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Mercato, Diritto e Libertà Collana diretta da Luigi Marco Bassani, Nicola Iannello, Carlo Lottieri, Sergio Ricossa Macey XPress OK 10-05-2010 13:11 Pagina 1

Corporate Governance

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Mercato, Diritto e Libertà

Collana diretta da Luigi Marco Bassani, Nicola Iannello,

Carlo Lottieri, Sergio Ricossa

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I volumi della collana Mercato, Diritto e Libertàsono pubblicati grazie al generoso contributodell’Istituto Adam Smith di Verona.

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CORPORATEGOVERNANCE

Quando le regole falliscono

Prefazione di Luca Enriques

Postfazione di Andrea Zorzi

Jonathan R. Macey

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Titolo originaleCorporate Governance.Promises Kept, Promises Broken(Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2008)

Si ringrazia la Princeton University Pressper la concessione dei diritti di traduzione

Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, ancheparziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa lafotocopia, anche a uso interno o didattico senza il permessoscritto dell'Editore

Traduzione dall’ingleseDaniela AntongiovanniMarina Beretta

ADGerardo Spera

CopertinaTimothy Wilkinson

© 2008 Princeton University Press

© IBL LibriVia Bossi, 110144 [email protected]

Prima edizione: giugno 2010ISBN: 978-88-6440-019-8

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Indice

Prefazione all’edizione italiana di Luca Enriques 7

Prefazione all’edizione originale 17IntroduzioneLa corporate governance come promessa 21

Capitolo 1Gli obiettivi della corporate governance 47Il ruolo dominante dell’equityCapitolo 2Diritto societario e corporate governance 63Capitolo 3Istituzioni e meccanismi di corporate governance 93Una tassonomiaCapitolo 4Il consiglio di amministrazione 101Capitolo 5Il consiglio di amministrazione e la corporate 131governance: alcuni case studyCapitolo 6Gli amministratori dissidenti 165Capitolo 7Istituzioni esterne formali di corporate governance 189Il ruolo della Securities and Exchange Commission, delle Borse valori e delle agenzie di rating del creditoCapitolo 8Il mercato del controllo societario 213Capitolo 9Offerte pubbliche iniziali e private placement 231

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Capitolo 10La governance delle controversie 237La derivative actionCapitolo 11Contabilità, principi contabili e settore contabile 281Capitolo 12Forme di governance non convenzionale: 301insider trading, vendita allo scoperto e whistle-blowingCapitolo 13Il voto degli azionisti 365Capitolo 14Il ruolo delle banche e di altri intermediari finanziari 409nella corporate governanceCapitolo 15Hedge fund e private equity 445

Conclusioni 503

PostfazioneGli strumenti di corporate governance 511nell’ordinamento italiano di Andrea Zorzi

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L’influenza di Jonathan Macey nel dibattito accade-mico sulla corporate governance è pari soltanto alla suavivacità intellettuale e alla velocità con cui riesce a tra-sformare il numero impressionante di intuizioni illumi-nanti su ogni aspetto della vita economica e della finan-za in eccellenti contributi scientifici. Questo libro è ilfrutto di una di queste intuizioni, disarmante nella sem-plicità, elegante nella comprensività, deprimente nelleimplicazioni: secondo Macey, sistematicamente i policy-makers e le stesse convenzioni sociali (social norms) pon-gono ostacoli ai (se non addirittura mettono al bando i)meccanismi di corporate governance efficaci e, al con-tempo, promuovono e sussidiano quelli inefficaci odannosi.

A queste conclusioni Macey perviene dopo avermesso opportunamente in chiaro cosa intende per cor-porate governance e quale sia il parametro in base alquale giudicare dell’efficacia dei singoli strumenti.Quanto al primo aspetto, nell’accezione ampia della let-teratura di economia della finanza, corporate gover-nance è l’insieme degli strumenti, dei meccanismi edelle istituzioni che definiscono il modo in cui unasocietà per azioni (come qualunque altra organizzazio-ne) è diretta. Quanto al secondo profilo, per Macey lo

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Prefazione all’edizione italiana*

di Luca Enriques

** Le opinioni sono strettamente personali e non vincolano in alcun modola Consob, presso la quale Luca Enriques è commissario.

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scopo della corporate governance è di assicurare che lepromesse (di rendimento) fatte da coloro che controlla-no una società (manager, soci di controllo) a coloro chevi investono siano mantenute.

Inoltre, Macey utilmente chiarisce che i meccanismidi corporate governance esistono in virtù di contratti,convenzioni sociali o leggi e che il loro concreto opera-re dipende dall’interazione tra queste tre “fonti” di cor-porate governance: la legge non solo definisce i confiniall’interno dei quali possono operare i contratti, macontribuisce a completarne il contenuto; le convenzionisociali, dal canto loro, determinano la (ir)rilevanzasociale di determinati comportamenti, sia che si tratti dicomportamenti dovuti per legge o per contratto sia chesi tratti di comportamenti devianti. All’apparenza l’os-servazione è banale, ma non c’è scandalo societario – edunque fallimento della corporate governance – chenon abbia alla base una cattiva miscela tra contratti (es.sistemi di remunerazione incentivanti), convenzionisociali (es. dissentire dalle valutazioni dell’amministra-tore delegato all’interno del consiglio d’amministrazio-ne è sconveniente) e leggi (es. se una decisione è presaconformemente a determinati requisiti, essa è lecitaquali che ne siano gli effetti).

Quali sono dunque gli strumenti della governance?Quali, tra questi, funzionano e quali no? Vediamoprima quelli, secondo Macey, efficaci, che, negli StatiUniti, le leggi in vario modo scoraggiano. Nell’ordinenon del libro, ma crescente per distanza dal (nostro1)comune buon senso:

1. Il mercato del controllo societario: le opa ostilihanno un chiaro effetto di “disciplina” sui mana-ger, ma sia la legislazione federale sia le leggi sta-tali sia la giurisprudenza del Delaware le rendo-no più costose e difficili.

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11.. L’uso di questo aggettivo è discutibile. Dato il ruolo ricoperto da chi scri-ve, almeno nell’ultimo caso il lettore ben può considerarlo un mero pluralemaiestatis.

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2. Le offerte pubbliche iniziali (IPO) e le emissionidi nuove azioni: al momento della quotazione edell’aumento di capitale, la società, con vantag-gio per i suoi investitori attuali e potenziali, siassoggetta al controllo (due diligence) di unabanca d’investimento e dei suoi legali e contabili.Ma scoraggiano queste operazioni l’imposizionedi una responsabilità oggettiva sulle banche d’in-vestimento, cui è troppo difficile liberarsi daresponsabilità provando di aver fatto tutte lenecessarie verifiche (come Macey pare sosteneresia il caso negli Stati Uniti), e un’elevata tassazio-ne dei dividendi, tale da giustificare il loro mas-siccio reinvestimento e ridurre così l’esigenza diricorrere periodicamente al mercato medianteaumenti di capitale così da assoggettarsi alla duediligence di un intermediario.

3. Gli amministratori “dissidenti” (da noi si direb-be: di minoranza): funzionerebbero, ma la nomi-na di amministratori estranei agli incumbent èresa assai difficoltosa; inoltre, anche gli ammini-stratori così selezionati difficilmente potrannorappresentare una voce critica sulla gestione, poi-ché le convenzioni sociali che regolano i rapportidi collegialità tra i componenti del consiglio diamministrazione accrescono notevolmente irischi di cattura.

4. Le banche: il controllo dei principali finanziatorisull’impresa può giovare anche agli azionisti,entro certi limiti (che Macey ben evidenzia). Mauna combinazione di orientamenti giurispruden-ziali sulla responsabilità dei finanziatori e diregole in materia di rango dei privilegi scorag-giano il “monitoraggio delegato” delle banchesui manager.

5. Gli hedge fund e il private equity: i primi hannola capacità di scoprire le azioni di società il cuiprezzo potrebbe salire se determinati cambia-menti, come un’acquisizione, avessero luogo,acquistando il titolo in attesa che i cambiamenti

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siano effettuati, magari anche a seguito delle loropressioni in tal senso. I secondi acquistano socie-tà per assicurarne una migliore gestione, spessograzie anche a un maggiore uso della leva deldebito. In entrambi i casi le regole che ostacolanoil funzionamento del controllo societario (e spe-cialmente quelle che impongono la comunicazio-ne al mercato delle partecipazioni sopra la sogliadel 5 per cento) rendono anche meno agevoli oprofittevoli le iniziative degli hedge fund attivistie dei fondi di private equity.

6. L’insider trading e lo short-selling. Chi vendeun’azione, eventualmente allo scoperto, vuoi inbase a informazioni privilegiate di contenutonegativo vuoi sulla base di proprie valutazioninegative sul titolo, accelera il processo di incor-porazione di quell’informazione nel prezzo deltitolo e dunque fa conoscere al mercato più velo-cemente informazioni che tipicamente i managertendono a nascondere. Nei casi peggiori, si trattadell’informazione circa la falsità dei bilanci, che,come insegna il caso Parmalat, può restare celataper periodi anche molto lunghi.2 Grazie all’insi-der trading e allo short-selling, dunque, si accen-tua l’attitudine del mercato azionario a dare ungiudizio implicito sul management di una socie-tà, con effetti positivi anche ex ante sui suoi com-portamenti. Com’è noto, però, l’insider trading èvietato in tutti i principali paesi (senza possibilitàdi opt-out per i singoli emittenti, come invece pro-pone Macey con riguardo alle ipotesi di informa-zione privilegiata sull’esistenza di frodi contabilio altri comportamenti illeciti). E, negli Stati Uniti,salvo un breve intervallo nel primo decennio diquesto secolo, vi sono varie regole che limitano lo

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22.. Sulla capacità degli speculatori al ribasso di individuare le frodi contabi-li, vedi lo studio empirico di Jonathan M. Karpoff - Xiaoxia Lou, “Short Sel-lers and Financial Misconduct”, Working Paper, 2009, disponibile all’indiriz-zo http://www.ssrn.com.

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short-selling. Inoltre, è indubbio che le convenzio-ni sociali abbiano una visione di questi fenomenisostanzialmente coincidente con quella dei policy-makers: l’insider trading è spregevole, lo short-sel-ling perlomeno moralmente sospetto.

Fin qui (e, è chiaro, si può concordare o meno conciascuna delle affermazioni sintetizzate) i meccanismiche funzionano. Vediamo, tentando di usare lo stessocriterio d’ordine,3 quali meccanismi non funzionano,mentre le leggi o le convenzioni sociali li incoraggiano:

1. Le agenzie di rating: la loro utilità, almeno ai finidella governance, è assai dubbia, ma leggi e rego-lamenti, soprattutto negli Stati Uniti, mantengo-no elevata la domanda di questi servizi, impo-nendo o quasi a varie categorie di soggetti difarvi ricorso.

2. Il whistle-blowing: è un meccanismo poco effica-ce, perché è difficile per un whistle-blower esserecreduto, specialmente se è destinato a guadagna-re dalla sua azione, ma la legislazione americanaincoraggia significativamente i whistle-blowermediante ricompense e norme protettive.

3. Le azioni di responsabilità e le class actions sonocostose e poco efficaci, ma le leggi americane leincoraggiano in vari modi.

4. I consigli d’amministrazione e gli amministratoriindipendenti non funzionano come meccanismodi monitoraggio del management, ma la legge el’autoregolamentazione spingono a far svolgereloro questo ruolo.

5. L’informazione contabile potrebbe essere utile amigliorare il processo di formazione dei prezzi dimercato dei titoli, ma la sua credibilità è radical-mente minata dalla concentrazione che caratte-rizza il mercato dei servizi di revisione. Tuttavia,nessuna riforma ha seriamente messo in discus-

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33.. E vedi la nota 1.

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sione l’assetto scarsamente concorrenziale delmercato; al contrario, il Sarbanes-Oxley Act haampiamente premiato i revisori esistenti.

6. Il voto in assemblea può avere senso solo peralcune deliberazioni di carattere strutturale,soprattutto se esse riguardano aspetti comuni aqualsiasi società, mentre i problemi di coordina-mento tra gli azionisti sconsigliano di ricorrere alvoto assembleare per la gestione corrente. Eppu-re, le recenti riforme proposte negli Stati Unititradiscono un’eccessiva fiducia verso questostrumento.

7. Sia la SEC sia le Borse come enti di autoregola-mentazione sono afflitte da problemi di incentivi.La prima è interessata, in definitiva, all’aumentodelle competenze e delle risorse a disposizione(aumento prontamente concesso dopo ogni scan-dalo finanziario, per quanto la relativa scopertasia di solito opera di soggetti diversi dalla SEC4).Le Borse non possono più, dopo l’emergere dellepiattaforme alternative di negoziazione, avvaler-si del delisting come minaccia credibile per chinon rispetti requisiti minimi di governance;eppure, le leggi federali americane ne riconosco-no e istituzionalizzano il ruolo.

Come già accennato, le conclusioni sull’efficacia diciascun meccanismo sono discutibili, ma è necessarioavvertire il lettore di questa Prefazione che la sintesi,pur qui dovuta, delle tesi di fondo di questo librorischia di essere fuorviante: la lettura dei singoli capito-li evidenzia le sfumature dell’analisi di Macey su ognisingolo meccanismo di governance, al di là della sem-plificazione qui necessaria. A conferma di quanto appe-na detto, prendiamo l’esempio del severo giudizio diMacey sui consigli d’amministrazione e sugli ammini-

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44.. Vedi Alexander Dyck - Adair Morse - Luigi Zingales, “Who Blows theWhistle on Corporate Frauds?”, CEPR Discussion Paper No. DP 6126, 2007,disponibile all’indirizzo http://www.cepr.org.

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stratori indipendenti. Macey nota che negli scandali finanziari di inizio

secolo e, possiamo aggiungere ora, nel settore bancarioin generale, i consigli d’amministrazione hanno fallitoin modo spettacolare nella prevenzione delle frodi e/odegli eccessi. Ciò nondimeno, a seguito di quegli scan-dali la reazione americana, e non solo americana, è stataquella di rafforzarne il ruolo, ad esempio con le regoledel Sarbanes-Oxley Act sulla composizione del comitatoper il controllo interno e con quelle delle Borse ameri-cane, che hanno accresciuto la componente indipen-dente dei board, anche dal punto di vista dei requisiti diindipendenza, e hanno posto l’accento sul ruolo deicomitati. In Italia, com’è noto, qualcosa si è fatto con lalegge sul risparmio.

Ma si tenga presente che Macey non si spinge fino alpunto di affermare che gli amministratori indipendentisiano del tutto inutili. Al contrario, egli osserva, ormaitradizionalmente essi hanno svolto bene due funzioni:in primo luogo, quella di prendere in mano la situazio-ne nei momenti più critici, ad esempio in caso diimprovvisa cessazione dalla carica dell’amministratoredelegato o quando si scopra uno scandalo che minacciala sopravvivenza della società. In secondo luogo, hannoben svolto la funzione di approvare le operazioni tra lasocietà e i suoi amministratori o, più in genere, quelleche noi chiamiamo “con parti correlate”. OsservaMacey: «Il compito degli amministratori indipendenti inquesto caso è di assicurare che la società non sia dan-neggiata dagli amministratori che si trovano da entram-bi i lati dell’operazione. Gli amministratori [indipen-denti]», prosegue Macey, «in generale hanno ben svoltoquesta funzione limitata e chiaramente definita».

Ciò che Macey contesta è il ruolo assai più centrale enon episodico, che i consigli d’amministrazione (e dun-que gli amministratori indipendenti) hanno più recen-temente assunto, di monitoraggio, controllo dellagestione e, al contempo, di partecipazione alle decisio-ni correnti della società, perlomeno in termini di “con-sulenza”. Questi, secondo Macey, sono compiti che, nel

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loro insieme, il consiglio di amministrazione non è ingrado di svolgere in modo efficace, perché si tratta diuna pluralità di funzioni tra loro in conflitto: è difficileal contempo prendere decisioni fondamentali sullagestione della società e mantenere l’obiettività richiestaper monitorare il management. Tra l’altro, al di là diogni considerazione teorica, la stretta vicinanza che sicrea tra amministratori indipendenti e management haeffetti molto significativi sul piano sociale, dal momen-to che, come sanno tutti coloro che si sono trovati in uncontesto formale in cui un gruppo è chiamato ripetuta-mente a prendere decisioni assieme, il dissenso è social-mente sconveniente.

La postfazione di Andrea Zorzi cala nel contesto ita-liano le intuizioni di Macey. Qui non resta che volgere,per quanto più sinteticamente, lo sguardo all’Europa,per osservare che, se Macey ha ragione sull’efficacia/ineffi-cacia dei singoli meccanismi, l’Unione Europea solo inparte disincentiva quelli che funzionano e incoraggiaquelli inefficaci. Quanto ai primi, la legislazione comu-nitaria sulle opa, fallito il tentativo di imporre la con-tendibilità mediante le regole sulla neutralità dei consi-gli di amministrazione e sulla neutralizzazione, chiara-mente ostacola il funzionamento del mercato del con-trollo societario, con un’incidenza negativa su hedgefund e private equity (entrambi peraltro attualmenteoggetto di una proposta di direttiva alquanto restritti-va), mentre l’insider trading è ovviamente vietatoanche dall’Unione Europea e le vendite allo scopertosaranno presto oggetto di una regolamentazione dis-suasiva. Quanto ai meccanismi inefficaci, la legislazio-ne europea contiene anch’essa norme che incentivanola domanda dei servizi delle agenzie di rating, ha ema-nato regole sulla revisione contabile che favoriscono gliincumbent su questo mercato oligopolistico e ha direcente approvato norme volte ad accrescere il ruolodelle assemblee nella vita delle società.

Sugli altri meccanismi identificati da Macey comeefficaci o inefficaci, non pare possibile rinvenire inter-

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venti comunitari, in un senso o in un altro: ma non sideve pensare a un consapevole atteggiamento di neu-tralità del legislatore europeo nei confronti di questiprofili. La loro assenza è da attribuire piuttosto allanatura molto più frammentaria del diritto dell’UnioneEuropea, specialmente in una materia, come quellasocietaria, in cui gli Stati membri sono per tradizionepoco inclini a subire interferenze dall’alto.

Per concludere, non resta che invitare alla lettura diqueste pagine: esse danno un quadro originale dellacorporate governance nel decennio degli scandali socie-tari e della Grande Recessione; mettono in luce l’evolu-zione verso un maggiore ruolo della legge e, dunque,della politica; sconsigliano di farsi illusioni sulle virtùsalvifiche della corporate governance, ma evidenzianoaspetti dei comportamenti del mercato e dei regolatoriche, se si lasciano da parte i pregiudizi, perlomenoaprono la mente a nuove riflessioni.

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Il presente volume illustra la mia concezione di cor-porate governance e ne identifica i meccanismi e le isti-tuzioni di maggiore efficacia.

Partendo dal presupposto che la corporate gover-nance è quella congerie di strumenti giuridici ed eco-nomici che aiuta chi amministra le società per azioni amantenere le promesse fatte agli investitori, presentotre originali riflessioni sull’argomento, che possonoessere così sintetizzate:

1. La corporate governance è una questione di pro-messe. Ritengo sia più corretto riferirla alle pro-messe che ai contratti perché il rapporto tra gliazionisti e le società a cui partecipano è cosìintangibile che sarebbe fuorviante attribuirle unanatura contrattuale. Gli azionisti non hanno pra-ticamente alcun diritto contrattuale, tantomenodiritti sul cash flow societario; i loro investimentisi basano sulla fiducia, la quale, a sua volta, sibasa sulla convinzione che chi gestisce una socie-tà manterrà le promesse fatte agli investitori.Inoltre, il concetto di promessa si riallaccia all’i-dea di base che sia la fiducia personale e non laprospettiva dell’esecuzione di un contratto ilnodo cruciale per un sistema vincente di corpo-rate governance.

2. Poiché si parla di promesse, è ragionevole che

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meccanismi e istituzioni nell’ambito della corpo-rate governance possano essere valutati perquanto siano efficaci nell’agevolare il manage-ment a mantenere tali promesse. Questo libro èper la maggior parte dedicato all’analisi deglistrumenti e dei processi di corporate governance,nel tentativo di stabilire quali sono i più efficaci equali invece sono meno validi.

3. Dopo aver chiarito quali sono i meccanismi piùefficaci, è possibile approfondirli da un punto divista politico. La regolamentazione può ostacola-re, scoraggiare e persino vietare alcuni di questimeccanismi, ma al tempo stesso può facilitare,incoraggiare e persino obbligare la messa in attodi altri strumenti, secondo modalità ben definite.Uno dei principali contributi del libro è quello dievidenziare come molti dei più efficaci meccani-smi di corporate governance, come alcune formedi trading e attività sul mercato delle acquisizio-ni, siano o pesantemente regolamentati o addirit-tura banditi, mentre i meccanismi e le istituzioniche considero meno validi (per esempio i consiglidi amministrazione delle società o le agenzie dirating del credito) siano agevolati, incentivati, senon addirittura imposti direttamente o indiretta-mente dalle normative vigenti. La questioneviene affrontata nel capitolo 3, dove i risultatidella mia analisi sono esposti in una tabella.

Questi, in sintesi, i contenuti del libro. Se pensatesiano interessanti, continuate a leggere.

Molti sono stati gli amici e i colleghi con i quali misono confrontato per sviluppare le idee che propongo.In particolare voglio ricordare Bruce Ackerman,Arnoud Boot, Michael Dooley, Mel Eisenberg, LucaEnriques, Frank Easterbrook, Daniel Fischel, Jeff Gor-don, David Haddock, Henry Hansmann, HidekiKanda, Tony Kronman, Yair Listokin, Henry Manne,Fred McChesney, Geoffrey Miller, Maureen O’Hara,Mitch Polinsky, Roberta Romano e David Skeel.

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Sono particolarmente grato a mia moglie Amy peressermi stata sempre vicina e ai miei “figli grandi”, Joshe Ally, per aver sostenuto non solo il sottoscritto maanche Zachary, il nuovo arrivato nella nostra vita.

Alcune parti di questo libro sono state presentate nelcorso di seminari presso le università di Columbia,Harvard, Stanford e Yale, dove ho ricevuto validi com-menti e consigli da professori e studenti. Alcuni argo-menti sono stati tratti in varia forma da articoli prece-denti, in particolare “‘Getting the Word Out AboutFraud’, A Theoretical Analysis of Whistle-blowing andInsider Trading”, Michigan Law Review, 105, n. 1899,2007 (capitolo 12); “Too Many Notes and Not EnoughVotes: Lucian Bebchuk and Emperor Joseph II Kvetchabout Contested Director Elections and Mozart’s Sera-glio”, Virginia Law Review, 93, 2007, (capitolo 13); “ThePoliticization of American Corporate Governance”, Vir-ginia Law&Business Review, 10, n. 1, 2006, (capitolo 8);“Positive Political Theory and Federal Usurpation ofthe Regulation of Corporate Governance: The ComingPreemption of the Martin Act”, Notre Dame Law Review,80, n. 951, 2005; “Monitoring, Corporate Performance:The Role of Objectivity, Proximity and Adaptability inCorporate Governance”, Cornell Law Review, 89, n. 356,2004, con Arnoud Boot; “Corporate Governance andCommercial Banking: A Comparative Examination ofGermany, Japan, and the United States”, Stanford LawReview, 73, n. 48, 1995, con Geoffrey P. Miller (capitolo14); “A Pox on Both Your Houses: Enron, Sarbanes-Oxley and the Debate Concerning the Relative Effi-ciency of Mandatory Versus Enabling Rules”, Washing-ton University Law Quarterly, 81, n. 329, 2003, (capitolo 7).

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Scopo della corporate governance è quello di con-vincere, indurre, obbligare o in qualche modo motivarechi dirige le società per azioni a mantenere le promessefatte agli investitori. In altre parole, la corporate gover-nance si prefigge di limitare le forme di devianza socie-taria, dove per devianza si intende qualsiasi azione daparte di dirigenti o amministratori che vada contro lelegittime aspettative degli investitori. Attuare una cor-retta corporate governance significa quindi mantenerele promesse,1 in contrapposizione a una bad governance(malgoverno), che significa disattenderle.

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Introduzione

La corporate governance come promessa

11.. L’espressione “corporate governance” è senza dubbio una delle più utiliz-zate e al tempo stesso meno definite del lessico d’impresa. Qui di seguito elen-co e commento alcune delle accezioni più conosciute:

• «La corporate governance si riferisce al sistema decisionale e di controllodelle imprese, in particolare alla struttura del consiglio di amministrazione ealle procedure mediante le quali agisce. Il termine viene però usato anche insenso più lato, in relazione al rapporto tra stakeholder e società, o più ristret-to, quando fa riferimento alla conformità delle aziende alle disposizioni deicodici di best practice», Colin Melvin - Hans Hirt, Corporate Governance andPerformance, Hermes Pensions Management Ltd., dicembre 2004, disponibi-le sul sito http://www.hermes.co.uk/corporate_governance/corporate_governan-ce_and_performance_feature.htm#definingcorporategovernance. Questa definizione è troppo limitata e al tempo stesso troppo generica. Da unlato restringe infatti l’ambito della corporate governance agli organi internidelle società, come il CdA; dall’altro, quando chiama in causa alcuni stru-menti come i codici di best practice, che si sono dimostrati inefficaci contro icomportamenti scorretti, suggerisce obiettivi molto vaghi rispetto al precisoscopo di tenere sotto controllo le possibili devianze.

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Alla base delle modalità con cui la corporate gover-nance viene trattata in questo libro vi è l’idea che ogniinvestitore ha ragionevoli aspettative su ciò che ilmanagement dovrebbe o non dovrebbe fare nell’eserci-tare le proprie funzioni direttive. Si tratta di quelle cheho definito “aspettative legittime di chi ha investito”, divaria natura e origine, in buona parte avvallate da unaserie di leggi e contratti, ma sostenute anche da forze dimercato e norme sociali che controllano ulteriormente ilcomportamento dei dirigenti. È condiviso da tutti, peresempio, il fatto che chi è alla guida di una società nondebba derubarla, ed è altrettanto ovvio che il manage-ment debba operare in modo da evitare conflitti di inte-ressi tra i propri obblighi verso la società e gli obiettivifinanziari personali. Leggi, contratti e norme socialisono in perfetta sintonia e considerano illegittime e ille-cite alcune tipologie di conflitto d’interessi (come l’insi-der trading), ma rispetto alla terza le prime due formedi controllo si occupano meno di stabilire quanto i diri-genti debbano essere coscienziosi e attenti nel trattaregli interessi degli azionisti. Il ruolo principale nellalimitazione di comportamenti direttivi poco corretti logiocano i mercati e le consuetudini (o norme) sociali. Lamassimizzazione degli utili è spesso considerata unanorma sociale, ma a volte è un vero e proprio obbligo di

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Corporate governance

• Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico(OCSE), «la corporate governance è il sistema mediante il quale le societàvengono governate e controllate. La struttura di corporate governance speci-fica la distribuzione di diritti e doveri dei diversi componenti, dagli ammini-stratori al management, dagli azionisti ad altri stakeholder, precisando regolee procedure in base alle quali prendere le decisioni in ambito societario. Inquesto modo delinea anche l’organizzazione mediante la quale si stabilisconoobiettivi e strategie, nonché i mezzi con cui perseguire tali obiettivi e con-trollare la performance». Questa definizione è coerente con quella data da Adrian Cadbury nel “Reportof the Committee on the Financial Aspects of Corporate Governance”, deldicembre 1992, disponibile sul sito http://www.ecgi.org/codes/documents/cad-bury.pdf. Anche se abbastanza precisa, non chiarisce del tutto se il terminedebba essere associato solo a un sistema di regole interne a un’azienda o com-prenda anche leggi vigenti e norme sociali, come credo debba essere.

• «La corporate governance è intesa a promuovere l’equità, il senso di

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legge, perlomeno negli Stati Uniti. Nelle società moderne, più le norme sociali sono effi-

caci, meno si deve intervenire con leggi e contratti. Se lenorme sociali riescono a scoraggiare dirigenti e ammini-stratori da comportamenti quali l’insider trading o l’o-perare con aziende correlate in termini eccessivamentefavorevoli, gli investitori si convinceranno a fare menoaffidamento su meccanismi più costosi (quali le causelegali) per tenere sotto controllo il comportamento dicoloro ai quali hanno affidato il proprio denaro.

Ne deriva che il termine corporate governance vainteso in senso più ampiamente descrittivo che nonsemplicemente prescrittivo. Infatti, descrive tutti i mec-canismi, le istituzioni e gli strumenti mediante i quali sigestisce una società e tutto ciò che in qualche modo puòinfluenzare le modalità di gestione. In altre parole,qualsiasi meccanismo, istituzione o strumento cheinfluenzi il processo decisionale all’interno di unasocietà è parte del sistema di corporate governancedella società stessa.

Per gestire un’organizzazione complessa quale èuna società occorre un’articolata struttura di istituzionie processi, che comprenda anche le leggi. Nel loro insie-me, questi fattori stabiliscono quanto conta il poteredirigenziale in un’azienda, quanta voce in capitolo

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La corporate governance come promessa

responsabilità e la trasparenza delle società per azioni», J. Wolfensohn, ex pre-sidente della Banca mondiale, citato nel Financial Times del 21 giugno 1999. La corporate governance si occupa del governo d’impresa e non di promuo-vere alcunché. Naturalmente, se una società è ben governata, è probabile cheabbia connotati di equità, affidabilità e trasparenza.

• «Alcuni commentatori restringono il campo sostenendo che la corporategovernance è un termine di fantasia con il quale si definisce il modo in cuiamministratori e revisori gestiscono le loro responsabilità nei confronti degliinvestitori. Per altri l’espressione è sinonimo di democrazia azionaria. Quelche è certo è che si tratta di un concetto recente, difficile da definire e quin-di dai confini ancora imprecisati», Nigel Maw - Michael Craig-Cooper, Mawon Corporate Governance, Brookfield VT, Dartmouth Publishing, 1994, p. 1. Quest’ultima definizione quantomeno riconosce che manca un’idea condivi-sa sul termine corporate governance. Come le altre non riesce però a precisa-re se si tratta di un concetto che descrive quello che gli amministratori fannoin concreto o che prescrive le modalità mediante le quali gli amministratorisarebbero tenuti a operare.

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abbiano gli investitori e quali siano le modalità con cuivengono prese le decisioni.

Scopo della corporate governance è salvaguardarel’integrità delle promesse fatte dalle società agli investi-tori, ma i contenuti di tali promesse sono definiti conmeccanismi (vale a dire il processo contrattuale) propridi ogni rapporto tra le parti. In linea di massima, l’o-biettivo di partenza è la massimizzazione degli utili; lesocietà sono più o meno universalmente intese comeentità economiche che agiscono per massimizzare ilvalore per gli azionisti. Ma tale obiettivo dovrebbe esse-re inteso come una scelta degli azionisti.

Gli investitori dovrebbero essere liberi di sostenereimprese che perseguono scopi diversi dalla massimiz-zazione degli utili. Chiunque altro, al di fuori di questorapporto, non dovrebbe avere alcun diritto di dettare lecondizioni di accordi privati tra le società e gli azionisti,così come non ha alcun diritto di dettare le condizionidi altri accordi contrattuali.

Molti economisti e giuristi considerano qualsiasiazione di dirigenti, amministratori o altre figure azien-dali non finalizzata alla massimizzazione degli utili unaforma di devianza societaria. In particolare, i primidefiniscono la devianza societaria con l’espressione“costi di agenzia”, secondo l’idea che chi dirige unasocietà è una sorta di agente degli azionisti. Poiché ilcontrollo degli agenti è oneroso, è inefficiente tentare dicontrollare tutti i comportamenti deviati di dirigenti,amministratori e altri responsabili aziendali. Tuttavia,se questo è l’intento degli investitori, i meccanismi uti-lizzati sono le istituzioni e gli strumenti della corporategovernance. I sistemi migliori di corporate governancesono quelli che meglio controllano le forme di devianzasocietaria.

Ci si occupa di corporate governance perché haripercussioni sull’economia reale. A parità di situazioni,un sistema efficiente di corporate governance permettedi migliorare la performance aziendale e di agevolarel’accesso al capitale. Tuttavia, poiché instaurare unsistema di corporate governance comporta dei costi, si

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tende a massimizzarne il valore (ma non la complessi-tà) ottimizzando i meccanismi di controllo e regola-mentazione dei comportamenti dei dirigenti.

Questa è una regola fondamentale, pur con delleeccezioni. Porre la massimizzazione degli utili al primoposto tra gli obiettivi societari non è un obbligo impre-scindibile; gli investitori possono (e spesso lo fanno)sostenere società con altri obiettivi per gli azionisti. Peresempio, vi sono moltissime società (dallo scoutismoalla Croce Rossa) il cui scopo sociale è espressamenteassistenziale o non-profit, del tutto estraneo agli inve-stitori e ai loro interessi. Vi sono poi società “tradizio-nali” ad azionariato ristretto, che sembrano esistere piùper fornire impieghi remunerativi ai membri dellafamiglia che le controlla che non per generare utili per(inesistenti) investitori esterni. Questi comportamentinon sono né scorretti né condannabili fintanto che sonoin linea con le aspettative legittime di chi ha investito odonato del denaro.

Azionisti e altri operatori sono liberi di investire insocietà di cui condividono gli obiettivi legittimi (legali),dalla massimizzazione degli utili alla redistribuzionedegli stessi. Non esistono obiezioni teoriche o moraliverso chi afferma che gli scopi delle società modernedevono tenere in conto gli interessi di tutti gli stakehol-der, e non solo quelli degli azionisti, a patto però chetali scopi siano chiaramente esplicitati agli investitoriprima del conferimento di capitale. Alla frequente criti-ca per cui la moderna corporate governance sarebbeincentrata sugli investitori, rispondo che scopi e obietti-vi di una società devono essere stabiliti all’atto dellacostituzione ed esplicitati ex ante nel momento in cui lasocietà viene quotata in Borsa o comunque quando ini-zia ad allettare i primi investitori esterni (con parteci-pazioni di minoranza). Dopodiché, il gruppo di con-trollo dovrebbe agire coerentemente con le legittimeaspettative degli investitori.

Negli Stati Uniti più che altrove, la moderna societàad azionariato diffuso è caratterizzata dalla separazio-ne tra chi detiene le azioni e chi dirige e amministra la

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società stessa. Ciò significa che manager e amministra-tori non possiedono quote della società ma ne gestisco-no i beni e sono responsabili delle strategie e delle tatti-che utilizzate per produrre utili. Al tempo stesso, però,chi mette a disposizione la parte più consistente delcapitale di rischio è un’ampia e variegata pletora di pic-coli azionisti, ed è grazie al loro investimento che è pos-sibile acquistare i beni dell’impresa e svolgere tutte lealtre attività, compresa l’accensione di crediti. L’inter-locking directorate, ossia l’esercizio simultaneo della cari-ca di amministratore in più società, e la presenza di pac-chetti azionari controllati da un’unica famiglia o da unristretto gruppo societario rappresentano fenomeni dif-fusi in Europa e Asia ma quasi del tutto assenti negliStati Uniti.

La particolare struttura della proprietà nelle societàamericane assicura opportunità e sfide uniche nel lorogenere. La capacità di ottenere vaste somme di denarodai più svariati investitori consente la democratizzazio-ne del capitale. Vi sono grandi società che controllanomiliardi di dollari forniti da investitori della classemedia, i cui contributi a premi assicurativi, fondi pen-sionistici e fondi d’investimento finanzia i capitali azio-nari delle società statunitensi. Se la struttura societarianon fosse caratterizzata dalla separazione tra chi detie-ne le azioni e chi governa l’impresa, non vi sarebbero néuna classe media solida né un numero consistente dimultinazionali di successo. La “cultura dell’azionaria-to” degli Stati Uniti rimane perciò unica; negli altripaesi, anche i più evoluti come Francia, Germania, Ita-lia e Giappone, le grandi imprese sono controllate perlo più da famiglie potenti e molte società per azionidalle banche, mediante un sistema complesso di parte-cipazioni incrociate, e, in qualche caso, dai governinazionali. Gli azionisti sono in balìa di questi forti grup-pi d’interesse e, com’è del resto prevedibile, vedonospesso il proprio interesse scivolare in secondo piano.

Al contrario, per tradizione negli Stati Uniti gli azio-nisti sono sempre stati al centro del modello di corpo-rate governance. A differenza che altrove, molti (anche

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se non tutti) esperti concordano sul fatto che una socie-tà debba essere gestita a favore degli azionisti, con l’u-nico vincolo delle responsabilità legali e contrattualiverso terzi. In un sondaggio tra top manager americani,alla domanda “A chi appartengono le grandi società adazionariato diffuso?” il 76 per cento ha risposto che iproprietari sono gli azionisti. Decisamente opposta èstata la risposta in Giappone, dove il 97,1 per cento deitop manager ha affermato che a possedere le societànon sono solo gli azionisti ma l’insieme di tutti gli sta-keholder, vale a dire anche dipendenti, clienti, fornitorie comunità locali; concordano su questa linea i managertedeschi e francesi (82 e 78 per cento rispettivamente).

Questi dati statistici sulle opinioni del managementa proposito di quanto siano rilevanti i dividendi equanto lo sia la sicurezza dell’impiego confermano ladistinzione già sottolineata tra l’approccio americano algoverno d’impresa e quello di altri paesi. In Francia,Germania e Giappone, molti manager pensano che illoro compito primario sia quello di assicurare l’impiegoai lavoratori, mentre negli Stati Uniti l’attenzione èmaggiormente rivolta in generale agli interessi degliazionisti e in particolare alla distribuzione di dividendi.Così, l’89 per cento dei top manager statunitensi haaffermato che riuscire a ottenere dividendi per gli azio-nisti è più importante che garantire un impiego sicuroai lavoratori, mentre in Giappone solo il 3 per cento è diquesta opinione. Similarmente, un’indagine su 1000società giapponesi e 1000 americane, condotta dall’a-genzia di pianificazione economica nipponica, ha rile-vato che le imprese statunitensi considerano il corsoazionario ben più importante della quota di mercato,mentre per quelle giapponesi vale l’inverso.

Questi dati stanno però cambiando e presto sarannoobsoleti. Le società di tutto il mondo, comprese quellecinesi e indiane, si stanno accostando al modello ameri-cano di corporate governance, incentrato sugli azioni-sti. La recente ascesa di Londra e Hong Kong nel ruolodi piattaforme di lancio di offerte pubbliche iniziali(IPO) è un’ulteriore conferma del fatto che società euro-

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pee e asiatiche sono riuscite a convincere gli operatoriche un investimento in equity di imprese non statuni-tensi sia un “buon affare”. Prende piede, inoltre, la con-vinzione che le grandi società per azioni ben capitaliz-zate possono esistere in democrazie stabili con una con-solidata classe media soltanto se la struttura societariaprevede la separazione tra proprietà e controllo.

Questo spostamento dell’attenzione sulla strutturasocietaria statunitense ha portato alla ribalta il modellodi corporate governance del paese, che è poi l’oggettodi questo volume. I gravi scandali che hanno travoltoalcune società americane all’inizio del XXI secolo hannospinto molti a chiedersi se tale modello sia in effetti effi-cace. Per valutarlo occorre prima chiarire che cosa siintenda per corporate governance.

A mio parere, la corporate governance descrive ivari meccanismi e le istituzioni (leggi, norme sociali econtratti compresi) mediante i quali gli azionisti e altriinvestitori esterni cercano di avere la garanzia che chidirige l’impresa sia un affidabile custode dei loro inve-stimenti. Uno degli obiettivi di questa mia analisi èquello di fornire un quadro della corporate governanceche sia coerente con l’analisi economica di base di unasocietà per azioni. In particolare, gli studiosi moderninon sono mai riusciti a riconciliare la famosa “teoriadell’impresa” di Ronald Coase, basata sul concetto chela società ad azionariato diffuso sia un insieme di con-tratti, con la nozione ampiamente diffusa nel diritto enell’economia che le società e i loro amministratori deb-bano massimizzare il valore dell’impresa. In ambitoeconomico tale nozione si traduce nella teoria secondola quale l’obiettivo principale di una società per azioniè massimizzare il valore per gli azionisti, mentre inambito giuridico si traduce nel principio che i funzio-nari e gli amministratori di una società sono soggetti aidoveri fiduciari assoluti di custodia e lealtà esclusiva-mente verso i propri azionisti. Se, come è certo, Coasenon sbaglia nell’affermare che la società per azioni sipuò intendere come una rete di contratti impliciti edespliciti tra le varie componenti di un’impresa, costitui-

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te dagli azionisti ma non solo, allora tutto si riconducealla negoziazione, compresa la scelta di obiettivi e scopisociali, e diventa evidente che tutte le componenti coin-volte nell’impresa potrebbero (e dovrebbero) esserelasciate libere di contrattare tra loro per fissare prioritàcondivise. Il fatto che i manager possano, se lo deside-rano, proporre di vendere azioni promettendo di soste-nere la difesa dei posti di lavoro, la protezione ambien-tale, l’abolizione della povertà piuttosto che l’incremen-to del patrimonio degli azionisti in cambio del denarodegli investitori è solo un’ulteriore conferma. Ciò cheinvece non dovrebbe essere permesso è che i managervendano le azioni con la promessa implicita o esplicitadi massimizzare il valore per gli azionisti salvo poi,dopo aver ottenuto gli investimenti, decidere di perse-guire altri obiettivi che reputano migliori.

La massimizzazione del patrimonio degli azionistidovrebbe essere una norma e una regola sottintesa, maniente di più: in sostanza, gli azionisti dovrebbero esse-re liberi di investire in società che perseguono un simi-le obiettivo come in altre che non lo perseguono, in unagamma di proposte che va dalle società che assicuranoprofitti più o meno consistenti (anche se produconoarmi o sigarette) a quelle che esplicitamente non dannoutili perché sono non-profit, passando per i fondi d’in-vestimento a sfondo sociale o ambientalista.

Nel maggio 2007, per esempio, il New York Times haparlato della Altrushare Securities, una società di inter-mediazione mobiliare di Wall Street il cui capitale azio-nario è detenuto per i due terzi da due istituti di bene-ficenza, un esempio, secondo il quotidiano, «dell’emer-gente tendenza a far convivere obiettivi societari ascopo di lucro con altri non a scopo di lucro».2 Il con-trollo non-profit della Altrushare Securities generavauna mission diversa da quella più frequente di massi-

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22.. Stephanie Strom, “Businesses Try to Make Money and Save the World”,New York Times, 6 maggio 2007, http://www.nytimes.com/2007/05/06/busi-ness/yourmoney/06fourth.html?_r=1andoref=sloginandemc=eta1andpagewan-ted=print (consultato 8 ottobre 2007).

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mizzazione degli utili, sintetizzata dal fondatore PeterDrasher nel «sostegno alle comunità in difficoltà con inostri profitti».3 Sembra che questo modello di fusionetra l’efficienza della società a scopo di lucro e gli idealisociali e umanitari della società non-profit venga oggiseguito da altre imprese, anche se è rimasto limitato allesocietà ad azionariato ristretto, perché quando la baseazionaria è troppo frammentata diventa praticamenteimpossibile condividere qualsiasi obiettivo diversodalla massimizzazione degli utili.

La maggior parte degli investimenti converge versoimprese a scopo di lucro, e più alto è il rendimento piùsono felici gli investitori. Questa tendenza preponde-rante non può essere semplicisticamente ricondotta aun concetto di avidità degli individui, perché se è veroche l’incremento del proprio capitale è l’obiettivo ditutti, il raggiungimento di un determinato benessere dàla libertà di scegliere di destinare una parte dei propriguadagni a opere caritative. Ecco perché, anche in unpaese di persone generose come gli Stati Uniti, non c’èda stupirsi se di fatto la maggior parte decide di inve-stire in società a scopo di lucro. Di fatto, le società chepromettono di rivelarsi un buon investimento sono piùcapaci di rastrellare capitale di quelle che non fannoquesto tipo di promessa.

Dalla teoria contrattuale di Ronald Coase che hodescritto emerge anche una visione di tipo morale dellamoderna società ad azionariato diffuso. Se infatti lasocietà è un insieme di contratti, il suo scopo deve esse-re quello di agire sia in conformità con le leggi vigentinel proprio ambito di giurisdizione sia nel rispetto dellaserie di promesse implicite ed esplicite rivolte ai suoiinterlocutori. Di primario interesse sono le promessefatte al momento della vendita delle azioni, ma nonsolo quelle: è per questo che mi riferisco a questo tipodi approccio con l’espressione “teoria promissoria” diuna società ed è in questa prospettiva che il libro consi-dera il diritto societario e la corporate governance.

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33.. Stephanie Strom, “Businesses Try to Make Money and Save the World”.

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Il punto di partenza per le mie analisi è quindi l’ideache la società per azioni sia un insieme di contratti e,come è di regola per qualsiasi contratto, tali contratticostituiscano l’insieme delle promesse fatte a investito-ri, dipendenti, fornitori, clienti, comunità locali e qual-siasi altro soggetto coinvolto. La regola acquisita eincontestabile del diritto societario stabilisce che lesocietà vengano formate ai fini di massimizzare il valo-re per gli azionisti, nel rispetto delle leggi vigenti e dieventuali accordi precedenti con altri interlocutori,come i dipendenti e i creditori.

La legislazione in materia di diritto societario ècoerente con l’analisi economica presentata in questolibro. All’interno dell’impresa gli azionisti si distinguo-no per essere residual claimants, ossia hanno diritto agliutili ma solo dopo che sono state soddisfatte tutte lepretese dei fixed claimants, che hanno diritto al soddi-sfacimento di crediti prestabiliti. Ne consegue che gliazionisti sono il gruppo più motivato alla discrezionali-tà nel prendere decisioni di carattere strategico. Deci-sioni in merito a un nuovo investimento o a un orienta-mento strategico, per esempio, come anche la strategiaaziendale dovrebbero soddisfare le esigenze degli azio-nisti, in quanto gruppo sul quale maggiormente siripercuotono i risultati di tali decisioni. Secondo FrankEasterbrook e Daniel Fischel, al contrario degli azionisti«tutti gli altri soggetti non sono adeguatamente moti-vati. Chi ha diritto a pretese stabilite sul flusso reddi-tuale (generato dalla società) riceve un beneficio mini-mo (sotto forma di maggiore sicurezza) da un nuovoprogetto, mentre gli azionisti ricevono la maggior partedegli utili marginali e sostengono la maggior parte deicosti marginali. Hanno perciò il giusto incentivo a eser-citare la propria discrezionalità».4

L’organizzazione aziendale in genere, e quella dellesocietà per azioni in particolare, è una forma standarddi contratto. La corporate governance funziona quando

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44.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “Voting in Corporate Law”,Journal of Law and Economics, 26, 1983, p. 403.

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convince dirigenti, amministratori e chiunque abbiapotere decisionale in ambito aziendale ad agire in con-formità con quanto implicitamente o esplicitamenteconvenuto in sede contrattuale tra gli investitori e l’im-presa. Al di là di qualsiasi commento su esempi famosidi devianza societaria, come il caso di Enron o di Tyco,il punto è che i responsabili aziendali e gli amministra-tori non hanno mantenuto le promesse di natura legaleo fiduciaria fatte agli investitori.

Sulla base dell’affermazione iniziale di questa intro-duzione, e cioè che la corporate governance è una que-stione di promesse, il libro illustra quelli che ritengoessere i meccanismi e le istituzioni più importanti einteressanti ai fini di garantire che le società che vendo-no azioni al pubblico mantengano le promesse nei con-fronti degli investitori. Nel loro insieme, tali meccani-smi costituiscono l’infrastruttura di corporate gover-nance a disposizione di investitori e imprenditori in unparticolare contesto economico. Nell’espressione cor-porate governance rientrano concetti giuridici, politici edi normativa sociale, nonché i contratti che regolamen-tano e motivano i comportamenti all’interno di unasocietà. A questo proposito, il capitolo 1 analizza ilmodo in cui i contratti, sotto forma di atti costitutivi estatuti societari, definiscono il rapporto tra impresa eazionisti.

Dato per scontato che tutte le società necessitano dicapitale per attuare i propri scopi, questo non vienesempre generato nello stesso modo. Per alcuni tipi diinvestimenti, soprattutto quelli più a rischio come negliambiti di ricerca e sviluppo, gli investimenti in equityprevalgono sul ricorso al credito, poiché tali investi-menti ad alto rischio producono cash flow incerti chemal si conciliano con le pretese fisse di prestiti bancario obbligazionari, e non c’è nemmeno modo di pro-grammare il rimborso del capitale e degli interessi,come invece impongono i fixed claimants. Per questomotivo, la corporate governance deve in primo luogomirare a massimizzare il valore per gli azionisti.

Si ritiene che diversi meccanismi e istituzioni giochi-

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no un ruolo fondamentale nella corporate governance,tra le quali spiccano i cosiddetti gatekeepers, o custodi,vale a dire avvocati, banche, commercialisti, nonchéconsigli di amministrazione e istituzioni finanziarie checontrollano l’operato delle imprese alle quali hannoprestato denaro. Gli azionisti fanno affidamento su talistrumenti per affrontare i problemi insiti nelle grandisocietà ad azionariato diffuso, caratterizzate dalla sepa-razione tra proprietà e gestione dell’impresa. Sui mer-cati americani dei capitali, caratterizzati più di altridalle forme di azionariato diffuso, è sorprendente lacontinua disponibilità degli investitori ad acquisire par-tecipazioni azionarie in imprese controllate da altri inqualità di residual claimants. La propensione a investireil proprio denaro in attività sulle quali non si ha prati-camente controllo, né alcun diritto giuridico al recupe-ro del capitale o a distribuzioni periodiche di dividen-di, richiede un grande atto di fiducia. Tale fiducia, a suavolta, dipende in modo sostanziale dall’efficacia dellacorporate governance.

Nel capitolo 1 e in altre parti del libro cerco di iden-tificare e distinguere tre fattori primari che influenzanoil processo decisionale in azienda: i contratti, le leggi,nonché le norme e consuetudini sociali che, consideratinel loro insieme, determinano le modalità di governo diun’impresa. Le interazioni tra questi tre fattori sonoaltamente complesse, perché ognuno integra o puòsostituirsi agli altri, come viene evidenziato da esempiquali il diritto di voto degli azionisti, trattato nel capi-tolo 13. Queste tre fonti di corporate governance defini-scono le diverse modalità di influire sulle politiche, lestrategie, gli indirizzi e le decisioni di un’azienda.

In questo volume si è voluto fornire uno strumentocon il quale riuscire a valutare la validità di affermazio-ni che definiscono la corporate governance di unasocietà o di un sistema legale “efficace” o “inefficace”.Si prenda come esempio la spinosa questione dellaretribuzione della dirigenza. Oggi, lo stipendio mediodi un CEO di una società ad azionariato diffuso statu-nitense è ben al di sopra dei 10 milioni di dollari l’anno,

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molto più che in qualsiasi altro paese: tre volte di piùche in Giappone e due volte di più rispetto alle contro-parti dell’Europa occidentale. L’opinione comune è chei membri di un consiglio di amministrazione siano stra-pagati, mentre altri ritengono che il processo di deter-minazione dei compensi alla dirigenza sia stato corrot-to da consigli di amministrazione accondiscendenti,addomesticati, compiacenti o in qualche modo “asser-viti” (vedi il capitolo 4), da regole contabili fiacche(capitolo 11), da votazioni assembleari inefficaci (capi-tolo 13) o da legislatori docili (capitolo 7).

Sono pareri assolutamente condivisibili, ma se siritiene corretta l’idea che la corporate governance servea controllare l’inclinazione della società a deviare dalleaspettative legittime degli investitori, la retribuzionedella dirigenza può essere considerata in una nuovaluce. In primo luogo è chiaro che, fintanto che la socie-tà paga i dipendenti e i fornitori ed è in regola con gliobblighi fiscali e gli impegni nei confronti dei fixed clai-mants, nessuna di queste componenti può avere motivodi lamentarsi dei compensi accordati alla dirigenza. Percontro, solo agli azionisti interessa che a un determina-to stipendio corrispondano prestazioni adeguate, manon è assolutamente scontato che eventuali rimostran-ze siano legittime. Prendiamo ad esempio la famosacontroversia sulla retribuzione occulta di Jack Welch inqualità di CEO della General Electric: chi già da tempocriticava il cospicuo compenso che prendeva per ammi-nistrare la società, si scandalizzò ancora di più quando,in sede di chiusura del rapporto nel 2001, si scoprì cheoltre alla pensione di 9 milioni di dollari annui la GEpagava una serie di spese personali, tra le quali il man-tenimento di un appartamento da 15 milioni di dollariaffacciato su Central Park West, l’accesso illimitato adaerei privati 24 ore al giorno e i biglietti per spettacolied eventi sportivi. Come però ha avuto modo di chiari-re Gerson Zweifach, noto avvocato esperto in materiaretributiva, in una recente conferenza sulla corporategovernance presso la Yale Law School, durante il man-dato di Welch il valore del capitale azionario della GE è

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sorprendentemente aumentato di 250 miliardi di dolla-ri. Gli azionisti che negli anni Settanta possedevano pic-coli pacchetti azionari si ritrovarono letteralmentemilionari quando Welch andò in pensione. Se, per ipo-tesi, nel 1970 Welch avesse detto a ognuno di questiazionisti che avrebbe fatto guadagnare loro cifre incre-dibili sul lungo periodo, ma che in cambio voleva unaretribuzione di centinaia di milioni di dollari per i suoiservizi e che, una volta in pensione, avrebbe chiesto unaserie di extra, tra cui magari anche i fiori freschi ognisettimana nel suo appartamento di Manhattan, nessunazionista sano di mente avrebbe rifiutato.

Il rapporto tra Jack Welch (in quanto rappresentantedella GE) e gli azionisti della società si basava su unipotetico contratto più che su una reale promessa, per-ché di fatto né Welch né l’azienda avevano mai fattopromesse che prevedessero fiori o altri benefit. Le pro-messe reali, quindi non ipotetiche o implicite, sonoquanto di meglio ci sia per chiarire che cosa gli azioni-sti possono aspettarsi, ma anche gli accordi ipoteticicome quello appena descritto si rivelano utili, e illu-strano come funziona la corporate governance intesacome promessa.

Dal capitolo 3 in poi, esamino i meccanismi e le isti-tuzioni di corporate governance per identificare quali,secondo me, sono i più efficaci, perché se da un lato hocercato di presentare l’argomento in tutta la suaampiezza, dall’altro non ho inteso fare una ricognizio-ne generica, bensì arrivare a un punto di vista specifico.

Dal capitolo 4 al 15, illustro quelli che ritengo esserei meccanismi e le istituzioni di corporate governancepiù interessanti e importanti e spero così di riuscire adare una risposta alla domanda se le potenti istituzionisociali e legali siano equilibrate oppure no nell’incorag-giare o scoraggiare i vari meccanismi di corporategovernance. La mia tesi è che la legge americana non èapplicata in modo equo. I meccanismi e le istituzioni dicorporate governance meno validi non vengono limita-ti, ma anzi spesso decisamente incoraggiati e sovven-zionati, mentre quelli più efficaci nel frenare i compor-

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tamenti deviati della dirigenza sono di frequente osta-colati e scoraggiati, come dimostrano le prolungaterestrizioni nei confronti del mercato del controllo socie-tario, uno degli strumenti storicamente più validi,affossato da leggi parlamentari e normative di ognigenere, che hanno reso la scalata ostile virtualmenteobsoleta. Anche l’offerta pubblica iniziale è uno stru-mento efficace che viene poco utilizzato a causa dieccessiva regolamentazione e del rischio di cause lega-li, mentre istituzioni relativamente inefficaci, come glienti amministrativi, le agenzie di rating del credito epersino i consigli di amministrazione, godono di con-tributi istituiti per legge.

Gli imprenditori più ingegnosi hanno sviluppatonuovi strumenti di corporate governance per sostitui-re quelli che sono stati resi troppo costosi dalle regola-mentazioni. In particolare, hedge fund e fondi di pri-vate equity hanno rilevato buona parte della funzionedi corporate governance tradizionalmente svolta dalmercato del controllo societario. Non c’è da stupirsi,quindi, se per queste istituzioni emergenti si stia chie-dendo a gran voce una opportuna e migliore regola-mentazione.

L’approccio che intende la corporate governancecome promessa è, nella prospettiva americana, sia pre-scrittivo che descrittivo, illustra cioè non solo ciò che lacorporate governance dovrebbe fare negli Stati Uniti,ma anche ciò che fa in sostanza. Leggi, contratti enorme sociali sono nell’insieme intesi a favorire gli inte-ressi degli investitori e, se massimizzano il valore diun’azienda direttamente, creano incentivi ad altri permassimizzare tale valore, o almeno forniscono suffi-cienti informazioni per permettere agli investitori divalutare quale impresa possa dare gli utili migliori,sono coerenti con la teoria promissoria delle società.

Questo approccio è universale e può applicarsi aqualsiasi sistema economico che sostenga di rifarsi alleregole della legge. Ciononostante, il modello americanoche identifica a priori la promessa con la massimizza-zione degli utili per gli azionisti non è affatto l’unico e

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neanche il più diffuso nel mondo. In molti paesi,soprattutto Germania e Giappone, la premessa fonda-mentale per la corporate governance di una società nonè la promessa di massimizzazione del valore per gliazionisti, bensì il concetto che la società è una creazionedello Stato, i cui obiettivi sono quelli di soddisfare unamiriade di interessi societari, spesso in conflitto tra loro.Nei paesi che adottano questo tipo di corporate gover-nance, per esempio in Germania, le società non sonolibere di impegnarsi contrattualmente a massimizzaregli utili per gli investitori, ma, pur in assenza di obbli-ghi giuridici, le pressioni del mercato e la concorrenzainternazionale possono costringerle a farlo.

L’approccio proposto in questo libro si distingueanche perché suggerisce che, dal punto di vista degliinvestitori, in molti contesti una corporate governancepiù lasca è preferibile rispetto a una più rigida. Peresempio, molti dei dibattiti attuali tra esperti di dirittoe legislatori si incentrano sulla questione di comemigliorare il livello di democrazia tra gli azionistiaumentando i loro diritti di voto. Si dà per scontato,quindi, che maggiori possibilità di voto siano necessa-riamente un vantaggio per gli azionisti. Ma se si esami-na più a fondo il problema dalla prospettiva della teo-ria promissoria, come avviene nel capitolo 13, unaumento non è sempre la soluzione migliore. In sostan-za, il punto è non tanto come aumentare i diritti di voto,ma limitare il diritto di voto alle circostanze nelle qualii benefici superano i costi. In un contesto di corporategovernance intesa come promessa si presume che gliazionisti si concentrino sulla massimizzazione dei loroutili e non si considera neppure lontanamente l’ipotesiche un azionista possa votare per altri motivi, per esem-pio per dimostrare le proprie abilità oratorie o il sensodi appartenenza alla società.

Gli azionisti dovrebbero essere liberi di espandere (orestringere) il ventaglio di ambiti su cui esprimere ilproprio voto. Nell’ottica di corporate governance comepromessa, l’obiettivo di massimizzare il valore per gliazionisti non è altro che la norma delle società statuni-

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tensi, ma se gli azionisti ritengono positivo ampliare ilproprio diritto di voto dovrebbero poterlo fare. D’altrocanto, gli azionisti che pensano di non essere in gradodi esprimere un voto elettivo tale da favorire la crescitadegli utili dovrebbero comunque essere in grado dinegoziare un più ampio diritto di voto se preferisconoil voto alla ricchezza. Come già detto, la questione cru-ciale non è capire se una società e i suoi azionisti sonoliberi di scegliere gli accordi legali ai quali assoggettar-si, ma definire la regola prestabilita e le modalità ade-guate per rendere note le proposte che da questa rego-la si discostano.

Ogni volta che gli azionisti pensano di dover averespeciali diritti di voto per limitare i costi di agenzia (nelsenso di devianze societarie rispetto alle loro preferen-ze, come spiegato sopra), la giustizia dovrebbe difen-derli senza esitazioni. Nel caso di un’offerta ostile per ilcontrollo della società, per esempio, gli azionisti posso-no ragionevolmente pensare che chi dirige la società larifiuti per mantenere le proprie posizioni prestigiose eremunerative. Non è infatti difficile immaginare che unmassimo dirigente sia tentato di anteporre i propri inte-ressi a quelli degli azionisti e anche il CEO più correttonei confronti degli azionisti potrebbe lasciarsi tentaredall’idea di essere più adatto di un estraneo a guidarela società, nonostante la disponibilità dell’offerenteesterno di accordare ottimi premi sulle azioni. In questesituazioni, gli azionisti si sono spesso rivolti ai tribuna-li per reclamare maggiori diritti di voto nelle disputeper il controllo. Quello che in genere chiedono è la pos-sibilità di approvare le offerte di altre società anche con-tro il parere del proprio consiglio di amministrazione,in modo da impedire (o almeno poter esprimersi inmerito) tattiche difensive da parte della dirigenza percontrastare offerte esterne.

Nell’ottica della corporate governance intesa comepromessa, questo attrito tra gli interessi degli azionisti ela legge è uno degli argomenti principali del libro.Anche se il diritto societario e le regole della Securitiesand Exchange Commission (SEC) dovrebbero potenzia-

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re il potere contrattuale degli azionisti all’interno del-l’azienda, non sempre è così. Come già detto (e comepoi spiego nel capitolo 8), le leggi federali e quelle deisingoli Stati ostacolano il mercato del controllo societa-rio e non lasciano votare gli azionisti nei contesti in cuisi esercita un controllo ogni volta che il loro votopotrebbe minacciare i poteri tradizionali degli ammini-stratori. Continuo nel capitolo 9 sottolineando che, non-ostante i notevoli benefici apportati alla corporategovernance dalle frequenti offerte pubbliche iniziali(initial public offerings, IPO), negli Stati Uniti le normati-ve hanno soffocato questo particolare mercato.

Il ruolo delle banche e di altri istituti di credito nellacorporate governance è molto dibattuto nei circoliinternazionali (capitolo 14). Coloro che propongono chele banche acquisiscano un ruolo di preminenza nellacorporate governance le considerano una sorta di inve-stitore sovraistituzionale, le cui risorse, capacità emezzi finanziari assicurerebbero la vigilanza e il con-trollo necessari sulla dirigenza, anche nel caso delle piùcomplesse società ad azionariato diffuso. Questa conce-zione si basa sull’idea che ci vuole qualcuno che si assu-ma il compito di controllare come una società vienegestita e che questo ruolo non possa essere svolto daipoco preparati e “poveri” azionisti, ma solo da grandibanche.

Il problema di questa linea di pensiero è che le pro-spettive economiche delle banche differiscono in modosostanziale da quelle degli azionisti. Come specificatonel capitolo 14, l’interesse primario delle banche versole società scaturisce dal rapporto di credito e, per que-sto motivo, sono concentrate a garantire il rimborso delcapitale e degli interessi dovuti sul prestito commercia-le. Sono perciò molto più attente a controllare quelleimprese che si lanciano in progetti più rischiosi diquanto sia strettamente necessario. Su un fronte decisa-mente opposto si trovano gli azionisti, la cui maggiorepreoccupazione è quella di generare profitti, ben aldilàdi quelli necessari per pagare i fixed claimants, come lebanche.

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Questo approccio del tutto divergente nei confrontidel rischio crea una vera e propria contrapposizione trafixed claimants ed equity claimants, che si esprime quan-do si tratta di scegliere la strategia migliore: gli azioni-sti in genere preferiscono investimenti che comportanorischi maggiori ma anche utili potenziali più alti, men-tre gli istituti di credito sono orientati verso propostepiù sicure che garantiscano il più possibile il rientrodelle somme prestate alla scadenza stabilita. Ecco per-ché le banche non sono la soluzione ottimale ai proble-mi di corporate governance che gli azionisti devonoaffrontare, anche se sono meglio di niente in assenza dialternative. Negli Stati Uniti, la legge distingue le ban-che commerciali dalle banche d’affari e dalle attivitàcommerciali in genere e ciò ha impedito loro di assu-mere un ruolo attivo nella corporate governance, comeinvece è successo altrove, anche se in linea di massimal’applicazione di tali leggi non è stata rigida.

Oltre a prendere in considerazione i meccanismi dicorporate governance più efficaci per gli azionisti, nellibro vengono illustrati anche quelli meno validi. Infat-ti, se da un lato un certo tipo di leggi soffoca i meccani-smi migliori, dall’altro vi sono leggi che di fatto inco-raggiano e sovvenzionano parecchi strumenti di scarsaefficacia.

Un meccanismo largamente promosso e sopravvalu-tato è quello del voto degli azionisti, cui ho già accen-nato in questa introduzione. Nel capitolo 13 tento didimostrare che il ruolo dei voti degli azionisti nella cor-porate governance è importante ma decisamente circo-scritto; questi non hanno infatti il tempo, l’esperienza,la motivazione e la propensione a votare più di quantogià non facciano. A mio parere, il voto degli azionisti èdunque un meccanismo inefficace di corporate gover-nance (si veda il capitolo 3 per la tassonomia dei mec-canismi efficaci e inefficaci).

Altri meccanismi sono ancora meno affidabili per ilcontrollo delle devianze manageriali. Ritengo che aquesto proposito il contributo più importante lo dia ilcapitolo 6, dove descrivo il ruolo dei consigli di ammi-

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nistrazione e dove sottolineo che alcune teorie e ipotesiin merito sono all’origine di qualsiasi modello di cor-porate governance. È mia opinione che tali teorie, tut-tora in vigore, abbiano uno o due difetti sostanziali. Inprimo luogo la maggior parte di esse parte dal presup-posto aprioristico che i consigli di amministrazionepossano essere organi di controllo affidabili e degni difiducia. A quelli coinvolti in scandali di varia natura(Enron, WorldCom, Tyco, Adelphia) si contesta il fattodi aver dato troppa fiducia al management e di nonessere stati abbastanza scettici nei confronti di alcuneoperazioni societarie. In realtà, tutti i CdA di questeimprese avevano una maggioranza di amministratoriindipendenti e alla Enron, in particolare, solo Ken Lay(CEO e presidente del consiglio) non lo era.

L’argomento più controverso del libro viene peròaffrontato nel capitolo 4, dove viene messa in discus-sione la convinzione, consolidata ma mai dimostrata,che è possibile migliorare la qualità della corporategovernance delle società ad azionariato diffuso sempli-cemente aumentando il numero di amministratori indi-pendenti nei CdA. Il problema è che anche questiamministratori cosiddetti indipendenti, che oggi affol-lano i consigli, sono ad alto rischio di condizionamentoda parte di coloro che dovrebbero controllare. Nel capi-tolo 5 vengono infatti presentati diversi case study ine-renti alla questione dell’asservimento dei consigli diamministrazione, proprio per dimostrare come anche iCdA che tutti consideravano veri e propri paradigmi diindipendenza abbiano spesso finito per essere condi-zionati. Enron è un caso esemplare di questa casistica,ma di certo non l’unico.

Nel capitolo 6 delineo una nuova figura di ammini-stratore “super-indipendente”, conosciuto come ammi-nistratore dissidente. Si tratta di amministratori nomi-nati ed eletti all’esterno della tradizionale rete di comi-tati dominati dalla dirigenza e quindi meno suscettibilidi condizionamento rispetto ad altri che approdanonella società grazie al sostegno del management in cari-ca. Gli amministratori nominati nell’ambito di hedge

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fund e private equity (di cui si parla nel capitolo 15)sono i migliori dissidenti per le società ad azionariatodiffuso.

Mentre tutti sono concordi nell’affermare che i con-sigli di amministrazione, anche quelli apparentementepiù indipendenti, sono esposti all’asservimento, nessu-no ha mai tentato di mettere a punto un modo per sco-vare i consiglieri realmente indipendenti e smascherarequelli che lo sono solo in apparenza. Finché non saràstato ideato un “test” a tal scopo, non si potrà fare affi-damento sugli amministratori indipendenti per risolve-re il problema di agenzia che rappresenta il nucleo fon-damentale della corporate governance. Quel che è peg-gio è che se gli amministratori sono scelti solo perchéindipendenti, spesso questi sanno poco o niente dellagestione o delle sfide strategiche della società in cuisono stati assunti. Forse, gli azionisti farebbero meglioad abbandonare il mito dell’amministratore indipen-dente e a ritornare ai CdA tradizionali, costituiti daparecchi consiglieri interni. Se è vero che i top managersono straordinari in un ruolo esecutivo ma certo non dameno nel ruolo di controllo, allora non sarebbe malereclutare qualcun altro nel CdA. Per gli azionisti, ilcosto di avere un solo top manager nel CdA potrebbeessere più elevato del beneficio.

Dopo aver dimostrato, nel capitolo 4, che i consiglidi amministrazione non sono un valido strumento dicorporate governance, in quelli successivi cerco di iden-tificare altri meccanismi, alcuni dei quali sono efficaci ealtri meno. Sottolineo che, quando uso il termine ineffi-cace, non voglio dire che quel particolare meccanismolo sia completamente, ma solo che lo è se paragonato adaltri molto più validi, come il mercato del controllosocietario, e che non soddisfa le aspettative. A miomodesto parere, i consigli di amministrazione, il votodegli azionisti (capitolo 13), i revisori esterni (capitolo11) e i whistle-blower (capitolo 12), ma anche le agenziedi rating del credito, gli analisti del mercato azionario ei legislatori (capitolo 7) si sono dimostrati alquantoinefficaci.

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Un altro punto di vista che ricorre nel volume è chei meccanismi di corporate governance meno efficacisiano maggiormente incoraggiati dai legislatori, mentrequelli più efficaci, in particolare gli hedge fund e leimprese di private equity (capitolo 15), gli amministra-tori dissidenti (capitolo 6), il mercato del controllosocietario (capitolo 8) e le IPO (capitolo 9), siano sog-getti a più severa regolamentazione. L’eccezione princi-pe alla regola per cui dove c’è una performance di spic-co arriva presto la regolamentazione è costituita dalleimprese di private equity e dagli hedge fund, non acaso questi meccanismi sono ad alto rischio di essereregolamentati. Contro questa minaccia e il coro di opi-nioni che ne sollecita la regolamentazione poco riesco-no a fare i manager delle società che vi si oppongono, enemmeno questo è una coincidenza. Solo in rare occa-sioni, come nell’estate del 2002 quando fu passata lalegge Sarbanes-Oxley, la corporate governance è stata alcentro del dibattito politico. Ma quando ciò avviene èperché i politici ritengono di dover attuare delle riformeper soddisfare l’opinione pubblica e sono perciòinfluenzati da gruppi di interesse organizzati. Gli azio-nisti non sono strutturati in efficaci coalizioni politiche;le dirigenze societarie invece lo sono e cercano diopporsi con tutte le loro forze a quelle riforme di cor-porate governance che possano mettere a repentaglio laloro posizione o minacciare la loro capacità di rimanereindipendenti rispetto a forze esterne (hedge fund, rai-der) contro le quali non avrebbero vita facile. In cimaalla lista delle misure di corporate governance a cui ilmanagement si oppone vi sono anche le riforme cheliberalizzano il mercato del controllo societario o dannomaggiori possibilità agli azionisti di controllare (oconoscere fino in fondo) le loro retribuzioni. Al contra-rio, i dirigenti sostengono (o semplicemente non con-trastano) quelle riforme che “banalmente” aumentano icosti imputabili agli azionisti e certamente non silamentano di quelle che rinforzano i CdA già asserviti,o che richiedono l’ulteriore ampliamento dell’apparatoburocratico, peraltro già gonfiato a dismisura.

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La teoria per cui gli strumenti più validi sono tassa-ti per legge mentre quelli più dannosi sono sovvenzio-nati, sempre per legge, non fa che confermare quantolegislatori e politici seguano la via della minor resisten-za quando devono regolamentare. Riescono così arispondere all’appello dell’elettorato di “fare qualcosa”per la corporate governance con leggi quali la Sarbanes-Oxley, che ha aumentato il potere degli amministratori“indipendenti”, o il Williams Act, che ha indebolito ilmercato del controllo societario, senza però intaccare laposizione dei top manager delle società ad azionariatodiffuso o di altri potenti gruppi di interesse.

Lo scopo principale di questa introduzione è quellodi definire l’espressione che è il fulcro di questo volu-me, vale a dire “corporate governance”. L’ho ricondot-ta su un piano contrattuale, rifacendomi alla teoriasecondo la quale una società è un insieme di contratti;la corporate governance è uno dei tanti fattori societari,legali, culturali ed economici che se usati in modo ade-guato rendono il processo di contrattazione più effi-ciente e affidabile. Il suo scopo è quello di controllare ledevianze societarie, cioè qualsiasi scostamento rispettoagli accordi presi tra le varie controparti interne all’im-presa e la società stessa. In altre parole, le parti contrat-tuali devono ottenere ciò per cui hanno pagato. Questaè quella che definirei la “teoria promissoria” di unasocietà, perché i contratti che la originano altro nonsono che una serie di promesse fatte dal managementagli investitori.

In particolare, il contratto tra gli azionisti e la socie-tà non è più importante del contratto tra le altre com-ponenti aziendali e la società, è soltanto meno detta-gliato. Le componenti diverse dagli azionisti chiedonoche vengano mantenute promesse semplici, per esem-pio le condizioni di impiego, i salari e il pagamento didebiti e interessi. Per contro, gli azionisti sono residualclaimants e in quanto tali chiedono a manager e ammi-nistratori di massimizzare il valore del loro investimen-to. Questa promessa, ben più generica e vaga, è allabase della corporate governance. Nei capitoli che

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seguono presento la mia visione, piuttosto disillusa eforse anche un po’ bizzarra, sulle varie istituzioni e suimeccanismi della corporate governance che sono ingrado di assicurare che le promesse nei confronti degliinvestitori vengano mantenute.

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La corporate governance è una questione di promes-se, mentre per loro natura le società per azioni si reggo-no su contratti. Ogni sfaccettatura del corso vitale diuna società, dalla costituzione allo scioglimento, ègovernata da contratti, ma il “contratto” con gli azioni-sti è poco più di una promessa.

I contratti di assunzione (anche se quelli collettivi dicategoria sono sempre meno frequenti) specificano lecondizioni dell’accordo tra i dipendenti e la società.Contratti vengono stipulati per regolare i rapporti con ifornitori, con i dirigenti e persino il rapporto di colla-borazione con gli amministratori. Infine, anche l’acqui-sto di un bene da parte del cliente finale è una formacontrattuale secondo il diritto commerciale.

Il contratto tra una società e i suoi azionisti coincidecon l’atto costitutivo della società stessa, integrato daipiù dettagliati termini dello statuto, dove sono indicatele linee guida che governano l’impresa. Questi atti rap-presentano l’essenza della corporate governance dellasocietà e delineano gli ambiti del rapporto tra azionistie società. Nel rispetto del diritto contrattuale, atti costi-tutivi e statuti variano sostanzialmente da società asocietà.

Proprio perché il rapporto tra gli azionisti e la socie-tà si basa su promesse più che su contratti, un tipicoatto costitutivo societario è estremamente essenziale:

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Capitolo 1

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contiene una dichiarazione sugli scopi e i poteri dellasocietà. In realtà, l’atto costitutivo consente alla societàdi compiere qualsiasi azione e attività lecita per le qualiè stata fondata e di esercitare i poteri garantiti dallaBusiness Corporation Law dello Stato in cui è stata regi-strata la costituzione. In genere, specifica anche ilnumero di azioni che una società può emettere e se ilconsiglio di amministrazione è autorizzato a emettereclassi differenti di titoli, a volte precisando i diritti degliazionisti relativi a ogni classe in materia di dividendi,voto, ordine di priorità nella liquidazione o altre formedi distribuzione, anche se questo potere è spesso dele-gato al consiglio di amministrazione della società. L’at-to costitutivo demanda solitamente allo statuto la rego-lamentazione di altri aspetti, come il numero di membridel consiglio di amministrazione; nel caso dell’IBM, peresempio, indica che il numero venga stabilito dallo sta-tuto, ma che non può essere inferiore a nove o superio-re a venticinque.1 Questo tipo di disposizioni lascia allesocietà ampia autonomia operativa nell’ambito dei vin-coli “contrattuali” in essere con i propri azionisti.

La legislazione vigente nei vari Stati americani non èparticolarmente prescrittiva riguardo al contenutodegli atti costitutivi delle società. Gli unici punti obbli-gatori sono quelli che specificano il nome della società,il numero delle azioni che è autorizzata a emettere, ilnominativo e i dati dei soci fondatori, il nominativo e idati di un professionista che opera nella giurisdizionecompetente e che accetti di rappresentarla nel corso dieventuali procedimenti legali.

Dalla metà degli anni Ottanta, la gran parte dellesocietà che operano nel litigioso contesto statunitensehanno emendato lo statuto in modo da limitare laresponsabilità personale degli amministratori in caso dicontroversie con gli azionisti. Tali emendamenti sonostati possibili grazie a leggi che permettono di inserirenegli statuti societari disposizioni che sollevano gli

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11.. L’atto costitutivo dell’IBM è disponibile sul sito http://www.ibm.com/inve-stor/corpgovernance/cgcoi.phtml, consultato 25 febbraio 2007.

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amministratori da qualsiasi responsabilità nei confron-ti dell’azienda e degli azionisti in caso di danni pernegligenza e violazione del dovere di attenzione. Altempo stesso, però, per legge gli atti costitutivi non pos-sono tenere indenni gli amministratori da responsabili-tà in caso di assegnazione di benefici finanziari ai qualinon hanno diritto, danni intenzionali nei confronti dellasocietà e degli azionisti, azioni illecite e distribuzione diutili agli azionisti quando la società è insolvente.

Lo statuto contiene le norme specifiche per la gestio-ne interna della società e, a differenza dell’atto costitu-tivo, può essere emendato dagli azionisti o dagli ammi-nistratori. La società è in larga misura un’entità politica,governata da un chief executive officer nominato da ungruppo di amministratori democraticamente eletti. Lenorme che regolano elezioni e nomine nonché l’operatodei funzionari eletti e nominati, scaturiscono dallo sta-tuto e dall’atto costitutivo. Per analogia con la strutturalegislativa di uno Stato, possiamo dire che l’atto costi-tutivo di una società è un po’ come la costituzione,mentre lo statuto ha la stessa funzione delle leggi.

Non cesserò mai di sottolineare il ruolo di primopiano della teoria contrattuale nella corporate gover-nance. La corporate governance si occupa di regolare ilcomportamento di chiunque ricopra un ruolo diresponsabilità nella società, e il rapporto con questepersone, che si tratti di funzionari, amministratori oazionisti di controllo, è in primo luogo governato percontratto. Il ruolo del contratto nella corporate gover-nance, e nel diritto societario in generale, è così trasver-sale da rendere difficile individuare il confine tra ildiritto contrattuale e il diritto societario. Non a tortoalcuni eminenti giuristi ed economisti ritengono che ildiritto societario non sia altro che una branca specificadel più vasto diritto contrattuale.2

I fautori di questa tesi, primi fra tutti Frank Easter-brook e Daniel Fischel, non tengono in particolare con-

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22.. Frank Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure of Corpora-te Law, Cambridge MA, Harvard University Press, 1991.

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siderazione l’atto costitutivo e lo statuto, nonostanteproprio questi siano gli effettivi contratti in essere trainvestitori e società. Invece, la società è vista come unaccordo ipotetico tra azionisti e dirigenza. Se l’idea difondo è questa, nella valutazione delle cause i giudicidovranno determinare cosa avrebbero concordato leparti in causa se avessero negoziato la questione ogget-to del contenzioso ex ante, vale a dire al momento del-l’investimento iniziale.

Questo approccio, basato sull’accordo ipotetico, è ilfulcro della visione contrattualistica del diritto societa-rio. Ciò non significa però che l’atto costitutivo, lo sta-tuto e gli altri contratti reali non siano importanti. Anzi,è vero l’opposto: quando l’atto costitutivo e lo statutoregolano contrapposizioni particolari tra i vari aventidiritto al cash flow societario, tra queste parti noninsorgono dispute perché le questioni vengono chiara-mente regolamentate dai contratti sociali in essere. Solonel caso di dispute interne su ambiti non specificata-mente regolamentati da un contratto, gli accordi ipote-tici intervengono nella corporate governance. E questoavviene spesso.

Da un punto di vista economico, le società non solosono incentrate sui contratti, ma sono esse stesse deiveri e propri contratti. Come suggerito da RonaldCoase nel suo importante articolo “The Nature of theFirm”,3 più che un’entità a sé la società è un complessointreccio di rapporti contrattuali. Infatti, è innegabileche qualsiasi soggetto coinvolto (azionisti, amministra-tori, dirigenti, dipendenti, fornitori, clienti e persinocomunità locali) abbia con la società o gli altri soggettiun rapporto di natura contrattuale. Se tali rapporti ven-gono “scollegati” dalla società, non rimane nulla. Eccoperché per essere efficace nel vigilare sul comporta-mento societario la corporate governance deve control-

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33.. Ronald H. Coase, “The Nature of the Firm”, Economica, 4, 1937, p. 386,ristampato in The Firm, The Market and The Law, Chicago, University of Chi-cago Press, 1988, p. 33 [ed. it., “La natura dell’impresa”, in Impresa, mercato ediritto, Bologna, il Mulino, 2006, p. 73].

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lare le persone che effettivamente agiscono per la socie-tà e per loro stesse.

Il contratto ha un ruolo talmente importante nellacorporate governance che ci si potrebbe chiedere se c’èbisogno di altro. Un contratto è inevitabilmente efficacea priori e implica, necessariamente, una partecipazionevolontaria innescata da uno scambio volontario. Salvoche si riesca a identificare chiaramente un difetto o unacarenza nel processo contrattuale, si potrebbe conclu-dere che le società e i loro soggetti debbano esseregovernati dai contratti piuttosto che da uno statuto. Main periodi diversi sono emerse tre obiezioni distinte(poi confluite in un’unica) al fatto che i contratti possa-no rappresentare un’infrastruttura sufficiente per lacorporate governance. La prima suggerisce che i con-tratti sono per ovvi motivi incompleti e che quindi altrosia necessario per colmare tale difetto. La seconda obie-zione (non molto distante dalla prima) specifica che leragioni per le quali il paradigma contrattuale (o “con-trattualistico”, come è a volte chiamato) è spesso caren-te sono da ricercarsi nel fatto che le disposizioni con-trattuali sono insufficienti nel tutelare i diritti degliazionisti: essendo residual claimants, hanno infatti inte-ressi finanziari nell’impresa che non possono esseretutelati ex ante da un contratto. La terza obiezione parteda una prospettiva completamente diversa e affermache le società sono talmente importanti per la collettivi-tà da non poter essere relegate alla sfera contrattualedel diritto privato.

Nessuna di queste obiezioni è sufficientemente con-vincente. Rispetto alla prima, i contratti sono sempreincompleti e spesso sono poco chiari nella loro impo-stazione. Infatti, il diritto contrattuale si occupa soprat-tutto di affrontare sia le circostanze straordinarie chepossono verificarsi e che non sono state previste dalleparti, sia quelle prevedibili ma che sono state ignorate otrattate in modo ambiguo al momento della stesura.

La lacunosità dei contratti suggerita dalla secondaignora il fatto che qualsiasi soluzione ai problemi con-trattuali che coinvolgono gli azionisti ha un costo, oltre

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al beneficio. La domanda non è quindi se il contratto siasufficiente a tutelare gli azionisti, ma se sia lo strumen-to migliore per massimizzare gli utili. Può facilmenteaccadere che, aggiungendo un “rimedio” legale alledisposizioni sostanziali di un contratto, gli azionistinon ne traggano un vantaggio, bensì uno svantaggio.

La terza obiezione, che ritiene le società troppoimportanti sul piano della collettività per essere relega-te alla sfera contrattuale privata, non tiene conto di unadomanda fondamentale e cioè di quali siano gli interes-si in gioco nella formulazione delle regole di corporategovernance. Se ci si chiede semplicemente quali sianogli interessi che la società deve tutelare, la teoria pro-missoria e contrattuale espressa in questo libro apparesenz’altro la risposta migliore. È ovvio che i contrattinon sono la panacea di tutti i problemi, soprattuttoquelli legati alle esternalità o alle correlazioni con terzi.Il diritto ambientale, civile e penale va ben aldilà dellaregolamentazione di società o organizzazioni aziendaliin genere. Il contratto non è quindi sufficiente a gover-nare i rapporti privati tra individui quando gli accordipresi tra questi hanno evidenti effetti negativi su terzi.

