunto abbiaabbandonato la casa. La seconda cerimonia, certamente la più importante, è chiamata “Che-nura” ed è essenziale per propiziare la protezione dello spirito del defunto. Se la personadefunta non era sposata, il rito del “Chenura” non viene eseguito e il clan di appartenenzadovrà prendere precauzioni particolari per difendersi dallo spirito di quel defunto.

Il susseguirsi e l’incrociarsi di questi momenti della vita familiare costituiscono un notevoleserbatoio di racconti e immagini per la fantasia delle artiste Weya che, ricorrendo a varie tecni-che, raccontano con efficacia sorprendente il dispiegarsi di queste fasi della vita all’interno deiclan familiari. Le tecniche degli appliqués e del disegno permettono forse di scandire conmiglior efficacia alcune di queste scene, complesse e ricche di simboli.

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L’arte delle donne di Weya

La malattia e la salute

I concetti di medicina e salute sono, per le culture Shona, più ampi e interconnessi rispettoalla cultura europea. Tutto ruota intorno al concetto di persona sana. Mentre in Europa il benes-sere è identificato con la mancanza di uno stato patologico particolare (fisico o psichico) riferitoal singolo individuo, nei villaggi Shona la buona salute di una persona è strettamente correlatacon il rapporto che questa intrattiene con la società in generale (Ilse Noy, “The art of the Weyawomen”, 1992). Ad esempio, se un marito ha un comportamento violento nei confronti dellamoglie, è sintomo di un malessere che può essere curato con il giusto “Muti”, attraverso dueaspetti: fisico, assimilabile alla concezione europea, e spirituale. In molte situazioni, il disagiospirituale è risolto con la “Mupfuhwira”, beneficio che viene tentato ricorrendo a diversi espe-dienti, fino all’intervento di un vero e proprio “N’anga” (guaritore).

Aspetti sociali e politici

L’espressione di alcune tematiche sociali e politiche, sebbene costituiscano un punto di con-fronto e di elaborazione importante per molte artiste e il loro vissuto, incontrano parecchie diffi-coltà nel mercato degli acquirenti della capitale. Per le artiste che vivono nel villaggio di Weya,infatti, la vita non è così semplice e piacevole come parecchi compratori desidererebbero fosserappresentata sui dipinti e i disegni, mentre, all’opposto, la scelta di raccontare determinate pro-blematiche sociali o la guerra di indipendenza è ben poco condivisa dai collezionisti. Se un’arti-sta esprime con un dipinto la differenza delle condizioni di vita di una famiglia bianca e unanera, difficilmente troverà sul mercato qualcuno disposto ad acquistarlo. Analogamente, la riela-borazione di cosa abbia rappresentato la seconda “Chimurenga” per molte donne dello Zim-babwe (combattenti e non) non rientra tra i canoni Weya auspicati da quasi tutti i galleristi diHarare.

La seconda “Chimurenga” è il termine con cui si indica la lotta di liberazione che ha condottolo Zimbabwe all’indipendenza nel 1980, per distinguerla dalla prima, condotta tra il 1895 e il1897 da gruppi di ribelli locali che si opposero alla costituzione della colonia della Rhodesia daparte della Gran Bretagna. Come in tutte le guerre, esiste la versione ufficiale, che narra le gestagloriose dei combattenti, e quella reale, raccontata dai diretti protagonisti, molto più critica e

C. Mugadza“La storia della donna incintae della tartaruga”DIPINTO SU TELA

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L’arte delle donne di Weya

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approfondita, e ancora non del tutto rielaborata e assimilata. Le opere delle donne di Weya sirifanno esclusivamente a questa ricostruzione, narrando storie di violenze e massacri perpetratedall’esercito rhodesiano e dalle forze indipendentiste. Alcune di queste opere hanno subito unavera e propria censura, soprattutto quelle che tendevano a porre in cattiva luce le forze legate airibelli di Joshua Nkomo e Robert Mugabe, attuale presidente dello Zimbabwe.

Un altro tema sociale molto sentito è quello della parità tra uomini e donne, in un ambientefortemente maschilista. Ancora oggi molte donne, per poter lavorare o gestire denaroall’esterno dell’ambito familiare, devono chiedere il permesso ai loro mariti. Non stupisce cherappresentazioni di questo tipo abbiano generato una forma d’arte intesa come protesta erivendicazione dei propri diritti. Curiosamente, uno dei motivi di più forte attrito tra i sessi risaleproprio alla guerra di indipendenza, quando, terminate le ostilità, molte donne combattenti cheavevano assunto con capacità e professionalità la guida di molti gruppi di lotta, si rifiutarono ditornare a condizioni di subordinazione nell’ambito familiare (Ilse Noy, “The art of the Weyawomen”, 1992); molte artiste hanno elaborato tale aspetto in alcune loro opere, presentandolocome dimostrazione naturale della falsità delle presunte tesi sulla superiorità degli uomini.