La corporate governance non può essere analizzatasolo mediante un paradigma contrattualistico e questoè facilmente comprensibile. Infatti, tutti i contratti sonoincompleti, compresi i contratti societari, e il dirittosocietario si occupa in gran parte di questo problema. Icontratti commerciali, per esempio, contengono “clau-sole implicite di buona fede” che impongono alle partidi agire secondo il principio della buona fede nell’a-dempimento degli obblighi contrattuali; in sede di giu-dizio, i tribunali hanno spesso riconosciuto l’esonerodall’obbligo contrattuale dinanzi a una presunzione difrode, iniquità o impossibilità all’adempimento dovutaal fatto che le parti contrattuali non hanno contemplatole eventualità in modo soddisfacente.

Il ruolo della legge nell’ovviare alle carenze contrat-tuali può essere considerato anche dal punto di vistadell’efficienza. I contratti societari sono incompleti per-ché questo è per molti versi efficiente, in quanto i sog-

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getti statali, sotto forma di giudici, riescono meglio diquelli privati nel regolare gli accordi tra le parti di unasocietà. Anche se una tale affermazione può sembrarebizzarra considerata l’evidente inefficienza dello Stato,soprattutto nella gestione delle imprese, in realtà èassolutamente fondata. Il fatto che lo Stato abbia dimo-strato di non sapere condurre un’azienda in modo effi-ciente non significa necessariamente che non lo sia nel-l’assistere il processo di ordinamento privato quando ledecisioni imprenditoriali sono prese da altri. Lo Statoha il ruolo specifico di far rispettare le clausole dei con-tratti privati, favorendone un’interpretazione e un’ese-cuzione equa e professionale, di incalcolabile valore perle imprese.

In realtà, lo Stato ha un compito che va persino oltrel’attuazione dei contratti: emana infatti regole “precon-fezionate” che sostituiscono quelle che gli investitoripotrebbero potenzialmente sviluppare. Da tempo giuri-sti ed economisti considerano la società per azioni, cosìcome altre forme di organizzazione aziendale (tra cuiversioni moderne quali la società a responsabilità limi-tata o la società in accomandita semplice), un “insiemedi contratti”, impliciti ed espliciti, ovvero una rete com-plessa di rapporti contrattuali tra le varie parti coinvol-te nell’impresa: investitori, manager, fornitori, dipen-denti, clienti eccetera. In quest’ottica il diritto azienda-le, che comprende quello societario, si propone di con-tenere i costi delle transazioni offrendo regole “precon-fezionate” sensate che i soggetti possono utilizzare perlimitare i costi della contrattazione.

Questa analisi può essere riferita anche ai doverifiduciari, che rientrano nella natura contrattuale dellesocietà e servono a colmare le lacune e le inevitabilidimenticanze dei contratti utilizzati in ambito azienda-le. Scopo dei doveri fiduciari è quello di offrire alle per-sone i risultati che avrebbero negoziato se fossero statiin grado di anticipare i problemi e di contrattarne larisoluzione in anticipo. In questo senso il diritto azien-dale in genere e quello societario in particolare hannouna natura altamente contrattuale. Scopo delle varie

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norme aziendali è quello di agevolare il processo con-trattuale e non di sostituirsi ai contratti effettivamentestipulati tra le parti. L’organizzazione aziendale neces-sita di leggi, compresi i doveri fiduciari, perché è chia-ramente impossibile prevedere tutti i potenziali proble-mi e conflitti che possono intervenire nella gestione diun’attività imprenditoriale. Inevitabilmente, prima opoi si presenteranno questioni e transazioni specificheche è impossibile prevedere a monte, ed è in queste cir-costanze che entrano in scena i doveri fiduciari.

In linea con questa analisi, la tendenza moderna simuove inesorabilmente verso una maggiore libertàcontrattuale nel diritto societario. Nel Delaware, peresempio, le leggi che disciplinano le società a responsa-bilità limitata permettono chiaramente ai soci e almanagement di ampliare, limitare o eliminare doverifiduciari e altri doveri, fatte salve le clausole contrat-tuali di buona fede e correttezza.4 Resta il fatto che laregola prestabilita per tutte le altre forme societarie, nelDelaware come altrove, prevede che i doveri fiduciarisiano dovuti agli investitori, e comunque che essi esi-stono salvo che le parti non abbiamo esplicitamente edinequivocabilmente concordato di escluderli dal con-tratto.

Gli investitori possono scegliere di eludere questenorme in almeno tre modi. Il primo è quello di regola-mentare in proprio una determinata eventualità; se l’ac-cordo è ben strutturato e non vi sono stati comporta-menti fraudolenti o scorretti in fase di contrattazione,l’accordo che le parti sottoscrivono verrà rispettato. Nelsecondo caso, chiunque intenda fondare (o riorganizza-re) una società ha a disposizione un’ampia scelta di giu-risdizioni, statunitensi e non, ove stabilire la sede lega-le della propria impresa; in altre parole, è possibileoptare per un contesto giuridico con disposizioni dilegge in linea con le proprie preferenze e scegliere l’in-frastruttura di legge “preconfezionata” che meglio siadatta alle proprie esigenze. Il terzo modo è quello di

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44.. Titolo 6, Delaware Code, artt. 18-1101(c), 2008.

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selezionare, anche all’interno di una determinata giuri-sdizione, la forma di organizzazione societaria più ido-nea, da quella tradizionale della società per azioni alleforme minori, quale la società a responsabilità limitata,la società in accomandita semplice e altre.

Se da un lato i contratti sono una significativa fontedi regole nel governo di un’impresa, il processo di con-trattazione è molto oneroso. Basti pensare alla questio-ne della remunerazione dei dirigenti. Molti economistivedono il divario sempre più ampio tra i compensiaccordati ai CEO e quelli dei comuni dipendenti comeuna dimostrazione di quanto la corporate governancesia inadeguata nel mantenere il corretto rapporto tracompenso e prestazione.5 D’altro canto, gli accordi spe-cifici sulla remunerazione della dirigenza sono sempli-cemente il risultato di un processo di negoziazione tra irappresentanti eletti degli azionisti e i manager stessi.Una società potrebbe senz’altro prevedere pacchettiretributivi più modesti, soprattutto in fase di offertapubblica iniziale, ma se non altro, gli amministratoridovrebbero avere almeno una minima idea degli accor-di presi con i vertici aziendali in materia di compensi.In anni recenti si è infatti scoperto che gli amministra-tori di giganti come la Walt Disney e la United Healthnon si rendevano neanche conto di quanto le loro socie-tà potessero ritrovarsi in difficoltà a causa degli accordimultimilionari presi con i top manager.

Il contratto ha un potere sostanziale nell’ambitodella corporate governance. In teoria, grazie ai contrat-ti gli azionisti dovrebbero essere tutelati in tutto e pertutto da qualsiasi forma di prevaricazione all’internodella società. Il dibattito accademico sulla corporategovernance non ha però praticamente consideratoaspetti specifici della contrattazione, come i patti di pre-lazione tra soci. Accordi di questo tipo impegnano

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55.. Tim Annett, “Gap Reflects Failures in Corporate Governance; Slow WageGrowth Is Blamed on Global Competition”, Wall Street Journal, 12 maggio2006, http://online.wsj.com/article/SB114719841354447998.html?mod=home_-whats_ news_us, consultato 25 febbraio 2007.

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un’intera società o parte degli azionisti ad acquistare gliinteressi di un azionista che si ritira al verificarsi di cir-costanze precise specificate nel contratto. In tal modo sipossono risolvere praticamente tutti i problemi degliinvestitori nelle società ad azionariato ristretto, dallacertezza del posto di lavoro per le minoranze, alla liqui-dità, alla prevaricazione e all’esclusione per altri. Unpatto di prelazione può essere strutturato in modo dagarantire agli investitori in equity un’opzione di venditache permetta loro di obbligare la società, o un gruppo diazionisti, a riacquistare le loro azioni a un prezzo prece-dentemente negoziato e matematicamente stabilito.

Questo tipo di accordi è spesso utilizzato nelle socie-tà ad azionariato ristretto per «creare un mercato priva-to e permettere agli azionisti di minoranza di uscire dal-l’impresa in caso di separazione o disaccordo con gliazionisti di maggioranza».6 Sono talmente validi che, seun avvocato non consigliasse a un investitore di mino-ranza in una società ad azionariato ristretto di procu-rarsi questo sostanziale strumento di tutela prima del-l’investimento stesso, potrebbe essere accusato di negli-genza professionale.

Anche se molto diffusi, i patti di prelazione sonodestinati a entrare in gioco solo in condizioni moltolimitate e specifiche. In genere, non li si può attuareprima che sia trascorso un certo periodo di tempo (avolte anni) dall’investimento iniziale; nelle società adazionariato ristretto tale condizione è spesso legata allascomparsa o invalidità dell’azionista (o dei suoi eredi)avente il diritto contrattuale a vendere le proprie azio-ni. Queste limitazioni non sono certo sorprendenti allaluce degli alti costi di tali accordi per le società interes-sate. In particolare, i creditori li ritengono una signifi-cativa fonte di rischio, poiché se un azionista esercita ilsuo diritto di prelazione, se è la società ad acquistare lesue azioni si riduce il “cuscinetto di capitale” su cui i

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66.. Andrew P. Campbell - Caroline Smith Gidiere, “Shareholder Rights, theTort of Oppression and Derivative Actions Revisited: A Time for Mature Deve-lopment?”, Alabama Law Review, 63, 2002, pp. 316-317.

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creditori non soddisfatti potrebbero eventualmenterivalersi. Inoltre, poiché questi accordi sono spessofinanziati mediante polizze assicurative, è necessariolimitare l’evento scatenante alla morte o all’invaliditàdell’azionista per minimizzare il rischio morale (moralhazard).

Il termine “rischio morale” si riferisce al problema,comune a tutti i mercati assicurativi, che il soggettoassicurato si impegni in attività che rendono più alta laprobabilità che si verifichi l’evento coperto da assicura-zione; per estensione, si intende inoltre la maggiorepropensione al rischio originata dalla presenza del con-tratto stesso. Per esempio, se il contratto di assunzionedi un manager prevede una generosa indennità di finerapporto, egli tenderà a impegnarsi in progetti destina-ti a causare, con maggior probabilità, la rescissione delrapporto di lavoro. Anche gli azionisti sono esposti alrischio morale nei confronti dei creditori. Più alto è ildebito riferito al capitale (leverage, o indice di indebita-mento), più elevato è il rischio morale per gli azionisti:impegnandosi in progetti ad alto rischio, le società conelevato indebitamento e capitale limitato (o inesistente)possono infatti ripagare gli azionisti a spese dei credi-tori. Il rischio morale deriva dal fatto che la partecipa-zione degli azionisti agli eventuali utili da attivitàrischiose è sproporzionata e illimitata, mentre le perdi-te non possono che limitarsi al valore dell’investimentoiniziale.

Non si intende qui sottolineare lo scarso utilizzo deipatti di prelazione; non vi è motivo di pensare che siaquesto il problema e probabilmente l’uso che se ne fa èottimale. Il punto è invece che gli azionisti hanno a dis-posizione lo strumento del patto di prelazione, che con-ferisce loro ampi diritti alla liquidità. Questi diritti con-trattuali hanno profonde implicazioni ai fini della com-prensione del ruolo del contratto nella corporate gover-nance. L’esistenza (e il basso costo, di per sé) dei patti diprelazione conferma la profonda realtà della corporategovernance, poiché dimostra che i limiti del contrattonon sono dovuti a lacune nel sistema legislativo, pro-

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blemi tecnologici o pregiudizi culturali del processocontrattuale.

L’applicabilità dei patti di prelazione e di altri stru-menti contrattuali “globali” di corporate governancedimostra che, da solo, il contratto non riesce a domi-nare lo scenario della corporate governance. Il fattoche le norme contrattuali della corporate governanceriescano a disciplinare un ambito così ristretto dellacomplessa materia non può essere dovuto solo a fatto-ri come le carenze del sistema legale o del processocontrattuale.

Parimenti, non è lecito affermare che la supremaziadel contratto è ostacolata da problemi tecnologici nelprocesso contrattuale o pregiudizi culturali della socie-tà. I patti di prelazione possono avvalersi di un’infra-struttura altamente evoluta e sofisticata: migliaia diarticoli, decine di libri e manuali nonché siti web7 spie-gano come strutturare questi accordi, definiti da alcuniavvocati gli “accordi prematrimoniali delle imprese”.Ciononostante, in genere questi contratti limitano le cir-costanze che scatenano gli obblighi previsti nel patto diprelazione. Questi accordi sono utilizzati soprattuttoper regolamentare la corporate governance e per ridur-re le tasse di successione delle piccole imprese, quandola scomparsa di un azionista ha non solo conseguenzenegative sull’azienda ma anche significative ripercus-sioni fiscali sugli eredi.8

Altre circostanze in cui i patti di prelazione vengonoutilizzati di frequente includono il fallimento,9 il divor-

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77.. Vedi “Buy-Sell Agreement-FAQ: Don’t Neglect to Write a Business Prenupbefore Putting Money into a Venture”, http://www.nolo.com/article.cfm/Objec-tID/02DF02FD-4CE0-46D0-9B7990F281AEF4B7/catID/C1DBB6FC-F9C3-40CA-8A4D77366ED0D4D5/111/254/FAQ; CCH Business Owner’s Toolkit,“The Buy-Sell Agreement”, http://www.toolkit.cch.com/Text/P12_6940.asp.

88.. CCH Business Owner’s Toolkit, “The Buy-Sell Agreement”.99.. Spesso i professionisti considerano i patti di prelazione importanti in ambi-

to fallimentare per prevenire i rischi legati alla dichiarazione di bancarotta per-sonale da parte di uno degli azionisti di una società ad azionariato ristretto. Inparticolare, gli investitori cercano di prevenire il rischio che un curatore falli-mentare riesca a liquidare l’azienda e recuperare contanti per pagare i debiti per-sonali del proprietario. È proprio per salvaguardarsi da queste evenienze ed evi-

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zio,10 l’invalidità e il pensionamento11 degli azionisticoinvolti. Rimane un mistero il perché tali accordi nonvadano molto più in là nel fornire una tutela di corpo-rate governance agli azionisti. Potrebbero infatti garan-tire a questi ultimi delle opzioni di vendita in caso didisaccordo di qualsiasi natura tra gli azionisti riguardoalla strategia aziendale o persino nel caso che un azio-nista desideri ritirarsi volontariamente.

Inoltre, i patti di prelazione non sono affatto l’unicostrumento contrattuale di corporate governance a dis-posizione degli azionisti. Agli inizi del XIX secolo, peresempio, era “prassi comune” che negli atti costitutividelle società che possedevano e gestivano ponti e bar-riere a pedaggio vi fossero disposizioni che obbligava-no a distribuire dividendi agli azionisti.12 I patti di pre-

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tare contenziosi all’azienda nel caso in cui un azionista stia contemplando il fal-limento, che si stipulano i patti di prelazione o gli accordi di buyout. Tra le clau-sole, in genere ve ne è una che obbliga gli azionisti a darne avviso agli altri inve-stitori prima di presentare istanza di fallimento presso il tribunale. Sempresecondo i termini dell’accordo, la dichiarazione di fallimento costituisce un’of-ferta automatica di vendita delle azioni agli altri azionisti o alla società a unprezzo stabilito secondo specifica formula matematica. In presenza di un simi-le accordo, i fondi confluiti nel buyout devono essere versati al curatore falli-mentare, che può utilizzarli per estinguere i debiti dell’azionista fallito, mentrela società può continuare l’attività senza soluzione di continuità.

1100.. I patti di prelazione sono diffusi nelle giurisdizioni in cui la legge suldivorzio garantisce al coniuge di un azionista il diritto alla quota proporzional-mente spettante della partecipazione azionaria dell’altro. Dove vige l’istitutodella “comunione dei beni”, come in Arizona, California e Texas, entrambi iconiugi hanno tra l’altro diritto ad applicare tale regime alle proprietà acquisitedopo il matrimonio, compresi tutti i guadagni acquisiti durante la vita coniu-gale e tutte le proprietà acquistate con tali guadagni. Dove è in vigore la “sepa-razione dei beni”, la legge prevede l’equa ripartizione dei beni della coppia,lasciando ai coniugi la possibilità di pretendere un’equa quota della partecipa-zione azionaria detenuta dal coniuge in un’impresa ad azionariato ristretto. Nelpatto di prelazione, l’ex-coniuge dell’azionista divorziato è obbligato a venderele azioni o gli eventuali altri titoli di partecipazione nella società ricevuti in virtùdell’accordo di divorzio alla società o agli altri soci o azionisti, secondo la for-mula di valutazione prevista dall’accordo.

1111.. Spesso i patti di prelazione specificano che gli acquisti legati al pensiona-mento di un azionista non possono avvenire prima che tale persona non rag-giunga una determinata età, oppure prevedono prezzi di acquisto progressivi,che aumentano di anno in anno, per disincentivare il pensionamento precocein presenza di tali patti.

1122.. Eric Hilt, “Corporate Ownership and Governance in the Early Nine-teenth Century”, manoscritto non pubblicato, febbraio 2006, p. 23.

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lazione, la distribuzione obbligatoria dei dividendi euna miriade di altri meccanismi contrattuali di corpo-rate governance, quali i contratti di assunzione, sonooggi poco utilizzati perché gli investitori non desidera-no utilizzarli, e non perché non si riesce ad attuarli.

Non vi sono impedimenti legali o tecnologici al fattoche il contratto venga usato come strumento esclusivoper il governo di una società e dei relativi agenti. È evi-dente che gli azionisti sono liberi di corrispondere aipropri dirigenti lo stipendio che ritengono opportuno,alto o basso che sia. Sono anche liberi di strutturare piùo meno liberamente questi piani retributivi, nel rispettodi vincoli tecnici minimi, quali quello che riguarda l’in-deducibilità per le società di compensi superiori almilione di dollari salvo che siano correlati alla perfor-mance e i più che necessari vincoli legati all’insider tra-ding. Inoltre, sono poche le norme o i pregiudizi cultu-rali che impediscono di utilizzare il contratto o variesoluzioni contrattuali come strumenti preziosi, nellemani degli investitori e di altri soggetti aziendali, perrisolvere i problemi a monte. Per esempio, mentreesperti e giornalisti esprimono diffusamente preoccu-pazioni di carattere normativo sulla remunerazione deidirigenti, in termini di manifesta indignazione morale epubblico sdegno, dal canto loro i dirigenti non sembra-no particolarmente interessati al problema, almeno fin-ché tali attacchi non portano a maggiori controlli e,forse, a una più severa regolamentazione. È vero ancheil contrario. Da diversi anni ormai il contratto è il para-digma dominante per i legislatori e gli esperti di corpo-rate governance, tanto che l’idea di società come uninsieme di contratti non è solo descrittiva, ma ancheprescrittiva. La società è un’associazione volontaria e ilcontratto è visto come lo specchio più chiaro e direttodelle preferenze e delle idee degli investitori e deglialtri soggetti aziendali volontari.

Da questo punto di vista, il ruolo della legge scrittaè quello di fornire regole prestabilite che intervenganoladdove il contratto societario è assente. L’idea che leleggi servano per sopperire alle carenze dei contratti ha

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implicazioni descrittive e, al tempo stesso, prescrittive.Descrive infatti ciò che fa e ciò che si suppone debba fareil diritto societario, confermando l’ampio consenso socia-le nei confronti del concetto di società come contratto.Nel tentativo di spiegare perché la corporate governancenon venga disciplinata in maniera univoca e trasversaledai contratti, si può quindi escludere il ruolo delle normesociali o di altri impedimenti societari.

Forse, gli azionisti non utilizzano soluzioni contrat-tuali per tutelarsi sotto l’aspetto della corporate gover-nance perché il solo contratto non è il modo più effi-ciente per governare la società. Il motivo di fondo sonoin realtà i costi e da ciò si deduce che la legge, nel sensodelle norme extracontrattuali, domina il panorama giu-ridico del mondo della corporate governance perché èpiù efficiente del contratto nel fornire soluzioni ai pro-blemi di corporate governance.

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L’importanza del diritto societario per la corporategovernance non è affatto chiara. Per esempio, BernardBlack sostiene che il diritto societario extracontrattualesia “banale” perché le sue disposizioni non si discosta-no in misura significativa dalle regole che si scegliereb-bero volontariamente negli atti societari senza l’inter-vento della legge.1 Questa osservazione riprende la nor-male concezione, utilizzata nell’analisi economica deldiritto, che il ruolo del diritto societario sia quello dieconomizzare sui costi delle transazioni fornendo agliorgani di governo aziendali le regole che gli investitoriavrebbero formulato per se stessi se vi avessero dedica-to il tempo, l’impegno e il denaro necessari al momen-to dell’investimento iniziale.2 In un importante appro-fondimento di questa analisi, Mark Roe afferma che,anche nelle sue forme più efficaci, il diritto extracon-trattuale tutela i partecipanti all’impresa soltanto neiconfronti del self-dealing, ossia del perseguimento dibenefici privati di controllo, e non nei confronti di deci-sioni aziendali poco felici, prese durante la normaleattività, che possono danneggiare gravemente gli inte-ressi degli azionisti. Secondo Roe, anche quando è “per-

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Capitolo 2

Diritto societario e corporate governance

11.. Bernard S. Black, “Is Corporate Law Trivial? A Political and EconomicAnalysis”, Northwestern University Law Review, 84, 1990, p. 542.

22.. Frank Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure of Corpo-rate Law.

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fetto”, il diritto societario di una nazione nella suaessenza tenta al massimo di eliminare il self-dealing. Glierrori e le negligenze manageriali, così come la maggiorparte delle elusioni di responsabilità da parte dei mana-ger, semplicemente non rientrano nella portata deldiritto extracontrattuale.3

L’analisi di Black, Easterbrook e Fischel e Roe è cor-retta di per sé, ma è incompleta, poiché non tiene ade-guatamente conto della prevalenza del diritto extracon-trattuale sotto due aspetti. Primo, se il diritto societariofosse davvero banale, allora bisognerebbe chiedersicome mai è così ampio in relazione al diritto contrat-tuale. Secondo, le teorie più diffuse non danno adegua-to credito al fatto che le fonti extracontrattuali generanoregole di corporate governance senza alcun riferimentoagli effettivi contratti stipulati dagli investitori con lerispettive aziende. In altre parole, la formulazione dinorme di diritto societario extracontrattuale è un eser-cizio creativo, che si serve del paradigma contrattualesolo come metafora. Il paradigma del contratto, o, percitare Easterbrook e Fischel, il modello della contratta-zione ipotetica, fornisce una giustificazione normativae un quadro di riferimento analitico di cui si servono itribunali per individuare soluzioni ex post alle contro-versie in merito a come dovrebbero essere governate lesocietà. Poiché i problemi inerenti alla corporate gover-nance che emergono nelle aziende sono molto comples-si e altamente contestuali, è probabile che si differenzi-no nella sostanza da azienda a azienda,4 per cui l’ap-proccio contrattuale alla corporate governance apparenon solo consigliabile, ma addirittura inevitabile, senon altro dal punto di vista della retorica giudiziaria.

In altre parole, il paradigma contrattuale offre ai giu-dici dei tribunali uno strumento utile per giustificare leloro decisioni. Non è affatto chiaro se questa giustifica-

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33.. Mark J. Roe, “Corporate Law’s Limits”, Journal of Legal Studies, 31,2002, pp. 233-271.

44.. Jonathan R. Macey, “The Nature of Conflicts of Interest within theFirm”, Journal of Corporation Law, 31, 2006, p. 615.

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zione sia convincente o meno, ma è chiaro che il quadrodi riferimento analitico fornito dal paradigma contrat-tuale per il diritto extracontrattuale non rappresenta unvincolo reale per i responsabili delle policy aziendali,poiché virtualmente qualsiasi decisione presa da ungiudice può ritenersi coerente con il contratto ipoteticoche gli azionisti avrebbero stipulato se avessero nego-ziato sulla questione. Poiché, per definizione, gli azio-nisti e le altre parti coinvolte in dispute di corporategovernance che sfociano in una vertenza giudiziarianon hanno specificato in anticipo un esito auspicabile,l’ipotesi di un tribunale che un particolare risultato siaquello che avrebbero preferito gli azionisti sarà sempreinconfutabile.

Mentre il diritto societario è molto ampio, in terminilegislativi e giurisprudenziali, scarseggia la regolamen-tazione, per quanto preziosa, in fatto di contratti traazionisti e società. Il diritto giurisprudenziale puòmascherarsi da contratto invocando l’idea della con-trattazione ipotetica, ma questo non cambia ciò che èrealmente: diritto extracontrattuale.

Per dirla in maniera semplice, la normativa extra-contrattuale che disciplina i diritti degli azionisti è vera-mente voluminosa, mentre gli effettivi contratti esisten-ti sono ridotti al minimo, soprattutto nelle società adazionariato diffuso.

Un modo per considerare questo aspetto consistenell’esaminare il programma dei corsi di base in mate-ria di diritto societario, fusioni e acquisizioni o corpo-rate governance che si tengono nelle facoltà di leggeamericane. I corsi trattano di diritto legislativo e, inmisura ancora maggiore, giurisprudenziale; non trat-tano di contratti, se non in misura minore. Per esem-pio, nelle lezioni sulle modalità di costituzione dellesocietà, si tende a spiegare agli studenti quanto la pro-cedura sia facile e rapida, quanto sia ridotta la docu-mentazione necessaria, e come la costituzione di unasocietà sia di fatto un lavoro per assistenti di studio esegretarie, non certo per avvocati esperti in dirittosocietario. Non sarebbe così se il processo di forma-

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zione di una società implicasse la stesura di una molesignificativa di contratti.

Gli investitori in capitale di rischio dipendono daisistemi di corporate governance molto più degli altrisoggetti coinvolti nell’azienda, per il semplice motivoche gli altri partecipanti possono fare affidamento suicontratti in misura molto maggiore di quanto non pos-sano fare gli azionisti. Uno degli aspetti più rimarche-voli del moderno contesto economico è il fatto che cen-tinaia di milioni di investitori si siano fatti persuadere asborsare centinaia di miliardi di dollari in cambio didiritti residuali sui flussi di cassa di società. I titoli cherappresentano questi diritti residuali praticamente nonoffrono nulla ai proprietari in termini di tutela giuridi-ca formale. Gli azionisti non hanno nemmeno diritto alrimborso del capitale. Le società che emettono i titolinon hanno l’obbligo di riacquistare le azioni dagli inve-stitori, a prescindere dalla performance conseguita, nésono tenute a pagare dividendi o a effettuare altri tipi dipagamento a loro favore.

Joseph Bishop ha sicuramente ragione quando notache, pur offrendo la legislazione statunitense una pro-tezione agli investitori quando dirigenti e amministra-tori si macchiano di frode materiale o addiritturaappropriazione indebita, non esiste una sorveglianzagiudiziaria sulla competenza manageriale e pratica-mente nessuna verifica della negligenza.5 I contrattiproteggono in qualche misura gli investitori in capitaledi rischio, per esempio prevedendo che la retribuzionedel management sia basata su un sistema di incentivi;inoltre offrono diffusamente tutele contro le acquisizio-ni che tuttavia, come discusso nel capitolo 9, tendonoad avere l’effetto opposto.

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55.. Joseph W. Bishop Jr., “Sitting Ducks and Decoy Ducks: New Trends inthe Indemnification of Corporate Directors and Officers”, Yale Law Journal,77, 1968, p. 1099, in cui si dice che cercare casi in cui gli amministratori sonostati ritenuti responsabili di «negligenza senza l’aggravante del self-dealing» ècome «cercare un ago in un pagliaio». Vedi anche Mark J. Roe, “The Share-holder Wealth Maximization Norm and Industrial Organizations”, Universityof Pennsylvania Law Review, 149, 2001, p. 2063.

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Atti costitutivi e statuti, nonché altri accordi contrat-tuali, offrono agli azionisti delle tutele minime, che evi-dentemente non sono all’altezza di quanto è in grado dioffrire il diritto extracontrattuale. È il diritto societario,invece dei contratti, a fornire il quadro di riferimentofondamentale per l’attività decisionale all’interno diun’impresa. Per esempio, il diritto extracontrattualestabilisce le regole sulla composizione del consiglio diamministrazione, sulla struttura di comitati del consi-glio e sull’indipendenza degli amministratori. Di ugua-le importanza è l’accento posto dai tribunali, in partico-lare nel pionieristico Stato del Delaware, sul processoformulato e seguito dal consiglio nel prendere le deci-sioni. E questa normativa, nel bene e nel male, si incen-tra su qualcosa che il diritto contrattuale ignora com-pletamente: sulla forma, piuttosto che sulla sostanza,dell’attività decisionale. È evidente che questa tenden-za si è intensificata negli ultimi anni6 e non mostra sin-tomi di cedimento. I tribunali si concentrano su quelloche è, o che sono convinti che sia, il “vero e proprio pro-cesso”. In effetti, il processo è stato descritto con preci-sione, come tema ricorrente e dominante, nella legisla-zione societaria del Delaware.

La decisione esemplare della Corte Suprema delDelaware nella causa Smith v. Van Gorkom7 è il punto dipartenza per qualsiasi discussione sul ruolo svolto dalprocesso nella produzione di norme non contrattuali dicorporate governance. In una sorprendente sentenzache non si può spiegare e nemmeno concepire su basicontrattuali, il tribunale più autorevole degli Stati Unitiin materia di corporate governance ha ritenuto i mem-bri del consiglio di amministrazione di una importantesocietà quotata alla Borsa di New York, la TransUnionCorporation, personalmente responsabili dei danni, aconclusione di un’azione legale nella quale gli azionisti

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66.. E. Norman Veasey - Christine T. Di Guglielmo, “What Happened inDelaware Corporate Law and Corporate Governance from 1992 to 2004?”,University of Pennsylvania Law Review, 153, 2005, p. 1399.

77.. Smith v. Van Gorkom, 488 A.2d 858, Corte Suprema del Delaware 1985.

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li accusavano di negligenza per non aver istituito eseguito un processo decisionale adeguato in meritoall’opportunità di vendere la società, e a quale prezzo,nell’ambito di un’operazione di cash merger. Alcunicommentatori ritengono che la sentenza della causaVan Gorkom sia servita a migliorare il processo decisio-nale nell’azienda,8 ma molti altri sono del parere cheabbia invece eccessivamente proceduralizzato l’attivitàdecisionale. Le critiche al monopolio del processo, all’i-nizio del suo terzo decennio all’epicentro della corpo-rate governance di origine giurisprudenziale, sonopiuttosto convincenti. Il timore è che i consigli di ammi-nistrazione, dove effettivamente si attua la corporategovernance, si siano trasformati in teatrali celebrazionidel processo, durante le quali avvocati e banche di inve-stimento mettono in scena surrogati di discussioni stu-diate per proteggere conclusioni scontate da eventualiattacchi dei giudici perché considerate il risultato di unprocesso difettoso.9 A prescindere, è preoccupante chel’interesse per il processo sia decisamente extracontrat-tuale. A quanto pare, i soggetti partecipanti all’impresanon dispongono della flessibilità necessaria e auspica-bile per definire mediante un contratto quanto spaziodare al processo nell’attività decisionale.

Nonostante questo disaccordo, il giudizio è unani-me su un aspetto del parere legale che è risultato seg-mentante nella causa Smith v. Van Gorkom: è opinioneconcorde che la decisione ha portato alla creazione oalla perpetuazione di una “cultura del processo” nellacorporate governance americana. In altre parole, la

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88.. Lynn Stout, “In Praise of Procedure: An Economic and BehavioralDefense of Smith v. Van Gorkom and the Business Judgment Rule”, Northwe-stern University Law Review, 96, 2002, pp. 579, 586; Dennis R. Honabach,“Smith v. Van Gorkom: Managerial Liability and Exculpatory Clauses – A Pro-posal to Fill the Gap of the Missing Officer Protection”, Washburn LawReview, 45, 2006, p. 307.

99.. Charles M. Elson - Robert B. Thompson, “Van Gorkom’s Legacy: TheLimits of Judicially Enforced Constraints and the Promise of ProprietaryIncentives”, Northwestern University Law Review, 96, 2002, p. 579; Daniel R.Fischel, “The Business Judgment Rule and the TransUnion Case”, BusinessLawyer, 40, 1985, p. 1437.

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legge si è evoluta nell’esaltazione del ruolo del proces-so e, nel contempo, del ruolo degli “attori del proces-so”, quali avvocati, commercialisti e banche di investi-mento, che strutturano e favoriscono quel processo chei giudici considerano così importante. Intanto, la cre-scente attenzione per il processo ha ridimensionato ilruolo svolto da manager, imprenditori e altri responsa-bili della gestione aziendale nell’ambito della corporategovernance.

Norme socialiLa governance delle società non è solo il risultato di

contratti, leggi e norme, ma anche del complesso siste-ma di interrelazioni tra queste tre fonti di corporategovernance. I contratti sono formulati “all’ombra delloStato”. Con questo intendo dire che durante i negozia-ti, le parti saranno inevitabilmente influenzate dallaconsapevolezza delle sanzioni legali e sociali alle qualisaranno soggette se non rispettano l’accordo. Per fareun esempio semplice, le regole del mercato azionarionegli Stati Uniti, per quanto riguarda la Borsa di NewYork e il NASDAQ, in generale impongono che le socie-tà quotate mantengano un corso azionario almeno paria 1 dollaro per azione per poter restare a listino. Questoa sua volta influisce sul numero di azioni emesse dallasocietà a favore degli investitori: le società sceglierannoinfatti di emettere un numero ridotto di azioni a unprezzo per azione più elevato, diversamente da quantofarebbero in assenza di una simile regola.

Pertanto, regole, norme e leggi incidono sul conte-nuto dei contratti, che a loro volta influiscono sul dirit-to societario e sulla corporate governance, poiché det-tano i fattori di riferimento di cui tengono conto le partinella fase di negoziazione. I contratti influenzano ilcontenuto di leggi e altre norme extracontrattuali didiritto societario in conseguenza del principio univer-salmente diffuso che le società stesse sono dei contrattie che il ruolo del diritto consiste nel rafforzare e facili-tare il processo negoziale tra i partecipanti all’impresa.

Il processo svolge un ruolo di rilievo nella corporate

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governance statunitense. La riflessione sul processo e lasua formulazione e valutazione costituiscono il vantag-gio relativo di avvocati e giudici che, tuttavia, fannol’errore di insistere troppo su questo aspetto nell’ambi-to della corporate governance; gli avvocati consideranoi costi economici del processo come vantaggi, in termi-ni di reddito e di status, poiché gli attori societari devo-no basarsi sempre più sui giudizi degli avvocati manmano che gli aspetti procedurali diventano predomi-nanti nella corporate governance. Le regole procedura-li che a investitori e imprenditori appaiono onerose einefficienti sono invece considerate dagli avvocati comeben meritate fonti di reddito e un riconoscimento delloro posto legittimo nella struttura di governance dellasocietà. Quindi non deve sorprendere il fatto che la ten-denza a sostenere un approccio basato sul processo peraffrontare tutti i problemi, anche le difficoltà di corpo-rate governance, «sia un rischio professionale degliesperti di legge».10

Nel bene e nel male, quando giudici e legislatori for-mulano regole extracontrattuali di corporate governan-ce, inevitabilmente vi importano le proprie norme.Quindi, norme che permeano la cultura giuridica qualila rigorosa fedeltà a valori orientati al processo sonoentrate nel panorama legale grazie ad avvocati e giudi-ci convinti del fatto che il processo sia quello cheimprenditori e investitori desiderano veramente e per ilquale avrebbero contrattato se solo vi avessero dedica-to tempo e impegno.

Così, la strana natura del panorama della corporategovernance si può comprendere solo vedendo come lametafora della società come insieme di contratti vengautilizzata dai giudici come strumento di giudizio. Nelleloro decisioni, i giudici importano i propri valori, inparticolare la loro preferenza per la forma rispetto allasostanza, con la parvenza di ottenere i risultati cheimprenditori, manager e investitori avrebbero raggiun-to con l’effettiva contrattazione.

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1100.. Dennis R. Honabach, “Smith v. Van Gorkom”, p. 322.

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Le norme svolgono dunque un ruolo importantenella corporate governance. Giudici e avvocati (cheredigono le regole giuridiche della corporate governan-ce) importano inevitabilmente le proprie norme nellastrutturazione del “processo” aziendale. La questione èquanto siano importanti le norme nel governo di unasocietà: il termine “norma” è così vago e poco compre-so che è difficile affrontare questo tema con molta pre-cisione.

Per cominciare, una norma è un riferimento in baseal quale vengono misurati e giudicati altri elementi.Una norma descrive uno standard o un modello dicomportamento che non è imposto dalla legge ma ingenerale è considerato tipico (normale) e per questoatteso in una particolare comunità. Questo approccio ècoerente con la definizione suggerita da RichardPosner, che ha descritto la norma come «una regola chenon è promulgata da una fonte ufficiale, come un tribu-nale o un organo legislativo, né imposta con la minac-cia di sanzioni legali, e tuttavia viene regolarmenteosservata».11

Quindi le norme sono importanti per la corporategovernance per almeno tre motivi. In primo luogo,come abbiamo visto sopra, perché spesso sono la fontedi effettive regole giuridiche. Partendo dal presuppostoche esista un rapporto complesso e simbiotico tra le trefonti primarie delle regole di corporate governance(contratti, diritto e norme), osserviamo che i giudiciimpongono le norme della cultura giuridica (in partico-lare la norma che esalta il processo) sulle regole di cor-porate governance. Per i giudici le norme sono la fonteprimaria della loro autorità, in quanto giustificano leloro decisioni e disposizioni di legge (generalmenteorientate al processo) sulla base della loro coerenza conl’ipotetica contrattazione che si verificherebbe tra inve-stitori.

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1111.. Richard A. Posner, “Social Norms and the Law: An EconomicApproach”, American Economic Review, 87, 1997, pp. 365-369, Atti del 109°Congresso annuale dell’American Economic Association.

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In altre parole, le norme sono importanti per la cor-porate governance perché la legge è importante e lenorme sono un’importante fonte di legge. L’esempiocitato sopra, su come le norme orientate al processodella cultura giuridica possano infiltrarsi nel dirittosocietario, è piuttosto sottile, ma le norme influenzanole regole giuridiche anche in modo più diretto. Quandoenti amministrativi e organizzazioni autoregolamenta-te come le Borse valori formulano regole che influenza-no la governance dell’azienda, ovviamente prendonocome punto di riferimento primario le norme prevalen-ti nell’industria e nella comunità.

Su questo punto, vale la pena di sottolineare che unafonte primaria di regole di corporate governance sonole norme giuridiche formulate dal prestigioso AmericanLaw Institute (ALI) nei suoi Principles of corporate gover-nance,12 inizialmente intesi come restatements, o riformu-lazioni, della normativa esistente, ma poi sfociati in unalotta fortemente controversa e politicizzata tra giuristiaccademici e avvocati aziendali in merito a quali normeavrebbero dovuto essere rispecchiate nelle regole. Èovvio che i regolamenti sono sempre plasmati dallapolitica. Qui il punto non è tanto il fatto che la battagliapolitica sulle regole di corporate governance dell’ALIabbia avviato una sorta di nuova era di influenza poli-tica sul diritto societario. Piuttosto, la novità è che lapolitica è uscita allo scoperto. Gli avvocati factotumdell’ALI non hanno più potuto fingere di agire in modoapolitico. Le società loro clienti li hanno costretti adammettere la possibilità che il loro lavoro stesse perse-guendo gli interessi dell’avvocatura aziendale piuttostoche gli interessi della giustizia, insistendo imperterritesul fatto che le proposte originali dell’ALI fossero poli-tiche. La loro reazione non fu quella di sollecitare la“depoliticizzazione” del processo, bensì di influenzarloper i propri fini.

Fondato nel 1923 per promuovere il chiarimento e la

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1122.. American Law Institute, Principles of Corporate Governance: Analysis andRecommendations, 2 vol., Filadelfia, American Law Institute, 1994.

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semplificazione della common law americana, basatasulla giurisprudenza, e per agevolare l’adeguamentodel diritto al mutamento delle esigenze sociali, l’ALIredige, approva e pubblica restatements di leggi, model-li di codici e altre proposte di riforma legislativa. Ben-ché i restatements non abbiano forza di legge, influisco-no fortemente sui giudici e sul potere legislativo invirtù del prestigio dell’ALI e del processo attento, incre-mentale e meditato con cui vengono redatti.

In passato, i progetti dell’ALI sono stati caratteriz-zati da discussioni dotte, controllo emotivo e dallaprassi di “lasciare i clienti fuori dalla porta” in occasio-ne delle riunioni di consulenti, avvocati e soci. Tradi-zioni che sono state infrante solo occasionalmente. Undato interessante è l’opinione diffusa che i principirispecchiati in tali tradizioni sono stati completamenteabbandonati. L’obiettivo di riformulare la legge è statoabbandonato poiché gli avvocati si sono rifiutati diaccettare che le regole elaborate nelle prime stesure delprogetto fossero caratterizzate come un restatementdella legge. L’intero processo si è politicizzato. Comeha osservato uno stimato avvocato aziendale membrodell’ALI, «molte società indicavano palesemente alloro consulente esterno, socio dell’ALI, in che modoavrebbe dovuto votare su questioni controverse; gliavvocati venivano incoraggiati ad aderire all’ALI con ilsolo scopo di aggiungere le loro voci al coro di critiche;e le discussioni alle riunioni dei soci talvolta venivanoorchestrate con la stessa attenzione dei lavori di uncongresso politico».13

La controversia sul tentativo dell’ALI di dare unaveste giuridica alle norme dimostra che le norme sonoimportanti. Analogamente, l’idea di riformulare le leggiillustra il modo in cui le norme si trasformano in legge.In effetti, l’idea di elaborare un restatement serve alloscopo di formalizzare, e quindi incorporare nel diritto,le norme prevalenti in un particolare campo.

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Diritto societario e corporate governance

1133.. A. A. Sommer, “A Guide to the American Law Institute CorporateGovernance Project”, Business Lawyer, 51, 1996, p. 1331.

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Le norme svolgono un ruolo importante anche nel-l’interpretazione dei contratti, perché spesso i giudiciinterpretano i contratti, anche quelli societari, facendo-vi riferimento. Nell’interpretare i contratti i giudicidevono stabilire che cosa è “commercialmente ragione-vole” e che cosa è “comune e consueto” in un partico-lare contesto. Questo approccio all’interpretazione deicontratti richiede la diretta importazione di norme nel-l’attività decisionale giudiziaria.

In secondo luogo, le norme sono importanti nellacorporate governance perché cominciano a influire suicomportamenti ancor prima di essere formalizzatecome leggi. Per esempio, come ha osservato Mark Roe,l’idea fondamentale del primato dell’azionista di per sestessa non è altro che una norma.14 Secondo Roe, questopuò essere un bene o un male per la società nel suocomplesso, a seconda di quanto sono competitivi i mer-cati nazionali dei prodotti. E pare che esistano notevolidifferenze da paese a paese in termini di grado di ade-sione alla norma del primato dell’azionista.

Negli Stati Uniti e in altri paesi di common law, il pri-mato dell’azionista è una norma ampiamente condivisatra manager e imprenditori, anche se meno tra accade-mici e avvocati; d’altro canto, la massimizzazione dellaricchezza dell’azionista è considerata preziosa, oppor-tuna e giusta.15

In paesi di civil law come Francia, Germania, Italia eGiappone la massimizzazione della ricchezza dell’azio-nista non è una norma. E il primato dell’azionista non èneppure considerato particolarmente auspicabile dauna prospettiva sociale, soprattutto quando gli interes-si degli azionisti sono in contrasto con gli interessi dialtre parti in causa, quali lavoratori e comunità locali, ocon obiettivi politici quali la promozione della proprie-tà locale di imprese strategiche come banche, compa-

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1144.. Mark J. Roe, “The Shareholder Wealth Maximization Norm and Indu-strial Organization”, p. 2063.

1155.. Mark J. Roe, “The Shareholder Wealth Maximization Norm and Indu-strial Organization”, p. 2073.

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gnie aeree e aziende manifatturiere. Poiché le norme rispecchiano le opinioni della mag-

gioranza della popolazione, i risultati dei sondaggisono utili per dimostrare quanto possa essere diffusauna norma in un particolare segmento della società. Peresempio, un sondaggio tra i cosiddetti senior managersdi importanti società, riportato da Franklin Allen eDouglas Gale, ha fatto emergere sorprendenti rivelazio-ni sulle opinioni dei manager in merito alla ragion d’es-sere delle società e agli interessi che dovrebbero pro-muovere. Si sono evidenziate opinioni ampiamentedivergenti tra Stati Uniti e Regno Unito da un lato eGiappone, Germania e Francia dall’altro.16

Allen e Gale hanno riscontrato che negli Stati Uniti enel Regno Unito l’ampia maggioranza dei manager(rispettivamente 76 e 71 per cento) ritiene che la societàappartenga agli azionisti. In netto contrasto, l’82,7 percento degli alti dirigenti tedeschi crede che la societàappartenga a tutti gli stakeholder. In Francia il risultatonon è molto diverso, con il 78 per cento degli alti diri-genti che “assegna” la società agli stakeholder. In Giap-pone, uno sbalorditivo 97 per cento dei manager ritieneche la società appartenga a tutti gli stakeholder, mentresolo il 3 per cento dei senior managers è convinto che iproprietari dell’impresa siano gli azionisti.

Allo stesso modo, Allen e Gale riportano anche chela sicurezza del posto di lavoro per i lavoratori ha moltopiù peso per i senior managers in Giappone, Germania eFrancia che per le loro controparti inglesi e americane.Il 90 per cento dei manager negli Stati Uniti e nel RegnoUnito ritiene che i dividendi siano molto più importan-ti della sicurezza del posto di lavoro. Per contro, inGiappone solo il 3 per cento dei manager pensa che idividendi superino per importanza la sicurezza delposto di lavoro. In Germania e Francia la stragrandemaggioranza è convinta che un’occupazione stabile siapiù importante dei dividendi.

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1166.. Franklin Allen - Douglas Gale, Comparing Financial Systems, Cambrid-ge MA, MIT Press, 2000.

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Non è un caso che sia emerso il termine “cultura del-l’azionista” per descrivere contesti sociali caratterizzatida un ampio interesse e una profonda consapevolezzain merito ai mercati azionari. È evidente che le normesociali svolgono un ruolo rilevante nel determinare sein un particolare paese emergerà una cultura dell’azio-nista e che situazione si verrà a creare in tal caso. Quin-di, un secondo motivo per cui le norme sono importan-ti nella corporate governance è il fatto che influenzanole effettive modalità di gestione delle imprese. Un grup-po dirigente convinto che i dividendi sono più impor-tanti della sicurezza del posto di lavoro e che la societàè di proprietà degli azionisti, e non di altri stakeholder,sicuramente gestirà l’azienda in modo molto diverso daun gruppo dirigente secondo il quale le società debbo-no mantenere un livello di occupazione stabile, anchese per farlo sono costrette a ridurre i dividendi, e chenon considerano gli azionisti come soggetti privilegiatirispetto alla miriade di altre parti interessate che hannodei diritti sui flussi di cassa prodotti dall’azienda.

Un forte orientamento alla massimizzazione dellaricchezza per gli azionisti determina un contesto azien-dale più tollerante nei confronti dell’assunzione dirischi da parte dei manager. In quanto residual claimants,o titolari del diritto al residuo, gli azionisti hanno dirit-to alla distribuzione degli utili societari solo quandosiano stati soddisfatti tutti gli aventi diritto a una quotafissa del flusso di cassa della società. Ma a quel punto,agli azionisti spetta tutto il resto. Di conseguenza, è sicu-ramente comprensibile che gli azionisti preferiscanostrategie aziendali che promettono rendimenti elevati afronte di rischi altrettanto elevati, mentre i fixed clai-mants, ossia i titolari di crediti fissi, preferiscono strate-gie a basso rischio, che producono rendimenti altrettan-to bassi ma che, con tutta probabilità, garantiranno ilrimborso. Quindi è probabile che, rispetto ad altrenorme, un forte orientamento alla massimizzazionedella ricchezza per gli azionisti si traduca nel persegui-mento di progetti più rischiosi da parte della direzione.

Si noti che questa analisi capovolge la convinzione

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diffusa che i manager statunitensi si concentrano trop-po sul breve termine a causa del loro interesse per gliazionisti. In realtà è vero il contrario. I fixed claimantspossono ridurre il rischio e l’incertezza abbreviando ilperiodo di scadenza dei loro prestiti. Rinnovando fre-quentemente i prestiti, i creditori abbassano il rischio.Gli azionisti, d’altro canto, saranno maggiormente inte-ressati a progetti più rischiosi a lungo termine, in parti-colare in quanto i rendimenti attesi di tali progetti siriflettono immediatamente sul prezzo attuale delle loroazioni sulla base del valore attuale scontato.

La “base” dei lavoratori, i creditori e gli altri fixedclaimants, preferiranno un ambiente societario chegeneri quei flussi di cassa costanti, a basso rischio escarsamente variabili, perché aumentano la probabilitàche l’azienda sarà in grado di soddisfare le sue obbliga-zioni fisse. Gli azionisti invece preferiranno progetti apiù elevata variabilità. Un semplice esempio serve aillustrare questo punto. Supponiamo che alla fine del-l’anno ai creditori fissi (finanziatori, dipendenti e cosìvia) sia dovuta una somma di 50 milioni di dollari e chetutto quello che va al di là di tale cifra vada agli azioni-sti. I creditori fissi, di fronte alla scelta tra un progettoche certamente produrrà un rendimento di 60 milionidi dollari e un secondo progetto per il quale le probabi-lità di generare un rendimento di 60 milioni o di 140milioni di dollari sono al 50 per cento, inevitabilmenteopteranno per il progetto che garantisce i 60 milioni didollari. Per contro, lo stesso progetto vale solo 10 milio-ni di dollari per gli azionisti (in quanto titolari del dirit-to al residuo, agli azionisti spettano i 10 milioni cherestano dopo il pagamento ai creditori fissi dei 50 milio-ni di dollari loro dovuti) e quindi preferiranno sicura-mente il secondo investimento, che per loro vale 45milioni di dollari ([0,5 x 0] + [0,5 x 90 milioni di dolla-ri]). Tuttavia, anche il secondo progetto vale 45 milionidi dollari per i creditori fissi, ossia 5 milioni in menorispetto ai 50 milioni di dollari di valore del primo pro-getto ([0,5 x 40 milioni di dollari] + [0,5 x 50 milioni didollari]).

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In un paese come gli Stati Uniti o il Regno Unito,dove le norme prevalenti sono a favore della massimiz-zazione della ricchezza per gli azionisti, con tutta pro-babilità i manager privilegeranno il secondo progetto,mentre in Giappone, Germania e Francia i managersono più attenti agli interessi degli altri stakeholder eprobabilmente opteranno per il primo progetto. Ovvia-mente, la scelta dei manager è influenzata anche da altrifattori, aldilà di norme quali il primato dell’azionista.Per esempio, il comportamento del management saràcertamente influenzato anche dalla struttura degliincentivi nei piani retributivi della dirigenza. Nell’e-sempio sopra, un sistema retributivo basato su incenti-vi quali stock options e premi di produttività potrebbefar propendere i manager verso l’investimento piùrischioso, soprattutto se lo schema retributivo com-prende un “paracadute d’oro”, ossia una buonuscitagenerosa, che potrebbe attutire il colpo di un risultatonegativo. D’altro canto, un accordo retributivo domina-to dallo stipendio e prestazioni fisse differite potrebbeindurre un dirigente a perseguire strategie più rispon-denti agli interessi dei creditori fissi dell’azienda.

Almeno altrettanto probabile sembra che il sistemaprevalente di norme influenzi la natura dei piani retri-butivi per i manager e questo è un dato significativo; senon altro, pare probabile che i livelli relativamente ele-vati delle retribuzioni del personale dirigente osservatinegli Stati Uniti (vedi capitolo 15) non sarebbero soste-nibili se le norme sociali prevalenti non prevedessero oquanto meno non tollerassero retribuzioni così elevate.

L’analisi degli orientamenti sociali dinanzi a uninsuccesso aziendale suggerisce un altro esempio dicome le norme influiscano profondamente sulla con-dotta di dirigenti e amministratori di una società. Natu-ralmente è inevitabile che alcune imprese falliscano;alcuni di questi insuccessi sono sicuramente dovuti afrodi e cattiva gestione, ma più spesso il fallimento del-l’impresa si può spiegare con l’insorgenza di fattorialtrimenti positivi, quali il cambiamento tecnologico, ilmutamento delle condizioni della domanda e dell’of-

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ferta e altri elementi che semplicemente sfuggono alcontrollo di manager e amministratori.

Oltre che comportandosi in modo attento e onesto,funzionari e amministratori possono influire sulle pro-babilità di fallimento solo riducendo la quantità dirischi che fanno assumere all’impresa. Poiché gli azio-nisti possono limitare il rischio di partecipazione al fal-limento di un’impresa specifica diversificando il loroportafoglio titoli, può darsi che tendano a favorire lapropensione dei manager ad assumere rischi per loroconto. Di conseguenza, il fatto di indurre i manager adassumere livelli adeguati di rischio è una delle sfidecentrali della corporate governance.

Tutte le fonti di corporate governance, quali contrat-ti, diritto e norme sociali, cercano di regolamentare l’as-sunzione del rischio, seppure in modi differenti. L’ap-proccio contrattuale comporta il ricorso a pacchettiretributivi per la dirigenza negoziati, almeno in teoria,tra i manager e i comitati per la retribuzione in seno aiconsigli di amministrazione, spesso fortemente influen-zati da consulenti in materia. L’approccio giuridico allaregolamentazione dell’assunzione del rischio prendediverse forme. La normativa fiscale vieta alle società didedurre fiscalmente le retribuzioni dei dirigenti oltre lasoglia del milione di dollari, salvo quando sia dimo-strato che la retribuzione è legata alle prestazioni.

Le regole sulla responsabilità svolgono un ruolo fon-damentale nella regolamentazione della propensione alrischio. In conseguenza delle relative norme sociali, lanormativa sulla responsabilità negli Stati Uniti incorag-gia l’assunzione del rischio, al contrario di quantoavviene in molti paesi dell’UE. Per esempio, la famosabusiness judgment rule prevista dal diritto societario sta-tunitense, ovvero il principio della insindacabilità, nelmerito, delle scelte gestionali, instaura una forte pre-sunzione di correttezza della gestione dell’impresa daparte degli amministratori, per cui le decisioni di ordi-naria amministrazione vengono prese in buona fede,con cognizione di causa e nel migliore interesse dellasocietà. La business judgment rule agisce da scudo nei

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confronti della responsabilità degli amministratori, pro-prio allo scopo di incoraggiare l’assunzione del rischioda parte di funzionari e amministratori.

Per contro, in molti altri paesi, tra cui alcuni impor-tanti paesi europei quali Francia e Italia, gli ammini-stratori di società fallite rischiano di essere perseguiticivilmente (in alcuni paesi anche penalmente). Chiara-mente, una simile minaccia rappresenta un notevoledisincentivo all’assunzione di rischi da parte deiresponsabili delle decisioni. Uno strumento particolar-mente efficace per moderare la tendenza ad assumererischi è la regola, comune nell’UE, che impone allesocietà di mantenere costantemente una capitalizzazio-ne pari alla metà del capitale originariamente conferitodagli azionisti, pena l’avvio di procedure di riorganiz-zazione o liquidazione. Così, per esempio, se una socie-tà comincia a operare con un capitale di 100.000 dollari(generalmente definito come il valore risultante sot-traendo le passività dalle attività) qualora la capitaliz-zazione dovesse scendere sotto i 50.000 dollari gliamministratori avrebbero l’obbligo di procedere allaliquidazione o a un aumento di capitale. Se la capitaliz-zazione iniziale non venisse mantenuta e la società fal-lisse, gli amministratori sarebbero personalmenteresponsabili per eventuali perdite subite dai creditoridella società.

Queste profonde differenze nei regimi di responsa-bilità rispecchiano differenze ugualmente profondenelle norme che influiscono in modo determinantesulla corporate governance, influenzando l’attivitàdecisionale della società. La natura delle norme preva-lenti, per esempio, determina in che modo il fallimentodi un’impresa avrà ricadute sulle carriere di alti diri-genti e amministratori che ne sono al timone. NegliStati Uniti è piuttosto comune che le carriere degli altidirigenti sopravvivano non solo a uno, ma persino adiversi fallimenti; un dirigente può ancora aspirare alvertice di un’importante società nonostante sia statoalla guida di numerose imprese fallite. In molti paesieuropei, invece, è inevitabile che il CEO di una società

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che fallisce dica addio alla carriera. Negli Stati Uniti, una serie di fattori culturali creano

un contesto di corporate governance nel quale il costopersonale del fallimento di un’impresa è relativamentebasso, perché tale fallimento non comporta sanzioniinfamanti come avviene altrove. La mancanza dellostigma sociale legato al fallimento di un’impresacomunque non va sopravvalutata. Secondo un’interes-sante osservazione di David Skeel, «le società e gliamministratori sono intrappolati in comunità nellequali la reputazione ha la sua importanza. Gli ammini-stratori delle grandi società statunitensi sono, per citareun azionista “le persone più esposte del mondo dalpunto di vista della reputazione”».17 Quindi, il modo incui il fallimento di un’impresa influisce sulla reputazio-ne dei manager è un elemento determinante per ilgrado di tolleranza riservato a tali manager qualora siassumano dei rischi. Negli Stati Uniti, dove lo stigmasociale e il biasimo associati alla bancarotta sono piut-tosto bassi, è probabile che i manager siano più dispo-sti a perseguire progetti rischiosi che non prenderebbe-ro mai in considerazione se il fallimento non avessecome conseguenza solo una perdita economica imme-diata, ma anche la rovina della carriera personale e unostigma sociale permanente nella ristretta comunità deimanager aziendali.

Queste norme influiscono sul contenuto delle rego-le di corporate governance e anche sulla condottaaziendale, in particolare la propensione dei managerad assumere dei rischi. Norme che incoraggiano l’one-stà e una forte etica del lavoro possono servire a ridur-re la tendenza a sottrarsi alle responsabilità e ad altricomportamenti aziendali inefficienti. D’altro canto,norme che incoraggiano la creazione di procedure arti-ficiali, lunghe, costose e prive di significato, o che elo-

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1177.. David A. Skeel Jr., “Shaming in Corporate Law”, University of Pennsyl-vania Law Review, 149, 2001, p. 1812, ripreso da un’intervista del 25 otto-bre 2000 a cura di Nell Minow, The Corporate Library, http://www.thecorpo-ratelibrary.com.

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giano il fatto di concludere affari solo per il gusto diconcluderli, piuttosto che creare valore, sono ineffi-cienti e deleterie.

Un terzo motivo per cui le norme sono importanti èil fatto che sembrano emergere spontaneamente, senzal’intervento dei mercati. I contratti, compresi contrattiaziendali quali atti costitutivi e statuti, si evolvonoattraverso complessi processi di mercato nei quali i ter-mini contrattuali emergono in risposta alla domandadel mercato. I termini contrattuali hanno un prezzo e leinnovazioni sono altamente apprezzate come in altricontesti contrattuali.

Come ha ampiamente dimostrato la “teoria dellascelta pubblica”, i contorni delle regole giuridiche, tracui quelle relative alla corporate governance, rispec-chiano un comportamento nei mercati politici che èconforme a modelli economici standard. La legge è unprodotto generato in un processo darwiniano nel qualegruppi di interesse esprimono le loro richieste offrendoo negando il sostegno a politici che ne hanno bisognoper sopravvivere. La legge quindi tende a rispecchiarel’equilibrio di compensazione del mercato generatodall’interazione di molteplici gruppi di interesse. Conriferimento alla corporate governance, vediamo che ledisposizioni del diritto societario sono a vantaggio digruppi di interesse distinti, quali dirigenti, avvocati ebanche di investimento, nonché azionisti.18

Poiché i mercati sono la fonte delle regole contrat-tuali e anche delle regole giuridiche di corporate gover-nance, le norme sono una componente distintiva del-l’infrastruttura della corporate governance. Diversa-mente dai contratti privati e dal diritto, le norme nasco-no da un processo che non è di mercato. In altre parole,le norme possono contribuire al funzionamento deimercati o ostacolarlo, ma non è affatto chiaro quantainfluenza esercitino i mercati sullo sviluppo di normesociali. Certamente i mercati influiscono sulle norme

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1188.. Jonathan R. Macey - Geoffrey Miller, “An Interest Group Theory ofDelaware Corporate Law”, Texas Law Review, 65, 1987, p. 469.

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almeno in qualche misura, come si dimostrerà in segui-to. Poiché i mercati influiscono sulle leggi e queste ulti-me influiscono sulle norme, è evidente che esiste unacerta interazione tra mercati e norme, che tuttavia sem-brano nascere ed evolversi spontaneamente, almeno incerta misura. Anche gli scritti contemporanei più auto-revoli e importanti sull’argomento, compresi quelli diFrancis Fukuyama,19 James Coleman20 e Robert Put-nam,21 considerano le norme come una caratteristicaendogena della società. Dopo Alexis de Tocqueville, chein La democrazia in America coniò l’espressione “arte del-l’associazione” per descrivere la propensione degliamericani per le associazioni civili, si è compreso che lenorme informali producono un bene prezioso per lasocietà, che Fukuyama definisce “capitale sociale”.

Il capitale sociale svolge un ruolo diretto e rilevantenella corporate governance e rispecchia il valore econo-mico delle norme sociali, un sostituto a basso costo dialtri meccanismi di corporate governance, come con-tratti e leggi. Come osserva Fukuyama, «la funzioneeconomica del capitale sociale consiste nel ridurre icosti associati ai meccanismi formali di coordinamentoquali contratti, gerarchie, regole burocratiche e altriaspetti simili».22

Quel che è più importante, in un’ottica di corporategovernance contratti e leggi non sono possibili in assen-za di una quantità sufficiente di capitale sociale genera-to da norme informali. In assenza di capitale sociale, lepersone non seguono le leggi né rispettano i contratti senon è nel loro interesse personale farlo, e non esisteneppure la fiducia necessaria per gli investimenti.

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1199.. Francis Fukuyama, Trust: The Social Virtues and the Creation of Prospe-rity, New York, Free Press, 1995.

2200.. James S. Coleman, “Social Capital in the Creation of Human Capital”,American Journal of Sociology, 94, supplemento, 1988, pp. 95-120.

2211.. Robert D. Putnam, Making Democracy Work: Civic Traditions in ModernItaly, Princeton, Princeton University Press, 1993.

2222.. Francis Fukuyama, “Social Capital and Civil Society”, intervento allaConferenza del Fondo Monetario Internazionale sulle Riforme di secondagenerazione, 1 ottobre 1999, http://www.imf.org/external/pubs/ft/semi-nar/1999/reforms/fukuyama.htm, consultato 25 febbraio 2007.

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Praticamente tutte le forme di attività economica intutti i mercati, dall’adesione volontaria alla normativasull’imposta sul reddito all’esecuzione di normali con-tratti commerciali, presuppongono un capitale sociale.Le persone sono più propense ad adempiere agli obbli-ghi derivanti da un contratto se ritengono che anche lecontroparti lo faranno, ma sono anche più inclini apagare le tasse se sono fiduciose che anche altri contri-buenti rispetteranno la normativa fiscale.23 Soprattutto,il capitale sociale è importante nella corporate gover-nance, vista la natura vaga, quasi indefinita, del rap-porto tra gli azionisti e le società nelle quali investono.Poiché gli azionisti godono di una scarsa tutela contrat-tuale o giuridica, il loro rapporto con le società nellequali investono è necessariamente caratterizzato da unelevato livello di fiducia. In caso di controversie, larigorosa applicazione dei contratti può contribuire inmodo significativo a porre rimedio alla mancata osser-vanza di obblighi legali ben specificati, così come for-mulati nelle disposizioni del codice sull’imposta suiredditi o in un contratto commerciale, o anche in unaccordo di finanziamento o in un patto obbligazionario.Per contro, gli azionisti hanno ben pochi appigli perfare causa, non solo perché è difficile monitorare l’im-pegno dedicato dal management ma anche perché, sepure fosse possibile, gli azionisti non godono comun-que di diritti contrattuali al pagamento e hanno poco dacontestare se i loro investimenti non rendono.

In una società caratterizzata da un ingente capitalesociale, nella forma di quelle che Fukuyama chiama“norme informali praticate”,24 queste norme socialidiventano importanti fonti di corporate governance chenon solo aiutano gli investitori ma rendono possibileanche la formazione di capitale. Come osserva MarcelKahan, il modo in cui un manager gestisce la società in

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2233.. Dan M. Kahan, “Signalling or Reciprocating? A Response to EricPosner’s Law and Social Norms”, University of Richmond Law Review, 36,2002, pp. 367-385.

2244.. Francis Fukuyama, “Social Capital and Civil Society”, p. 1.

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cui opera influisce sul suo potere, sul suo prestigio e sulsuo status. I manager di società che ottengono risultatipositivi godono di un livello molto ambìto di riconosci-mento, prestigio e status nelle comunità ristrette in cuioperano.25 Tuttavia con questa osservazione Kahanintende sostenere l’opinione che le norme non sonoimportanti per la corporate governance. Secondo la suatesi, oltre a contratti e leggi sarebbero la brama di pote-re, prestigio e status nonché il desiderio di evitare l’im-barazzo a incentivare i manager a operare bene. Ilpunto debole di questa analisi è che perde di vista ilfatto che sono proprio le norme a creare l’ambientesociale nel quale i manager si preoccupano di comesono percepiti. In altre parole, trattare bene gli azionistinon sempre garantisce i benefici in termini di potere,prestigio e status descritti da Kahan. Piuttosto, solo insocietà con un quantitativo sufficiente di capitale socia-le i manager possono effettivamente percepire i vantag-gi derivanti dall’utilizzare il denaro degli azionisti avantaggio degli azionisti stessi, piuttosto che di se stes-si o dei propri familiari.

I sociologi affermano che la dimensione del gruppole cui interazioni sono caratterizzate da un alto grado difiducia e guidate da norme di cooperazione può esseredelineata tramite un cosiddetto “raggio di fiducia”:26 lepersone non si interessano molto, né si fidano, di chi èal di fuori di questo raggio di fiducia. Per esempio,come rileva Fukuyama, «nella parte cinese dell’Asiaorientale e in gran parte dell’America latina, il capitalesociale risiede per lo più in grandi nuclei famigliari e inun cerchio piuttosto ristretto di amici personali».27 Oltrea non fidarsi di chi si trova al di fuori del loro cerchio difiducia, le persone sentono che al di fuori del loro grup-po di appartenenza si applica un livello inferiore di

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2255.. Marcel Kahan, “The Limited Significance of Norms for CorporateGovernance”, University of Pennsylvania Law Review, 149, 2001, p. 1881.

2266.. Lawrence Harrison, Underdevelopment Is a State of Mind: The LatinAmerican Case, New York, Madison Books, 1985, pp. 7-8.

2277.. Francis Fukuyama, “Social Capital and Civil Society”, p. 3.

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comportamento morale. Questa sensazione, a sua volta,genera norme distruttive che tollerano la corruzione:infatti, in simili contesti sociali, i funzionari pubblici eaziendali non si preoccupano della loro reputazione aldi fuori del gruppo, e i membri del gruppo in posizionidi fiducia si sentono “autorizzati a rubare” in nomedelle loro famiglie.28

Di conseguenza, un capitale sociale con un ampioraggio di fiducia è un presupposto necessario per l’or-ganizzazione di un’azienda ad azionariato diffuso,caratterizzata dalla separazione della proprietà dal con-trollo gestionale. Se i manager non ritengono che gliazionisti siano all’interno del raggio di fiducia non sisentiranno obbligati a massimizzare il valore dell’a-zienda per conto degli azionisti stessi. Ancora peggio, imanager ruberanno agli azionisti nella misura in cuipensano che possono farla franca. Se percepiscono diessere fuori dal “raggio di fiducia”, gli investitori ragio-nevoli reagiranno inevitabilmente rifiutandosi di inve-stire in società gestite da questi manager.

Quindi, Marcel Kahan ha ragione sul fatto che gliincentivi relativi alla posizione sociale, come il deside-rio di prestigio e il timore di essere mortificati, sonofonti importanti di corporate governance. Tuttavia, nontiene conto del concetto di fondo per cui il sistema dinorme in una società è ciò che determina la misura incui ai manager effettivamente interessa di essere cono-sciuti per la loro competenza e onestà o temono di esse-re etichettati come imbroglioni. Per illustrare questopunto, immaginiamo che sul mercato operino duegruppi distinti di attori. Il primo gruppo è costituito dapersone molto sensibili all’aspetto della reputazione,fortemente interessate a come sono considerate da colo-ro con cui interagiscono sul mercato; si preoccupanomolto di apparire nell’elenco dei migliori CEO in Ame-rica pubblicato dalla rivista Fortune e non invece nelleliste dei manager con le peggiori performance. Il secon-do gruppo è costituito da quella che potremmo chia-

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2288.. Francis Fukuyama, “Social Capital and Civil Society”, p. 3.

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mare una sottocultura deviante, i cui membri si sento-no liberi di trasgredire le norme della comunità domi-nante, esibendo quello che i membri del primo gruppoconsidererebbero un comportamento immorale perchénon aderente alle norme comuni. Le norme sono unprezioso strumento di corporate governance per i mem-bri del primo gruppo, ma non per quelli del secondo.Le persone sono disposte a investire in società gestiteda membri del primo gruppo, diciamo “sensibile allareputazione”, ma non in società gestite da membri delsecondo gruppo, popolato da esponenti di una sotto-cultura deviante. La diffusione della moderna societàad azionariato diffuso dipende dall’emergere di quelloche Richard McAdams descrive come un consensosociale condiviso e pubblicizzato sul fatto che determi-nati comportamenti sono da apprezzare mentre altrisono inaccettabili.29 Quello di massimizzare il valore pergli azionisti è il comportamento da apprezzare, mentresottrarsi alle responsabilità, rubare e impegnarsi in altreattività che riducono la ricchezza per gli azionisti è daconsiderarsi inaccettabile. In una società di qualsiasidimensione, complessità e diversità, per i membri delgruppo caratterizzato dalla sensibilità alla reputazionenon è possibile eliminare la sottocultura deviante. Poi-ché gli esponenti di quest’ultima, per definizione, nonsi preoccupano di come vengono percepiti dal gruppodominante, le tecniche abituali di biasimo utilizzate perapplicare le norme non funzionano. Invece, è possibileche la sottocultura deviante elimini il gruppo sensibilealla reputazione, o almeno gli impedisca di ottenere deirisultati positivi.

Per una società che intende reperire capitali median-te l’emissione di azioni, il fatto che i manager siano per-cepiti come sensibili o insensibili all’aspetto della repu-tazione assume una certa rilevanza. Le società ragione-voli selezioneranno manager percepiti dagli investitoricome persone che tengono alla propria reputazione,

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2299.. Richard H. McAdams, “The Origin, Development, and Regulation ofNorms”, Michigan Law Review, 96, 1997, p. 338.

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poiché gli investitori ragionevoli non investono insocietà che vedono gestite da persone estranee alla cul-tura che considera una norma la massimizzazione dellaricchezza per l’azionista. In altre parole, per il successodelle società ad azionariato diffuso è fondamentale lapresenza di una quantità di capitale sociale sufficienteper creare un pool di talenti manageriali sensibili alproblema della reputazione. Ciononostante, l’esistenzadi un pool di potenziali manager di talento che tengo-no alla reputazione è una condizione necessaria, manon ancora sufficiente, per far emergere una società adazionariato diffuso. Inoltre, poiché esistono anche per-sonaggi devianti, i potenziali investitori devono averemodo di distinguere i manager che tengono alla repu-tazione dagli altri. Non è un compito facile, poiché imanager devianti sono fortemente incentivati a camuf-farsi da persone sensibili all’aspetto della reputazione.Quindi, non deve sorprendere il fatto che nella selezio-ne di funzionari, amministratori e consulenti esterni sitenda fortemente a favorire l’anzianità e l’esperienza,caratteristiche che garantiscono agli investitori che imanager tengono alla reputazione.

Questa analisi contribuisce in larga misura a spiega-re uno dei principali misteri della corporate governan-ce, ossia la retribuzione apparentemente esorbitantedegli alti dirigenti nelle società statunitensi. Se, comesuppongo sia il caso, il gruppo di potenziali CEO è limi-tato a persone che hanno dimostrato di essere moltosensibili al fattore reputazione, è prevedibile che quellicon un’esperienza comprovata come CEO siano moltorichiesti. L’esistenza di sottoculture settoriali distintepuò esasperare questa tendenza, poiché gli azionisti diaziende siderurgiche tenderanno a reclutare dirigenti inquel settore, così come gli azionisti di aziende automo-bilistiche tenderanno ad assumere dirigenti nello stessosettore. In linea con quest’analisi, dalle ricerche deglieconomisti Xavier Gabaix e Augustin Landier emergeche le retribuzioni dei dirigenti nei diversi settori indu-striali aumentano in modo proporzionale al ruolo diquel settore nell’economia in generale, in termini di

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capitalizzazione. Quando un particolare settore dell’e-conomia è in crescita, cresce anche la domanda di diri-genti per quel settore, spingendo al rialzo le retribuzio-ni.30 Questa spiegazione riguardo alle retribuzioni deidirigenti appare più plausibile dell’ipotesi alternativache i massimi dirigenti delle maggiori società multina-zionali possiedono competenze fortemente specifiche,in particolare alla luce della mancanza di delucidazioniin merito a quali potrebbero essere.

È noto che consulenti esterni come avvocati, banchedi investimento e società di revisione svolgono un ruoloimportante nella corporate governance. Questi consu-lenti vengono definiti “intermediari reputazionali” per-ché sono ritenuti elementi sensibili in termini di repu-tazione. La loro associazione a un gruppo di imprendi-tori costituisce un valore aggiunto poiché segnala lavolontà di investire il loro capitale reputazionale nel-l’impresa. Un’implicazione di questa analisi è il fattoche con tutta probabilità questi cosiddetti gatekeepers, oguardiani, sono efficaci solo nella misura in cui riman-gono sensibili all’aspetto della reputazione. Come illu-strerò in maggior dettaglio nei prossimi capitoli, il calodi sensibilità al rischio reputazionale tra i gatekeeperscontribuisce in larga misura a spiegare le crisi della cor-porate governance, come nel caso Enron.

L’analisi suggerisce che un ruolo importante dei varimeccanismi e delle diverse istituzioni di corporategovernance è quello di promuovere la produzione dicapitale sociale attraverso norme e istituzioni che con-sentano agli operatori del mercato di distinguere tramanager sensibili alla reputazione e manager devianti.Le sanzioni per truffa relative alla divulgazione diinformazioni false o fuorvianti e le sanzioni della SECche prevedono l’interdizione a vita dal settore dei titolifanno aumentare i costi per le persone che si fingonosensibili al fattore reputazione quando non lo sono. Ineffetti, a mio parere occorre una certa quantità di capi-

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3300.. Xavier Gabaix - Augustin Landier, “Why Has CEO Pay Increased SoMuch?”, http://ssrn.com/abstract=901826, consultato 25 febbraio 2007.

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tale sociale affinché enti amministrativi come la SECpossano funzionare. Questo perché simili enti, che pos-sono contare esclusivamente su deboli sanzioni civili,abbinate al biasimo, dispongono di poche armi, quandone hanno, per scoraggiare i comportamenti sbagliati diesponenti della sottocultura deviante.

Mercati, istituzioni e corporate governanceDa un punto di vista pratico, la corporate governan-

ce è esercitata da una serie di istituzioni e di meccani-smi pubblici e privati che interagiscono per applicare (etalvolta minare) i contratti, le leggi e le norme sociali dicui si è discusso in precedenza. Tali meccanismi e isti-tuzioni incidono direttamente e indirettamente su con-tratti, leggi e norme sociali in numerosi modi, finorapoco scandagliati.

Le istituzioni di governance delle società ad aziona-riato diffuso comprendono gli Stati, che promulgano lalegislazione societaria, e la SEC. Gli strumenti di corpo-rate governance privati e basati sul mercato compren-dono il mercato del controllo societario e la retribuzionedei dirigenti nonché meccanismi e istituzioni informaliquali il whistle-blowing e l’insider trading. Anche orga-nizzazioni non governative come banche commerciali edi investimento e agenzie di rating del credito parteci-pano alla corporate governance, poiché le loro attivitàinfluenzano la gestione della società. Le istituzioni e imeccanismi di corporate governance variano enorme-mente in termini di forme organizzative e motivazioniesistenziali, ma condividono le caratteristiche comuni dicontribuire al controllo dei costi di agenzia affrontatidagli investitori in società ad azionariato diffuso.

Come vedremo nei capitoli seguenti, le istituzioni dicorporate governance negli Stati Uniti si sono pericolo-samente politicizzate. Questa tendenza minaccia diindebolire il grado di sostegno che queste istituzionipossono fornire al funzionamento di contratti, leggi enorme sociali fondamentali per la governance dellesocietà ad azionariato diffuso.

I regolamenti hanno provocato la costituzione di

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cartelli e la fossilizzazione di importanti istituzionicome le società di revisione e il settore del rating delcredito. Altre regole originate da motivazioni politichehanno impastoiato il mercato del controllo societario,che da sempre è la colonna portante della corporategovernance. L’osservazione che nasce da quest’analisi èche la politicizzazione del processo di corporate gover-nance ha prodotto risultati fortemente perversi. Nellospecifico, le istituzioni di corporate governance chehanno funzionato peggio sono state premiate, mentrequelle che hanno funzionato meglio sono state frenateda norme giuridiche studiate per ostacolare la lorocapacità di operare. Invece di promuovere una riformareale, l’ondata di scandali degli anni Novanta, chehanno colpito le dimensioni della corporate governan-ce e della contabilità ma anche i mercati finanziari, hagenerato risposte politiche a vantaggio di ristretti grup-pi di interesse e a danno degli investitori. È la politica,e non l’economia, a determinare quali strumenti di cor-porate governance privilegiare e quali no; di conse-guenza, nel processo normativo gli strumenti più effi-caci tendono a essere sfavoriti, mentre vengono pre-miati i meccanismi inefficaci.

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Nel capitolo precedente si sono individuate le trecomponenti della corporate governance: i contratti, leleggi e le norme sociali. Un aspetto comune a queste trecomponenti è il fatto che non sono self-enforcing, ossianon si applicano da sé. Per questo motivo occorrono isti-tuzioni e meccanismi quali strumenti di applicazione.

Le principali istituzioni di corporate governancecomprendono le società di revisione che effettuano l’au-diting delle società ad azionariato diffuso, le agenzie dirating del credito, che stabiliscono se i loro titoli sono onon sono investment grade, il mercato del controllosocietario che disciplina il management di società malgestite, le Borse organizzate che promulgano regole dicorporate governance, il mercato delle IPO di azioni e lastessa SEC, che regolamenta i mercati, vigila sullacomunicazione economico-finanziaria delle società einterviene in misura crescente nella formulazione dellepolitiche di corporate governance delle società ad azio-nariato diffuso.

Sul versante politico la situazione è piuttosto depri-mente. Una serie di processi darwiniani hanno cospira-to per produrre dei risultati perversi che sono passatiinosservati. Nello specifico, le istituzioni di corporategovernance che hanno funzionato peggio – società direvisione, SEC e agenzie di rating del credito – prospe-rano, protette da un sistema normativo premiante dalle

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Capitolo 3

Istituzioni e meccanismi di corporate governance

Una tassonomia

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conseguenze delle loro scarse prestazioni. Per contro, leistituzioni del mercato che hanno operato al meglio esono le più promettenti al fine di massimizzare la crea-zione del valore per gli investitori sono state indebolitee ostacolate da decenni di legislazione protezionistica edalla perpetuazione di stereotipi negativi. In particola-re, il mercato del controllo societario è stato impastoia-to da leggi e decisioni giudiziarie che consentono almanagement in carica di sfuggire alla disciplina cheun’acquisizione ostile inevitabilmente porta con sé. E ivenditori allo scoperto, che svolgono un ruolo di cor-porate governance estremamente prezioso, scoprendole frodi e punendo i cattivi manager, vengono ingiusta-mente etichettati come appartenenti a una sottoculturadeviante all’interno del settore mobiliare.

È altamente improbabile che i risultati perversiappena descritti siano completamente casuali. Piutto-sto, è più verosimile che derivino da una serie di singo-le decisioni politiche indipendenti prese in situazioni dicrisi, in risposta a pressioni politiche o semplicementeperché si è scelto di seguire la strada della minima resi-stenza (politica). In ogni caso, qualunque sia il motivodi questa situazione, un fatto è chiaro: la conseguenzadi questa sfortunata serie di decisioni è un notevolecalo della qualità nella corporate governance.

Sul versante economico dell’equazione, la situazio-ne è sicuramente più brillante. Gli imprenditori del set-tore privato sono motivati a creare istituzioni e mecca-nismi di mercato che affrontino i problemi di corporategovernance perché è remunerativo. In quest’ottica, glihedge fund e i fondi di private equity sono risposterelativamente recenti del mercato alle opportunità dicolmare le inefficienze prodotte dalla regolamentazionestatale sui meccanismi tradizionali di corporate gover-nance, come il mercato del controllo societario.

Misurare la qualità dei sistemi di corporate gover-nance non è facile. Anche nella migliore delle ipotesi, imeccanismi di corporate governance non garantisconoagli investitori ordinari un ritorno adeguato sui loroinvestimenti. Al massimo, quando funzionano bene i

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meccanismi di corporate governance aumentano le pro-babilità che gli azionisti facciano un “buon affare”,intendendo con questo un ritorno sugli investimenticommisurato ai rischi. Un vantaggio di questo metro dimisurazione dei sistemi di corporate governance è che,diversamente dalla maggior parte degli altri approcci,che ragionano in termini di “garanzia di rendimentiadeguati”, un approccio incentrato sia sui rischi che suirendimenti dà la giusta importanza all’assunzione dirischi, che è un presupposto fondamentale.

In generale, nei mercati finanziari competitivi non èpossibile conseguire rendimenti consistenti senza assu-mere anche rischi consistenti. Per questo motivo, i siste-mi di corporate governance devono essere attenti apenalizzare la frode e l’inganno piuttosto che il “sem-plice” fallimento. Anzi, io andrei anche oltre. Non soloil fallimento non dovrebbe essere punito, ma nondovrebbe essere neppure stigmatizzato dalla società.Gli imprenditori e i manager onesti che falliscono sonogià puniti abbastanza dal mercato.

Ovviamente, bisogna fare i conti con il problema delcosiddetto hindsight bias, o errore del giudizio retrospet-tivo: con questo termine, gli psicologi si riferiscono allatendenza fermamente radicata nelle persone a conside-rare un evento accaduto prevedibile sin dall’inizio. Sitratta di una distorsione, perché le percezioni della pro-babilità che si verifichi un evento sono influenzate dallaconoscenza di quanto è effettivamente accaduto. Inrealtà, il semplice fatto che un evento si sia verificatonon significa che fosse ragionevole aspettarselo. L’erro-re del giudizio retrospettivo rappresenta un problemaper gli enti normativi che tentano di formulare sanzio-ni per la condotta societaria, a causa della tendenza abiasimare imprenditori e manager per i risultati negati-vi. Dovremmo guardarci da questa tentazione, perchésiamo inclini ad attribuire ai manager irragionevolipoteri di preveggenza dopo il fatto. Come rilevato all’i-nizio, le istituzioni della corporate governance sononumerose e variegate. L’elenco comprende tutti i gene-ri di gatekeepers, come avvocati, banche di investimento

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Istituzioni e meccanismi di corporate governance

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e consulenti fiscali, nonché consigli di amministrazionee istituti finanziari, che controllano le società alle qualihanno prestato del denaro. Uno degli obiettivi di que-sto libro è quello di fornire un approccio sistematico perl’analisi delle istituzioni e dei meccanismi di corporategovernance che guidano i manager.

Innanzitutto, da una prospettiva economica, i mec-canismi di corporate governance si possono valutaresulla base del loro livello di efficacia nel controllare ledevianze societarie. In secondo luogo, da una prospet-tiva giuridica, i meccanismi di corporate governance sipossono valutare sulla base della loro regolamentazio-ne. Infine, i meccanismi di corporate governance si pos-sono valutare in base a come vengono considerati dauna prospettiva sociale: le norme sociali rafforzanomeccanismi efficaci di corporate governance?

L’analisi delle caratteristiche sia economiche sia giu-ridiche dei vari strumenti di corporate governance cipermette di vedere il rapporto tra l’efficienza economi-ca e l’intervento normativo. Poiché meccanismi di cor-porate governance diversi sono regolamentati in mododiverso, si può verificare se una corporate governanceefficace risulti incoraggiata o scoraggiata dalla regola-mentazione o dalle norme prevalenti.

Nella sfera delle norme e dei regolamenti, il rappor-to tra l’efficienza degli strumenti di corporate gover-nance e la misura in cui vengono scoraggiati o incorag-giati è complesso, ma non casuale. Piuttosto, a mioparere, gli strumenti più efficaci di corporate governan-ce tendono a essere considerati obiettivi maturi per laregolamentazione, mentre gli strumenti inefficaci ten-dono a essere ignorati dalle autorità normative. Talvol-ta, ma non sempre, questo vale anche per le norme.

Quindi, si tratta di un processo evolutivo. Di solito,uno strumento di corporate governance è oggetto discarsa attenzione da parte degli organi di regolamenta-zione all’inizio della sua esistenza istituzionale. Con ilpassare del tempo, tuttavia, può cominciare ad attirarel’attenzione e, quando si giunge a una regolamentazio-ne, questa provoca una concomitante riduzione dell’ef-

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ficacia dell’istituzione in quanto meccanismo di corpo-rate governance in grado di controllare i comportamen-ti societari deviati (costi di agenzia).

Nell’intento di fornire un breve riepilogo delle tema-tiche in materia di contratti, diritto e norme sociali cheinfluiscono sulla corporate governance presentate inquesto libro, i dodici capitoli che seguono prendono inesame le istituzioni e i meccanismi più importanti del-l’infrastruttura di corporate governance. La conclusio-ne è chiara. Le istituzioni sociali e giuridiche incorag-giano i meccanismi e gli strumenti di corporate gover-nance meno efficaci e scoraggiano quelli più efficaci. Larecente ondata di scandali conferma questa tesi.

Per esempio, la più efficace di queste istituzioni,ossia il mercato del controllo societario, è stata soffoca-ta da una normativa che sposta l’equilibrio di poteredagli offerenti e azionisti della società bersaglio verso ilmanagement in carica. Un altro strumento efficace dicorporate governance, l’IPO, viene utilizzato raramenteper l’alto rischio di controversie e oneri normativi. Percontro, istituzioni relativamente inefficaci, quali leagenzie amministrative, le agenzie di rating del creditoe persino i consigli di amministrazione, godono di“sovvenzioni” normative. Le spinte e il sostegno a que-ste istituzioni inefficaci sono portate avanti da autoritànormative e politici come una risposta alla domanda dimiglioramenti nella corporate governance da parte del-l’opinione pubblica.

In questo modo, la crescente rilevanza della corpo-rate governance come questione politica ha portato auna regolamentazione che ne ha trasformato le caratte-ristiche. Un tempo le società di revisione, le agenzie dirating del credito e le Borse valori svolgevano un ruolorilevante e utile nella governance delle società ad azio-nariato diffuso, ma nel corso del tempo la regolamenta-zione ha minato l’efficacia di queste istituzioni. Mentreuna volta la domanda dei servizi forniti dalle società direvisione contabile, dalle agenzie di rating e dalle Borseorganizzate era determinata dal mercato, ora esiste unintreccio di complessi regimi normativi che, oltre a

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Istituzioni e meccanismi di corporate governance

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imporre alle società ad azionariato diffuso di acquista-re questi servizi, effettivamente promuovono la forma-zione di cartelli nei settori che li forniscono. Nel settoredelle società di revisione e delle agenzie di rating delcredito, gli enti normativi hanno determinato la costitu-zione di cartelli erigendo barriere all’ingresso che limi-tano a un numero ridotto le aziende che possono com-petere per fornire questi servizi. Nel caso delle Borseorganizzate, oltre a limitare fortemente l’ingresso, laregolamentazione frena anche la concorrenza e l’inno-vazione, coordinando le regole di governance internadegli scambi.

Su questo scenario complesso e deprimente aleggiail fantasma della SEC, che è stata generosamente ricom-pensata per la sua inerzia. In risposta alle pressionipolitiche dei suoi sostenitori in seno ai comitati per glistanziamenti del Congresso e nella cerchia delle banchedi investimento e degli avvocati che rappresentano sestessi e il management, la SEC ha spinto per introdurrenella normativa sulla corporate governance dei cambia-menti costosi e inefficaci, che tuttavia la aiutano adallargare il gruppo dei suoi sostenitori. Le nuove rego-le sull’estensione dell’accesso degli azionisti alla mac-china elettorale societaria e sulla governance dei fondicomuni ne sono un esempio concreto. Pretendono diessere strumenti intesi a migliorare la corporate gover-nance ma in realtà è probabile che si rivelino altamenteinefficaci.

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Corporate governance

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Istituzioni e meccanismi di corporate governance

Securities and Exchange Commission (SEC) e Borse organizzate

Consigli di amministrazione

Mercato del controllo societario

Offerte pubbliche iniziali (IPO)

Norme contabili e società di revisione

Meccanismi di corporate governance

Tabella 3-1 Meccanismi di corporate governance

Governance delle controversie: azione sociale di responsabilità e class action

Insider trading e vendita allo scoperto

No

No

Incoraggiato?

No

No

No

Whistle-blowing SìNo

Agenzie di rating del credito SìNo

Hedge fund NoSì

Voto degli azionisti SìNo

Analisti del mercato finanziario SìNo

Banche e altri fixed claimants NoSì

No

Efficace?

No

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L’essenza del diritto societario negli Stati Uniti è rac-chiusa nell’assunto che le società per azioni sono con-trollate dai consigli di amministrazione più che dagliazionisti. Si potrebbe anche dire che il consiglio diamministrazione è l’epicentro della corporate gover-nance negli Stati Uniti. In particolare, ai sensi delle leggistatunitensi, le società per azioni sono gestite diretta-mente dai consigli di amministrazione o nel rispettodelle loro istruzioni, il che rende gli amministratori let-teralmente i governatori della società. L’idea che gliamministratori portino un valore aggiunto è diffusa eprofondamente radicata, e questo libro non intendecontestarla. Quello che si vuole mettere in discussione èl’opinione comune per cui gli amministratori tradizio-nali danno valore aggiunto perché curano l’interessedegli azionisti controllando il management, mentre gliamministratori nominati ed eletti nel corso di processiconsiliari tradizionali agiscono in realtà nell’interessedella dirigenza, offrendo il proprio supporto. Capitasenz’altro, segnatamente quando il management dàindicazioni strategiche utili e costruttive per la gestioneaziendale, che gli amministratori portino valoreaggiunto agli azionisti, ma accade altresì, per esempioquando i manager chiedono agli amministratori diapprovare le loro aggressive richieste sul piano dellaremunerazione o di essere protetti dal mercato del con-

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Capitolo 4

Il consiglio di amministrazione

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trollo societario o da investitori istituzionali insistenti,che i cosiddetti amministratori indipendenti riescano amalapena a mantenere il valore per gli azionisti, o che avolte non vi riescano affatto.

Dai consigli di amministrazione ci si aspetta molto.I Principles of Corporate Governance dell’American LawInstitute pongono in capo agli amministratori dellesocietà ad azionariato diffuso la responsabilità di con-trollare e valutare l’azienda, di selezionare, remunera-re e, se necessario, sostituire anche i più alti dirigenti,nonché di verificare gli obiettivi finanziari e la contabi-lità dell’impresa.1 Il consiglio ha l’autorità di gestirel’attività aziendale e può avviare piani strategici eindurre la società a perseguire o modificare i propribusiness plan. Il consiglio di amministrazione ha inoltrepiena facoltà di iniziativa nell’interesse della società intutte le questioni che non richiedano l’approvazionedegli azionisti.

Legislatori, Borse valori, esperti di corporate gover-nance e legali di parte civile in class action fissano para-metri molto severi per gli amministratori, ma poi pun-tano il dito contro gli stessi quando le cose vanno male.Stranamente, però, mentre nessuno ritiene seriamenteche i consigli di amministrazione debbano avereresponsabilità personale o anche morale per tutto quel-lo che succede nelle rispettive società, il consenso è sor-prendentemente scarso su quelle che sono effettiva-mente le responsabilità degli amministratori.

Negli Stati Uniti, gli amministratori hanno un pote-re pressoché assoluto nell’ambito della gestione del-l’attività e degli affari della società. È per questo che, seuna società va male o fallisce, ed è innegabile cheanche le società meglio gestite possano fallire, le inda-gini si concentrano naturalmente sugli amministratori,oltre che sulla dirigenza. Il mirino viene puntato sugliamministratori anche quando una società è sconvolta orovinata dalla frode, fatto che può verificarsi non-ostante il controllo scrupoloso da parte di contabili e

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11.. American Law Institute, Principles of Corporate Governance, articolo 3.02.

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amministratori diligenti e coscienziosi. Pertanto, purconstatando l’inesorabile inclinazione a biasimare gliamministratori, per legge essi non possono essere rite-nuti responsabili per eventuali risultati negativi pur-ché abbiano agito in buona fede. Invece, è assodato chela «riparazione per problemi generati da una dirigenzaleale deve venire dai mercati, con un intervento degliazionisti e il libero flusso di capitale» invece che dai tri-bunali:2 secondo questi ultimi, infatti, è possibile che,pur assolvendo ai loro obblighi fiduciari, per cui nonhanno responsabilità personale per eventi che recanoun danno grave alla società, gli amministratori nonsoddisfino «le aspettative basate sulle best practices dicorporate governance»,3 che costituiscono le normesociali. Gli amministratori sono penalizzati dalla man-cata aderenza a queste norme.

A partire dalla metà degli anni Ottanta, i legislatoridegli Stati federali sono andati perfino oltre, autoriz-zando le società a inserire nei loro statuti clausole chesollevano gli amministratori (ma non i funzionari) dallaresponsabilità personale in caso di violazione degliobblighi fiduciari per negligenza o per non aver presta-to la dovuta attenzione, se è dimostrato che non sussi-steva l’intenzione di danneggiare la società.4 Tali leggifurono emanate sull’onda della crescente preoccupazio-ne per la responsabilità personale degli amministratori,in seguito alla sentenza della Corte Suprema del Dela-ware nella causa Smith v. Van Gorkom (esposta di segui-to e nel capitolo 1), che ritenne i membri del consiglio diamministrazione di una grande società quotata in Borsapersonalmente responsabili di aver mancato al doveredi attenzione nel raccomandare l’approvazione diun’offerta di acquisto per la società. In base alle nuove

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22.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 825 A.2d 275,Corte di Giustizia del Delaware, 2005.

33.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 825 A.2d 275.44.. Vedi, per esempio, Delaware General Corporate Law, art. 102(b)(7) o

Model Business Corporation Act, art. 2.02(b)(4); entrambe sollevano gli ammi-nistratori dalla responsabilità civile in caso di violazione degli obblighi fidu-ciari.

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leggi, gli amministratori non potranno essere ritenutipersonalmente responsabili nemmeno quando violanoil dovere di attenzione, fintanto che non sono sleali neiconfronti della società.

Gli amministratori sono ovviamente molto preoccu-pati della responsabilità personale per negligenza o attoillecito, ma questa non è certo l’unica loro preoccupa-zione. Infatti, tengono molto anche alla reputazione dileader e alla loro posizione nella comunità. In altreparole, le regole di comportamento degli amministrato-ri sono più severe e meno indulgenti delle norme inbase alle quali è valutata la loro responsabilità.

Negli Stati Uniti, ai massimi livelli politici si ritieneche la chiave per migliorare la corporate governance sial’aumento della quantità e della qualità della vigilanzada parte del consiglio di amministrazione. Pertanto, inrisposta alla diffusa preoccupazione per l’ondata discandali che ha travolto numerose società nell’eraEnron, la classe politica ha contemporaneamente biasi-mato il consiglio di amministrazione di Enron ed esor-tato i futuri amministratori a controllare in modo piùpuntuale e preciso i manager della società.5 Analoga-mente, i tribunali hanno sottolineato che la composizio-ne del consiglio di amministrazione è un parametroimportante per valutare le decisioni prese dalle societàcon l’approvazione del CdA. La cultura di corporategovernance nell’era post-Enron è caratterizzata dallafiducia nel fatto che i futuri amministratori saprannofare meglio del CdA di Enron, peraltro espressa dallaNational Association of Securities Dealers (NASD),dalla Borsa di New York (NYSE) e dal Congresso nelSarbanes-Oxley Act.

La legge Sarbanes-Oxley e altre iniziative normativedella New York Stock Exchange e della National Asso-ciation of Securities Dealers (NASD) rappresentano le

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55.. Sottocommissione permanente di Inchiesta della Commissione AffariGovernativi del Senato degli Stati Uniti, The Role of the Board of Directors inEnron’s Collapse, 8 luglio 2002, http://fl1.findlaw.com/news.findlaw.com-/cnn/docs/enron/senpsi70802rpt.pdf.

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risposte agli scandali societari dell’era Enron. Le nuoveregole non introducono molte nuove responsabilitàlegali, ma piuttosto, com’era prevedibile, traspongonosemplicemente altre norme dalla cultura legale alla cul-tura aziendale, rispecchiando la preferenza della culturalegale per regole che specifichino struttura e processirispetto alla sostanza. Per esempio, esse richiedono chei comitati a supporto del consiglio di amministrazionesiano strutturati in un determinato modo, prevedendo-ne uno per la revisione, uno per la retribuzione e unoper le nomine; oppure che tali comitati, come la mag-gioranza dell’intero consiglio, siano composti di ammi-nistratori indipendenti, un termine che le regole defini-scono in modo senz’altro più dettagliato che chiaro.

Controllo e gestioneI consigli di amministrazione delle società per azio-

ni hanno un duplice ruolo sul piano della corporategovernance: devono fungere da consiglieri al top mana-gement su questioni di gestione e controllarlo al tempostesso. Semplificando, gli amministratori svolgono unafunzione sia di gestione sia di controllo, ma restano dachiarire le implicazioni di questo duplice ruolo per lapolitica aziendale. In particolare, mancano ancora studiapprofonditi sul fatto che sia effettivamente possibileper i membri di un consiglio di amministrazione svol-gere entrambi questi ruoli.

Tra le responsabilità fondamentali nei confrontidegli azionisti, gli amministratori di una società hannoalcuni obblighi ben precisi. Tra questi, il più importan-te è probabilmente la necessità che gli amministratoriintervengano in modo significativo nella gestionedurante un periodo di crisi, quale la perdita del CEO ol’emergenza di uno scandalo societario che minacciaaddirittura la sopravvivenza della società. È navigandoin acque difficili che gli amministratori dimostrano illoro valore e in generale sembrano cavarsela bene. Unaltro compito tradizionalmente in capo agli ammini-stratori indipendenti, secondo i principi della corporategovernance americana, è l’approvazione di transazioni

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tra la società e amministratori o top manager, al fine digarantire che amministratori e dirigenti, su entrambi iversanti della transazione, non rechino danno allasocietà. Peraltro, gli amministratori hanno in genereben svolto questa funzione circoscritta e lineare.

Tuttavia, negli ultimi anni il ruolo degli amministra-tori si è spinto aldilà di queste responsabilità più tradi-zionali ed episodiche, non limitandosi a controllare ilmanagement ma partecipando alle decisioni del mana-gement nell’ambito della gestione ordinaria. Questocapitolo si prefigge di analizzare se sia irragionevoleaspettarsi che gli amministratori svolgano entrambedette funzioni al medesimo tempo perché esiste uninconciliabile conflitto di fondo tra la funzione di con-trollo e la funzione di gestione. Il problema è già statostudiato e gli stessi membri del consiglio di ammini-strazione hanno riconosciuto che il duplice ruolo dicontrollo e consulenza crea tensione e conflitto. Secon-do uno studio, «troppa enfasi sul controllo tende a crea-re una frattura tra gli amministratori non esecutivi equelli esecutivi».6

La problematica si estende ben oltre le preoccupa-zioni, pur legittime, in merito alle dinamiche personalitra amministratori esterni e il top management. Il moti-vo per cui il duplice ruolo degli amministratori crea unconflitto nodale e ineludibile è che gli amministratoriche esercitano la funzione di controllo si trovano inevi-tabilmente a dover controllare se stessi. Nel momentoin cui gli amministratori forniscono una consulenza nelperiodo T1, gli stessi si trovano in conflitto di interessinel periodo T2, quando si trovano a dover valutare ledecisioni prese dal management nel periodo T1, cioèprese interamente o in parte sulla base della consulen-za fornita dagli amministratori stessi.

Questo problema di discordanza temporale era benchiaro ai costituzionalisti, allora come oggi. Come disse

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66.. “The Role of Non-Executive Directors”, The Economist, 10 febbraio2001, p. 68, a proposito di un’indagine sui consigli di amministrazione di Pri-ceWaterhouseCoopers.

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Madison nel Federalist 10, «a nessun individuo è con-cesso di fungere da giudice in una causa che lo riguar-di personalmente, dacché il suo stesso interesse svie-rebbe senza meno il suo giudizio, e, con ogni probabili-tà, ne comprometterebbe l’integrità. Analogamente,anzi a maggior ragione, non è possibile che un certonumero di individui sia allo stesso tempo giudice eparte in causa». Sfortunatamente, sembra esserci benpoco consenso nel mondo accademico e tra sedicentiesperti di corporate governance.

L’incompatibilità tra la funzione di controllo e quel-la di gestione è così profonda da ripercuotersi sull’or-ganizzazione strutturale dell’impresa e richiede quindiscelte strategiche fondamentali. Ogni volta che i legisla-tori, le Borse valori e altri gruppi politici definiscono,più o meno consapevolmente, le direttive per la strut-tura e la composizione del consiglio di amministrazio-ne la struttura consiliare che ne risulta favorisce o ilcontrollo o la gestione da parte degli amministratori.Per esempio, se si pone l’enfasi sugli amministratoriindipendenti si punta a una politica di corporate gover-nance che favorisce il controllo sulla gestione, perchégli amministratori indipendenti hanno inevitabilmenteaccesso a meno informazioni e quindi saranno meno ingrado di contribuire al processo decisionale del mana-gement rispetto agli amministratori esecutivi (o inter-ni). D’altro canto, se si intende massimizzare l’efficaciadella partecipazione del consiglio alla pianificazionestrategica e ad altre funzioni manageriali, gli ammini-stratori esterni indipendenti saranno relativamentepochi, con invece una relativa prevalenza di ammini-stratori interni, che hanno informazioni sufficienti sullasocietà da consentire loro di dare un contributo signifi-cativo al processo decisionale del management.

Le differenze riscontrabili a livello transnazionaletra le varie strutture di corporate governance sono unadiretta conseguenza dell’obiettivo primario, ovvero ilmiglioramento della governance nel senso di un con-trollo più efficiente o di una consulenza al managementdi livello più elevato. Per esempio, negli Stati Uniti il

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consiglio di amministrazione è in genere composto daun numero molto ristretto di amministratori interni(spesso solo uno) e un gran numero di esterni, il cheriflette una scelta politica implicita di promuovere unacorporate governance orientata al controllo invece chealla gestione. Per contro, nel Regno Unito, la strutturadel consiglio di amministrazione prevede un numeromolto più elevato di amministratori interni, indicandoun modello di corporate governance mirato a definire erifinire la strategia e comunque a supportare il mana-gement, visto che ovviamente l’elevato numero diinterni pregiudica la capacità di effettuare un controlloesterno credibile.

Nelle società di diritto civile è comune la separazio-ne del consiglio in due strutture di governance bendistinte, ovvero un consiglio di sorveglianza (controllo)e un consiglio di amministrazione (gestione): è un chia-ro tentativo di prevenire i problemi derivanti dal con-flitto che si viene a creare quando la funzione gestiona-le e quella di controllo sono svolte dallo stesso gruppodi persone. E, a volte, anche gli azionisti preferisconoun sistema dualistico rispetto a un sistema monistico.7

Per arginare la possibilità di conflitto all’interno diconsigli di amministrazione ispirati al modello monisti-co è stato suggerito il ricorso ai comitati. In particolare,i comitati del CdA sono intesi a consentire la separazio-ne della funzione di controllo dalla funzione di consu-lenza.8 La tesi per cui i membri del consiglio riescano inqualche modo a effettuare un controllo indipendentequando operano all’interno dei comitati per poi magi-camente riallinearsi al team gestionale quando il consi-glio si riunisce in via totalitaria e non come comitato, èmolto dubbia. Sembra più probabile che alcuni ammi-nistratori, indipendentemente dalla loro eventuale par-tecipazione a comitati specifici, considerino la propriadistanza dal management e la conseguente capacità di

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77.. Renee Adams - Daniel Ferreira, “A Theory of Friendly Boards”, Journalof Finance, 62, 2007, p. 217.

88.. Renee Adams - Daniel Ferreira, “A Theory of Friendly Boards”.

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contribuire al valore della società tramite un’azione dicontrollo, come fonte del loro valore per l’impresa,mentre altri amministratori vedono la fonte del lorovalore aggiunto nella propria esperienza e capacità dicollaborare con il management.

Gli economisti finanziari sostengono che la quantitàdi informazioni fornite al consiglio di amministrazioneè influenzata dalla percezione che il management hadel ruolo del consiglio, ovvero se più da consulenteinterno amichevole o da controllore esterno distaccato.In questa prospettiva, se il management fornisce piùinformazioni al consiglio la società ne trarrà vantaggioperché, di rimando, la maggior informazione permetteal consiglio di fornire al management una consulenzamigliore. D’altro canto, il CEO ha i suoi motivi per esse-re parsimonioso nel fornire informazioni, poiché questeconsentono al consiglio di controllare il managementcon maggior efficacia e scrupolosità.9 In altre parole, idirigenti che divulgano di più agli amministratori rice-vono una consulenza migliore ma vengono sottoposti aesame più attento.

Renee Adams e Daniel Ferreira hanno ideato unmodello che dimostra quanto un consiglio vicino almanagement sia la soluzione ideale, perché è in gradodi offrire una consulenza di qualità più elevata alla diri-genza.10 Tuttavia, questa conclusione parte dal presup-posto che per gli azionisti i vantaggi in termini diaumento del valore dell’impresa in seguito alla migliorconsulenza siano maggiori del costo della diminuzionedel valore dell’impresa in seguito al più lasco controlloa opera di amministratori favorevoli al management eben informati.

La legge Sarbanes-Oxley tenta di affrontare il pro-blema dell’asservimento dei revisori contabili da partedella dirigenza aziendale specificando che i revisoriesterni dovrebbero essere scelti e remunerati dal comi-tato per la revisione del consiglio di amministrazione e

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99.. Renee Adams - Daniel Ferreira, “A Theory of Friendly Boards”.1100.. Renee Adams - Daniel Ferreira, “A Theory of Friendly Boards”.

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riferire a esso piuttosto che al management, come avve-niva in precedenza. Per ironia della sorte, la Sarbanes-Oxley, focalizzandosi sul problema dell’asservimento,riconosce chiaramente che il fenomeno merita attenzio-ne nell’ambito della corporate governance. Purtroppo,la legge si concentra soltanto sull’asservimento dei revi-sori contabili (e in modo piuttosto inefficace, come illu-strato nel capitolo 11), ignorando il più profondo pro-blema dell’asservimento del consiglio di amministra-zione, che è il tema principale di questo capitolo.

Beffardamente, questa risposta legislativa alla déba-cle di Enron ignora quella che potrebbe essere la lezio-ne più importante offerta dall’evento, ovvero che se sifa troppo affidamento su un qualsiasi meccanismo spe-cifico di corporate governance si diventa più vulnerabi-li ai difetti del meccanismo medesimo. Se il sistema sta-tunitense di corporate governance punta sul controllodel consiglio di amministrazione più che su altri stru-menti di corporate governance, allo stesso tempo siritrova più vulnerabile se i controllori in questione fal-liscono, come è accaduto nel caso di Enron.

Alla base di questa teoria della corporate governan-ce ritroviamo un’ipotesi fondamentale ma del tutto ine-splorata, per cui è ragionevole aspettarsi che il consigliodi amministrazione adempia agli incarichi ricevuti; tut-tavia, questa ipotesi non trova riscontro nella realtà. Senon è possibile concepire un sistema di corporategovernance in grado di identificare e selezionare imembri di un consiglio di amministrazione in modoche abbiano la competenza necessaria per svolgere lefunzioni di vigilanza e controllo per la durata del loromandato, allora l’attenzione va spostata dai consigli diamministrazione ad altri meccanismi di corporategovernance.

Il punto di partenza di questo capitolo è che la fidu-cia dei responsabili politici statunitensi nei consigli diamministrazione è assolutamente mal riposta. L’orien-tamento pubblico, la psicologia sociale nonché l’osser-vazione dei dati storici suggeriscono che dai consigli diamministrazione non si può pretendere che siano più

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onesti ed efficaci dei dirigenti che sono incaricati di sor-vegliare. Il problema è che i consigli hanno una pecu-liare predisposizione a farsi coinvolgere dai managerche sono incaricati di controllare; la problematica del-l’asservimento è così diffusa e acuta che nessun consi-glio può essere considerato assolutamente affidabile,nemmeno quelli che possono sembrare altamente qua-lificati, indipendenti e professionali. È opportuno quin-di ricorrere ad altri meccanismi di corporate governan-ce, più obiettivi, quali il trading (capitolo 7) e il merca-to per il controllo societario (capitolo 8), per integrare ilcontrollo e la disciplina apparentemente attuati daiconsigli di amministrazione.

L’asservimento è così acuto che non è ragionevoleincentrare un sistema di corporate governance sul con-siglio di amministrazione per migliorare la performan-ce della società o prevenire comportamenti illecitiall’interno della società stessa. La mia analisi prendespunto da uno studio effettuato congiuntamente conArnoud Boot sul trade-off tra obiettività e prossimitànella corporate governance.11 In questo studio analiz-ziamo i sistemi di corporate governance in base ai mec-canismi e alle istituzioni con cui gli investitori esternicontrollano il management. Alcuni strumenti e istitu-zioni di corporate governance, quali il mercato del con-trollo societario, operano con obiettività, cioè dall’ester-no, trasversalmente ai mercati, mentre altri, segnata-mente i consigli di amministrazione, operano in grandeprossimità, cioè dall’interno, interagendo in mododiretto e personale all’interno dell’impresa.

Il ricorso a strumenti interni ed esterni di corporategovernance comporta dei costi e porta dei vantaggi. Ilvantaggio dei meccanismi obiettivi di corporate gover-nance è che non sono soggetti all’asservimento o adaltri pregiudizi che possono influenzarne la capacità dianalizzare e valutare la performance del management,

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1111.. Jonathan R. Macey - Arnoud Boot, “Monitoring Corporate Perfor-mance: The Role of Objectivity, Proximity and Adaptability in CorporateGovernance”, Cornell Law Review, 89, 2004, p. 356.

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mentre il costo è legato al fatto che essi non spiccanoper elevata qualità né beneficiano di informazioni intempo reale sulle decisioni e la performance dell’azien-da, che sono invece disponibili se il controllo è eserci-tato con maggior prossimità. In sintesi, gli attori sulmercato del controllo societario sono obiettivi ma leinformazioni che utilizzano per valutare la performan-ce della società sono dati di pubblico dominio, reperi-bili a tutti gli operatori quando e se la società ne deci-de la divulgazione. Per contro, il vantaggio degli stru-menti interni di corporate governance, il cui archetipoè rappresentato dal consiglio di amministrazione, è chehanno accesso immediato a informazioni della massi-ma qualità su quello che accade nella società, sempli-cemente a richiesta. Diversamente dagli strumenti dicontrollo esterni, quelli interni hanno accesso ai piani ealle strategie della società non al momento dell’attua-zione, bensì già nella fase di formulazione e sviluppo.Dal canto suo, il costo del controllo interno è dato dallamaggior predisposizione all’asservimento rispetto alcontrollo esterno. Come esporrò più avanti, siccome glistrumenti di controllo interni, per esempio gli ammini-stratori, partecipano al processo decisionale dell’im-presa, essi si appropriano delle strategie e dei pianiperseguiti dalla società e così facendo si rendono inca-paci di valutare successivamente tali strategie e pianicon obiettività.

In particolare, i consigli di amministrazione sonosempre stati responsabili di selezionare il top manage-ment e valutarne la relativa performance. Dopo averscelto, confermato e promosso i dirigenti, il consiglio èal tempo stesso impegnato e responsabile nei loro con-fronti. Perciò, durante il mandato è sempre meno pro-babile che gli amministratori riescano a mantenere ilnecessario distacco dai dirigenti che sono incaricati dicontrollare.

Alcuni studi nel campo della scelta pubblica e dellapsicologia sostengono a chiare lettere che il potenzialedi asservimento è inestricabilmente associato al con-trollo interno, quale per esempio quello esercitato dai

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consigli di amministrazione. È inevitabile che questoorgano aziendale supremo lavori a stretto contatto conil management e questo rende altamente probabile chegli amministratori vengano assoggettati dal manage-ment. Per esempio, secondo la “teoria dell’escalationdell’impegno” gli amministratori si identificano moltis-simo con il management quando iniziano ad aderirealle loro decisioni. Le decisioni iniziali, una volta presee difese, influenzano le decisioni future nel senso chequeste vengono prese in modo da dare seguito alle scel-te fatte in precedenza.12 Infatti, alcuni studi del proces-so decisionale condotti durante l’era della guerra inVietnam rivelano che i leader statunitensi erano piùricettivi all’arrivo di aggiornamenti in linea con le deci-sioni pregresse e tendevano per contro a ignorare infor-mazioni che contraddicevano le stesse.13 Analogamente,una volta che le idee e le convinzioni si radicano nellementi di un consiglio di amministrazione, la possibilitàdi modificare tali convinzioni si riduce drasticamente.Thomas Gilovich sostiene che le «convinzioni sonocome proprietà» e «quando qualcuno mette in discus-sione le nostre convinzioni, è come se qualcuno criti-casse le nostre proprietà».14

Inoltre, la psicologia sociale dimostra che le personetendono a interiorizzare i propri ruoli vocazionali. Lescelte occupazionali, quali la scelta di accettare l’impie-go di amministratore di una società, influenzano pro-fondamente i nostri atteggiamenti e valori.15 Nell’ambi-

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1122.. Vedi David G. Myers, Social Psychology, New York, McGraw-Hill, 1983,pp. 46-47.

1133.. Vedi Ralph K. White, “Selective Inattention”, Psychology Today, novem-bre 1971, p. 82, che rileva che «quando le azioni si sono discostate dalle idee,la tendenza di chi doveva prendere decisioni è stata quella di allineare le pro-prie azioni».

1144.. Thomas Gilovich, How We Know What Isn’t So: The Fallibility of HumanReason in Everyday Life, New York, The Free Press, 1991, p. 86; Robert P.Abelson, “Beliefs Are Like Possessions”, Journal for the Theory of Social Beha-vior, 16, 1989, p. 222.

1155.. Jerald G. Bachman - Patrick O’Malley, “Self-Esteem in Young Men: ALongitudinal Analysis of the Impact of Educational and OccupationalAttainment”, Journal of Political Economy, 85, 1977, pp. 370-376.

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to dei consigli di amministrazione, questa influenzasignifica che gli amministratori tendono a interiorizza-re l’ottica del management, a discapito dell’obiettività.Questo problema non si pone con gli azionisti del mer-cato pubblico, che hanno un contatto pressoché nullocon il management, per cui l’obiettività degli attori delmercato del controllo societario non è a rischio.16

Il pregiudizio cognitivo che affligge i consigli diamministrazione e altri controlli interni riguarda quelloche Daniel Kahneman e Dan Lovallo hanno definito il«punto di vista interno».17 Così come i genitori nonriescono a vedere i propri figli con obiettività o distac-co, gli amministratori con funzione di controllo internotendono a rifiutare la realtà statistica e considerare leloro imprese al di sopra della media, mentre i respon-sabili del controllo esterno valutano con obiettività ledecisioni della dirigenza e confrontano con imparziali-tà il management in carica con un eventuale manage-ment rivale, pur alla luce di meno informazioni. Dalcanto loro, chi esercita il controllo interno può esserecondizionato da quello che si definisce “pregiudizioancorante”, per cui tende a consolidare o “ancorare” leproprie idee di fondo e opinioni sul management.Generalmente, questo fenomeno caratterizza chiunquevenga assunto con funzione di controllo o come ammi-nistratore esterno: una volta che si è fatto un’idea posi-tiva del management, la sua opinione rimane “ancora-ta” e non cambia.

Inoltre, gli amministratori interni mancano di obiet-tività dal punto di vista economico. La funzione disupervisione tende a rendere il consiglio di ammini-strazione responsabile tanto quanto il management perlo stato dell’impresa. Il livello di responsabilità con-giunta dipende dal livello di coinvolgimento del consi-

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1166.. Naturalmente, nei casi di leveraged buyout da parte del management, neiquali gli attori del mercato del controllo societario sono appunto i manager,il pregiudizio cognitivo può essere uno dei problemi.

1177.. Vedi Daniel Kahneman - Dan Lovallo, “Timid Choices and Bold Fore-casts: Perspectives on Risk Taking”, Management Science, 39, 1993, pp. 24-27.

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glio in azienda: questi potrebbe astenersi dall’interven-to correttivo per “pregiudizi cognitivi” ma anche perquestioni di reputazione, ossia perché eventuali misurecorrettive potrebbero portare alla luce l’eventuale ina-deguatezza del consiglio.18 Un consiglio di amministra-zione può non intervenire anche per altre ragioni: inve-ste parecchio nel reperimento di informazioni specifi-che sul management in carica ed eventuali sostituzionipotrebbero diluire il valore di tale investimento. Inoltre,come i governi, i consigli di amministrazione sonosostenuti fondamentalmente da un unico gruppo diinteresse: il management, che non solo ha tutto il tempoe le risorse per coltivare gli amministratori ma è ancheil gruppo che fornisce loro le informazioni necessarieper prendere decisioni. In moltissimi ambiti, il manage-ment non deve fare altro che presentare i dati in modoche stimolino l’approvazione o portino al vero e pro-prio asservimento del consiglio. Non deve quindi sor-prendere la mancanza di obiettività in un consiglio diamministrazione.19

Naturalmente, l’idea di assoggettare il consiglio nonè nuova, ma è bizzarro che l’analisi del problema percui l’apparente indipendenza di amministratori esternipotrebbe essere compromessa dall’asservimento delconsiglio sia circoscritta alla questione della retribuzio-ne della dirigenza. In uno studio sulla retribuzione diri-genziale e l’asservimento dei consigli di amministrazio-

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1188.. Secondo questa interpretazione, sono gli amministratori a controllare ilmanagement. In un sistema dualistico (come quello dell’Olanda e della Ger-mania), questo compito spetta ovviamente al consiglio di sorveglianza, men-tre in un sistema monistico, come negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, sonogli amministratori non esecutivi a fungere da controllori.

1199.. Bainbridge sostiene l’importanza delle decisioni di gruppo, sottolinean-do non tanto l’efficacia del controllo sul CEO, quanto i potenziali beneficiderivanti da un’azione decisionale condotta in team piuttosto che individual-mente. Vedi Stephen M. Bainbridge, “Why a Board? Group DecisionMaking in Corporate Governance”, Vanderbilt Law Review, 55, 2002, pp. 19-38. Di idee opposte è invece Holmström, che ritiene che le decisioni di grup-po possano disincentivare i singoli a impegnarsi nei controlli. Vedi BengtHolmström, “Moral Hazard in Teams”, Bell Journal of Economics, 13, 1982,pp. 326-328, 334-340.

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ne Lucian Bebchuk, Jesse Fried e David Walker hannosostenuto che gli «amministratori esterni sono legati aidirigenti da vincoli di interesse, collegialità o affinità».20

Secondo gli stessi autori, l’“influenza sostanziale” eser-citata dal CEO e dal suo gruppo dirigenziale sugliamministratori anche solo teoricamente indipendentiimpedisce la negoziazione alla pari della retribuzionedei dirigenti; infatti «i dirigenti sfruttano il loro potereper spingere la retribuzione verso l’alto e gli ammini-stratori esterni assecondano il management, almenofino a un certo punto».21

Questo approccio alla retribuzione della dirigenzasembra accurato e l’interesse dei dirigenti per la propriaretribuzione è ovvio e palpabile, ma non c’è ragione per-ché il ragionamento debba limitarsi a questa sfera: se gliamministratori sono «assolutamente inclini a delegareal CEO la decisione [sulla retribuzione dei manager] epoi a sostenerla», saranno ancora più propensi a delega-re al management decisioni su tematiche che non com-portano un conflitto di interessi così diretto.

Il nocciolo della questione è che col tempo tutti gliamministratori, compresi quelli esterni, finiscono peressere legati al management in termini di reputazione,per motivi inerenti alla retribuzione ma anche in altriambiti di corporate governance. Quando il manage-ment registra una buona performance, gli amministra-tori che hanno selezionato, assunto e retribuito il teamvengono apprezzati, ma un’eventuale performancescarsa si riverbera notevolmente e negativamente sugliamministratori. In altre parole, all’atto pratico gliamministratori assumono la “proprietà virtuale” deimanager che in teoria devono controllare. Il problemaè lampante quando il presidente del consiglio di ammi-

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2200.. Lucian Bebchuk - Jesse Fried - David Walker, “Executive Compensationin America: Optimal Contracting or Extraction of Rents”, 2001, p. 31, dis-ponibile su http://www.bepress.com/cgi/viewpdf.cgi?article=1052&context=ble-wp&preview_mode, consultato 15 febbraio 2008.

2211.. Lucian Bebchuk - Jesse Fried - David Walker, “Executive Compensationin America”.

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nistrazione di una società è contemporaneamenteanche il CEO della società: in questo caso, la personaincaricata di sorvegliare il CEO è il CEO in persona! Èdifficile razionalizzare questa struttura societaria nel-l’interesse degli azionisti poiché i due ruoli del CEO edel presidente del consiglio di amministrazione esacer-bano il problema dell’asservimento e minano l’efficaciadella posizione del presidente del consiglio di ammini-strazione.

Il fatto che agli amministratori spetti la responsabili-tà diretta di selezionare dei dirigenti competenti rendeloro estremamente difficile valutare gli stessi con obiet-tività e distacco. Chiedere agli amministratori di valu-tare le decisioni del management equivale a chiedereloro di valutare le proprie decisioni, mentre non è cosìper figure esterne alla società. Questa affermazione èvera in senso stretto, per esempio quando gli ammini-stratori si trovano a dover valutare i risultati dei pianistrategici dopo aver partecipato alla formulazione e allosviluppo degli stessi, ma anche in senso più lato, peresempio quando gli amministratori devono valutare laperformance di dirigenti dopo averne ripetutamentesostenuto l’operato negli anni, confermandoli nell’inca-rico e decidendo di promuoverli.

Il problema dell’asservimento del consiglio diamministrazione è esacerbato dal fatto che ovviamentei manager sanno benissimo che sono valutati dagliamministratori e pertanto hanno tutte le ragioni di pre-sentare se stessi e il loro lavoro nella luce più favorevo-le possibile, davanti al consiglio di amministrazione. Asua volta, questo lascia supporre che il flusso di infor-mazioni dal management al consiglio sarà condiziona-to in modo tale da mettere il management nella luce piùfavorevole possibile e indebolire gli amministratori dis-sidenti o poco collaborativi. Per esempio, spesso i con-sigli di amministrazione si trovano a dover decidere intempi strettissimi e gli amministratori che criticano leraccomandazioni del management o semplicementerichiedono più informazioni rischiano di essere etichet-tati come inefficaci o accusati di tarpare la capacità della

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società di cogliere tempestivamente le nuove opportuni-tà. Lonald Langevoort ha sintetizzato la situazione affer-mando che si tratta di un compromesso tra collegialità eimpegno, ovvero «maggiore è il dissenso all’interno diun gruppo, minore sarà il grado di impegno dei singolimembri». Allo stesso tempo, Langevoort si riferisceall’esito di alcuni studi, secondo i quali «i consigli diamministrazione più produttivi sono caratterizzati daun grado sufficiente di diversità da incoraggiare la con-divisione di informazioni e l’attiva valutazione di alter-native ma anche da un grado sufficiente di collegialitàda alimentare l’impegno reciproco e rendere possibile laformazione del consenso entro le stringenti tempistichetipiche dei consigli di amministrazione».22

L’obiettivo è trovare un compromesso tra la veraindipendenza e la produttività di un consiglio di ammi-nistrazione: se è davvero indipendente è meno focaliz-zato sull’ottenimento del consenso e riesce quindi a cri-ticare il management quando è necessario o appropria-to. Il prolungato impegno reciproco necessario per crea-re un clima realmente collegiale si rivelerà altamenteproduttivo ma non sarà un ambiente accogliente peramministratori che vogliano dissentire o mettere in dis-cussione il parere del gruppo.

Dal canto loro, anche i dirigenti sono molto motiva-ti a stringere rapporti personali con gli amministratori,socializzare amichevolmente e cercare di convincerli diquanto la collegialità sia un aspetto importante delruolo di amministratore. Se in teoria è compito degliamministratori porre domande insidiose, incontrarsi aporte chiuse e fare ricorso a fonti esterne e indipenden-ti per reperire informazioni sulla performance dellasocietà e comunque rientranti nel loro ambito di com-petenza, molti amministratori sentono la spinta contra-ria delle norme sociali, che possono rendere arduo svol-gere la rigorosa funzione di supervisione di cui sono

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2222.. Donald Langevoort, “The Human Nature of Corporate Boards: Law,Norms, and the Unintended Consequences of Independence and Accounta-bility”, Georgetown Law Journal, 89, 2001, pp. 810-811.

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stati teoricamente incaricati. In particolare, gli ammini-stratori sono tenuti a “giocare in squadra”, ad “andared’accordo” con gli alti dirigenti e i colleghi nel consigliononché ad adempiere ai propri doveri in un clima diserena collegialità. Secondo Renee Jones, «il prototipodella condotta del consigliere è riconducibile al feno-meno sociale del conformismo, ovvero la disponibilitàa conformarsi ai desideri e alle opinioni di altri per evi-tare imbarazzo o disagio. Questa tendenza al conformi-smo perpetua svariati tratti indesiderabili degli ammi-nistratori, che rimangono impermeabili all’influenzaesterna in assenza di feedback o intervento da parte diterzi».23 Il dilemma che i consiglieri si trovano ad affron-tare sembra irrisolvibile; infatti, un consiglio troppocollegiale sarà probabilmente inefficace nel controllareil management, mentre un consiglio non sufficiente-mente collegiale sarà probabilmente improduttivo, poi-ché incapace di raggiungere il consenso necessario neitempi stretti richiesti ai consigli di amministrazione. Inaltre parole, alcune norme sociali largamente condivise,in genere estremamente importanti e costruttive nellamaggior parte dei contesti sociali e aziendali, rischianodi essere piuttosto inefficienti nel contesto di un consi-glio di amministrazione. Queste norme comprendonola collegialità appena discussa ma anche altre normefondamentali, quali la lealtà, la civiltà, la trasparenza eil rispetto dell’autorità.

Il conflitto tra l’attuazione di queste norme in sala diconsiglio e la figura dell’amministratore ideale, ovverocontrollore indipendente e obiettivo dell’alta dirigenza,è stato assolutamente sottostimato. È facile interpretareuna critica a un dirigente come un atto di slealtà; unadiscussione animata, che si conclude con il suggeri-mento di valutare la performance del top managementa porte chiuse, potrebbe sembrare poco civile e traspa-rente. Inoltre, negli Stati Uniti, dove nel 70 per cento

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2233.. Renee Jones, “Policing Corporate Boards: Behavior Analysis SuggestsEnforcement Mechanism Needed”, http://www.bc.edu/schools/law/alumni/ma-gazine/2005/winter/currents.html.

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delle società quotate in Borsa il presidente del consigliodi amministrazione coincide con il CEO della società,mettere in discussione i vertici aziendali può essereconsiderato un atto di insubordinazione.

Siccome i consigli di amministrazione funzionanosecondo dinamiche di gruppo, nel processo decisionalei consiglieri devono affrontare problemi di azione col-lettiva che rendono ancor più difficile per il singolocontestare il management o comunque agire in modoindipendente. Quando un CEO presenta una propostaa un gruppo di amministratori, il primo che sollevadomande o esprime il suo disaccordo corre il rischiomaggiore di essere etichettato come non collaborativo oanti-collegiale. Di conseguenza, anche se non è d’accor-do con il management, un amministratore tende a tace-re, nella speranza che un altro membro del consiglioparli per primo, alleviando così la pressione sugli altri.Il celebre finanziere Warren Buffett ha ben illustrato ilproblema in una lettera del 2002 agli azionisti della suasocietà, la Berkshire Hathaway. Si noti che Buffett uti-lizza l’espressione “atmosfera della sala di consiglio”riferendosi alle norme sociali che aleggiano nella salaove si tiene il consiglio di amministrazione. In linea conla nostra analisi, Buffett suggerisce che una persona dibuona educazione non si sognerebbe mai di infrangerequeste regole.

Come mai consiglieri intelligenti e discreti hanno falli-to così miseramente? La ragione non va ricercata nel-l’inadeguatezza legislativa – è sempre stato chiaro chegli amministratori hanno l’obbligo di rappresentaregli interessi degli azionisti – ma piuttosto in quella chedefinirei “l’atmosfera della sala di consiglio”. Peresempio, in una sala in cui si svolge una riunione trapersone ben educate è quasi impossibile sollevare undubbio sull’opportunità di sostituire il CEO. Analoga-mente, non sta bene mettere in dubbio una proposta diacquisizione caldeggiata dal CEO, specialmente se ilsuo staff interno e i consulenti esterni sono presenti esostengono unanimemente la sua decisione. (Nonsarebbero in sala se non la avallassero.) E quando, alla

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fine, il comitato per la retribuzione – forte del suppor-to di un consulente pagato profumatamente – propo-ne un’assegnazione molto generosa di opzioni al CEOun amministratore suggerisse al comitato di riconsi-derare la proposta, sarebbe come se sputasse nel piat-to in cui mangia.24

Ovviamente, è assolutamente noto che la mancanzadi obiettività mette a repentaglio l’efficacia degli ammi-nistratori come strumenti di corporate governance. Per-sino speciali gruppi di interesse aziendali, quali il Busi-ness Roundtable, si sono uniti alla SEC, alle Borse valo-ri e agli investitori istituzionali nel propugnare la figu-ra dell’amministratore indipendente come l’ideale a cuiambire: tipicamente, secondo un modello di consigliodi amministrazione, i membri dovrebbero «avere ungrado sostanziale di indipendenza dal management».25

Ma se da un lato si esortano i consigli di amministra-zione statunitensi a rendersi più indipendenti, dall’al-tro si pretende anche che interagiscano maggiormentecon il management, assumendo maggiori responsabili-tà decisionali all’interno della società.

Lo studio del fenomeno dell’asservimento suggeri-sce che questo obiettivo potrebbe essere molto difficileda raggiungere per un consiglio di amministrazione,perché il rischio di asservimento aumenta man manoche il consiglio si lega – e si allinea – ai dirigenti che inteoria deve controllare. Se la funzione principale delconsiglio di amministrazione rimane quella di sorve-gliare e guidare il management, le job descriptions degliamministratori si sono però allargate considerevolmen-te e sono molto meno generiche e vaghe di un tempo.Da quando è stata introdotta la Sarbanes-Oxley, gliamministratori devono riesaminare i rischi principaliinerenti alle attività della società, supervisionare lagestione di tali rischi da parte del management dellasocietà, nonché garantire l’adeguatezza dei piani di risk

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2244.. http://www.berkshirehathaway.com/letters/2002pdf.pdf.2255.. Tavola rotonda sui “Principles of Corporate Governance”, maggio

2002, http://www.businessroundtable.org/.

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management della società; inoltre, mansioni tradizionaliquali l’esame e l’approvazione di transazioni importan-ti sono diventate notevolmente più impegnative e com-plesse, poiché gli amministratori devono dimostrareche le verifiche sono state svolte secondo procedureadeguate.

Di pari passo all’aumento delle responsabilitàgestionali dei consigli di amministrazione è cresciutaanche la frequenza dell’interazione tra il consiglio e ilmanagement. In altre parole, ai consigli di amministra-zione si richiede non soltanto di far sempre più partedel processo decisionale e del processo di reportingfinanziario della società ma anche di fornire valutazio-ni più obiettive della qualità di tali decisioni e processi.Queste aspettative sono irrealistiche: non si può preten-dere da un consiglio di amministrazione che sia piùobiettivo nella valutazione dell’operato dei verticiaziendali e che al contempo si coinvolga maggiormen-te con la dirigenza nelle decisioni riguardanti le strate-gie aziendali e il reporting finanziario.

In sintesi, i pregiudizi cognitivi che inducono gliamministratori a identificarsi col management sonoamplificati proprio a causa delle maggiori aspettative alivello di gestione della società riversate su di essi invirtù delle moderne regole di corporate governance.Tutti gli amministratori delle moderne società ad azio-nariato diffuso sono tenuti a essere estremamente dili-genti e lavorare a stretto contatto con il managementdell’impresa; se svolgono il loro lavoro correttamente,devono avere contatti regolari, se non addirittura quasiquotidiani, con il management. In pratica, chiedendo aimembri di un consiglio di amministrazione di sorve-gliare i vertici aziendali si pretende che sorveglino sestessi, visto che gli amministratori sono profondamentecoinvolti in ambiti prettamente gestionali quali la for-mulazione di strategie e le decisioni importanti sull’o-rientamento della società.

In aggiunta a questi problemi di pregiudizio cogni-tivo, che portano all’asservimento del consiglio diamministrazione, emerge un’altra debolezza di un

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sistema di corporate governance che si affida in primisal consiglio di amministrazione come strumento percontrollare i dirigenti, ovvero il fatto che è praticamen-te impossibile identificare, e ancora più impossibilecontrollare e gestire, la miriade di modi in cui può esse-re compromessa l’indipendenza del consiglio. L’indi-pendenza di un amministratore può essere compro-messa tanto nei rapporti personali, che sono molto piùdifficili da controllare e valutare, quanto in un rapportoprofessionale. Nella pratica, spesso è proprio impossi-bile stabilire se un consiglio è indipendente: infatti èestremamente difficile, se non impossibile, distinguereuna società con un consiglio indipendente da una in cuil’intreccio di relazioni tra amministratori e managernonché tra gli amministratori stessi ha tolto al consiglioogni indipendenza rispetto al management. Questoaspetto è stato sottolineato con veemenza dall’ex com-missario della SEC Cynthia Glassman, secondo la quale«il rapporto personale con il CEO – vivere nella stessacomunità, avere i figli iscritti alla stessa scuola, fre-quentare lo stesso ambiente sociale – mina l’indipen-denza» tanto quanto i rapporti finanziari che un ammi-nistratore può avere con la società.26

La natura altamente soggettiva del concetto diamministratore indipendente dipende dal fatto che c’èuna miriade di modi in cui gli amministratori possonoessere asserviti al management. Nel concreto, questoproblema emerge negli sforzi degli enti regolatori tesi arendere i consigli di amministrazione più indipendenti.Per esempio, la Borsa di New York (New York StockExchange, NYSE) riconosce che è praticamente impos-sibile stilare dei criteri ufficiali per stabilire se un ammi-nistratore è indipendente oppure no. Il punto è che«non è possibile prevedere o regolare esplicitamentetutte le circostanze che potrebbero indicare potenziali

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2266.. Cynthia A. Glassman, ex commissario della SEC, “Remarks on Gover-nance Reforms and the Role of Directors”, discorso tenuto presso la NationalAssociation of Corporate Directors, 20 ottobre 2003, http://www.se-c.gov/news/speech/spch102003cag.htm.

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conflitti di interesse o aspetti di materialità nel rappor-to tra un amministratore e una società quotata».27 Diconseguenza, il NYSE prevede che l’indipendenza omeno di un amministratore venga stabilita non tanto inbase a criteri oggettivi ma anche in base al giudizio pro-fessionale degli altri membri del consiglio di ammini-strazione. Secondo il NYSE, un amministratore puòdirsi indipendente quando il consiglio di amministra-zione «afferma che l’amministratore non ha alcun rap-porto materiale con la società quotata (né direttamentené in qualità di socio, azionista o funzionario di un’or-ganizzazione che ha rapporti con la società)».28 Lanorma promulgata per gli amministratori delle societànegoziate over-the-counter è praticamente identica aquella del NYSE.

La regola NASD, che si applica alla corporate gover-nance di società le cui azioni sono negoziate nei merca-ti over-the-counter, prevede che sia il consiglio di ammi-nistrazione a dover stabilire se un particolare membrodel consiglio è indipendente, valutando se intrattengarapporti che «a parere del consiglio di amministrazionedella società, potrebbero pregiudicare la sua indipen-denza di giudizio nel far fronte alle sue responsabilitàcome amministratore».29

Tuttavia, nella prassi i tribunali non mostrano diavere molta fiducia nella capacità dei consigli di ammi-nistrazione di individuare gli inafferrabili conflitti diinteresse che gli amministratori si trovano ad affronta-re. Nel contesto dei processi decisionali societari, è pre-sumibile che si osserveranno due tipi di errori nellavalutazione dell’indipendenza del consiglio: oltreall’ovvio problema per cui un consiglio conflittuale oasservito sembrerà comunque indipendente, si pone ilproblema che un consiglio indipendente possa essereerroneamente considerato asservito.

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2277.. http://www.nyse.com/pdfs/finalcorpgovrules.pdf.2288.. http://www.nyse.com/pdfs/finalcorpgovrules.pdf.2299.. NASDAQ Rule 4200(a)(15), consultabile su http://nasdaq.complin-

et.com/nasdaq/display/display.html?rbid=1705&element_id=1479.

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Una recente controversia tra azionisti e Oracle Cor-poration offre un vivido esempio di quanto sia difficileregolamentare l’indipendenza degli amministratori. Lacausa Oracle iniziò quando un azionista citò in giudizioLarry Ellison (CEO), Jeffrey Henley (CFO), DonaldLucas e Michael Boskin (membri del consiglio di ammi-nistrazione) di Oracle, con l’accusa che i suddetti fun-zionari e amministratori avevano danneggiato la socie-tà con manovre di insider trading. La citazione vennepresentata nel Delaware, dove ha sede la Oracle, che,come tutti gli altri Stati della confederazione statuni-tense, considera le controversie di questo tipo (notecome derivative actions, azioni sociali di responsabilità)come un’azione della società che ha presumibilmentesubìto il danno invece che dell’azionista ricorrente. È lasocietà – o per meglio dire, il consiglio di amministra-zione della società – che ha il diritto di decidere se sianell’interesse della società portare avanti il procedi-mento.

La tipica derivative action vede come convenuti alcu-ni o anche tutti gli amministratori e nasce dalla presun-zione che la loro condotta scorretta o negligente abbiain qualche modo danneggiato la società (l’efficacia diquesto tipo di controversie come strumento di corpora-te governance è discussa al capitolo 10). Per gestire que-sto ovvio conflitto di interessi, dato dal fatto che sianogli amministratori a stabilire se sia vantaggioso per lasocietà procedere nella vertenza giudiziaria in cui essistessi sono convenuti, i giudici hanno sviluppato un’e-laborata procedura che permette alla società di rispon-dere alle azioni sociali di responsabilità. La proceduraprevede che il consiglio nomini un comitato specialeper le controversie (Special Litigation Committee, SLC)composto da amministratori indipendenti e lo incarichidi condurre un’indagine in buona fede sulle vicendecontestate e di presentare alla corte una raccomanda-zione affinché la vertenza venga archiviata. Ovviamen-te, in teoria il comitato speciale non è obbligato a chie-dere l’archiviazione e potrebbe in effetti anche racco-mandare che si permetta al ricorrente di proseguire l’a-

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zione legale. Tuttavia, nella pratica non accade quasimai: i comitati speciali sono allineati nel raccomandareche le derivative actions intentate da azionisti esternivengano archiviate. Quando il comitato speciale per lecontroversie chiede l’archiviazione del caso nello Statodel Delaware, la Corte di Cancelleria si riunisce a portechiuse per esaminare la raccomandazione. A questopunto, la Corte di Cancelleria decide a seconda di comevaluta l’indipendenza dei membri del comitato specia-le per le controversie: se stabilisce che il comitato non èsufficientemente indipendente dai dirigenti e dagliamministratori oggetto dell’indagine si rifiuterà diaccogliere la raccomandazione di archiviazione espres-sa dal comitato. Con una decisione che ha stupito tuttoil mondo imprenditoriale, un giudice della Corte diCancelleria del Delaware stabilì che il comitato specialeincaricato di indagare sul trading illecito di azioni Ora-cle da parte di dirigenti e amministratori non era suffi-cientemente indipendente. Per indagini nella vertenzagiudiziaria contro Ellison, Henley, Lucas e Boskin, Ora-cle aveva costituito un comitato speciale composto dadue professori di Stanford, Joseph Grundfest e HectorGarcia-Molina. I professori non erano implicati nellepresunte scorrettezze di trading, anzi, al momento deltrading non facevano nemmeno parte del consiglio diamministrazione, mentre, secondo criteri oggettivi, gliamministratori presenti nel comitato erano chiaramen-te indipendenti. Come sottolineato dalla corte, i profes-sori erano «illustri membri del consiglio di facoltà(Stanford) la cui posizione professionale non sarebbestata in alcun modo inficiata qualsiasi che fosse la deci-sione a cui fossero pervenuti in buona fede in qualità dimembri del comitato speciale». I membri del comitatospeciale non avevano alcun rapporto «economicamentesignificativo» con i convenuti ed erano dunque ingrado di giungere a una decisione senza subire pressio-ni. Perlomeno, così pensavano il comitato speciale e isuoi legali. Tuttavia, i membri del comitato avevano deicollegamenti con alcuni dei convenuti, per via di signi-ficativi legami con Stanford. I due professori di Stan-

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ford che componevano il comitato stavano infatti inda-gando su un altro professore di Stanford (Boskin), suuno dei principali donatori di Stanford (Lucas) e su ungrande donatore potenziale per Stanford (Ellison). Ilgiudice ritenne che la rete di connessioni con Stanfordfosse troppo fitta e dichiarò di voler valutare l’indipen-denza in modo molto più meticoloso rispetto ad altritribunali.

Il comitato speciale si focalizza sul linguaggio delleopinioni precedenti […] secondo le quali un ammini-stratore non è indipendente solo se è dominato e con-trollato da una parte interessata […]. Gran parte dellagiurisprudenza sull’indipendenza verte sull’esistenzadi rapporti economicamente significativi tra la partein causa e gli amministratori, che non sembrano ingrado di agire indipendentemente da quell’ammini-stratore. In altre parole, secondo l’opinione prevalentein giurisprudenza, la verifica di parzialità dipendedall’esistenza di legami materiali di natura economicatra la parte in causa e l’amministratore di cui si mettein discussione l’imparzialità, considerando l’eventua-le riverbero sul patrimonio personale un criterio fon-damentale per valutare l’indipendenza.

Secondo il Cancelliere, l’attenzione agli interessi e aiconflitti economici tra membri del comitato speciale

servirebbe solo a glorificare un linguaggio altisonante,con il rischio di defraudare la verifica di indipenden-za della sua integrità intellettuale […]. La legge delDelaware non dovrebbe basarsi su una visione restrit-tiva della natura umana, che semplifichi le motivazio-ni dell’uomo riconducendole alle nozioni più basilaridell’analisi economica del diritto. L’homo sapiens non èsoltanto un homo economicus. Dovremmo essere orgo-gliosi che il comportamento umano sia influenzato dauna serie di altre motivazioni, seppur non tuttemigliori dell’ingordigia o dell’avarizia. Si pensi all’in-vidia, giusto per citarne una, ma anche a motivazionicome l’amore, l’amicizia e la collegialità; si pensi aquelli di noi che orientano i propri comportamenti a

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dare il meglio di sé, seguendo un credo o un insiemedi valori morali. Tantomeno la legge dovrebbe ignorare la natura socia-le degli esseri umani. Per andare dritti al punto, ingenere gli amministratori di una società sono personemolto ben inserite nelle istituzioni sociali. Queste ulti-me sono caratterizzate da norme e aspettative cheinfluenzano e orientano, più o meno esplicitamente, ilcomportamento delle persone che contribuiscono allagestione. Vi sono cose che “semplicemente non sifanno”, o si fanno pagandone il prezzo, che seppurenon alto al punto da comportare la perdita della posi-zione potrebbe comunque pregiudicare la reputazionenell’ambito dell’istituzione. Nel tentativo di tenerequesto fattore nella dovuta considerazione, la leggenon può nemmeno dare per scontato – in assenza diprove – che i membri del consiglio di amministrazio-ne delle società siano in genere persone di insolitaaudacia sociale, incuranti delle inibizioni che le normesociali generano tra la gente normale.

In altre parole, la corte rilevò che le norme socialidegli amministratori presenti nel comitato speciale,insieme all’intreccio di relazioni tra i membri del comi-tato stesso e i convenuti, avevano reso il comitato spe-ciale incapace di valutare la condotta degli amministra-tori sotto inchiesta. Citando testualmente il giudice,

una persona nella posizione di Grundfest troverebbedifficile valutare la condotta di Boskin senza tenere inconsiderazione il proprio rapporto con Boskin e lereciproche affiliazioni. Anche se tali legami potrebbe-ro generare parzialità nel senso di produrre un giudi-zio più severo o più lasco, la conclusione logica esostanziale è che una persona nella posizione diGrundfest sarebbe comunque influenzata da tali rap-porti e si troverebbe a dover decidere se scatenareun’azione legale grave contro una persona con cuicondivide svariate relazioni (piuttosto imbarazzante)oppure no (e rischiare di essere accusato di favoriti-smo verso il suo ex professore e... collega).

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L’aspetto più interessante è che la corte riconosce dinon essere in grado di stabilire se le relazioni indivi-duate avrebbero condizionato il giudizio dei membridel comitato speciale in senso più severo o più lasco.

Più problematico è un altro aspetto: l’analisi dellacorte non ha praticamente limite, le norme sociali e lasensazione che “avrebbe potuto succedere a me”, chehanno condizionato il comitato speciale di Oracle,influenzeranno gli amministratori ogni volta chedovranno valutare alti dirigenti o colleghi, in qualsiasicontesto. Secondo l’osservazione pungente di un giorna-lista, «se è difficile per due professori di Stanford esami-nare un altro professore di Stanford quando a Stanford cisono più di 1700 professori, ci si può immaginare quan-to più difficile sia per due amministratori esaminarnealtri tre in un CdA composto da dieci persone? I legamisociali e istituzionali, per non parlare dei legami econo-mici, possono essere molto più forti tra amministratoriche non tra professori di una grande università».30

Attualmente, il codice di condotta di un consiglio diamministrazione si basa interamente sulla concezioneche il consiglio è un organo in cui le decisioni sonoprese collegialmente. Naturalmente, ci si può dilettare aimmaginare di sostituire tali norme comportamentali,attualmente caratterizzate da un elevato grado di colle-gialità, con un modello avversariale, ma vista la natu-ra umana, non è plausibile che un amministratore possacomportarsi allo stesso tempo in modo collegiale eavversariale, né che riesca ad alternare tranquillamentequesti due modelli comportamentali nella propria inte-razione con il management. Una simile eventualità pre-supporrebbe ipotesi irrealistiche sul comportamentoumano.

I consigli di amministrazione seguono raramente ilmodello avversariale, ma altri meccanismi e strumentidi corporate governance sì. La corporate governanceavversariale a volte funziona e a volta no: non per nien-

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3300.. Mike O’Sullivan, “Can Any Special Litigation Committee Satisfy Stri-ne?”, 20 luglio 2003, http://www.corplawblog.com/archives/000161.html.

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te, nelle scalate ostili, gli offerenti esterni vengono defi-niti “ostili”. E pochi meccanismi di corporate gover-nance sono efficaci quanto il mercato del controllosocietario.

Un altro meccanismo avversariale di corporategovernance è il sistema basato sulla vertenza giudizia-ria, che nasce dall’approccio avversariale per cui la con-trapposizione di interessi fermamente opposti dinanzia un arbitro imparziale produce un esito giusto. Il pano-rama della corporate governance non prevede però ilruolo di giudice indipendente e imparziale in grado dirisolvere i contenziosi e quindi rimane dubbia l’appli-cabilità del modello avversariale, a meno di non volerchiedere agli amministratori di agire al tempo stesso dasostenitori, oppositori e anche giudici del comporta-mento manageriale.

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Ci siamo portati su un livello più astratto per esami-nare il quesito fondamentale se il consiglio di ammini-strazione possa essere considerato un meccanismo effi-cace di corporate governance o se la validità ne risultiinficiata dal problema dell’asservimento. In sintesi, leargomentazioni vertono su quattro aspetti:

(a) l’esistenza di pregiudizi cognitivi e asimmetrieinformative, che favoriscono l’assoggettamentodel consiglio da parte del management e limitanoil raggio d’azione e l’efficacia dei consigli diamministrazione nel sorvegliare e controllare lacondotta della dirigenza;

(b) l’incapacità degli investitori esterni di distingue-re quando un consiglio di amministrazione èobiettivo e quando invece è asservito;

(c) la natura e i limiti del modello collegiale che defi-nisce l’ambito di accettabilità della condotta delconsiglio di amministrazione;

(d)la predominanza di un modello collegiale di con-dotta all’interno del consiglio di amministrazio-ne, che sembra tagliar fuori l’alternativa delmodello avversariale, sebbene le prevalentinorme di collegialità compromettano la capacitàdi un consiglio di amministrazione di controlla-re efficacemente le patologie dei vertici aziendali.

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Capitolo 5

Il consiglio di amministrazione e la corporate governance: alcuni case study

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Questi aspetti sono approfonditi nei paragrafiseguenti, che presentano esempi concreti di come ilconsiglio di amministrazione di alcune società si è com-portato in crisi reali o presunte di corporate governan-ce. Tali esempi, strutturati in quattro case study, avalla-no la teoria dell’asservimento del consiglio di ammini-strazione esposta in questo libro. I casi riguardanoimportanti società ad azionariato diffuso, le cui azionisono negoziate sul listino NYSE, con un CEO di indub-bia capacità e amministratori con carriere illustrissime,appartenenti al gotha delle società d’America. Duedelle crisi di corporate governance descritte, quelle diTransUnion e Disney, sono state scatenate non tanto dauna frode quanto invece da grossolani errori decisiona-li della dirigenza e dall’inadeguato funzionamento delconsiglio di amministrazione, mentre negli altri duecasi esaminati, Equity Funding ed Enron, lo scompensodi corporate governance ha dato luogo a due dei piùscellerati scandali societari della storia moderna, por-tando le società alla dichiarazione d’insolvenza.

Nel caso Smith v. Van Gorkom, la decisione degliamministratori di vendere TransUnion è sfociata in unasentenza storica della Corte Suprema del Delaware.Questo caso costituisce un esempio tipico di asservi-mento del consiglio di amministrazione da parte delCEO. Nel caso Walt Disney, il tacito assenso degliamministratori all’assunzione di Michael Ovitz su ordi-ne del suo migliore amico, il CEO di Disney MichaelEisner, ripropone lo stesso tema dell’asservimento delconsiglio già accennato in relazione al caso Van Gor-kom.

Ben oltre l’errore decisionale è andato l’assoggetta-mento degli amministratori nei casi Enron ed EquityFunding, dove si è verificata una vera e propria frode.In queste società, il consiglio di amministrazione haavuto fiducia nel management fino alla fine, gli ammi-nistratori esterni erano indipendenti e validi, eppure,come esporrà l’analisi che segue, non sono stati ingrado di cogliere problemi di governance all’internodelle rispettive società: non hanno partecipato alle frodi

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esterne, non hanno beneficiato personalmente delleazioni perpetrate dal management nel proprio interes-se, ma non hanno fatto alcunché per fermarle. Nel com-plesso, questi casi dimostrano che l’assunzione diamministratori competenti e indipendenti potrebberivelarsi una buona scelta in termini di corporate gover-nance, poiché contribuiscono a migliorare il processodecisionale del management, ma è improbabile cheriescano a offrire valore agli azionisti nella loro funzio-ne di controllo indipendente.

Tendenzialmente, questi casi dimostrano che più gliamministratori sono coinvolti con il management quan-do si tratta di prendere decisioni strategiche, più è pro-babile che si convincano fermamente della correttezzadelle proprie decisioni, e quindi di quelle del manage-ment. È il radicamento di questa convinzione di infalli-bilità del management che definisco “asservimento”.

L’inclinazione degli amministratori a farsi coinvol-gere e assoggettare dai manager che apparentementecontrollano non è una questione a cui si possa rimedia-re con facilità e senza costi, per due motivi. In primoluogo, l’assoggettamento è in parte favorito dal fattoche gli amministratori sono profondamente coinvoltinel processo decisionale dei vertici aziendali; tuttavia,soprattutto se sono a loro volta dirigenti di grandetalento e lunga esperienza, vi è un notevole vantaggionel coinvolgere gli amministratori nel processo decisio-nale al vertice esecutivo, perché produce decisionimigliori. In secondo luogo, gli amministratori sono ine-vitabilmente coinvolti nella selezione, conferma, pro-mozione e retribuzione del management: di conseguen-za, è più difficile per gli amministratori criticare ilmanagement poiché qualsiasi critica che i membri di unCdA possano esprimere sul management si riverberanegativamente proprio sugli amministratori che laesprimono. Se da un lato la capacità di esprimereun’autovalutazione obiettiva è una lodevole caratteri-stica della personalità, dall’altro essa è però rara e diffi-cile da individuare con affidabilità. Pertanto, non è suquesta qualità che gli investitori dovrebbero puntare

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nell’ambito della definizione di un sistema di corporategovernance.

L’implicazione di questa analisi – e dei case studyillustrati qui di seguito – è che il consiglio di ammini-strazione non è uno strumento affidabile di corporategovernance; non è detto che fallisca necessariamentenell’obiettivo di controllare il management con obietti-vità, tuttavia non è lecito aspettarsi un esito semprepositivo.

I case study che seguono dimostrano che la respon-sabilità di controllare il management è una sorta ditrappola di corporate governance: si chiede al consigliodi amministrazione di avere fiducia nel management eal contempo di agire come se non avesse fiducia nellostesso. Un elemento è comune a tutti i casi: consigli diamministrazione che, sulla carta, sembravano non sol-tanto altamente qualificati ma anche professionali eindipendenti dal management si sono dimostrati chia-ramente asserviti al CEO e ai top manager delle rispet-tive società.

L’esposizione dei casi serve al duplice scopo di illu-strare la natura, la portata e l’apparente inevitabilitàdell’asservimento del consiglio di amministrazione maanche e soprattutto di dimostrare che l’assunzione diun consiglio di amministratori indipendenti non costi-tuisce di per sé garanzia di indipendenza. La notevoleinclinazione degli amministratori a farsi coinvolgeredal management indica che un amministratore indi-pendente al momento dell’assunzione potrebbe nonessere più indipendente un anno dopo l’assunzione,dopo aver partecipato attivamente, insieme ai verticiaziendali, alla gestione e pianificazione strategica dellasocietà.

L’analisi implica inoltre che, nella misura in cui gliamministratori sono percepiti come una minaccia daivertici aziendali, questi ultimi potrebbero essere rilut-tanti a collaborare e a fornire le informazioni necessarieai fini decisionali, soprattutto se possono far nascere ilsospetto che i manager in carica non hanno lavoratobene. In tal caso, i costi dell’indipendenza, nel senso di

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un minor contributo manageriale da parte degli ammi-nistratori, potrebbero rivelarsi più elevati dei vantaggi,da intendersi come un miglior controllo.

L’errata percezione del valore di un consiglio diamministrazione indipendente può costare molto. Lanostra analisi suggerisce che il prestigio e l’autorità diun consiglio di amministrazione illustre composto dafigure indipendenti, come nel caso del CdA di Enron,potrebbe effettivamente stimolare i manager a correremaggiori rischi e adottare pratiche contabili più aggres-sive di quanto non avrebbero osato fare in caso contra-rio. Inoltre, la débacle di Enron mostra che se i poten-ziali controlli esterni, quali le agenzie di rating del cre-dito, gli analisti del mercato azionario, gli hedge fund egli enti di regolamentazione, riducono con ogni proba-bilità la propria attività di controllo se percepiscono cheuna società è ben governata da un consiglio di ammini-strazione indipendente. E la riduzione delle attività disorveglianza da parte di altre entità di corporate gover-nance è assolutamente prevedibile, visto che il control-lo esterno è una risorsa dispendiosa e scarsa che deveessere messa in campo in modo rigoroso ed efficace.

La percezione che gli amministratori esterni sianoefficaci potrebbe erroneamente indurre ad abbassare illivello di attenzione dall’esterno. Una visione più reali-stica dell’efficacia degli amministratori esterni nellaloro funzione di controllo permetterebbe un’allocazio-ne più efficiente delle risorse dedicate.

Smith v. Van GorkomLa sentenza della Corte Suprema del Delaware nel

caso Smith v. Van Gorkom è con ogni probabilità la piùdibattuta nella storia del diritto societario. Le critichefurono letteralmente contemporanee alla pubblicazio-ne: i due giudici dissenzienti (due voti contrari rispettoai tre voti favorevoli, cioè la minoranza) della CorteSuprema del Delaware descrissero l’analisi della mag-gioranza una «commedia degli errori».1 Accademici,

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11.. Van Gorkom 488 A.2d 894.

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giornalisti e altri commentatori predissero infauste con-seguenze per il Delaware e definirono la sentenza «sor-prendente», «atroce»2 e «certamente una delle peggiorisentenze nella storia del diritto societario».3

Smith v. Van Gorkom rappresenta un esempio, ormaiscellerato, del pregiudizio psicologico a cui sono sogget-ti gli amministratori: l’intero consiglio di amministra-zione di TransUnion fu ritenuto personalmente respon-sabile per non aver adottato procedure adeguate nelladisamina (e approvazione) di un’offerta di acquisto sfa-vorevole agli azionisti.4 Infine, la sentenza Smith v. VanGorkom ha rivoluzionato il processo deliberativo nelleriunioni dei consigli di amministrazione delle società.

In sintesi, ecco la fattispecie: Jerome Van Gorkom,membro del consiglio di amministrazione e CEO diTransUnion, raccomandò al CdA l’approvazione diun’offerta di acquisto per la società da parte del Pritz-ker Group. Sebbene molti amministratori sospettasseroche Jerome Van Gorkom, in vista del pensionamento,avesse architettato l’accordo di acquisizione per tutela-re i propri interessi piuttosto che quelli degli azionisti,il consiglio approvò la transazione dopo riflessione oanalisi apparentemente sommarie.5

La cessione della società al Pritzker Group avrebbeindubbiamente giovato al CEO, che in prossimità dellapensione avrebbe potuto così liquidare le proprie azio-ni nella società appena prima di ritirarsi dalla scena.Tuttavia, un nutrito gruppo di azionisti si oppose fer-

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22.. Bayless Manning, “Reflections and Practical Tips on Life in the Boar-droom after Van Gorkom”, Business Lawyer, 41, 1985, p. 1.

33.. Daniel R. Fischel, “The Business Judgment Rule and the TransUnionCase”, p. 1455.

44.. Vedi, in generale, Jonathan R. Macey, “Smith v. Van Gorkom Insightsabout C.E.O.s, Corporate Law Rules, and the Jurisdictional Competition forCorporate Charters”, Northwestern University Law Review, 96, 2002, p. 607,in cui si sottolinea che, anche se la sentenza Van Gorkom «ha decisamentemigliorato la qualità delle delibere all’interno dei consigli di amministrazione,l’addebito di responsabilità ai convenuti è stata, comunque, ingiusta».

55.. Jonathan R. Macey, “Smith v. Van Gorkom Insights about C.E.O.s, Cor-porate Law Rules, and the Jurisdictional Competition for Corporate Char-ters”, pp. 609-610.

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mamente, soprattutto per i nefasti effetti fiscali dellatransazione. Negli anni precedenti all’offerta Pritzker,TransUnion aveva rilevato una serie di società in regi-me di esenzione fiscale grazie al fatto che le azioni diTransUnion venivano offerte in cambio delle azioninelle società acquisite. Nel decennio precedente allacessione di TransUnion al Pritzker Group, TransUnionaveva portato a termine ben 42 transazioni esentasse,per un valore oscillante tra i 36.000 e i 24 milioni di dol-lari, equivalente a oltre un terzo dei 12,5 milioni di azio-ni TransUnion in circolazione (circa 4,3 milioni di azio-ni). Al momento della conversione delle loro azioni indenaro contante all’atto dell’incorporazione di Trans-Union nel Pritzker Group, i detentori dei 4,3 milioni diazioni avrebbero registrato ingenti e inevitabili utilisoggetti a imposta; secondo l’opinione di un osservato-re, questi azionisti, «potendo scegliere, avrebbero pro-crastinato il più possibile il momento in cui saldare iconti con il fisco. Avrebbero preferito vedere Trans-Union acquisita nell’ambito di una transazione comequelle in cui, a suo tempo, erano state acquisite le lorosocietà di origine, cioè nell’ambito di una riorganizza-zione non soggetta a imposta, in cui le azioni dellasocietà incorporante venissero distribuite in cambiodi… azioni TransUnion».6

Tuttavia, gli amministratori di TransUnion non ten-nero in considerazione gli interessi di questi azionisti:nonostante fossero stati eletti dagli azionisti e in teoriafossero tenuti a rappresentarli, la loro lealtà sembravain realtà rivolta a Van Gorkom, il CEO, con cui condivi-devano la responsabilità manageriale.

La controversa transazione fu concordata nell’am-bito di colloqui tra Jerome Van Gorkom e il finanzieredi Chicago Jay Pritzker, che accettò di versare 55 dol-lari per azione per l’incorporazione di TransUnion inuna società controllata da Pritzker Group. Il prezzo di55 dollari offerto da Pritzker aveva una condizione

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66.. William M. Owen, “A Shareholder Named Smith”, Directors and Boards,primavera 2000, p. 39.

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capestro: l’accettazione da parte di TransUnion entrotre giorni.

Il fatto che Van Gorkom avesse acconsentito a un ter-mine così breve senza consultare il consiglio è forte-mente indicativo di quanto lui stesso lo considerasseassoggettato: era sicuro che il CdA avrebbe fatto quelloche lui voleva, cioè che avrebbe approvato la cessionedi TransUnion a Pritzker. La fiducia di Van Gorkomnasceva dai suoi stretti rapporti con il consiglio diamministrazione e dal fatto che il prezzo offerto di 55dollari rappresentava un premio sostanzioso per lasocietà, le cui azioni erano state scambiate a prezzi tra i24,25 e i 39,50 dollari nel quinquennio precedente.

Van Gorkom e Pritzker conclusero l’accordo giovedì18 settembre 1980. Van Gorkom indisse una riunionespeciale del consiglio di TransUnion per sabato 20 set-tembre ma non rivelò ai colleghi amministratori il moti-vo della riunione; i colleghi del top management azien-dale vennero a conoscenza della proposta di acquistosolo un’ora prima della riunione del CdA. La cronolo-gia comprova ulteriormente la teoria che Van Gorkomsapeva di avere le spalle coperte da un consiglio assog-gettato.

La riunione del consiglio di amministrazione in cuiVan Gorkom presentò i termini della proposta diacquisto durò solo due ore. La riunione iniziò con unapresentazione di 20 minuti per illustrare le condizionidell’accordo; tra le altre, TransUnion aveva il diritto diprendere in considerazione, ma non di sollecitare,altre offerte, per un periodo di 90 giorni. Basandosi suquesta condizione della proposta, Van Gorkom disseche sarebbe stato il libero mercato a giudicare se lasocietà dovesse essere venduta per i 55 milioni di dol-lari offerti e suggerì che il consiglio desse agli azioni-sti di TransUnion l’opportunità di accettare o rifiutarel’offerta.

Gli amministratori approvarono la transazione acco-gliendo la raccomandazione di Van Gorkom, in basealla loro conoscenza ed esperienza nella società. L’ac-cordo di fusione fu sottoscritto da Van Gorkom duran-

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te uno spettacolo della Chicago Light Opera, la serastessa; nessuno degli amministratori lo aveva lettoprima della firma. Il 10 febbraio 1981 il consiglio diamministrazione approvò la proposta di transazione amaggioranza schiacciante.

A seguito della decisione di approvare la fusioneTransUnion-Pritzker, numerosi azionisti, tra cui il famo-so legale Alden B. Smith, presentarono ricorso contro gliamministratori di TransUnion ipotizzando che la lorodecisione presentasse forti tratti di negligenza e rappre-sentasse una violazione della business judgment rule. Gliamministratori convenuti affermarono che la carenza dideliberazione era compensata dalla competenza, «espe-rienza collettiva e scrupolosità» degli amministratoriesterni della società, ovvero quattro CEO di importantisocietà (che, come rilevato dalla corte, apportavano «78anni di esperienza cumulativa come CEO di società diprim’ordine»)7 e un economista ex preside della Busi-ness School dell’Università di Chicago e presidente ono-rario della stessa università.

Ciononostante, la corte rigettò le tesi difensive degliamministratori, giudicando la loro esperienza irrilevan-te a causa del loro evidente asservimento. Secondo lacorte, il consiglio si era fidato troppo di Van Gorkom,come anche del premio di mercato e della sua ambiguaaffermazione per cui il prezzo sarebbe stato valutatodal mercato. Analogamente, la corte ritenne nullo ilvoto degli azionisti per ratificare l’operazione percarenza di informazioni: in particolare, mancava qual-siasi cenno alla «mancata valutazione del premio offer-to [da parte del consiglio] mediante affermate tecnichedi valutazione alternative, al punto da mettere in dis-cussione la determinazione di sostanziosità del premiorispetto a una quotazione azionaria dichiaratamentedepressa».8

Indubbiamente, «secondo i parametri odierni le pro-cedure adottate dal consiglio paiono tristemente inade-

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77.. Van Gorkom, 488 A.2d 880, nota 21.88.. Van Gorkom, 488 A.2d 891.

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guate».9 In effetti, il CdA di TransUnion «non lesse ilcontratto di fusione, né tantomeno ne discusse e delibe-rò i dettagli»:10 si potrebbe affermare che ha dimostrato«una mal riposta fiducia nella capacità di giudizio enegoziazione di Van Gorkom» e non ha sufficientemen-te controllato il processo decisionale del management.11

Inoltre, il consiglio ha fallito nel senso che «non ha ade-guatamente sorvegliato le trattative tra Van Gorkom el’acquirente».12

È significativo che nel caso in specie la decisione delconsiglio di amministrazione non sia stata contaminatada interesse personale o conflitto di interesse; inoltre, ilconsiglio non è stato reputato inetto, indolente o corrot-to;13 il problema non era tanto la corruzione quanto l’as-servimento. Il CdA di TransUnion sarà anche stato effi-cace nel contribuire alla gestione della società, ma si èrivelato inefficace nella sua funzione di vigilanza: gliamministratori non hanno esercitato alcun controllo opressione sul management. Il comportamento del con-siglio di amministrazione di TransUnion dimostra che icontrolli interni sono esposti al rischio di pregiudizio eche ai consigli di amministrazione, in particolare, acca-de che diventino troppo dipendenti e assoggettati algiudizio del management dell’impresa che teoricamen-te dovrebbero controllare.

Ovviamente, nel caso Van Gorkom la corte ritenneche alla TransUnion ci fosse un grave problema di cor-porate governance ed è per questo che l’intero consiglio

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99.. Jonathan R. Macey, “Smith v. Van Gorkom Insights about C.E.O.s, Cor-porate Law Rules, and the Jurisdictional Competition for Corporate Char-ters”, p. 607.

1100.. Jonathan R. Macey, “Smith v. Van Gorkom Insights about C.E.O.s, Cor-porate Law Rules, and the Jurisdictional Competition for Corporate Char-ters”, p. 607.

1111. Jonathan R. Macey, “Smith v. Van Gorkom Insights about C.E.O.s, Cor-porate Law Rules, and the Jurisdictional Competition for Corporate Char-ters”, p. 609.

1122.. Jonathan R. Macey, “Smith v. Van Gorkom Insights about C.E.O.s, Cor-porate Law Rules, and the Jurisdictional Competition for Corporate Char-ters”, p. 610.