Un altro tema di forte intensità sociale è la prostituzione, affrontata dal punto di vista delledonne e delle artiste: nelle opere, la prostituzione emerge con naturalezza in tutti i vari aspetti,dalle cause alle problematiche, a volte drammatiche, di ordine sanitario, per giungere all’acco-glienza che il villaggio o la famiglia riservano alla prostituta.

Arte come autobiografia?

I soggetti che le artiste Weya scelgono con preferenza sono strettamente connessi alle lorovite e personali esperienze. Il racconto, tuttavia, non è espresso in forma diretta, bensì viene dis-simulato nella narrazione di una storia. Un modo originale per ricercare un equilibrio tra pas-sato e presente, in una struttura dinamica e in continua evoluzione, è il tema, a volte suggestivo,de “Il povero diventa ricco”. In questa narrazione, ogni artista elabora con molta fantasia e pas-sione il racconto della propria vita artistica, dell’entusiasmo che l’ha accompagnata, delle diffi-coltà affrontate e dei problemi che potrebbero segnare, in futuro, questa scelta. In alcuni dipintila drammatizzazione tocca un finale cupo, in cui l’artista, ricca e affermata, felice di avermigliorato la propria vita, scatena l’invidia dei propri cari, fino a essere uccisa. Entra prepoten-temente, in simili racconti, il timore di essere travolti dallo scontro tra questa esperienza cosìnuova e le strutture rigide delle tradizioni sociali.

5. ConclusioniNata per dare risposte concrete ad alcuni problemi di un villaggio dello Zimbabwe, l’arte

delle donne Weya ha in realtà posto molte domande. In primo luogo, nel movimento stesso, ha stimolato la nascita di un dibattito (per nulla scon-

tato nella cultura artistica dello Zimbabwe) intorno all’arte e all’artigianato, tra originalità eriproducibilità, con riferimenti che coinvolgono non solo l’opera e l’oggetto in sé, bensì si esten-dono alla necessità di preservare l’unicità dell’esperienza collettiva da altre imitazioni; ha inter-rogato le artiste sul significato delle loro opere e sulle motivazioni del lavoro; ha, infine, postoproblemi di gestione e di conduzione. Nel villaggio di Weya ha contribuito a mettere in discus-sione ruoli e tradizioni cristallizzati, ponendo la donna in una posizione paritaria. Ai galleristidella capitale Harare ha domandato come fosse possibile proporre un’arte nazionale esclu-dendo la cultura e le sensibilità delle zone rurali.

Per molte donne Weya l’arte è diventata un importante passo in avanti nella lotta per vederericonosciuti uguali diritti e opportunità. Il senso di inferiorità, a volte molto profondo, provato neiconfronti della cultura europea e occidentale in genere, è forse meno acuto, ora, in molte artistedel villaggio. Le numerose e qualificate esposizioni in cui, attraverso le opere Weya, la culturalocale era amata e rispettata, hanno attivamente contribuito al recupero, quando non a unavera e propria scoperta, di espressioni artistiche che hanno posto lo Zimbabwe tra i paesi piùattivi nel contesto culturale africano.

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Le sculture in pietradi Tengenenge

“Molti in Europa vanno in cerca di prove della ricchezza del passato africano in ciò cheè rimasto , il frammento e la parte, la perlina della collana, la maschera dopo che ladanza è finita, e l’archeologia ha incoraggiato questo processo: lo studio della storia diuna cultura nelle stoppie e nei detriti. La scultura in pietra recupera il frammento al tutto,parla del passato, non remoto, ma come aspetto del presente e vivente tra gli artisti”

(Celia Winter-Irving)

1. L’utopia di una comunità dello ZambesiTengenenge, prima di essere un movimento artistico, è una comunità multiculturale. Uomini e

donne provenienti dal Malawi e dall’Angola, dal Mozambico e dallo Zambia. Contadini, brac-cianti e minatori, partiti dai loro paesi per cercare una vita migliore e riuniti in un luogo che è stato

La Comunità artistica di Tengenenge - Ateliers degli scultori.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