1133.. Van Gorkom, 488 A.2d 889.

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di amministrazione (tranne un amministratore che,assente per malattia, non aveva partecipato alla deci-sione cruciale) fu ritenuto negligente nell’approvare lacessione dell’azienda. Purtroppo, poiché la corte mancòdi percepire il problema dell’asservimento o dell’in-compatibilità tra il consigliere con funzione di controlloe il consigliere con funzione di gestione, la proposta chefece per risolvere i problemi di corporate governancealla TransUnion non fu affatto costruttiva.

La corte non basò la propria decisione sul fatto che ilconsiglio di amministrazione era asservito ma sul fattoche era male informato; non percepì – o non avrebbecomunque percepito – che il motivo per cui il consiglionon si era informato come avrebbe dovuto era che essoera asservito al management a un livello tale da nonritenere di aver bisogno di ricorrere a una fonte di infor-mazioni indipendente. Secondo quanto affermato in unarticolo pubblicato dalla rivista finanziaria Barron’spoco dopo la sentenza, nel 1985, gli amministratori diTransUnion votarono la proposta di acquisizione per-ché il CEO «annunciò con convinzione che l’acquisizio-ne proposta era un buon affare».14 In ultima analisi, lacorte ha sentenziato che gli amministratori sono negli-genti se approvano una transazione solo perché la pro-pone il CEO.15

Il problema è che la sentenza della corte del Dela-ware nel caso Smith v. Van Gorkom accredita l’ipotesi percui la questione dell’asservimento del consiglio diamministrazione, fondamentale nell’ambito della cor-porate governance, possa essere risolta in qualchemodo richiedendo agli amministratori di deliberare dipiù quando prendono una decisione, mentre in realtà lamancanza di deliberazione nel caso del consiglio diTransUnion era solo un sintomo di un disturbo più dif-fuso: l’assoggettamento del consiglio da parte delmanagement. La corte ha confuso questo sintomo con

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1144.. Richard Leisner, “Boardroom Jitters: A Landmark Court DecisionUpsets Corporate Directors”, Barron’s, 22 aprile 1985, p. 34.

1155.. Van Gorkom, 488 A.2d 858.

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l’effettiva patologia e così facendo ha inevitabilmenteprescritto un trattamento inefficace, richiedendo ulte-riore deliberazione e una maggior strutturazione delprocesso decisionale del consiglio nel caso di decisioniimportanti, soprattutto quando comportano cambia-menti nel controllo societario. Il trattamento non haprodotto i risultati sperati perché è diretto al sintomo,cioè alla mancanza di un processo all’interno del consi-glio, piuttosto che alla patologia, ossia l’assoggettamen-to da parte dei vertici aziendali di un consiglio diamministrazione apparentemente professionale e indi-pendente.

DisneyLa storica sentenza della Corte Suprema del Dela-

ware nella causa Smith v. Van Gorkom, del 1985, fuseguita da una lunga serie di vertenze giudiziarie aopera di legali di parte civile specializzati in class actioncontro il consiglio di amministrazione della Walt Dis-ney Company. Il caso Disney è significativo perché offreun quadro straordinariamente esaustivo della naturadei rapporti e dell’interazione tra il consiglio di ammi-nistrazione e il management; anche i fatti verificatisi nelcorso della battaglia giudiziaria dimostrano quanto ilfenomeno dell’asservimento del consiglio sia radicato.Infine, il caso è importante perché indica molto chiara-mente fino a che punto il diritto societario è utile a pro-muovere una corporate governance efficace.

Il caso Disney ebbe origine dalla decisione unilate-rale, presa nel 1995 dal CEO della Disney, MichaelEisner, di assumere il suo amico d’infanzia MichaelOvitz come presidente della società. Eisner assunseOvitz per sostituire l’ex presidente e CEO Frank Wells,personaggio illustre e di gran successo morto tragica-mente in un incidente d’elicottero nell’aprile 1994.Eisner portò Ovitz in Disney di sua iniziativa strappan-dolo alla sua posizione di presidente e socio fondatoredella Creative Artist Agency (CAA), da tempo la piùcelebre agenzia artistica degli Stati Uniti. In una signifi-cativa inversione di ruoli, Irwin Russell, amministrato-

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re della Disney e presidente del comitato preposto allaretribuzione nell’ambito del CdA, «assunse il ruoloprincipale nella negoziazione dei termini finanziari delcontratto» tra Disney e Ovitz, secondo le direttive diEisner.16

L’esito della trattativa fu che Ovitz entrò alla Disneycon uno dei contratti di assunzione più esorbitantinella storia delle società statunitensi: avrebbe ricevutouno stipendio di 1 milione di dollari l’anno (la più ele-vata remunerazione fissa che una società può pagare ededurre in sede di dichiarazione dei redditi) e un con-tratto quinquennale ricchissimo di stock options e premiproduttività.17 Il versamento di premi, caratterizzatidai convenuti nella causa come discrezionali, non eraprevisto dal contratto, ma Irwin Russell inviò ugual-mente a Ovitz un memorandum scritto in cui lo infor-mava che il suo premio annuo sarebbe ammontato acirca 7,5 milioni di dollari. Il contratto aveva due tran-che di opzioni. La prima consisteva in opzioni per l’ac-quisto di tre milioni di quote del capitale azionario Dis-ney con scadenza al terzo, quarto e quinto anno delcontratto di lavoro di Ovitz presso la Disney. Questatranche valeva almeno 50 milioni di dollari, comedimostrato dal fatto che il contratto di assunzioneobbligava la Disney a farsi carico della differenza nelcaso in cui il valore delle opzioni non si fosse apprez-zato fino ai 50 milioni di dollari entro la fine dei cinqueanni. Pertanto, è difficile e potenzialmente ingannevo-le definire tali opzioni un incentivo o un accordo retri-butivo in base alla produttività. La seconda trancheconsisteva di due milioni di opzioni con scadenzaimmediata se Disney e Ovitz avessero deciso di rinno-vare il contratto. È importante evidenziare che, percontratto, se Ovitz fosse stato licenziato dalla Disneyper ragioni diverse da grave negligenza o atto illecito,avrebbe avuto diritto a quello che nel contratto di assun-

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1166.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 693,702, 2005.

1177.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 702.

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zione veniva definita una buonuscita per risoluzione“senza colpa”, comprendente lo stipendio residuo finoalla scadenza del contratto, 7,5 milioni annui per even-tuali premi produttività non maturati, l’immediata sca-denza di tutte le opzioni previste per contratto nellaprima tranche nonché un versamento aggiuntivo in con-tanti di 10 milioni di dollari per il valore della secondatranche di opzioni. Subito dopo aver concordato le con-dizioni del contratto, il comitato per la retribuzionepassò a illustrare i numerosi altri argomenti che eranostati messi all’ordine del giorno nella stessa riunione incui doveva essere discusso il contratto di Ovitz. È inte-ressante notare che l’ordine del giorno della stessariunione comprendeva anche la remunerazione di IrwinRussell, presidente del comitato per la retribuzione, peraver negoziato l’operazione Ovitz, oltre che pacchettiretributivi e concessioni di stock options per oltre un cen-tinaio di altri dipendenti della Disney. Nonostante l’ele-vato numero di punti all’ordine del giorno, il comitatoper la retribuzione riuscì a portare a termine il propriocompito in un’ora appena. Il comitato non si preoccupònemmeno di acquisire una copia effettiva del contrattotra Disney e Ovitz, accontentandosi di un foglio elettro-nico con una sintesi delle condizioni.

Nella prima settimana di lavoro di Ovitz, nell’ottobre2005, Eisner lodò la sua performance. Disse a Ovitz chela loro era una «collaborazione nata nel paradiso dellesocietà».18 Eisner si esaltava dicendo che «l’istinto diOvitz ha avuto ragione a venire alla Walt Disney Com-pany e il mio ha avuto ragione a proporlo».19 Ma que-st’atmosfera auto-celebrativa non durò a lungo.

La lotta intestina ebbe inizio meno di un mese dopo.Il legale interno e il direttore finanziario della Disneyavevano difficoltà a integrare Ovitz nell’ambiente Dis-ney. Nel 1996 era chiaro che Ovitz, per dirla con la corte,

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1188.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 712,nota 105.

1199.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 712,nota 105.

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«non era riuscito a integrarsi nel gruppo» Disney,20

avendo commesso errori quali rifiutarsi di parteciparead attività di gruppo e arrivare agli eventi societari inlussuose limousine quando gli altri dirigenti Disneygiungevano in pullman. Alla fine del 1996 Eisner deci-se che Ovitz avrebbe dovuto andarsene.

Purtroppo per Disney, in base al contratto retributi-vo stipulato con Ovitz, il licenziamento senza giustacausa sarebbe stato estremamente costoso per la socie-tà, poiché avrebbe dato luogo alla clausola di risoluzio-ne senza colpa, in base alla quale la Disney avrebbedovuto pagare immediatamente a Ovitz 39 milioni didollari e assegnargli stock options del valore di oltre 101milioni di dollari per soli quattordici mesi di lavoro.

All’esame dei fatti, il professor Steve Bainbridge,esperto in corporate governance, concluse che Eisner«aveva stipulato condizioni molto lucrative per il suoamico Ovitz, sia in entrata sia in uscita, inducendo ripe-tutamente all’approvazione un consiglio compiacente econdiscendente. Ne emerge una sequela di favoritismie accordi presi dietro le quinte, in cui mantenere la fac-ciata era prioritario rispetto agli interessi della socie-tà».21 Secondo la definizione del tribunale, in Disney lacorporate governance aveva permesso che Eisner «siincoronasse monarca onnipotente e infallibile del suoregno magico» per insediare il suo buon amico MichaelOvitz alla presidenza.22

Le analogie tra il caso Disney e il caso TransUnion(ovvero Smith v. Van Gorkom) sono lampanti. In superfi-cie, è ovvio che entrambi i casi vedono CEO imperiali-sti dominare amministratori apparentemente indipen-denti ma chiaramente assoggettati inducendoli a ratifi-care frettolosamente decisioni altrettanto frettolosa-mente già prese dai CEO. Aldilà di queste prime analo-gie ve n’è un’altra: ironicamente, nonostante l’assoluta

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2200.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 712.2211.. Stephen Bainbridge, 28 settembre 2004, http://www.professorbainbrid-

ge.com/2004/09/disney_ovitzs_c.html.2222.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 763.

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mancanza di processo nelle due decisioni, sia la cessio-ne di TransUnion sia l’assunzione di Ovitz sembravanouna buona opportunità per gli azionisti in una prospet-tiva economica ex ante. TransUnion veniva venduta perun prezzo azionario da record, che rappresentava unpremio smisurato per gli azionisti rispetto al prezzo dimercato registrato negli anni precedenti dalle azionidella società. Analogamente, subito dopo l’annuncio daparte della Disney dell’assunzione di Michael Ovitz,alcuni studi focalizzati sull’evento dimostrarono che ilvalore di mercato del capitale azionario Disney crebbedi oltre 1 milione di dollari in un solo giorno.23 Quindi,nel caso Disney, nonostante la mancata deliberazionedel consiglio, nonostante il consiglio fosse dominatodal CEO, nella persona di Michael Eisner, e nonostantelo smodato pacchetto retributivo e l’altrettanto eccessi-va buonuscita di Ovitz, si era ritenuto che la prospetti-va di attirare nel consiglio di amministrazione dellaDisney quello che il mercato reputava un dirigente digran talento assolutamente necessario per l’aziendaavrebbe offerto un valore significativo agli azionisti.Uno degli aspetti più deprimenti del caso Disney sicela nella nota 373 della sentenza del tribunale, chedescrive «il contrasto tra le prassi ideali di corporategovernance e la cultura corrotta all’interno del consi-glio Disney»;24 un testimone «riferisce che amministra-tori ornamentali e passivi alimentano tendenze adula-torie in seno al consiglio e il CEO con l’atteggiamentoda imperatore riesce a sfruttare questa condizione peril proprio beneficio personale, specialmente nell’ambi-to della retribuzione alla dirigenza e delle indennità difine rapporto».25

Nonostante il consiglio di amministrazione dellaDisney abbia assolutamente omesso di porre un freno

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2233.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 743,nota 386.

2244.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 741,nota 373.

2255.. In re The Walt Disney Company Derivative Litigation, 907 A.2d 741,nota 373.

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al CEO, i giudici del Delaware (sia in primo grado sia inappello) non ebbero alcuna difficoltà a confermare cheil consiglio di amministrazione aveva agito nel pienorispetto dei doveri fiduciari nel processo di assunzionee licenziamento di Ovitz. L’8 giugno 2006, dopo diecianni di vertenze giudiziarie, la Corte Suprema del Dela-ware respinse i ricorsi dei legali di parte civile nellaclass action secondo i quali gli amministratori della WaltDisney Company avevano violato i loro doveri fiducia-ri rimandando alla norma sedimentata per cui i membridel consiglio di amministrazione sono immuni da azio-ni di responsabilità per la maggior parte delle decisioni,nonostante eventuali difetti nel processo decisionale.26

Fintanto che gli amministratori non agiscono nel pro-prio interesse personale, nessun tribunale si spingeràoltre. L’eccezione alla business judgment rule è ammessaunicamente quando si rileva che gli amministratorihanno intenzionalmente e consapevolmente danneg-giato la società, si sono macchiati di negligenza grave osi sono comportati in modo intenzionalmente e consa-pevolmente incurante nell’adempimento dei propridoveri.

La sentenza Disney chiarisce due diffusi fraintendi-menti nel rapporto tra diritto societario e corporategovernance. In primo luogo, sia la Corte Suprema delDelaware sia la Corte di Cancelleria del Delawarehanno spiegato che, pur tutelando gli azionisti, il dirit-to societario non pone alcuna responsabilità in capoagli amministratori in caso di mancata attuazione diquelle che vengono generalmente considerate le bestpractices di corporate governance. Società come Disneysono libere di implementare direttive pessime in mate-ria di corporate governance e gli amministratori rimar-ranno comunque indenni da responsabilità legali se leloro decisioni si riveleranno errate. In secondo luogo, la

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2266.. La business judgment rule prevede che, in linea generale, i tribunali nonagiscano contro le azioni dei consigli di amministrazione basate su un ragio-nevole business judgment, anche se, a posteriori, tali azioni si dimostrano erra-te. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “Trans Union Reconsidered”, YaleLaw Journal, 98, 1988, p. 127, nota 3.

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sentenza Disney conferma una volta per tutte che i tri-bunali non ritengono di dover intervenire sull’asservi-mento del consiglio di amministrazione. Nel caso Dis-ney, la corte ha riconosciuto che il consiglio era asservi-to, perfino che la sala di consiglio era un luogo «corrot-to» popolato di «amministratori passivi» con «tendenzeadulatorie», ma non se ne è occupata. Piuttosto, comeevidenzia l’analisi in questo libro, i tribunali si sonorivelati piuttosto realistici nelle loro limitate aspettativenei confronti degli amministratori. Se, secondo la tesipresentata in questo libro, l’asservimento del consiglio ègeneralmente inevitabile, non c’è motivo di punire gliamministratori perché si lasciano assoggettare. In effet-ti, in un caso simile il danno sarebbe probabilmente piùconsistente del beneficio: l’imposizione da parte delpotere giudiziario o legislativo di una norma che richie-da vera indipendenza e obiettività minerebbe la capaci-tà del consiglio di amministrazione di partecipare atti-vamente, con il management, alla gestione della società.

EnronOggi, il caso Enron è una metafora del fallimento

della corporate governance. La storia della débacledella Enron è stata raccontata in centinaia di articoli elibri, probabilmente è la crisi societaria più celebre dellastoria dell’economia. Quando Enron dichiarò il propriofallimento il 2 dicembre 2001, era la settima società quo-tata ad azionariato diffuso, per dimensioni, degli StatiUniti; è inquietante che dopo essere stata al primoposto della classifica Fortune delle società meglio gesti-te d’America, nel 2000, sia scivolata fino al fallimento inmeno di un anno. Ai nostri fini, è ancora più significa-tivo il fatto sorprendente che nel 2000, l’anno prima delcollasso della società, il consiglio di amministrazionedella Enron venisse reputato dalla rivista Chief Executi-ve tra i migliori CdA degli Stati Uniti.

L’incapacità del consiglio di amministrazione dellaEnron di controllare la società, unitamente agli erroridelle agenzie di rating del credito, degli analisti delmercato azionario, dei revisori, consulenti fiscali e lega-

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li esterni, dei banchieri, della NYSE (la Borsa valori cheautorizzò la quotazione in Borsa delle azioni dellasocietà) e degli ispettori governativi assegnati allasocietà, ha provocato una crisi di fiducia e identità nelladimensione della corporate governance e della regola-mentazione statunitense che perdura ancora oggi.

Sul piano della corporate governance, la lezionesuprema del caso Enron è che non è saggio riporre trop-pa fiducia nel consiglio di amministrazione di unasocietà, ma purtroppo sembra che la lezione non siastata imparata. Dagli osservatori si è levato un corounanime di critica nei confronti della scarsa prestazionedel consiglio Enron. Riassumendo l’opinione dominan-te, un professore di diritto ha osservato che, «comeampiamente dimostrato dal caso Enron, i consigli diamministrazione deludono spesso le nostre aspettativee quando un consiglio è inefficace vacilla l’intero siste-ma di corporate governance».27

Questo tipo di riflessioni è interessante per duemotivi. Per prima cosa, il riconoscimento che i consiglidi amministrazione deludono spesso le aspettativedovrebbe, si spera, inesorabilmente portare gli investi-tori a chiedersi se abbia senso continuare a fare affida-mento su un’istituzione di corporate governance evi-dentemente zoppicante. Eppure, quando un’analisi siconclude con giudizi palliativi quali «i consigli diamministrazione non dovrebbero limitarsi ad approva-re le decisioni del management senza discuterne oaddormentarsi al timone»28 essa non offre alcun sugge-rimento concreto su come strutturare un sistema di cor-porate governance che tuteli gli investitori. In secondoluogo, l’osservazione che il consiglio di amministrazio-ne di Enron è stato «inefficace» è molto interessante peril momento storico in cui è stata espressa: per quanto

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2277.. Troy Paredes, “Enron: The Board, Corporate Governance and SomeThoughts on the Role of Congress”, in Enron, Corporate Fiascos and TheirImplications, a cura di Nancy B. Rapoport e Bala G. Dharan, New York,Foundation Press, 2004, p. 495.

2288.. Troy Paredes, “Enron”, p. 535.

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sia accurata col senno di poi, il fatto che chi ha seguitola vicenda non abbia subodorato l’inefficacia del consi-glio di Enron fino al collasso irreversibile della societàla dice lunga. Non si rende un buon servizio agli azio-nisti se solo dopo la condanna del CFO e l’imputazionedel presidente e del CEO i giornalisti iniziano a defini-re diffusamente inefficace il consiglio di Enron; ci sichiede dove fossero, questi acuti osservatori, prima delcrollo della società, quando le loro previsioni sullecarenze di corporate governance in Enron avrebberopotuto realmente giovare agli investitori.

Ben lungi dall’essere guardato con sospetto primadel collasso della società, il consiglio di amministra-zione di Enron era invece largamente apprezzato eportato come fulgido esempio di corporate governan-ce efficiente: era composto da quattordici amministra-tori, di cui dodici esterni, e comprendeva luminari delcalibro di Norman Blake, CEO e presidente di Comdi-sco, nonché segretario generale del Comitato Olimpi-co degli Stati Uniti; Wendy Gramm, ex presidentedella Commodity Futures Trading Commission;Robert Jaedicke, ex preside della Graduate School ofBusiness di Stanford ed ex presidente del dipartimen-to amministrativo alla business school di Stanford; eJohn Wakeham, ex segretario di stato britannico perl’energia e leader della Camera dei Comuni e dellaCamera dei Lord. Gli amministratori di Enron faceva-no parte del consiglio di amministrazione di comples-sivamente quasi 50 altre società quotate, per cui se ilconsiglio di amministrazione di Enron era inadeguato,certamente una serie di altre società era contaminatada amministratori inadeguati.

Oltre ad avere un elevato grado di indipendenza edessere composto da luminari del mondo societario eaccademico, il consiglio di amministrazione si riunivacon frequenza; per esempio, nel tentativo di gestire lacrisi, si riunì quasi quotidianamente dal momento incui la società iniziò ad avere problemi seri, nell’ottobre2001, fino alla presentazione dell’istanza di fallimentoil 2 dicembre 2001.

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Il consiglio di Enron era considerato un esempio dicorporate governance positiva anche per l’organizza-zione e la struttura che si era dato. Come disse un gior-nalista, «il CdA [di Enron] aveva tutti i comitati che sivorrebbero avere, compreso un comitato esecutivo, uncomitato finanziario, un comitato per la revisione e com-pliance, un comitato per la retribuzione nonché uncomitato per le nomine e un comitato per la corporategovernance».29

Il comitato preposto alla revisione, ovvero quello acui è universalmente attribuito il ruolo fondamentalenel processo di controllo, «aveva uno statuto modelloed era presieduto da un ex professore di contabilità eamministrazione che era stato anche preside della Gra-duate School of Business di Stanford».30 Ancora piùsconcertante è il fatto che, secondo i rilievi della com-missione di inchiesta, tutti i membri del comitato direvisione avevano un’approfondita conoscenza deicomplessi principi contabili. Due membri del comitato,il professor Jaedicke e Lord Wakeham, avevano unbackground formativo e grande esperienza professio-nale in ambito contabile.31 Dimostrando un’indipen-denza ben aldilà dei codici comportamentali vigenti, ilcomitato di revisione di Enron riceveva periodiche pre-sentazioni in merito ai rendiconti finanziari, alle prassicontabili e ai risultati delle ispezioni effettuate dai revi-sori esterni. Dopo tali presentazioni, cioè dati allamano, il presidente del comitato di revisione riferiva atutto il consiglio di amministrazione di Enron a portechiuse, ovvero senza il management.

In linea con le best practices di corporate governancee le consuetudini sopra illustrate, i membri del comita-to di revisione, del comitato per la retribuzione e delcomitato per le nomine erano composti interamente daamministratori esterni, estranei al management. In

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2299.. Troy Paredes, “Enron”, pp. 504-505.3300.. Troy Paredes, “Enron”, p. 505.3311.. Senato degli Stati Uniti, The Role of the Board of Directors in Enron’s Col-

lapse, p. 9.

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effetti, nella miriade di regole di corporate governanceemesse da tribunali, legislatori, enti amministrativi eBorse valori a seguito del collasso di Enron, per ironiadella sorte la stessa Enron soddisfaceva o addiritturasuperava i criteri più stringenti apparentemente istitui-ti per prevenire altri “casi Enron” in futuro. E per assur-do, se Enron fosse sopravvissuta fino a oggi, non avreb-be minimamente dovuto modificare la propria struttu-ra di corporate governance per adeguarsi ai requisitidel Sarbanes-Oxley Act (SOX).

Se anche un osservatore sincero obiettasse ex postche il consiglio di amministrazione di Enron si è com-portato male, dovrebbe però riconoscere che, «in appa-renza, il CdA di Enron sembrava perfetto»32 prima delcrac; e in effetti, oggi come allora, Enron sarebbe consi-derata un modello di corporate governance. A quantopare, tutto ciò suggerisce che è necessario rivalutarel’indipendenza del consiglio come indice dell’alta qua-lità della corporate governance.

Un approccio nuovo dovrebbe soddisfare tre requi-siti: primo, dovrebbe partire dal presupposto che èassolutamente irrealistico che le stesse persone possa-no assolvere al tempo stesso a una funzione di control-lo e a una funzione di gestione nella stessa società;secondo, dovrebbe lasciare al consiglio di amministra-zione la responsabilità di migliorare la qualità del pro-cesso decisionale manageriale; terzo, il nuovo modellodi corporate governance dovrebbe essere incentrato sustrumenti di controllo del mercato, ossia distanti eobiettivi, piuttosto che su strumenti interni quali gliamministratori, i quali si sono dimostrati molto facil-mente assoggettabili dagli stessi dirigenti che sonoincaricati di controllare.

Quest’analisi ha portato alla luce un fatto importante,cioè che il consiglio di amministrazione di Enron era unesempio non solo di professionalità ma anche di assog-gettamento da parte del management. Solo l’ipotesi del-l’assoggettamento può spiegare la totale fiducia nel

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3322.. Troy Paredes, “Enron”, p. 504.

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management dimostrata dal consiglio col suo tacitoassenso alle scandalose operazioni con società collegateche in ultima analisi hanno provocato la débacle diEnron. Per esempio, le relazioni di bilancio di Enron(registrate alla SEC nel modulo 10-K) evidenziavano che,solo nel 1999 e nel 2000, Enron aveva concluso operazio-ni con tremila società collegate, centinaia delle qualierano state perfezionate con società affiliate di Enronfacenti capo a una casella postale nelle Isole Cayman. Ilconsiglio di amministrazione di Enron acconsentì dun-que tacitamente a pratiche contabili ad alto rischio, atti-vità improprie con conflitto di interesse e transazioniocculte ufficiose. Inoltre, approvò pacchetti retributiviper la dirigenza almeno retrospettivamente davveroeccessivi alla luce della scarsa performance della società.

Gli errori più eclatanti del consiglio di amministra-zione di Enron sono legati alla decisione, in tre occasio-ni separate, di prevedere un’eccezione al codice di con-dotta della società per permettere al CFO di Enron,Andrew Fastow, di costituire e gestire società in acco-mandita semplice, denominate entità a fini speciali,appositamente per concludere transazioni con Enron.Le operazioni che Fastow concepiva e conduceva pre-vedevano l’acquisto di cespiti da parte di queste entitàa fini speciali controllate da Fastow e la vendita deglistessi beni a Enron. L’eccezione era necessaria perché ilcodice di condotta di Enron proibiva ai dipendentidella Enron di ottenere vantaggi finanziari personali daqualsiasi società che intrattenesse rapporti economicicon Enron. Da queste operazioni Fastow ha ricavatomilioni di dollari: il conflitto di interessi era così palpa-bile che, in Arthur Andersen, Benjamin Neuhausenrivolse al collega David Duncan la seguente domandaretorica: «perché un amministratore che non sia uscitodi senno approverebbe un piano del genere?».33

Ovviamente, i disastri compiuti dal consiglio di

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3333.. Benjamin Neuhausen ha fatto parte del Professional Standards Groupper la Arthur Andersen, società di revisione contabile della Enron, e DavidDuncan ha diretto il team dei revisori assegnato alla Enron. Senato degli StatiUniti, The Role of the Board of Directors in Enron’s Collapse, p. 25.

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Enron nella sfera della corporate governance non silimitarono all’approvazione di queste transazioniimproprie. Dopo averle approvate, il consiglio di Enronomise di vigilare sui termini delle operazioni tra le enti-tà in questione ed Enron, di intervenire sulla remunera-zione che Fastow riceveva dalla gestione di tali societàin accomandita semplice e di verificare l’esistenza dicontrolli interni adeguati per la regolamentazione delleattività tra Enron e le società controllate da Fastow.

Se da un lato il consiglio di Enron aveva ampie possi-bilità di reperire informazioni su Enron e la libertà dirichiedere ulteriori approfondimenti, i dati che effettiva-mente riceveva erano né di più né di meno di quantofosse gradito al management. Va da sé che tutti i consiglidi amministrazione fanno consuetudinariamente affida-mento sul management per ricevere informazioni, tran-ne in caso di crisi grave o di minuziose verifiche esterne.Per lo più, gli amministratori non hanno a disposizionealtre fonti di informazione sul management se non glistessi dirigenti che lo compongono. Nella fattispecie,pare che il management decidesse frequentemente dinon fornire al consiglio i dati richiesti: per esempio, nel-l’ottobre del 2000, il consigliere Charles LeMaistre, all’e-poca presidente del comitato per la retribuzione, chieseragguagli sui redditi percepiti da Andrew Fastow dalleentità a fini speciali che controllava e che lavoravano conEnron. Infine, testimoniando davanti a un sottocomitatodel Senato che indagava sul crac di Enron, LeMaistreaffermò che voleva informazioni sulla remunerazione diFastow ma non intendeva scatenare una spirale di pette-golezzi su Fastow, per cui aveva chiesto a Mary Joyce,responsabile delle politiche retributive, di fornirgli infor-mazioni sui redditi esterni di tutti i vertici aziendali diEnron. LeMaistre presentò due richieste in tal senso, maqueste furono ignorate e non ricevette mai alcuna infor-mazione. Piuttosto che sollevare un dibattito, LeMaistre«lasciò cadere la questione».34 Un anno dopo, il consiglio

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3344.. Senato degli Stati Uniti, The Role of the Board of Directors in Enron’s Col-lapse, p. 35.

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era ancora ignaro della situazione reddituale di Fastow,nonostante il fatto che la SEC avesse avviato un’indagi-ne sui rapporti di Enron con tali entità a fini speciali esulle modalità di contabilizzazione delle transazioni traEnron e dette entità. Il consiglio rimase all’oscuro finoall’ottobre del 2001, quando sul Wall Street Journal fupubblicato un articolo intitolato “Società del CFO diEnron annuncia utili per milioni”, in cui si ipotizzava cheFastow avesse ricevuto oltre 7 milioni di dollari da enti-tà a fini speciali sotto il suo controllo nell’ambito di ope-razioni con Enron.

In generale, ne emerge una dinamica per cui i verticiaziendali sono in grado di sottomettere il consiglio con-trollando il flusso e la natura delle informazioni messe adisposizione degli amministratori nell’ambito del pro-cesso decisionale. Nella vasta letteratura relativa allateoria economica sulla regolamentazione, è risaputo chegruppi di interesse specifici ben organizzati sono ingrado, pur con risorse limitate, di influenzare i risultatipolitici controllando il flusso di informazioni al legisla-tore e agli elettori.35 I vertici aziendali delle società perazioni hanno interessi e priorità speculari agli interessi ealle priorità dei gruppi di interesse specifici in ambitopolitico: l’alta dirigenza ha interesse a influenzare lascelta dei progetti, la retribuzione dei manager e gliorientamenti strategici dell’impresa. La capacità deimanager di controllare il flusso di informazioni al consi-glio di amministrazione favorisce notevolmente il rag-giungimento degli obiettivi privati, spesso a spese degliinvestitori. Questa dinamica aiuta a comprendere comemai il consiglio di Enron, apparentemente sofisticato eimpegnato, si sia dichiarato «sorpreso come chiunquealtro dal collasso della società».36

Meno di una settimana dopo che l’ex presidente diEnron Kenneth L. Lay fu condannato per frode da una

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3355.. Robert E. McCormick - Robert D. Tollison, Politicians, Legislation, andthe Economy, Boston, Martinus Nihhoff, 1981, pp. 7-12.

3366.. Senato degli Stati Uniti, The Role of the Board of Directors in Enron’s Col-lapse, p. 12.

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giuria di Houston (Texas), Charles Walker, che per moltianni era stato amministratore alla Enron, riferì al Was-hington Post che ancora non riusciva a credere che Layfosse a conoscenza delle prassi contabili fraudolente checausarono il crac della società nel 2001. Walker non cre-deva all’accusa per cui Lay avrebbe mentito per nascon-dere la vera situazione finanziaria di Enron e ribadiva lasua fiducia nell’integrità di Lay: «Sono convinto che nonsapesse cosa stava succedendo […] semplicemente nonposso accettare che finisca in prigione».37

Il consiglio di amministrazione di Enron rappresen-ta un esempio lampante del fatto che, per quanto possasembrare indipendente, professionale e altamente qua-lificato dall’esterno, esso è comunque vulnerabileall’assoggettamento. E quel che è peggio, tendenzial-mente gli amministratori sono giudicati solo in retro-spettiva: gli amministratori di Enron, per quanto lodatiprima del crac, oggi sono considerati inetti, non perchéabbiano commesso qualche particolare misfatto maperché la società che amministravano è crollata inmodo così clamoroso e infamante.

Come già accennato, il rafforzamento del grado diindipendenza e vigilanza degli amministratori dellesocietà ad azionariato diffuso è la soluzione primariamessa in campo per prevenire altri “casi Enron”.38 Tut-tavia, questa risposta è fuorviante per tre ragioni:primo, non considera che tanto più un consiglio diamministrazione è indipendente tanto meno è in gradodi offrire un contributo fattivo nell’ambito di massimacompetenza, cioè il supporto manageriale ai verticiaziendali; secondo, il richiamo a una maggior indipen-denza presuppone, senza che ve ne sia giustificatomotivo, che sia davvero possibile per un amministrato-re pensare e agire in modo indipendente dal manage-ment dopo l’assunzione; terzo, la supposizione che si

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3377.. Brooke A. Masters, “Enron’s Quiet Outages, Uncharged in the Fraud,Directors Settled, Resigned, Lay Low”, Washington Post, 2 giugno 2006, D1.

3388.. Senato degli Stati Uniti, The Role of the Board of Directors in Enron’s Col-lapse, p. 4.

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possa fare affidamento sugli amministratori per preve-nire altri “casi Enron” crea un falso senso di sicurezzanegli investitori meno esperti, i quali potrebbero essereindotti a pensare che possa davvero essere così.

Dinanzi al crollo della Enron, decine di altre societàsi trovarono ad affrontare un interessante dilemma: chefare con gli amministratori Enron che facevano contem-poraneamente parte del loro consiglio di amministra-zione? Alcuni amministratori di Enron, come WendyGramm, membro del CdA di Invesco Mutual Fund, eRobert Jaedicke, membro del CdA di California WaterService, si dimisero di propria iniziativa in concomitan-za con il collasso di Enron. I sindacati incalzarono glialtri amministratori di Enron, con più o meno successo.L’AFL-CIO Investment Fund lanciò una campagna con-tro tutti gli ex amministratori di Enron che facevanoparte di altri consigli di amministrazione; secondo ilsindacato, «il clamoroso fallimento di questi ammini-stratori, che non hanno saputo tutelare gli interessidegli azionisti nel caso Enron, pregiudica la loro futuranomina all’interno del consiglio di amministrazione diuna qualsiasi società per azioni […]. Qualora il consi-glio riconfermasse gli amministratori in carica, solleci-tiamo gli azionisti a votare no».39

Per la maggior parte, gli amministratori Enron sidimisero o furono comunque estromessi dagli altriCdA di cui facevano parte, ma alcune società difeserostrenuamente i propri amministratori coinvolti nel casoEnron. Nel 2002, l’amministratore di Enron Frank Sava-ge fu rieletto nei CdA della Lockheed Martin Corpora-tion e della Qualcomm Corporation, nonostante le obie-zioni a tutela degli azionisti mosse tra l’altro dall’AFL-CIO e da altri gruppi sindacali. La campagna perrimuovere Savage dal CdA della Lockheed Martin con-vinse soltanto il 28 per cento degli azionisti a votarecontro, per cui Savage rimase un membro autorevoledel CdA di Lockheed Martin per lungo tempo dopo il

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3399.. Citato in Gretchen Morgenson, “Sticky Scandals, Teflon Directors”,New York Times, 29 gennaio 2006.

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crac di Enron, anche se diede volontariamente le dimis-sioni dal CdA di Qualcomm nel 2004, all’età di 65 anni.Secondo il New York Times, un portavoce della Lockheedavrebbe descritto Frank Savage come «un amministrato-re straordinario, con cui la società ha un rapporto dilunga data e reciproca soddisfazione».40 Analogamente,Norman Blake, ex presidente di Comdisco e amministra-tore di Enron, rimase al suo posto nel CdA di OwensCorning dopo il crac di Enron. Il Washington Post scrisseche Owens Corning rispose a domande sulla posizionedi Blake nel CdA dichiarando che «la verifica, l’indipen-denza e l’efficacia dei singoli amministratori rientra nellebest practices di governance attuate dal nostro CdA e ilsignor Blake si è sempre dimostrato all’altezza».41

Questo scambio di vedute dimostra che l’assogget-tamento agisce in modo biunivoco: non soltanto i con-sigli di amministrazione sono leali nei confronti delmanagement che hanno insediato, dal canto suo, ilmanagement è ugualmente leale nei confronti del pro-prio consiglio di amministrazione.

Equity FundingIl 2 aprile 1973, la Equity Funding Corporation of

America fu accusata dalla SEC di complottare per fro-dare gli investitori manipolando il prezzo del capitaleazionario. Lo stesso giorno, il Wall Street Journal descris-se il caso come «uno dei maggiori scandali nella storiadella contabilità». Man mano che lo scandalo EquityFunding si estendeva a macchia d’olio, si allungava l’e-lenco delle agenzie governative interessate e degliinquirenti: all’inchiesta della SEC si erano aggiuntequelle del Dipartimento della Giustizia degli StatiUniti, del Federal Bureau of Investigation, del Serviziopostale degli Stati Uniti e i Dipartimenti delle Assicura-zioni della California e dell’Illinois, ovvero gli Stati incui Equity Funding aveva regolare licenza.

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4400.. Gretchen Morgenson, “Sticky Scandals, Teflon Directors”.4411.. Brooke A. Masters, “Enron’s Quiet Outages, Uncharged in the Fraud,

Directors Settled, Resigned, Lay Low”.

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La frode aveva un’entità e una portata sbalorditive.Ben oltre la metà delle polizze di assicurazione sullavita registrate nei libri contabili dell’affiliata di EquityFunding responsabile delle polizze vita (circa 64.000 su100.000) era di natura fraudolenta, in altre parole lasocietà stava falsamente dichiarando di aver stipulatopolizze assicurative per oltre 2 miliardi di dollari. Adaggravare la frode, la società aveva emesso obbligazio-ni contraffatte per 25 milioni di dollari e asseriva diavere 100 milioni di dollari investiti in cespiti senzaessere in grado di renderne conto.

Equity Funding è stata definita «motivo di imbarazzoper l’intero settore dell’intermediazione mobiliare, pergli enti di regolamentazione delle assicurazioni e per laprofessione del revisore dei conti»,42 poiché nessuno diquesti attori si è accorto che il management stava perpe-trando una frode di tali ingenti proporzioni. Ovviamen-te, il giudizio si estende al consiglio di amministrazionedi Equity Funding: tre amministratori su nove, StanleyGoldblum (fondatore, presidente della società e presi-dente del CdA), Fred Levin (responsabile del marketinge presidente della compagnia di assicurazioni affiliata) eSamuel Lowell (vice presidente esecutivo e CFO), aveva-no architettato la frode direttamente, mentre gli altri seinon vi erano coinvolti e, anzi, ne parevano totalmenteall’oscuro. L’entità della frode, la sfrontatezza indispen-sabile per creare transazioni con altre compagnie di assi-curazioni e la sfacciata audacia necessaria per falsificarele polizze assicurative dimostrano il fallimento dei mec-canismi di controllo interni alla società.

Come per Enron, le origini dello scandalo EquityFunding vanno ricercate nelle innovazioni. La società eraall’avanguardia nel confezionamento di pacchetti com-prendenti polizze assicurative e altri prodotti finanziari,settore emergente ma fiorente. In particolare, i clienti

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4422.. David Hancox, “Could the Equity Funding Scandal Happen Again?Auditors Need to Guard against the Scenario That Led to One of Auditing’sDarkest Hours”, Internal Auditor, ottobre 1997, http://www.allbusines-s.com/accounting-reporting/auditing/641903-1.html.

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della Equity Funding venivano incoraggiati a investirenei fondi comuni d’investimento sponsorizzati dallasocietà e poi ad accendere prestiti fornendo in garanzia ifondi comuni stessi, per finanziare i premi di una poliz-za assicurativa sulla vita. Il plusvalore maturato sullepolizze vita sarebbe stato utilizzato anche per rimborsa-re i prestiti utilizzati per acquistare l’assicurazione.

L’operazione riscosse molto successo ed Equity Fun-ding vide una crescita esponenziale. Il CEO StanleyGoldblum si diede da fare per acquisire altre società e,dato che finanziava queste acquisizioni con azioniEquity Funding, era molto sensibile alle oscillazioni dellequotazioni azionarie. L’inizio della frode è collocato nel1965, quando Goldblum ordinò al CFO Samuel Lowell digonfiare il reddito dichiarato e i crediti della società.

Secondo un meccanismo tipico del settore assicura-tivo, Equity Funding era solita vendere tutte o partedelle polizze assicurative sottoscritte ad altre compa-gnie assicurative in cambio di contanti: questo processoè noto come riassicurazione e genera un immediatoflusso di contanti tra la compagnia assicurativa checede la polizza e la compagnia assicurativa che acquistala stessa polizza; inoltre, la compagnia acquirente rice-ve una parte dei premi versati negli anni a venire dagliassicurati. Ovviamente, quando una polizza assicurati-va è concepita come lo furono le polizze vendute ai rias-sicuratori da Equity Funding, non ci sono clienti cheversano premi negli anni a venire, per cui non ci sonofonti di reddito per finanziare i futuri pagamenti ai rias-sicuratori, su cui i riassicuratori contano per conseguireun ritorno positivo dall’investimento nell’acquistodelle polizze assicurative originarie. Equity Fundingrisolse questo problema creando un immenso schemadi Ponzi, in cui i premi derivanti dalla vendita di poliz-ze assicurative false vennero utilizzati per pagare ipremi ai riassicuratori. Equity Funding generò ulterio-re liquidità dichiarando falsamente che alcuni assicura-ti, le cui polizze erano state cedute al riassicuratore,erano in effetti deceduti, il che, di rimando, diede luogoa un pagamento da parte della compagnia di riassicu-

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razione che aveva rilevato la polizza. In altre parole, per Equity Funding la creazione e il

mantenimento della frode richiedeva un’estesa orga-nizzazione, impegnata, in uno sforzo concertato, inprimo luogo a ideare polizze assicurative e venderle, ein secondo luogo a inventare ulteriori polizze per finan-ziare i pagamenti agli acquirenti delle polizze false ven-dute in precedenza. Poi, i soggetti coinvolti nella frodeinventavano periodicamente i decessi di alcuni degliassicurati fittizi per generare pagamenti da parte deiriassicuratori. Infine, i registri finanziari della societàdovettero ovviamente essere falsificati per riportaretutte queste transazioni fraudolente.

Come rilevò un osservatore,

è relativamente facile creare voci contabili fasulle, macreare documentazione per 64.000 polizze false si èrivelata una sfida spropositata anche per Equity Fun-ding. Il management voleva in ogni caso soddisfare irevisori, che nel corso della loro ispezione avrebberochiesto di esaminare la documentazione elettronicarelativa a polizze scelte a campione, incrociando poi idati relativi alle ricevute per premi versati e quellirelativi agli accantonamenti per sinistri. Tuttavia, i filerelativi alle polizze non esistevano, tranne che in unamanciata di casi. Per risolvere il problema il manage-ment creò una vera e propria organizzazione internadedita alla contraffazione. Alla Equity Funding, i file delle polizze richieste dairevisori apparivano spesso “temporaneamente nondisponibili”. Quella stessa notte, una decina circa didipendenti lavorava alacremente per creare i file man-canti in modo che fossero disponibili il giorno seguen-te. Come disse un membro del gruppo, «ci vuolemolto tempo e bisogna fare attenzione ai timbri data ead altri dettagli. Ma mi sono divertito a fare il dottore,misurando la pressione sanguigna del paziente efacendo altre cose così».

Lo scandalo Equity Funding rivelò uno schemaimmenso, architettato dal management e supportato,almeno passivamente, da un certo numero di dipen-

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denti che ne erano al corrente o potrebbero aver ragio-nevolmente avuto qualche sospetto.43 Le regole odierneimporrebbero al consiglio di amministrazione di valu-tare il sistema di controlli interni utilizzato per control-lare la società, e il CEO e il CFO della società dovrebbe-ro certificare la qualità di tali controlli. Come nel casoEnron, però, nessuna di queste nuove regole avrebbefatto la differenza per gli investitori in Equity Funding,visto che sia il CEO sia il CFO erano profondamentecoinvolti nelle attività fraudolente. Come nei casiEnron, Disney e TransUnion, gli amministratori diEquity Funding erano completamente asserviti almanagement e il consiglio di amministrazione diEquity Funding non chiese le dimissioni dei tre ideato-ri della frode fino a quando la SEC minacciò di metterela società in amministrazione controllata se i dirigentiincriminati non fossero stati rimossi. Incredibilmente,secondo l’autorevole resoconto dello scandalo EquityFunding da parte di Raymond Dirks e Leonard Gross,anche di fronte alla minaccia della SEC di far chiuderela società se i vertici aziendali non fossero stati licenzia-ti, la maggioranza del CdA continuò a sostenere ilmanagement in carica.44 Come già accennato, almomento dell’intervista tre dei nove amministratori,Stanley Goldblum, Fred Levin e Samuel Lowell, eranoinsider profondamente coinvolti nella frode; fu orga-nizzato un confronto con altri tre amministratori, il con-sigliere interno Yura Arkus-Duntov, il professore di eco-nomia Robert Bowie e il consulente aziendale HerbertGlaser, i quali, all’oscuro della frode, chiesero il licen-ziamento in tronco dei tre truffatori interni. Gli altri treamministratori esterni, Judson Sayre (dirigente in pen-sione della Bendix Corporation), Gale Livingston (Lit-ton Industries) e Nelson Loud (esperto di investmentbanking presso la New York Securities, che aveva gesti-to l’offerta pubblica iniziale di azioni Equity Funding)

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4433.. David Hancox, “Could the Equity Funding Scandal Happen Again?”. 4444.. Raymond Dirks - Leonard Gross, The Great Wall Street Scandal, New

York, McGraw-Hill, 1974, p. 202.

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si espressero in termini assolutamente leali al manage-ment, che sarebbe stato presto indagato, e si dichiararo-no propensi a rimanere leali ai dirigenti che li avevanoassunti come amministratori. Soltanto quando Gold-blum, il cervello della frode, si rifiutò di giurare che nonaveva messo “le mani nella marmellata” gli ammini-stratori presero seriamente in considerazione l’ipotesidi rimuoverlo.45 Gli amministratori parvero ribellarsicon decisione al management soltanto quando i diri-genti si rifiutarono di testimoniare davanti alla SECsulla frode alla Equity Funding, ma anche a quel punto,alcuni amministratori, compresi l’amministratore ester-no Loud e il consulente Glaser, volevano riassumere gliamministratori come consulenti, con una remunerazio-ne su base giornaliera, dopo aver accettato le lorodimissioni per contentare le autorità.

Lo scandalo Equity Funding svela un altro elementoumano nella presente teorizzazione dell’assoggetta-mento del consiglio di amministrazione da parte delmanagement, ovvero che è difficile sostituire il gruppodirigente. Anche quando la frode alla Equity Fundingera ormai stata smascherata, i truffatori principali,ovvero Goldblum, Levin e Lowell, sostenevano ancora,e con grande convinzione, che la società non avrebbepotuto andare avanti senza di loro. Ovviamente, larimozione di dirigenti al vertice dell’impresa costringeil consiglio di amministrazione a tralasciare qualsiasialtra attività e dedicarsi a tempo pieno alla gestionedella crisi e prevedibilmente questo è alquanto difficileper gli amministratori esterni, che hanno spesso la pro-pria società da gestire.

Alla luce della teoria qui esposta sulla condotta deiconsigli di amministrazione, quello di Equity Fundingsi rivelò un ignobile fallimento a livello di manage-ment, ma questo non significa che fosse totalmenteinefficace, ovviamente, perché i consigli di amministra-zione sono responsabili della gestione tanto quanto delcontrollo della società.

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4455.. In re Equity Funding Corporation, 603 F.2d 1353, 1979.

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Il problema dell’assoggettamento dei consigli diamministrazione ha origine dalla partecipazione degliamministratori al processo decisionale del manage-ment, in particolare alla pianificazione strategica e alledecisioni relative all’assunzione, alla conferma e allapromozione di alti dirigenti. Si potrebbe in realtà soste-nere che, nonostante il coinvolgimento degli ammini-stratori in tali questioni non sfoci necessariamente nel-l’asservimento, tale circostanza lo rende estremamenteprobabile. Le norme sociali di collegialità e collabora-zione che guidano il comportamento degli amministra-tori aumentano la probabilità di asservimento, tantopiù che spesso gli amministratori socializzano tra loro econ il management durante le riunioni. Il managementha ovviamente forti motivazioni private per stringererapporti di fiducia e amicizia con gli amministratori.

Alla regola generale per cui gli amministratori nonesecutivi sono altamente esposti all’assoggettamentoesiste una singolare eccezione: il gruppo degli ammini-stratori dissidenti. La figura dell’amministratore dissi-dente è emersa verso la fine degli anni Novanta, comeinvenzione di gestori patrimoniali professionali attivistifrustrati dalla mancanza di indipendenza di ammini-stratori apparentemente indipendenti. Questi gestoriavevano nominato la propria rosa di candidati alla cari-ca di amministratore come mezzo per stimolare il mana-

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Capitolo 6

Gli amministratori dissidenti

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gement in carica e gli amministratori loro alleati a esse-re più sensibili agli interessi degli investitori esterni.

La tradizionale sequenza di eventi che porta allanomina di un amministratore dissidente inizia con l’ac-quisto da parte di un investitore istituzionale attivistadi un pacchetto azionario di minoranza sostanzioso inuna società e poi con la richiesta al management diintrodurre dei cambiamenti per aumentare il valore pergli azionisti. Per esempio, come verrà trattato in modopiù approfondito nel capitolo 14, alla fine del 2005 eall’inizio del 2006 l’investitore attivista Carl Icahn effet-tuò un investimento di 2 miliardi di dollari nella TimeWarner, acquisendo 120 milioni di azioni, equivalenti auna partecipazione del 2,6 per cento nella prima socie-tà mondiale nel campo dei media. Notando la stagna-zione del corso azionario della Time Warner (l’azionedella società languiva a 17-18 dollari prima del massic-cio investimento di Icahn), crollato dalla soglia di 94dollari per azione alla fine del 1999, Icahn e altri inve-stitori attivisti commissionarono uno studio alla bancad’affari Lazard Frères. Durante il periodo immediata-mente precedente all’investimento di Icahn, la perfor-mance finanziaria di Time Warner era stata estrema-mente deludente. Nel gennaio 2000, Time Warner avevarilevato America Online (AOL) nel corso di un’acquisi-zione da più fonti giudicata la peggior transazione nellastoria delle società americane, considerando l’elevatoprezzo di acquisto e la mancanza di sinergie tra le variecomponenti del gruppo che veniva così a formarsi.

Al momento dell’acquisizione, la capitalizzazionecomplessiva di mercato di Time Warner e AOL ammon-tava a 280 miliardi di dollari. Meno di quattro annidopo, la capitalizzazione complessiva del gruppo eracrollata a 84 miliardi. Nell’esercizio 2002 la società sitrovò a registrare perdite per 99 miliardi, derivanti daspese per 100 miliardi, per lo più dovute a una svaluta-zione dell’avviamento (bene immateriale) a seguitodella fusione del 2000.

Icahn chiese a Time Warner di avviare immediata-mente il riacquisto di azioni per circa 20 miliardi di dol-

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lari, suggerendo inoltre una ripartizione di Time War-ner in quattro società distinte: Time Warner Cable, laAOL Internet, la casa editrice Time Inc. e la società com-prendente gli studios Warner Bros. e i canali televisiviHBO e CNN, al fine ultimo di portare il valore del capi-tale azionario a 27 dollari per azione. Sul perché TimeWarner fosse restìa a vagliare questi cambiamentiprima della sollecitazione di Icahn, a riprova della natu-rale tendenza degli amministratori non esecutivi appa-rentemente indipendenti a essere assoggettati dalmanagement, durante la sua campagna alla Timer War-ner Icahn affermò che spesso «i membri del consiglio diamministrazione di una società sono amici nominatidal CEO che sono incaricati di controllare».1

Dinanzi alla sensazione di asservimento e trincera-mento del consiglio di amministrazione della TimeWarner e vedendo lo scarso interesse in una ristruttura-zione della società o in altri interventi finalizzati aincrementare il valore per gli azionisti, Icahn pensò dinominare una lista di amministratori dissidenti da con-trapporre alla lista di candidati presentata dal manage-ment. Piuttosto che ingaggiare una battaglia delle dele-ghe, la Time Warner decise di attuare i cambiamentirichiesti da Icahn in cambio della sua promessa dilasciar perdere il suo piano: acconsentì a un piano diriacquisto del capitale azionario per miliardi di dollarie a trasferire una parte sostanziale delle attività di tele-comunicazioni agli azionisti. Inoltre, il managementdella Time Warner acconsentì a nominare due nuoviamministratori indipendenti, selezionati di concertocon Icahn, e a identificare misure di riduzione dei costidel valore di un miliardo di dollari per i due anniseguenti. Per se stesso, Icahn poté godere degli utiliderivanti dall’aumento di valore delle azioni Time War-ner, pari a 2 dollari per azione (12 per cento), ottenuto

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11.. “Fighting Words for Time Warner: Carl Icahn on Gambits to Goose theStock – Including a Possibile Breakup”, Business Week Online, 28 novembre2005, http://www.businessweek.com/magazine/content/05_48/b3961119.htm,consultato 21 gennaio 2008.

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grazie ai suoi sforzi. La crisi della Time Warner rappresenta un episodio

recente e molto noto nella storia della corporate gover-nance, che illustra il potere dell’amministratore dissi-dente. Alla Time Warner, gli investitori attivisti eranoriusciti a sfruttare la minaccia di nominare una lista diamministratori dissidenti per mettere sotto pressione ilmanagement e ottenere cambiamenti significativi nellagestione della società. Il motivo per cui l’amministrato-re dissidente è un’arma così potente nell’arsenale degliinvestitori esterni è che è molto meno probabile chevenga assoggettato da parte della dirigenza. Gli ammi-nistratori dissidenti intervengono come esterni, nonsono tenuti a socializzare con gli altri componenti delconsiglio o a sfruttare la loro posizione per avere acces-so ad altre nomine in altri CdA. Per definizione, la lorofedeltà va agli azionisti e quindi il loro successo è deter-minato dal loro grado di indipendenza, non dallo spiri-to di collaborazione. In altre parole, gli amministratoridissidenti rientrano nel modello degli amministratoricon funzione di controllo piuttosto che nel modellomanageriale, che si applica invece agli amministratorinominati per vie tradizionali.

La lista di dissidenti presentata alla ArmstrongWorld Industries, una società di prodotti per l’edilizia earredamento, offre un altro esempio indicativo delpotere degli amministratori dissidenti. In questo caso,una lista di quattro candidati dissidenti fu propostadalla famiglia Belzberg per ricoprire quattro posizioniscoperte nel consiglio di amministrazione della Arm-strong World Industries, composto da 14 membri. Deiquattro candidati dei Belzberg ne fu eletto uno, il pro-fessor Michael Jensen della Business School di Harvard.Si dice che dopo l’insediamento, Jensen abbia persuasoil consiglio a sostituire il gruppo dirigente, dopodichéla società ha visto un aumento esponenziale nel valoredelle proprie azioni.

Gli amministratori dissidenti riescono ad avere questoeffetto perché seguono delle norme totalmente diverserispetto agli amministratori tradizionali; infatti, agiscono

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per definizione contro gli interessi dei vertici aziendalidelle società del cui consiglio di amministrazione fannoparte. Quando un candidato accetta il ruolo dell’ammini-stratore dissidente viene etichettato come anticonformi-sta, il che elimina la possibilità che questi venga chiama-to altrove come amministratore tradizionale.

Fin qui, l’analisi ci porta alla conclusione che gliamministratori, con la significativa eccezione degliamministratori dissidenti sopra descritti, sono espostiall’assoggettamento secondo meccanismi raramentecolti a livello politico: su questo piano è un grave erro-re che la società per azioni riponga la sua fiducia, peral-tro irrealistica e totalmente ingiustificata, nella capacitàdel mitico consigliere esterno di risolvere i suoi proble-mi di corporate governance.

In teoria, i consiglieri esterni svolgono un’efficace eindipendente funzione di controllo sul management,visto che non hanno collegamenti con il CEO o altri ver-tici aziendali. D’altro canto, potrebbe essere una buonaidea ridurre il numero degli “amici dei manager” neiconsigli di amministrazione. Ciononostante, i casestudy presentati nel capitolo precedente, specialmenteil caso Enron, dimostrano chiaramente che anche i con-sigli composti quasi esclusivamente da amministratoriindipendenti non sono immuni all’assoggettamento.Poiché gli amministratori hanno il dovere di controlla-re il management, essi si ritrovano spesso a valutare leproprie decisioni e in ogni caso a valutare la perfor-mance dei propri “pupilli”, che si riverbera direttamen-te sulle loro capacità di amministratori.

Il processo di selezione degli amministratori sembraguidato dalla ricerca di un compromesso: a un ammini-stratore si chiede di partecipare alla gestione dellasocietà e assistere il management nel processo decisio-nale e al tempo stesso di svolgere un’efficace e obiettivafunzione di controllo della performance societaria.

Rispetto alla formazione del consiglio di ammini-strazione, oltre all’approccio improntato alla corporategovernance potrebbe essere opportuno vagliare degliapprocci alternativi, e ve ne sono diversi. Come già

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accennato, in Europa i consigli di amministrazioneseguono il modello dualistico, che prevede un consigliodi sorveglianza con funzione di controllo e un consigliodi gestione che offre consulenza strategica: questa strut-tura di governance affronta indirettamente la questionedel conflitto di ruoli degli amministratori, che si ritro-vano consulenti e controllori allo stesso tempo. In que-sto caso, il problema è che mentre i consigli di gestionepossono fornire consulenza strategica utile, i consigli disorveglianza non hanno mai dimostrato molta determi-nazione a intervenire in modo energico per rimpiazza-re dirigenti inadeguati.

Controlli e contrappesi: il modello legislativoNell’analisi dei consigli di amministrazione è impor-

tante distinguere le caratteristiche istituzionali da mec-canismi analoghi di governance che svolgono una fun-zione sia di controllo sia di gestione. Gli organi legisla-tivi rappresentano un esempio significativo: il Congres-so degli Stati Uniti, per esempio, da un lato gestisce gliaffari dello Stato, quando legifera, e dall’altro controllail ramo esecutivo e quello giudiziario, nell’ambito di unsistema di controlli e contrappesi nella separazione deipoteri. Infatti, quando il filosofo francese Montesquieuconiò l’espressione “controlli e contrappesi”, i controllisi riferivano specificatamente alla funzione di controlloche ciascuno dei tre rami del governo doveva esercitaresugli altri.

Molti dei poteri esercitati in via ordinaria dagli orga-ni parlamentari evidenziano analogie dirette ai poteriintrinseci ai consigli di amministrazione delle società. Ilpotere legislativo di promulgare leggi è analogo alpotere del CdA di stilare statuti sociali e gestire la socie-tà. Il potere del parlamento di confermare le nomineall’esecutivo (esercitato dal Senato in virtù della Costi-tuzione degli Stati Uniti) è analogo al potere dei CdA dinominare i più alti dirigenti aziendali. Sia gli organilegislativi sia i CdA hanno il potere di definire il budgetper lo Stato o la società e di rimuovere i funzionari.

Tuttavia, con ogni probabilità gli organi parlamenta-

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ri sono molto più efficaci dei consigli di amministrazio-ne nell’assolvere la funzione di controllo, e per svariatimotivi. In primo luogo, in generale i parlamentari nonhanno la sensazione di dovere la loro posizione all’ese-cutivo allo stesso modo in cui i membri di un CdAdevono la loro posizione al management. Il fatto che gliamministratori debbano (o sentano di dover) ringrazia-re il management per la loro posizione, è un’importan-te presupposto per l’assoggettamento del consiglio.

Una seconda significativa differenza tra gli organilegislativi e i consigli di amministrazione è che questiultimi si affidano maggiormente ai funzionari esecutiviper la raccolta di informazioni critiche su cui basare ledecisioni, mentre di norma gli organi legislativi reperi-scono autonomamente le informazioni necessarie perdecidere, tramite interrogazioni e indagini per contoproprio. I consigli di amministrazione si distinguonodagli organi legislativi perché non hanno né l’inclina-zione né la capacità di reperire informazioni autonoma-mente tramite processi indipendenti dal management.Una delle più ragguardevoli innovazioni politiche dallafondazione degli Stati Uniti d’America è stata l’istitu-zione di una burocrazia parlamentare separata e profes-sionale, che offre al Congresso l’opportunità di reperireinformazioni indipendentemente dagli enti amministra-tivi associati con il ramo esecutivo. Per valutare le pro-poste dell’esecutivo, il Congresso può consultare i mem-bri del proprio staff professionale, specializzato e dedi-cato. Questo strumento riduce inevitabilmente la possi-bilità che il ramo esecutivo sottometta il Congresso allostesso modo in cui i dirigenti di una società assoggetta-no il consiglio di amministrazione controllando il flussodi informazioni inviate al consiglio stesso.

In terzo luogo, diversamente dai consigli di ammini-strazione, gli organi legislativi accolgono generalmenterappresentanze di svariati partiti politici, che rivaleg-giano vivacemente per il potere politico. Questoambiente competitivo offre ai parlamentari di opposi-zione una forte motivazione a controllare l’esecutivo,per identificare corruzione o errori localizzati nella per-

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formance dell’esecutivo che possano tornare a vantag-gio della minoranza politica all’opposizione. Inoltre,mentre gli organi legislativi fungono spesso da “pale-stra” per politici che ambiscono a rimuovere il capo del-l’esecutivo, nei consigli di amministrazione non c’èquasi mai una figura che ambisca a spodestare il CEOdella società.

Questa analisi solleva la questione dell’opportunitàdi modificare la forma organizzativa dei consigli diamministrazione delle società per renderli più similiagli organi legislativi di quanto non lo siano attualmen-te. Alcuni piccoli passi sono già stati compiuti pergarantire che gli amministratori siano meno servili neiconfronti del management. In particolare, gli sforzi perrendere i consigli di amministrazione strutturalmentepiù indipendenti hanno prodotto nuovi requisiti, inclu-si nelle regole di corporate governance che le Borsevalori impongono alle società per azioni, secondo lequali i comitati per le nomine all’interno del consigliodi amministrazione di una società per azioni devonoessere indipendenti dal management. Benché sia possi-bile, è però altamente improbabile che le nuove regolecontribuiranno a ridurre il rischio che nel processo diselezione dei membri di un consiglio di amministrazio-ne vengano nominate persone leali ai vertici aziendaliin carica.

È difficile che simili cambiamenti a livello normati-vo riescano a eliminare il problema dell’asservimentodei consigli di amministrazione, per parecchi motivi.Per esempio, non vi è alcuna restrizione alla facoltà delmanagement di nominare gli amministratori, e il mana-gement rimarrà con ogni probabilità la prima e piùinfluente fonte di candidati per le posizioni di ammini-stratore nelle società per azioni. Inoltre, se anche l’in-fluenza del management sulla scelta di determinatiamministratori venisse meno, i vertici aziendali sareb-bero comunque in grado di influenzare i membri delconsiglio dopo l’insediamento: hanno infatti elevato lacapacità di coltivare i membri del CdA a una vera e pro-pria forma d’arte. E dopo tutto, la competitività nella

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selezione naturale dei CEO produce dirigenti di altissi-mo livello, molto abili nel coltivare e intrecciare relazio-ni in ambito sociale e professionale quando è nel lorointeresse.

Le riforme del processo di nomina non cambiano ilfatto che i CEO e altri top manager mantengono la mas-sima influenza sulla riconferma del consiglio; in altreparole, hanno un controllo praticamente totale sulla pos-sibilità di riconfermare gli amministratori al termine delloro mandato. Questa consapevolezza condiziona inevi-tabilmente il comportamento del consiglio di ammini-strazione: fintanto che gli amministratori continuerannoa dovere (o sentire di dovere) al management la loroposizione nel consiglio, l’asservimento rimarrà un serioproblema di governance nelle società per azioni.

In seguito all’ondata di scandali di corporate gover-nance dell’era Enron si è registrato un costante aumen-to del ricorso a società di selezione del personale perindividuare e reclutare i consigli di amministrazione. Seda un lato così si assumono indubbiamente ammini-stratori con credenziali ed esperienza di tutto riguardo,non c’è però alcun fondamento teorico o concreto ariprova del fatto che una società di selezione del perso-nale sia in grado di migliorare l’indipendenza del con-siglio. In realtà, se il processo non è strutturato conattenzione, il ricorso a terzi potrebbe addirittura mette-re a repentaglio l’individuazione di amministratoriindipendenti. Poiché le società di ricerca del personaleprosperano se c’è continuità nei rapporti con i clienti,sono infatti motivate a selezionare amministratori conuna reputazione di compiacenza verso il managementpiuttosto che amministratori noti per il loro atteggia-mento di critica al management. Inoltre, ovviamente lesocietà di ricerca del personale sono consapevoli delfatto che le loro fatture sono vistate e i pagamenti sonoautorizzati dal management, che tiene i cordoni dellaborsa. Anche gli amministratori selezionati dalle socie-tà di ricerca del personale hanno le loro responsabilità:vogliono posizioni da amministratore in altri CdA evogliono integrarsi bene nei consigli di amministrazio-

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ne di cui fanno parte. Tutto ciò crea una cultura di affi-nità e collaborazione che non si fuga semplicementericorrendo a comitati di nomina indipendenti per laselezione degli amministratori.

Nell’immaginario comune, come osservato daMichael Jensen e Joe Fuller, «nella gran parte dellesocietà gli amministratori sono a tutti gli effetti impie-gati del CEO. Il CEO fa la maggior parte dell’attività direperimento per il consiglio, poi dirama inviti a entrarenel consiglio. Tranne che in casi eccezionali, i compo-nenti del CdA fanno quello che dice il CEO».2

Quindi, le caratteristiche strutturali delle dinamichedi interazione tra i membri del CdA e il managementsono destinate a favorire il mantenimento degli strettilegami tra amministratori e dirigenti. Difficilmente ladistanza che si rileva tra i rappresentanti eletti in parla-mento e i membri dell’esecutivo trova un analogo nelrapporto tra il consiglio e la dirigenza.

È interessante notare che, se per affrontare il proble-ma dell’asservimento del consiglio di amministrazionesono state modificate le modalità di nomina degliamministratori, ben poco è stato fatto per cambiare ilfatto che il management è in genere l’unica fonte diinformazioni sulla società a cui gli amministratori pos-sono rivolgersi. Di conseguenza, i CdA continuano afare troppo affidamento su funzionari esecutivi perreperire informazioni fondamentali per l’iter decisiona-le, in misura assolutamente sproporzionata rispetto adaltre istituzioni con responsabilità di controllo, quali gliorgani legislativi.

Il problema dell’asimmetria informativa è stato datempo riconosciuto come un impedimento al controlloefficace del management da parte dei consigli di ammi-nistrazione. Verso la metà degli anni Sessanta, l’ex giu-dice della Corte Suprema Arthur Goldberg espresse laraccomandazione che i consigli di amministrazione

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22.. Michael C. Jensen - Joe Filler, “What’s a Director to Do?”, The MonitorGroup, 2002, http://www.monitor.com/binary-data/MONITOR_ARTICL-ES/object/163.PDF, consultato 21 gennaio 2008.

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avessero il proprio staff professionale. Quando il giudi-ce Goldberg sedeva nel consiglio di TWA, provò inutil-mente a ottenere i fondi per uno staff che avrebbe for-nito agli amministratori informazioni reperite da esper-ti esterni, tra cui avvocati, analisti finanziari e contabili.Al rigetto della sua richiesta, il giudice Goldberg sidimise dal consiglio della società.

Il problema legato all’allocazione al consiglio diamministrazione di un budget proprio per la raccolta diinformazioni sulla società da fonti esterne e per il ricor-so alla consulenza di esperti esterni è chiaro: i costi peril reperimento e l’analisi delle informazioni sarebberonotevoli. Inoltre, questo approccio potrebbe essere con-taminato da costi più subdoli. Spesso, il successo di unastrategia aziendale dipende in misura sostanziale dallacapacità dell’impresa di sviluppare il piano nella mas-sima riservatezza e di attuare la strategia con rapidità,ma se il consiglio di amministrazione deve replicare ilprocesso decisionale del management è improbabileche l’impresa riesca ad agire con tempestività. Ovvia-mente, alla fine il consiglio si può esprimere a favoreoppure no; ma se non si trova d’accordo con i verticiaziendali non ci sarà un modo per determinare a prioriquale approccio perseguire. In sintesi, nella maggiorparte, se non nella totalità delle imprese i costi dellareplicazione del processo di generazione delle informa-zioni seguito dal management all’interno del consigliodi amministrazione avranno con ogni probabilità supe-rato i benefici.

Il Sarbanes-Oxley Act del 2002 contiene una disposi-zione che affronta esplicitamente il problema dell’asser-vimento del consiglio di amministrazione dovuto a unpregiudizio favorevole al management nel flusso diinformazioni fornito al consiglio stesso. L’articolo 301della legge Sarbanes-Oxley autorizza i comitati di revi-sione dei consigli di amministrazione a rivolgersi a con-sulenti esterni a spese della società per ottenere sup-porto nella funzione di revisione. L’articolo 301 preve-de che i comitati di revisione siano direttamenteresponsabili della nomina, remunerazione, riconferma

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e supervisione della società di revisione contabileingaggiata come revisore esterno. Spetta altresì al comi-tato di revisione dirimere eventuali dissensi tra il mana-gement e il revisore in merito alle modalità di pubblica-zione della situazione finanziaria e dei risultati finan-ziari della società.

Inoltre, le nuove disposizioni della legge Sarbanes-Oxley prevedono che il revisore indipendente riferiscadirettamente al comitato di revisione e non al manage-ment, come avveniva in precedenza. La SEC ha emessonormative che ampliano e chiariscono le disposizionidella Sarbanes-Oxley in merito alla funzione di super-visione esercitata dal comitato di revisione, conferendoal comitato di revisione l’autorità non solo di ingaggia-re ma anche di esonerare i revisori esterni della società.Inoltre, è il comitato di revisione ad approvare tutte lespese addebitate dalla società di revisione per la revi-sione, ivi incluse sia le spese inerenti alla revisione siaaltre spese consistenti per attività extra-revisione effet-tuate dalla società di revisione.

Le regole della SEC prevedono che le società debba-no stanziare finanziamenti adeguati, in base ai calcolidel proprio comitato di revisione, per remunerare irevisori esterni della società ed eventuali consulentiesterni che il comitato di revisione decida di ingaggia-re. Inoltre, la SEC richiede che ai comitati di revisionevenga data l’autonomia di ingaggiare consulenti ester-ni secondo necessità, anche avvocati. La SEC parte dalpresupposto che la consulenza di specialisti esternipotrebbe essere necessaria per identificare potenzialiconflitti di interesse e valutare il grado di trasparenza ealtri obblighi di compliance con un occhio indipendentee critico.

A tutt’oggi, queste regole rappresentano il più ambi-zioso tentativo di affrontare il problema dell’asservi-mento del consiglio di amministrazione, poiché dannofacoltà al consiglio di ottenere le informazioni necessa-rie al controllo del management senza alcun interventodel management nel processo di produzione delleinformazioni stesse. Se da un lato i vantaggi di una

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simile riallocazione del potere ai comitati di revisionesono indubbi, dall’altro i costi della revisione così comeprevista dalla Sarbanes-Oxley sono stati stimati intornoai 2 milioni di dollari annui per ogni società soggettaalla Sarbanes-Oxley: una cifra ragguardevole. In realtà, ibenefici di queste nuove regole potrebbero benissimosuperare i costi se così migliorano la qualità e l’affidabi-lità dei rendiconti finanziari delle società per azioni. Inogni caso, l’asservimento del consiglio di amministra-zione continuerà a costituire un problema fintanto cheamministratori e dirigenti continueranno a lavoraregomito a gomito nella gestione delle società per azioni.

Un’altra innovazione di corporate governance negliStati Uniti è la tendenza a nominare un amministratoreesterno lead director o presiding director. All’inizio delnuovo millennio le società che avevano designato unlead director erano ancora poche ma nel 2003 rappresen-tavano già il 36 per cento delle società S&P 500; nel 2004la quota è volata all’85 per cento e nel 2005 ha raggiun-to il 94 per cento. Chiaramente, uno dei motori di que-sta tendenza è l’attuazione delle regole della Borsa percui deve essere un amministratore non esecutivo a pre-siedere le cosiddette executive sessions, cioè sessioni ese-cutive del consiglio riservate agli amministratori nonesecutivi. Questa regola incoraggia la nomina di un leaddirector che presieda le executive sessions ma non laimpone perché non è obbligatorio che lo stesso ammi-nistratore presieda tutte le sessioni.

La pressione esercitata dai sostenitori di una mag-gior indipendenza del consiglio di amministrazione aifini di una miglior corporate governance è senz’altropiù importante, ma non è finalizzata alla nomina di unlead director o presiding director di per sé, bensì rispecchial’auspicio di una chiara separazione, nella società, dellacarica di CEO da quella di presidente del consiglio diamministrazione.3 Per esempio, il Council of Indepen-dent Directors sostiene che i consigli di amministrazio-

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33.. Spencer Stuart, “A Closer Look at Lead and Presiding Directors”, Cor-nerstone of the Board, 1, n. 4, 2006, p. 1.

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ne debbano essere presieduti da amministratori indi-pendenti non esecutivi. E in gran parte, anche gli inve-stitori istituzionali sono del parere che il ruolo di CEOe di presidente del consiglio non dovrebbero essereaccorpati.4

Uno degli argomenti di corporate governance piùdibattuti tra coloro che considerano il consiglio diamministrazione uno strumento di controllo del mana-gement è la radicata tradizione americana per cui, nellastessa società, il CEO debba ricoprire allo stesso tempoanche il ruolo di presidente del consiglio di ammini-strazione: se quest’ultimo deve controllare i dirigenti èdavvero perverso che i controllori rispondano al CEOche sono incaricati di controllare. D’altro canto, se ilconsiglio di amministrazione deve svolgere una fun-zione manageriale e fornire consulenza strategica abeneficio della società, secondo il modello manageria-le dei consigli di amministrazione, è assolutamentelecito riunire il ruolo del CEO e quello del presidentedel consiglio.

Nel 70 per cento delle grandi società statunitensi, ilCEO è contemporaneamente anche presidente del con-siglio. Uno studio condotto nel 2005 dalla società diselezione del personale Spencer Stuart sui proxy state-ments, ossia le comunicazioni agli azionisti riguardol’ordine del giorno e le procedure di voto in vista del-l’assemblea, rivelò che se nel computo si includono ipresidenti dei consigli di amministrazione che hannorapporti formali con il management o gli ex CEO, soloil 9 per cento delle grandi società americane ha un pre-sidente del consiglio di amministrazione davvero indi-pendente dal management.5

Il lead director può assolvere una funzione simbolicama può anche offrire un prezioso contributo in unmomento di crisi, durante uno scandalo o una transizio-ne. Tuttavia, è del tutto inesatto pensare che un ammini-

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44.. Council of Institutional Investors, Council Policies, http://www.cii.or-g/policies/boardofdirectors.htm.

55.. Spencer Stuart, “A Closer Look at Lead and Presiding Directors”, p. 4.

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stratore esterno che assume sporadicamente il ruolo dilead o presiding director abbia la stessa autorità di ammi-nistratori che presiedono il consiglio su base continuati-va. La differenza è evidente: il presidente del consigliodi amministrazione è in cima all’organigramma dellasocietà. Il CEO, così come tutto il management, riferisceal presidente del consiglio. Per contro, il lead directorinterviene occasionalmente per gestire sessioni del CdAma non ha l’autorità continuativa di chi ha il potereeffettivo sul proprio consiglio di amministrazione.

A questo proposito, vale la pena sottolineare unadistinzione, per quanto minima, tra il ruolo di lead direc-tor e il ruolo di presiding director. In generale, si scegliedi designare un amministratore come presiding directorinvece che lead director per non dare adito alla supposi-zione che un amministratore goda di maggior autoritào prestigio rispetto agli altri. Secondo alcune ricercheeffettuate tra gli amministratori, si ritiene infatti che iltermine presiding director trasmetta maggior equanimi-tà.6 Inoltre, per enfatizzare la norma sull’uguaglianzatra gli amministratori molte società ruotano la posizio-ne di presiding director.

I fautori della nomina del lead director o presidingdirector quale intervento finalizzato a valorizzare la fun-zione di controllo del consiglio di amministrazione tra-scurano il fatto che sarebbe molto più efficace in talsenso la separazione della carica di CEO da quella dipresidente del consiglio. Per esempio, tralasciando perun momento il modello statunitense, il codice di bestpractice raccomanda alle società del Regno Unito nonsoltanto di separare il ruolo di CEO da quello di presi-dente del consiglio ma anche di nominare un seniorindependent director con responsabilità di rappresentareil parere degli amministratori indipendenti.

La differenza forse più marcata tra i consigli diamministrazione e gli organi legislativi risiede nell’as-senza di un’“opposizione”. Il concetto che i membri delparlamento siano in antagonistica competizione con l’e-

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66.. Spencer Stuart, “A Closer Look at Lead and Presiding Directors”, p. 9.

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secutivo è profondamente insito nella cultura delmondo politico, ma nemmeno la concezione più radica-le del ruolo di amministratori indipendenti si spinge alpunto da affermare che gli amministratori mirano arimuovere il management in carica tanto quanto i mem-bri dell’opposizione politica ambiscono a rimuoverepresidenti, primi ministri e altre figure al vertice esecu-tivo della politica.

In un tentativo posticcio di favorire una sostanzialeindipendenza, la Borsa ha inserito nelle regole di cor-porate governance per le società quotate un requisitorelativamente nuovo che impone agli amministratoriindipendenti di incontrarsi a porte chiuse in riunioniperiodiche dette executive sessions per promuovere unadiscussione aperta tra amministratori non esecutivi. Inrealtà, questa iniziativa è pura ipocrisia, visto che a que-ste executive sessions partecipano ex dirigenti, parentidegli attuali dirigenti e amministratori con rapportifinanziari materiali con la società.

La distinzione tra organi legislativi e consigli diamministrazione mette in luce i cambiamenti radicali alivello strutturale e organizzativo necessari per renderel’istituto del consiglio di amministrazione realmente esignificativamente efficace nella sua funzione di con-trollo del management societario. Non soltanto ne risul-terebbe radicalmente alterato il ruolo del consiglio ma ilvalore dello stesso come alleato strategico del manage-ment andrebbe inevitabilmente perduto. In altre parole,nell’ottica della corporate governance, dobbiamo sce-gliere se vogliamo creare società con un consiglio diamministrazione fatto da consulenti di fiducia o societàcon un consiglio composto da controllori efficaci.

Probabilmente, il modo migliore di concettualizzarela sostanziale differenza tra il consiglio di amministra-zione e altre istituzioni di controllo, quali gli organilegislativi, esige una disamina dal punto di vista deicosti di transazione. La teoria costituzionalista insegnache il sistema di controlli e contrappesi, nel quale rien-tra la separazione dei poteri, è concepito per incremen-tare i costi di transazione connessi alla formulazione

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della politica.7 Il problema di fondo che l’organizzazio-ne del governo si trova ad affrontare è il fatto che i legis-latori vengono assoggettati da gruppi di interessi cheoffrono supporto politico in cambio di “accordi” legis-lativi minori, contrari alla maggioranza e nell’interessespeciale di alcuni. Come sottolineato da Madison nelFederalist 10, «tra i numerosi vantaggi promessi daun’Unione ben strutturata, nessuno merita di esseresviluppato più accuratamente della tendenza a inter-rompere e controllare la violenza delle fazioni».8 Ladesiderabilità di una Costituzione come strumento percontrollare gruppi di interesse aumentando i costi ditransazione del governo era un tema dominante nel-l’ambito della strenua difesa della neo-proposta Costi-tuzione, contenuta nei Federalist Papers.

La predisposizione di un sistema di governance peril governo che aumenti i costi di transazione è saggiaperché, come disse Hamilton nel Federalist 78, a volte lavolontà del corpo legislativo «si contrappone allavolontà del popolo».9 Nella loro opera classica, The Cal-culus of Consent,10 James Buchanan e Gordon Tullockdimostrano che il sistema costituzionale basato sui con-trolli e contrappesi ha in effetti creato il requisito diun’elevata maggioranza nel processo deliberativo,incrementando così il costo del processo decisionale erallentando il processo legiferativo, oltre che riducendol’incidenza di qualsiasi legge, in particolare quelle chefavoriscono gruppi di interesse speciale.

Da questo punto di vista, la difficoltà di esportaretout court la struttura costituzionale concepita per unsistema di diritto pubblico in un sistema di corporate

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77.. Jonathan R. Macey, “Promoting Public-Regarding Legislation throughStatutory Interpretation: An Interest Group Model”, Columbia Law Review,86, 1986, p. 223.

88.. James Madison, The Federalist 10, a cura di C. Rossiter, 1961, p. 77.99.. Alexander Hamilton, The Federalist 78, a cura di C. Rossiter, 1961, p.

468.1100.. James M. Buchanan - Gordon Tullock, The Calculus of Consent: Logical

Foundations of Constitutional Democracy, Ann Arbor, University of MichiganPress, 1962 [ed. it. Il calcolo del consenso: fondamenti logici della democraziacostituzionale, Bologna, il Mulino, 1998].

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governance per società ad azionariato diffuso nel setto-re privato è evidente: nel settore privato l’obiettivo è diideare un sistema in cui il processo decisionale sia piùefficiente, non meno efficiente, mentre nel settore pub-blico gli obiettivi appropriati vengono definiti dalpopolo mediante il processo di deliberazione. Nel set-tore privato non c’è bisogno di deliberare perché tuttigli investitori condividono lo stesso obiettivo, ossia lamassimizzazione degli utili. Inoltre, nel settore pubbliconon c’è consenso su come valutare i risultati dei funzio-nari governativi. Eliminare la povertà, ridurre il deficitdi bilancio, proteggere l’ambiente e migliorare l’istru-zione sono obiettivi legittimi e auspicabili per un gover-no, mentre l’obiettivo di una società è la massimizzazio-ne del valore per gli azionisti: è questo lo scopo per cuisi costituiscono le società ed è questa la premessa concui si rastrella il capitale tra gli investitori.

L’obiettivo della massimizzazione degli utili è disto-nico rispetto agli interessi più ampi della società gene-rale soltanto nella misura in cui le attività associate allamassimizzazione del profitto generano esternalitànegative, ovvero costi sociali non coperti. L’inquina-mento ne è un tipico esempio. Laddove esistano taliesternalità, occorre un intervento legislativo governati-vo affinché il responsabile dell’azione inquinante siassuma i costi delle attività lucrative.

Alcune recenti iniziative di corporate governance,tra cui la legge Sarbanes-Oxley, sono sbagliate in par-tenza perché si basano sull’assunto che i consigli diamministrazione delle società per azioni possano esse-re organizzati o incentivati in modo da riuscire al con-tempo a controllare e gestire la società: l’evidenza teori-ca ed empirica dimostra che tutto ciò è infondato. Inaltre parole, nella fase di definizione di un sistema dicorporate governance è necessario che le contropartiscelgano se preferiscono che il consiglio di amministra-zione della società sia focalizzato sul controllo delmanagement o impegnato a collaborare col manage-ment nella definizione e attuazione delle politicheaziendali. Riconoscere quanto sia essenziale scegliere

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tra un consiglio “manageriale” e un consiglio “control-lante” genera quattro importanti riflessioni sulla naturadella corporate governance.

Innanzitutto, l’analisi condotta fin qui offre uninquadramento teorico al fatto empirico che un consi-glio indipendente non migliora la performance dellasocietà e che i consigli con troppi amministratori nonesecutivi potrebbero invero avere un impatto negativosulla performance della società.11 In un’approfonditaanalisi economica degli effetti della Sarbanes-Oxley,Roberta Romano osserva che nessuno dei numerosistudi che prendono in esame una serie di indici di con-tabilità e performance del mercato o parametri per laverifica delle strategie di investimento e della produtti-vità dei cespiti è riuscito a dimostrare una qualsivogliacorrelazione tra l’indipendenza del consiglio e la per-formance.12 In realtà, i più famosi studi in campo socio-logico suggeriscono che l’attuale tendenza a tenere solouno o due amministratori interni in seno al consigliopotrebbe rivelarsi controproducente. Sanjai Bhagat eBernard Black, per esempio, rilevano che società con un“numero moderato” (da tre a cinque) di amministrato-ri interni in un consiglio di amministrazione di mediedimensioni (undici amministratori) tende a essere piùproficuo rispetto a società con solo uno o due ammini-stratori interni.13

Queste conclusioni sono in sintonia con la teoria del-l’assoggettamento del consiglio di amministrazioneesposta in questo libro. Gli amministratori esterni inCdA con 3-5 amministratori interni hanno accesso a piùfonti di informazioni interne rispetto ad amministrato-ri esterni in consigli con solo 1-2 amministratori interni;il maggior numero di amministratori interni riduce la

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1111.. Sanjai Bhagat - Bernard Black, “The Uncertain Relationship betweenBoard Composition and Firm Performance”, Business Lawyer, 54, 1999, p.921.