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molte cose: terra incolta bagnata da un rio, miniera di cromo, piantagione di tabacco, giacimentodi rocce dai molti colori. Anche il nome, “Tengenenge”, significa molte cose: “cascata”, “due mon-tagne”, “l’inizio dell’inizio”. Nella “farm” di Tengenenge danzano insieme le maschere del “GuluWamkulu” della popolazione chewa del Malawi, il “Nyago” degli yao della Tanzania, il “Maki-shi” dello Zambia e dell’Angola… Dialogano persone che, con lo stesso metodo dell’osservazione,condivisione e del reciproco aiuto, si governano e scolpiscono statue. Differenti strutture sociali pro-venienti dalle numerose regioni che compongono il bacino dello zambesi hanno saputo accettarsireciprocamente e fondersi in una comunità in cui lo scambio culturale non è un’ideologia politica,bensì la pratica fondamentale su cui si basa la sopravvivenza di tutti.

Tengenenge è un gruppo di oltre settanta scultori che animano una delle espressioni artistichepiù originali dell’arte africana degli ultimi trent’anni, mischiando senza remore profonde sensibilitàafricane e suggestioni europee, attraverso una mescolanza quasi provocatoria di intuizione perso-nale e scambio comunitario, ricerca di linguaggio e successo commerciale.

2. La storia di TengenengeLa scultura contemporanea dello Zimbabwe deriva da un processo abbastanza complesso di

tradizioni autoctone e cultura europea: da un lato le testimonianze archeologiche delle imponentiarchitetture in pietra del “Great Zimbabwe” – il regno dei Bantu che nell’XI secolo raggiunse ungrande potere politico e commerciale – dall’altro le influenze artistiche che, attraverso il dominiocoloniale britannico, interessarono il paese nel secolo scorso. L’innesco avvenne proprio grazie alprimo direttore della National Gallery dell’allora capitale Salisbury (l’attuale Harare), Frank McEwen (1907-1994), inglese, formatosi come critico alla Sorbona e all’Accademia d’Arte di Tolone.In particolare, furono decisivi gli incontri con Henry Focillon (uno dei primi studiosi d’arte primitiva)e le conoscenze di artisti come Braque, Picasso, Brancusi e Moore (S. Federici - A. MarchesiniReggiani, “Storia e caratteri dell’esperienza di Tengenenge”, 1998). Nel 1957, dopo aver fon-dato la Rhodes National Gallery, diede vita alla National Gallery Workshop School, dedicata inparticolar modo a persone, non necessariamente artiste, con cui venne in contatto durante i primianni di attività della National Gallery. Mc Ewin, che aveva riconosciuto in molti allievi una naturalepredisposizione a scolpire, era soprattutto preoccupato di conservare e valorizzare questo “talentointuitivo”, diretta espressione di una cultura ancestrale e quasi mitologica. La cultura Shona (quasi“inventata” dai colonizzatori europei, a partire dall’inizio del XX secolo, attraverso l’accorpamentoforzato di tradizioni e culture abbastanza differenti), rappresentava per Mc Ewen «un corpus disimboli e miti che sarebbero rappresentati nella scultura e anzi sarebbero “immanenti” in sensototemico nelle opere. Gli artisti venivano ritratti come portatori di un sapere e di un culto esotericiche rivelavano nella pietra» (Jonathan Zilberg - The Invention of Shona Sculpture,1995). Lo scultorediventava quindi una sorta di medium in grado di trasferire nella pietra il fluido dell’antica sculturae degli spiriti Shona, rappresentando nelle forme un sapere “totemico”. Per nessun motivo l’artistadelle pietre doveva allontanarsi da questa voce, seguendo logiche o ispirazioni di tipo descrittivo,ripetitivo e, in ultima analisi, commerciale. La nuova scultura dello Zimbabwe doveva distinguersiper la propria originalità e non diventare “Airport Art”, arte puramente concepita per la venditanei centri turistici e di passaggio.

Nella realtà dei fatti, Mc Ewen prestava più ascolto ai miti della propria formazione culturaleche a quelli effettivi di una cultura Shona. Nella sua critica, infatti, prevalevano le conclusioni dellaricerca etnografica coloniale e l’idea, tutta europea, dell’arte come percorso individuale ed evolu-tivo dell’artista, che prima comunica al pubblico qualcosa e poi decide se e come vendere. Danotare poi, come questa concezione della scultura zimbabwana ritenuta incontaminata, pura eipnotica fosse più che altro funzionale alla vendita, nelle gallerie della capitale, agli acquirentibianchi dello Zimbabwe o europei, suggestionati dai racconti e dall’entusiamo di Mc Ewen.

Resta tuttavia indubbia l’azione di stimolo e rinnovamento che l’allora direttore della NationalGallery of Zimbabwe ebbe su molti artisti, contribuendo alla scoperta di talenti che difficilmenteavrebbero potuto esprimersi. Se appare un po’ forzato il riferimento allo scultore come sciamano ingrado collegarsi e interpretare le voci degli spiriti degli antenati, è vero il recupero di tradizioni eabilità di popolazioni che già mille anni fa dimostrarono sensibilità e capacità architettonichemolto raffinate.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

Negli anni ’60, il movimento artistico crebbe notevolmente, coinvolgendo un sempre maggiorenumero di scultori, galleristi e acquirenti. Nel 1966, quasi dieci anni dopo le prime ricerche diFrank Mc Ewen, nacque l’altra importante esperienza nell’ambito della scultura zimbabwana. FuTom Blomefield, personaggio poliedrico di origine inglese e irlandese, a fondare il primo nucleodella comunità di Tengenenge, utilizzando come base la propria fattoria, situata 170 Km a norddella capitale Harare. Tom aveva avuto modo di conoscere, perché salariati nella sua piantagione,numerosi immigrati provenienti dall’Angola, dal Mozambico e dal Malawi, apprendendo moltosulle loro culture e tradizioni. Il progetto prese forma in seguito all’incontro con Chrispen Chaka-nyuka, giovane artista specializzato nella lavorazione della steatite (pietra saponaria), giunto aTengenenge per insegnare a Tom stesso la tecnica per la lavorazione della pietra e in seguito coin-volto in una vera e propria attività didattica a livello comunitario. Alcuni salariati della fattoria,infatti, scoprirono in forma del tutto casuale una notevole attitudine nello scolpire i bellissimi serpen-tini presenti nella fattoria o le steatiti portate da Chrispen.

« Ero un cattivo agricoltore e gli affari andavano male, così decisi di diventare artista». Questeparole di Tom Blomefield descrivono, seppure in maniera estremamente sintetica, l’inizio dellacomunità artistica di Tengenenge.

Il primo nucleo di scultori era formato da Tom Blomefield stesso, Moses, giardiniere e apicol-tore, Wazi Baicolo, cuoco, e Barankynia Gosta, decoratore. Bernard Matemera, Enos Gunja,Ephraim Chaurika, Josiah Manzi, Makina Kameya, Fanizani Akuda, Henry Munyaradzi, Ali Chi-taro, Biriyo Fernando, Sunwell Chirume e altri ancora raggiunsero la farm dopo poco tempo. Moti-vazioni artistiche e commerciali animarono fin dagli esordi l’attività del gruppo, che poté contaresull’appoggio convinto della National Gallery diretta da Mc Ewen. Tengenenge era considerata,infatti, come un esperimento importante per sostenere il cammino della nuova scultura dello Zim-babwe. Lo stesso anno Mc Ewen visitò la fattoria di Blomefield, rimanendo impressionato nelvedere la scultura zimbabwana manifestarsi nel modo che lui aveva sempre immaginato. Quelgruppo di artisti rappresentava un altro importante centro di sperimentazione, in grado di affian-care l’attività degli artisti della capitale. Occorreva tuttavia, per evitare pericolose derive, una sele-zione molto forte delle opere realizzate e degli artisti coinvolti, in modo che quella ricerca rigorosa

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sullo stile e il linguaggio da lui auspicata potesse compiersi senza troppe dispersioni. Tengenenge,in altre parole, doveva trasformarsi in un prestigioso e originale avamposto di quella scuola-labora-torio creata qualche anno prima. Emerge fin dalla nascita del gruppo, quindi, quella diversavisione della scultura (e dell’arte in generale) che opporrà costantemente Mc Ewen a Blomefield. Seil primo riteneva fondamentale l’evoluzione di un linguaggio attraverso la selezione critica degliartisti, il secondo rifiutava qualsiasi tentativo di limitazione, convinto che il fluire delle tradizioni edello spirito dell’antico Zimbabwe potesse svolgersi in un contesto libero, non limitato da conven-zioni e confini artificiali. Ad ogni tentativo di Mc Ewen di distinguere tra agricoltori e scultori, e traopere ispirate e altre puramente ripetitive, Blomefield riconosceva a ognuno il diritto ad esprimersie in ogni opera un valore artistico intrinseco. La stessa preoccupazione – quasi un’ossessione – cheanimava i due, conduceva, curiosamente, a soluzioni diametralmente opposte. Era chiaro che unasituazione simile non avrebbe potuto reggere a lungo; nel 1969, dopo periodi alterni di conver-genze e divisioni, la collaborazione tra Tengenenge e la National Gallery of Zimbabwe si inter-ruppe bruscamente, accompagnata da polemiche e reciproche accuse. Un anno dopo, duranteun’esposizione presso il Museo d’Arte Moderna di Parigi, un ultimo tentativo di comunicazione fal-lirà rovinosamente, con aperte accuse di sabotaggio lanciate da Blomefield contro Mc Ewen.