1122.. Roberta Romano, “The Sarbanes-Oxley Act and the Making of QuackCorporate Governance”, Yale Law Journal, 114, 2005, p. 1530.

1133.. Sanjai Bhagat - Bernard Black, “The Uncertain Relationship betweenBoard Composition and Firm Performance”, p. 3.

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possibilità che il CEO razioni o distorca le informazionifornite al consiglio. La presenza di più senior managerspermette agli amministratori esterni di valutare inprima persona le dinamiche personali all’interno delgruppo manageriale e colloca gli amministratori esterniin una posizione più favorevole per decidere in meritoalla successione al CEO, poiché a quel punto gli ammi-nistratori esterni avranno dati di prima mano sui possi-bili candidati interni.

Dalla nostra analisi non si deduce che sia inoppor-tuno avere amministratori realmente indipendenti; laquestione è più sottile: riteniamo fuorviante l’attualetendenza a caldeggiare il ricorso agli amministratoriindipendenti come una sorta di panacea nella sferadella corporate governance. Puntare i riflettori sugliamministratori distoglie l’attenzione da soluzioni dimercato al problema del controllo, che con ogni proba-bilità sono molto più efficaci. L’evidenza teorica e aned-dotica presentata dimostra che i consigli di amministra-zione non soltanto sono altamente esposti all’assogget-tamento, sono anche immuni da qualsiasi seria minac-cia di responsabilità personale per il proprio operato.Sembra che questo non sia del tutto negativo: tenere gliamministratori indenni dalla responsabilità li rendeimmuni dall’errore del giudizio retrospettivo, ovverodall’essere ritenuti responsabili di decisioni aziendaliprese in tutta onestà che si rivelano sbagliate a poste-riori. Riconoscendo che i consigli di amministrazionesono con ogni probabilità inefficaci nel controllare ilmanagement, il sistema statunitense di corporategovernance tratta i consigli di amministrazione perquello che in larga parte sono: buoni amici e confidentidel management. Nonostante la facciata costituita daguru accademici della corporate governance, per nonparlare di manager, funzionari di Borsa e politici, i con-sigli di amministrazione semplicemente non incarnanol’organo di controllo esterno, assolutamente indipen-dente, su cui gli investitori desiderano poter contareaffinché sorvegli con rigore i vertici aziendali.

Ironicamente, l’affermazione “più amministratori

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esterni ci sono e meglio è” esprime l’essenza delle bestpractices nell’ambito della corporate governance. Latendenza ha evidenziato la formazione di consigli “asupermaggioranza indipendente” con un unico o almassimo due amministratori interni. L’analisi condottain questo libro dimostra che questi “consigli a super-maggioranza” non contribuiscono a migliorare la per-formance societaria.

In secondo luogo, se si analizza con attenzione il van-taggio relativo del concetto di consiglio di amministra-zione come organo gestionale si riuscirà a chiarire ecapire meglio cosa dovrebbero fare gli amministratori ecome dovrebbe essere valutata la loro performance. Se siritiene che gli amministratori debbano essere controllo-ri efficaci della performance della società, il loro obietti-vo dovrebbe essere la prevenzione di frodi e l’elimina-zione di transazioni in conflitto di interesse, ed è su que-sto fronte che dovremmo valutare la loro condotta. Inalternativa, se si ritiene che gli amministratori debbanolavorare fianco a fianco con il management nella gestio-ne d’impresa, il valore aggiunto dagli amministratoridovrebbe manifestarsi sotto forma di un contributo dialta qualità strategica all’attività decisionale.

I compromessi in gioco sono piuttosto tangibili. Peresempio, la rinnovata enfasi sulla funzione di controllodei consigli di amministrazione a spese della funzionemanageriale ha provocato uno “smottamento sismico”nella composizione del consiglio, caratterizzato tra l’al-tro da una drastica riduzione nella percentuale dei CEOche fanno parte di consigli di amministrazione di altresocietà.14 Prima dell’era Enron, agli amministratori sichiedeva di aiutare i CEO a gestire la società e i CEOdelle altre società erano ritenuti la miglior fonte di com-petenza ed esperienza per i senior managers. In queglianni, «almeno la metà degli amministratori di unasocietà qualsiasi operavano come CEO in altre. Alta-mente apprezzati per la loro ampia esperienza manage-

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1144.. Dennis C. Carey - Nayla Rizk, “Seismic Shift in Board Composition”,Spencer Stuart Governance Letter, terzo trimestre, 2005, p. 37.

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riale, per l’apertura mentale e la conoscenza delle sfideaziendali del momento, i CEO in carica erano inevita-bilmente i candidati ideali in qualsiasi selezione peruna posizione da amministratore».15 Le novità legislati-ve, quali la legge Sarbanes-Oxley, e l’introduzione dinuovi requisiti per la quotazione in Borsa all’insegna diuna maggior indipendenza e di una maggior responsa-bilità di controllo da parte del consiglio, hanno resomeno desiderabile per i CEO la nomina in un consigliodi amministrazione. Secondo alcuni esperti “cacciatoridi CEO”, «sono cattive notizie per le società, che hannosolo da guadagnare dall’esposizione del proprio CEOad altri settori, altre tematiche industriali e diversi stilidi leadership grazie all’esperienza in altri consigli diamministrazione».16

La generazione di amministratori post-Enron saràprobabilmente meno valente della precedente nell’as-solvimento della funzione manageriale, ma al contem-po non c’è motivo di ritenere che la nuova generazioneavrà più successo nell’adempimento delle proprieresponsabilità di controllo. La nuova generazione diamministratori viene reclutata a livelli più bassi negliorganigrammi delle società e tra le fila dei CEO in pen-sione piuttosto che tra quelli attivi, che potrebbero nonavere la sicurezza o gli strumenti per fronteggiare iCEO della società in cui operano.

In terzo luogo, riconoscere che è fondamentale rag-giungere un compromesso tra controllo e gestionesignifica riconoscere il ruolo determinante degli azioni-sti nella definizione della corporate governance appro-priata per le società quotate. Le società sono diverse leune dalle altre, e diverse sono anche le esigenze in ter-mini di corporate governance; in alcune aziendepotrebbe essere preferibile un consiglio composto diamministratori specializzati nel controllo, in altre piùopportuno un consiglio con amministratori specializza-

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1155.. Dennis C. Carey - Nayla Rizk, “Seismic Shift in Board Composition”,p. 37.

1166.. Dennis C. Carey - Nayla Rizk, “Seismic Shift in Board Composition”,p. 37.

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ti nella gestione. Pertanto, è senz’altro consigliabile chea definire la job description degli amministratori di unasocietà per azioni sia una contrattazione privata e nonuna norma di legge standardizzata.

Sull’onda di quanto sopra, un vantaggio dell’ordi-namento del settore privato nel determinare la compo-sizione dei consigli di amministrazione è che esso puòadeguarne la composizione per massimizzare l’efficaciadei meccanismi complementari di corporate governan-ce. Per esempio, le società soggette a severa valutazio-ne esterna da parte dei mercati (perché sono società adazionariato diffuso e il controllo può facilmente passa-re di mano) potrebbero aver meno bisogno di esserecontrollate dagli amministratori rispetto a società adazionariato ristretto, dove il controllo è meno espugna-bile. Ne consegue che società con solidi meccanismiprotettivi anti-scalata, quali le cosiddette poison pills (opillole avvelenate, descritte nel capitolo seguente) e iconsigli di amministrazione con mandati scaglionati,hanno più probabilità di avere amministratori esternipiù indipendenti rispetto a società che non hanno unarsenale di strumenti anti-scalata.

Infine, riflessione più importante, il riconoscimentodell’importanza di trovare un compromesso tra gestionee controllo e l’onnipresente problema dell’asservimentoinduce a pensare che potrebbe essere assolutamentelogico per gli azionisti preferire un ottimo consiglio diamministrazione sul piano della consulenza manageria-le alla dirigenza a discapito del controllo continuativo.In particolare, fintanto che gli azionisti esterni riesconoa fare affidamento su meccanismi di mercato obiettiviquali il mercato del controllo societario, gli arbitraggisti,i gestori di hedge fund e altri strumenti di controllo, ilcosto di un consiglio di amministrazione di improntamanageriale invece che controllante potrebbe esserepiuttosto irrisorio. Gli strumenti di controllo alternativicitati sono meno esposti all’assoggettamento perchéoperano a maggior distanza dal management, e la mag-gior distanza porta con sé una maggiore obiettività, chea sua volta migliora il controllo.

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Il consiglio di amministrazione è generalmente vistocome l’epicentro della corporate governance. Due deipiù illustri protagonisti della scena internazionale nel-l’ambito della corporate governance, Adrian Cadbury eIra Millstein, hanno descritto il consiglio di amministra-zione come «pietra miliare dell’intero paradigma dellacorporate governance».17 L’analisi condotta in questocapitolo aiuta a comprendere perché non è sorprenden-te che i manager non si siano opposti ai richiami delleBorse valori, su spinta della SEC, verso una maggiorindipendenza e il rafforzamento dei comitati di revisio-ne, di retribuzione e di nomina. In sintesi, queste inizia-tive non hanno ridotto l’incidenza dell’assoggettamentodel consiglio di amministrazione, non sono riuscite amettere sotto pressione il CEO né a migliorare la qualitàdel controllo; infine, certamente non hanno contribuito aridimensionare la remunerazione del CEO.

Al contrario, i riflettori sul consiglio di amministra-zione hanno concorso ad aumentare l’autonomia mana-geriale e a distogliere l’attenzione da altre soluzionipotenzialmente più efficaci per ottenere un controlloaffidabile e obiettivo dei vertici aziendali. Per esempio,come dimostrerà il capitolo seguente, l’ipotesi che gliamministratori possano svolgere una funzione allostesso tempo di controllo e di gestione fornisce un’im-plicita giustificazione all’attuale regime normativo, incui agli amministratori è stata lasciata la più ampialibertà di determinare quali manovre difensive sianoconsentite a una società di fronte a un’offerta ostile diacquisto. Questo potere deriva dal presupposto che gliamministratori non sono soltanto validi dirigenti, nelsenso che sono in grado di valutare le offerte esterneper la società, ma anche controllori efficienti, nel sensoche sono in grado di valutare le prospettive future delmanagement in carica con altrettanta obiettività rispet-to agli offerenti esterni.

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1177.. Adrian Cadbury - Ira Millstein, “The New Agenda for ICGN”, Inter-national Corporate Governance Network 2005 Yearbook, pp. 5, 7.

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In questo capitolo si considera in che misura possia-mo ragionevolmente affidarci a istituzioni formali,governative e semi-governative, per la formulazione diregole di corporate governance veramente utili. Leprincipali istituzioni di corporate governance sono laSecurities and Exchange Commission (SEC), le Borsevalori e le agenzie di rating del credito. Tutte e tre sisono rivelate una notevole delusione. Purtroppo, imotivi di questa delusione appaiono strutturali, e perquesto difficili da sanare. In particolare, nessuna di que-ste istituzioni è significativamente motivata dal merca-to a promulgare regole di corporate governance chetendano a massimizzare il valore per gli azionisti. Inquanto organismi burocratici, sono incentivati a proteg-gere il loro “orticello” e ad accrescere le entrate. Non vaneppure ignorata l’inevitabile propensione di questisoggetti a lasciarsi assoggettare.

La Securities and Exchange CommissionLa SEC è un ente amministrativo che svolge un

ruolo sempre più attivo nella corporate governance. Peresempio, alla fine del 2005 ha notificato a tre consiglie-ri di amministrazione di alto profilo l’intenzione dicitarli in giudizio per non avere individuato la frodeperpetrata da Conrad Black alla Hollinger Corporation.Si tratta di James R. Thompson, Richard R. Burt e

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Capitolo 7

Istituzioni esterne formali di corporate governance

Il ruolo della Securities and ExchangeCommission, delle Borse valori

e delle agenzie di rating del credito

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Marie-Josée Kravis, i tre membri del comitato per larevisione del consiglio di amministrazione della Hollin-ger dal 1998 all’ottobre 2003.1

Come scrive il New York Times nel resoconto sulleattività della SEC, «se la SEC davvero intentasse unacausa civile contro Thompson, Burt e Kravis, sarebbeun tentativo insolito di chiamare degli amministratoriindipendenti a rispondere del fatto di non aver vigila-to abbastanza su una sospetta frode. Nessuno dei treconsiglieri ha ricevuto denaro in relazione ai paga-menti che sono oggetto di varie azioni legali contro ilcofondatore della Hollinger Conrad M. Black e i suoiassociati».2 In un rapporto interno di un comitato spe-ciale del consiglio della Hollinger, redatto sotto ladirezione di Richard C. Breeden, ex presidente dellaSEC, si legge che la commissione di controllo eracaratterizzata da una «inspiegabile e quasi totale man-canza di iniziativa, di diligenza e di indipendenza dipensiero» che ha portato «al saccheggio arrogante eaggressivo» della società.3

La decisione della SEC nel perseguire i tre consi-glieri di amministrazione con una causa civile è unchiaro esempio dello spostamento di tale ente dal suoruolo tradizionale di controllo dei mercati finanziari edi promozione della comunicazione trasparente dellesocietà ad azionariato diffuso verso il suo ruolonuovo, anche se arbitrario, di guardiano della corpo-rate governance.4 La SEC ha capito che porre l’accentosulla corporate governance è una strategia politicaefficace. Malgrado le sue stesse carenze in fatto di cor-

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11.. Thompson è stato governatore dell’Illinois e partner dello studio legaleWinston and Strawn; Burt è stato ambasciatore degli Stati Uniti in Germa-nia; Kravis è la moglie del finanziere Henry R. Kravis ed è membro del con-siglio di amministrazione di Ford Motor e IAC/InterActive Corp.

22.. Richard Siklos, “S.E.C. Puts Three Hollinger Directors on Notice”, NewYork Times, 15 dicembre 2005, C1.

33.. Richard Siklos, “S.E.C. Puts Three Hollinger Directors on Notice”, C2.44.. Vedi Business Roundtable v. SEC, 905 F.2d 406, D.C. Cir. 1990, causa

legata al tentativo da parte della SEC di impedire alle Borse valori di quotaresocietà che limitavano il diritto di voto per azione agli azionisti già in posses-so di azioni ordinarie.

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porate governance5 e il suo scarso successo nell’attivi-tà di regolamentazione, negli ultimi anni la SEC è stataenormemente premiata negli unici due modi che interes-sano veramente agli enti normativi: consistenti aumentidelle sovvenzioni e ampliamento significativo dei poteri.

Durante l’ondata di scandali che ha scosso l’Americaimprenditoriale e Wall Street (Enron, WorldCom, GlobalCrossing, Adelphia, Tyco, Waste Management e Sun-beam, solo per citarne alcuni), le prestazioni della com-missione si possono definire, con la massima benevolen-za, quantomeno “anemiche” per ogni aspetto della suamissione. La SEC non è riuscita a prevedere queste crisio almeno ad affrontarle con decisione, né ha operato conefficacia nelle sue principali aree di competenza – infor-mativa e regolamentazione dei mercati dei capitali –come risulta evidente dagli scandali concernenti il markettiming dei fondi d’investimento e le contrattazioni ritar-date, i conflitti di interessi degli analisti mobiliari, le pra-tiche di spinning e laddering in occasione di offerte pub-bliche iniziali e lo sfacelo della corporate governance nelmercato mobiliare. In ciascuna di queste aree, la SEC èstata spinta a intervenire non già di sua iniziativa, bensìper fornire una timida risposta alle iniziative più energi-che del procuratore generale di New York Eliot Spitzer.

Nonostante i suoi insuccessi, nel periodo 2001-2004il bilancio della SEC è più che raddoppiato, passandoda 422,8 a 913 milioni di dollari, tra cui è degno di notaun consistente aumento di bilancio di 100 milioni didollari nell’esercizio fiscale 2003. Benché la SEC non siastato il solo ente federale a ricevere aumenti di budgetin quel periodo, è stato comunque l’unico a beneficiaredi incrementi sostanziosi sia nel 2003 che nel 2004.6

Chiamato a testimoniare dinanzi alla Sottocommissione

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55.. Vedi Stephen Taub, “GAO Criticizes SEC Internal Controls”, 23 novem-bre 2005, http://www.cfo.com/article.cfm/5213245?f=search, consultato 13gennaio 2008.

66.. Susan Dudley - MelindaWarren, “Regulatory Spending Soars: An Analy-sis of the U.S. Budget for Fiscal Years 2003 and 2004”, rapporto annuale,luglio 2004, pp. 14-19, http://wc.wustl.edu/Reg_Budget_final.pdf, consultato 9agosto 2004.

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per gli Stanziamenti commercio-giustizia-Stato dellaCamera dei Rappresentanti, l’allora presidente dellaSEC William Donaldson affermò che la richiesta di841,5 milioni di dollari presentata dal presidente Bushnell’esercizio fiscale 2004 «riconosce che le esigenzedella SEC sono in costante crescita».7 Secondo Donald-son, quel finanziamento concesso alla SEC «ci avrebbeconsentito di rispettare le nuove scadenze imminentidel Sarbanes-Oxley Act, di effettuare oltre 800 nuoveassunzioni [e] anticipare i fondi iniziali di start-up alPublic Company Accounting Oversight Board(PCAOB)».8 La richiesta di 893 milioni di dollari per laSEC nel bilancio 2005 superava del 10 per cento il livel-lo del 2004, con un aumento di 81 milioni di dollari.9 Ladotazione di bilancio a favore della SEC per l’eserciziofiscale 2004 ha rappresentato il maggiore incrementonella storia dell’ente federale, che ha quasi raddoppiatoil proprio bilancio rispetto ai livelli dell’esercizio fiscale2002. Le risorse furono utilizzate per assumere nuovicontabili, avvocati e analisti «per tutelare gli investitorie combattere gli illeciti societari».10 Questi smisuratiaumenti di bilancio vennero fortemente sostenuti dal-l’Investment Company Institute (ICI) e dalla SecuritiesIndustry Association (SIA), i principali gruppi di inte-resse che rappresentano rispettivamente il settore dei

192

Corporate governance

77.. Commissione per gli Stanziamenti del Senato degli Stati Uniti, Bollettinodella Sottocommissione, 8 aprile 2003, http://appropriations.senate.gov/text/sub-committees/record.cfm?id=203432, consultato 22 febbraio 2005.

88.. Commissione per gli Stanziamenti del Senato degli Stati Uniti, Bolletti-no della Sottocommissione, 8 aprile 2003.

99.. In realtà, il budget richiesto dalla SEC per il 2005 ammontava a 913milioni di dollari, il 12,5 per cento in più del bilancio autorizzato nel 2004.Si trattava di 893 milioni di dollari da imputare al nuovo bilancio e di 20milioni per anticipi riportati dall’anno precedente. Tale richiesta di budget, laprima concepita dal presidente Donaldson dal suo insediamento nel febbraio2003, permise all’ente di assumere 106 nuovi impiegati. Comunicato stam-pa, SEC, “SEC Releases FY 2005 Budget Information”, http://www.se-c.gov/news/press/2004-11.htm, consultato 9 agosto 2004.

1100.. Comunicato stampa, Segreteria del Ministero delle Comunicazioni,“Fact Sheet, Restoring Economic Confidence and Tackling CorporateFraud”, 11 gennaio 2003, http://www.whitehouse.gov/news/releases/2003/01-/20030111-1.html, consultato 24 luglio 2004.

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fondi d’investimento e il settore mobiliare.Quando il Congresso approvò il Pay Parity Act nel

2001, il personale della SEC beneficiò dei massimiaumenti retributivi mai concessi a un ente amministra-tivo del governo statunitense. La Commissione ServiziFinanziari della Camera dei Rappresentanti votò afavore dell’aumento delle retribuzioni alla SEC allaprima sessione, portando le retribuzioni del personaledella SEC allo stesso livello dei dipendenti del FederalReserve Board e del Comptroller of the Currency.11

In un’ottica di corporate governance, questi enormiaumenti di budget e di stipendio appaiono quantome-no anomali. Secondo la maggioranza degli osservato-ri, i risultati della SEC erano pessimi.12 Eliot Spitzerosservò addirittura che alla SEC avrebbero dovuto«cadere delle teste» per la mancata individuazione diilleciti nel settore dei fondi d’investimento come inaltri, e per il mancato intervento al riguardo.13 Natu-ralmente queste critiche sembrano in contraddizionecon gli aumenti di retribuzione e di potere che caratte-rizzano la risposta del Congresso agli insuccessi dellaSEC. Più in generale,

quando la performance non è all’altezza delle aspetta-tive, le imprese soggette alle forze del mercato nelmigliore dei casi si contraggono, ma talvolta decadonoe muoiono. In altre parole, il mercato punisce l’insuc-cesso nel settore privato, piuttosto che premiarlo. La

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Istituzioni esterne formali di corporate governance

1111.. Investor and Capital Markets Fee Relief Act, Public Law 107-123, artt. 8,115 Stat. 2390, 2398, 2002. Vedi anche Securities and Exchange Commis-sion, “Pay Parity Implementation Plan and Report”, 6 marzo 2002,http://www.sec.gov/news/studies/payparity.htm.

1122.. John C. Coffee Jr., “A Course of Inaction: Where Was the SEC Whenthe Mutual Fund Scandal Happened?”, 2004-APR Legal Aff. 46, 49, 2004,in cui viene discussa l’inerzia della SEC nel fronteggiare la crisi dei fondicomuni di investimento; Jonathan R. Macey, “Administrative Agency Obso-lescence and Interest Group Formation: A Case Study of the SEC at Sixty”,Cardozo Law Review, 15, 1994, pp. 948-949.

1133.. “Senators Slam SEC in Funds Scandal”, 3 novembre 2003,http://www.cbsnews.com/stories/2003/11/04/national/main581683.shtml; vedi anche“Senators Blast SEC over Mutual Fund Trading Scandal”, 3 novembre 2003,http://www.usatoday.com/money/perfi/funds/2003-11-03-fund-hearing_x.htm.

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recente ondata di scandali, in particolare nei settori deifondi d’investimento e dell’analisi di mercato, difficil-mente può essere considerata un successo per la Secu-rities and Exchange Commission. Semmai fosse neces-sario, la recente serie di scandali si può considerarecome un’ulteriore prova del fatto che gli enti ammini-strativi non sono soggetti alle stesse pressioni darwi-niane delle aziende del settore privato […]. La crisi difiducia nei mercati dei capitali statunitensi è andata achiaro vantaggio della SEC in generale.14

Gli aumenti ingiustificati in termini di bilancio e diretribuzioni alla SEC sono due ulteriori esempi dellacrescente politicizzazione delle istituzioni di corporategovernance, secondo un processo che ha ampiamentepremiato prestazioni invece carenti. Comunque la sipensi in merito agli aumenti delle retribuzioni e deipoteri della SEC è chiaro che questi cambiamenti nonrappresentano un premio per i risultati. Nel miglioredei casi si può dire che la SEC, come le società di revi-sione e le agenzie di rating del credito, viene premiatamalgrado la sua incapacità di proteggere gli investitorio di promuovere l’interesse pubblico.

Ovviamente, il punto non è che procuratori generaliattivi come Eliot Spitzer sono “i buoni” e la SEC è pienadi “cattivi”. Piuttosto, il punto è che si tratta in entram-bi i casi di istituzioni politiche che rispondono a loromodo a pressioni e vincoli politici. L’attivismo impren-ditoriale di Eliot Spitzer ha modificato le vecchie rego-le del gioco in base alle quali operava la SEC: per moltianni, la sua strategia è stata quella di agire nel silenzioe di non fare molto, salvo contribuire alla formazione dicartelli nel settore mobiliare e all’aumento della doman-da di avvocati esperti in titoli e di altri gruppi interes-sati a sostenerla. Questo è stato l’operato di un ente chepreferiva agire fuori dalle luci della ribalta. Il contribu-to attivo di Spitzer ai mercati dei capitali è stato quellodi spostare gli intensi riflettori della politica sull’attivi-

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Corporate governance

1144.. Jonathan R. Macey, “Wall Street in Turmoil: State-Federal RelationsPost-Eliot Spitzer”, Brooklyn Law Review, 70, 2004, pp. 120-121.

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tà della SEC, chiarendo che se la SEC non avesse rispo-sto ai sentimenti populisti, l’avrebbe fatto lui. Colta daimbarazzo e stupore, la SEC ha risposto con una nuovaera di attivismo, cercando di appropriarsi dell’ottimopulpito di Eliot Spitzer, o almeno di condividerlo. Iltemporaneo successo di Spitzer ha ispirato diversi imi-tatori, da Andrew Cuomo a New York, subentrato aSpitzer in qualità di procuratore generale dello Stato, adaltri aspiranti politici in tutta la nazione.

La proposta della SEC sull’accesso degli azionisti Nel 2003, con la Rule 14a-1115 la SEC propose un

importante cambiamento in merito alla capacità deglioutsider di accedere al meccanismo delle nomine socie-tarie. Se approvata, questa norma avrebbe consentitoagli azionisti esterni in possesso dei requisiti di richie-dere alle società nelle quali detenevano delle partecipa-zioni azionarie di inserire nella scheda elettorale unloro candidato, accanto ai candidati della società stes-sa.16 Inoltre, la norma avrebbe imposto alle società inte-ressate di pubblicare la dichiarazione a sostegno delcandidato.

La nuova disposizione consentiva ai gruppi diazionisti questo tipo di accesso al meccanismo delledeleghe solo qualora si fossero verificati uno o dueeventi scatenanti. Il primo è che fosse approvata dallamaggioranza degli azionisti una proposta di autoriz-zare le candidature promosse dagli azionisti, messa aivoti ai sensi della Rule 14a-8 della SEC. Il secondoevento scatenante era che almeno il 35 per cento deltotale degli azionisti aventi diritto di voto in un’ele-zione societaria scegliesse di negare al consiglio di

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Istituzioni esterne formali di corporate governance

1155.. “Exemption from Shareholder Approval for Certain Subadvisory Con-tracts”, Registro federale n. 61720, vol. 68, 29 ottobre 2003.

1166.. L’accesso ai proxy statements della società è riservato agli azionisti in pos-sesso dei seguenti 4 requisiti: 1) il possesso di più del 5 per cento di azioni divoto, detenute senza interruzione per almeno due anni; 2) il rilascio di unadichiarazione di intenti a continuare a detenere il numero di titoli richiestifino alla data dell’assemblea; 3) il titolo a dichiarare le partecipazioni detenu-te nello Schedule 13G piuttosto che 13D; 4) il deposito dello Schedule 13Gprima che la candidatura venga sottoposta alla società.

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amministrazione in carica l’autorità di decidere inmateria di deleghe.17 Se si fosse verificato uno di que-sti due eventi, alla successiva assemblea annuale perl’elezione dei membri del consiglio di amministrazio-ne i candidati degli azionisti dovevano essere inseritinella scheda di voto e nel relativo proxy statement,ossia la comunicazione allegata alle deleghe di voto.18

Come ho già osservato, questa proposta inefficacerispecchiava «il disperato tentativo [della SEC] di riac-quistare il controllo dell’agenda normativa»19 nellaregolamentazione dei mercati dei capitali.

Se lo volesse, la SEC potrebbe approvare regole divoto in grado di migliorare la qualità della corporategovernance riducendo le possibilità per il managementin carica di impedire agli azionisti di votare su propostedella direzione, quali le poison pills, o pillole avvelenate,che ostacolano il mercato del controllo societario. Nellospecifico, la SEC ha negato il sostegno al regolamentosui diritti degli azionisti, che consentirebbe agli investi-tori di approvare regolamenti societari che imponganoai membri del consiglio di amministrazione di permet-tere agli azionisti di votare sull’opportunità che la socie-tà non utilizzi strumenti anti-acquisizione, come le poi-son pills, se riceve un’offerta completamente finanziataper l’acquisizione in contanti di tutte le sue azioni circo-lanti a un prezzo sostanzialmente sopra la pari.20

Sulla stessa falsariga, le esplicite disposizioni conte-nute nelle norme proposte dalla SEC che rendonoimpossibile per gli azionisti sostituire una maggioranzadi amministratori in carica sono fondamentali per capi-re la proposta della SEC in merito alle nomine dei mem-bri del consiglio di amministrazione. Secondo tale pro-

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Corporate governance

1177.. “Exemption from Shareholder Approval for Certain Subadvisory Con-tracts”.

1188.. Securities and Exchange Commission, Security Holder Director Nomi-nations, Exchange Act Release No. 34-48626, presentato il 14 ottobre 2003,http//www.sec.gov/rules/proposed34-48626.htm.

1199.. Jonathan R. Macey, “Securities and Exchange Nanny”, Wall Street Jour-nal, 30 dicembre 2003, A10.

2200.. Jonathan R. Macey, “The Legality and Utility of the Shareholder RightsBylaw”, Hofstra Law Review, 26, 1998, p. 837.

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posta, un candidato nominato dagli azionisti deveessere un amministratore indipendente ai sensi deirequisiti di legge per la quotazione in Borsa applicabi-li all’emittente e inoltre deve essere indipendente rispet-to agli azionisti che lo nominano. Quindi un candidato,a prescindere da quanto sostegno riceva dagli azionisti,non può essere affiliato a un gruppo esterno che cerchidi acquisire il controllo del consiglio. Inoltre, è possibilenominare un solo candidato se il consiglio ha meno dinove membri, o due candidati se gli amministratorivanno da nove a diciannove e si escludono dal voto duecandidati proposti dal management. Il numero di candi-dati arriva a un massimo di tre se il consiglio è compo-sto da almeno venti membri e si escludono dal voto trecandidati proposti dal management.21 Di conseguenza,ai sensi della proposta SEC, gli azionisti possono sosti-tuire solo i due noni del consiglio, vale a dire moltomeno della maggioranza richiesta per il controllo. Eanche con questa pallida versione di controllo, la com-petizione è annacquata ulteriormente dal fatto cheoccorrono due cicli elettorali per eleggere un candidatodegli azionisti, perché la prima elezione serve per otte-nere i voti necessari per indire un’elezione nell’annosuccessivo. L’intervallo di tempo si allunga ulteriormen-te, perché per nominare un candidato al consiglio gliazionisti e i relativi gruppi devono possedere oltre il 5per cento dei titoli dell’emittente da almeno due anni.22

Quindi, non si può dire che la norma proposta dallaSEC rafforzi il vacillante mercato del controllo societa-rio, perché non serve a favorire un passaggio di con-trollo. Piuttosto, come già osservato in precedenza, laproposta della SEC è un «tentativo malamente masche-rato [della SEC] di collegarsi a nuovi sostenitori: fondipensione di interesse pubblico e altri gruppi di azioni-sti “attivisti”, le cui preferenze e agende probabilmente

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Istituzioni esterne formali di corporate governance

2211.. “Exemption from Shareholder Approval for Certain Subadvisory Con-tracts”, 60797-98.

2222.. “Exemption from Shareholder Approval for Certain Subadvisory Con-tracts”, 60799.

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non rispecchiano la causa della massimizzazione degliutili abbracciata dall’investitore medio».23

La norma della SEC sull’indipendenza del presidentedel consiglio di amministrazione di fondi d’investi-mento

Un altro esempio della nuova SEC post-Enron: il 23giugno 2004, con tre voti favorevoli e due contrari, laSEC stabilì che i presidenti dei consigli di amministra-zione di fondi d’investimento devono essere indipen-denti rispetto ai consulenti degli stessi fondi.24 Il com-missario Cynthia Glassman commentò sulla totalemancanza di motivazioni empiriche o teoriche per que-sta proposta.

Molti dei fondi più quotati, grazie a rendimenti eleva-ti a fronte di oneri ridotti, hanno presidenti interni. Èun dato di fatto. Perché dovremmo dire agli azionistiche non possono più contare sulla forma di governan-ce che ha prodotto risultati così positivi? E poi, perchédovremmo chiedere loro di pagare per questo? Nonc’è dubbio che quest’obbligo influirà sulle spese delfondo. Non ci si può aspettare che un presidente indi-pendente abbia una conoscenza diretta delle attivitàdel fondo, e nella maggior parte dei casi non sarà così.Quindi, per operare con efficienza, la presidenzadovrà assumere del personale. E questa spesa sarà acarico degli azionisti, così come i probabili costiaggiuntivi della presidenza indipendente. Insomma, ivantaggi sono illusori, mentre i costi sono reali.25

Inoltre, il commissario Glassman rilevò che il pre-supposto della norma per cui i fondi d’investimentocon un presidente indipendente avrebbero avuto rendi-

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Corporate governance

2233.. Jonathan R. Macey, “Wall Street in Turmoil”, p. 136.2244.. “Disclosure Regarding Approval of Investment Advisory Contracts by

Directors of Investment Companies”, 17 C.F.R. artt. 239, 240, 274, Registrofederale n. 39798, vol. 69.

2255.. Cynthia A. Glassman, “Statement by SEC Commissioner RegardingInvestment Company Governance Proposal”, dichiarazione per la seduta diapertura della Securities and Exchange Commission, 23 giugno 2004,http://www.sec.gov/news/speech/spch062304cag.htm.

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menti più elevati e costi generali e amministrativi infe-riori rispetto ai fondi con presidenti interni non trovaalcun riscontro empirico.26 Come osservato in prece-denza,

come nel caso della norma proposta dalla SEC sull’ac-cesso degli azionisti alle elezioni, nel promulgare lanorma sull’indipendenza del presidente la SEC pareinteressarsi molto meno, rispetto al passato, al benes-sere degli azionisti e alla qualità dei mercati dei capi-tali statunitensi. A quanto pare, la preoccupazione perla qualità degli investitori e dei mercati dei capitalistatunitensi è stata sostituita da un’agenda normativache prevede la formulazione di norme orientate afavore di gruppi di interesse particolari.27

Nello scenario post-Enron, la SEC, che è pur sempreun organismo burocratico interessato a ottenere il mas-simo sostegno politico, è guidata da considerazionipolitiche piuttosto che di policy aziendale nel deciderequali nuove regole di corporate governance dovrebbe-ro essere promulgate e come dovrebbero essere appli-cate le norme esistenti. Invece di servirsi dei suoi pote-ri interpretativi e di regolamentazione per promulgarenormative che migliorino il funzionamento del mercatodel controllo societario o incoraggino le offerte pubbli-che iniziali, la SEC ha scelto di impegnare le sue risorsein misure cosmetiche, come l’accesso degli azionisti allevotazioni e la presidenza indipendente del consiglio diamministrazione dei fondi d’investimento. Gli uniciinteressi che queste misure perseguono sono quellidella SEC.28

Il successo della SEC nel procurarsi maggiori risorsesotto forma di stanziamenti di bilancio più consistentinon significa necessariamente che il potere e il prestigiodell’ente siano aumentati sulla scia degli scandali socie-

199

Istituzioni esterne formali di corporate governance

2266.. Cynthia A. Glassman, “Statement by SEC Commissioner RegardingInvestment Company Governance Proposal”.

2277.. Jonathan R. Macey, “Wall Street in Turmoil”, p. 137.2288.. John C. Coffee Jr., “A Course of Inaction”.

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tari che hanno scosso Wall Street. Inoltre, gli aumenti dibudget della SEC non rispecchiano un maggiore rico-noscimento pubblico della sua importanza o efficacia.Piuttosto, il successo della SEC nel processo di bilanciorispecchia l’esigenza dei funzionari federali di apparireimpegnati “a fare qualcosa” dopo la crisi emersa nell’e-conomia reale (Enron, Global Crossing, Adelphia, Tyco,Waste Management e Sunbeam) e gli scandali che ilrivale principale della SEC, Eliot Spitzer, stava scopren-do a Wall Street (analisti finanziari e market timer deifondi di investimento).

In termini economici, le regole di corporate gover-nance si possono classificare come efficaci o inefficaci,mentre in termini politici, le stesse regole sono apprez-zate o disapprovate. In questo libro si dimostra che leregole di corporate governance che sembrano piùapprezzate nell’ambiente politico sono proprio quellemeno efficaci nella pratica. Per contro, le norme di cor-porate governance che si rivelano le più efficaci, consi-derando in che misura riducono i costi di agenzia ecreano maggiore ricchezza per gli azionisti, sono quellemeno apprezzate nell’ambiente politico. Queste osser-vazioni non lasciano presagire nulla di buono per ilfuturo dell’economia statunitense.

200

Corporate governance

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Le Borse valori organizzateLe Borse valori organizzate, in particolare la New

York Stock Exchange, hanno sempre svolto un ruoloimportante nella corporate governance statunitense.Con la quotazione in Borsa, una società prendeva unimpegno credibile a rispettare una serie di regole di cor-porate governance studiate per massimizzare la ric-chezza degli azionisti.29 L’impegno era reso credibile

201

Istituzioni esterne formali di corporate governance

Esercizio fiscale

SEC: confronto storico tra bilancio preventivo e consuntivo

1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

Impegni di bilancio($)

166.633

189.083

225.792

253.235

269.150

300.437

300.921

311.100

315.000

341.574

377.000

Obbligazioni effettive

($)

165.211

187.689

224.281

251.871

266.249

284.755

296.533

308.591

311.143

338.887

369.825

Aumento % dall’esercizio precedente

13

19

12

6

12

0

3,4

1,3

8

10

2001 422.800 412.618 12

2002 513.989 487.345 22

2003 716.350 619.321 39

2004 811.500 – 13

2005

Nota: in migliaia di dollari; dati da Securities and Exchange Commission, “Frequently Requested FOIA Document: Budget History – BA [Budget Authority] v. Actual Obligations”, http://www.sec.gov./foia/docs/budgetact.htm. Si veda anche Jonathan R. Macey, “Positive Political Theory and Federal Usurpation of the Regulation of Corporate Governance: The Coming Preemption of the Martin Act”, Notre Dame Law Review, 80, 2006, p. 951, nota 74, p. 969, tabella 1, e i miei calcoli.

913.000 – 13

2299.. Jonathan R. Macey - Maureen O’Hara, “From Markets to Venues:Securities Regulation in an Evolving World”, Stanford Law Review, 59, 2005,p. 569.

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dalla minaccia della cancellazione dal listino, che storica-mente aveva conseguenze draconiane sulle società, perla mancanza di sedi alternative per la negoziazione diazioni. Nel corso del tempo, tuttavia, il progresso tecno-logico e l’evoluzione dei mercati hanno indebolito il pri-mato degli scambi tradizionali ed è emersa una schieradi concorrenti delle Borse tradizionali.

Tradizionalmente, le società non chiedevano la quo-tazione in più sedi. Di solito, si spostavano da un luogodi contrattazione a un altro in virtù del fatto che, essen-do cresciute, venivano promosse dai mercati over-the-counter (OTC) alla Borsa valori di New York (NYSE).La decisione di società prestigiose come Google eMicrosoft di restare nei mercati OTC, così come lacapacità di aziende quali Hewlett-Packard di mantene-re contemporaneamente la quotazione in NYSE eNASDAQ sono esempi del cambiamento dell’ordinetradizionale.

La Borsa valori moderna è soggetta a una vigorosaconcorrenza proveniente da varie fonti, come Borserivali e sedi di contrattazione alternative, quali Electro-nic Communications Networks (ECN), reti elettronicheche riuniscono i principali intermediari e operatorifinanziari, e Alternative Trading Systems (ATS), sistemidi contrattazione automatizzata. Questa concorrenzaha messo a dura prova la capacità di autoregolamenta-zione delle Borse e minato gli incentivi a regolamentar-si nell’interesse del pubblico rispetto a questioni di cor-porate governance dei loro membri. Inoltre, è evidenteche le Borse valori organizzate non agiscono nemmenopiù da organi regolatori autonomi: piuttosto, sono vistecome canali per la SEC, che coordina i regolamenti dicorporate governance apparentemente promulgatidalle autorità di Borsa in quanto organizzazioni autore-golamentate.30 Come si rileva nel documento Special

202

Corporate governance

3300.. L’evidenza a sostegno di questo caso è articolata in una serie di episodinei quali la mancata autoregolamentazione delle Borse è stata spesso seguitada una regolamentazione coordinata guidata dalla SEC. L’autoregolamenta-zione delle Borse è in linea di massima disfunzionale, poiché i titoli vengononegoziati contemporaneamente su molteplici piazze, impedendo così alle

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Study on Market Structure, Listing Standards and Corpora-te Governance, «la SEC ha adottato la prassi di incorag-giare le Borse ad approvare “volontariamente” deter-minate norme di corporate governance per la quotazio-ne e in questo senso ha sollecitato le società quotate egli azionisti a raggiungere un consenso su tali norme».31

Ora la SEC coordina la fissazione dei prezzi tra le orga-nizzazioni autoregolamentate delle Borse per quantoconcerne ogni sfaccettatura dei rapporti tra le Borse ele società quotate. Quindi, la SEC ha minato la tradizio-nale concorrenza tra le Borse, che era finalizzata a for-nire regole efficienti di corporate governance.

Un chiaro esempio di questo fenomeno è la regola“un’azione, un voto” (one-share, one-vote). Nel corsodegli anni Ottanta, i manager di diverse società quota-te alla NYSE, temendo la possibilità di scalate ostili vol-lero adottare una strategia di difesa particolarmentepotente, che prevedeva la ricapitalizzazione dell’azien-da con classi aggiuntive di azioni con diritto di voto,detenute dal management, che così avrebbe acquisitoun potere di voto notevolmente superiore a quello dialtri azionisti. Il problema di questa strategia di ricapi-talizzazione era che violava chiaramente un tradiziona-le principio della NYSE, per cui tutte le azioni ordinariedi società quotate davano diritto a un solo voto.32

La SEC temeva fortemente che numerose societàquotate di alto profilo, quali General Motors Corpora-tion e Dow Jones, Inc., decidessero di optare per questericapitalizzazioni con doppia classe di azioni. La NYSE

203

Istituzioni esterne formali di corporate governance

Borse di far applicare le regole unilateralmente. Vedi Jonathan R. Macey -Maureen O’Hara, “From Markets to Venues”, pp. 577-579, «A titolo pura-mente descrittivo, l’evidenza disponibile non supporta l’affermazione che sedidi contrattazione rivali concorrano per produrre regole di diritto societario.Piuttosto, è più esatto affermare che la SEC coordina gli standard normatividelle Borse e del NASDAQ per prevenire a priori qualsiasi concorrenza tra lesedi di contrattazione».

3311.. Jonathan R. Macey - Maureen O’Hara, “From Markets to Venues”, pp.571, 577. Vedi anche Robert Todd Lang et al., American Bar Association,“Special Study on Market Structure, Listing Standards and Corporate Gover-nance”, Business Lawyer, 57, 2002, p. 1503.

3322.. Vedi Securities and Exchange Commission, Ufficio del Chief Econo-mist, “Update: The Effects of Dual-Class Recapitalizations on Shareholder

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si allarmò quando entrambe le società decisero di pro-cedere con i loro piani di offrire due classi di azioni condiritto di voto, in flagrante violazione delle regoleNYSE: per la Borsa di New York, la cancellazione dallistino di queste aziende avrebbe comportato una per-dita significativa di prestigio e introiti, ma per GM eDow Jones le conseguenze sarebbero state trascurabili.L’esclusione dal listino avrebbe significato che le loroazioni sarebbero state negoziate in una sede concorren-te, come American Stock Exchange o NASDAQ, vistoche entrambe permettevano la ricapitalizzazione condoppia classe di azioni.

Questo episodio illustra l’incapacità della NYSE diimporre le proprie regole di corporate governance nel-l’attuale nuovo scenario competitivo di sedi di contrat-tazione. Alla fine, la NYSE fu costretta ad allentare irequisiti per la quotazione onde evitare di perdere duedei suoi iscritti più prestigiosi. Per evitare il ripetersi diquesto episodio imbarazzante, la NYSE invitò la SEC aimporre una norma sull’uniformità dei diritti di votoper tutte le società ad azionariato diffuso. Benché laSEC abbia accolto la richiesta della NYSE, la norma sul-l’uniformità dei diritti di voto è stata giudicata non vali-da, in quanto intollerabile estensione dell’autorità nor-mativa della commissione nel campo della corporategovernance, che tradizionalmente è di competenza deisingoli Stati.33

204

Corporate governance

Wealth, Including Evidence from 1986 and 1987”, 16 luglio 1987, tabella 1.Vedi anche Jeffrey N. Gordon, “Ties That Bond: Dual Class Common Stockand the Problem of Shareholder Choice”, California Law Review, 76, 1988,p. 4, in cui si elencano almeno 80 società per azioni che hanno «adottato, oproposto di adottare, strutture di capitali con due classi di azioni ordinarie».Nella nota 2 Gordon aggiunge: «Secondo una recente stima, dal 1985 ilnumero di società con doppia classe di azioni è salito da 119 a 306».

3333.. La causa Business Roundtable v. SEC, 905 F.2d 406, 407 D.C. Cir. 1990dichiarò nulla la Rule della SEC. Tuttavia, al momento della sentenza ilNASDAQ, l’AMEX e il NYSE adottarono la regola proposta dalla SEC, nes-suna era disponibile a rischiare il suo rapporto con la SEC ripristinando laregola precedente. Barbara Franklin, “New Stock Issue Rules; TechnicalChanges Seen Resulting in Tougher Enforcement”, New York Law Journal, 7settembre 1989, p. 5. Occorre aggiungere che la sentenza nella vertenza Busi-

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Le agenzie di rating del creditoLe agenzie di rating del credito quali Moody’s e

Standard & Poor’s forniscono delle previsioni su unasingola caratteristica di una società, ossia la probabilitàche quest’ultima sia in grado di ripagare puntualmenteil proprio debito. Queste agenzie specializzate tentanodi sminuire il ruolo che ricoprono nella corporategovernance, sostenendo che, poiché i loro rating si fon-dano sull’analisi di informazioni fornite dalle stessesocietà, non è loro compito individuare e mettere inluce eventuali frodi.34 Si tratta di un’affermazione piut-tosto ipocrita. È noto che gli investitori poco informatipresenti sui mercati finanziari si basano sulle valutazio-ni delle principali agenzie di rating. Quale ne sia ilmotivo resta un mistero.

Inoltre, come ha osservato Frank Partnoy, esistononumerose prove del fatto che le informazioni prodottedalle agenzie di rating sono obsolete e imprecise.35 Leprestazioni veramente abominevoli delle agenzie dirating nella valutazione delle emissioni di numerosesocietà, quali Orange County, Mercury Finance, PacificGas & Electric, Enron, WorldCom e, più recentemente,General Motors e Ford lo dimostrano ampiamente, cosìcome i numerosi studi accademici da cui emerge che gliaggiornamenti nei rating del credito sono comunqueindietro rispetto al mercato.36

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ness Roundtable v. SEC, secondo la quale la SEC non aveva l’autorità di pro-mulgare norme di corporate governance, è stata notevolmente ridimensiona-ta, se non del tutto ribaltata, dal Sarbanes-Oxley Act del 2002, che ha riattri-buito un significativo potere alla SEC nell’ambito della corporate governan-ce. Sarbanes-Oxley Act del 2002, 15 U.S.C.A, artt. 7211-7219.

3344.. Securities and Exchange Commission, “Written Statement of RaymondW. McDaniel, President, Moody’s Investors Service”, 21 novembre 2002,http://www.sec.gov/news/extra/credrate/moodys.htm.

3355.. Commissione Servizi Finanziari della Camera dei Rappresentanti, “Cre-dit Rating Agency Duopoly Relief Act of 2005: Hearing on H.R. 2990 befo-re the Subcommittee on Capital Markets, Insurance and Government Spon-sored Enterprises”, 109° Congresso, prima sessione, 2005, dichiarazione diFrank Partnoy, docente di diritto alla School of Law dell’Università di SanDiego.

3366.. Commissione Servizi Finanziari della Camera dei Rappresentanti,dichiarazione di Frank Partnoy: «Svariati studi accademici hanno dimostratoche i cambiamenti di rating rallentano il mercato». Vedi anche “Rating Agen-

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In particolare, il caso Enron fornisce un esempio piut-tosto chiaro del ritardo dei rating rispetto al mercato.

Né Standard & Poor’s né Moody’s hanno declassato ititoli di debito della Enron al di sotto dello statusinvestment grade fino al 28 novembre 2001, ossia quat-tro giorni prima della bancarotta dell’azienda, quandoil prezzo delle sue azioni era piombato alla miseracifra di sessantun centesimi […]. Per la Enron, i 250milioni di dollari della società in titoli di debito seniorallo scoperto erano scesi di valore da novanta centesi-mi a trentacinque centesimi sul dollaro nel mese pre-cedente la declassazione. In altre parole, il mercatoaveva respinto il rating di investment grade di Enronprima che le agenzie di rating del credito esercitasserola loro facoltà di declassarla.37

Come le società di revisione, anche le agenzie dirating del credito non hanno tenuto fede alle promessein quanto componenti importanti dell’infrastrutturadella corporate governance. E, come per le società direvisione, la teoria della scelta pubblica e la teoria eco-nomica della regolamentazione forniscono la spiegazio-ne più plausibile al fallimento del rating del creditonella corporate governance statunitense. Tradizional-mente, le società che attingevano ai mercati finanziariper capitale di prestito e capitale di rischio si servivanodelle agenzie di rating del credito per lo stesso motivoper cui ricorrevano ai servizi delle società di revisione:volevano che la loro situazione finanziaria fosse verifi-cata da una fonte credibile e indipendente. La domandadei servizi delle agenzie di rating derivava dal fatto cheabbonandosi ai servizi di queste agenzie le società pote-vano ridurre i loro oneri finanziari, ottenendo risparmisuperiori al costo dell’abbonamento applicato dalleagenzie per assegnare un rating ai titoli della società.

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cies and the Use of Credit Ratings under the Securities Laws, Concept Relea-se N. 33-8236”, Registro federale n. 35258, vol. 68, 4 giugno 2003.

3377.. Jonathan R. Macey, “Efficient Capital Markets, Corporate Disclosure,and Enron”, Cornell Law Review, 89, 2004, p. 406.

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L’evoluzione storica della domanda dei servizi delleagenzie di rating del credito è identica a quella dellesocietà di revisione: la domanda reale alimentata dalleforze di mercato è stata sostituita da una domanda arti-ficiale alimentata dagli obblighi normativi. A sua volta,questa situazione ha determinato la formazione di car-telli in entrambi i settori, poiché il numero delle societàdi revisione che verificano i conti di grandi società adazionariato diffuso è sceso a quattro e il numero diagenzie di rating del credito che godono dell’ambìtostatus di Nationally Recognized Statistical Rating Orga-nization (NRSRO) autorizzata dalla SEC è sceso a tre.Con la formazione dei cartelli si è assistito anche a unamarcata riduzione della qualità dei servizi forniti ainvestitori e mercati in entrambi i settori.38

La regolamentazione della SEC, con la designazionedi NRSRO, ha creato una domanda artificiale di rating,malgrado siano inutili per gli investitori.39 La normati-va prevede che gli investitori limitino i propri impegnia società il cui debito è classificato da una delle tresocietà designate dalla SEC per operare come NRSRO.La SEC utilizza i rating delle NRSRO per stabilire laquantità di capitale che le società di intermediazionemobiliare (SIM) devono mantenere quando detengonotitoli di debito ai sensi della Rule 15c3-1 del SecuritiesExchange Act del 1934 (per brevità “Exchange Act”). Irating delle NRSRO vengono utilizzati anche per valu-tare il rischio creditizio di strumenti a breve nella rego-lamentazione dei fondi del mercato monetario ai sensidella Rule 2a-7 dell’Investment Company Act del 1940. Le

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3388.. Sugli effetti della formazione di cartelli tra le agenzie di rating del cre-dito vedi Claire A. Hill, “Regulating the Rating Agencies”, Washington Uni-versity Law Quarterly, 82, 2004, p. 43, che richiama l’attenzione sulla neces-sità di riformare il settore incoraggiando una struttura di mercato meno con-centrata. Per dimostrazioni oggettive della scarsa qualità percepita nelle agen-zie di rating del credito, vedi Sottocommissione dei Mercati dei Capitali dellaCommissione Servizi Finanziari della Camera dei Rappresentanti, “Ratingthe Rating Agencies: The State of Transparency and Competition”, 108°Congresso, prima sessione, 2003, http://financialservices.house.gov/medi-a/pdf/108-18.pdf.

3399.. Vedi nota 35.

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società emittenti di certi titoli di debito che ricevono ilrating investment grade da una NRSRO sono autorizzatea registrarsi ai sensi del Securities Act del 1933 sulmodulo ridotto FS-3. Analogamente, le banche e glialtri organi di regolamentazione si basano sui rating delcredito formulati da NRSRO per proteggere il capitaledegli istituti finanziari. Ne consegue che molti istitutifinanziari regolamentati possono acquistare solo deter-minati tipi di titoli, che abbiano ottenuto il rating invest-ment grade da una NRSRO.40

Così, la spiegazione più plausibile del motivo percui le agenzie di rating del credito godono di grandesuccesso pur fornendo informazioni di scarso valoreper gli investitori è il fatto che, nel momento in cui haincautamente inventato la designazione di NRSRO, laSEC ha inavvertitamente creato una domanda normati-va artificiale dei servizi di un numero ristretto di agen-zie di rating privilegiate, nonostante l’inutilità per gliinvestitori.

Nel tentativo di rispondere a decenni di inerzia dellaSEC e al crescente allarme per le pessime prestazionidelle agenzie di rating del credito, nell’estate del 2006 èstato approvato e promulgato il Credit Rating DuopolyRelief Act. La legge si prefigge di togliere alla SEC lafacoltà di stabilire quali agenzie di rating del credito siqualifichino per la designazione a NRSRO e limitare ipoteri della SEC sulle agenzie di rating all’ispezione eall’istituzione di azioni coercitive nei loro confrontiqualora violino la normativa sui titoli. In virtù di que-sta legge, le agenzie di rating del credito sono tenute aregistrarsi presso la SEC, che tuttavia non ha più lafacoltà di registrarle a sua discrezione come NRSRO seoperano da tre anni.

Non è chiaro quali eventuali effetti avrà la nuovalegge sul ruolo delle agenzie di rating del credito nel-

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4400.. Securities and Exchange Commission, Audizione sulle agenzie di ratingdel credito, Dichiarazione di Amy Lancellotta, Consigliere, Investment Com-pany Institute, 21 novembre 2002, http://www.ici.org/statements/tmny/02_se-c_2a-7_stmt.html.

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l’ambito della corporate governance. In ogni caso, se legrandi agenzie di rating finora non avevano mai dovu-to preoccuparsi della concorrenza, ora la situazione èdifferente. Una possibile manifestazione del nuovo sce-nario competitivo sarà una “corsa alla qualità” tra leagenzie di rating del credito, dove ciascuna dovrà com-petere per acquisire la reputazione di supervisore socie-tario migliore, più affidabile e più accurato. Certamen-te sarebbe ideale ai fini della corporate governance, manon è affatto detto che accadrà.

Un’altra possibilità è che le società, avendo maggio-re scelta, determineranno una “corsa verso il basso”, incui gli emittenti che devono far classificare i loro titolida una NRSRO preferiranno quelle più malleabili eliberali con il rating investment grade. Riguardo a questedue possibilità, i primi segnali non sono particolarmen-te promettenti. Da una prospettiva teorica, le agenzie dirating del credito presentano un evidente conflitto diinteressi. Come ha rilevato un’analisi del settore delrating effettuata nel 2003 da due economisti del consi-glio dei governatori della Federal Reserve, il conflittoderiva dal fatto che «l’incentivo finanziario a soddisfa-re le preferenze delle società emittenti di obbligazioni,che le selezionano e le pagano, è in conflitto con l’obiet-tivo dichiarato delle agenzie di fornire agli investitoriun’analisi del rischio creditizio indipendente e oggetti-va».41 Naturalmente, il conflitto è mitigato dall’aspettodella reputazione, che può indurre le agenzie di ratingdel credito ad agire a vantaggio degli investitori, datoche la preoccupazione per la propria reputazione leincentiva a formulare rating accurati e a rettificarli contempestività. Come suggerisce l’aneddoto che segue, ilnuovo Credit Rating Duopoly Relief Act potrebbe esacer-bare questo tradizionale conflitto di interessi, ma èancora troppo presto per sapere se i conflitti di interes-

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4411.. Daniel M. Covitz - Paul Harrison, “Testing Conflicts of Interest atBond Ratings Agencies with Market Anticipation: Evidence That ReputationIncentives Dominate”, stesura del dicembre 2003, http://www.federalr-eserve.gov/Pubs/feds/2003/200368/200368pap.pdf.

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si prevarranno o meno sulle preoccupazioni per lareputazione delle agenzie di rating del credito, in que-sto panorama nuovo, senza precedenti, di concorrenzainterna.

Nel marzo 2007, la Portland General Electric (PGE),un’azienda di pubblici servizi dell’Oregon, ha richiestol’approvazione della Public Utility Commission dell’O-regon per aumentare del 9 per cento le tariffe applicateper l’elettricità; per legge, in assenza di tale approva-zione l’azienda non può aumentare le tariffe. Secondoun articolo sul Willamette Week del giornalista investi-gativo vincitore del premio Pulitzer Nigel Jaquis, unodei documenti fondamentali utilizzato dalla PGE asostegno della sua richiesta è una relazione preparatadall’agenzia di rating del credito Standard & Poor’s. LaPGE aveva ingaggiato l’agenzia per classificare le sueobbligazioni, divenendo un suo cliente pagante. LaStandard & Poor’s ha servito il proprio cliente prepa-rando una relazione in cui si afferma che senza unaumento delle tariffe «la posizione finanziaria dellasocietà sarebbe a rischio».42 Quel che è peggio, comescrive Jaquis, pare che l’agenzia di rating del creditoabbia permesso all’azienda di modificare la sua relazio-ne. Nello specifico, la PGE avrebbe “corretto” e rifor-mulato tre diverse bozze della relazione, a quanto parenel tentativo di far apparire la situazione finanziariapiù drammatica di quanto fosse in realtà e quindi sup-portare la richiesta di aumento delle tariffe.43

Benché la funzionaria della PGE autrice del “lavorodi editing” abbia affermato che tutti i suoi commenti«erano suggerimenti che la PGE poteva accettare orespingere»,44 questi interventi avrebbero violato ilcodice di condotta interno della Standard & Poor’s,secondo il quale «per mantenere l’indipendenza, l’o-

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4422.. Nigel Jaquiss, “The Producer: How PGE Manipulated the Record toTry to Raise Our Electricity Rates”, Willamette Week, 6 dicembre 2006, p. 1,http://www.wweek.com/editorial/3304/8297/.

4433.. Nigel Jaquiss, “The Producer”.4444.. Nigel Jaquiss, “The Producer”.

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biettività e la credibilità i servizi di rating debbonomantenere il pieno controllo editoriale in qualsiasimomento sulle azioni di rating e su tutto il materialedivulgato al pubblico, ivi comprese […] relazioni,aggiornamenti, studi, commenti […] o qualsivogliaaltra informazione relativa ai propri rating».45 E prose-gue affermando che «i servizi di rating e gli analistisono tenuti a usare tutta la cura e la capacità di giudizioanalitico necessarie per mantenere la sostanza e l’appa-renza dell’indipendenza e dell’obiettività».46

Chiaramente, il Credit Rating Duopoly Relief Actinfluirà sull’ambiente competitivo in cui operano leagenzie di rating del credito. Purtroppo, è possibile chela nuova legge riduca l’efficacia delle agenzie di ratingdel credito in quanto strumenti di corporate governan-ce, esacerbando i conflitti di interesse esistenti tra leagenzie e i loro clienti. Ma potrebbe anche accadere chela nuova concorrenza generata dalla legge aumenti l’ef-ficacia delle agenzie di rating sul piano della corporategovernance, incentivandole a fornire rating puntuali edi alta qualità per ampliare l’attività migliorando lapropria reputazione tra gli investitori. Certamente èancora troppo presto per esprimere un giudizio, ma iprimi casi concreti non sono affatto promettenti.

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4455.. Vedi “Standard and Poor’s Rating Services, Code of Conduct”, paragra-fi 1.18, 2.1, ottobre 2005, http://www2.standardandpoors.com/spf/pdf/-media/sp_code.pdf.

4466.. “Standard and Poor’s Rating Services, Code of Conduct”, paragrafi1.18, 2.1.

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Il mercato del controllo societario è la colonna por-tante dell’infrastruttura della corporate governancenegli Stati Uniti, ispirata dal mercato stesso:1 in condi-zioni di efficienza e vitalità rappresenta un deterrenteper manager tentati dalla possibilità di eludere leresponsabilità e gestire l’impresa al di sotto delle suepotenzialità. In questo caso, infatti, il management incarica correrebbe seriamente il rischio di essere sostitui-to nell’eventualità di una scalata ostile, per cui un soli-do mercato del controllo societario è di importanza fon-damentale come strumento a disposizione delle societàper il controllo e la disciplina dei dirigenti.2

Ironicamente, però, mentre la dimostrazione scien-tifica dell’importanza del mercato del controllo socie-tario diventava così autorevole da essere incontrover-

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Capitolo 8

Il mercato del controllo societario

11.. Storicamente, il sistema statunitense ha affrontato i problemi di agenziacon le acquisizioni. Numerosi dibattiti teorici ed esempi concreti conferma-no l’affermazione che le acquisizioni affrontano problematiche di corporategovernance, in particolare nel controllo della discrezionalità dei dirigenti.Shleifer e Vishny osservano che le «acquisizioni sono largamente intese comeun meccanismo fondamentale di corporate governance negli Stati Uniti,senza il quale è impossibile controllare efficacemente la discrezionalità delmanagement». Andrei Shleifer - Robert W. Vishny, “A Survey of CorporateGovernance”, Journal of Finance, 52, 1997, p. 756.

22.. Henry G. Manne, “Mergers and the Market for Corporate Control”,Journal of Political Economy, 73, 1965, p. 113; Frank H. Easterbrook - DanielR. Fischel, “The Proper Role of a Target’s Management in Responding to aTender Offer”, Harvard Law Review, 94, 1981, p. 1169.

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tibile,3 regolamentazioni in senso contrario si diffon-devano a macchia d’olio.4 Questa confluenza di eventinon è stata casuale: la legge rispecchia gli interessi pri-vati dei dirigenti societari, un gruppo di interesse dis-creto e ben organizzato la cui causa è sostenuta daisindacati e dalla Business Roundtable.5

Secondo la mia collega Roberta Romano, numerosistudi empirici hanno uniformemente e unanimementerilevato che indipendentemente dal periodo di tempo odalla modalità di acquisizione, gli azionisti hanno unritorno straordinariamente positivo e statisticamentesignificativo sull’investimento in società che ricevonoofferte di acquisto.6 È chiaro che, per comprendere afondo le barriere normative che inibiscono il mercatodel controllo societario, occorre bussare alla porta dellateoria politica e non di quella economica. Di seguito si

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33.. Vedi Michael C. Jensen - Richard S. Ruback, “The Market for Corpora-te Control: The Scientific Evidence”, Journal of Financial Economics, 11,1983, p. 5. Anche se la maggior parte degli esperti concorda con Jensen eRuback sul fatto che le acquisizioni societarie generano un valore positivo,una minoranza dissente, in particolare Robert B. Reich, The Next AmericanFrontier, New York, Penguin, 1983, pp. 140-172; Robert H. Hayes - WilliamJ. Abernathy, “Managing Our Way to Economic Decline”, Harvard BusinessReview, luglio-agosto 1980, pp. 67, 73-74, disponibile anche in ManagerialExcellence: McKinsey Award Winners from the Harvard Business Review, 1980-1994, Boston, Harvard Business School Press, 1996.

44.. Anche la mia collega Roberta Romano, nel suo articolo “A Guide toTakeovers: Theory, Evidence, and Regulation”, Yale Journal on Regulation, 9,1992, pp. 120-121, ha sottolineato che «i fatti dimostrano che quasi semprele acquisizioni massimizzano il valore e l’efficienza della società, ma l’eccessodi regolamentazione tende a ostacolarle e a renderle onerose, perché le consi-dera semplici trasferimenti di ricchezza che non portano valore aggiunto».Nello stesso articolo Romano ha catalogato le svariate norme che limitano ilmercato del controllo societario.

55.. La Business Roundtable è composta dai CEO di circa 200 società statu-nitensi di primo piano, che rappresentano il 50 per cento del PIL americano.Fondata nel 1972, si propone di: permettere a CEO di società diverse di lavo-rare insieme su specifiche tematiche economiche e aziendali; informare inmodo puntuale e comprensibile il governo e il pubblico e presentare propo-ste costruttive di azione. Vedi “Business Roundtable History”,http://www.businessroundtable.org/aboutUs/history.html; Amitai Etzioni, “Spe-cial Interest Groups Versus Constituency Representation”, Research in SocialMovements, Conflicts and Change, 8, 1985, p. 184.

66.. Roberta Romano (a cura di), Foundations of Corporate Law, New York,Oxford University Press, 1993, p. 230.

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illustra il rapporto tra gli obiettivi di corporate gover-nance e il funzionamento del mercato del controllosocietario, per poi passare ad analizzare gli impedi-menti legali messi in atto per ostacolare il mercato delcontrollo societario.

La corporate governance, la politica e il mercato delcontrollo societario

Il mercato del controllo societario è semplicementeun processo di mercato. Non serve un intervento delgoverno per correggere i difetti strutturali di questomercato. Anzi, l’intervento normativo, quando c’è,riflette il tentativo di gruppi di interesse speciale (qualidirigenti e sindacati) di ostacolare il processo di merca-to, per proteggere il management in carica di impreseche rappresentano bersagli attuali o potenziali.

Il mercato del controllo societario non è altro chel’arbitraggio di rischio su grandissima scala. Tradizio-nalmente, l’arbitraggio di rischio è il processo per cui“si acquista quando il valore è basso e si vende quandoè alto”. Purtroppo, ai tentativi degli imprenditori dientrare in questo mercato le lobby dei dirigenti societa-ri hanno reagito “acquistando” norme per impedire aiprofessionisti delle opa di acquistare a valori bassi.

In un mercato dei capitali efficiente è difficilemascherare una performance scadente: quando un’im-presa va male, l’andamento si riflette nel corso aziona-rio e in una serie di altri indicatori, tra cui i dati conta-bili, specialmente gli utili annunciati, e il trend dellevendite rispetto ai concorrenti. Tutti questi indicatorisono facilmente accessibili e visibili a una varietà diosservatori esterni competenti, quali analisti, arbitrag-gisti e venture capitalists che studiano la società; e quan-do si collocano al di sotto della media del settore e dellaconcorrenza, per i potenziali acquirenti scatta l’allerta:acquisendo le azioni di una società che va male a unprezzo depresso (perché riflette la scarsa performancedella società), l’acquirente può innescare i cambiamentinecessari per riportare la società a crescere. In genere,questi cambiamenti comprendono la sostituzione del

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Il mercato del controllo societario

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top management della società acquisita con un nuovogruppo dirigente. Se funziona correttamente, il mercatodel controllo societario offre in tal caso chiari vantaggiagli azionisti di società le cui azioni vengono acquistatedall’offerente esterno. Infatti, essi ricevono un sostan-zioso premio, generalmente intorno al 50 per cento delprezzo a cui le azioni della società bersaglio, o target,venivano negoziate prima dell’offerta.7 Inoltre, a bene-ficiare di un’acquisizione ostile sono anche gli azionistiche decidono di tenere le proprie azioni, quando ilnuovo gruppo dirigente si insedia, riorganizza la socie-tà bersaglio e fa quello che fanno i bravi offerenti: stila-re un codice di disciplina migliore per i dirigenti, ricer-care sinergie strategiche con altre società e alienarecespiti, filiali, divisioni e altri elementi della target chenon portano valore aggiunto agli azionisti. In un mer-cato dei capitali efficiente, gli azionisti che hanno deci-so di tenere la propria partecipazione vedranno il corsoazionario salire già all’annuncio di questi cambiamentistrategici da parte di offerenti competenti.

Le acquisizioni sono sempre vantaggiose per gli azio-nisti delle società bersaglio, che vendano le proprie azio-ni oppure no. In assenza di distorsioni normative, lamiglior strategia per il management di una società targetper evitare di essere messo alla porta nel caso di una sca-lata ostile è di tenere alto il corso azionario; così scoraggiale scalate ostili perché le rende più costose, visto che siannulla il potenziale di arbitraggio che si crea quando leazioni sono sottovalutate rispetto al potenziale reale.8

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77.. Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder ProtectionSeriously? Corporate Governance in the U.S. and Germany”, Journal of AppliedCorporate Finance, 17, 2005, p. 59, n. 55; Gregg A. Jarrell - James A. Brickley -Jeffry M. Netter, “The Market for Corporate Control: The Empirical Evidencesince 1980”, Journal of Economic Perspectives, 2, 1988, p. 52.

88.. Vedi Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “The Proper Role of a Tar-get’s Management in Responding to a Tender Offer”, p. 1174: «I manager tente-ranno di contenere i costi di agenzia per ridurre le possibilità di acquisizione, e ilprocesso di contenimento dei costi di agenzia provoca un rialzo del prezzo delleazioni». Vedi anche Daniel R. Fischel, “The Corporate Governance Movement”,Vanderbilt Law Review, 35, 1982, p. 1264, che sostiene che il mercato del con-trollo societario «dà ai manager di tutte le imprese che desiderano evitare una sca-lata un incentivo a operare in modo efficiente e a mantenere alti i corsi azionari».

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I corsi azionari rappresentano il miglior – e inverol’unico – indice, aggiornato e imparziale, della perfor-mance e delle prospettive future di una società; di con-seguenza, poiché offre un forte incentivo ai dirigentidella società bersaglio a mantenere alto il corso aziona-rio, il mercato del controllo societario è il fulcro di qual-siasi sistema di corporate governance in cui i titolari dicrediti residui nella società non occupano posizionimanageriali. Se il mercato del controllo societario è effi-ciente sarà migliore anche la corporate governance, manon soltanto in società che ricevono effettivamenteofferte premianti da acquirenti esterni. Infatti, l’aspettogeniale del mercato del controllo societario come stru-mento di corporate governance è che migliora la quali-tà della performance in tutte le società le cui azioni pos-sono essere liberamente vendute e acquistate.

Il controllo esercitato dai potenziali offerenti nonoffre vantaggi soltanto agli azionisti di imprese suffi-cientemente fortunate da ricevere un’offerta di acqui-sto, perché se non vogliono essere sostituiti in un’ope-razione di acquisizione ostile i dirigenti sono obbligatia tenere alti i corsi azionari della società; poiché i diri-genti e i consigli di amministrazione sanno benissimoche nel caso di un’acquisizione ostile corrono il rischiodi essere rimossi, lavoreranno più duramente per mas-simizzare il valore per gli azionisti. In sintesi, unaminaccia di acquisizione disciplina non soltanto ilmanagement ma anche il consiglio di amministrazionenon controllante.9

L’offerta di acquisto è nata negli anni Sessanta e hamodificato in modo sostanziale lo scenario economicodelle società americane. Secondo il recente commento

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99.. Nonostante l’evidente importanza del mercato del controllo societario, ècomunque possibile che il ruolo di questo strumento di corporate governan-ce venga sovrastimato. In particolare, il mercato del controllo societario nonè stato in grado di affrontare recenti problemi di corporate governance insocietà quali Enron e WorldCom, in cui erano in gioco remunerazioni, pro-fitti e altri indici di performance aziendale artificialmente gonfiati. Vedi E. S.Browning, “Abreast of the Market: Investor Confidence Remains Fickle”,Wall Street Journal, 9 settembre 2002, C1: «Gli scandali di Enron, World-Com, Global Crossing, Tyco International, Adelphia Communications, Im-

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di Theodor Baums e Kenneth Scott, prima dell’offertadi acquisto l’unico modo in cui uno sfidante potessesperare di rimuovere un gruppo dirigente inetto erascatenare una contesa a livello di deleghe per l’elezionedegli amministratori.10

Come strumento di corporate governance, la batta-glia delle deleghe ha due difetti ben distinti rispetto alleacquisizioni. In primo luogo, in una battaglia delledeleghe il management in carica gode di una serie divantaggi strutturali rispetto agli esterni: controlla latempistica della contesa e può addebitare alla società lespese sostenute per le elezioni; i dirigenti in carica sonoanche meglio informati su chi siano gli azionisti dellasocietà e sulle questioni che potrebbero essere di inte-resse per particolari gruppi di azionisti. Poi, quandouna società è coinvolta in una battaglia delle deleghe,gli azionisti devono scegliere tra il gruppo dirigente incarica, che è una grandezza nota, e un gruppo di spe-culatori esterni ignoti, detti raiders.11

Tuttavia, il secondo e più profondo punto deboledella battaglia delle deleghe come strumento di corpo-rate governance è che i soggetti che le innescano hannomeno credibilità di quelli che danno inizio a una conte-sa per l’acquisizione sotto forma di un’offerta di acqui-sto. I potenziali acquirenti che lanciano un’offerta diacquisto per un pacchetto azionario di controllo in unasocietà godono di una credibilità altissima perché stan-no rischiando il proprio capitale per acquisire il pac-chetto di controllo. Dopo aver conquistato il controllodella società, è probabile che gli offerenti ne ricavino un

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Clone Systems e numerose altre società hanno spinto a chiedersi se ci si puòfidare dei rapporti sugli utili e dei vertici aziendali». Il problema è che il mer-cato del controllo societario sanziona la scarsa performance del managementsolo quando i prezzi delle azioni delle società target sono depressi. Poiché lafrode contabile porta a un innalzamento artificioso piuttosto che a una com-pressione dei prezzi delle azioni, i raiders del mercato del controllo societarionon sono incentivati a lanciare scalate ostili.

1100.. Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder ProtectionSeriously?”, pp. 58-59.

1111.. Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder ProtectionSeriously?”, pp. 58-59.

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beneficio, gestendo l’impresa in modo da aumentare ilvalore delle loro azioni e dunque anche di quelle deglialtri azionisti.

Per contro, un imprenditore che scatena una batta-glia delle deleghe non deve, in teoria, possedere azionidella società bersaglio in cui sta tentando di rimuovereil consiglio di amministrazione. Piuttosto, il raider ester-no chiede agli azionisti di credergli, sulla fiducia, che lavittoria nella battaglia delle deleghe porterà a unamiglior corporate governance. Non stupisce dunqueche le battaglie delle deleghe vengano vinte di rado, ameno che non vengano organizzate e condotte da rai-ders che hanno investimenti molto cospicui in azionidelle società bersaglio. Solo un raider che al momentodella battaglia detenga anche un pacchetto di una certaconsistenza può promettere in modo credibile agli azio-nisti della società bersaglio che il suo obiettivo è massi-mizzare il valore dell’intera società, non semplicementedepredare l’impresa per ottenere il vantaggio persona-le del controllo.

In quest’ottica, la nascita dell’offerta di acquisto osti-le negli anni Sessanta dovrebbe essere considerataun’innovazione memorabile nella storia della corporategovernance, perché ha fornito i primi strumenti auto-nomi per controllare le società su vasta scala. L’offertadi acquisto ostile è di ampio respiro perché coinvolgetutti gli azionisti e perché richiede lo spiegamento diingenti risorse da parte degli offerenti esterni, che ser-vono per studiare le potenziali società target, per valu-tare dove vi siano gruppi dirigenti talmente inefficientida giustificarne la rimozione mediante scalata ostile,per portare a termine l’acquisizione ostile e per metterein atto il piano strategico finalizzato a riorganizzare leattività della bersaglio per accrescerne, in ultima anali-si, il valore.

Il mercato del controllo societario agisce autonoma-mente perché nasce spontaneamente dalle forze di mer-cato, senza che la società debba fare nulla o mettere incampo alcuna risorsa. Quando è efficiente, il mercatodel controllo societario è uno strumento così efficace di

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corporate governance che facilita enormemente la sepa-razione tra la proprietà del capitale e la responsabilitàdella dirigenza, secondo modalità non replicabili conaltri strumenti di corporate governance. In particolare,l’offerta di acquisto, che è lo strumento principe delmercato del controllo societario, ovvia alla necessità chegli azionisti della società bersaglio confrontino i rispet-tivi meriti dei gruppi dirigenti rivali prima di deciderese approvare una proposta di transazione per cambiareil controllo della società. Infatti, secondo Baums e Scott«con la diffusione dell’offerta di acquisto negli anni Ses-santa, [gli azionisti] non hanno più dovuto confrontaregruppi dirigenti rivali ma semplicemente il prezzoofferto dall’acquirente e la quotazione del mercato, cherispecchia il management del momento».12

Queste modalità di rilevare il controllo delle societàbersaglio hanno avuto un successo crescente rispettoalla strategia basata sulla battaglia delle deleghe manmano che il management delle società bersaglio andavapeggiorando. Mentre il mercato del controllo societariodiventava più efficace come strumento di governo nelleimprese, i manager hanno iniziato a sentirsi sempre piùa disagio, sotto pressione per tenere alto il corso azio-nario e ridurre così la probabilità di trovarsi intrappo-lati in un’offerta di acquisto ostile per il controllo dellasocietà.

Impedimenti legali nel mercato del controllo societa-rio

Oltre a diventare più sensibili alle esigenze degliazionisti, i manager hanno messo in atto una serie ditattiche aggiuntive per reagire all’era delle offerte diacquisto. In primo luogo, nel 1968 il management fecesentire la sua forte opposizione alla mancanza di impe-dimenti nel mercato del controllo societario sostenendol’approvazione del Williams Act, una legge che scorag-giava le acquisizioni di società aumentando in modo

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considerevole sia i costi vivi sia i rischi giuridici che gliofferenti devono affrontare quando lanciano un’offertadi acquisto.

In particolare, il Williams Act sottraeva agli offerentiimportanti diritti di proprietà sulle informazioni obbli-gandoli a divulgare tali informazioni ai mercati finan-ziari, e imponeva a singoli operatori, gruppi e societàche lanciano un’offerta di acquisto di palesare al mer-cato la propria identità, i propri piani per la società tar-get e le fonti di finanziamento.13 I requisiti posti dallalegge hanno aiutato i dirigenti delle società bersaglio atrincerarsi, perché scatenavano una sorta di “pre-allar-me” in vista di un’offerta esterna, dando loro anche piùtempo per resistere.14 In seguito al Williams Act e adaltre iniziative anti-scalata, le acquisizioni ostili hannoregistrato un declino costante delle fusioni e acquisizio-ni nel decennio successivo al varo della legge nel 1968,dal 14 al 4 per cento.15

In secondo luogo, i manager hanno lottato per intro-durre una serie di cambiamenti ai propri atti costitutivie statuti sociali al fine di ostacolare il mercato del con-trollo societario. Come osservato da Baums e Scott, imanager e i loro avvocati presidiavano i consigli diamministrazione scaglionando i mandati, hanno aboli-to il diritto degli azionisti a rimuovere gli amministra-tori senza giusta causa, a indire riunioni straordinarie oagire avendo il consenso scritto senza però essersiriuniti; inoltre, hanno introdotto la necessità per gliazionisti di ottenere una larghissima maggioranza perapprovare fusioni per incorporazione non approvatedal consiglio precedente.16

Due fattori hanno impedito ai manager di ritardare

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1133.. Williams Act del 1968, Pub. L. No. 90-439, artt. 3, 82 Stat. 454, 456,1968.

1144.. Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder ProtectionSeriously?”, p. 58.

1155.. Henry G. Manne, “Bring Back the Hostile Takeover”, Wall Street Jour-nal, 26 giugno 2002, A18.

1166.. Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder ProtectionSeriously?”, pp. 58-59.

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efficacemente il mercato del controllo societario. Innan-zitutto, un cambiamento sostanziale nella struttura dicorporate governance della società richiede una modi-fica dell’atto costitutivo, che a sua volta richiede l’ap-provazione degli azionisti. E un azionista raziocinantenon approverebbe proposte di cambiamento dellastruttura di governance che lo collocherebbe in unaposizione di svantaggio ostacolando il funzionamentodel mercato del controllo societario. Inoltre, il mercatodel controllo societario ha visto innovazioni importan-ti, quali la nascita del leveraged buyout e il finanziamen-to mediante junk bond, che hanno agevolato il mercatodelle acquisizioni e contribuito a controbilanciare glieffetti perniciosi del trinceramento dei manager.17

Le autorità giudiziarie del Delaware hanno sferratoun duro colpo agli azionisti e al libero funzionamentodel mercato del controllo societario quando hanno aval-lato l’utilizzo di un nuovo e radicale strumento anti-scalata, la cosiddetta poison pill o pillola avvelenata, nelcaso Moran v. Household International.18 A ragione, questaè considerata la peggior sentenza nella storia del dirittosocietario. Gli azionisti hanno perso migliaia di miliar-di di dollari di valore poiché i giudici, specialmentenello Stato del Delaware, non hanno protetto gli inte-ressi degli azionisti durante le lotte per il controllosocietario.19

La poison pillTecnicamente si definisce “piano dei diritti degli

azionisti”, in gergo poison pill: è uno strumento partico-lare utilizzato dalle società per azioni per evitare unascalata ostile, in pratica rendendo la società poco allet-tante per l’investitore che si avvicini con tali intenzioni.La poison pill è creata dal consiglio di amministrazione

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1177.. Vedi, per esempio, Ronald Gilson, “A Structural Approach to Corpora-tions: The Case against Defensive Tactics in Tender Offers”, Stanford LawReview, 33, 1981, pp. 837-838.

1188.. Moran v. Household International, 500 A.2d 1346, Del. 1985.1199.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure of

Corporate Law, p. 204.

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come misura preventiva, perché aumenta i costi del-l’acquisizione di un consistente pacchetto azionario inuna società bersaglio: comporta l’emissione da partedella società di una nuova classe di azioni, solitamenteazioni privilegiate, che fornisce ai titolari il diritto diacquistare altre azioni nella target (flip-in pills) o anchenella società acquirente (flip-over pills) al verificarsi diun determinato evento. L’evento scatenante più comu-ne è l’acquisizione di azioni della società bersaglio inuna percentuale limite (spesso fissata al 30 per cento)da parte di un acquirente che il consiglio di ammini-strazione della target ritiene inaccettabile. Se un offe-rente esterno dovesse acquisire azioni in proporzionesuperiore al limite stabilito senza il consenso del consi-glio di amministrazione della società bersaglio, gli azio-nisti della stessa sono autorizzati ad acquistare azioniaggiuntive a prezzi fortemente scontati. Lo strumento èdenominato poison pill perché questi acquisti a prezzoscontato hanno l’effetto intenzionale di annacquare lapartecipazione dell’offerente esterno, a cui è specifica-tamente preclusa la possibilità di beneficiare degliacquisti a prezzo scontato riservati agli altri investitori.

Poiché dal punto di vista tecnico le poison pills sonoconsiderate semplicemente un’emissione di una nuovaclasse di azioni, che nella gran parte delle società nonrichiede l’approvazione degli azionisti, questa manovradifensiva può essere utilizzata dai consigli di ammini-strazione senza l’intervento degli azionisti. Inizialmen-te, i diritti sono collegati alle azioni ordinarie in circola-zione, non possono essere negoziati separatamentedalle azioni ordinarie e hanno un prezzo tale da rende-re l’esercizio dell’opzione irragionevole dal punto divista economico. Come già accennato, i diritti (la pillo-la) diventano esercitabili e possono essere negoziatiseparatamente dalle azioni ordinarie soltanto al verifi-carsi di un evento scatenante.

Di norma, la caratteristica flip-over di una poison pillsi innesca quando la società bersaglio viene incorpora-ta dalla società acquirente o da una delle sue affiliate,dopo che l’acquirente è riuscito a rastrellare la percen-

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tuale stabilita delle azioni ordinarie della target. A que-sto punto, gli azionisti della società bersaglio hannofacoltà di acquistare azioni ordinarie della societàacquirente, solitamente a un prezzo fortemente ribassa-to. Tali acquisti hanno l’effetto di indebolire la strutturadel capitale dell’acquirente e diluire considerevolmentela quota precedentemente detenuta dagli azionisti nellasocietà acquirente. Se le pillole flip-over sono innescatedalla fusione tra l’acquirente e l’acquisita, le pillole flip-in sono attivate semplicemente dall’acquisizione di unapercentuale specifica (solitamente il 20 per cento) delleazioni ordinarie dell’emittente. Quando si attiva unapillola flip-in, tutti gli azionisti della target sono auto-rizzati ad acquistare azioni della target a un prezzonotevolmente scontato, tranne l’acquirente.