Nonostante questo clima tutt’altro che sereno, il numero di artisti di Tengenenge aumentò note-volmente, comprendendo anche un buon numero di donne. Nel corso degli anni Settanta eOttanta, alcune vicende decisamente complicate minacciarono seriamente la sopravvivenza dellacomunità, ma fu la guerra di indipendenza, protrattasi fino al 1980, a decretare la chiusura tempo-ranea delle attività. Il secondo periodo (1981-87) fu particolarmente importante per Tengenenge,rappresentando una sorta di ricambio generazionale. L’arrivo di nuovi artisti, molti dei quali moltogiovani (tra cui Davidson Chakawa, Staycot Tahwa, Bakari e Moveti Manzi, Simon MaschileKawanza), rappresentò l’inizio di nuove sperimentazioni e tecniche che portarono alle grandiesposizioni di “Beedhouwers van Zimbabwe” (1989 - Belmonte Arboretum, Università di Wagenin-gen) e “Tengenenge Oud-Tengenenge Nieuw” (1994 - Baarn), entrambe organizzate nei PaesiBassi. Il successo della scuola di Tengenenge all’estero portò a un ulteriore flusso di artisti nellacomunità, con la nascita della “terza generazione” (ricordiamo, tra gli altri, l’angolano KakomaKweli e gli zimbabweani Alice Musara e Chakanetsa Muzhona).

Atelier di “Queen”, giovane scultrice della Comunità artistica di Tengenenge.

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3. L’esperienza comunitaria L’area geografica delimitata dall’immenso bacino del fiume Zambesi varca numerosi confini

geografici (Angola, Zambia, Mozambico e Zimbabwe), lambendone altri (Repubblica Democra-tica del Congo, Botswana e Malawi). In questo territorio vivono grandi gruppi etnici separati daconfini politici ma uniti da culture molto simili, come nel caso dei chewa del Malawi e dello Zam-bia, degli yao del Malawi e della Tanzania e degli mbundu di Zambia e Angola. In molti di questigruppi, il funzionamento delle istituzioni sociali è affidato alla tradizione orale, al canto e alladanza, attraverso un sistema di convenzioni immateriali, le uniche in grado di rendersi efficaci interritori vasti e difficili e in strutture giuridiche artificiali, create da trattati coloniali e post coloniali.Il rito, la rappresentazione e l’allegoria controllano i comportamenti degli uomini e delle donne,riunendo la sfera religiosa e l’etica sociale nello stesso codice.

Tengenenge è una comunità multietnica i cui artisti vivono quotidianamente l’identità culturalecon membri dello stesso gruppo, spesso di paesi diversi, o con persone di etnie differenti, sebbenedello stesso paese. L’incontro si verifica condividendo moltissime simbologie, all’interno di unastruttura più ampia che le ingloba tutte, ed è significativo notare come anche quest’ultima sia unsistema di regole e convenzioni immateriale, conosciuto da tutti solo attraverso la voce. Lo stessoTom Blomefield, pur essendo sostanzialmente estraneo a molte di queste convenzioni e pratiche, haassimilato comportamenti e codici condivisi da tutti. Le barriere comunemente opposte agli scambiculturali, così diffuse in molte parti del mondo, sono assenti a Tengenenge: non esistono, ad esem-pio, il nazionalismo politico, le differenze religiose, le distinzioni sociali, lo sciovinismo culturale…Paradossalmente, una microstruttura sociale in continua evoluzione (perché abitata continuamenteda sempre nuove persone), fonda le proprie energie su una sorta di immutevole passato, costituitodalle tradizioni delle varie etnie fuse in una casa comune aperta a tutti e comprensibile da chiun-que.