Nelle società che le predispongono, le poison pillsostacolano il mercato del controllo societario eliminan-do la possibilità di scalate ostili. I diritti degli azionistidistribuiti dalle società sotto forma di poison pills posso-no essere riscattati dalla target con un costo minimo oaddirittura nullo per l’emittente, il che è significativoperché tale riscatto elimina la poison pill e dà il via libe-ra all’acquisizione. In altre parole, la poison pill imponeagli acquirenti di ottenere l’approvazione del consigliodi amministrazione della società bersaglio prima diprocedere. Il danno teoricamente provocato agli azioni-sti della società acquirente dall’attivazione di una poi-son pill è di tale entità che non è mai stata intenzional-mente innescata.20

In sintesi, la poison pill ha efficacemente neutralizza-to le scalate ostili. Le società con gruppi dirigenti vena-li non saranno mai estromesse in una scalata ostile. Solosocietà con consigli di amministrazione benevoli ealtruisti ritireranno i piani dei diritti degli azionisti, lecosiddette poison pills, per permettere ad acquirentiesterni di attuare un avvicendamento al controllo.

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2200.. Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder ProtectionSeriously?”, p. 59.

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La magistratura del DelawareIn un passaggio chiave della sentenza Moran, la

Corte Suprema del Delaware rileva che permettere allesocietà di attivare poison pills senza l’approvazionedegli azionisti non avrebbe effetti deleteri sulla corpo-rate governance perché tali piani sarebbero oggetto dipuntuale disamina da parte dei tribunali. In particolare,rispetto al piano di poison pill adottato da HouseholdInternational, la corte asserisce che «il piano di poisonpill non è assoluto. Dinanzi a un’offerta di acquisto, conrichiesta di ritirare i diritti connessi alla poison pill, ilconsiglio di amministrazione di Household non puòarbitrariamente respingere l’offerta. È invece tenuto arispettare i medesimi standard fiduciari a cui dovrebbeattenersi qualsiasi consiglio di amministrazione nelladecisione di adottare un meccanismo difensivo, lo stes-so di quando il piano di poison pill è stato approvato inorigine».21

Sfortunatamente, i tribunali dei vari Stati e in parti-colare quelli del Delaware, non hanno adempiutoall’obbligo di tutelare gli azionisti sorvegliando l’attua-zione, se non l’adozione, delle poison pills.22 Invece, l’ob-bligo in capo ai tribunali degli Stati di valutare la deci-sione di utilizzare la pillola per stabilire se tale decisio-ne sia coerente con le responsabilità fiduciarie degliamministratori «non ha portato risultati concreti».23

Negli anni, si è permesso ai consigli di amministrazio-ne di società bersaglio di ostacolare tentativi esterni diacquisizione mantenendo i loro piani di poison pill sullabase di giustificazioni piuttosto dubbie. Per esempio,nel caso Paramount Communications v. Time, Inc.,24 lacorte si è lasciata convincere a non costringere il mana-

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2211.. Moran v. Household International, 500 A.2d 1354.2222.. Vedi Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder Protec-

tion Seriously?”, p. 59, dove si sottolinea che il requisito per cui l’utilizzo dellapoison pill doveva prima passare il vaglio della Corte Suprema del Delaware«si è dimostrato privo di fondamento».

2233.. Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder ProtectionSeriously?”, p. 59.

2244.. Paramount Communications v. Time, Inc., 571 A.2d 1140, 1154, Del.1989.

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gement al ritiro della pillola dalla sua debole argomen-tazione, altamente strumentale, per cui era stato predi-sposto un “piano strategico” che, a parere della diri-genza, si sarebbe rivelato più profittevole per gli azio-nisti rispetto all’offerta dell’acquirente.25 La sentenzanel caso Time è particolarmente preoccupante perchél’offerta era stata sottoposta interamente per contanti eriguardava il 100 per cento delle azioni della target.26

L’unica giustificazione coerente per una tattica difensi-va quale la poison pill è che gli azionisti vengono protet-ti da offerte cosiddette two-tier, in cui gli azionisti sonoindotti a vendere le loro azioni a un acquirente che sioffre di acquistare meno del 100 per cento delle azionicircolanti della società, perché si teme che l’acquirente,una volta ottenuto il controllo dell’impresa la gestirà inmodo maldestro, facendo precipitare il valore delleazioni rimanenti.27 Questo tipo di offerte two-tier sonocoercitive perché gli azionisti della società bersaglio sitrovano ad affrontare un problema di azione collettivaanalogo al “dilemma del prigioniero”: il risultato idea-le per l’insieme degli azionisti sarebbe che nessuno ven-desse le proprie quote nella prima fase di un’offertatwo-tier coercitiva, ma il risultato ideale per ogni singo-lo azionista sarebbe di poter vendere le proprie azionicontro contanti, soprattutto se l’offerta coercitiva haesito positivo.

Nel caso Moran, la corte giustificava la concessionealla società bersaglio di mantenere la propria poison pillcon il fatto che la manovra era stata adottata «per rea-zione a quella che riteneva essere una minaccia nel mer-cato delle offerte di acquisto coercitive two-tier».28 Sen-tenze successive hanno ignorato la distinzione fonda-mentale tra offerte two-tier e offerte in contanti per il 100

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Corporate governance

2255.. Vedi anche Unitrin v. American General Corp., 651 A.2d 1361, 1385,Del. 1995.

2266.. Paramount Communications v. Time, Inc., 571 A.2d 1142.2277.. William J. Carney, “Shareholder Coordination Costs, Shark Repellents,

and Takeout Mergers: The Case against Fiduciary Duties”, American BarFoundation Research Journal, 8, 1983, pp. 350-353.

2288.. Moran v. Household International, 500 A.2d 1356.

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per cento delle azioni della società bersaglio.29 Peresempio, nel caso Time, la Corte Suprema del Delawareha consentito all’impresa di mantenere la propria poisonpill nonostante il fatto che l’offerente stesse presentandoun’offerta in contanti per il 100 per cento delle azionidella società bersaglio, la quale circostanza faceva deca-dere la necessità di una pillola per tutelare gli azionistidella società bersaglio dall’effetto coercitivo di un’offer-ta two-tier.30

In breve, i tribunali non hanno mantenuto la loropromessa di tutelare gli azionisti dal ricorso alla poisonpill quando questa è finalizzata a tenere il gruppo diri-gente in carica indenne dai salutari effetti del mercatodel controllo societario. Non solo, i tribunali non sonoriusciti nemmeno a confinare l’utilizzo delle poison pillsper la destinazione d’uso appropriata, ovvero la regola-mentazione delle offerte d’acquisto two-tier. Inoltre, itribunali hanno ignorato l’azione demotivante dei pianidi poison pill sul mercato del controllo societario, e diriflesso sulla governance delle società ad azionariatodiffuso. In particolare, rendendo le acquisizioni ostilipiù onerose e ardue, le poison pills rappresentano unforte disincentivo per gli offerenti, che in tal modo, nonsono più motivati non solo a lanciare offerte di acquistoma anche a intraprendere la dispendiosa ricerca neces-saria per identificare imprese sottovalutate.

Nel caso Moran, la Corte Suprema del Delawaresembra aver fatto il possibile per ignorare questi incen-tivi, osservando sconsideratamente che la poison pilldella società bersaglio non destava sospetti semplice-mente perché non impediva agli azionisti di ricevereofferte di acquisto; così, dimostrava di non comprende-re la valida argomentazione della parte ricorrente percui la poison pill avrebbe invece deprivato gli azionisti

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2299.. Vedi anche Ivanhoe Partners v. Newmont Mining Corp., 535 A.2d 1334,1342, Del. 1987, «la Corte ha riconosciuto la natura coercitiva delle offertedi acquisto parziali two-tier»; Unocal Corp. v. Mesa Petroleum Co., 493 A.2d946, 956, Del. 1985, in cui la Corte ha riconosciuto come coercitiva un’of-ferta two-tier «grossolanamente inadeguata».

3300.. Paramount Communications v. Time, Inc., 571 A.2d 1140.

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del «loro diritto a ricevere e accettare offerte di acqui-sto».31 Incapace o non disposta ad andare aldilà delbanale tecnicismo per cui gli offerenti possono comun-que procedere con la scalata ostile nonostante il pianodi poison pill, la corte non ha saputo riconoscere che talipiani demotivano gli offerenti a meno che non riescanoa ottenere l’approvazione del consiglio di amministra-zione della società bersaglio (nel qual caso la scalatanon è più ostile, ovviamente).32

Così, con un fiat giudiziario, i tribunali del Delawa-re hanno spazzato via l’offerta di acquisto ostile, il piùefficace strumento di corporate governance nell’arsena-le difensivo degli azionisti. Come previsto da Baums eScott, «la giurisprudenza del Delaware sembra dispo-sta, in sostanza […] a dare al management una sorta dipotere di veto sulle scalate ostili anche nel caso in cui sidimostrino altamente redditizie per gli azionisti dellasocietà bersaglio».33 Se ne conclude che tribunali e orga-ni legislativi hanno indebolito anche il mercato del con-trollo societario, esattamente come hanno minato lavitalità nel settore delle agenzie di rating del credito edelle società di revisione.

L’unica logica plausibile nelle leggi che governano ilmercato del controllo societario è legata alla naturadelle forze politiche che scrivono le regole di questomercato: da un lato gli azionisti, che godrebbero deigenerosi premi e del rigoroso vaglio del management in

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Corporate governance

3311.. Moran v. Household International, 500 A.2d 1354.3322.. Ci sono almeno due modi in cui gli offerenti possono ottenere l’appro-

vazione del consiglio di amministrazione della società bersaglio. Il primo èquello di presentare un’offerta contestualmente alla decisione da parte delCdA della target di ritirare la poison pill; questa condizione è oggi una prassinel processo di offerta. Il secondo è quello di avviare una battaglia delle dele-ghe per rilevare il controllo del consiglio di amministrazione nel momentostesso in cui viene dato annuncio dell’offerta di acquisto; una volta acquisitoil controllo sul CdA, l’offerente può usarlo per ritirare la pill. I consigli connomine scaglionate rendono quest’ultima tattica più difficile da attuare. VediLucian Arye Bebchuk - John C. Coates IV - Guhan Subramaniam, “ThePowerful Antitakeover Force of Staggered Boards: Theory, Evidence, andPolicy”, Stanford Law Review, 54, 2002, p. 887.

3333.. Theodor Baums - Kenneth E. Scott, “Taking Shareholder ProtectionSeriously?”, p. 59.

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un mercato del controllo societario rafforzato da unavigilanza più puntuale, ma sono invece decisamentedepredati e disorganizzati; dall’altro i manager, chevogliono liberarsi dall’intensa disciplina di un mercatodel controllo societario forte e rappresentano un grup-po piccolo, discreto e ben organizzato in un’efficacecoalizione politica. Per le regole vigenti dobbiamo rin-graziare proprio questa coalizione, coadiuvata daesperti di diritto aziendale e di investment banking, chefanno la loro fortuna in un mercato per il controllosocietario sclerotico, gestito per l’appunto da avvocati ebanchieri invece che da imprenditori.

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I mercati dei capitali rappresentano un’altra istitu-zione di corporate governance poco considerata. I mer-cati dei capitali influiscono in tre contesti: le offertepubbliche iniziali (IPO), il private placement (colloca-mento privato) e la negoziazione ordinaria sul mercatosecondario. Se funzionano correttamente, i mercatisecondari forniscono agli investitori e ad altre contro-parti nell’impresa un indicatore sintetico, accurato,obiettivo e aggiornato della performance e del posizio-namento competitivo di una società. Questo parametroè condensato nel prezzo dell’azione della società, cheoscilla in continuazione sui mercati finanziari.

Infatti, il valore aggiunto di un mercato secondariobasato su solidi meccanismi di contrattazione è incalco-labile per la corporate governance di una società. Nel-l’ottica della corporate governance come promessa, adot-tata nel presente libro, la quotazione di una società adazionariato diffuso è il metro con cui valutare se la socie-tà sta mantenendo le promesse fatte agli investitori.

L’approccio adottato quando una società presentaun’offerta pubblica o un private placement di titoli èmolto simile: quando una società si rivolge ai mercatidel capitale pubblico o privato per reperire fondi siimpegna a sottoporsi a un controllo rigoroso da parte diuna squadra di avvocati, banchieri d’investimento eanalisti finanziari, che corrono rischi reputazionali e

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Capitolo 9

Offerte pubbliche iniziali e private placement

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legali se non proteggono adeguatamente gli investitori.Questo processo assolve a una funzione di filtro, ingergo gatekeeping.1

La funzione di gatekeeping nelle IPO e nel private pla-cement è incentrata sull’analisi di due diligence che vieneabitualmente condotta in concomitanza con l’offerta. Iltermine giuridico “due diligence” definisce le attività cheintermediari quali gli underwriters e gli agenti di collo-camento che vendono i titoli devono espletare per nonincorrere in responsabilità legali. La normativa cheregola gli strumenti finanziari tiene indenni da respon-sabilità i banchieri d’investimento e altri operatori chedopo “giudiziosa e ragionevole analisi” ritengono chel’offerta non abbia violato le norme finalizzate a garan-tire la trasparenza delle informazioni. Le normative inmateria di strumenti finanziari tutelano i sottoscrittori egli agenti di collocamento che esercitano “cura ragione-vole” e non sapevano o non potevano sapere di even-tuali tali violazioni.

Per spiegare il concetto legale di due diligence, alcuniricorrono all’esempio concreto di quando si acquistaun’auto di seconda mano: si osserva l’auto da fuori e sidà un calcio ai pneumatici per valutarne la robustezza.Ma le cose non sono proprio così semplici: una due dili-gence condotta per bene richiede più tempo, nell’esem-pio già citato bisognerebbe esaminare per bene anchequello che sta sotto il cofano, per vedere se c’è qualcosache non va. Gli investitori si affidano agli underwriters ealle agenzie di collocamento per scoprire e garantireun’informazione adeguata sulle specifiche essenzialidel finanziamento e della società interessata dall’opera-zione. Le banche che effettuano indagini due diligencenon devono limitarsi a incontrare il top managementdella società emittente per individuare la loro “difesadella due diligence” ai sensi della normativa in materiadi strumenti finanziari, devono anche verificare inmodo indipendente l’accuratezza delle dichiarazioni

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11.. Frank H. Easterbrook, “Two Agency-Cost Explanations of Dividends”,American Economic Review, 74, 1984, p. 654.

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rilasciate dal management nonché di quelle contenutenei documenti di offerta. Un banchiere d’investimentoche abbia prodotto un’analisi investigativa carente nonpuò nascondersi dietro alla due diligence: una due dili-gence può esonerare underwriters e agenzie di colloca-mento da responsabilità solo se le banche incaricatedella due diligence non si sono fidate del managementtout court, ma hanno verificato in modo indipendentele informazioni ricevute. I tribunali hanno riconosciutoche la verifica indipendente è un momento fondamen-tale nel processo di due diligence.

L’obiettivo di questa descrizione del processo di duediligence è illustrare come le società siano disposte a sot-toporsi a controlli esterni quando decidono di quotarsisul mercato.

Purtroppo, una serie di fattori cospira per scoraggia-re le imprese dal quotarsi in Borsa. In particolare, men-tre la responsabilità civile è necessaria per motivare alcontrollo le banche d’investimento e altri gatekeepers,nei casi in cui è quindi imposta secondo un approccio“volente o nolente”, senza tener conto degli sforzi inve-stigativi compiuti dalle banche d’affari, le imprese rea-giscono rinunciando a quotarsi o vendendo le proprieazioni molto meno frequentemente.2 Ne consegue unaminor interazione tra la società e i suoi gatekeepers, conla concomitante riduzione dei controlli, il che a sua

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Offerte pubbliche iniziali e private placement

22.. Il primo articolo sull’effetto economico della responsabilità civile degliunderwriters nel mercato primario è quello di Michael Dooley, “The Effectsof Liability on Investment Banking and the New Issues Market”, VirginiaLaw Review, 58, 1972, p. 776. Quando i prezzi salgono, l’offerta diminuisce.Poiché dal punto di vista dell’emittente il maggior rischio di responsabilitàrappresenta il costo della collocazione presso il pubblico, quando i rischi diresponsabilità aumentano, le offerte pubbliche diminuiscono. L’eccessivaimposizione di responsabilità civile sugli underwriters crea altre inefficienzenel mercato delle offerte pubbliche. Vedi, tra l’altro, Seha M. Tahic, “Ana-tomy of Initial Public Offerings of Common Stock”, Journal of Finance, 43,1988, p. 790, in cui sono illustrati esempi concreti che dimostrano che «ilprezzo eccessivamente basso [delle IPO] è un’efficiente forma di protezionecontro le responsabilità di fronte alla legge […] ed è una forma di implicitaassicurazione contro potenziali responsabilità che potrebbero insorgere dalladue diligence e dagli obblighi di trasparenza previsti dalle norme federali inmateria di strumenti finanziari».

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volta causa un calo nella qualità della corporate gover-nance all’interno dell’impresa.

Secondo Frank Easterbrook, si osserva lo strano feno-meno per cui le società versano denaro agli investitoridistribuendo dividendi e allo stesso tempo raccolgonodenaro tra gli investitori tramite offerte iniziali pubbli-che di capitale sulla stessa categoria di titoli.3 La spiega-zione più logica per questo comportamento apparente-mente bizzarro è che le società reputano nell’interessedegli investitori sottoporsi regolarmente al controlloincarnato dalla due diligence nell’ambito delle IPO.

Da questo punto di vista, i recenti cambiamenti allanormativa fiscale che riducono drasticamente le aliquo-te fiscali sui dividendi possono essere interpretati comeun modo per rafforzare l’infrastruttura di corporategovernance negli Stati Uniti, poiché rimuovono unimpedimento alla distribuzione dei dividendi stessi.Tuttavia, il termine di scadenza previsto per tale ridu-zione si sta avvicinando:4 la riduzione dovrebbe essereresa permanente, ma sarebbero auspicabili ulterioriemendamenti normativi che incoraggino le società adiffondere periodicamente i propri titoli tramite offertepubbliche di sottoscrizione.

Prevedibilmente, per gli interessi della società e delmanagement, sempre alla ricerca di un pretesto peraccrescere la liquidità della società ed espandere l’atti-

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33.. Frank H. Easterbrook, “Two Agency-Cost Explanations of Dividends”,pp. 650-651.

44.. I dividenti venivano un tempo tassati come reddito ordinario, con ali-quote fino al 38,6 per cento. Il Jobs and Growth Tax Relief Reconciliation Act,JGTRRA del 2003 ha ridotto al 15 per cento per la maggioranza dei contri-buenti le imposte sui dividendi distribuiti da società statunitensi, da alcunifondi comuni d’investimento e dalle cosiddette società estere qualificate (quel-le cioè costituite in un territorio statunitense) che abbiano diritto ad agevola-zioni in virtù di un trattato fiscale statunitense rispondente a determinati cri-teri o siano negoziate su una piazza borsistica statunitense consolidata sottoforma di azioni o American Depository Receipt (ADR), ovvero certificatisostitutivi di azioni. Per i contribuenti a basso reddito, l’aliquota d’impostaveniva fissata al 5 per cento ed è poi stata azzerata nel 2008. Queste aliquoteagevolate del 15 e 5 per cento sono diventate effettive per i dividendi incassa-ti dal gennaio 2003 fino all’inizio del 2009. Jobs and Growth Tax Relief Recon-ciliation Act, Pub. L. No. 108-27, artt. 303, 117 Stat. 752, 764, 2003.

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vità dell’impresa, è meglio che i dividendi siano sog-getti a un’elevata imposizione fiscale, poiché questaoffre un alibi alla società per non versare dividendi agliazionisti e utilizzare il denaro che poteva essere desti-nato a distribuire dividendi per finanziare progetti cal-deggiati dai dirigenti, per esempio di acquisizione,espansione, ristrutturazione, per non dimenticare ipiani di remunerazione dei dirigenti stessi.

È notevole la discrepanza tra la descrizione dellacornice giuridica del processo di due diligence, dettatadalle normative di legge e dall’intento di eludereresponsabilità in una frode civile sugli strumenti finan-ziari, e la prospettiva economica del processo di due dili-gence tratteggiata da Easterbrook, guidata dalle forzedel mercato. La definizione giuridica suggerisce che ladue diligence è condotta perché la legge lo richiede perevitare responsabilità, mentre la definizione economicadi due diligence parte dal presupposto che gli incentiviprivati rappresentino una motivazione sufficiente affin-ché le banche conducano indagini di due diligence.

Nell’interpretazione di Easterbrook del processo didue diligence, è chiaro che le banche d’investimento piùprestigiose si sentirebbero stimolate dalle forze delmercato ad assumersi volontariamente la responsabili-tà di condurre indagini di due diligence: come già accen-nato, le società emittenti si rendono “disponibili a sot-toporsi” alla funzione di controllo del processo di duediligence, ma perché questo impegno sia credibile occor-re che l’underwriter sia sanzionabile in caso di due dili-gence inadeguata. Benché sia possibile che, pur in assen-za di responsabilità civile in caso di due diligence inade-guata, il danno reputazionale subìto dagli underwritersdi emittenti immeritevoli costituisca uno stimolo suffi-ciente per effettuare una due diligence consona, perso-nalmente lo ritengo improbabile. Il timore di un possi-bile asservimento alle imprese di singoli banchieri d’in-vestimento e le problematiche di quest’ultimo periodosuggeriscono di introdurre un ragionevole concetto diresponsabilità per colpa nel caso in cui un underwritervenga meno ai suoi obblighi di due diligence.

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Offerte pubbliche iniziali e private placement

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A parte i consigli di amministrazione societari, levertenze giudiziarie nella forma di class action e deriva-tive action, o azione sociale di responsabilità, sono nor-malmente considerate il principale meccanismo di cor-porate governance a disposizione degli investitori sta-tunitensi. Questa convinzione non è in linea con l’ideadella “società come promessa” contenuta in questolibro, ed è sbagliata.

È altamente improbabile che gli azionisti accettinovolontariamente di aderire a un costoso sistema di azio-ni legali private come quello esistente negli Stati Uniti,che consente ai legali di parte civile in class action diestorcere miliardi di dollari alle società e impone agliazionisti di acconsentire a cause nelle quali ingentiquantità di denaro vengono trasferite da un gruppo diinvestitori a un altro o, ancora peggio, dagli investitoriagli avvocati.

Così come i precedenti capitoli avevano l’obiettivodi dimostrare che i consigli di amministrazione sono unelemento fortemente sopravvalutato nel panoramadella corporate governance, in questo capitolo si dimo-stra che le azioni legali sono parte del problema dellacorporate governance e non parte della soluzione. Ilegali di parte civile e le cause da essi intentate perconto degli azionisti presentano una serie di aspettiproblematici in termini di conflitti di interesse e costi di

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Capitolo 10

La governance delle controversieLa derivative action

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agenzia, e probabilmente fanno più male che bene. Naturalmente, esiste anche un argomento contrario.

I legali di parte civile si definiscono “la prima linea diprotezione contro l’avidità delle società”. In generale,avvocati e organi di regolamentazione sono del parereche la vertenza giudiziaria sia uno strumento impor-tante a disposizione degli azionisti per costringere ilmanagement a rispondere di scorrettezze intenzionali egravi negligenze. Per esempio, secondo Reinier Kraak-man, della facoltà di legge di Harvard «le cause inten-tate da azionisti sono il meccanismo principale perimporre i doveri fiduciari dei dirigenti aziendali».1 L’expresidente della SEC Athur Levitt ha definito l’azionelegale privata «cruciale per l’integrità del nostro siste-ma di comunicazione aziendale, perché rappresenta unincentivo diretto per gli emittenti e gli altri operatoridel mercato a rispettare i loro obblighi ai sensi dellenormative sui titoli».2

I sostenitori delle cause intentate dagli azionisti conl’assistenza di legali privati affermano che in questomodo si risolve il problema dell’azione collettiva incon-trato dagli azionisti ampiamente dispersi delle societàstatunitensi ad azionariato diffuso quando tentano diesercitare il loro controllo sul management. La difficol-tà nasce perché, anche quando la gestione negligente ecorrotta delle società provoca perdite consistenti, spes-so queste perdite sono spalmate su centinaia di migliaiadi investitori. A sua volta, questo significa che il dannoeconomico per i singoli individui in generale è piutto-sto limitato in relazione ai costi che un singolo investi-tore dovrebbe sostenere per tenere sotto controllo ilgoverno societario o indagare sugli illeciti. Con la classaction e l’azione sociale di responsabilità è possibile

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11.. Reinier Kraakman et al., “When Are Shareholder Suits in ShareholderInterests?”, Georgetown Law Journal, 82, 1994, p. 1733.

22.. “Litigation Reform Proposals”, audizione presso la Sottocommissione perle Telecomunicazioni e la Finanza della Camera dei Rappresentanti, Com-missione Commercio, 104° Congresso, prima sessione, 1995, dichiarazionedi Arthur Levitt, presidente della SEC, http://www.sec.gov/news/tes-timony/testarchive/1995/spch025.txt.

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superare le difficoltà di avviare un’azione collettiva,poiché consentono a un singolo rappresentante degliazionisti e a un avvocato di parte civile, ingaggiatosulla base di un patto di quota lite, di fare causa perconto di tutti gli altri soggetti nella medesima situazio-ne senza consultarli, riducendo così notevolmente icosti dell’azione.

Sarebbe estremamente irrazionale per i singoli inve-stitori spendere risorse significative nella corporategovernance, poiché il risultato che un singolo azionistaavrebbe la probabilità di ottenere dal fatto di garantirebuone prestazioni della direzione è irrisorio in relazio-ne all’investimento necessario. In altre parole, per gliinvestitori è ragionevole non entrare nel merito dellemodalità di gestione delle loro società, in particolarequando per la disciplina del management possono con-tare su meccanismi che non richiedono la loro parteci-pazione, quali il mercato del controllo societario dis-cusso al capitolo 8.

Inoltre, nella misura in cui un singolo azionista oaltri piccoli investitori che agiscono individualmentesono in grado di migliorare la corporate governance,eventuali risultati ottenuti da tali miglioramenti devo-no essere condivisi con tutti gli altri. Da qui nasce il pro-blema tipico dell’azione collettiva, noto come free-riding, che si verifica quando alcuni attori economiciriescono a godere dei benefici derivanti da un’attivitàonerosa, quale l’investimento nella corporate gover-nance, senza però accollarsi nemmeno la propria partedei costi di tale attività. In assenza di procedure cheimpongano a tutti gli azionisti di sopportare una parteequa del costo delle attività di corporate governance oprevedano ritorni privati esorbitanti per i singoli azio-nisti che si impegnano in queste attività, la teoria eco-nomica prevede che i soggetti ragionevoli si rifiutereb-bero di agire a causa del problema dei free-riders. Azio-ni quali la class action e la derivative action sono appa-rentemente giustificate perché eliminano i problemiincontrati dai piccoli investitori fortemente frammenta-ti nel portare avanti un’azione collettiva.

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La class action è un meccanismo procedurale utiliz-zato per ottenere una riparazione legale a favore dinumerose persone che si trovano nella stessa situazionee le cui lamentele riguardano questioni comuni di dirit-to e di fatto. Come altre azioni legali dirette promosseda investitori, le class actions di solito vengono avviateper imporre i doveri fiduciari di dirigenti e ammini-stratori, spesso in caso di frode mobiliare, ed eventualirisarcimenti vengono distribuiti ai singoli attori.

La derivative action, o azione sociale di responsabili-tà, viene intentata da un azionista per conto di unasocietà nella quale detiene una partecipazione, a segui-to di danni arrecati alla società ai quali il managemente il consiglio di amministrazione si rifiutano di porrerimedio. Attraverso la derivative action, gli azionisti pos-sono esercitare un controllo sul management e, non-ostante la sua opposizione, perseguire un’azione legaleper conto della società. Il motivo più ovvio per cui ladirezione o il consiglio di rifiuterebbero di porre rime-dio ai danni è il fatto che la richiesta di risarcimentoimplica la condotta irregolare di dirigenti o membri delconsiglio di amministrazione, o di entrambi. Il beneficioper gli azionisti è indiretto, legato al conseguenteaumento del corso azionario e al generale effetto deter-rente della minaccia di una vertenza giudiziaria. L’azio-ne sociale di responsabilità supera i problemi del free-riding e dell’azione collettiva perché consente a un sin-golo azionista di agire in giudizio per conto dell’interasocietà e perché le spese legali per un azionista rappre-sentato da uno studio legale che lavora in base a unpatto di quota lite probabilmente sono irrisorie. Alme-no in teoria, la derivative action svolge un ruolo preziosonella corporate governance, offrendo un meccanismoefficace per affrontare i torti inflitti a una società daisuoi membri. Ovviamente, è fondamentale disporre diqualche tipo di meccanismo per individuare gli illeciticommessi in azienda, perché manager e amministratorisono essi stessi degli interni e non ci si può aspettareche svolgano un’azione di auto-sorveglianza o addirit-tura che si valutino con obiettività.

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La prima parte di questo capitolo fornisce unadescrizione della class action e della derivative action inquanto strumenti di corporate governance, prima dipassare a una riflessione approfondita sulle loro pato-logie comuni. Si tratta di problemi che ironicamenteassumono quasi la stessa forma delle difficoltà di cor-porate governance che si intendeva affrontare con que-sti strumenti giudiziari.

La class actionLe class actions promosse da azionisti sono sempre

state considerate un’importante integrazione dell’autori-tà esecutiva della SEC3 perché consentono agli investito-ri di superare i limiti dell’azione collettiva e del free-ridingaggregando le loro rivendicazioni. La Federal Rule ofCivil Procedure 23 consente a un attore rappresentantedi una classe di promuovere un’azione e richiedere lacertificazione di class action ove soddisfi i necessari requi-siti, quali l’esistenza di questioni di fatto o di dirittocomuni alla classe e la dimostrazione che le istanze pre-sentate sono tipiche della classe in generale.4

Poiché gli interessi economici per la maggior partedegli azionisti coinvolti in queste cause sono irrisori, gliinvestitori non sono molto incentivati ad avviare un’a-zione legale. Per contro, il consulente di parte civile hala probabilità di guadagnare grosse somme con l’attri-buzione delle spese legali. Questo fatto, combinato conil dato oggettivo che gli studi legali, piuttosto che i sin-goli investitori, spesso sono gli attori economici ingrado di sostenere i costi di un’azione legale, fa nascereil rischio che i legali di parte civile promuovano strikesuits, o azioni di attacco, immotivate. Le preoccupazio-ni in merito alle azioni di attacco sembrano giustificate

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33.. Vedi, per esempio, Basic v. Levinson, 485 U.S. 224, 245, 1988, in cui sisottolinea che le class actions degli azionisti sono necessarie per implementarele direttive proprie del Securities and Exchange Act del 1934.

44.. Fed. R. Civ. P. 23(a. 5.), Elliott J.Weiss - John S. Beckerman, “Let theMoney Do the Monitoring: How Institutional Investors Can Reduce AgencyCosts in Securities Class Actions”, Yale Law Journal, 104, 1995, pp. 2056-2057.

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dal fatto che nella maggior parte dei casi le class actionssono avviate dagli avvocati di parte civile piuttosto chedagli azionisti e spesso vengono intentate molto rapi-damente «entro pochi giorni dagli eventi che danno ori-gine alla […] controversia».5 In effetti, gli studi effettua-ti sulle class actions di azionisti dipingono un quadro diattori passivi, dal quale emerge che spesso «gli attorisono scarsamente informati in merito all’aspetto teoricodei loro casi, totalmente ignoranti in merito ai fatti oanalfabeti in materia finanziaria».6

L’interesse economico limitato dei singoli investito-ri nell’esito della causa si traduce in scarsi incentivi acontrollare il consulente legale nel corso del procedi-mento. Inoltre, «anche se gli attori volessero teneresotto controllo la causa, incontrerebbero gravi difficol-tà nel farlo poiché spesso sono totalmente inconsape-voli del fatto che la causa è in corso finché non si è rag-giunta una transazione».7 Se un attore di class action inun’azione legale diretta si rivolgesse all’avvocato dellaclasse con una richiesta relativa al procedimento non sisa come reagirebbe l’interpellato, «perché l’avvocatodeve agire a vantaggio della classe nel suo complesso epertanto non è obbligato a seguire i desideri unilatera-li di un singolo membro della stessa».8 È improbabileche il tentativo di migliorare la comunicazione tra l’av-vocato della classe e i suoi membri si riveli fruttuoso,poiché i costi connessi alla comunicazione con ungruppo di azionisti ampio ed estremamente frammen-tato sono probabilmente elevati e una procedura deci-sionale che consenta agli attori della class action di rice-

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55.. Elliott J. Weiss - John S. Beckerman, “Let the Money Do the Monito-ring”, pp. 2056-2057.

66.. Elliott J.Weiss - John S. Beckerman, “Let the Money Do the Monito-ring”, p. 2060. Vedi anche la vertenza Koening v. Benson, 117 F.R.D. 330,337, E.D.N.Y. 1987, nella quale i ricorrenti non sapevano neanche la linguainglese e non conoscevano i fatti in questione.

77.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Role inClass Action and Derivative Litigation: Economic Analysis and Recommen-dations for Reform”, University of Chicago Law Review, 58, 1991, p. 20.

88.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Rolein Class Action and Derivative Litigation”, p. 20.

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vere indicazioni in merito alla strategia legale è verosi-milmente impraticabile.9

L’assenza di un controllo significativo da parte delcliente è particolarmente preoccupante alla luce deiconflitti di interesse tra i membri della classe e il legaleche la rappresenta. Un conflitto di interessi sorge ine-vitabilmente quando si tratta di decidere fino a chepunto proseguire la causa e quando procedere allatransazione. Agli azionisti attori in una class action inte-ressa portare avanti la causa fino a ottenere il massimorisarcimento al netto delle spese legali.10 L’avvocato diparte civile, invece, vorrà concludere la causa quando«la differenza tra il suo onorario e i costi, che oltre aldenaro speso per promuovere la causa del cliente com-prendono anche le altre opportunità di lavoro allequali il legale ha dovuto rinunciare, raggiunge il livel-lo massimo».11 Come rileva il tribunale con riferimentoal caso Cendant, i risultati di questi calcoli «convergonoraramente».12 Più avanti nel capitolo si prendono inesame in maggior dettaglio i problemi relativi al con-trollo del cliente, alle spese legali e alle decisioni con-cernenti la transazione.

La derivative actionLa derivative action, o azione sociale di responsabili-

tà, è uno strumento giuridico complesso utilizzatoquasi esclusivamente negli Stati Uniti. Si tratta di unacausa intentata dagli azionisti presumibilmente “nel

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99.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Rolein Class Action and Derivative Litigation”, p. 20.

1100.. Vedi In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d 201, 255, 2001.1111.. In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d 201, 255, 2001. Vedi anche

Elliott J.Weiss - John S. Beckerman, “Let the Money Do the Monitoring”, p.2065, dove si sottolinea che i conflitti di interesse spingono i legali dei ricor-renti a cercare di elevare al massimo i compensi in caso di transazione;Andrew Rosenfeld, “An Empirical Test of Class-Action Settlements”, Journalof Legal Studies, 5, 1976, pp. 116-117, che ribadisce che i legali dei ricorren-ti incassano un “premio sull’accordo transattivo” quando si segue questa stra-da, mentre non percepiscono alcun premio per cause risolte in tribunale congiudizio sul merito.

1122.. In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d, 255.

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diritto della società” per porre rimedio a eventualidanni arrecati all’impresa, di solito da dirigenti di altolivello e dal consiglio di amministrazione, in tutto o inparte. Nelle derivative actions, gli avvocati che rappre-sentano gli azionisti devono impegnarsi in due azionilegali distinte. Innanzitutto, l’avvocato cita in giudizio lasocietà e il suo consiglio di amministrazione per ottene-re il potere di revocare l’autorità giuridica del consiglioe del management in materia di corporate governancelimitatamente alla decisione di intentare causa a nomedella società. Questo significa persuadere un tribunale,praticamente scatenando ogni volta le veementi protestedegli amministratori e del legale della società, in meritoalla necessità di trasferire l’autorità sulla gestione dellacausa dal consiglio di amministrazione a un avvocato diparte civile che dichiara di rappresentare la società “pervia derivata” per conto degli investitori.

Nella maggior parte degli Stati americani, il legaledella derivative action di solito deve presentare unadomanda agli amministratori per avviare la causa.13 Inquesti casi “soggetti a domanda”, la raccomandazionedel consiglio di amministrazione sarà valutata dal tri-bunale ai sensi della business judgment rule.14 In assen-za di frode o se non viene a mancare la buona fede, epurché attribuibile a uno scopo aziendale razionale, ladecisione del consiglio viene confermata. L’obbligodella domanda è giustificato dall’ipotesi che gli ammi-nistratori abbiano un interesse rilevante nella società eche pertanto i loro interessi di norma siano allineati aquelli degli azionisti.15 Inoltre, gli amministratori dis-pongono di maggiori informazioni e competenze inmerito alla società rispetto alla maggior parte degliazionisti o degli avvocati e normalmente sono in una

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1133.. Vedi, per esempio, Del. Ch. Ct. R. 23.1; Fed. R. Civ. P. 23.1; vedi anche“Principles of Corporate Governance: Analysis and Recommendations”, art.7.03(b), 1994, in cui si raccomanda di rendere la domanda una prassi daseguire.

1144.. Vedi Zapata Corp. v. Maldonado, 430 A.2d 779, 784, Del. 1981.1155.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s

Role in Class Action and Derivative Litigation”, p. 35.

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posizione più adeguata per stabilire se un procedi-mento giudiziario sia nel migliore interesse dellasocietà.16

In alcuni casi, può darsi che gli azionisti considerinoinutile presentare la domanda al consiglio di ammini-strazione. Si tratta di situazioni «in cui gli amministra-tori hanno un interesse personale nella causa contrarioalla società».17 In questi casi, il tribunale può dispensa-re dall’obbligo della domanda. Un caso di questo tipopuò verificarsi quando nella causa si dichiara che gliamministratori della società hanno violato il dovere difedeltà. In una simile situazione gli amministratori, chesono potenziali convenuti, «potrebbero servirsi deiloro poteri ai sensi della norma sull’obbligo delladomanda per ostacolare la causa, per esempio ritar-dando la risposta, o assumendo il controllo della causaper poi archiviarla o chiuderla con un compromessofavorevole al proprio interesse».18 Ove gli avvocati pos-sano sollevare un ragionevole dubbio in merito all’im-parzialità della maggioranza del consiglio, o sulla pos-sibilità che l’operazione contestata fosse protetta dallabusiness judgment rule, è possibile l’esonero dall’obbligodella domanda.19 In questo caso, la derivative action con-sente agli azionisti di esercitare il controllo sulla dire-zione aziendale, ma il fatto di ottenere l’esonero dal tri-bunale non esclude necessariamente il coinvolgimentodei manager nella causa.

In caso di esonero dall’obbligo della domanda, ilmanagement può comunque rientrare nella derivativeaction organizzando un comitato speciale per le contro-versie «per indagare sulle affermazioni degli attori, pre-parare un’accurata relazione scritta e quasi invariabil-

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1166.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 35.

1177.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 35.

1188.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 37.

1199.. Vedi Aronson v. Lewis, 473 A.2d 805, Del. 1984; Marx v. Akers, 666N.E.2d 1034, N.Y. 1996.

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mente chiedere l’archiviazione della causa».20 Nel casoZapata v. Maldonado,21 la Corte Suprema del Delawareha elaborato un test in due fasi per stabilire se a uncomitato speciale per le controversie dovesse essereconsentito di archiviare un’azione sociale di responsa-bilità: innanzitutto, il tribunale deve stabilire se il comi-tato ha agito autonomamente e se le sue conclusioni«hanno una base fattuale ragionevole»;22 in secondoluogo, il tribunale deve applicare il proprio giudizio perstabilire se la proposta della società di archiviare lacausa debba essere accettata.23 Tuttavia, non è chiaroquali criteri debba utilizzare il tribunale in questo caso.Esiste il rischio che il tribunale consideri «la “provaZapata” uno strumento conveniente per archiviare unacausa per questioni di merito, anche se concettualmen-te l’analisi non dovrebbe rispecchiare la valutazionedella causa nel merito, ma piuttosto se il controllo dellacausa debba essere lasciato all’avvocato di parte civilenella derivative action».24 Inoltre, i giudici non sonoesperti in materia aziendale ed è poco probabile cheesercitino con efficacia il proprio giudizio. Piuttosto, igiudici «saranno inclini a rimettersi al parere degliamministratori della società».25

In un recente studio sulle controversie societarie nelDelaware in un periodo di due anni si è riscontrato chei legali di parte civile non presentano quasi mai la

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2200.. Joel Seligman, “The New Corporate Law”, Brooklyn Law Review, 59,1993, p. 29, nota 119, che sottolinea come la maggior parte delle raccoman-dazioni del comitato speciale per le controversie indichino che le dispute nonsono nell’interesse della società, citando James D. Cox, “Searching for theCorporation’s Voice in Derivative Suit Litigation: A Critique of Zapata andthe ALI Project”, Duke Law Journal, 1982, p. 963.

2211.. Zapata Corp. v. Maldonado, 430 A.2d 779.2222.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s

Role in Class Action and Derivative Litigation”, p. 38.2233.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Role

in Class Action and Derivative Litigation”, p. 38.2244.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Role

in Class Action and Derivative Litigation”, p. 39.2255.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Role

in Class Action and Derivative Litigation”, p. 39.

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domanda, ma piuttosto ne invocano l’inutilità.26 Daricerche empiriche è emerso che spesso i convenutiriescono a contestare le denunce di inutilità dei ricor-renti.27 In relazione al numero di class actions statali ofederali per frodi mobiliari, il numero di derivativeactions promosse per conto di società ad azionariatodiffuso è limitato.28 Può darsi che l’obbligo delladomanda e la possibilità del management di rientrarenella causa mediante un comitato speciale per le con-troversie scoraggi i ricorrenti dall’intentare azionisociali di responsabilità.29

Dinanzi alla discutibile utilità delle derivativeactions,30 i commentatori hanno suggerito diverse rifor-me per rafforzarne l’efficacia in quanto strumenti dicorporate governance. Poiché gli investitori istituziona-li, detentori di partecipazioni consistenti, probabilmen-te sono maggiormente disposti ad avviare una derivati-ve action rispetto ai piccoli investitori, c’è chi ha racco-mandato l’esonero dall’obbligo della domanda quandola causa è promossa da un azionista che detenga alme-no l’1 per cento delle azioni circolanti:31 data la consi-stenza delle partecipazioni finanziarie di questi azioni-sti nella società, è improbabile che agiscano contro il

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2266.. Vedi Robert B. Thompson - Randall S. Thomas, “The Public and Pri-vate Faces of Derivative Lawsuits”, Vanderbilt Law Review, 57, 2004, p.1747.

2277.. Vedi Robert B. Thompson - Randall S. Thomas, “The Public and Pri-vate Faces of Derivative Lawsuits”, p. 1759, dove si cita Randall S. Thomas -Kenneth J. Martin, “Litigating Challenges to Executive Pay: An Exercise inFutility”,Washington University Law Quarterly, 79, 2001, pp. 576-580.

2288.. Robert B. Thompson - Randall S. Thomas, “The Public and PrivateFaces of Derivative Lawsuits”, p. 1772.

2299.. Robert B. Thompson - Randall S. Thomas, “The Public and PrivateFaces of Derivative Lawsuits”, p. 1773.

3300.. Vedi, per esempio, Roberta Romano, “The Shareholder Suit: Litigationwithout Foundation?”, Journal of Law, Economics and Organization, 7, 1995,p. 65; Stephen M. Bainbridge, Corporation Law and Economics, New York,Foundation Press, 2002, p. 404 («Non si può dire che l’azione sociale diresponsabilità abbia particolari effetti positivi sotto il profilo della accounta-bility»).

3311.. Vedi Robert B. Thompson - Randall S. Thomas, “The Public and Pri-vate Faces of Derivative Lawsuits”, p. 1790.

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proprio interesse promuovendo azioni legali immotiva-te contro le società che possiedono.32 Un modo peraccertarsi che la possibilità del rientro del managementnella causa mediante il comitato speciale per le contro-versie non mini l’efficacia della derivative action in quan-to strumento di corporate governance sarebbe la modi-fica dello standard of review, o criterio di verifica, affin-ché al tribunale non venga chiesto di applicare il pro-prio giudizio alla decisione di un comitato speciale perle controversie. Sarebbe meglio che ai tribunali si chie-desse di stabilire «se per la società i vantaggi della pro-secuzione della causa superano i relativi costi».33 In talmodo, il management avrebbe l’onere di dimostrareche i costi della causa in questione superano i potenzia-li benefici.

Un altro modo per promuovere le derivative actionsesonerate dall’obbligo della domanda sarebbe quello dimodificare le modalità di pagamento dei costi del comi-tato speciale per le controversie. Di solito questi comitatiingaggiano un consulente per definire il valore dellacausa e queste indagini possono risultare in parcelle con-sistenti.34 Se un tribunale stabilisce che il comitato non haagito autonomamente ma piuttosto «come strumentodegli amministratori convenuti, sarebbe opportunorichiedere ai convenuti di pagare i costi del comitatoqualora alla fine siano ritenuti responsabili».35 Alcuniesperti hanno suggerito di nominare un tutore ad litem inqualità di rappresentante della classe nel corso dellatransazione: questi agirebbe come una sorta di avvocatodel diavolo dal quale «è normale aspettarsi che contestile transazioni o che fornisca al tribunale una dichiarazio-ne del motivo per cui, a suo parere, la transazione è equa

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3322.. Robert B. Thompson - Randall S. Thomas, “The Public and PrivateFaces of Derivative Lawsuits”, p. 1790.

3333.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 40.

3344.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Rolein Class Action and Derivative Litigation”, p. 41.

3355.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Rolein Class Action and Derivative Litigation”, p. 41.

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per la classe di ricorrenti».36

Se l’avvocato di parte civile ha la meglio nella primafase della derivative action, può procedere con un’azioneintesa a chiedere un risarcimento per il danno sostan-ziale arrecato alla società. Poiché in questa fase si pro-cede contro manager o amministratori in quanto terziaccusati di avere danneggiato la società, nelle raresituazioni in cui la derivative action si conclude con unrisarcimento quest’ultimo viene pagato alla societàpiuttosto che direttamente agli azionisti. Ovviamentequesta procedura riduce ulteriormente l’interesse deisingoli ricorrenti ad agire in giudizio, poiché anche se lasocietà ottiene un risarcimento non esistono garanziedel fatto che i proventi vengano trasferiti agli azionisti,o comunque utilizzati a vantaggio degli investitori anome dei quali è stata intentata la causa.

Il problema dei costi di agenziaLa difficoltà comune di class action e derivative action

in quanto strumenti di corporate governance è che silimitano a prendere atto dei problemi di governanceincontrati dagli azionisti nel tentativo di controllare ilmanagement e vi aggiungono una serie di problemidello stesso tipo, o se vogliamo ancora più complessi,relativi al controllo dei legali di parte civile che gesti-scono la causa. I problemi di governance associati allederivative actions vanno dalle tattiche utilizzate nel sele-zionare le cause da perseguire alle decisioni in meritoall’opportunità di concludere una transazione o di pro-cedere con la causa. Nel complesso, il processo assomi-glia troppo spesso a un malcelato scossone a società lecui azioni hanno appena subìto un notevole calo divalore, a prescindere dal fatto che tale crollo sia attri-buibile o meno a una cattiva gestione.

Sia nella class action che nella derivative action occor-re un avvocato per gestire il procedimento giudiziarioper conto di un representative plaintiff, ossia l’attore rap-

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3366.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’s Rolein Class Action and Derivative Litigation”, p. 47.

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presentante, che nel caso della derivative action è sempreun azionista.

Il problema è che l’insieme degli effettivi ricorrenti,che normalmente sono investitori e nella maggior partedei casi azionisti, deve fare affidamento sugli avvocatidel representative plaintiff, che probabilmente antepor-ranno non meno dei manager il proprio interesse aquello degli attori. In altre parole, gli investitori si tro-vano esattamente davanti agli stessi problemi inerentil’azione collettiva, quali free-riding e ignoranza raziona-le, sia quando si affidano a legali che agiscono in giudi-zio per loro conto, sia quando si affidano a manager cheinvestono per loro conto. È un problema di costi diagenzia.

Come i manager, anche gli avvocati sono incentivatia perseguire i propri interessi privati, quali onorari con-sistenti o la propria reputazione di legali, invece di pro-muovere gli interessi degli investitori. Controllare ilegali è molto costoso, tanto quanto controllare mana-ger e amministratori, e richiede una notevole esperien-za. Un investitore/cliente che fa questo investimentodeve condividere un eventuale risultato positivo con icolleghi, dando origine, ancora una volta, al problemadel free-riding. Inoltre, poiché investire nel controllodegli avvocati è molto costoso e il ritorno atteso per isingoli investitori è molto limitato, un investitore ragio-nevole prima di tutto eviterà di farlo (problema dell’i-gnoranza razionale).

In effetti, i problemi che incontrano i clienti quandocercano di tenere sotto controllo i propri avvocati sonoaddirittura più gravi dei problemi incontrati dagli inve-stitori quando cercano di controllare i manager e gliamministratori delle società ad azionariato diffuso.Come rilevato nel capitolo 9, il controllo di manager eamministratori nelle società per azioni è ampiamentefacilitato dall’immediatezza del corso azionario, chefornisce una variabile di misurazione affidabile e ogget-tiva, almeno nel senso di non rispecchiare la tendenzaall’eccessivo ottimismo che affligge manager e consiglidi amministrazione.

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In altre parole, esiste un meccanismo affidabile edefficace di determinazione dei prezzi basato sul merca-to che gli investitori possono utilizzare per valutare leprestazioni dei manager e dei consigli di amministra-zione delle società in cui hanno investito. Purtroppo,non esiste nulla di simile, neppure lontanamente, aquesto meccanismo per i clienti dei legali di parte civi-le che rappresentano gli investitori in class action e azio-ni sociali di responsabilità. Anche le informazioni suiguadagni degli avvocati non servono a dare un’idea diquanto lavorino bene per i clienti, così come conoscerei compensi del management non ci dice nulla sulla qua-lità dell’operato di un alto dirigente.

Per un’indicazione empirica di quanto sia difficileper i clienti controllare i propri avvocati nel contesto deldiritto societario, basta solo considerare la massicciapresenza di uffici legali interni presso le maggiori socie-tà. Oltre a fornire servizi legali di varia natura, in moltesocietà la funzione principale di questi uffici è quella dicontrollare gli avvocati esterni. Purtroppo, gli investito-ri di solito non possono permettersi di ingaggiare studilegali prestigiosi allo scopo di controllare gli altri legali,che teoricamente dovrebbero agire nel loro interesseintentando class actions e derivative actions.

La saga Milberg WeissUna finestra insolitamente chiara sulla vita nascosta

degli studi legali di parte civile specializzati in classaction ha cominciato ad aprirsi nel maggio 2006, quan-do un gran giurì federale di Los Angeles ha accusato lostudio legale Milberg Weiss, Beshad & Schulman, fino aquel momento lo studio legale più grande e prestigiosoper le class actions in America, nonché due dei suoi socinominali, di quella che i giornalisti hanno definito «unamacchinazione di proporzioni enormi».37 Le accuse

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3377.. Micah Morrison, “High-Profile Trial Looms Large for ControversialClass-Action Leader”, The Examiner, 2 gennaio 2007, http://w-ww.examiner.com/a-485585~High_profile_trial_looms_large_for_controver-sial_class_action_leader.html.

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comprendono la distribuzione di oltre 11 milioni di dol-lari in “tangenti segrete” per indurre le persone adagire come lead plaintiffs, ossia attori principali, in classactions, nonché corruzione, frode, intralcio al corso dellagiustizia e falsa testimonianza.

Secondo le accuse, i soci di Milberg Weiss avrebbe-ro coltivato un piccolo gruppo di “attori professioni-sti” da utilizzare come representative plaintiffs al fine diintentare redditizie class actions contro importantisocietà. Lo studio legale avrebbe incoraggiato questiindividui a detenere o acquistare piccole quantità diazioni in molte società ad azionariato diffuso, in par-ticolare in società apparentemente prossime adammettere degli illeciti a seguito di inchieste interneo di indagini governative. Quando fossero emerse leprove della condotta illecita di queste società, MilbergWeiss avrebbe potuto contare su un representativeplaintiff prontamente disponibile che avrebbe consen-tito di intentare immediatamente una class action. Inquesto modo, lo studio era avvantaggiato rispetto aiconcorrenti per assumere il ruolo di consulente prin-cipale.38

Benché il fatto di coltivarsi dei lead plaintiffs pronta-mente disponibili non sia illegale di per sé, i procurato-ri federali sostengono che Milberg Weiss avrebbe viola-to la legge nel remunerare segretamente questi ricor-renti, tentando di nascondere i compensi sotto l’appa-renza di onorari inviati ai loro avvocati personali. I det-tagli di questi presunti pagamenti forniscono un qua-dro chiaro del ruolo dominante assunto frequentemen-te dai legali di parte civile e dai loro interessi nella con-duzione di questo genere di cause: gli 11,4 milioni didollari indicati nell’atto di accusa sarebbero andati soloa tre individui che nel complesso avrebbero agito in

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3388.. Prima del Private Securities Litigation Reform Act del 1995, le norme diclass action concedevano enormi vantaggi ai legali che fungevano da leadplaintiffs in class actions che denunciavano un evidente illecito aziendale: ilegali del representative plaintiff che “vincevano la corsa al tribunale” si aggiu-dicavano il controllo della controversia e, di conseguenza, facevano la partedel leone nella suddivisione delle spese legali.

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qualità di lead plaintiffs in 180 cause.39 Un giudice fede-rale che nel 1993 aveva presieduto una causa di classaction in materia mobiliare che coinvolgeva uno di que-sti lead plaintiffs aveva rilevato ironicamente che il ricor-rente era «uno degli investitori più sfortunati e angaria-ti nella storia del mercato mobiliare».40 Il fenomeno diquesti “attori seriali”, una prassi che attualmente ècompletamente legale, purché gli studi legali che li rap-presentano non li retribuiscano, indica in che misural’avvio e la gestione di molte class actions e derivativeactions siano motivati dagli interessi degli studi legali,piuttosto che da investitori autentici.

Perché il sistema delle class actions è strutturato inmodo tale da consentire ai legali di parte civile di impa-dronirsi così facilmente di una procedura inizialmenteintesa a promuovere gli interessi delle parti in causa enon quelli degli avvocati che le rappresentano? Lavicenda Milberg Weiss suggerisce una risposta imme-diata: oltre a essere lo studio legale più rinomato per leclass actions in materia societaria, Milberg Weiss è unavoce influente nel partito democratico. Lo studio guidainoltre l’ordine degli avvocati dei tribunali di primogrado, la principale fonte di contributi a favore deidemocratici. In effetti, subito dopo l’incriminazione,alcuni dei maggiori beneficiari della generosa raccoltafondi dello studio, ossia i deputati democratici CharlesRangel, Gary Ackerman, Carol McCarthy e RobertWexler, scrissero e firmarono un’inserzione di mezzapagina, pagata da Milberg Weiss ma pubblicata con iltitolo fuorviante «Congresso degli Stati Uniti: dichiara-zione sull’incriminazione di Milberg Weiss, Bershad &Schulman». Nell’inserzione si attaccava duramente ladecisione del Dipartimento della Giustizia, presentan-dola come «un tentativo malcelato dell’amministrazio-

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3399.. Primo atto d’accusa sostitutivo, United States v. Milberg Weiss Bershadand Shulman LLP, CR 05-587(A-DDP, C.D. Cal. ottobre 2004,http://www.law.com/pdf/ca/milberg_indictment.pdf.

4400.. Peter Elkind, “The Fall of America’s Meanest Law Firm”, Fortune, 3novembre 2006, pp. 155, 157, http://money.cnn.com/magazines/fortune/fortu-ne_archive/2006/11/13/8393127/index.htm.

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ne Bush di ottenere con l’arroganza e l’intimidazionequanto non era stata in grado di ottenere con la legge:porre fine alle class actions, uno dei pochi strumentirimasti a tutela del consumatore americano».41 Secondoil Center for Responsive Politics, nei cinque anni prece-denti la sua incriminazione, lo studio Milberg Weiss e isuoi legali avevano elargito 4 milioni di dollari a candi-dati democratici, a comitati di azione politica (PAC)democratici e ad altri canali per donazioni politiche.42 Ilprincipale gruppo di pressione per l’ordine degli avvo-cati, la Association of Trial Lawyers of America, ha elar-gito ai democratici 23 milioni di dollari, contro i soli 2,7milioni di dollari donati ai repubblicani nello stessoperiodo.43

Considerando la realtà politica di strumenti qualiclass actions e derivative actions, è evidente che una rifor-ma è improbabile. Gli eventuali beneficiari di riformesignificative sono fortemente frammentati e disorganiz-zati, mentre i beneficiari del sistema vigente, ivi compre-so l’ordine, sono molto concentrati e ben organizzati.L’ordine trae vantaggio dall’aumento delle cause e, natu-ralmente, degli onorari degli avvocati. E studi legali diparte civile come Milberg Weiss possono permettersifacilmente di essere generosi verso i politici. La rappre-sentanza dei ricorrenti in una sola causa di alto profilopuò generare decine di milioni di dollari di onorario. Peresempio, lo scandalo WorldCom, in materia contabile edi corporate governance, ha fatto guadagnare 94 milionidi dollari allo studio Lerach Coughlin, staccatosi da Mil-berg Weiss nel 2004 e il cui socio nominale, WilliamLerach, rimane indagato dalle autorità federali. Conside-rando quanto rendono le cause nella sfera della corpora-te governance, non sorprende affatto che si sia originatauna potente combinazione di interessi ad alto livello e

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4411.. Micah Morrison, “High-Profile Trial Looms Large for ControversialClass-Action Leader”.

4422.. Micah Morrison, “High-Profile Trial Looms Large for ControversialClass-Action Leader”.

4433.. Micah Morrison, “High-Profile Trial Looms Large for ControversialClass-Action Leader”.

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strette connessioni politiche, che rendono molto difficileuna riforma dei procedimenti giudiziari.

Motivazioni della presenza degli avvocati nel conte-sto societario

Benché non tutti i legali di parte civile agiscano inmodo altrettanto palese, la storia di Milberg Weiss for-nisce un’indicazione importante in merito alle motiva-zioni della presenza dei legali di parte civile nell’am-biente societario. In altri contesti dov’è possibile ricor-rere alle class actions, gli avvocati che si impegnano perla giustizia sociale a favore di ricorrenti privi di diritticivili lavorano per poco più della sola soddisfazione dipromuovere cause quali la parità di diritti per i disabilio il diritto alla libertà di espressione.

Le cause societarie invece mirano ai soldi. I ricorren-ti rappresentati dai legali di parte civile nelle classactions saranno anche poco organizzati e scarsamenteinformati, ma non sono esattamente quel che si intendeper poveri e oppressi. Quindi esistono ben poche ragio-ni per pensare che i legali di parte civile nel contestoaziendale siano motivati da un desiderio di giustizia,mentre vi sono parecchi motivi per ritenere, nonostantele loro proteste in senso contrario, che siano tipici atto-ri economici consapevoli: sono lì per il loro interesse. Diconseguenza, gli investitori devono essere accorti con ipropri avvocati, così come lo sono con gli altri soggettieconomici con i quali interagiscono.

A seconda della modalità concordata per il compen-so, i legali di parte civile ragionano da prospettive dif-ferenti, che fanno sì che le loro preferenze nella gestio-ne del caso divergano dagli interessi dei clienti. Se l’av-vocato riceve una percentuale sulla sentenza, è incenti-vato a concludere presto la causa con una transazione,magari per un importo inferiore a quello che i ricorren-ti potrebbero ricevere con un processo, per ottenere ilmassimo profitto.44 Se l’avvocato viene remunerato

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4444.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 45.

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secondo il metodo più comune, che tiene conto delnumero di ore dedicate dal legale per seguire la causa,sarà incentivato a prolungare la controversia e a ritar-dare la trattativa e l’accettazione di offerte ragionevoliper la transazione, per aumentare il numero di ore dafatturare nella sua parcella.45 Questi calcoli interessatimettono in evidenza le due aree dove si rilevano lemaggiori difficoltà per quanto concerne il controllo deiclienti sui legali di parte civile nel contesto societario: lespese legali e la transazione.

Le spese legaliUna delle caratteristiche distintive del sistema giu-

diziario americano è il costo elevato degli avvocati edelle cause, che costituisce un problema particolarmen-te evidente nel campo delle class actions per frodi societa-rie e mobiliari. Per intentare con successo una class actiono una derivative action occorrono risorse finanziarie con-sistenti. È molto costoso intentare una causa importantecontro una società potente. Gli studi legali che si occupa-no di class action in materia societaria o mobiliare devo-no disporre di risorse prodigiose, non solo perché i costidiretti della causa sono estremamente elevati, ma ancheperché il pagamento avviene solo alla sua conclusione.Gli avvocati di parte civile devono possedere le risorseper “andare fino in fondo” o almeno minacciare credibil-mente di farlo, in cause che possono concludersi anchedopo anni o addirittura decenni.

Il capitale necessario per gestire le class actions creauna potente barriera all’ingresso nel mercato, controlla-to per la maggior parte da alcuni studi, quali MilbergWeiss e Bernstein Litowitz Berger & Grossman. In unasimile situazione, gli studi sono poco soggetti a pres-sioni per tenere sotto controllo gli onorari e tanto menohanno la necessità di mostrarsi sensibili alle preoccupa-zioni dei clienti.

I racconti dell’orrore abbondano. All’inizio di gen-

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4455.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 45.

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naio 2007 l’arcidiocesi di Milwaukee, principale attorein una class action promossa dagli azionisti contro Hal-liburton, fece l’insolita mossa di chiedere al giudiceassegnato alla causa di rimuovere dall’incarico i leadattorneys della classe. L’arcidiocesi elencò numeroselamentele nei confronti degli studi nominati dal tribu-nale come “loro legali”, compreso il fatto che i legali diparte civile non li tenessero informati sulla situazionedella causa, in violazione di un’ordinanza pre-proces-suale del giudice, ma anche di leggi statali e federali.

L’arcidiocesi inoltre temeva che la crescente atten-zione dei media per William Lerach, socio nominaledello studio Lerach Coughlin, e l’indagine penaleavviata dal Dipartimento della Giustizia nei suoi con-fronti e nei confronti dello studio precedentementeincaricato di rappresentare l’arcidiocesi, Milberg Weissand Bershad, nonché di due dei precedenti soci dellostudio, potessero avere un impatto negativo sullacausa. L’arcidiocesi era preoccupata anche per quelliche riteneva conflitti di interesse “insormontabili” e incostante crescita, mentre i legali di parte civile si dava-no da fare per mantenere la loro posizione di principa-li consulenti nonostante le indagini in corso sulla lorocondotta.

Oppure consideriamo la somma assegnata dallaCorte di Cancelleria del Delaware al legale di parte civi-le nella causa del 1997 QVC, Inc. Shareholders Litigation,46

citata da Jill Fish come un esempio rimarchevole, e tut-tavia abbastanza comune, degli ingenti onorari che gliavvocati possono strappare ai clienti grazie al sistemadella class action.47 Gli attori erano gli azionisti QVC cheavevano avviato una serie di class actions in risposta alladivulgazione della notizia di un tentativo di fusione traQVC e CBS. La causa si concluse dopo il ritiro dell’of-ferta di fusione della CBS e il successivo negoziato della

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4466.. In re QVC, Inc. Shareholders Litigation, N. 13590-NC, 1997 Del. Ch.LEXIS 14, 5 febbraio 1997.

4477.. Jill E. Fisch, “Class Action Reform, Qui Tam, and the Role of the Plain-tiff ”, Law and Contemporary Problems, 60, 1997, p. 167.

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QVB con Comcast and Liberty Media a un prezzo di 46dollari per azione, migliorato rispetto all’offerta origina-le di 44 dollari di Comcast and Liberty. Nel corso deinegoziati sull’offerta, i vari gruppi di ricorrenti e i rela-tivi avvocati si unirono, modificando le loro linee d’a-zione affinché fossero applicabili alla nuova offerta; neltentativo di ottenere un’offerta superiore, cercarono dipersuadere il consiglio di amministrazione della QVC eminacciarono di chiedere un’ingiunzione contro lanuova offerta. Tuttavia, il tribunale del Delaware riscon-trò che il consiglio di amministrazione della QVC eComcast and Liberty Media avevano concordato le con-dizioni finali prima del negoziato con i legali di partecivile, e di conseguenza «la class action aveva avuto unimpatto minimo sui termini della nuova offerta Com-cast/Liberty».48

Lo studio legale di parte civile aveva chiesto un ono-rario di 5,5 milioni, quasi il 10 per cento del valore tota-le del nuovo prezzo per azione risultante dai terminipiù favorevoli della fusione, ma il tribunale concesseuna somma di 1,1 milioni di dollari. Come nota Fish,nell’aggiudicare questa somma il tribunale ritenne chel’avvocato di parte civile non dovesse dimostrare diaver contribuito effettivamente in termini concreti airisultati della transazione o alla nuova fusione. Il tribu-nale riscontrò soltanto “indicazioni” del fatto che illavoro degli avvocati avrebbe potuto rafforzare il pote-re contrattuale dei ricorrenti con la conseguenza di ter-mini più favorevoli per la fusione e che le ore fatturatedai vari studi legali inoltre implicavano «una sostanzia-le duplicazione di sforzi» e nessun «rischio sostanzia-le».49 Per contro, pare che il tribunale si sia basato innan-zi tutto sulle 1500 ore fatturabili spese dagli avvocatiper studiare «le mosse e le manovre appropriate con lanecessaria competenza professionale».50

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4488.. In re QVC, Inc. Shareholders Litigation, 1997 Del. Ch. LEXIS *6.4499.. In re QVC, Inc. Shareholders Litigation, *11-12, citata in Jill E. Fisch,

“Class Action Reform”, p. 167.5500.. In re QVC, Inc. Shareholders Litigation, 1997 Del. Ch. LEXIS *12.

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Quello che sorprende nella causa è l’aggiudicazionedi 1 milione di dollari di onorari legali nonostante gliavvocati di parte civile non avessero fatto nulla che iltribunale potesse rilevare come vantaggioso per glieffettivi ricorrenti, che almeno sulla carta erano loroclienti. Pare che il tribunale abbia ricompensato i legalidi parte civile per le loro “mosse e manovre” a titolo dicortesia professionale, a prescindere dal fatto che talimacchinazioni fossero risultate o meno vantaggiose perqualcuno.

Gli onorari generosi permessi dal tribunale nel casoQVC, Inc. Shareholders Litigation malgrado i vantaggiscarsi o addirittura inesistenti forniti dagli avvocati nonsono affatto insoliti. I giudici dei tribunali statali, in par-ticolare nel Delaware, sono particolarmente generosi inproposito. E una simile generosità non deve sorprende-re: i giudici sono membri di successo della cultura giu-ridica e ovviamente tendono a pensare che l’attivitàdegli avvocati e il diritto abbiano un certo valore, poi-ché vi dedicano la loro vita. Inoltre, le moderne regoleprocedurali conferiscono agli attori ampia discrezionein merito alla scelta del foro, in particolare quando iconvenuti sono grandi società operanti in molti Stati.Quindi, anche se non tutti i tribunali sono generosi,quelli che lo sono, come nel Delaware, attirano inevita-bilmente la maggior parte delle cause poiché gli avvo-cati si presentano dinanzi ai fori che hanno fama diessere i più magnanimi in termini di onorari.51 Così,questo tipo di selezione già da solo contribuisce a man-tenere elevati gli onorari.

Infine, è chiaro che certi Stati vogliono attirare lecause societarie perché possono contribuire alle loroeconomie, in particolare in uno stato piccolo come ilDelaware, dove le spese legali pagate dalle società nonresidenti costituiscono una quota consistente degliintroiti annuali dello Stato. Non sorprende affatto chealtri Stati come il Maryland, il Nevada, la Pennsylvania

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5511.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “Toward an Interest-GroupTheory of Delaware Corporate Law”, Texas Law Review, 65, 1987, p. 469.

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e la Virginia abbiano chiarito di voler partecipare alla“competizione giurisdizionale” per aggiudicarsi lespese legali connesse alla costituzione di società e allecontroversie societarie. Quindi è significativo che ilDelaware non solo guidi la competizione giurisdiziona-le in termini di atti costitutivi registrati, ma pare cheabbia un vantaggio ancora superiore rispetto agli Statirivali come foro di elezione per ospitare le controversie.

Gli avvocati “intraprendenti” che intentano le causecontro le società possono scegliere dove presentarsi.Questi avvocati sono ben consapevoli del fatto che nelleclass actions e nelle azioni sociali di responsabilità sonoi tribunali, piuttosto che i clienti, ad autorizzare i loroonorari. Per questo sono attratti da Stati come il Dela-ware, che hanno notevoli precedenti di inusitata gene-rosità. Infatti, nel Delaware le spese legali non vengonoriconosciute solo in base al numero di ore dedicate allaquestione, che pure sono certamente rilevanti, maanche sulla base del beneficio ottenuto dagli attoriintentando la causa.

Questo approccio nel computo degli onorari diprimo acchito sembra danneggiare i legali di parte civi-le, perché si basa sui risultati effettivamente ottenutiper i clienti piuttosto che sul lavoro svolto. Ma comedimostra il caso QVC, alcuni tribunali generalmentesono molto generosi, oltre che nel calcolo dell’importodell’onorario, anche nell’interpretazione dei vantaggiderivanti agli investitori da una causa contro una socie-tà. Secondo il diritto societario del Delaware, così comeinterpretato nel caso QVC, il vantaggio non deve nem-meno essere monetario o esclusivo; e il caso QVC, chenon si è concluso con un risarcimento per gli investito-ri, è un esempio tipico in proposito, ma ne esistonoanche di più eclatanti.

Un esempio notevole è rappresentato dal caso Care-mark Int’l Inc. Derivative Litigation,52 nel quale la Corte diCancelleria del Delaware assegnò un onorario di

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5522.. In re Caremark Int’l Inc. Derivative Litigation, 698 A.2d 959, Del. Ch.1996.

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816.000 dollari, oltre alle spese, agli avvocati di partecivile per il ruolo svolto nella definizione di una deriva-tive action contro la Caremark, una grande azienda diservizi sanitari. La causa fu avviata a seguito di un’in-dagine effettuata dall’Ufficio dell’Ispettore Generaledel U.S. Department of Human Services. Alla fine laCaremark venne accusata di aver violato le disposizio-ni dell’art. 42 U.S.C. 1395 (m), secondo il quale per leaziende di servizi sanitari è illegale fornire qualsiasiforma di compenso in cambio dell’invio di pazienti daMedicare o Medicaid.

Il governo riteneva che la Caremark avesse concessosovvenzioni per la ricerca e contratti di consulenza amedici che a loro volta avevano raccomandato i servizidella Caremark o prescritto i suoi prodotti. È importan-te notare che tali sovvenzioni e contratti di consulenzanon erano da considerarsi illegali ai sensi di una leggefederale, compresa la Anti-Referral Payments Law. Erauna questione di prospettiva: poteva sembrare che leraccomandazioni o prescrizioni dei medici fosseroeffettuate a seguito di tangenti pagate dalla Caremarkche, se dimostrate, sarebbero state illegali.

La Caremark fu rinviata a giudizio nel 1994, tre annidopo l’inizio dell’indagine governativa. Alla fine lacausa concluse con una transazione, senza che seniormanagers o amministratori di Caremark fossero accusa-ti di illeciti nell’accordo transattivo o negli atti di impu-tazione. Piuttosto, la società accettò di dichiararsi col-pevole solamente di frode postale e di pagare una san-zione penale e un risarcimento civile al governo per unammontare di 250 milioni di dollari. Ai sensi dell’ac-cordo, alla Caremark fu permesso di continuare a par-tecipare a programmi Medicare e Medicaid, nonché diassegnare a medici sovvenzioni per la ricerca.

L’azione sociale di responsabilità fu avviata tre annidopo che l’Ufficio dell’Ispettore Generale aveva comin-ciato a emettere mandati di comparizione e facevaseguito alle indagini del Dipartimento della Giustizia edi altri enti federali e statali compresi nell’accordo trans-attivo di cui sopra. Quindi la derivative action non ha

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comportato alcuna indagine ex novo, né la scoperta diilleciti da parte dei ricorrenti e forse sarebbe meglio defi-nirla “una montatura” di avvocati a caccia di onorari.

I convenuti nella derivative action Caremark nonerano in alcun modo implicati personalmente nei pre-sunti illeciti. Si trattava dei singoli membri del consigliodi amministrazione, che presumibilmente avevano vio-lato il loro compito di controllare e sorvegliare l’impre-sa in maniera adeguata. Il caso, come praticamente tuttii casi simili, si chiuse con un accordo stragiudiziale.Tuttavia, per poter completare la transazione si resenecessaria la sua approvazione in quanto “equa e ragio-nevole”.

La Corte di Cancelleria del Delaware approvò l’ac-cordo transattivo e la relativa richiesta di spese legali,malgrado il fatto che riscontrasse «una probabilitàmolto bassa che si potesse dimostrare che gli ammini-stratori della Caremark avessero violato il compito dicontrollare e sorvegliare adeguatamente l’impresa».53 Ineffetti, il tribunale rilevò che «i documenti tendono aevidenziare un’attiva considerazione da parte delmanagement e del consiglio di amministrazione dellaCaremark delle strutture e dei programmi Caremarkche in ultima analisi hanno portato all’incriminazionedella società e alle ingenti perdite finanziarie sostenuteper la liquidazione delle richieste [del governo]».54

Avendo il tribunale riscontrato che la derivative actionavrebbe avuto scarse probabilità di successo nel merito,non deve sorprendere il fatto che la causa non si siaconclusa con un risarcimento. La transazione propostanon prevedeva pagamenti monetari di nessun tipo, néimponeva agli amministratori convenuti di rinunciareai propri diritti di opzione su azioni Caremark. Al con-trario, nella transazione si richiedeva principalmentealla Caremark di procedere come segue: (1) «prenderemisure per garantire che in futuro non si verificasseropiù violazioni della Anti-referral Payments Law; (2)

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5533.. In re Caremark Int’l Inc. Derivative Litigation, 961.5544.. In re Caremark Int’l Inc. Derivative Litigation, 961.

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avvisare i pazienti in forma scritta in merito a qualsivo-glia rapporto finanziario tra Caremark e l’operatoresanitario o il fornitore di servizi sanitari autore dellasegnalazione; e (3) creare una commissione su confor-mità ed etica, composta da quattro amministratori, dicui due esterni, per tenere sotto controllo la condottafutura».55

Resta difficile da capire in che modo la causa, e tantomeno la transazione, avrebbe arrecato dei vantaggi allasocietà a nome della quale fu intentata. Come accadenormalmente, la risoluzione della causa appare essen-zialmente come un’operazione cosmetica, studiata perfornire una copertura all’accordo di transazione. Peressere più precisi, il pagamento delle spese legali non ègiustificato da nessuna prospettiva. Se gli amministra-tori erano veramente coinvolti in illeciti, allora la trans-azione è stata troppo benevola. E se invece non lo eranoè stata troppo severa, se si considerano le conseguenzeper la società. È difficile immaginare un gruppo infor-mato di investitori che sia d’accordo su una transazio-ne che impone alla società costi sostanziali di conformi-tà, in aggiunta alle iniziative di compliance richieste dalgoverno.

La transazioneLa maggior parte delle class actions e derivative

actions si concludono con una transazione.56 Poiché nonsi dà notizia di queste operazioni, che spesso sono sog-gette ad accordi di riservatezza tra le parti, non è faciletrovare dati esaurienti, ma gli aneddoti preoccupantiabbondano. Per esempio, all’inizio degli anni Novanta,avvocati esperti di class actions finanziarie fecero causaalla Occidental Petroleum Company per frode quandola società tagliò i dividendi di 1 dollaro, passando da 3a 2 dollari per azione. Nel successivo accordo transatti-vo la società conveniva di non ridurre i dividendi al di

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La governance delle controversie

5555.. Robert W. Hamilton - Jonathan R. Macey, Cases and Materials on Cor-porations, Including Partnerships and Limited Liability Companies, nona edi-zione, St. Paul, MN, Thomson/West, 2005, pp. 702-703.

5566.. Vedi Roberta Romano, “The Shareholder Suit”, p. 60.

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sotto di 2 dollari per azione, salvo che «lo si dovessefare in base al giudizio del consiglio di amministrazio-ne della società». La società accettò di versare 2.975.000dollari di spese legali per concludere la transazione, chepare non abbia fornito vantaggi di rilievo per gli inve-stitori.57

In un’azione legale entrambe le parti sono incentiva-te a concludere una transazione per motivi che talvoltale spingono ad agire in contrasto con i migliori interes-si della società. A volte, i convenuti vengono incentiva-ti a transigere persino in strike suits di dubbio merito. Incaso di transazione, gli assicuratori di amministratori edirigenti rimborsano le spese di attori e convenuti epertanto nessuna delle due parti è costretta ad assorbi-re al suo interno i costi della causa.58 Quel che è peggio,poiché nella maggior parte dei casi pagano le assicura-zioni, gli azionisti vengono danneggiati dal costo dellafranchigia e da eventuali aumenti dei premi derivantidalla controversia.59 Inoltre, i convenuti sono motivati atransigere perché l’approvazione di una transazione daparte di un tribunale impedisce ad altri azionisti diintentare cause analoghe nei loro confronti.60

Molti detrattori affermano che le class actions e leazioni sociali di responsabilità sono meri tentativi dipersuadere i tribunali che la scoperta e la correzione diun errore nella corporate governance o nei rendicontifinanziari siano la stessa cosa di un illecito volontario.Inoltre, queste azioni legali vengono criticate in quan-to non comportano nient’altro che “investigazioni atappeto”, nel corso delle quali i legali di parte civilesperano di inciampare in un dirigente che abbia viola-to la legge, o che i costi per la difesa della societàdiventino tali da farla capitolare e indurla a offrire unatransazione favorevole.

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Corporate governance

5577.. Lawrence W. Schonbrun, “The Class Action Con Game”, Regulation,20, autunno 1997, pp. 54-55, disponibile anche su http://www.cato.org/pu-bs/regulation/reg20n4j.html.

5588.. Vedi Roberta Romano, “The Shareholder Suit”, p. 57.5599.. Vedi Roberta Romano, “The Shareholder Suit”, p. 57.6600.. Vedi Roberta Romano, “The Shareholder Suit”, p. 57, nota 1.

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Poiché i costi di un’azione legale sono elevati, spes-so la società ha tutto l’interesse a concluderla con unatransazione, anche nelle cause carenti nel merito.Immaginiamo una causa che preveda un costo di 1milione di dollari per la difesa, un onorario modesto inqualsiasi controversia di un certo rilievo. Anche se leprobabilità di successo degli attori sono pari a zero,dalla prospettiva della società sarà più convenientechiudere la causa per una qualunque somma inferiore a1 milione di dollari. E la transazione risulta ancora piùvantaggiosa se agli onorari legali diretti aggiungiamo iltempo e le distrazioni per amministratori e manage-ment, la cattiva pubblicità e altri fattori immateriali. Ilvantaggio di concludere una transazione aumenta ulte-riormente se introduciamo lo spettro dei costi di possi-bili errori e il timore che i giudici e le giurie possanoservirsi della controversia come opportunità per ridi-stribuire ricchezza dalla società convenuta agli investi-tori (e ai loro avvocati). Nello specifico, anche se lasocietà calcola scarse probabilità di successo per gliattori, pari a un 10 per cento, questo significa aggiun-gere 1 milione di dollari all’ammontare ragionevoledella transazione per ogni 10 milioni di dollari di risar-cimento richiesti. La cifra salirà ancora se supponiamo,come probabilmente dovremmo, che la società e i suoiamministratori siano contrari ad assumere rischi.

Un altro motivo per cui molte azioni legali apparen-temente banali si concludono con una transazione deri-va da un altro modo di manifestarsi dei costi di agen-zia. Oltre che tra gli attori/investitori e i loro avvocati,i costi di agenzia esistono anche tra gli stessi investitorie i funzionari e gli amministratori citati in giudizio nelleazioni sociali di responsabilità e nelle class actions finan-ziarie. Poiché generalmente le transazioni vengonoliquidate dalle società o dalle compagnie di assicura-zione e non dai singoli convenuti, anche la possibilitàestremamente remota che una causa si concluda con unrisarcimento che l’assicurazione di un amministratore ola società si rifiutino di pagare fornisce ai singoli con-venuti una motivazione molto forte a transigere.

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Portati al limite, questi due problemi messi insiemerafforzano lo spettro delle transazioni collusive. Nelcontesto di una class action o di una derivative action, siconfigura una transazione collusiva quando i convenu-ti e i loro avvocati si accordano segretamente con i lega-li di parte civile per raggiungere un accordo che pro-muova i rispettivi interessi a spese degli investitori. Unsemplice esempio illustra il problema. Immaginiamoche un consiglio di amministrazione o una società abbiacommesso misfatti che comportano un risarcimento di25 milioni di dollari. Immaginiamo che in un mondoperfettamente competitivo, con informazioni perfette ezero costi di agenzia, la causa si concluda con unatransazione per 25 milioni di dollari e 5 milioni di dol-lari di spese legali da versare agli avvocati di parte civi-le. Nel mondo reale, sia i legali dei convenuti che quel-li dei ricorrenti sarebbero avvantaggiati riducendo l’en-tità della transazione e aumentando contemporanea-mente le spese legali, purché la cifra risultante (trans-azione più spese) sia inferiore a 30 milioni di dollari.Immaginiamo, per esempio, una transazione da 15milioni di dollari con 10 milioni di dollari di spese lega-li. Questo accordo avvantaggerebbe i convenuti (o lasocietà che li indennizza o li assicura) di 5 milioni didollari, perché la cifra complessiva della transazionepassa da 30 a 25 milioni di dollari, e gli avvocati di partecivile guadagnerebbero 5 milioni in più poiché il loroonorario, che in questi casi è pagato dalla società pur-ché i legali abbiano conferito un vantaggio sostanzialealla stessa, sale da 5 a 10 milioni di dollari.

Strumenti e proposte per migliorare la gestione dellecontroversie in materia di corporate governance

Nei prossimi tre paragrafi si prendono in considera-zione tre potenziali metodi per ridurre i problemi diagenzia che nascono da class actions e derivative actionsin ambito societario: le aste per la selezione del leadcounsel, ossia lo studio legale che conduce la causa, ilPrivate Securities Litigation Reform Act del 1995 e la veri-fica giudiziaria delle transazioni. Sebbene probabil-

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mente nessuna di queste misure risolva completamentei difetti intrinseci di class action e derivative action, vale lapena prenderle in considerazione alla luce delle barrie-re politiche che rendono poco verosimile una completarevisione del sistema.

Le asteUn meccanismo che può mitigare i costi di agenzia

associati al modello di controversia gestito dagli avvo-cati è il ricorso alle aste per selezionare il lead counsel.61

Ipotizziamo che una società o alcuni suoi dirigenti eamministratori siano accusati di essere coinvolti inqualche tipo di illecito. In un’asta, diversi studi legaliconcorrenti presenterebbero offerte per il diritto a rap-presentare gli attori. In seguito, il denaro pagato all’astaverrebbe distribuito agli investitori danneggiati (o allasocietà nel caso di un’azione sociale di responsabilità) elo studio legale vincente seguirebbe la causa e avrebbeil diritto di trattenere un eventuale risarcimento percompensare l’importo offerto inizialmente.