Circa settanta artisti popolano la comunità con le loro famiglie, in una realtà sociale che lega inmodo sorprendente spazi fisici e culturali. Una grande scultura è posta all’ingresso e introduce inuna vasta galleria all’aperto popolata da alberi di msasa e centinaia di sculture sorrette da tronchiconficcati nel terreno. Ogni artista gestisce un proprio spazio espositivo e gli ateliers si snocciolanolungo le varie stradine del villaggio; c’è un nome e un numero per ogni scultore mentre, poco piùdietro, risuona l’attività dei laboratori, tra scalpelli, martelli, lime e frammenti di roccia. Tra una sta-tua e l’altra girano indisturbati gruppi di bambini e animali vari.

Si visitano gli stand, facendo due chiacchiere con gli scultori, ci si può recare in visita alle splen-dide miniere di serpentino, la roccia che ha fatto la fortuna delle creazioni di Tengenenge. Tutti gliartisti, anche quelli che hanno acquisito prestigio a livello nazionale e internazionale, continuano avivere semplicemente nelle tradizionali capanne, sebbene questa scelta susciti pareri e opinionicontrastanti (alcuni la ritengono un buon espediente per attirare i turisti, altri, invece, la conside-rano un modo per mantenere intatta un’identità culturale e artistica). L’acqua è garantita da alcunefontanelle poste in luoghi strategici, esistono pochi telefoni e un solo computer.

I nuovi artisti che arrivano a Tengenenge ricevono gratuitamente le pietre grezze e gli strumenticon cui lavorarle e ciò, indubbiamente, è un ottimo aiuto per coloro (la maggioranza) che non pos-siedano capitali da investire per avviare un’attività di questo genere. All’atto della vendita, ogniartista è tenuto a lasciare alla comunità il 35% del ricavo, e tutti partecipano alle attività di “logi-stica”: reperimento e trasporto delle pietre, imballaggio delle opere vendute per il trasporto, ecc. Ilprezzo è stabilito dagli artisti, sebbene l’attività commerciale sia controllata in buona parte da TomBlomefield e da alcuni altri componenti designati dalla comunità.

Il villaggio di Tengenenge può quindi essere definito come uno spazio libero e aperto, in gradodi accogliere persone di differenti paesi e in continua evoluzione, unicamente gestito da un sistemadi regole non scritte e condivise da tutti; la sua forza e la sua debolezza stanno proprio nell’equili-brio mutevole raggiunto in questi anni e nell’avere nella figura storica e carismatica di Tom Blome-field un punto di riferimento importante, forse irrinunciabile.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

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4. Caratteri delle sculture di TengenengeL’arte di Tengenenge è essenzialmente figurativa, nascendo da un substrato piuttosto variegato

di racconti, allegorie, tradizioni, celebrazioni e paesaggi, formatosi grazie a condivisioni e conta-minazioni di esperienze a volte molto diverse; il retroterra geografico e culturale degli artisti, comegià ricordato in precedenza, è molto vasto (i territori attraversati dal grande fiume Zambesi), seb-bene tenda a prevalere l’ambito culturale dei territori dello Zimbabwe e dei territori limitrofi, som-mariamente riconducibili all’area delle culture Shona. Ne deriva un mondo popolato da oggetti eforme abbastanza slegati dalle tipologie tradizionali dell’arte africana (i riti religiosi, le danze, ilricordo dei morti, gli spiriti). Le opere, quindi, sono innanzitutto elaborazioni personali, nonricreano l’idea del mito, non cercano di dare un volto a uno spirito o all’anima di un defunto; sonoprevalentemente elaborazioni soggettive, decisamente più introverse rispetto alle tradizioni del-l’arte del Golfo di Guinea o subsahariana. L’ex ambasciatore italiano in Zimbabwe, FerdinandoMor, dà al riguardo questa definizione dell’arte Shona: «E’ una scultura di superfici chiuse chemira alla compattezza, con l’occhio prevalentemente attento ai problemi volumetrici; più raramentesi estende in una contenuta ramificazione, più sensibile ai problemi spaziali. E’ una scultura diforme immote che riposa su se stessa, sulla pietra intesa come materia originaria e inesauribile»(Sandra Federici e Andrea Marchesini Reggiani - Storia e caratteri dell’esperienza di Tengenenge,in “Tengenenge e la scultura dello Zimbabwe, ed. Lai-momo).