Per esempio, supponiamo che l’offerta vincente peruna particolare causa sia 50 milioni di dollari. L’im-porto verrebbe immediatamente distribuito agli azio-nisti o ad altri investitori danneggiati, che così otter-rebbero qualcosa che praticamente non ricevono maicon il sistema attuale: un effettivo risarcimento mone-tario. Se alla fine la causa si concludesse con una sen-tenza o una transazione del valore di solo 10 milioni didollari, lo studio legale che ha presentato l’offerta per-derebbe 40 milioni di dollari, più il tempo e le spese.Se invece la causa si concludesse con una sentenza ouna transazione da 100 milioni di dollari, lo studiolegale guadagnerebbe 50 milioni di dollari, meno iltempo e le spese. La concorrenza tra studi legali nellaprocedura d’asta riporterebbe la loro remunerazione alivelli competitivi. Gli studi potrebbero riunirsi in con-sorzi per presentare offerte per grosse cause e gli

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6611.. Vedi, per esempio, Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “TransUnion Reconsidered”, pp. 105-116.

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avvocati potrebbero mitigare i rischi connessi con unaparticolare controversia diversificando il portafogliodi azioni legali.

Un vantaggio rilevante di questo meccanismo, cheho proposto con Geoffrey Miller in un precedentelavoro,62 è il fatto che per la prima volta si creerebbe unsistema dove verrebbe premiata la competenza degliavvocati. Secondo le procedure di selezione tradizio-nali, i tribunali scelgono il lead counsel sulla base di fat-tori facilmente verificabili, quali la data di depositodella causa e gli onorari stimati dagli avvocati. Attual-mente, ai giudici manca un’indicazione o una proce-dura legittima per stabilire se un particolare studiolegale dovrebbe essere pagato di più perché è qualita-tivamente migliore rispetto a un altro. Per contro, conil meccanismo delle aste gli studi di qualità superioresarebbero in grado di ottenere compensi più elevati dasentenze e transazioni di maggiore rilevanza. Questo asua volta consentirebbe ai legali migliori di offrire dipiù dei rivali meno abili, mantenendo uguale il com-penso previsto.

In ogni caso, le aste non sono una panacea per il pro-blema dei costi di agenzia per le controversie promosseda azionisti; e i detrattori ne hanno già rilevato i possi-bili punti deboli. Se il diritto di agire in qualità di leadcounsel viene assegnato all’offerente più basso, i tribu-nali possono conferire l’incarico solamente in base alvalore monetario delle offerte, senza procedere all’ana-lisi del costo e della qualità dei servizi che invece effet-tuerebbe un cliente.63 Inoltre, «le offerte relative a causeimportanti, con risarcimenti potenzialmente elevati,probabilmente sono piuttosto complesse e può esseredifficile per i tribunali valutarne i costi relativi per laclasse».64 Anche la definizione della portata delle richie-ste di risarcimento oggetto dell’asta può rivelarsi diffi-

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6622.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “Trans Union Reconsidered”,pp. 105-116.

6633.. Vedi In re Cendant Corporation Litigation, 264 F.3d 259.6644.. In re Cendant Corporation Litigation, 259-260.

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coltosa all’inizio della controversia. Inoltre, se gli studi legali offerenti si accordano per

tenere alti i prezzi, ovviamente l’efficacia di questoapproccio ne risulterà minata. Quello della collusione èun rischio reale, dato che il settore delle class actions edelle derivative actions finanziarie è fortemente concen-trato e dominato da un numero estremamente limitatodi studi legali operanti da tempo. La procedura d’astapotrebbe anche rivelarsi inefficace se il numero di offe-renti è troppo ristretto o se a causa di una crisi dei mer-cati finanziari risulti troppo ridotto il numero di offe-renti con le risorse finanziarie necessarie per presentareun’offerta competitiva.65

Il Private Securities Litigation Reform Act del 1995In risposta agli abusi commessi da potenti studi

legali di parte civile in class actions finanziarie, nel1995 il congresso repubblicano approvò il Private Secu-rities Litigation Reform Act (PSLRA), superando poi ilveto del presidente Bill Clinton alla promulgazionedella nuova legislazione. Il Congresso era preoccupa-to per la proliferazione di strike suits depositate «nonperché i ricorrenti o i loro legali in class action dispo-nessero di prove convincenti della condotta fraudo-lenta dei convenuti» ma come mezzo per estorceredegli accordi transattivi.66 I legislatori temevano cheazioni legali banali mettessero a rischio la competitivi-tà internazionale dei mercati finanziari statunitensi,oltre a «far salire inutilmente il costo del reperimento

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6655.. Vedi R. Macey - Geoffrey P. Miller, “Trans Union Reconsidered”, p.116; Andrew K. Niebler, “In Search of Bargained-For Fees for Class ActionPlaintiffs’ Lawyers: The Promise and Pitfalls of Auctioning the Position ofLead Counsel”, Business Lawyer, 54, 1999, pp. 831-834.

6666.. Richard M. Phillips - Gilbert C. Miller, “The Private Securities Liti-gation Reform Act of 1995: Rebalancing Litigation Risks and Rewards forClass Action Plaintiffs, Defendants and Lawyers”, Business Lawyer, 51,1996, p. 1009. Vedi anche Edward R. Becker et al., “The Private Securi-ties Law Reform Act: Is It Working?”, Fordham Law Review, 71, 2003, p.2382, dove si sottolinea che nel promulgare il PSLRA, «una delle maggio-ri preoccupazioni dei membri del Congresso [...] era quella delle contro-versie banali».

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di capitali e raffreddare la comunicazione aziendale».67

Prima dell’approvazione del PSLRA, lo studio legaleche depositava per primo la denuncia di solito controlla-va la controversia e di conseguenza «si era diffusa unamentalità da “corsa al tribunale” che scoraggiava i legalidi parte civile dal condurre indagini ragionevoli sui fattiprima di avviare una class action».68 Il Congresso era arri-vato a ritenere che i vincitori effettivi delle strike suits fos-sero i legali di parte civile, «che secondo il Congressovenivano remunerati profumatamente in assenza di unrischio commisurato».69 Dalla prospettiva degli avvocatidi parte civile, logicamente interessati, «non c’eranomotivi convincenti per non avviare cause speculative diclass action».70 I convenuti, come rilevato sopra, eranospinti da forti incentivi economici a concludere unatransazione, in particolare nei casi in cui nella stessacausa erano nominati numerosi convenuti e lo spettrodella responsabilità in solido prometteva perdite poten-zialmente ingenti per imprese e individui solo marginal-mente responsabili per presunte false dichiarazioni oomissioni fraudolente.71

La preoccupazione del Congresso per il fatto che lega-li di parte civile particolarmente intraprendenti intentas-sero molte cause prive di fondamento ha trovato unriscontro sostanziale in una serie di studi empirici sulleazioni legali promosse da azionisti. Da uno studio sullecause intentate tra il 1960 e il 1987 è emerso che i ricor-renti hanno vinto solo nel 6 per cento dei casi giudicati e

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6677.. Senato degli Stati Uniti, A Bill to Amend the Securities Exchange Act of1934 to Establish a Filing Deadline and to Provide Certain Safeguards to Ensu-re That the Interests of Investors Are Well Protected under the Implied PrivateAction Provisions of the Act, 104° Congresso, prima sessione, 1995, S. Rep.104-198, 240, 276.

6688.. Richard M. Phillips - Gilbert C. Miller, “The Private Securities Litiga-tion Reform Act of 1995”, p. 1011.

6699.. Richard M. Phillips - Gilbert C. Miller, “The Private Securities Litiga-tion Reform Act of 1995”, p. 1013.

7700.. Richard M. Phillips - Gilbert C. Miller, “The Private Securities Litiga-tion Reform Act of 1995”, p. 1014.

7711.. Richard M. Phillips - Gilbert C. Miller, “The Private Securities Litiga-tion Reform Act of 1995”, p. 1015.

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non hanno ottenuto sentenze di risarcimento o equariparazione.72 Nelle transazioni i pagamenti erano piùspesso a favore degli avvocati che degli azionisti, e nell’8per cento delle cause concluse con una transazione sonostate aggiudicate solo spese legali.73

Il PSLRA si prefiggeva di dare le redini delle contro-versie in mano al cliente. Per la prima volta, non eranopiù gli avvocati a reperire potenziali attori-azionistiquando crollava il capitale azionario di una società, maerano gli azionisti insoddisfatti a poter scegliere auto-nomamente il proprio legale. La legislazione ha creatola presunzione confutabile che dovesse essere designa-to lead plaintiff l’investitore con il maggiore interessefinanziario nell’esito della causa. L’idea era che i leadplaintiffs fossero sofisticati investitori istituzionali, cosache avrebbe agevolato un miglior controllo dei legali diparte civile.

Una importante disposizione del PSLRA dà diritto allead plaintiff di selezionare il lead counsel salvo approva-zione del tribunale. Un grande investitore istituzionalecon un interesse economico significativo nell’esito dellacontroversia presumibilmente si impegnerà in negozia-ti aggressivi per ottenere avvocati di qualità a prezziragionevoli. I lead plaintiffs controllano inoltre le attivitàdel lead counsel durante la causa. Per evitare la situazio-ne in cui «troppo spesso gli stessi attori “professionisti”compaiono con il proprio nome giudizio dopo giudi-zio»74 il PSLRA prevede una disposizione che vieta allostesso attore di partecipare a più di cinque class actionsfinanziarie in un periodo di tre anni.75 Inoltre, è previstala responsabilità proporzionale, al fine di ridurre lesgradevoli pressioni a concludere transazioni derivantidalla responsabilità in solido.76

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7722.. Roberta Romano, “The Shareholder Suit”, p. 60.7733.. Roberta Romano, “The Shareholder Suit”, p. 61.7744.. Senato degli Stati Uniti, A Bill to Amend the Securities Exchange Act of

1934.7755.. 15 U.S.C., art. 78u-4(a)(3)(B)(vi).7766.. 15 U.S.C., art. 78u-4(f ).

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In una causa post-PSLRA, la Cendant Corporation Liti-gation, la Corte d’Appello del Terzo Circuito riesaminòl’approvazione da parte di un tribunale di livello infe-riore di una transazione da 3,2 miliardi di dollari in unaclass action per frode mobiliare che prevedeva speselegali per 262 milioni di dollari.77 La Corte del Terzo Cir-cuito rilevò l’entità degli interessi economici coinvolti,osservando che «l’enormità dell’importo della trans-azione e delle spese legali lascia presagire una nuovagenerazione di “mega casi” che metterà alla prova lanostra giurisprudenza elaborata precedentemente”.78 Lacausa Cendant era stata avviata successivamente allafusione di due società, con la scoperta di una frode con-tabile in una delle società dopo l’operazione di fusione.Di conseguenza, il corso azionario della nuova societàsubì un crollo con una perdita di circa 20 miliardi per gliazionisti.79 Ai sensi del PSLRA, il tribunale distrettualeselezionò come lead plaintiff un gruppo di tre investitoriistituzionali guidati da CalPERS, il fondo pensione dellaCalifornia. Il gruppo CalPERS in seguito negoziò unaccordo con due studi legali che aveva scelto per porta-re avanti la class action.

Benché il PSLRA preveda che sia il lead plaintiff «ascegliere e ingaggiare il legale per rappresentare la clas-se, salvo approvazione del tribunale»,80 il tribunaledistrettuale non accettò la nomina degli studi presceltie raccomandati dal gruppo CalPERS, ma decise di indi-re un’asta per l’incarico di lead counsel.81 Lo studio qua-lificato che avesse presentato l’offerta più bassa avreb-be vinto. Gli studi selezionati da CalPERS si avvalserodella possibilità concessa dal tribunale distrettuale distare alla pari con l’offerta più bassa. Quando le particonvennero di concludere una transazione, al legale diparte civile fu aggiudicato un onorario in base alla per-centuale stabilita mediante l’asta. Il compenso risultan-

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Corporate governance

7777.. In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d 201.7788.. In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d 281.7799.. In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d 221-222.8800.. 15 U.S.C., art. 78u-4(a)(3)(B)(v).8811.. In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d 224-225.

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te di 262 milioni di dollari superava di 76 milioni quel-lo negoziato inizialmente dal gruppo CalPERS.82 Almomento dell’appello e dell’aggiudicazione delle speselegali, il Terzo Circuito confermò la transazione maannullò l’importo di spese legali, sostenendo che ilPSLRA non consentiva il ricorso a un’asta per nomina-re il lead counsel nelle circostanze del caso.83 Altri tribu-nali hanno utilizzato metodi alternativi all’asta perridurre le spese legali in class actions e derivative actions,ponendosi meno in contrasto con la capacità dell’attoreprincipale di scegliere il proprio legale. Per esempio, untribunale può chiedere al legale proposto per i leadplaintiffs putativi di presentare le loro richieste di ono-rario e, ove stabilisca che appaiono eccessive, può dareallo studio legale la possibilità di rivederle e ripresen-tarle.84

In altre giurisdizioni, tuttavia, i tribunali hannoriscontrato che l’asta per la selezione dello studio lega-le che conduce la causa si può conciliare con il PSLRA.85

Nella decisione sul caso Lucent Technologies SecuritiesLitigation, il tribunale osservò che «è interessante che inuna questione che riunisce diciotto denunce separate eche coinvolge migliaia di attori, nemmeno una singolaparte si sia opposta alla mozione per il lead plaintiff oalla mozione per il lead counsel o abbia proposto un altrolegale. Questa apparente apatia suggerisce una possibi-le collusione o un accordo “di comodo” tra i legali chepare dirigano la controversia».86 Sospettando che inegoziati tra l’attore principale e lo studio legale pro-

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8822.. In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d 220.8833.. In re Cendant Corp. Litigation, 264 F.3d 277-286.8844.. Vedi, per esempio, In re Razorfish Corporation Litigation, 143 F. Supp.

2d 304, 311, S.D.N.Y. 2001, dove si afferma che «tali modesti interventidella Corte sono del tutto conformi alle direttive del Reform Act secondo cuila scelta del lead plaintiff e la conferma nell’incarico sono soggetti all’appro-vazione di un tribunale, che è sostanziale e non semplicemente formale».

8855.. Vedi, per esempio, In re Bank One Shareholders Class Actions, 96 F. Supp.2d 780, N.D. Ill. 2000; In re Lucent Techs., Inc. Sec. Litigation, 194 F.R.D.137, D.N.J. 2000; Sherleigh Assocs. v. Windmere-Durable Holdings, Inc., 184F.R.D. 688, S.D. Fla. 1999; Wenderhold v. Cylink Corp., 188 F.R.D. 577,N.D. Cal. 1999.

8866.. In re Lucent Techs., Inc. Sec. Litigation, 194 F.R.D. 156.

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posto non fossero stati condotti in una situazione diindipendenza delle parti, il tribunale ordinò che il leadcounsel fosse selezionato mediante una gara d’appalto.Secondo il tribunale, con questo metodo si sarebbe per-seguito meglio l’obiettivo del Congresso di impedire allead counsel di scegliere «se stesso come legale selezio-nando un attore e avviando la causa».87 Interpretandoin senso lato l’autorità di legge del tribunale nell’ap-provare l’interlocutore legale principale, i tribunalihanno la facoltà di ricorrere a una gara d’appalto, qua-lora un simile meccanismo di selezione rispondameglio agli obiettivi di responsabilizzazione del clientecontenuti nel PSLRA.

Verifica giudiziaria delle transazioniLa magistratura è l’ultimo bastione di difesa degli

investitori nei confronti delle “controversie galoppanti”e delle transazioni collusive che caratterizzano le classactions e le derivative actions negli Stati Uniti. Storica-mente, la risposta normativa al problema del conflittodi interessi tra gli attori di class actions e azioni sociali diresponsabilità e i relativi avvocati è stata sempre quelladi richiedere ai giudici di verificare e approvare even-tuali proposte di transazione. Anche prima dell’adozio-ne del PSLRA, una volta depositate, le class actions e lederivative actions non potevano essere archiviate o con-cluse con una transazione senza l’approvazione del giu-dice. Inoltre, tutti gli azionisti o i membri di una classedevono essere avvisati in merito a un’eventuale trans-azione o archiviazione.88

Con l’introduzione del concetto di lead plaintiff, ilPSLRA riconosce almeno implicitamente che l’obbligodell’approvazione giudiziaria delle transazioni propo-ste non risolve completamente il problema dei costi diagenzia che affligge le class actions e le azioni sociali di

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8877.. In re Lucent Techs., Inc. Sec. Litigation, che cita In re Baan Co. Sec. Liti-gation, 186 F.R.D. 214 [D.D.C. 1999].

8888.. Vedi Fed. R. Civ. P. 23, e, per la class action; Fed. R. Civ. P. 23.1, per lederivative actions.

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responsabilità. In effetti, l’obbligo della verifica giudi-ziaria non è servito molto a limitare il problema delletransazioni collusive o altri aspetti controversi dellevertenze giudiziarie come strumenti di corporategovernance.

Non ci si può affidare ai giudici per respingere trans-azioni inadeguate o collusive o controllare l’operatodegli avvocati di parte civile per tre motivi ben precisi.

Primo, i giudici hanno tutto l’interesse ad approvarele transazioni, poiché sono oberati di lavoro e i ruolidelle cause sono sovraffollati. Aumentando il numerodi casi che vengono discussi in tribunale invece di con-cludersi con una transazione, i problemi si aggravereb-bero. In altre parole, ogni volta che un giudice approvauna transazione elimina un peso dal suo ruolo giàsovraccarico.

Secondo, i giudici tengono alla loro reputazione, chenon viene certo danneggiata dall’approvazione di trans-azioni, mentre può essere minacciata in caso di ricorsocontro le loro decisioni, che rischiano di essere annulla-te da una Corte d’Appello. Poiché le transazioni sonoconsensuali per definizione, non sono previsti appelli,né annullamenti. Per contro, se un giudice respinge unatransazione concordata, le due parti ricorreranno sicura-mente in appello protestando contro il rigetto. Oltre alrischio di revoca delle sentenze, un altro fattore che dan-neggia la reputazione di un giudice è la lentezza. I giu-dici che smaltiscono il loro carico di lavoro e procedonopuntualmente con le cause a ruolo godono di una repu-tazione migliore di quelli che restano indietro. Le classactions finanziarie e le azioni di responsabilità socialesono insolitamente lunghe e complesse. È difficileimmaginare un giudice che scelga regolarmente direspingere delle transazioni che risolverebbero questicasi, negandosi la possibilità di evitare dei ritardi nellecause a ruolo. Quindi la soluzione transattiva rispondeall’obiettivo dei giudici di ridurre il tasso di revoca dellesentenze e di mantenere il controllo di un elenco dicause in costante aumento. È normale che i giudici capa-ci di “guidare le parti verso una transazione” siano con-

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siderati giudici validi, né deve sorprendere il fatto chel’adagio “anche una pessima transazione è meglio di unbuon processo” si senta frequentemente nei corridoi deitribunali e nelle conversazioni tra i giudici e i loro colla-boratori. In sintesi, i giudici sono «pesantemente condi-zionati dalla natura del loro lavoro a considerare auspi-cabili le transazioni».89

Il terzo motivo per cui l’approvazione giudiziariadelle transazioni è un correttivo inadeguato è legatoalle gravi asimmetrie informative con cui si confrontaanche il giudice meglio intenzionato che desideri esa-minare una proposta di transazione. Ai tribunali diprimo grado mancano le informazioni necessarie pervalutare con cognizione di causa l’equità di una trans-azione, perché i giudici devono basarsi sulle informa-zioni fornite dalle parti. Ovviamente, è probabile chequeste informazioni siano poco obiettive, poichéentrambe le parti a questo punto vorranno favorirel’approvazione della transazione proposta e la docu-mentazione presentata rispecchierà questo loro desi-derio. In altre parole, alle udienze per le transazioni disolito manca la tendenza a ricercare la verità che carat-terizza i normali processi avversariali, dove ci si puòaspettare che le parti avverse contestino fatti discuti-bili e rilevino punti deboli nelle reciproche argomen-tazioni.

L’eventuale tempo dedicato da un tribunale allaricerca di informazioni aggiuntive probabilmenteindurrà le parti ad appoggiare con più decisione latransazione, poiché si rendono conto che la loro propo-sta viene messa in discussione. Inoltre, le informazioniaggiuntive richieste ai clienti rappresentano un costo,non solo per gli avvocati coinvolti, ma anche per il giu-dice che le deve valutare. Per questo motivo, le udienzeper le transazioni nelle class actions e nelle controversiefinanziarie sono state definite «raduni celebrativi orche-

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Corporate governance

8899.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 46.

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strati dal legale di parte civile e dall’avvocato della dife-sa».90 I legali di parte civile espongono al giudice lenotevoli difficoltà della causa e le scarse possibilità divittoria per giustificare i loro onorari, mentre i conve-nuti lodano l’esperienza e gli avvocati degli attori. Poi-ché i fattori sui quali il giudice dovrebbe basare la suadecisione di respingere una proposta di transazionesono imprecisi e soggettivi, simili sentenze sarebberoproblematiche anche nel contesto di un procedimentoavversariale. Considerando le esposizioni unilateraliche caratterizzano le udienze per le transazioni, espri-mere un rigetto convincente è quasi impossibile inassenza di un’obiezione alla transazione.

Poiché le obiezioni a proposte di transazione sonopiuttosto rare, non deve sorprendere il fatto che letransazioni vengano quasi sempre approvate. Le even-tuali obiezioni di solito vengono sollevate da avvocatiche presentano argomenti fortemente scontati, perchéhanno avuto uno scontro con gli altri attori e voglionoancora partecipare a eventuali onorari approvati daltribunale. Oltre a esagerare nelle lodi al lead counselnominato, capita che i tribunali arrivino persino a «bia-simare chiunque abbia l’ardire di opporsi alla trans-azione».91

ConclusioniDall’analisi dell’efficacia di class action e derivative

action come strumenti per migliorare la corporategovernance emerge chiaramente che il ricorso ai tribu-nali serve a ben poco. Anzi, probabilmente i suoi effettisono più negativi che positivi, poiché la minaccia diuna causa, insieme alle frequenti transazioni di entitàconsistente, impongono dei costi agli investitori deter-minando l’aumento dei premi assicurativi. Questi costivivi, più o meno diretti, non sono affatto gli unici costi

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La governance delle controversie

9900.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 46.

9911.. Vedi Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “The Plaintiffs’ Attorney’sRole in Class Action and Derivative Litigation”, p. 47.

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associati alle class actions e alle derivative actions finan-ziarie, né sono i maggiori. Lo spettro di simili contro-versie ha determinato una crisi che minaccia di dan-neggiare la reputazione degli Stati Uniti come ambien-te favorevole alle imprese, salvo forse agli occhi dimanager che amano veder gonfiare le spese legali e cir-condarsi di avvocati. In una simile situazione diventapiù difficile per le nuove imprese reperire capitali dainvestitori esterni e l’avversione al rischio tra dirigentie amministratori scende a livelli non ottimali.

Una riforma è teoricamente impossibile. In partico-lare, i giudici potrebbero chiedere che gli avvocati diparte civile in class actions e derivative actions presentinoun’offerta per il diritto di intentare una causa e ottene-re un risarcimento, destinando il pagamento diretta-mente alle parti lese presuntive. Tuttavia, è altamenteimprobabile che la soluzione teorica di adottare il meto-do dell’asta per le class actions e le derivative actionsfinanziarie venga attuata su vasta scala. L’enormequantità di denaro che gli avvocati hanno ricavato dalleclass actions ha consentito loro di ampliare il loro campodi influenza. I legali di parte civile elargiscono sommeingenti alle campagne politiche federali e statali. Addi-rittura, i loro contributi ormai eguagliano le donazionipolitiche effettuate per conto di grandi società ad azio-nariato diffuso a tutti i livelli.

Queste donazioni politiche a volte danno buoni frut-ti per l’ordine degli avvocati. Il Congresso ha ostacola-to gli sforzi per ridurre il periodo di prescrizione perquesto genere di cause, arrivando ad aggiungere l’arti-colo 27(a) al Securities and Exchange Act del 1934, cheeffettivamente ha revocato i vincoli giudiziari sullaquantità di tempo che può passare prima che decada ildiritto di agire in giudizio.92 Gli studi legali specializza-ti in class action contro le società e i loro manager eamministratori hanno investito milioni nella sponsoriz-zazione e promozione di un’iniziativa elettorale in

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Corporate governance

9922.. Federal Deposit Insurance Corporation Improvement Act del 1991, titoloIV, art. 476, 105 Stat. 2387, iscritto n. 15 U.S.C., art. 78aa-1.

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California, la Proposition 211, studiata per rendereancora meno oneroso il deposito di class actions finan-ziarie.93 L’iniziativa è stata messa ai voti ma alla fine èstata respinta.

Questa realtà politica suggerisce che è poco realisti-co, per chi è alla ricerca di una riforma significativa delsistema di corporate governance, guardare alle azionisociali di responsabilità o alle class actions finanziariecome a una fonte di cambiamento positivo. Questi stru-menti giudiziari costituiscono una parte del problema,non una parte della soluzione.

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La governance delle controversie

9933.. Julie Pitta - James Flanigan, “Companies Cheer State Voters’ New Atti-tude”, Los Angeles Times, 7 novembre 1996, D1.

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Se la corporate governance è una questione di pro-messe, è fondamentale avere un parametro con cuivalutare se le società stanno mantenendo le promesseriguardo alla performance finanziaria. Questo parame-tro è il prezzo dell’azione, o corso azionario. Di per sé,la contabilità non è particolarmente importante per gliinvestitori, secondo me, tranne che i dati contabili sonoutili nel processo di determinazione del prezzo delleazioni e nell’allocazione delle risorse economicherastrellate grazie al corso azionario.

Per le società ad azionariato diffuso che operano inpaesi come gli Stati Uniti, dove i mercati dei capitalisono molto sviluppati, il corso azionario rappresenta ilmiglior parametro di valutazione della performanceaziendale: infatti, è meno condizionabile ed è anche piùcredibile rispetto ad altre informazioni sulla perfor-mance aziendale, compresi i dati contabili confezionatie divulgati agli azionisti dalla società stessa. Diversa-mente dalle informazioni contabili, il corso azionarioriflette l’effettiva disponibilità degli operatori ad acqui-stare e vendere azioni delle società quotate. E siccomechi compra e vende azioni può guadagnare sia quandole quotazioni salgono sia quando esse scendono, ilcorso azionario rappresenta una misura oggettiva dellaperformance aziendale.

Una delle questioni più importanti e affascinanti nel

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Capitolo 11

Contabilità, principi contabili e settore contabile

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fiorente campo della finanza societaria riguarda il ruoloche i dati contabili hanno nella formazione del corsoazionario e nell’allocazione delle risorse economiche.Se partiamo dal presupposto che il prezzo dell’azione èimportante, le informazioni finanziarie contenute neirendiconti contabili costituiscono uno degli elementiprincipali su cui si basano gli operatori del mercato perla negoziazione di azioni, ed è questa loro attività chene determina in ultima analisi il prezzo. Per questomotivo, in un certo senso il vecchio adagio “quel chesemini raccogli” vale anche per il processo di formazio-ne del corso azionario, che consentirà agli operatori divalutare la performance della società: se i dati contabiliche gli operatori utilizzano per calcolare il prezzo del-l’azione non sono affidabili, tanto meno potrà esserlo ilprezzo dell’azione.

I dati contabili sono ancora più importanti per lesocietà ad azionariato ristretto o diffuso che operano inmercati sottosviluppati, perché sono le uniche informa-zioni a disposizione per analizzare e valutare le società.In un modo o in un altro, insomma, i dati contabili sonoimportanti ai fini della corporate governance. In assen-za di informazioni accurate e affidabili sarebbe moltodifficile, se non addirittura impossibile, stabilire se lesocietà stanno mantenendo le promesse fatte agli inve-stitori.

Stranamente, il dibattito politico in ambito contabiletende a confondere il piano della presentazione e aggre-gazione delle informazioni contabili con il piano del-l’effettivo contenuto informativo. Sfortunatamente, avolte i legislatori sembrano più preoccupati dellemodalità di presentazione dei dati contabili piuttostoche del fatto che le informazioni presentate siano dav-vero utili agli investitori. In gran parte, l’ossessione aprivilegiare la forma sulla sostanza nella contabilità sta-tunitense rispecchia il potere relativo del settore conta-bile. Per esempio, si è a lungo discusso se alle societàper azioni non statunitensi dovesse essere consentitoquotarsi su piazze finanziarie statunitensi come laNYSE senza adeguare la presentazione dei propri bilan-

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Corporate governance

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ci agli standard degli Stati Uniti. I fautori della necessità di concentrarsi sulle modali-

tà di presentazione sono a mio avviso ossessivamenteconvinti che solo la presentazione di dati contabili uni-formi permetta agli investitori di confrontare “mele conmele, pere con pere”, ossia di comparare i risultatifinanziari di società diverse. Questa tesi non considerache la concorrenza tra metodi contrapposti di presenta-zione dei dati contabili potrebbe rivelarsi positiva e chea volte non conformarsi alle norme vigenti può rappre-sentare un’utile innovazione e non implica necessaria-mente un pernicioso occultamento.

Quel che è peggio, i fautori dell’uniformità di for-mato a discapito di tutto il resto non comprendono lacapacità del mercato dei capitali di discernere ciò che èimportante, ovvero il contenuto del rendiconto finan-ziario, non il formato. La nostra ossessione per il for-mato di presentazione allontana l’attenzione da que-stioni sostanziali più importanti. Un mercato dei capi-tali efficiente prende le informazioni contabili e le ela-bora indipendentemente dalle modalità di presentazio-ne. Le imprese che presentano informazioni preziose inmodo chiaro saranno premiate dagli operatori del mer-cato, mentre le imprese che omettono di presentare datiimportanti o che li presentano in modo astruso sarannopenalizzate dal corso azionario, che rifletterà l’incertez-za espressa nei dati contabili delle imprese. Natural-mente, le imprese che comunicano i propri dati finan-ziari fondamentali in modo falso o fuorviante dovreb-bero essere sanzionate ai sensi delle disposizioni anti-frode della normativa in materia di strumenti finanzia-ri, indipendentemente dal formato utilizzato per ladivulgazione.

Una delle questioni più annose tra gli studenti difinanza è se le normative debbano istituire l’obbligo diinformazione per determinati risultati finanziari pro-mulgando vere e proprie regole di trasparenza o deb-bano invece lasciare alla sfera contrattuale la decisionesull’opportunità di divulgare dati agli investitori e sullaquantità. George Stigler, professore dell’Università di

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Contabilità, principi contabili e settore contabile

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Chicago e premio Nobel per l’economia, è stato il mas-simo esponente della dottrina del libero mercato, secon-do la quale le regole sull’obbligo di informazione ser-vono poco agli investitori perché la contrattazione pri-vata produrrebbe una comunicazione più flessibile, amisura degli investitori. Stigler riteneva che la contrat-tazione privata e gli incentivi caratteristici del mercatodei capitali avrebbero punito le società che non fosseroriuscite a fornire agli investitori dati finanziari affidabi-li e che l’obbligo di informazione avrebbe prodottotroppe informazioni inutili e non abbastanza informa-zioni importanti. Di recente, Michael Greenstone, PaulOyer e Annette Vissing-Jørgensen hanno rigorosamen-te analizzato gli effetti sul corso azionario dell’ultimarevisione dei parametri di trasparenza nei mercati azio-nari statunitensi, con l’approvazione, nel 1964, degliemendamenti al Securities Act; tale revisione mirava aestendere alle grandi imprese quotate nei mercati OTCl’applicabilità di quattro importanti parametri di tra-sparenza già in vigore da trent’anni per le imprese quo-tate, ovvero dal 1934. In particolare, Greenstone, Oyer eVissing-Jørgensen hanno esaminato le nuove normati-ve del 1964 che imponevano alle imprese di: (1) regi-strarsi alla SEC, (2) fornire aggiornamenti periodicisulla situazione finanziaria, presentando stato patrimo-niale e conto economico sottoposti a revisione, (3) invia-re agli azionisti proxy statements dettagliati e infine (4)riferire in merito a quote di partecipazione detenute emovimentate dai dipendenti.

Greenstone, Oyer e Vissing-Jørgensen hanno fattouna scoperta interessante: rispetto a imprese già quota-te sulle principali piazze borsistiche e quindi già sog-gette all’obbligo di trasparenza, le imprese negoziatesul mercato OTC che avevano iniziato a conformarsi atutti e quattro i parametri di trasparenza registravanoutili positivi statisticamente significativi, oltre i rendi-menti generali del mercato, tra l’11,5 e il 22,1 per cento.Secondo gli autori, i risultati del loro studio conferma-vano la bontà delle leggi in materia di trasparenza per-ché stimolano il gruppo dirigente a impegnarsi di più

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per incrementare il valore per gli azionisti.1

L’informazione è assolutamente fondamentale, e l’a-spetto più singolare dello studio di Greenstone, Oyer eVissing-Jørgensen è che evidenzia l’importanza dell’ob-bligo di informazione. Dopo tutto, se le informazionirichieste alle imprese fin dal 1964 per la negoziazionesui mercati OTC hanno creato un tale valore per gliinvestitori, le forze di mercato avrebbero dovuto già datempo sollecitare le società a divulgarle, come era avve-nuto per molte altre imprese prima dell’approvazionedelle normative sugli strumenti finanziari. In altreparole, nulla proibiva alle società di introdurre volonta-riamente i parametri di trasparenza poi sanciti dallalegge del 1964. Sull’onda degli interessanti risultatidella ricerca di Greenstone, Oyer e Vissing-Jørgensen,gli entusiasti fautori del mercato (e includo me stesso)sentono l’esigenza di spiegare perché le società nonhanno scelto volontariamente di fornire agli investitorile informazioni richieste dalla normativa del 1964prima di esservi obbligate.

A mio parere, la legge del 1964 ha favorito gli inve-stitori perché ha risolto un problema di credibilità. Lenuove regole di trasparenza hanno fornito ai mercatidei capitali informazioni migliori e stimolato i managera concentrarsi di più sulla massimizzazione del valoreper gli azionisti. Prima che queste parametri divenisse-ro legge, le società non quotate su alcuna piazza borsi-stica avevano un problema: potevano promettere inmodo unilaterale di offrire informazioni ai mercati eagli investitori, in futuro, ma nulla poteva impedir lorodi rinnegare successivamente le promesse fatte. Diri-genti o amministratori che adottavano una politica ditrasparenza generosa al tempo 0 potevano poi sceglieredi cambiare strategia al tempo 1. In altre parole, il meri-to dei parametri di trasparenza introdotti nel 1964 è diaver reso l’impegno alla trasparenza delle imprese che

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Contabilità, principi contabili e settore contabile

11.. Michael Greenstone - Paul Oyer - Annette Vissing-Jørgensen, “Manda-tory Disclosure, Stock Returns and the 1964 Securities Acts Amendments”,Quarterly Journal of Economics, 121, maggio 2006, pp. 399-460.

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entravano sui mercati OTC altrettanto credibile di quel-lo, ormai sedimentato, dei titoli negoziati in Borsa. Leimprese interessate dalla normativa del 1964 erano otroppo piccole per essere quotate sulle piazze borsisti-che organizzate o troppo poco negoziate per rendereredditizia la quotazione su mercati organizzati.

In altre parole, nell’ottica di questo libro, che consi-dera la corporate governance una questione di promes-se, l’obbligo di informazione ha senso solo quandorisolve problemi di contrattazione intra-aziendale.Molto semplicemente, è assurdo pensare che l’obbligoalla trasparenza debba riferirsi a ogni tipo di informa-zione, perché si arriva al punto in cui all’aumento delleinformazioni fornite corrisponde una diminuzione delbeneficio: se le imprese alla ricerca di capitali potesserodavvero ridurre i loro costi del capitale fornendo ulte-riori informazioni o promettendo di farlo, lo farebberovolontariamente. Come osservato sarcasticamente daGreenstone, Oyer e Vissing-Jørgensen, la normativapuò incrementare il valore per gli azionisti nel sensoche disciplina gli impegni contrattuali tra imprese, cherendono difficoltoso o costoso fare promesse agli inve-stitori e poi mantenerle.

La domanda di dati contabili affidabili crea a suavolta domanda di revisori dei conti esterni affidabili. Inquesto campo la concorrenza svolge un ruolo chiaro ebenefico: in teoria, perlomeno, le società cercano revi-sori esterni per segnalare a fonti potenziali di capitaleche i dati contabili su cui si basano in gran parte le valu-tazioni sono accurati.2 Questa domanda è particolar-mente marcata a fronte delle forti motivazioni delmanagement a falsare gli utili e altri indici della perfor-mance finanziaria della società.3

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Corporate governance

22.. Theodore Eisenberg - Jonathan R. Macey, “Was Arthur Andersen Diffe-rent? An Empirical Examination of Major Accounting Firm Audits of LargeClients”, Journal of Empirical Legal Studies, 1, 2004, p. 266.

33.. Le società di revisione esterne non forniscono servizi che le società nonsvolgano già al proprio interno. Il ruolo della società di revisione non è di pre-disporre i rendiconti finanziari per i clienti, compito che spetta all’ufficioamministrativo; è piuttosto quello di effettuare un’affidabile verifica dei ren-diconti finanziari predisposti dalla società. Vedi, in generale, Rick Antle,

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La reputazione dei revisori dei conti è cruciale nel-l’ambito della teoria economica della revisione dibilancio. Solo se la loro reputazione si distingue peronestà e integrità sono preziosi per i clienti, in man-canza di una reputazione caratterizzata da onestà eintegrità la funzione di verifica del revisore dei contiperde valore. In teoria, quindi, i revisori dei conti inve-stono moltissimo per costruirsi una buona reputazio-ne e rimanere stimati per le loro revisioni oneste e dialta qualità. Se ci si rivolge a revisori esterni di buonareputazione si può contare su una revisione di altaqualità. L’assicurazione di qualità deriva dal fatto stes-so che l’effettuazione di revisioni di bassa qualità smi-nuisce il valore dell’investimento in reputazione dellasocietà di revisione.4

Secondo l’interpretazione cosiddetta “pre-Enron”della revisione contabile, propugnata da studiosi incampo giuridico ed economico,5 le società di revisionecompetono in una “corsa al rialzo” che le motiva a pro-durre revisioni di alta qualità.

Un tempo, la revisione contabile veniva espletata inun mercato che incoraggiava a stilare rendiconti finan-ziari di alta qualità. In quel periodo, le società di revi-sione contabile erano disposte a mettere il sigillo di

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Contabilità, principi contabili e settore contabile

“Auditor Independence”, Journal of Accounting Research, 22, 1984, p. 1;George J. Benston, “The Value of the SEC’s Accounting Disclosure Require-ments”, Accounting Review, 44, 1969, p. 515; Ronald R. King, “ReputationFormation for Reliable Reporting: An Experimental Investigation”, Accoun-ting Review, 71, 1996, p. 375; Brian W. Mahew, “Auditor Reputation Buil-ding”, Journal of Accounting Research, 39, 2001, p. 599; Brian W. Mahew etal., “The Effect of Accounting Uncertainty and Auditor Reputation on Audi-tor Objectivity”, Auditing: A Journal of Practice and Theory, settembre 2001,p. 31; Norman Macintosh et al., “Accounting as Simulacrum and Hyper-rea-lity: Perspectives on Income and Capital”, Accounting, Organizations, andSociety, 25, 2000, p. 13; Ross L. Watts - Jerold L. Zimmerman, “Agency Pro-blems, Auditing, and the Theory of the Firm: Some Evidence”, Journal of Lawand Economics, 26, 1983, p. 613.

44.. Theodore Eisenberg - Jonathan R. Macey, “Was Arthur Andersen Diffe-rent?”, p. 266.

55.. Theodore Eisenberg - Jonathan R. Macey, “Was Arthur Andersen Diffe-rent?”, p. 266.

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approvazione sui registri finanziari di una societàcliente solo se la società si impegnava a conformarsiagli elevati standard imposti dalla professione conta-bile. Gli investitori avevano fiducia nei revisori perchésapevano che una società di revisione negligente ocorrotta non avrebbe avuto vita lunga. I revisori deiconti avevano incentivi notevoli a fare “un ottimolavoro” perché “i revisori con una reputazione inte-gerrima potevano pretendere un compenso più eleva-to” e i compensi elevati “erano un marchio di qualitàsul mercato della revisione contabile”.6

Secondo questo paradigma dell’era pre-Enron, lesocietà di revisione erano motivate a fornire servizi dialta qualità perché cercavano di proteggere la lororeputazione di indipendenza e integrità.7 In effetti,anni prima dello scandalo Enron, nel caso DiLeo v.Ernst & Young il giudice Easterbrook aveva affermatoche «il bene più prezioso [per una società di revisione]è la sua reputazione di onestà, seguita da vicino dallareputazione di accuratezza».8 Come osservato da Theo-dore Eisenberg e dal sottoscritto, «in un mondo in cui irevisori dei conti hanno investito per costruire unareputazione di alto livello e in cui nessun cliente rap-presenta più di una frazione infinitesimale del fattura-to totale, la revisione di alta qualità sembra garantita.In questo scenario, l’eventuale guadagno per un revi-

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Corporate governance

66.. Jonathan R. Macey - Hillary Sale, “Observations on the Role of Com-modification, Independence, and Governance in the Accounting Industry”,Villanova Law Review, 48, 2003, p. 1168.

77.. L’indipendenza di una società di revisione viene misurata in base alla per-centuale di fatturato riferita a un particolare cliente. Per esempio, la ArthurAndersen era considerata indipendente rispetto a Enron perché aveva altri2300 altri clienti a cui forniva servizi di revisione contabile ed Enron rappre-sentava solo l’uno per cento del suo fatturato totale per servizi di revisione;nel 2001, la Arthur Andersen incassò da Enron circa 100 milioni di dollari su9,34 miliardi di fatturato complessivo. L’indipendenza della società di revi-sione non si estendeva ovviamente all’autonomia dei responsabili della revi-sione di Enron. Jonathan R. Macey - Hillary Sale, “Observations on the Roleof Commodification, Independence, and Governance in the AccountingIndustry”, p. 1168.

88.. DiLeo v. Ernst & Young, 901 F.2d 624, 629, 7th Cir. 1990.

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sore che eseguisse una revisione inadeguata o addirit-tura partecipasse a una frode presso un cliente sarebbeassolutamente irrisorio rispetto al danno per la suareputazione».9

In sintesi, anche se le società sono in grado di effet-tuare la revisione contabile internamente, e lo fanno, sirivolgono comunque a società di revisione esterne pervalorizzare la loro reputazione e credibilità finanziariapresso una vasta serie di aventi diritto al cash flow, realio potenziali, tra cui investitori, fornitori, clienti e poten-ziali dipendenti. In base a questo concetto di reputazio-ne, le società si rivolgono a società di revisione esterneper attirare capitale partendo dal presupposto condivi-sibile che una società di revisione esterna che scoprisseun problema insisterebbe per vederlo risolto o, nonriuscendovi, rifiuterebbe il cliente. Se da un lato essererifiutati da una società di revisione ha implicazioniserie per la società cliente,10 secondo la teoria economi-ca la società di revisione che rifiuta un cliente tutt’al piùperde un cliente. Addirittura, una simile eventuale per-dita verrebbe con ogni probabilità compensata dall’ar-rivo di nuovi clienti, attratti dalla reputazione di irre-prensibilità desunta dal rigetto di clienti non all’altezza.In altre parole, anche se le società sono in grado diimporre analisi finanziarie e revisioni interne, e lofanno, si rivolgono comunque a società esterne di revi-sione contabile per capitalizzare la loro reputazione diprobità. Secondo questa teoria, incaricare una societàesterna della revisione contabile consente ai clienti di“indossare” la sua reputazione di accuratezza, onestà e

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99.. Theodore Eisenberg - Jonathan R. Macey, “Was Arthur Andersen Diffe-rent?”, p. 267.

1100.. Le rinuncia a un incarico da parte di una società di revisione è un fortesegnale negativo per gli investitori e può portare a conseguenze estreme, nonsolo per la società di cui si rifiuta l’incarico ma anche per i suoi manager. Vedi,per esempio, Martin Fackler, “Drawing a Line: Unlikely Team Sets JapaneseBanking on Road to Reform”, Wall Street Journal, 6 agosto 2003, A1, doveviene descritta la crisi provocata dalla mancata certificazione delle previsionifinanziarie di una importante banca giapponese da parte di una società direvisione; la vicenda costrinse la banca a rivolgersi al governo, che stanziòaiuti per circa 17 miliardi di dollari e procedette al commissariamento.

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integrità nei confronti dei clienti. Un osservatore hacaratterizzato come segue il mercato dei servizi di revi-sione contabile: «le società esterne di revisione hannosolo da perdere se le informazioni dei propri clienti sirivelano false o devianti. Se una società di revisione hasempre svolto un ottimo lavoro, le probabilità che isuoi clienti forniscano dati inaffidabili sono minime edi riflesso è anche basso il rischio di essere citata in giu-dizio da investitori indignati. Queste cause sono one-rose per le società di revisione e anche in caso di esitofavorevole per la società il danno per la reputazione ènotevole».11

Tuttavia, questa teoria pre-Enron evidenzia alcunedebolezze: in primo luogo, il settore della revisione con-tabile non è contraddistinto da una sana concorrenza.Attualmente, infatti, le cosiddette “big four”, cioè quat-tro società di revisione – Ernst & Young, Deloitte, Price-waterhouseCoopers e KPMG – hanno in carico la quasitotalità delle grandi imprese: eseguono la revisione dibilancio per il 99 per cento delle società quotate consi-derando il fatturato in forma aggregata, per il 97 percento delle società quotate con fatturato superiore a 250milioni di dollari e il 78 per cento di tutte le società quo-tate. Una manciata di società molto più piccole si occu-pano di tutte le altre revisioni.12

Consideriamo l’indice di Herfindahl-Hirschman(HHI), che misura il grado di concentrazione di unmercato.13 Un punteggio HHI inferiore a 1,000 indicauna bassa concentrazione, mentre un punteggio supe-

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Corporate governance

1111.. Daniel B. Thornton, “Financial Reporting Quality, Implications ofAccounting Research: Submission to the Senate, Canada Standing Commit-tee on Banking, Trade and Commerce, Study on the State of Domestic andInternational Financial System”, 29 maggio 2002, http://www.icfaipr-ess.org/1004/ijar.asp?mag=http://www.icfaipress.org/1004/ijar_sub.asp.

1122.. Vedi U.S. Gen. Accounting Office, Pub. No. GAO-03-864, “PublicAccounting Firms: Mandated Study on Consolidation and Competition”,luglio 2003, pp. 20-22, http://www.gao.gov/new.items/d03864.pdf.

1133.. Vedi Dipartimento di Giustizia, Horizontal Merger Guidelines, Was-hington DC, Commissione Federale Commercio, 1992, 15, che spiegal’HHI.

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riore a 1,800 indica una concentrazione elevata. Nel2002, l’indice HHI del mercato della revisione contabi-le aveva raggiunto un punteggio stupefacente, ben2,500.14

Inoltre, ovviamente ognuna delle “big four” è spe-cializzata in alcuni settori industriali e meno compe-tente in altri. Nel 2004, tre di esse effettuavano la revi-sione contabile delle imprese operanti nel settorepetrolifero e due di esse avevano in carico il 88,2 percento dei bilanci dei casinò; le percentuali sono analo-ghe anche in altri settori, tra cui il trasporto aereo el’industria del carbone:15 in parole semplici, alcunimercati sono dominati da una di esse, mentre altrimercati sono controllati per oltre il 70 per cento da duedi esse.16 Poiché le società di revisione minori sonotenute a distanza da società che operano regolarmentecon una delle “big four”, una grande impresa allaricerca di una società di revisione spesso ha un’unicaalternativa, e spesso nemmeno quella.17 Prendiamo ilcaso della Sun Microsystems, che si avvale della con-sulenza di tre delle “big four” per scopi diversi dallarevisione contabile: poiché la legge Sarbanes-Oxleyvieta alla Sun Microsystems di chiedere la revisionecontabile a società di revisione che le forniscono servi-zi diversi dalla revisione contabile e siccome nessu-n’altra società di revisione al di fuori delle “big four”è in grado di occuparsi della revisione contabile di uncolosso come Sun Microsystems, la società non haalcuna possibilità di scelta.18

Il General Accounting Office ha rilevato che lesocietà di revisione minori devono affrontare «barrieresignificative all’ingresso» e che «con ogni probabilità le

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Contabilità, principi contabili e settore contabile

1144.. Vedi Daniel B. Thornton, “Financial Reporting Quality”, pp. 18-20.1155.. “The Future of Auditing, Called to Account”, The Economist, 20

novembre 2004, pp. 71-73.1166.. Lawrence A. Cunningham, “Too Big to Fail: Moral Hazard in Auditing

and the Need to Restructure the Industry before It Unravels”, Columbia LawReview, 106, 2006, p. 1698.

1177.. Vedi Daniel B. Thornton, “Financial Reporting Quality”, pp. 18-20.1188.. Vedi Daniel B. Thornton, “Financial Reporting Quality”, pp. 18-20.

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forze di mercato non favoriranno»19 l’ingresso di nuovioperatori. Come osservato da The Economist, l’Ameri-can Electronics Association, che raggruppa 2500 socie-tà ed esprime una posizione critica rispetto alla leggeSarbanes-Oxley, sostiene che la mancanza di competi-zione «aumenta significativamente il costo della certi-ficazione ai sensi dell’articolo 404»,20 una disposizionedella Sarbanes-Oxley che accolla al management laresponsabilità dell’istituzione di «una struttura internadi controllo e di procedure adeguate per il reportingfinanziario» e richiede alle società di revisione esternedi validare la supervisione di tali controlli da parte delmanagement evidenziando eventuali «punti debolimateriali».21

L’elevata concentrazione che caratterizza il mercatodella revisione contabile e il ristretto numero di societàdi revisione a disposizione delle grandi imprese espon-gono il settore all’implosione.22 Poiché le società di revi-sione che possono prestare servizio alle grandi impresesono solo quattro, un problema serio presso una qual-siasi di esse potrebbe ripercuotersi in maniera sostan-ziale sull’intero sistema, perché rimarrebbero soltantotre società di revisione a far fronte alla miriade di gran-di imprese che possono rivolgersi solo alle “big four”;molte società sarebbero impossibilitate a ottenere i ser-vizi richiesti dalla Sarbanes-Oxley.

Il mercato della revisione è senz’altro contraddistin-to da scarsa concorrenza, ma la teoria pre-Enron nonregge anche perché gli investitori hanno poca fiducia e

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Corporate governance

1199.. Rapporto indirizzato alla Commissione Alloggi e Affari Urbani delSenato degli Stati Uniti e alla Commissione Servizi Finanziari della Cameradei Rappresentanti, Public Accounting Firms: Mandated Study on Consolida-tion and Competition, luglio 2003, p. 4, GAO 03-864, consultabile suhttp://www.gao.gov/new.items/d03864.pdf.

2200.. “Sarbanes-Oxley: A Price Worth Paying?”, The Economist, 19 maggio2005, pp. 71-73.

2211.. Sarbanes-Oxley Act del 2002, art. 404, 15 U.S.C. art. 7262, Supp.2002.

2222.. Lawrence A. Cunningham, “Too Big to Fail”, p. 1698.

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fede nei numeri generati dalle società di revisione.23

Come dimostrato da Eisenberg e dal sottoscritto, tra leprincipali società di revisione non ci sono distinzionistatisticamente significative sul piano della qualità.Piuttosto, esse producono risultati similmente mediocrie, contrariamente alle ipotesi fondanti della teoria eco-nomica, è semplicemente impossibile per le societàdimostrare la loro probità e onestà in ambito contabilemediante “selezione naturale”.24 Questa mancanza diistintività a livello qualitativo è esacerbata dalla man-canza di competizione, visto che non soltanto le quattrosocietà di prim’ordine hanno un vantaggio competitivoenorme rispetto alle società di seconda classe, ma sonocosì coalizzate che nessuna avrebbe alcunché da guada-gnare se la sua performance fosse migliore rispetto allealtre tre.

Il declino nella qualità della revisione, così comedescritto, ha più spiegazioni, che spaziano dal declinodella responsabilità civile e dalle variazioni nell’orga-nizzazione aziendale, che hanno ridotto gli incentivialle società di revisione a effettuare controlli,25 all’au-mento esponenziale del grado di complessità delletransazioni finanziarie, che ha reso più difficile la revi-

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Contabilità, principi contabili e settore contabile

2233.. Secondo un sondaggio condotto da Gallup nel 2002, il 70 per centodegli investitori americani asseriva che le problematiche legate alla contabili-tà aziendale nuocevano “molto” al clima sul mercato degli investimenti. PaulS. Atkins, “Remarks at the Federalist Society 20th Annual Convention”, 14novembre 2002, http://www.sec.gov/news/speech/spch111402psa.htm.

2244.. Theodore Eisenberg - Jonathan R. Macey, “Was Arthur Andersen Dif-ferent?”.

2255.. Il cambiamento dell’organizzazione aziendale dalla general partnership(grosso modo corrispondente alla società in nome collettivo) alla limited lia-bility partnership (sostanzialmente corrispondente alla società in accomanditasemplice) ha ridotto il rischio di responsabilità personale dei soci delle socie-tà di revisione non direttamente coinvolti nella revisione presso un particola-re cliente. Ciò però ha anche ridotto gli incentivi alla verifica dell’operato deicolleghi e l’eliminazione del rischio di responsabilità per favoreggiamento oistigazione a commettere un reato ha ridotto gli incentivi al controllo reci-proco tra i revisori dei conti. Nella causa Central Bank of Denver v. First Inter-state Bank of Denver, 511 U.S. 164, 1994, si asserisce che l’articolo 10[b] e laRule 10b-5 della SEC vietano solo «la produzione di false dichiarazioni [o diomissioni] o le azioni manipolative” e non il favoreggiamento o l’istigazionea commettere tali azioni. La sentenza fu intesa come una sostanziale diminu-

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sione contabile.26 Volendo spingersi un po’ più in là, sipotrebbe polemicamente affermare che le disposizionisui servizi di consulenza forniti dalle società di revisio-ne ribaltano il tradizionale equilibrio di potere tra socie-tà emittenti e revisori, contribuendo all’assoggettamen-to delle società di revisione da parte dei clienti.27

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Corporate governance

zione dei rischi legali per i consulenti esterni quali revisori e legali. Questacontrazione degli incentivi venne esasperata con la promulgazione del Priva-te Securities Litigation Reform Act (PSLRA) nel 1995, Pub. L. No. 104-67,codifica n. 15 U.S.C., art. 78 [1998]. Il PSLRA ha stabilito nuove regole perla discussione della causa, che obbligano i ricorrenti a «descrivere nel detta-glio tutti i fatti che possono indurre a supporre, con un elevato grado di ragio-nevolezza, che l’imputato ha agito con una particolare intenzione» nelmomento in cui produceva false dichiarazioni od omissioni nei rendicontifinanziari. Inoltre, il PSLRA ha ritardato l’inizio della fase di discovery (nellacommon law, presentazione del materiale probatorio) fino a che un tribunalenon decide che la causa può procedere richiedendo un maggior grado di det-taglio del materiale probatorio, mentre prima i legali dei ricorrenti potevanoiniziare a raccogliere documenti e interrogare testimoni subito dopo aver pre-sentato il ricorso. Il PSLRA ha anche decisamente ridimensionato la dottrinadella “responsabilità solidale”, che assicura alle vittime la possibilità di recu-perare per intero le somme dovute anche se alcune delle parti coinvolte nellafrode non sono in grado di pagare. Ai sensi del PSLRA, chi ha contribuito allafrode con comportamenti irregolari e sconsiderati può essere ritenuto respon-sabile delle perdite subite dalle vittime solo per la parte di responsabilità chegli compete. Nel caso in cui la prima causa della frode sia insolvente, gli inve-stitori non possono recuperare del tutto le loro perdite da altri soggetti coin-volti, quali le società di revisione.

2266.. La revisione contabile si è fatta più complessa dopo l’introduzione dimetodi di finanziamento nuovi e sempre più sofisticati; e anche le stesse rego-le di revisione sono divenute sempre più tecniche. Di conseguenza, le societàdi revisione hanno constatato che i “team di revisione” assegnati alle societàad azionariato diffuso hanno bisogno di sempre più tempo da dedicare a que-sti clienti.

2277.. Quando la società di revisione fornisce anche un servizio di consulenzapuò essere tentata di utilizzare il lavoro di revisione come un loss leader, ossiauna “chiave d’accesso” che prelude all’acquisto di altri servizi più costosi,oppure come una «meccanismo per “farsi aprire le porte” da un cliente e otte-nere così un incarico di consulenza che ha margini ben più alti». Jonathan R.Macey - Hillary Sale, “Observations on the Role of Commodification, Inde-pendence, and Governance in the Accounting Industry”, p. 1178. La presta-zione di servizi di consulenza erode ulteriormente l’indipendenza della socie-tà di revisione perché toglie potere ai revisori e lo mette nelle mani dei clien-ti quando si discute di controlli contabili e problemi di riconferma dell’inca-rico. Come se ciò non bastasse, i servizi di consulenza autorizzano i clienti aricompensare le società di revisione che si piegano ai loro voleri nella sceltadel trattamento contabile da utilizzare per dichiarare operazioni innovative o

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Questo capitolo non ruota semplicemente intorno alfallimento delle società di revisione nell’affermarsicome gatekeepers, che è un fatto risaputo. Invece, in lineacon la teoria sostenuta in questo libro, il punto è che gliStati Uniti non hanno reagito come avrebbero dovutoallo scandalo Enron e alla misera performance dellesocietà di revisione. La risposta appropriata sarebbestata di affrontare i problemi reali di cartellizzazione easservimento che piagavano – e continuano a piagare –il mercato della revisione contabile e di migliorare lecondizioni di concorrenzialità nel settore o agevolarel’ingresso a nuove società di revisione. La risposta for-nita dalla legge Sarbanes-Oxley ha fallito su entrambi ifronti.

La Sarbanes-Oxley ha drasticamente accresciuto ladomanda per le “big four”, imponendo costi esorbitan-ti agli investitori senza offrire in cambio alcun beneficioevidente. Secondo un articolo pubblicato su The Econo-mist nel 2005, un’associazione di alti dirigenti finanzia-

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Contabilità, principi contabili e settore contabile

complesse e prassi aziendali. Quando la società di revisione offre solo i servi-zi di revisione, i clienti insoddisfatti possono solo toglierle l’incarico se riten-gono che non sia sufficientemente aggressiva o accondiscendente. Quandoinvece interviene anche la consulenza, il cliente può adottare la strategia “delbastone e della carota”, premiando il revisore quando si dimostra acquiescen-te e “punendolo” se si dimostra inflessibile. Questo tipo di pressione è eserci-tata particolarmente nei casi in cui una società è l’unico cliente della personaincaricata della revisione, che se non dimostra di procurare anche incarichiredditizi quali quelli di consulenza può avere ripercussioni su salario, avanza-mento di carriera e premi di produzione. Come ha osservato John Coffee, èdifficile per un’impresa togliere l’incarico a una società di revisione, perchétale azione comporta «un potenziale imbarazzo a livello pubblico, la necessi-tà di spiegazioni pubbliche per tale azione e un probabile intervento dellaSEC». John C. Coffee Jr., “Understanding Enron: It’s about the Gatekeepers,Stupid”, Business Lawyer, 57, 2002, pp. 1411-1412. Se invece la società direvisione fornisce anche un servizio di consulenza a un determinato cliente,quest’ultimo «può toglierle l’incarico da consulente o ridurlo come “ritorsio-ne” se la società si dimostra troppo intransigente nel lavoro di revisione».Jonathan R. Macey - Hillary Sale, “Observations on the Role of Commodi-fication, Independence, and Governance in the Accounting Industry”, p.1178. Se un cliente pone termine a un servizio di consulenza altamente remu-nerativo limitando l’incarico al servizio di revisione, che ha un margine deci-samente più basso, non vi è necessità di alcuna dichiarazione pubblica. Inaltre parole, togliere l’incarico di consulenza a una società di revisione nonrischia di scatenare indagini sul fronte degli investitori, della SEC o di studilegali specializzati in class action.

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ri aveva calcolato che nel 2004 le società avevano sbor-sato per la revisione contabile mediamente 2,4 milionidi dollari in più rispetto alle previsioni stilate primadell’approvazione della Sarbanes-Oxley (e molto più diquanto fosse nelle intenzioni degli ideatori della Sarba-nes-Oxley).28 The Economist osservava inoltre che la Sar-banes-Oxley aveva «creato una miniera d’oro per con-sulenti e revisori; professione fortemente colpevolizza-ta per gli scandali all’origine della legge, e che la stessalegge intendeva incanalare e controllare».29 Deloitte haannunciato che le grandi società di revisione hannospeso in media quasi 70.000 ore di lavoro straordinarioper adeguarsi alla Sarbanes-Oxley.30 In un campione di97 società, gli onorari delle società di revisione – attri-buibili alla Sarbanes-Oxley – sono aumentati in mediada 3,5 a 5,8 milioni di dollari.31

Per tutta risposta, le società non americane minac-ciano di ritirare la loro intenzione di quotarsi sulle piaz-ze borsistiche statunitensi, mentre altre società stranie-re hanno ritirato il loro titolo dal listino anche a causadella Sarbanes-Oxley.32 Secondo uno studio legale,almeno il 20 per cento delle società ad azionariato dif-fuso quotate sulle Borse americane ha preso in conside-razione l’ipotesi di restringere il proprio azionariato pereludere la Sarbanes-Oxley,33 non da ultimo per entraresu un mercato meno regolamentato; un risultato curio-so, visto l’obiettivo della Sarbanes-Oxley di migliorarele informazioni di carattere finanziario agli investitori.In effetti, nel 2006 The Economist scrisse che «la norma-tiva Sarbanes-Oxley, promulgata dopo il collasso diEnron per dare una stretta sulla corporate governance,ha scoraggiato le società straniere dal quotarsi negli

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Corporate governance

2288.. “Sarbanes-Oxley: A Price Worth Paying?”.2299.. “Sarbanes-Oxley: A Price Worth Paying?”.3300.. “Sarbanes-Oxley: A Price Worth Paying?”.3311.. Vedi Susan W. Eldridge - Burch T. Kealey, “SOX Costs: Auditor Atte-

station under Section 404”, 13 giugno 2005, manoscritto inedito su file pres-so la Columbia Law Review, p. 2.

3322.. Vedi nota 27.3333.. Vedi nota 27.

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Stati Uniti. La Borsa di Londra [...] ne ha tratto i mag-giori benefici, le imprese straniere sono accorse in grannumero per quotarsi sul mercato principale e sull’AIM,un mercato meno regolamentato costituito nel 1995».34

La «continua tradizione [della Borsa londinese] nel pri-vilegiare una regolamentazione morbida [...] si è rivela-ta un altro ingrediente essenziale» nella sua «rimarche-vole evoluzione verso un centro finanziario di livellomondiale».35

Naturalmente, le grandi società di revisione sonoentusiastiche fautrici della Sarbanes-Oxley, come delresto sarebbe qualsiasi azienda di una legge che con-sente aumenti di prezzo a fronte di prestazioni ridotte.Il CEO di Pricewaterhouse-Coopers è un «fervidosostenitore della nuova legge».36 Il responsabile dell’uf-ficio statunitense di KPMG ammette che la Sarbanes-Oxley ha causato aumenti di prezzo ma prevede chequesti diminuiranno in futuro, una volta esaurita l’on-data lunga dell’adeguamento ai requisiti della Sarba-nes-Oxley.37

Venendo alla sostanza della normativa Sarbanes-Oxley, il problema fondamentale è che i singoli revisoriche compongono i gruppi di lavoro incaricati della revi-sione di società ad azionariato diffuso sono estrema-mente esposti all’assoggettamento da parte dei rispetti-vi clienti, ovvero molto sensibili alle modalità “taralluc-ci e vino” dei clienti; inoltre, solitamente questi revisorisi occupano di un cliente alla volta. Sono stati propriol’assoggettamento e i minori incentivi a fornire revisio-ni contabili impeccabili la causa dei problemi di ArthurAndersen nella prestazione di servizio a Enron.38 Larevisione contabile è un servizio alle imprese e la sod-

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Contabilità, principi contabili e settore contabile

3344.. “London as a Financial Centre: The Capital City”, The Economist, 21ottobre 2006, pp. 34-36.

3355.. “London as a Financial Centre”, pp. 34-36.3366.. Vedi nota 27.3377.. Vedi nota 27.3388.. Jonathan R. Macey - Hillary Sale, “Observations on the Role of Com-

modification, Independence, and Governance in the Accounting Industry”,p. 1169.

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disfazione del cliente è tanto importante nella revisionequanto in tutto il resto del terziario. Ma ormai le carrie-re dei revisori dipendono sempre più dai tarallucci evino dei singoli clienti. La Sarbanes-Oxley non ha fattonulla per affrontare questo problema: anche se avrebbepotuto risolvere il problema imponendo alle società perazioni di cambiare periodicamente la società di revisio-ne, un cambiamento così radicale non è stato introdot-to; come “compromesso”, la Sarbanes-Oxley imponeinvece alle società di revisione di ruotare i singoli revi-sori sui clienti ogni cinque anni.39

Con ogni probabilità, questa prescrizione di rotazio-ne si rivelerà estremamente onerosa e inefficace: onero-sa perché il nuovo revisore di turno sosterrà costi diavviamento sostanziali, che si riverseranno sul clienteogni cinque anni, e inefficace perché così non si riducela tendenza dei revisori all’asservimento. Al contrario,tale disposizione finisce per esacerbare questa tenden-za: quando prendono in carico un nuovo cliente, i revi-sori non vogliono certo essere valutati da meno rispet-to ai predecessori. In altre parole, la legge potrebbe sca-tenare una distruttiva “corsa al ribasso” tra revisori chehanno in carico società contraddistinte da un approccioaggressivo alla contabilità finanziaria. I revisori dispo-sti a utilizzare le tecniche di revisione più creative rice-veranno le valutazioni più generose in termini di sod-disfazione del cliente.

In sintesi, le disposizioni della Sarbanes-Oxleyhanno offerto vantaggi dimostrabili a un gruppo diinteresse ben preciso: le maggiori società di revisione. Ivantaggi che queste grandi offrono agli investitori nonsono affatto chiari, data la natura inaffidabile delle cer-tificazioni finanziarie fornite. Ciononostante, la doman-da di servizi a queste società rimane forte, non sospin-

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Corporate governance

3399.. Harry S. Davis - Megan Elizabeth Murray, “Corporate Responsibilityand Accounting Reform”, Banking and Financial Services Policy Report,novembre 2002, p. 1, http://www.aspenpublishers.com/product.asp?catalog_na-me=Aspen&product_id=SS0730689X&cookie%5Ftest=1#Description, consul-tato 22 febbraio 2008.

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ta dalle forze di mercato bensì dalle normative. Le regole della SEC sono riuscite a favorire la for-

mazione di un cartello nel mercato della revisione con-tabile, poiché richiedono che le grandi società per azio-ni si rivolgano a società di revisione il cui fatturato èestremamente parcellizzato tra i clienti. Di conseguen-za, le grandi società per azioni possono rivolgersi sol-tanto a società di revisione molto grandi per la revisio-ne contabile. A mio parere, questo è ciò che ha favoritola costante stabilizzazione e concentrazione osservatanel mercato della revisione contabile negli ultimidecenni. La Sarbanes-Oxley ha poi consolidato il qua-dro normativo per le principali società di revisione,senza far nulla per migliorare la qualità del servizioreso, così essenziale per gli investitori e i mercati deicapitali.

Secondo una ricerca di tipo event-study condotta daIvy Xiying Zhang, il costo privato della Sarbanes-Oxleyammonta a 1,4 mila miliardi di dollari,40 ovvero circa460 dollari per ogni abitante degli Stati Uniti. Questacifra, definita “allucinante” da The Economist, è unastima econometrica del valore per gli azionisti andatoperduto a causa della Sarbanes-Oxley. In altre parole, laricerca misura i costi diretti della Sarbanes-Oxley pergli investitori. In parte, i costi sono indubbiamente per-dite sociali inevitabili dovute all’estrema inefficienzadella legge, ma un’altra quota significativa dei costideriva dallo spostamento di ricchezza dalla miriade dipiccoli azionisti politicamente deboli a gruppi di inte-resse ben organizzati e altamente concentrati, come leprincipali società di revisione. Prima che gli investitorine ricavino qualche beneficio, la Sarbanes-Oxley devedunque scoprire e punire frodi per 1,4 mila miliardi didollari.

Cambiando chiave di lettura, la regolamentazione

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Contabilità, principi contabili e settore contabile

4400.. Ivy Xiying Zhang, “Economic Consequences of the Sarbanes-Oxley Actof 2002”, p. 20, http://w4.stern.nyu.edu/accounting/docs/speaker_pa-pers/spring2005/Zhang_Ivy_Economic_Consequences_of_S_O.pdf, consultato22 febbraio 2005.

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delle società di revisione disposta dalla Sarbanes-Oxleyrappresenta un’applicazione lineare dell’importanteteoria della scelta pubblica, per cui i processi politicitendono a essere dominati da piccoli gruppi di interes-se,41 i quali, insieme alle relative lobby e ad altri agentiinteragiscono con funzionari di governo nei mercati incui si gioca il sostegno politico. Per sopravvivere, legis-latori e politici sono costretti a produrre risultati (sottoforma di leggi, normative e iniziative concrete deglienti governativi) che tipicamente vanno a vantaggio digruppi altamente concentrati, in grado di superare pro-blemi di free-riding e gestire azioni collettive fondatesull’ignoranza razionale. In tal modo, si ledono gli inte-ressi di gruppi meno organizzati quali i consumatori e,ovviamente, gli investitori privati, alzando i prezzi eriducendo la prestazione.

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Corporate governance

4411.. George J. Stigler, “Theory of Economic Regulation”, Bell Journal of Eco-nomics and Management Science, 2, 1971, p. 3.

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Questo capitolo si occupa delle promesse che lesocietà quotate dovrebbero fare riguardo alle propriepolitiche aziendali in caso di insider trading, venditaallo scoperto e whistle-blowing. L’elemento comune aitre fenomeni, apparentemente diversi, è che ruotanotutti attorno allo spinoso problema di come portare allaluce informazioni negative sulle società quotate. In unmodo o nell’altro, chi vende azioni sfruttando una posi-zione privilegiata all’interno della società (insider tra-der), chi vende azioni allo scoperto (short-seller) o chisegnala la presenza di frodi o di illeciti interni all’azien-da (whistle-blower) rivela informazioni – soprattuttonegative – sull’andamento e sulla gestione della società.

Strano dunque che queste tre preziose fonti di infor-mazione siano trattate in modo tanto diverso dagli enti diregolamentazione e dalla legge. Gli insider trader, ovvia-mente, sono considerati dei volgari truffatori. Gli short-sel-ler sono visti con profondo sospetto nonostante fornisca-no informazioni rilevanti su società potenzialmente“ammalorate”. Per contro, i whistle-blower o “informato-ri”, di gran lunga i meno efficaci dei tre, sono spesso cele-brati dalla stampa generalista e nei film hollywoodiani; esono venerati anche gli enti di regolamentazione. Tutta-via, come avrò modo di sottolineare in questo capitolo,essi non sono visti dalle società come uno strumento legit-timo di corporate governance. Se così fosse otterrebbero

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Capitolo 12

Forme di governance non convenzionale:insider trading, vendita allo scoperto

e whistle-blowing

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premi o ricompense per avere portato alla luce importan-ti informazioni su frodi o altri comportamenti illeciti, maciò non si è mai verificato, almeno non nel settore privato.

Di recente, i whistle-blower sono divenuti una figu-ra “di moda” negli ambienti della corporate governan-ce. Ma anche a livello generale godono da qualche annodi un considerevole aumento di popolarità mentre inpassato venivano additati come “delatori” e di solitoerano trattati con diffidenza.1 Secondo il periodico onli-ne Salon, per esempio, «i whistle-blower hanno conqui-stato la posizione sociale di veri e propri eroi popolarisostenuti in parte da film quali The Insider – Dietro laverità». Inoltre «si sta più che mai diffondendo l’abitu-dine di proteggere i whistle-blower», fa notare DanielleBrian, consigliere delegato di Project on GovernmentOversight, un’organizzazione di pubblico interessesenza fini di lucro che si prefigge di smascherare la cor-ruzione e l’amministrazione impropria nelle attività digoverno e che lavora a stretto contatto con i whistle-blo-wer sostenendone la causa.2

La rivista Time è persino arrivata a designare il 2002“l’anno dei whistle-blower”, acclamando questi perso-naggi come «benefattori interni alle società, pronti amettere a repentaglio le proprie carriere»3 per divulga-

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Corporate governance

11.. In passato il whistle-blowing era considerato in qualche modo sovversivoe comunque sleale e antipatriottico. Vedi, per esempio, Gerald Vinten (a curadi), Whistle-blowing: Subversion or Corporate Citizenship?, Londra, Paul Chap-man, 1994; Joyce Rothschild - Terance D. Miethe, “Whistle-blowing as Resi-stance in Modern Work Organizations: The Politics of Revealing Organiza-tional Deception and Abuse”, in John M. Jermier - David Knights - WalterR. Nord (a cura di), Resistance and Power in Organizations, Londra, Routled-ge, 1994, pp. 252-273; Frederick A. Elliston - John Keenan - Paula Lockhart- Jane van Schaick, Whistle-blowing: Managing Dissent in the Workplace, NewYork, Praeger, 1985; Frederick A. Elliston, “Civil Disobedience and Whistle-blowing: A Comparative Appraisal of Two Forms of Dissent”, Journal of Busi-ness Ethics, 1, 1982, pp. 23-28; David W. Ewing, Freedom Inside the Organi-zation: Bringing Civil Liberties to the Workplace, New York, Dutton, 1977;Brian Martin, “Whistle-blowing and Nonviolence”, Peace and Change, 24,1999, pp. 15-28.

22.. Eric Boehlert, “The Betrayal of the Whistle-blowers”, Salon, 21 ottobre2003, http://dir.salon.com/story/news/feature/2003/10/21/whistle-blower, con-sultato 22 febbraio 2008.

33.. Eric Boehlert, “The Betrayal of the Whistle-blowers”.

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re informazioni importanti; fra le altre, come l’FBI , allavigilia dell’11 settembre 2001, si sia fatta sfuggire unsospetto terrorista di importanza strategica, o comeEnron stesse ingannando gli investitori falsificandotransazioni occulte in bilancio. Ora esiste persino unNational Whistleblower Center, gruppo di pressionenon profit dedito a sostenere e aiutare i whistle-blowernell’intento di «migliorare la protezione ambientale, lasicurezza nucleare e la trasparenza di governo e d’a-zienda».4

Il whistle-blowing è «una forma di dissenso all’in-terno dell’organizzazione aziendale»5 anche se dallarecente pubblicità positiva s’intuisce come esso vengaaccolto con sempre minore diffidenza e come i whistle-blower appaiano sempre meno motivati dalla politica epiù dall’altruismo di quanto non accadesse in passato.Inoltre oggi si inizia a pensare ai whistle-blower comeparte integrante del sistema riformato di corporategovernance; un sistema che si suppone in grado di con-trollare e gestire meglio la condotta deviata dei mana-ger (costi di agenzia) all’interno delle grandi società adazionariato diffuso.6 Le “soffiate” provenienti dall’in-terno delle società sono state infatti definite «il metododi gran lunga più comune per smascherare le frodi».7

L’intento di questo capitolo è di esplorare il whistle-

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Forme di governance non convenzionale

44.. http://www.whistle-blowers.org.55.. Brian Martin - Will Rifkin, “The Dynamics of Employee Dissent:

Whistle-blowers and Organizational Jiu-Jitsu”, Public Organization Review,4, 2004, pp. 221-238.

66.. Lo strumento centrale del nuovo regime di corporate governance è il Sar-banes-Oxley Act del 2002, Pub. L. No. 107-204, 2002 U.S.C.C.A.N., 116Stat. 745, regolamentato negli articoli 15 e 18 U.S.C. La legge contiene signi-ficative forme di tutela per i whistle-blower del settore privato, discusse nelparagrafo VIII di questo capitolo. Nel firmare il disegno di legge, che cosìdiventava legge, il presidente George W. Bush dichiarò: «Quella che oggifirmo è la riforma più lungimirante del settore societario dai tempi di Roose-velt. Con questa legge manager e amministratori disonesti sanno di poteressere scoperti e puniti; l’era dei bassi profili e dei falsi profitti è terminata;nessun consiglio di amministrazione americano è al di sopra della legge».“Remarks on Signing the Sarbanes-Oxley Act of 2002”, Weekly Compilationof Presidential Documents, 38, 30 luglio 2002, p. 1284.

77.. “Sarbanes-Oxley: A Price Worth Paying?”.

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blowing, l’insider trading e il ricatto e i loro possibiliruoli all’interno della corporate governance. Perché lesocietà non fanno di più per promuovere il whistle-blo-wing? Esiste un tipo di insider trading che sia sempre ecomunque in grado di aiutare gli azionisti a smaschera-re eventuali truffe aziendali? Spiegherò qui come unaparticolare forma di insider trading (ossia praticato suinformazioni di corruzione e di frode aziendale o dialtri illeciti interni all’azienda) e il whistle-blowingsiano indistinguibili da un punto di vista analitico efunzionale nel rispondere a patologie aziendali quali latruffa e la corruzione.

Quando i whistle-blower mettono in ginocchiogiganti come Enron, Adelphia e WorldCom vengonodanneggiate persone innocenti: i dipendenti, i piccolifornitori, le comunità locali; persino le organizzazionifilantropiche che facevano affidamento su quelle socie-tà soffrono quanto e forse più della base ampiamentediversificata dei loro investitori. Tutti questi gruppi diinteresse individuano nel whistle-blower la causa deipropri guai. Inoltre le dichiarazioni dei whistle-blowerrisultano spesso imbarazzanti per gli enti di regola-mentazione, per la magistratura e per chiunque debbavigilare sulle attività fraudolente d’azienda.

Spesso, invece, gli insider trader se la passano sor-prendentemente bene in tribunale; in particolare quan-do l’insider trading conduce a rivelazioni decisiveriguardanti una frode incipiente, così come farebbe ilwhistle-blowing, le corti sembrano particolarmente bendisposte ad accettarlo.

La teoria avanzata in questo capitolo è che l’analisiottimale di whistle-blowing e insider trading partonodal presupposto che entrambi coinvolgono i diritti rela-tivi alla medesima larvata proprietà intellettuale: infor-mazioni aventi un possibile valore. La questione se unapersona abbia il diritto di richiamare l’attenzione sull’o-perato di qualcun altro o se una persona abbia il dirittodi speculare sulla base di informazioni non di pubblicodominio, dipende sostanzialmente dal fatto che essapossieda un legittimo interesse di proprietà sull’infor-

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mazione che sta utilizzando. Se così è, allora il suo com-portamento, non importa se caratterizzato come whist-le-blowing o come insider trading, non solo dovrebbeessere lecito, ma andrebbe persino incoraggiato. Percontro, nelle situazioni in cui la persona pratichi ilwhistle-blowing o l’insider trading senza possedere unlegittimo interesse di proprietà sull’informazione che vadivulgando perché qualcun altro ha invece il diritto dimantenere tale informazione confidenziale e/o di utiliz-zarla nel modo in cui ritiene più opportuno, il suo com-portamento dovrebbe essere considerato illegale.

Il capitolo si apre con la definizione di whistle-blo-wing e con un compendio dei tentativi compiuti dalgoverno per incoraggiarlo. Il paragrafo I comprendeun’analisi del caso di whistle-blowing probabilmentepiù famoso, quello di Sherron Watkins e di Enron. Ilparagrafo II confronta insider trading e whistle-blo-wing: l’accostamento delle due pratiche spiega le ragio-ni dell’antipatia e del sospetto con cui si è soliti guar-dare ai whistle-blower. Nel paragrafo III si prendono inesame whistle-blowing e insider trading come duefenomeni che spesso si manifestano insieme. Il paragra-fo IV dimostra perché i whistle-blower non abbiano cre-dibilità e spiega quanto possa verosimilmente risultaredispendioso verificare le asserzioni dei whistle-blowerche non utilizzino le informazioni a loro disposizioneper negoziare le azioni della società sul mercato. Nelparagrafo V mi soffermo sulle implicazioni di un siste-ma ispirato ai diritti di proprietà per insider trading ewhistle-blowing, nonché dell’inquadramento giuridicodell’una e dell’altra pratica, dimostrando anche comel’insider trading effettuato su informazioni negativeriguardanti la società sia un’alternativa migliore rispet-to al whistle-blowing, laddove adeguatamente regola-mentato. La questione non è se l’insider trading debbaessere generalmente permesso o se questo tipo di nego-ziazione avvenga sempre a beneficio degli azionisti odelle società, ma piuttosto che la limitata e strettamen-te regolamentata possibilità di vendere allo scoperto èin grado di segnalare in modo credibile al mercato che

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chi opera ha informazioni negative riguardanti unasocietà.8 Il paragrafo VI tenta una riflessione sul perché,alla luce dell’analisi svolta, si osservi un atteggiamentotanto differente nei confronti dei whistle-blower e degliinsider trader. Il paragrafo VII è dedicato agli effetti dis-tributivi che insider trading e whistle-blowing hannosugli investitori e cerca di capire chi davvero paghi perle due pratiche e per le loro conseguenze sulla societàquotata. Il paragrafo VIII spiega perché è improbabileche il processo di contrattazione privata interno alleaziende porti ad autorizzare il tipo di negoziazione quiauspicato e perché, per perseguire tale obiettivo, sianecessario ricorrere alla normativa piuttosto che allacontrattazione intra-aziendale. Nel paragrafo IX siaffronta brevemente il ricatto come modo di reagire alleinformazioni confidenziali o riservate su eventualifrodi aziendali e lo si mette a confronto con le pratichedi whistle-blowing e di insider trading.

I. Il whistle-blowingDefinire il whistle-blowing

Un whistle-blower è un dipendente di una società oun’altra persona in relazione contrattuale con la stessache denuncia un’irregolarità a terze imprese o istituzioniche dispongono a loro volta dell’autorità necessaria perimporre sanzioni o per intraprendere azioni correttivenei confronti dei responsabili. Mentre alcune definizionidi whistle-blowing vogliono che il comportamentoriprovevole venga segnalato esclusivamente a personeesterne all’organizzazione, altre ammettono che la comu-nicazione dell’illecito possa essere inoltrata anche agliorgani gerarchicamente superiori della società.9 Se unapersona “punta il dito” contro un intero modo di farebusiness oppure contro persone molto vicine al vertice o

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88.. Vendere allo scoperto significa vendere azioni che non si posseggono conl’intento di trarre vantaggio dal “coprire la posizione scoperta”, fatto che per-mette di acquistare azioni più a buon mercato in seguito, quando il prezzoscende.

99.. Per esempio, il whistle-blowing è stato definito come l’azione, da parte diun dipendente o di chi ha fatto domanda di impiego, di rivelare informazio-ni che detta persona ha fondato motivo di ritenere dimostrino una violazio-

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addirittura in cima alla scala gerarchica dell’azienda,come è accaduto in Enron, la denuncia agli organi supe-riori della catena di comando della società non è vero eproprio whistle-blowing. Dopotutto è difficile pensareche “avvertire” dell’illecito le sole persone coinvoltenello stesso possa essere considerato whistle-blowing.Laddove l’illecito fosse invece commesso da un pubblicoufficiale, e non da individui che operano nel settore pri-vato, segnalarlo a persone esterne all’organizzazionepotrebbe costituire reato se l’informazione fosse segretaai sensi di un’ordinanza amministrativa o subordinata auna disposizione esecutiva di riservatezza.

La venerabile tradizione statunitense di ricompensare iwhistle-blower

Le origini della legislazione sul whistle-blowingnegli Stati Uniti trovano traccia nel False Claims Act pro-mulgato nel 1863 per ridurre l’incidenza delle frodiattuate ai danni del governo dell’Unione dai fornitori dimunizioni e di materiale bellico durante la guerra disecessione.10 La legge autorizza a pagare ai whistle-blo-wer una percentuale sul denaro recuperato o sui risar-cimenti ottenuti dal governo nei casi di frode che latestimonianza del whistle-blower aveva contribuito asmascherare; la legge consente inoltre ai whistle-blo-wer, chiamati “informatori”, di agire legalmente (azio-ne qui tam)11 per conto del governo contro chi avessepresumibilmente avanzato false pretese nei confronti

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ne di leggi, norme o regolamenti, una grossolana irregolarità nella gestioneaziendale, un sostanziale spreco di risorse, o rappresentino un abuso di pote-re o un pericolo specifico per la salute o la sicurezza pubblica, salvo che talerivelazione sia specificatamente vietata per legge o che tali informazioni sianosoggette a specifiche esigenze di segretezza per disposizione esecutiva perragioni di difesa o sicurezza nazionale. Dipartimento dei Trasporti statuni-tense, TSA, “Interim Policy on Whistle-blower Protections for TSA SecurityScreeners”, 20 novembre 2002, http://www.osc.gov/documents/tsa/tsa_dir.pdf;vedi anche C. Fred Alford, Whistle-blowers, Broken Lives and OrganizationalPower, Ithaca, Cornell University Press, 2001.