Un’arte così introversa e legata a un percorso individuale, che evolve grazie a successive conta-minazioni, crea relazioni dirette tra i soggetti e le figurazioni coinvolte: il vivente e la morte, l’ani-male e l’uomo, lo spirito e il corpo mortale… Scompare la mediazione, culturale o religiosa, cosìevidente in altre arti “forti” del continente africano. Liberi da questo vincolo, la ricerca e la speri-mentazione artistica possono giocare e confondere piani e relazioni distanti o addirittura oppostitra loro: la realtà sfiora l’immaginario, il volto di un uomo si confonde con quello di una donna,uno stesso corpo concentra o diluisce i propri tratti su uno o infiniti piani.

Sculture nella foresta di Tengenenge.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

Tengenenge è anche arte comunitaria, e non deve stupire che lo stesso soggetto o le medesimescomposizioni di un volto si ritrovino in più di un artista. Le stesse figure falsamente mitologiche,frutto di una ricerca puramente individuale, risentono, a tratti in modo forte, della comunità in cuisono state create e degli influssi reciproci che via sono venuti a crearsi. Comunità che può ancheessere intesa in senso più ampio: non solo il “milieu” culturale maturato all’interno del villaggio,bensì la condivisione delle lezioni apprese da molti artisti (soprattutto quelli delle prime due genera-zioni), durante la frequentazione dell’allora Rhodesian National Gallery. Mc Ewen, infatti, puressendo un convinto assertore dell’arte “totemica” zimbabwana, spinse non poco i primi artisti alavorare con tecniche tipicamente occidentali, avendo egli stesso frequentato, durante il soggiornofrancese, molti artisti legati alle avanguardie del primo Novecento. La proporzione delle parti e laloro scomposizione, l’equilibrio dei vuoti e dei pieni, la solidificazione delle figure, la linearità deltratto: risuonano, con un curioso gioco di rimandi e influenze tra Europa e Africa, le ricerche cubi-ste di Braque e Picasso, le superfici in gesso e i bronzi politi di Brancusi, Moore e Giacometti… Imaestri delle avanguardie europee, alcuni dei quali in più di un’occasione intensamente suggestio-nati dal “primitivismo” africano, restituiscono, seppur in modo indiretto, i segni fondamentali dellaloro ricerca.

In altri scultori, più legati all’esperienza con Blomefield rispetto a quella di Mc Ewen, è presso-ché ininfluente l’apporto dell’arte occidentale, prevalendo l’influsso della classica arte africana,con i suoi simboli (la danza, le usanze rituali, il potere degli spiriti ancestrali) e rappresentazioni(sguardi totemici, disarmonia nelle proporzioni, esseri mostruosi…). Si tratta, tuttavia, di una parteminoritaria, quasi sempre costituita da artisti provenienti da altri paesi e particolarmente legata allacultura natia.

L’ultima generazione, infine, sta elaborando forme e temi ispirati in modo particolare alla sferasociale e dei rapporti umani, con alcuni riferimenti particolarmente frequentati (gli amanti, il rap-porto tra madre e figlio e la figura della donna intesa come “anima” del villaggio zimbabwano),scostandosi parzialmente dalle tematiche tradizionali.

5. L’anima delle pietreIl serpentino è la roccia madre di Tengenenge, il materiale che ha permesso la nascita e lo svol-

gersi di un’intera comunità di artisti. Chimicamente, è un fillosilicato di magnesio che raggruppa tredifferenti minerali: antigorite, di aspetto lamellare e scaglioso, crisotilo, presente in fibre sericee elizardite, finemente fibroso. Questi tre minerali possono essere presenti in un miscuglio con piccolequantità di altri minerali (tra cui cromite, magnetite e pirosseni), dando origine alla serpentinite, daidifferenti colori (verde vivo, verde nerastro, bianco-giallastro, bruno giallastro, zafferano, oro).

I serpentini si sono formati in seguito all’alterazione idrotermale di silicati magnesiaci (olivina epirosseni). Nello Zimbabwe, i migliori serpentini provengono proprio dalla zona di Tengenenge,nelle rocce appartenenti al Great Dyke, un lungo sistema collinare che attraversa i territori setten-trionali, da nord a nordest, per circa 550 chilometri. Si tratta di rocce che presentano una strutturafine e compatta, senza fessure, dal colore nero, denominate comunemente “springstone”, perchéfanno rimbalzare lo scalpello a ogni martellata. Altre serpentiniti presenti nello Zimbabwe sonol’opalite, dalla struttura fine e di colore verde vivo; il “leopard rock”, dalle caratteristiche macchiegialle e nere, tipico della regione di Nyanga; il cobalto, multicolore, presente nella zona diGuruwe; il serpentino oro, una varietà nera dalle venature che ricordano quelle del legno (G.Stoops, “Petrografia delle rocce utilizzate nella scultura contemporanea dello Zimbabwe”, 1998).

La lavorazione della pietra avviene con procedure ormai comunemente adottate da tutti gliartisti. Il blocco prescelto subisce una prima sgrossatura mediante il martello a gradina o con unapunta piatta di metallo. Solo in un secondo momento si lavora con martello e scalpello, tracciandoi segni delle figure e in modo da definire tutta la forma. Il terzo intervento si esegue con la raspa –che viene passata su tutta la superficie, così da polirla – e con carta vetrata a secco. Successiva-mente, alla carta vetrata si abbina l’acqua, avendo cura di eseguire più passaggi utilizzando foglia grana sempre più piccola. L’acqua rivela il vero colore della pietra, ed è, dopo lo scalpello, l’in-tervento più entusiasmante: marrone, verde, nero, giallastro… La pietra completamente polita viene

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ora posta accanto a una fonte di calore (un bidone con legna che brucia), e lì si lascia fino aquando non abbia acquisito una temperatura elevata. E’ il momento di distribuire il lucido con unpennello, lasciando che questo penetri nella massa. La pietra polita è la tecnica prediletta dallamaggior parte degli artisti, tuttavia alcuni di essi preferiscono lasciarla grezza, levigandola solo inalcuni tratti.

Tengenenge - Scelta e trasporto delle pietre agli ateliers degli artisti.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

Alcuni esponenti della comunità di TengenengeTengenenge è un’esperienza in cui convivono elementi comunitari e individuali di grande forza.

Che si tratti di “fluido totemico”, come sosteneva Frank McEwen o, più prosaicamente, di commi-stione tra sensibilità culturali soggettive e contaminazioni europee, è innegabile che la maggiorparte degli scultori presenti abbia intrapreso e sviluppato un personale percorso di ricerca.

• Richard Katanda, Joel Mukusa e Gunja Costa utilizzano in molte loro opere pietra grezza erifinita, concentrando le rispettive poetiche sulla figura femminile, la maternità e la famiglia.

• Gangarahwe Clever indaga intensamente l’espressione dei volti attraverso linee e segnidecisi, quasi geometrici, che scavano i suoi soggetti; l’utilizzo di serpentino di diverso colore esaltaquesta ricerca.

• Bormwell Chiwaridro e Alexander Makak esaltano le loro donne attraverso curve sinuose elunghe, che affidano la loro dolcezza a una scultura particolarmente rifinita e a un abbinamento diserpentino grezzo e polito particolarmente audace.

• Last Mahwahwa dona forza ed espressività ai suoi volti, incidendo con forza i tratti somatici,alla ricerca di un particolare che possa svelare segreti nascosti nell’animo umano.

• Juja Tembo conferisce mistero e forza ai suoi animali (soprattutto gufi, elefanti e scimmie), rap-presentati con serpentino scurissimo e con una levigatura controllata e sapiente.

• Laknos Chingwaro lavora con estrema morbidezza il serpentino nero, donando agli animaliche rappresenta (soprattutto uccelli) tutto l’incanto e la giocosità della natura.

• Roger Mafigu ricerca continuamente il particolare rivelatore di una figura umana (una tracciadel volto, un’ombra evidenziata con un serpentino colorato…), da comunicare con un dialogonascosto all’osservatore.

• Barnaby Kanokora e Kizito Kamuchengi raffigurano con rigore geometrico, quasi totemico,volti e corpi umani, raffigurati in una fissità misteriosa e senza tempo.

• Mali Ali utilizza con disinvoltura tutti i materiali e i colori che le rocce di serpentino di Tenge-nenge possono donargli: figure allungate, quasi eteree (bianche, scure, rossastre, grigie, verdi…)si intrecciano in abbracci sinuosi e sensuali.

• Farison Maposa libera tutta la solidità e bellezza delle pietre del suo villaggio con una scul-tura potente e raffinata, in grado di esplorare ogni tipo di colore e materiale.

• Forward Chidakwa, infine, con le sue “Happy families”, rende un omaggio divertito e affet-tuoso alla famiglia zimbabwana intesa come clan e al significato “totemico” che racchiude.

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Riferimenti bibliografici

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Indice

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Indice

Introduzione....................................................................................................................................................................... 3

L’arte delle donne di Weya........................................................................................................................................ 5

Le sculture in pietra di Tengenenge........................................................................................................................ 21

Riferimenti bibliografici ................................................................................................................................................ 31

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