1100.. 31 U.S.C., art 3730(h).1111.. Qui tam è l’abbreviazione della frase latina qui tam pro domino rege quam

pro se ipso in hac parte sequitur, che significa “colui che agisce tanto per il sovra-no quanto per se stesso”. L’azione qui tam risale almeno al XIV secolo.

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del governo. Come previsto dalle più moderne leggiformali sul whistle-blowing, anche il False Claims Actprotegge i whistle-blower dal licenziamento ingiusto.

Il False Claims Act non è stato ampiamente utilizzatofino a quando la vasta portata degli emendamenti del1986 non ne ha fatto un’arma interessante per combat-tere la frode in praticamente tutti i programmi gover-nativi legati ai fondi federali; in origine inteso comedeterrente alla presentazione di fatture fraudolente daparte dei fornitori del dipartimento della difesa, oggi ilFalse Claims Act copre infatti ogni settore industriale cheinteragisca con il governo federale e, a volte, regola per-sino le dispute ordinarie relative ai contratti commer-ciali. La legge prescrive il reintegro del whistle-blowernelle sue mansioni di lavoro con il riconoscimento del-l’anzianità di servizio, il pagamento raddoppiato deglistipendi arretrati, gli interessi sugli stipendi arretrati, ilrisarcimento per il trattamento discriminatorio subìto ele spese legali.

Altre leggi federali vietano ogni tipo di ritorsionecontro chi contribuisca a smascherare gli atti di corru-zione a livello governativo.12

Il Congresso statunitense ha introdotto un’ulterioreprotezione per i dipendenti pubblici nel 1989 con l’ap-provazione del Whistle-blower Protection Act (WPA), unalegge anti-ritorsione che proibisce al governo federaledi “vendicarsi” dei propri dipendenti qualora abbianodenunciato illeciti all’interno del settore pubblico e cheprevede una serie di strumenti di indennizzo. Dueorgani indipendenti di derivazione congressuale, l’Offi-ce of the Special Counsel e il Merit Systems ProtectionBoard, hanno l’incarico di far applicare il WPA. I dipen-denti possono ottenere protezione come “informatori”segnalando l’atto illecito a speciali consulenti legali,all’ispettore generale di un ente governativo, a un altro

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1122.. L’intimidazione e il licenziamento di numerosi whistle-blower a frontedi rivelazioni di diffusi sprechi e frodi negli appalti del settore della difesahanno portato il Congresso a rafforzare la posizione dei whistle-blower nel1989.

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dipendente pubblico designato da un superiore adaccogliere simili denunce, a qualsiasi altra persona fisi-ca o organizzazione.

In questo modo, i dipendenti di società che trattanocon il governo o che hanno incarichi governativi sonoincentivati a non tenere conto dei canali interni quali,per esempio, le funzioni di revisione interna, e a pre-sentare le loro segnalazioni di whistle-blower diretta-mente ai tribunali, perché le cosiddette azioni qui tampreviste dal False Claims Act federale consentono a unaqualunque persona fisica venuta a conoscenza di unafalsa pretesa di pagamento avanzata da chiunque neiconfronti del governo di presentare l’azione qui tamdirettamente in tribunale. Quando una simile azionegiudiziaria viene presentata ai giudici è il governo adassumersi la responsabilità di indagare l’accusa.

Se la causa intentata per frode va a buon fine, ilwhistle-blower ha diritto a ottenere una ricompensa dialmeno il 15 per cento del denaro complessivamenterecuperato: a volte, per frodi ingenti, può trattarsi addi-rittura di decine milioni di dollari e questo solo peravere richiamato l’attenzione del governo su una falsapretesa. L’onere di provare la falsità della pretesa spet-ta al governo: «il whistle-blower non deve fare altro chepromuovere l’azione giudiziaria qui tam».13

Dunque, se anche si fosse tentati di distinguere lapratica del whistle-blowing da quella dell’insider tra-ding sostenendo che le motivazioni per le quali il whist-le-blower agisce sono più “pure” di quelle dell’insidertrader, non è proprio così. Il punto non è quello di sta-bilire se gli insider trader siano particolarmente virtuo-si, ovviamente non lo sono. Il punto è che i whistle-blo-wer sono spesso motivati dal tornaconto finanziario delwhistle-blowing tanto quanto gli insider trader sonoincentivati dai profitti finanziari associati alla negozia-zione dei titoli. In perfetto accordo con questa conside-

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1133.. John Figg, “Whistle-blowing”, Internal Auditor, aprile 2000,http://www.findarticles.com/p/articles/mi_m4153/is_2_57/ai_63170650/pg_4,consultato 12 dicembre 2005.

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razione, le leggi federali che regolano il whistle-blo-wing nell’ambito della corruzione pubblica sono statestudiate proprio per fornire incentivi economici agli“informatori” e qualche whistle-blower ha senz’altroriccamente approfittato delle azioni qui tam. Nel soloesercizio finanziario 2005, per esempio, i whistle-blo-wer federali hanno ottenuto premi per un totale di 166milioni di dollari, contro i 108 milioni del 2004.14 In par-ticolare, le numerose transazioni governative a conclu-sione della miriade di indagini sulla presunta frodedella HealthSouth Corporation ai danni di Medicare edi altri programmi federali di assicurazione sanitariahanno fruttato al governo statunitense crediti per multepari a 327 milioni di dollari.15 Circa 76 milioni dell’am-montare totale sono stati recuperati grazie a quattroazioni qui tam e i cinque “informatori” hanno incassato12,6 milioni di dollari per il loro contributo fornito allavertenza giudiziaria contro HealthSouth.16 Più in gene-rale, l’importo di denaro recuperato con tutte le azionilegali qui tam e non, intentate grazie al False Claims Act

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1144.. U.S. Newswire, “Justice Department Recovers $1.4 Billion in Fraudand False Claims in Fiscal Year 2005; More Than $15 Billion since 1986”, 7novembre 2005, http://releases.usnewswire.com/GetRelease.asp?id=56318 (con-sultato 13 dicembre 2005); Dati statistici sul whistle-blowing del Diparti-mento di Giustizia americano, 1 ottobre 1986-30 settembre 2004,http://www.phillipsandcohen.com/CM/Whistle-blowerrewardsstories/D-OJ%20stats%20fy2004.pdf.

1155.. Gli Stati Uniti, in qualità di parte civile, contestarono a HealthSouth, ilprincipale fornitore di servizi medici riabilitativi a livello nazionale, il coin-volgimento in una serie di azioni intese a frodare il governo. Le numerosecause intentate da attori privati e agenzie governative portarono a transazioniper oltre 300 milioni di dollari. Con la prima, fissata a 170 milioni, si chiu-se la vertenza sulle presunte false richieste di fisioterapie per pazienti ambula-toriali, non sufficientemente giustificate da piani di assistenza certificati esomministrate da fisioterapisti convenzionati, o di terapie individuali, comedichiarato nella documentazione. La seconda, pari a 65 milioni di dollari,risolse l’accusa di frode contabile per eccessiva fatturazione a Medicare riguar-dante costi ospedalieri e rimborsi governativi. La terza transazione, del valoredi 92 milioni di dollari, risolse l’accusa di aver addebitato a Medicare unaserie di oneri non deducibili, quali spese di viaggio, intrattenimenti e orga-nizzazione per il meeting annuale degli amministratori di HealthSouth a Dis-ney World e voci similari.

1166.. Nel caso di azioni qui tam, il False Claims Act, FCA, permette alle partiprivate, chiamate “informatori”, di intentare cause nei confronti di appalta-tori governativi o terze parti, a nome proprio o del governo. In questi casi, la

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dal 1986 al 2004, si attesta sui 13,5 miliardi di dollari,mentre le ricompense pagate ai whistle-blower per leazioni legali qui tam da loro determinate nello stessoperiodo superano gli 1,4 miliardi.

Interesse personale e whistle-blowingAnche se i whistle-blower non ricorrono al whistle-

blowing per denaro, dietro al loro comportamento inapparenza altruistico si celano spesso altre motivazio-ni di interesse personale. I dipendenti scontenti sonoprobabilmente più inclini al whistle-blowing di altri ela voglia di rivalsa è una caratteristica comune a moltefigure di “informatori”. Non sembra dunque possibi-le distinguere whistle-blowing e insider trading inbase alle differenze nelle motivazioni che spingono iwhistle-blower e gli insider trader ad agire.17 Come hogià fatto notare più sopra, whistle-blower è chi siaccorge di un comportamento criminale e “mette inallerta” l’autorità competente. Nell’economia realeamericana una simile definizione evoca per sua natu-ra l’immagine di un cittadino consapevole, impegnatoa dare l’allarme contro i furti e le rapine in banca.18

Sherron Watkins: una figura paradigmatica di whistle-blo-wer?

Whistle-blower per antonomasia, Sherron Watkinsnon sembra adattarsi nemmeno lontanamente alla defi-nizione tradizionale di whistle-blower o all’immagine

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stessa legge dà al governo la facoltà di intervenire nella causa dell’informato-re, ma quest’ultimo può comunque procedere, anche in caso di rifiuto delgoverno a intervenire. Se l’informatore riesce a ottenere del denaro dal con-venuto, è autorizzato a trattenerne una parte a titolo di ricompensa, oltre allespese legali e agli costi sostenuti.

1177.. Nonostante il potenziale beneficio economico che potrebbe derivare daun’azione di whistle-blowing, è difficile affermare che sia questo il principalefattore di motivazione e non lo spirito di collaborazione. Nel caso di insidertrading, invece, la motivazione principale è spesso il profitto che si trae dal-l’informazione, mentre la denuncia di un comportamento irregolare è solo unaspetto secondario. In ogni caso, è alquanto semplicistico presumere che iwhistle-blower siano mossi da altruismo e caratterizzati da uno “spessoremorale” diverso rispetto agli insider trader.

1188.. Dan Ackman, “SherronWatkins Had Whistle, But Blew It”, Forbes, 14febbraio 2002, http://www.forbes.com/2002/02/14/0214watkins.html.

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di solito attribuita agli “informatori”.19 La donna redas-se un promemoria in cui esprimeva in modo chiaro leproprie preoccupazioni per alcuni «sospetti di scorret-tezze contabili» alla Enron. Ma consegnò quel docu-mento all’amministratore delegato della società, Ken-neth Lay, ora imputato penale in molti processi per truf-fa e insider trading collegati al crollo della Enron. Poi,confortata dalle vaghe rassicurazioni di Lay che si dice-va disposto a indagare sugli illeciti, non fece più nulla:il suo memorandum non venne reso pubblico se non seisettimane dopo la dichiarazione di bancarotta dellaEnron, non appena gli investigatori congressuali nefurono informati – dunque molto tempo dopo il collas-so della società e della rovinosa caduta del prezzo dellesue azioni.

Per comprendere il ruolo di “whistle-blower moti-vato da interessi personali” della Watkins è fondamen-tale comprendere gli obiettivi che la spinsero a scrive-re quella lettera. Si rende dunque necessaria un’analisidettagliata della lettera anonima che la Watkins inviòper posta elettronica a Lay. Le prime righe mettonosubito in chiaro lo scopo della Watkins di salvaguarda-re il proprio impiego e di proteggere i risparmi accan-tonati per il pensionamento; la lettera si apre con unadomanda: «Enron si è fatta un luogo rischioso in cuilavorare? Chi tra noi non si è arricchito negli ultimianni può ancora permettersi di restare qui?».20 Lontanadal “lanciare allerte”, la lettera suggerisce alla società ipossibili modi per sbrogliare i propri problemi senzabisogno di informare gli investitori o gli organi di con-trollo delle pesanti scorrettezze in atto all’interno del-l’impresa. Poi continua: «Temo fortemente che implo-deremo in un’onda di scandali contabili. I miei ottoanni di carriera alla Enron non varranno più nulla per

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1199.. Oltre a essere stata proclamata “donna dell’anno” nel 2002 dalla rivistaTime, la Watkins «è stata talmente tanto acclamata come whistle-blower chel’appellativo è praticamente diventato parte integrante del suo nome». DanAckman, “Sherron Watkins Had Whistle, But Blew It”.

2200.. “Federal Energy Regulatory Commission Release of E-mails”,http://www.itmweb.com/f012002.htm.

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il mio curriculum e il mondo degli affari valuterà i mieisuccessi in azienda solo come un’elaborata montaturacontabile».21

La Watkins si identifica chiaramente sia con il grup-po direttivo che ha creato lo scandalo sia con gli inve-stitori della Enron, devastati dal crollo della società; seda un lato esprime le proprie ansie sul fatto che i dipen-denti insoddisfatti e a conoscenza delle pratiche conta-bili improprie possano cercare un modo di rivalersisulla società smascherandone la frode, dall’altro osser-va che molti azionisti «hanno acquistato [le azioni ordi-narie della Enron] a 70 e a 80 dollari l’una aspettandosivalori di 120 dollari, mentre ora si ritrovano con azioniche valgono 38 dollari o meno». La Watkins fa inoltrenotare come lei e altri impiegati vengano «sottoposti aun esame troppo attento» e come «[vi siano] con buoneprobabilità, uno o due dipendenti riallocati e malcon-tenti che ne sanno abbastanza delle nostre “strane” pra-tiche contabili per metterci nei guai».22

La lettera mostra perfettamente come la Watkins sirendesse conto di quanto la società fosse coinvolta inun raggiro contabile e di come i bilanci non mostrasse-ro le vere condizioni della società né agli azionisti néagli enti di regolamentazione. Infatti commenta:«abbiamo avuto attorno persone intelligenti e capaciche ci sono state a guardare e molti professionisti, com-presi quelli di AA&Co., che hanno avallato la nostracontabilità. Nessuno di loro proteggerà Enron se ungiorno quelle transazioni verranno scoperte e portatealla luce del giorno».23

Queste frasi provano l’interesse personale della Wat-kins ma ammettono anche l’esistenza di importantiquestioni contabili tenute nascoste. Piuttosto che svela-re tali problemi la donna propone di risolverli in segre-to utilizzando un’analogia: «rapinare una banca l’anno

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2211.. “Federal Energy Regulatory Commission Release of E-mails”.2222.. “Federal Energy Regulatory Commission Release of E-mails”,

http://www.itmweb.com/f012002.htm.2233.. “Federal Energy Regulatory Commission Release of E-mails”.

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prima e cercare di ripagarla [restituendo il denaro] dueanni dopo». In altre parole la lettera della Watkins sem-bra essere soprattutto ispirata dal tentativo della donnadi prendere personalmente le distanze dalla truffa rifiu-tandosi di informare le autorità nella speranza che l’in-tero “pasticcio” riuscisse in un modo o nell’altro a sgon-fiarsi e la vita a ritornare normale.

Agendo in modo coerente con il modello di compor-tamento razionale dettato dall’interesse personale, laWatkins cerca di quantificare i rischi e i vantaggi di con-tinuare a tenere nascosta la frode in atto, stimando leprobabilità di essere smascherati. Suggerisce che se «laprobabilità di essere scoperti è bassa e il danno stimatoalto, dovremmo trovare una via per tornare silenziosa-mente e velocemente sui nostri passi, sbrogliare lamatassa e svalutare tali posizioni/transazioni».24 Percontro, se «la probabilità di essere scoperti è elevata e idanni stimati per la società oltremodo gravi» la Watkinsinvita a «quantificare il danno e a sviluppare dei piani dicontenimento e di informazione».25 La sua preoccupa-zione più grande è dunque quella di essere smascherati;la Watkins ha paura perché «troppe persone stanno cer-cando una prova inconfutabile»26 ed è perfettamenteconsapevole che la Enron è «una società disonesta».27

Analisi del modo di agire di Sherron WatkinsL’intento non è quello di denigrare Sherron Watkins.

Il dettagliato riesame del suo whistle-blowing ha piut-tosto lo scopo di enfatizzare che lei non fece nulla persvelare le irregolarità finanziarie in atto, né la frode con-tabile. È persino dubbio se sia lecito considerare la Wat-kins una vera whistle-blower. Come ho già avuto mododi osservare più sopra, riferire di una truffa alle stessepersone coinvolte nel comportamento illecito non puòpropriamente configurarsi come whistle-blowing; e

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2244.. “Federal Energy Regulatory Commission Release of E-mails”.2255.. “Federal Energy Regulatory Commission Release of E-mails”.2266.. “Federal Energy Regulatory Commission Release of E-mails”.2277.. “Federal Energy Regulatory Commission Release of E-mails”.

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anche se potessimo pensare alla Watkins come a un“informatore”, allora sarebbe un informatore che hafatto fiasco.

Ben più importante – a prescindere se le azioni dellaWatkins possano essere tecnicamente consideratewhistle-blowing o meno – è l’impossibilità di presenta-re le sue motivazioni come più altruistiche o più atten-te agli interessi degli altri rispetto a quelle di un insidertrader. Esiste naturalmente una serie di ragioni per ilprocedere della Watkins, tra cui l’istinto di conservazio-ne, la paura per i propri risparmi, la tutela della suareputazione professionale e l’investimento umano con-centrato a lungo nella società Enron.

La complessità delle motivazioni che hanno mossoSherron Watkins è probabilmente piuttosto normalema, qualunque siano le distinzioni che si possono faretra un whistle-blower e un insider trader, è impossibilediscernere le due pratiche in base alle motivazioni. Poi-ché le due attività non si possono distinguere l’una dal-l’altra né in relazione alle motivazioni, né in relazionealle conseguenze, non resta che chiedersi perché, d’in-tuito, si tenda a considerare tanto desiderabile il whist-le-blowing e tanto deprecabile l’insider trading, quan-do poggia sul medesimo tipo di informazione delwhistle-blowing.28

Nella maggior parte dei casi (ma non sempre), ilwhistle-blowing è ben tollerato. Esiste tuttavia un’ecce-zione alla regola generale di favore nei confronti delwhistle-blowing, cioè quando l’“informatore” rivelainformazioni riservate sulle quali ha invece il giustifica-to obbligo legale di tacere. Ma questo è, come spieghe-rò più avanti, il preciso contesto in cui anche l’insider

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2288.. Nonostante l’aumentata popolarità degli ultimi tempi, i whistle-blowere il whistle-blowing devono ancora affrontare problemi di immagine non deltutto diversi da quelli che investono le persone accusate di insider trading. Peresempio, Jesselyn Radack, whistle-blower ed ex consulente legale del Profes-sional Responsibility Advisory Office del Dipartimento di Giustizia, ha resonoto di essere stata chiamata “traditrice”, “voltagabbana” e “simpatizzante delterrorismo”. Questo solo per aver fatto presente alla divisione criminale del-l’FBI che interrogare il “talebano americano” John Walker Lindh in assenza

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trading è considerato illegale. L’insider trading dovreb-be essere proibito solo nei casi in cui anche il whistle-blowing è vietato e dunque laddove il potenziale spe-culatore abbia un giustificato obbligo legale a mantene-re l’informazione confidenziale e astenersi dall’utiliz-zarla in qualsiasi modo.

Però, mentre il sistema giuridico vessa ostentata-mente gli insider trader, la legge protegge i whistle-blo-wer dalle ritorsioni messe in atto nei loro confronti daidatori di lavoro dichiarando illegale per ogni societàquotata «licenziare, degradare, sospendere, minacciare,perseguitare, o discriminare in altro modo il dipenden-te» per aver divulgato legalmente informazioni su unafrode sospetta.29

II. L’insider trading come il whistle-blowingL’insider trading comporta l’acquisto o la vendita

di valori mobiliari (o di prodotti derivati quali opzio-ni di vendita, opzioni di acquisto oppure contratti atermine) sulla base di informazioni determinanti eriservate.30 In questo capitolo limiterò la mia analisi

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del suo avvocato sarebbe stato scorretto dal punto di vista etico. L’FBI igno-rò il consiglio e interrogò Lindh senza concedergli il diritto a un avvocato. Jes-selyn Radack riferì in seguito che numerose e-mail da lei spedite per spiegarela sua posizione legale erano state distrutte dopo che il giudice incaricato delprocesso Lindh ordinò di presentare questi documenti alla corte. È a quelpunto che la Radack decise di diventare un whistle-blower, rivelando l’esi-stenza delle e-mail distrutte a Newsweek, convinta che ciò fosse permesso etutelato dal Whistle-blower Protection Act. Nel commentare la vicenda, Jes-selyn Radack osserva che «i whistle-blower vengono spesso tacciati di essereimpiegati frustrati, “piantagrane” e spie, mentre l’impiegato coscienziosoviene descritto come vendicativo, instabile o desideroso di attirare l’attenzio-ne». Jesselyn Radack, “Whistle-blowing: My Story”, The Nation, 4 luglio2005, pubblicato il 16 giugno 2005, http://www.thenation.com/doc-prem.mhtml?i=20050704&s=radack, consultato 12 dicembre 2005.

2299.. Vedi Daniel P. Westman - Nancy M. Modesitt, Whistle-blowing: TheLaw of Retaliatory Discharge, seconda edizione, New York, BNA Books, 2004.

3300.. È anche possibile negoziare azioni in società concorrenti sulla base delleinformazioni raccolte nella propria azienda. Per esempio, quando un dipen-dente viene a conoscenza di informazioni positive o negative sull’andamentodella società per cui lavora, potrebbe vendere o acquistare azioni di un con-corrente, soprattutto nei mercati con alti livelli di concentrazione e barriereall’ingresso. Vedi Ian Ayres - Joseph Bankman, “Substitutes for Insider Tra-ding”, Stanford Law Review, 54, 2001, pp. 235-294.

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dell’insider trading al contesto ristretto di una situa-zione in cui ricorre l’insider trading ma potrebbe ricor-rere anche il whistle-blowing.31

In questo contesto specifico l’insider trading simanifesta quando il potenziale whistle-blower ha otte-nuto informazioni negative su una società. Al posto dilanciare l’allerta, comportamento tipico del whistle-blo-wer, l’insider trader vende allo scoperto azioni dellasocietà, vende contratti a termine sulle singole azioni,acquista opzioni di vendita o vende opzioni di acqui-sto, tutte strategie che permettono a chi negozia di trar-re profitto in caso di un calo dei corsi azionari.

Se l’insider trading è innescato da informazioni cheriguardano una frode aziendale, esso porta necessaria-mente allo smascheramento della frode: per l’insidertrader, infatti, non sarebbe redditizio limitarsi a vende-re (o a vendere allo scoperto) azioni di una società coin-volta in una frode senza rivelare l’informazione sotto-stante o senza causarne la diffusione. Se da un latopotrebbe sembrare che la vendita, non accompagnatadalla divulgazione della notizia, sia di per sé una stra-tegia vincente e proficua per l’insider trader perchéabbatte il prezzo del titolo trattato, di fatto essa non loè.32 In un mercato dei capitali efficiente33 le transazioniin attività finanziarie (siano esse di acquisto o di vendi-ta) non influenzeranno mai i valori sottostanti di quelle

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3311. Per una esaustiva difesa dell’insider trading come meccanismo efficien-te per remunerare il management, vedi Henry G. Manne, Insider Trading andthe Stock Market, New York, The Free Press, 1966.

3322.. Daniel R. Fischel - David J. Ross, “Should the Law Prohibit ‘Manipu-lation’ in Financial Markets”, Harvard Law Review, 105, 1991, p. 503.

3333.. L’affermazione che il mercato dei capitali è efficiente è stata formalizzatanella nota Efficient Capital Markets Hypothesis, ECMH. Per un dibattito sullaECMH, che presuppone che un mercato sia efficiente se i prezzi dei titoli ivinegoziati riflettono tutte le informazioni disponibili significative ai fini dellaformazione del prezzo, vedi Jonathan R. Macey, An Introduction to ModernFinancial Theory, Los Angeles, American College of Trust and Estate CounselFoundation, 1998. Vedi anche Burton Gordon Malkiel, A Random Walk downWall Street: The Time-Tested Strategy for Successful Investing, ottava edizione,New York, Norton, 2004; Burton Malkiel, “The Efficient Markets Hypothesisand Its Critics”, Journal of Economic Perspectives, 17, 2003, pp. 59-82.

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attività a meno che tali transazioni non lascino trapela-re l’informazione che le ha generate. Le quotazioni deititoli mobiliari o delle altre attività finanziarie rispec-chiano tutte le informazioni pubbliche disponibili erilevanti per il prezzo di ogni singolo titolo. Di conse-guenza, per far muovere i prezzi dei valori mobiliarinon basta la sola negoziazione dei titoli ma ci voglionoinformazioni nuove.34

Le operazioni di compravendita dei titoli non sup-portate da un contenuto informativo convincente nonsortiranno effetti di lunga durata sul corso azionario:chi dall’interno della società desideri dunque approfit-tare di un’informazione negativa riservata non potràlimitarsi a vendere le azioni per trarre un vantaggioeconomico, ma dovrà rendere pubblica l’informazionein suo possesso per fare scendere i prezzi. Come ilwhistle-blowing, anche l’insider trading che poggia suun’informazione da whistle-blower dovrà necessaria-mente rendere pubblica l’informazione sulla frode; sel’informazione non risulta attendibile i prezzi non siadegueranno e lo speculatore dovrà pagare i costi del-l’operazione associati al suo investimento. Costi chepotrebbero rivelarsi anche sostanziali se egli avessevenduto allo scoperto o avesse liquidato le proprie par-tecipazioni correnti.35 Questa è la ragione per cui, pro-babilmente, la vendita allo scoperto è in grado di dareal mercato un segnale molto più credibile e forte rispet-to al whistle-blowing perché parlare, come si fa nelwhistle-blowing, non costa nulla, mentre le operazionidi vendita allo scoperto costerebbero parecchio all’insi-der trader qualora le informazioni in suo possesso sullasocietà sottostante fossero infondate.

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3344.. Di per sé, la semplice negoziazione non è in grado di influenzare i prez-zi delle azioni; ciò accade solo quando rivela nuove informazioni sugli utiliper gli investitori riferiti ai valori sottostanti.

3355.. La vendita allo scoperto è così costosa che sono pochissimi i titoli a esse-re negoziati in questo modo. Vedi Robert Shiller, “From Efficient Markets toBehavioral Finance”, Journal of Economic Perspectives, 17, 2003, pp. 83-104,in particolare p. 101.

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Le operazioni di vendita allo scoperto possono costi-tuire un meccanismo di incentivazione perverso per glialti dirigenti d’impresa, che potrebbero sentirsi propen-si a danneggiare la società in cui lavorano esclusiva-mente per trarre un profitto personale dal conseguentedeclino del valore delle azioni societarie. Ma questimeccanismi perversi di incentivazione non pongonoalcun problema nei casi in cui l’insider trading è prati-cato dai dipendenti senza alcun potere sulle decisionistrategiche dell’impresa, o perché non fanno più partedell’azienda o perché hanno una funzione di bassolivello che non richiede decisioni strategiche. Sarebbedunque opportuno che le norme consentissero, a deter-minate condizioni, al personale di basso rango internoall’azienda, quale per esempio gli addetti ai compitiesecutivi di scarsa importanza, di negoziare azioni sullabase di informazioni importanti e riservate.

Come per il whistle-blowing, anche per l’insider tra-ding è necessario che la persona coinvolta nell’azionesia legata alla società; si ha infatti responsabilità legaleper insider trading se si dimostra l’esistenza preceden-te di una relazione di fiducia tra la società e il presuntoinsider trader, che quest’ultimo ha violato negoziandole azioni della società.36 Anche la figura del whistle-blo-wer presuppone un tipo di rapporto simile. Va da sé,inoltre, che sia il whistle-blower sia l’insider trader deb-bano disporre di informazioni non ancora di pubblicodominio ma di interesse per altri.

Tirando le fila, vediamo che whistle-blower e insidertrader condividono le stesse significative caratteristicheidentificative: (a) sono intermediari dell’informazione,(b) dispongono di informazioni non di dominio pubbli-co o non ancora scontate nel prezzo delle azioni e (c)hanno un rapporto di natura contrattuale o quasi-con-trattuale preesistente con la loro fonte d’informazione.37

Da un punto di vista puramente descrittivo, l’unica dif-

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3366.. Vedi Chiarella v. United States, 445 U.S. 222, 1980; Dirks v. SEC, 463U.S. 646, 1983; United States v. O’Hagen, 521 U.S. 642, 1997.

3377.. Vedi Tabella 12.1.

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ferenza importante tra insider trader e whistle-blowerriguarda il modo in cui l’informazione di cui è in pos-sesso viene utilizzata dall’insider trader per la compra-vendita delle azioni e dal whistle-blower per lanciareun allarme. La distinzione può apparire grande ma, seanalizzata in modo realistico, si tratta di una differenzadi scarso, se non addirittura di nessun, significatomorale. E, come avremo modo di vedere più avanti,non è nemmeno chiaro se queste due pratiche possanoessere distinte in base al loro impatto economico suterze parti.

Il caso Dirks v. SECUno studio sul rapporto tra whistle-blowing e insi-

der trading deve necessariamente prendere spuntodalla causa Dirks v. SEC,38 un caso interessante per duemotivi. Primo: il caso illustra i tentativi di un whistle-blower mancato. Ronald Secrist, il dipendente dellaEquity Funding Corporation of America che fece la sof-fiata sulla truffa in atto nella sua società a RaymondDirks – poi imputato di insider trading – ricorse a Dirkssolo perché le sue manovre di whistle-blower non ave-vano avuto successo. Secondo: la causa Dirks v. SEC èinteressante perché suggerisce che probabilmentewhistle-blower e insider trader sono mossi da motiva-zioni simili: che sia vendetta, ricerca del profitto o qua-lunque altra complessa combinazione di ragioni, nonsembra comunque rilavante ai fini della nostra analisisulla desiderabilità sociale di questi tipi di comporta-mento.

Nella causa Dirks v. SEC, la Corte Suprema prese inesame le responsabilità di insider trader di RaymondDirks, che aveva ottenuto informazioni importanti eriservate da un dipendente scontento della Equity Fun-ding, società interessata da una frode interna su largascala. Dirks passò l’informazione ai propri clienti, ungruppo di investitori istituzionali, che a loro volta nego-ziarono i titoli della società beneficiando dell’informa-

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3388.. Dirks v. SEC, 463 U.S. 646.

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zione ricevuta prima che la truffa divenisse di pubblicodominio.

Un breve resoconto dei fatti ci aiuterà nell’analisi: il6 marzo 1973 Raymond Dirks, un analista finanziariodella banca d’affari Hawkins Delafield, ricevette unasoffiata da Ronald Secrist, un ex funzionario insoddi-sfatto della Equity Funding. Secrist sosteneva che l’atti-vo di bilancio della Equity Funding, una società ampia-mente diversificata ma soprattutto impegnata nellavendita di assicurazioni sulla vita e di fondi di investi-mento, fosse molto sopravvalutato in seguito a unaserie di pratiche finanziarie illecite svolte in modo mas-siccio e continuativo all’interno dell’azienda. Secristcomunicò inoltre a Dirks di avere tentato più volte,insieme con altri colleghi, di portare tali informazioniriservate all’attenzione dei diversi enti di regolamenta-zione, compresa la SEC, il commissario per le attivitàmobiliari dello Stato della California, nonché il com-missario per le attività mobiliari dello Stato dell’Illinois.Nessuno di questi enti aveva dato seguito alle accuse.Secrist esortò Dirks a verificare l’esistenza della frode ea renderla pubblica, ma non tentò in alcun modo diricattare la Equity Funding.

Durante il dibattimento verbale davanti alla CorteSuprema, la SEC prese posizione affermando che l’ob-bligo di informazione in capo a Dirks non sarebbe statoassolto portando l’informazione a conoscenza dellaSEC.39 Nella relazione presentata alla Corte, la SECassunse un atteggiamento incoerente invocando unanorma “garantista” in virtù della quale un investitorepotesse adempiere all’obbligo di informazione comuni-cando l’informazione riservata all’agenzia federale easpettando poi che decorresse un periodo di tempo pre-stabilito prima di negoziare i titoli.40 Comunque, vistoche tale legge garantista non era ancora in atto, comefece notare la stessa Corte, alle «persone come Dirks

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3399.. Dirks v. SEC, 463 U.S. 646, Trascrizione della deposizione n. 27, p.661, nota 21.

4400.. Dirks v. SEC, 463 U.S. 646, Sunto per il convenuto, pp. 43-44.

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non era lasciata altra scelta se non quella di astenersidal negoziare i titoli».41

La proibizione dell’insider trading nel caso Dirks sirivelò infelice: se le restrizioni di legge sull’insider tra-ding fossero riuscite a scoraggiare Raymond Dirks dal-l’agire sulla base delle informazioni confidenziali otte-nute da Ronald Secrist, la frode su vasta scala dellasocietà si sarebbe protratta. Va da sé che vietare l’insi-der trading sarebbe stato inefficiente in queste circo-stanze; ecco perché la Corte Suprema respinse la tesilegale della SEC e cancellò tutte le sanzioni a carico diRaymond Dirks richieste dall’agenzia federale.

Insegnamenti utili del caso DirksIl caso Dirks illustra come l’insider trading abbia

almeno un chiaro vantaggio nei confronti del whistle-blowing: esso fornisce un segnale decisamente più cre-dibile sulla veridicità dell’informazione. Parlare noncosta nulla e, se come spesso accade, il whistle-blowerè un dipendente scontento, le persone sono poco pro-pense a credere alla sua storia. Lo sono ancora meno sel’informazione negativa riguarda aziende come laEquity Funding o la Enron, società con grandi risorsealle spalle, in grado di reagire pesantemente alle accu-se dei whistle-blower. Nel caso Dirks (e non vi è ragio-ne per desumere che lo stesso non valga per altri casi)l’insider trading funzionò laddove il whistle-blowingaveva fallito.

La costellazione di fatti che condusse al processoDirks dimostra come la pratica dell’insider trading suinformazioni negative riguardanti una società abbiaalcuni vantaggi fondamentali rispetto al whistle-blo-wing. L’insider trading, per esempio, non richiede chela persona a conoscenza dell’illecito debba convincereun funzionario pubblico ad agire affinché tale violazio-ne venga esaminata in sede di giudizio; l’insider traderdeve solo convincere se stesso della correttezza dellapropria valutazione. Quindi, logicamente, praticare

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4411.. Dirks v. SEC, 463 U.S. 680.

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l’insider trading su informazioni da whistle-blowerrisolve il problema della credibilità dell’informatore,tipico invece del whistle-blowing.

È vero che nell’importante sottoinsieme di casi dicorruzione a livello governativo i whistle-blower pos-sono agire da soli intentando un’azione legale qui tam.Ma le cause costano tempo e denaro e i querelantidelle azioni qui tam devono affrontare i mille ostacoliburocratici delle procedure processuali, difficoltà cheal contrario non incombono su chi si limita a negozia-re i titoli in Borsa.42 Così, almeno in alcuni casi, rispet-to al whistle-blowing l’insider trading ha il vantaggiodi raggiungere un risultato positivo più veloce e sicu-ro per l’insider trader in possesso di un’informazioneda whistle-blower. Diversamente da quanto accade aiwhistle-blower, inoltre, gli insider trader non devonofare affidamento sulla competenza dei funzionarigovernativi, spesso scarsamente motivati o privi diattitudini e di preparazione per mettere a frutto l’in-formazione acquisita. Al contrario dei whistle-blower,infine, gli insider trader non devono attendere, a volteanche anni, prima che il processo si concluda con unail riconoscimento di un diritto o una transazione.

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4422.. Ai sensi del False Claims Act, per prima cosa il whistle-blower intentauna causa nei confronti di un individuo o una società accusati di frodare ilgoverno. Copie della citazione in giudizio devono essere depositate anchepresso il Dipartimento di Giustizia, insieme a un resoconto scritto di tutte leprove concrete e le informazioni possedute dal whistle-blower, in modo che ilgoverno federale possa investigare prima di decidere se intervenire. Anche sela legge concede al Dipartimento di Giustizia sessanta giorni per decidere inordine all’intervento, il termine è prorogabile e di fatto è spesso prorogato surichiesta del governo stesso al tribunale a cui la causa è stata intentata. Se ilgoverno decide di non intervenire, il whistle-blower può continuare l’azionelegale in autonomia. Se invece il governo decide di prendere parte all’azione,il whistle-blower riceverà una percentuale leggermente inferiore sui fondieventualmente recuperati. Se il governo interviene, il whistle-blower avràdiritto al 15-25 per cento del risarcimento ottenuto per vie legali o dell’even-tuale transazione, oltre al rimborso delle spese sostenute e alle spese legali. Seil governo non interviene, il whistle-blower ha diritto al 25-30 per cento dellatransazione, oltre al rimborso delle spese sostenute e alle spese legali.

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III. Insider trading e whistle-blowing: l’accoppiata èla regola?

Il caso Dirks v. SEC ha implicato l’utilizzo simulta-neo di whistle-blowing e di insider trading (su soffiata)con esito assolutamente efficace, dove per efficacia siintende lo smascheramento della frode. L’ipotesi cheinsider trading e whistle-blowing siano strettamentecollegati tra loro viene rafforzata dal grado di simulta-neità con il quale essi si riscontrano. Insider trading ewhistle-blowing poggiano entrambi sul possesso diinformazioni essenziali e riservate, ed entrambi rientra-no nell’interesse personale razionale di chi li mette inatto. Dunque non dovrebbe stupire vederli esercitareinsieme nei casi come Dirks.

Per esempio, Sherron Watkins, «la vicepresidenteche lanciò l’allerta nei confronti di Enron e che vennedescritta come una sorta di cavaliere senza macchia traun branco di ciarlatani egoisti», partecipò alla negozia-zione dei titoli societari sulla base delle informazionicontenute nel suo memorandum tanto da essere consi-derata «a rischio d’imputazione per avere violato leleggi sull’insider trading».43 Durante la sua deposizionecongressuale sul ruolo da lei svolto nello smascherarela frode finanziaria e contabile della Enron, la Watkinsammise di avere venduto un cospicuo pacchetto azio-nario per limitare le imminenti perdite che avrebbe sub-ìto con il crollo dei prezzi delle azioni di sua proprietà,poco dopo avere allertato l’amministratore delegato

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4433.. Al processo penale contro Ken Lay, Sherron Watkins testimoniò che traagosto e ottobre 2001 aveva venduto titoli di Enron per un valore di 47.000dollari, sulla base di quelle che lei stessa definì informazioni riservate. Secon-do un commentatore, «era abbastanza strano che Watkins negoziasse titoliEnron per 47.000 dollari con un’azione di insider trading dopo aver conse-gnato il suo promemoria a Lay e prima dell’annuncio dell’accusa alla società.Nonostante nel 2002 la Watkins abbia sottoscritto in un contratto di lavorocon Enron e giurato davanti a una commissione del Congresso di non esseremai stata coinvolta in azioni di insider trading illegali mentre era alle dipen-denze di Enron, ieri ha ammesso che le negoziazioni non erano “corrette” per-ché “avevo più informazioni degli altri operatori del mercato”». Tom Kirken-dall, “The Insufferable Sherron Watkins”, 16 marzo 2006,http://blog.kir.com/archives/002963.asp, consultato 22 febbraio 2008.

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Kenneth Lay di Enron sul fatto che la società stesse per«implodere in un’ondata di scandali contabili». La ven-dita contravveniva alla vigente interpretazione dellaRule 10b-5 della SEC, norma che vieta l’insider tradingrendendo illegale la compravendita di azioni «mentre siè in possesso di un’informazione importante e riserva-ta sui titoli azionari negoziati», laddove negoziando sivioli un obbligo fiduciario preesistente di mantenereconfidenziale l’informazione in questione.

Ovviamente non è possibile acquisire dati certi sullafrequenza dell’insider trading quando viene messo inatto da persone che hanno avuto informazioni dawhistle-blower anche perché chi negozia titoli societarisfruttando informazioni determinanti e riservate nonrichiama l’attenzione sulle proprie transazioni. Comun-que, la mancata incriminazione della Watkins ai sensidelle leggi che probiscono l’insider trading non è senzaprecedenti.

Oltre ai casi citati della Watkins e di Dirks, la classicadinamica insider trading/whistle-blower (e persino l’ac-cusa di ricatto) si ripresenta anche nel caso di Ted Beattydella Dynegy, un’altra società produttrice di energia elet-trica di Houston. Beatty, deluso dalla Dynegy a causa diuna mancata promozione, si dimise dalla società portan-do con sé una serie di documenti comprovanti pratichecontabili discutibili attuate dalla società in una trans-azione nota come Project Alpha. L’informazione rivelatada Beatty scatenò le dimissioni pressoché immediate dialcuni dirigenti di alto livello della Dynegy, condusse aindagini a tappeto su truffe nella fornitura dell’energiaelettrica e si concluse con una causa legale della SEC neiconfronti della Dynegy con l’imputazione di frode mobi-liare. Alla fine, la Dynegy dovette assistere al tracollocompleto del proprio capitale azionario e accondiscese alpagamento di una sanzione civile di un milione di dolla-ri alla SEC, alienando tutte le sue attività principali persopravvivere.

Analogamente a come aveva fatto Ronald Secrist nelcaso Dirks, Beatty girò l’informazione riservata sullaDynegy a un altro analista finanziario, Jack Pitts, del

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fondo d’investimento newyorkese Steadfast Capital. Ilfondo Steadfast, come aveva fatto la società HawkinsDelafield di Raymond Dirks, vendette allo scoperto leazioni della Dynegy. Poco prima di vendere, Pitts scris-se un messaggio di posta elettronica a Beatty, che gliaveva fornito l’informazione, osservando: «La minimaavvisaglia di una tenuta contabile equivoca allaDynegy farebbe impazzire di paura gli investitori e pre-cipiterebbe le azioni nel baratro».44 Ancora una voltal’accoppiata whistle-blowing/insider trading portò allarilevazione di una frode.

IV. Credibilità, successi e affidabilità degli altri: mec-canismi di corporate governance

Il caso Dirks e la vicenda Beatty illustrano entrambi ilparallelismo esistente tra insider trading e whistle-blo-wing, quando l’informazione utilizzata si riferisce auna frode o a un altro atto illecito d’impresa. Sia l’insi-der trading sia il whistle-blowing possono servire persmascherare una truffa. In entrambi i casi sembra peròche l’insider trading abbia avuto più successo delwhistle-blowing nel portare alla luce l’irregolarità inazienda. Data la complessità delle motivazioni deiwhistle-blower, la loro impossibilità di dimostrare inmodo credibile la veridicità dell’informazione acquisitae la necessità di una mediazione burocratica nonché diun’indagine sulla notizia denunciata, non ci si deve stu-pire che il whistle-blowing sia spesso inconcludente.

Un’altra importante distinzione tra whistle-blowinge insider trading fa riferimento al modo di interagirecon altri cosiddetti gatekeepers delle informazioniimportanti in azienda e con altre istituzioni di corpora-te governance, in particolare gli analisti di settore diWall Street e la SEC. Il whistle-blowing, per essere effi-cace, richiede che altre istituzioni di corporate gover-nance operino a loro volta in modo efficace: il whistle-

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4444.. Jathon Sapsford - Paul Beckett, “Whistle-blower Reels from Actions’Fallout”, Wall Street Journal, http://www.careerjournal.com/myc/survi-ve/20021217-sapsford.html, consultato 15 febbraio 2007.

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blowing, infatti, non si concretizza unilateralmente. Alcontrario degli insider trader, i whistle-blower devonoprima di tutto convincere gli enti di regolamentazione,gli analisti finanziari o gli altri intermediari di corpora-te governance della validità delle loro dichiarazioni,affinché le loro azioni possano trovare un seguito. Diconseguenza l’efficacia del whistle-blowing dipende ingran parte dall’integrità e dal valore di queste altre isti-tuzioni. Alla luce dell’inaffidabilità endemica di similiistituzioni di corporate governance, però, la necessità diappoggiarsi a questi enti costituisce uno svantaggioserio per il whistle-blowing rispetto all’insider trading.Ancora una volta il caso Dirks è illuminante.

Il fallimento dei meccanismi esterni di corporate governanceGli analisti del mercato azionario nutrivano aspetta-

tive alquanto rialziste nei confronti della Equity Fun-ding, la società che Ronald Secrist stava tentando disegnalare per frode. Poco prima del tracollo dellaEquity Funding, un analista della società di colloca-mento Cowen & Co. pubblicò una relazione in cui con-sigliava agli investitori «con elevata propensione alrischio» di acquistare Equity Funding.45 Un analistadella Burnham & Co., Inc. riteneva che la Equity Fun-ding avesse «un valore eccellente» e classificò la societàcome «un titolo da acquistare».46

Gli analisti non solo espressero giudizi positivi sullaEquity Funding, ma dettero vita persino ad alcune ini-ziative concrete per difendere il titolo azionario dai ten-tativi di whistle-blowing di Secrist. Il 26 marzo 1973, ungiorno prima che la Borsa valori di New York sospen-desse i titoli della Equity Funding dalla contrattazione,l’analista della Hayden, Stone, Inc., responsabile dellacopertura della società, fece circolare una breve notainterna in cui annunciava che «alcuni pettegolezzi ave-

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4455.. Brian Trumbore, “Ray Dirks and the Equity Funding Scandal”, disponi-bile su http://www.buyandhold.com/bh/en/education/history/2004/ray_dirks.html,consultato 22 febbraio 2008.

4466.. Brian Trumbore, “Ray Dirks and the Equity Funding Scandal”.

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vano compromesso le azioni della Equity Funding».L’analista spiegava che l’accreditata banca d’affarioggetto della sua analisi aveva «controllato quelle vocie che nessuna di esse sembrava essere fondata».47 Risul-tò poi che l’analista aveva parlato con gli enti di regola-mentazione assicurativi dei vari Stati venendo a sapereche nessuno di loro aveva intenzione di indagare sulleaccuse di Secrist.48 Anche la SEC si dimostrò restìa ainvestigare sulla Equity Funding fino a quando gliinvestitori, allertati da Secrist, non iniziarono a nego-ziare i titoli della società sulla base delle informazionida lui ottenute. Nella sua deposizione Secrist spiegòcome i dipendenti della Equity Funding che avevanotentato di notificare gli illeciti della società alla SEC«furono ignorati e la loro storia etichettata come ridico-la». Peggio ancora, la notizia della loro delazione erastata in alcuni casi riportata e fatta trapelare in aziendamettendo quei dipendenti «in posizione critica peressersi rivolti alla SEC».49

I tentativi di Dirks di segnalare la frode ai revisoricontabili esterni della Equity Funding si dimostraronoparimenti inefficaci. Nel corso delle sue ricerche sugliilleciti alla Equity Funding, Dirks volle infatti incon-trarsi con i revisori esterni della società «con l’intento difare parola della frode e porvi fine».50 Quando poi Dirksvenne a sapere che i revisori esterni della Equity Fun-ding stavano per pubblicare i bilanci certificati dellasocietà, si mise di nuovo in contatto con loro informan-doli chiaramente delle accuse di frode nella speranzache essi potessero trattenersi dal pubblicare la loro rela-zione e tentare una sospensione della negoziazione deititoli societari in Borsa. Invece i revisori si limitarono ariferire le esternazioni di Dirks al management dellasocietà.51

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4477.. Brian Trumbore, “Ray Dirks and the Equity Funding Scandal”.4488.. Brian Trumbore, “Ray Dirks and the Equity Funding Scandal”.4499.. Dirks v. SEC, 463 U.S. 646.5500.. Dirks v. SEC, 463 U.S. 646.5511.. Dirks v. SEC, 463 U.S. 646.

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Malgrado i whistle-blower si fossero messi in con-tatto con la SEC e con gli alti funzionari assicuratividello Stato già nel 1971, il presidente della Equity Fun-ding – uno dei principali artefici della frode – asserì,nella sua deposizione in tribunale, che prima del marzo1973, quando l’insider trading messo in atto da Secristfece crollare il prezzo delle azioni della società, «non glierano mai state fatte domande da parte dei revisori odelle autorità di controllo federali o di Stato che potes-sero far supporre un sospetto di frode presso la EquityFunding».52

Il fallimento della stampa generalista nel compito di denunciaSpesso, i giornalisti non sono più efficaci degli enti

di regolamentazione nell’agevolare i tentativi deiwhistle-blower. In effetti, la ragione fondamentaleaddotta dal Wall Street Journal quando si rifiutò di pub-blicare una storia sulla frode della Equity Funding pale-sa bene il problema generale di qualsiasi giornalistadesideroso di pubblicare informazioni riservate ottenu-te da un whistle-blower, ovvero l’assoluta mancanza distrumenti per verificare la credibilità dell’informazionefornita.

Durante la settimana in cui si trovava a Los Angelesper indagare sulla Equity Funding, Dirks si tenneregolarmente in contatto con William Blundell, redat-tore capo del Wall Street Journal di Los Angeles, peraggiornarlo sui progressi della sua indagine, tormen-tandolo affinché pubblicasse un pezzo sulle accuse difrode nei confronti della Equity Funding. Blundell,però, temeva che quelle rivelazioni tanto dirompenti,avvallate solo dal sentito dire di alcuni ex dipendenti,avrebbero potuto risultare diffamatorie e dunquedeclinò l’invito a scrivere della storia [...]. Dirks fornìa Blundell «tutto il materiale di cui era a conoscenza»,compresi i propri «appunti» nonché i «nomi di tutti itestimoni». Tuttavia, data «l’entità della frode», Blun-

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5522.. Brian Trumbore, “Ray Dirks and the Equity Funding Scandal”.

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dell mise in dubbio che potesse essere stata «ignoratada un qualsiasi onesto revisore dei conti» e archiviòl’intera faccenda, senza crederci.53

Il fallimento dei whistle-blower nel compito di comunicare Le reazioni caute di fronte alle informazioni fornite

dai whistle-blower non è necessariamente dettata dallanegligenza o dalla corruzione degli enti di regolamenta-zione, degli analisti di mercato, dei giornalisti o dellealtre persone coinvolte. La diffidenza che accompagnale esternazioni dei whistle-blower è piuttosto giustifica-ta dalle motivazioni dubbie che spesso accompagnanole loro azioni. Raymond Secrist, la persona che allertòRaymond Dirks sulla frode della Equity Funding, peresempio, pare si rivolse a Dirks solo perché «irritato acausa di un bonus di fine anno a suo parere insufficien-te».54 Allo stesso modo Ted Beatty, l’informatore dellaDynegy iniziò a divulgare le informazioni confidenzialiin suo possesso perché la società non gli aveva concesso«la promozione che egli credeva di essersi meritato».55

Inoltre, non è possibile stabilire con certezza se rea-zioni tanto circospette costituiscano una risposta ineffi-cace al whistle-blowing. Per valutare l’efficienza dellascelta di ignorare il whistle-blowing, infatti, occorremettere a confronto i costi connaturati all’ignorare l’in-formazione con i benefici corrispondenti, ossia evitaredi sprecare risorse nel tentativo di dare seguito ad accu-se infondate di dipendenti contrariati o di altre personeinsoddisfatte. Il quesito se i costi di tale cautela ecceda-no i benefici ottenuti indagando sulla sostanza delledenunce, resta un problema empirico difficilmente risol-vibile, data la scarsità o addirittura l’inesistenza di daticoncreti. È comunque risaputo che una simile analisicosti-benefici è diversa per i burocrati e per gli interme-diari finanziari, rispetto alla società nel suo complesso. Iburocrati sono per definizione avversi al rischio: trar-

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5533.. Dirks v. SEC, 463 U.S. 646.5544.. Brian Trumbore, “Ray Dirks and the Equity Funding Scandal”.5555.. Jathon Sapsford - Paul Beckett, “Whistle-blower Reels from Actions’

Fallout”.

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rebbero un vantaggio esiguo se convalidassero unarimostranza di un whistle-blower, ma rischierebberomolto se si rivelasse un errore. Si comprende quindi latendenza dei burocrati ad accogliere con un eccesso dicircospezione le dichiarazioni dei whistle-blower.

Ovviamente, se gli analisti e gli altri intermediari dicorporate governance sono incentivati a orientare leproprie raccomandazioni e analisi a favore delle societàe a ignorare eventuali truffe, i whistle-blower si trove-ranno a superare ostacoli ancora maggiori per convince-re gli interlocutori che stanno dicendo il vero. Come hogià fatto osservare in un mio precedente lavoro, «il pro-blema legato alle raccomandazioni degli analisti non èdifficile da capire: le banche d’investimento fanno pres-sione sugli analisti affinché si pronuncino per un eleva-to grado di affidabilità delle società loro clienti perchéun rating positivo innalza i corsi azionari generandoguadagni per i clienti delle loro attività di collocamen-to».56 Ecco perché chi controlla il flusso delle informa-zioni importanti, come gli analisti del mercato azionarioe i burocrati, ha molto da perdere e poco da guadagna-re nel dare credito alle accuse dei whistle-blower.

Gli effetti di questi fallimenti sul whistle-blowing: i successirelativi di whistle-blowing e insider trading

L’analisi evidenzia il difetto principale del whistle-blowing. Oltre a fornire un segnale più credibile per ilmercato di quanto non faccia il whistle-blowing, peressere efficace l’insider trading non ha bisogno di altret-tanta efficacia da parte delle altre istituzioni di corpora-te governance. Inoltre, più queste istituzioni operano inmodo efficace, tanto più si attenua il bisogno di whist-le-blowing: ciò significa che il whistle-blowing è tantomeno efficace quanto più se ne sente la necessità e dun-que nei periodi in cui le istituzioni fondamentali di cor-porate governance non lavorano in modo indipendenteo efficace.

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5566.. Jonathan R. Macey, “Efficient Capital Markets, Corporate Disclosureand Enron”, Cornell Law Review, 89, 2003, p. 356.

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Com’è prevedibile, le diverse risposte del mercato alwhistle-blowing e all’insider trading dimostrano che sidà maggior peso alla negoziazione dei titoli che non alwhistle-blowing. Il caso Beatty della Dynegy e il casoDirks suggeriscono che il risultato monetario dell’insidertrading è più elevato rispetto al tornaconto ottenuto conil whistle-blowing o con una soffiata, almeno nel settoreprivato, dove non esistono leggi formali che provvedanoall’incentivazione monetaria dei whistle-blower. Inentrambi i casi chi ha ottenuto la soffiata e si è messo atrattare i titoli in Borsa utilizzando l’informazione otte-nuta “se la passa molto meglio” di chi invece si è limita-to a riferire la notizia e ha tentato di rivolgersi agli orga-ni di regolamentazione per denunciare i problemi sco-perti all’interno della società. Le persone che aveva avvi-cinato con l’informazione sulla Dynegy avevano assicu-rato a Beatty che l’assistenza da lui prestata alle loro atti-vità «gli avrebbe fruttato un mucchio di soldi». I rendi-conti pubblicati successivamente sulle attività finanzia-rie di Beatty, rivelano però che «quel tornaconto moneta-rio non si realizzò» e che Beatty si trova ora a essere «dis-occupato e in difficoltà finanziarie».57 Raymond Dirks,nel frattempo, è divenuto una celebrità. Per ironia dellasorte i suoi tentativi di collaborare con la SEC lo portaro-no a essere accusato di insider trading proprio dalla stes-sa SEC.58 Se si fosse limitato a negoziare i titoli dellaEquity Funding in Borsa senza provare a informare laSEC della frode societaria in corso si sarebbe probabil-mente risparmiato il processo.

V. Insider trading, whistle-blowing, diritti di proprie-tà e normativa

L’insider trading può ottenere gli stessi risultatisocialmente desiderabili del whistle-blowing. Una dif-

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5577.. Jathon Sapsford - Paul Beckett, “Whistle-blower Reels from Actions’Fallout”.

5588.. “Statement of the Honorable Ray Garrett Jr., Chairman, SEC, beforethe Subcommittee on HUD – Space – Science – Veterans, Committee onAppropriations, United States Senate”, 11 ottobre 1973, http://www.sechisto-rical.org/collection/papers/1970/1973_1011_Garrett_HUDSSV.pdf.

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ferenza importante tra i due è che il whistle-blowing èpiù regolamentato e ha la necessità di vedere convali-date le dichiarazioni del whistle-blower da una qual-siasi istituzione pubblica, quale un ente amministrati-vo o un pubblico ministero. Tale mediazione da partedi un organismo esterno agisce come un meccanismodi controllo per limitare il flusso di informazioni ina-deguate o vane da parte degli informatori. Come giàvisto, il problema insito nel processo, però, non è quel-lo di generare un numero troppo elevato di segnala-zioni da parte dei whistle-blower quanto, piuttosto,quello di generarne poche; a volte, poi, quelle pochesegnalazioni generate non ottengono un’adeguataattenzione.

La legge sull’insider trading e il principio fondamentale deidiritti di proprietà

Per contro, non esiste alcuna istituzione pubblicad’intermediazione chiamata a controllare e a gestirel’insider trading basato su informazioni del whistle-blowing. L’insider trading è ovviamente soggetto arestrizioni legali, ma sono tutte volte a bandirlo e noncerto ad agevolarlo quando esso poggi sull’informazio-ne tipica di un whistle-blower.

Eliminando del tutto o anche solo attenuando leregole contro l’insider trading si otterrebbe probabil-mente un eccesso di tale pratica. Occorrono dunquemeccanismi o norme interpretative per distinguere tra ivari tipi di informazione insider (sostanziale, riservata)e per consentire agli operatori di mercato di discernerequali informazioni possono utilizzare nella negoziazio-ne e quali debbono invece rimanere riservate.

Attualmente, le interpretazioni delle regole dellaSEC sull’insider trading fornite dai tribunali offronoun promettente spunto per trarne una regola che aiutia decidere quando l’insider trading è appropriato nelcontesto del whistle-blowing. L’argomentazione in talsenso si struttura in tre passaggi. Primo: il divieto diinsider trading non significa che è vietato qualsiasitipo di negoziazione che si avvalga di un vantaggio

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d’informazione rispetto alla controparte. La regolastabilisce, piuttosto, che è illegale la negoziazioneeffettuata sul vantaggio di informazione qualora siastato violato un dovere fiduciario. Secondo: collegarela responsabilità legale dell’insider trading alla viola-zione di un dovere fiduciario serve per sancire e attri-buire i diritti di proprietà nell’ambito dell’informazio-ne riservata. L’informazione appartiene sempre aqualcuno, di solito alla società che ne è la fonte. Se lanegoziazione che sfrutta l’informazione comportal’appropriazione indebita (o il furto) dell’informazio-ne stessa, si ha una violazione di un dovere fiduciario.Al contrario, la negoziazione dei titoli non implica laviolazione di un dovere fiduciario quando chi opera inBorsa non infrange il diritto di proprietà di terzi o dialtre persone giuridiche. Terzo, l’analisi dei doverifiduciari e dei diritti di proprietà applicata all’insidertrading su informazioni da whistle-blowing sembrasuggerire che non vi sia motivo di vietarlo. Infatti, l’in-formazione relativa a una frode in corso o a un’attivi-tà criminale non dovrebbe essere considerata di pro-prietà dell’azienda coinvolta nella truffa e la negozia-zione dei titoli sulla base di tale informazione nondovrebbe dunque indicare una violazione di doverefiduciario. È molto semplice: se è vero che le societàhanno un valido interesse nel mantenere la riservatez-za sulle informazioni societarie legittime, quali peresempio quelle sui piani strategici, sugli utili, sui pro-grammi di acquisizione o su altre attività, esse nonhanno alcun valido interesse a trattare come confiden-ziali le informazioni relative a una frode in corso o adaltri illeciti che potrebbero essere oggetto di whistle-blowing.

Le norme contro l’insider trading sono state conce-pite per proteggere le società quotate e gli investitoridal furto delle informazioni che giustamente appar-tengono a loro. Persone interne alle società, quali idirigenti o i membri del consiglio di amministrazione,oppure i professionisti esterni che per un certo perio-do di tempo sono a contatto con la società come gli

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avvocati, i commercialisti, le agenzie incaricate dellastampa di dati finanziari, i responsabili delle banched’affari, ottengono continuamente informazioni socie-tarie confidenziali durante il regolare svolgimento delproprio lavoro. Le leggi sull’insider trading sono inte-se a prevenire l’abuso delle posizioni privilegiate dicui godono i soggetti che lavorano stabilmente all’in-terno della società o che vengono temporaneamente acontatto con l’azienda qualora operassero in Borsasulla base delle informazioni ottenute confidenzial-mente, in violazione del loro dovere fiduciario neiconfronti della società.

La Corte Suprema formula chiaramente i principifiduciari cui le norme sull’insider trading si ispiranonegli atti della causa Chiarella v. Stati Uniti.59 L’imputatodi questo caso era Vincent Chiarella, tipografo dellaPandick Press, agenzia specializzata nella stampa didati finanziari regolarmente ingaggiata da alcune socie-tà in cerca di altre società da acquisire, le quali ricorre-vano ai servizi della tipografia specializzata perapprontare i prospetti informativi che avrebberoaccompagnato la loro offerta d’acquisto. Chiarella ini-ziò a operare in Borsa sfruttando l’anticipo con cui otte-neva le informazioni contenute nei prospetti informati-vi che stava stampando. Così facendo egli contravven-ne a un dovere fiduciario che aveva, non tanto nei con-fronti delle controparti della negoziazione – nei con-fronti delle quali non sussisteva alcun obbligo – mapiuttosto verso le società offerenti, fonte dell’informa-zione da lui utilizzata, e verso il proprio datore di lavo-ro: entrambi infatti avevano fatto affidamento su Chia-rella affinché mantenesse riservate le informazioni insuo possesso. Nell’opinione della Corte se non vi fossestato un dovere fiduciario che gli imponesse di mante-nere riservata l’informazione l’attività finanziaria diChiarella non avrebbe potuto essere considerata insidertrading, nonostante egli fosse chiaramente entrato in

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5599.. Chiarella v. United States, 445 U.S., 231.

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possesso di un’informazione vantaggiosa non ancoraresa pubblica.60

Incentivare l’insider trading quando sfrutta informazioni delwhistle-blowing

Il parallelo con il whistle-blowing risulta evidente:l’insider trading viene disciplinato allo scopo di tutela-re la riservatezza delle informazioni societarie legittimementre il whistle-blowing viene incoraggiato proprioper evitare che le informazioni di frode o di corruzionerimangano riservate. In entrambi i contesti il problemaè capire fino a che punto la legge applicabile fornisce gliincentivi opportuni: nel caso dell’insider trading l’o-biettivo è incentivare le persone a mantenere riservatele informazioni societarie legittime, intese esclusiva-mente ai fini sociali e non a beneficio privato degli insi-der trader. Nel caso del whistle-blowing, invece, l’o-biettivo è incentivare le persone a rivelare l’informazio-ne che riguarda un illecito.

Nessuno potrebbe razionalmente definire legittimoil whistle-blowing che divulgasse informazioni privile-giate e importanti, per esempio relative ai piani strate-gici di una società. Appare dunque perlomeno stranoche qualcuno possa considerare l’informazione relativaa una frode in atto un’informazione “di buona fede”sulla quale la società possa legittimamente chiedere aipropri dipendenti di mantenere la riservatezza. Giac-ché pare irrazionale impedire alle persone di divulgareun’informazione simile, sembra altrettanto illogico con-trastare le persone che decidono di operare in Borsasulla base di questo tipo di informazione considerato“da whistle-blower”.

Da un punto di vista giuridico, l’insider trading è

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6600.. Chiarella infranse indubbiamente un dovere fiduciario verso il propriodatore di lavoro, la Pandick Press, quando negoziò titoli in base a informa-zioni che aveva promesso di mantenere riservate al momento dell’assunzione.Tuttavia, siccome il governo non aveva presentato questa teoria di responsa-bilità alla giuria, la corte sentenziò che Chiarella non poteva essere condan-nato per trading in violazione del rapporto di fiducia, lealtà e riservatezza cheaveva con Pandick.

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illegale solo se sfrutta un’informazione privilegiata e setrattando i titoli della società in Borsa si vìola un obbli-go fiduciario. Dal punto di vista dei diritti di proprietà,la verifica se la persona sia soggetta a doveri fiduciari eli abbia infranti negoziando i titoli della società concor-re a definire e attribuire l’interesse di proprietà sull’in-formazione sfruttata. La ragione per cui una persona èsoggetta a un dovere fiduciario, quale per esempio ildovere di astenersi dall’operare in Borsa o di mantene-re riservata un’informazione, è di proteggere il valoredei diritti di proprietà dell’informazione.

In linea con l’analisi fin qui condotta e ritornandoindietro almeno fino a Locke, l’informazione ottenutacon mezzi legittimi, per esempio con il proprio lavoro, èdi proprietà della persona che l’ha acquisita,61 che hadunque il diritto presunto di utilizzare l’informazionecosì ottenuta.62 Come illustrato con autorevolezza daHernando de Soto, la giustificazione economica perdefinire con chiarezza i diritti di proprietà e per esten-dere tali diritti alle persone che li abbiano acquisiti legit-timamente è che l’attribuzione costituisce di per sé ilmiglior incentivo alla massimizzazione del valore del-l’informazione stessa. Mentre Locke si occupava dellasottoutilizzazione delle proprietà fondiarie acquisitedalla nobiltà inglese, de Soto si interessa del capitale“morto”, un termine che conia per descrivere i cespitisegreti e non formalmente riconosciuti di chi opera al difuori dei sistemi economici formali, superburocratizzatie altamente corrotti dei paesi non sviluppati.63

Le implicazioni sono chiare: non consentire l’insidertrading quando sfrutta informazioni da whistle-blo-wing porterebbe a una sottoutilizzazione del capitale

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6611.. John Locke, Two Treatises of Government, Londra, Everyman, 1993 [ed.it., Due trattati sul governo, Milano, Edizioni Unicopli, 1997].

6622. Alan Strudler, “Moral Complexity in the Law of Nondisclosure”, UCLALaw Review, 45, 1997, pp. 337, 375.

6633.. Hernando de Soto, The Mystery of Capital: Why Capitalism Triumphs inthe West and Fails Everywhere Else, New York, Basic Books, 2000 [ed. it., Ilmistero del capitale: perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallitonel resto del mondo, Milano, Garzanti, 2001]; vedi anche Richard Pipes, Pro-perty and Freedom, New York, Vintage, 1999 [ed. it., Proprietà e libertà, Tori-

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simile a quella messa in atto nelle regioni non ancorasviluppate del mondo quando non si legalizzano i dirit-ti di proprietà. Proprio come sostiene de Soto a propo-sito del Perù, paese che mal definisce i diritti di pro-prietà, non riconoscere i diritti delle persone in posses-so di informazioni riservate ricevute da whistle-blowercondurrebbe alla sottoutilizzazione dell’informazionestessa e all’inefficienza.

Dunque, applicando quest’analisi alle restrizionilegali sull’insider trading si ottengono almeno tre ragio-ni per cui si dovrebbe permettere a insider trader dioperare in Borsa sfruttando informazioni ricevute dawhistle-blower. Primo, l’insider trading è illegale solose comporta la violazione di un obbligo fiduciario, manon esiste alcun dovere fiduciario che costringa allariservatezza sull’informazione di una frode in atto.Secondo, con riferimento ai diritti di proprietà, unasocietà fraudolenta non può vantare alcun legittimointeresse societario nel mantenere la riservatezza suun’informazione di frode. Terzo, adattando a un conte-sto di sviluppo il tipo di analisi economica condotta dade Soto si arriva alla conclusione che l’insider trading,se praticato su informazioni da whistle-blowing, vaincoraggiato proprio perché in qualsiasi sistema econo-mico è socialmente auspicabile incentivare l’utilizzazio-ne efficiente del capitale e perché è altrettanto efficientepromuovere le attività che non solo portano a smasche-rare la frode ma che addirittura la scoraggino aumen-tando le probabilità che essa venga scoperta.

Un altro motivo per incentivare l’insider trading suinformazioni ricevute da whistle-blower è che probabil-mente così occorre meno tempo perché l’informazionediventi di pubblico dominio. Gli insider trader potrebbe-ro negoziare i titoli anche sapendo che l’informazione daloro utilizzata verrà scoperta, ma fino a quando l’insider

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no, Lindau, 2008]. Per un utilissimo paragone tra il lavoro di Locke e deSoto, a cui si fa riferimento in questo capitolo, vedi Donald Krueckeberg,“The Lessons of John Locke or Hernando de Soto: What If Your DreamsCome True?”, Housing Policy Debate, 15, 2004, http://content.kn-owledgeplex.org/kp2/cache/documents/38182.pdf, consultato 5 gennaio 2006.

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trading sarà considerato illegale essi saranno disincenti-vati ad ammettere ciò che stanno operando in Borsa.Legittimando i loro diritti di proprietà sull’informazionericevuta dal whistle-blower riguardo alla frode in atto, edunque rendendo legale l’insider trading, non solo siotterrebbe l’effetto ovvio di incoraggiare questa praticama si spingerebbero anche le persone che stanno nego-ziando a rivelare l’informazione in loro possesso ocomunque a far sì che diventi di pubblico dominio. Cosìsi contribuirebbe a smascherare prima la frode o l’illecitooggetto della negoziazione dei titoli.

Quali informazioni si configurano come whistle-blowing?Oltre a limitare i soggetti che possono negoziare

sfruttando l’informazione di un whistle-blower rimaneda stabilire che genere di informazione può esseresfruttata nella negoziazione e quale no. L’analisi, inquesto caso, è facilitata dalle analogie con la protezionegarantita ai whistle-blower dalla legge Sarbanes-Oxley,che tutela le informazioni «riguardanti qualsiasi com-portamento che il dipendente abbia ragione di ritenereuna violazione […] di una qualsiasi disposizione dilegge federale in ordine a frodi perpetrate a danno degliazionisti».64 Così come non tutte le rivelazioni da partedei whistle-blower sono meritevoli di protezione, allostesso modo non tutte le negoziazioni effettuate da insi-der possono essere difese adducendo che si basavanosu whistle-blowing protetto. Tuttavia, la categoria delleattività meritevoli di protezione è vasta per i whistle-blower65 e non dovrebbe esserlo meno per gli insidertrader.

Le rivelazioni dei whistle-blower agli enti non gover-nativi, compresi i mezzi d’informazione, sono da tempotutelate dal Ministero del lavoro con disposizioni dilegge a tutela dei whistle-blower virtualmente identiche

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6644.. 18 U.S.C., art. 1514A(a), 2002.6655.. Stephen M. Kohn - Michael D. Kohn - David K. Colapinto, Whistle-

blower Law: A Guide to Legal Protections for Corporate Employees, New York,Praeger, 2004.

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a quelle della Sarbanes-Oxley.66 Consentire ai whistle-blower di comunicare in un modo leggermente diverso,cioè negoziando i titoli in Borsa sulla base delle informa-zioni in loro possesso, sembrerebbe dunque un’estensio-ne modesta delle attuali linee di condotta.

La Sarbanes-Oxley protegge persino i whistle-blo-wer che hanno erroneamente creduto i propri datori dilavoro coinvolti in un illecito. In particolare, le rivela-zioni di un whistle-blower interno alla società vengonotutelate finché poggiano sulla «ragionevole convinzio-ne» del dipendente che il proprio datore di lavoro siacoinvolto in un comportamento fraudolento o illegale.Secondo la Sarbanes-Oxley, il dipendente non è obbli-gato a dimostrare che le proprie dichiarazioni sonomeritevoli.67

Il problema associato alla divulgazione di informa-zioni erronee riguardanti le attività di una società quo-tata è molto meno grave se riferito al whistle-blowingdi quanto non lo sia in un contesto di insider trading, equesto per due ragioni. Primo, quando un insider tra-der s’impegna nella negoziazione dei titoli in Borsa uti-lizzando un’informazione da whistle-blower – a pre-scindere che si tratti di vendita allo scoperto, di vendi-ta di opzioni d’acquisto, di contratti a termine su singo-le azioni o dell’acquisto di opzioni di vendita – l’insidertrader mette a rischio il proprio capitale, scommettendosu un declino del corso azionario nel momento in cuil’informazione riservata venga resa pubblica. Indipen-dentemente dalla buona fede dell’insider trader, nego-ziare sulla base di un’informazione sbagliata è costosoper l’insider trader perché corre il rischio sostanziale diriportare perdite. Secondo, il whistle-blowing implica

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6666.. Vedi Gutierrez v. Regents of the University of California, 98-ERA-19,DandO of ARB, p. 6, 13 novembre 2002, dove oltre al contatto con i mem-bri del Congresso, le comunicazioni a giornalisti e organizzazioni di interessepubblico che portarono il whistle-blower in primo piano su tre testate “dispicco” venivano definite attività lecite finalizzate a “rivelare pubblicamenteinformazioni” su comportamenti scorretti.

6677.. La norma venne chiarita nella vertenza Halloun v. Intel Corp., 2003-SOX-7, DandO of ALJ, p. 10, 4 marzo 2004.

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questioni di rischio morale che non esistono per l’insi-der trading. Nello specifico, visto che è illegale per idatori di lavoro rivalersi nei confronti dei whistle-blo-wer, i dipendenti potrebbero inventare questioni sullequali fare poi del whistle-blowing allo scopo di ottene-re una sicurezza del posto di lavoro che altrimenti nonavrebbero. I datori di lavoro sarebbero riluttanti a licen-ziare i whistle-blower perché incorrerebbero in sanzio-ni civili e addirittura penali in conformità all’articolo1107 della legge Sarbanes-Oxley.68

Per «agevolare la dimostrazione di un’azione diritorsione nei confronti di un whistle-blower» il Con-gresso ha inoltre dichiarato che, al fine di ottenere ripa-razione legale sotto forma di reintegrazione o risarci-mento dei danni per la presunta ritorsione subita, ilwhistle-blower non deve dimostrare che «l’ufficio delpersonale ha agito a causa del whistle-blowing». Inverità il whistle-blower non deve nemmeno dimostrareche il whistle-blowing sia stato elemento motivantesostanziale o predominante di qualsiasi iniziativa neisuoi confronti.69 Egli è tenuto solo a provare una tenuecorrelazione: basta che il funzionario responsabile delprovvedimento fosse a conoscenza del whistle-blowinge abbia agito entro un lasso di tempo successivo tale percui «chiunque potrebbe ragionevolmente concludereche la rivelazione sia stata una delle cause dell’azioneintrapresa dall’ufficio del personale».70

L’analisi condotta fin qui ha dimostrato che esistonodegli incentivi sotterranei che scoraggiano l’insider tra-ding sulla base di informazioni da whistle-blowing

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6688.. L’articolo 1107(a) della Sarbanes-Oxley emenda il 18 U.S.C., art. 1513,e stabilisce che «chiunque, in piena coscienza e con intenti di ritorsione, ledeun’altra persona, anche interferendo con il legale contratto di lavoro e la vitapersonale, fornendo a funzionari governativi informazioni attendibili su vio-lazioni, reali o ipotetiche, delle leggi federali, è passibile di contravvenzione odetenzione fino a 10 anni, o di entrambe le sanzioni».

6699.. Whistle-blower Protection Act del 1989, 101° Congresso, prima sessione,Congressional Record 135, 16 marzo 1989, S2779.

7700.. Whistle-blower Protection Act del 1989, 101° Congresso, prima sessione,Congressional Record 135, 16 marzo 1989, S2779.

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errate, ma questi non tengono ugualmente a freno iwhistle-blower. L’analisi indica inoltre che solo un certotipo di informazioni dovrebbe essere oggetto di insidertrading, le stesse che potrebbero coadiuvare un’indagi-ne su presunte violazioni di legge, ed è proprio questogenere di informazioni che i whistle-blower andrebbe-ro incoraggiati a rivelare. Il fatto di essere in grado dideterminare il genere di informazioni che autorizza allatutela del whistle-blower, dimostra che è possibile indi-viduare anche il tipo di informazioni che si presta a uninsider trading legittimo.

Tuttavia, la nostra analisi non vuole concludere chechiunque entri in possesso di un’informazione essenzia-le relativa a una frode in atto debba poter negoziare inBorsa sulla base di tale informazione. Come già affer-mato, l’informazione deve essere ottenuta in modolegittimo. Ecco perché è necessario, come espresso daLocke, che si riconoscano i diritti di proprietà delleinformazioni e delle altre conoscenze che sono il pro-dotto dell’“onesto lavoro” del singolo individuo.71 Inaltre parole, il diritto di praticare l’insider trading sullabase di informazioni ottenute da whistle-blower nondovrebbe spettare a chi è coinvolto nella frode, poichéchi genera o partecipa alla generazione dell’informazio-ne riguardo a una frode in atto non ha acquisito l’infor-mazione grazie al proprio “onesto lavoro” e non hadunque diritto a trarre vantaggio dallo sfruttamento ditale informazione.72 Analogamente, da un punto di vistaeconomico, legittimare chi partecipa a una frode in

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7711.. John Locke, Two Treatises of Government.7722.. Dean Henry Manne, in un’intervista sugli scandali Enron e Global

Crossing, dichiarò che l’insider trading, se permesso, avrebbe potuto impedi-re queste e altre frodi: «non penso che simili scandali si sarebbero mai verifi-cati se l’insider trading fosse permesso […] perché fin troppe persone nelledue società si sarebbero accorte di ciò che stava accadendo e non avrebberoresistito alla tentazione di arricchirsi negoziando sulle informazioni; così, ilmercato dei capitali avrebbe manifestato questi problemi mesi e mesi primadi quanto non sia avvenuto in questo nostro insensato sistema di regole». VediLarry Elder, “Legalize Insider Trading?”, Washington Times, 15 giugno 2003,http://www.washtimes.com/commentary/20030615-112306-2790r.htm, con-sultato 18 dicembre 2005.

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azienda all’insider trading sulla base delle informazioniin suo possesso potrebbe sortire l’effetto indesiderato difornire ai disonesti ulteriori incentivi alla frode.

VI. Whistle-blowing e insider trading: alcune diffe-renze

Whistle-blowing e insider trading sono complemen-tari, non alternativi. Un sistema che permettesseentrambi, sia il whistle-blowing sia l’insider tradingpraticato su informazioni di whistle-blowing, sarebbepiù efficace nel rivelare gli illeciti di un sistema che con-sentisse solo l’una o l’altra pratica. La legittimità dellericompense riservate ai whistle-blower è ormai benaffermata e indiscussa, mentre la legittimità dell’insidertrading è, ovviamente, molto più contestata.

Il paragrafo precedente ha evidenziato alcuni van-taggi dell’insider trading rispetto al whistle-blowing:l’insider trading si auto-realizza; gli insider traderottengono un’immediata contropartita rivelando lafrode societaria. Per contro, i whistle-blower del settoreprivato vengono protetti solo in caso di eventuali ritor-sioni nei loro confronti. Persino nel comparto pubblico,dove leggi formali prevedono la ricompensa dei whist-le-blower, tale ricompensa è fortemente incerta e iwhistle-blower l’attendono per anni, se non addiritturaper decenni. Tuttavia l’insider trading che sfrutta infor-mazioni di whistle-blowing non è aproblematico di persé. Ecco perché l’insider trading non rimpiazzerà mai lostrumento del whistle-blowing nel trattare gli illecitisocietari, come esamineremo in seguito.

L’importanza della quotazione in BorsaUn problema dell’insider trading come strumento di

corporate governance è che si rivela efficace solo per lesocietà quotate. Potrebbero non esistere opportunità diinsider trading laddove la frode o l’illecito, portati allaluce dai whistle-blower, avessero avuto luogo nelleagenzie governative o nelle società non quotate. Tutta-via, questa carenza dell’insider trading tende a esserefacilmente ingigantita. Innanzitutto, il fatto che non sia

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possibile praticare l’insider trading in società o agenzienon quotate non sminuisce che l’insider trading suinformazioni da whistle-blower possa essere preziosonel rivelare la frode in società le cui azioni siano inveceofferte al pubblico. Inoltre, attingendo a quanto osserva-to da Ian Ayres e Joseph Bankman, quando gli insidertrader non possono negoziare le azioni della propriasocietà, potrebbero comunque essere in grado di utiliz-zare l’informazione per negoziare i titoli delle società diconcorrenti, fornitori, clienti, o di chi fabbrica prodotticomplementari.73 Ayres e Bankman chiamano questaforma di trading “negoziazione di sostituti azionari”. Idue studiosi fanno notare come la negoziazione di sosti-tuti azionari possa risultare piuttosto proficua, e HeatherTookes dimostra come l’insider trading praticato nego-ziando le azioni dei concorrenti sia spesso una strategiapiù vantaggiosa per gli insider trader di quanto non losia negoziare azioni della propria società.74

Ayres e Bankman non prendono in considerazione ilpossibile ruolo dell’insider trading come sostituto delwhistle-blowing, ma se si chiarisse la legislazione inmateria e si permettesse l’insider trading di sostitutiazionari aumenterebbe vertiginosamente l’utilità del-l’insider trading praticato su informazioni di whistle-blowing. Per esempio, laddove un impiegato munici-pale fosse in possesso di informazioni riservate su unafrode nell’assegnazione dei contratti di appalto, potreb-be vendere azioni della società appaltatrice prima dilanciare l’allerta.75

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7733.. Vedi Ian Ayres - Joseph Bankman, “Substitutes for Insider Trading”.7744.. Heather Tookes, “Information, Trading and Product Market Interac-

tions: Cross-Sectional Implications of Insider Trading”, working paper nonpubblicato, 2004.

7755.. Ovviamente, a funzionari governativi coinvolti in un’indagine o in unacausa, sia nel settore pubblico sia in quello privato, dovrebbe essere vietatoqualsiasi tipo di negoziazione sulla base delle informazioni a cui hanno acces-so. Tale possibilità rappresenterebbe un profondo azzardo morale, poiché ilfunzionario potrebbe essere spinto a citare in giudizio società innocenti pertrarre vantaggio dalle fluttuazioni di prezzo delle azioni nel periodo in cuiviene annunciata l’azione sanzionatoria.

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Una questione di tempiUn altro problema teorico collegato all’insider tra-

ding è che la possibilità di praticarlo utilizzando ognitipo di informazione riservata, comprese informazionidi whistle-blowing (ma non solo quelle), potrebbe crea-re degli incentivi perversi per la persona in possessodell’informazione da whistle-blower, ovvero spingerlaa ritardarne la divulgazione per trarre il massimo dalleproprie attività di negoziazione in Borsa. Legalizzarel’insider trading su informazioni sostanziali non ancorarese pubbliche riguardanti una frode aziendale o suqualsiasi altra informazione da whistle-blower è ineffi-ciente nella misura in cui la legalizzazione fornisce agliinsider trader l’incentivo a ritardare la diffusione dellanotizia riservata fino al momento in cui essa verrebbecomunque scoperta in altro modo.76

Fino a che punto si verificherebbero tali ritardi è unadomanda empirica per la quale non sono disponibilidati sufficienti. Se da un lato il ritardo con cui viene allaluce un’informazione da whistle-blower rappresentaun potenziale costo sociale intrinseco al sistema, dal-l’altro vi sono alcuni vantaggi significativi che moltoprobabilmente sono in grado di compensare quel costo.

Tra tutti, spicca l’elevata probabilità con cui la lega-lizzazione dell’insider trading su informazioni dawhistle-blower porterebbe alla rivelazione di un’infor-mazione che altrimenti non diverrebbe mai di pubblicodominio. Poiché la mancata rivelazione di una taleinformazione è chiaramente peggiore di un mero ritar-do nella sua esposizione, è altamente verosimile che ibenefici dell’autorizzare l’insider trading su un’infor-mazione da whistle-blower superino i costi.

Se anche vi fosse un ritardo nella divulgazione del-l’informazione perché gli insider trader stanno nego-

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7766.. Secondo Henry Manne, in questo caso non vi sarebbero problemi per-ché l’insider trading permetterebbe agli investitori di ottenere informazioni“virtuali” complete grazie agli immediati e opportuni aggiustamenti di prez-zo. Vedi Henry Manne, “The Case for Insider Trading”, AEI-Brookings JointCenter Policy Matters 03-05, aprile 2003, http://aei-brookings.org/policy/pa-ge.php?id=129, consultato 22 febbraio 2008.

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ziando, quel ritardo andrebbe valutato considerandoche un indugio sarebbe inevitabile anche nel momentoin cui il whistle-blower decidesse di lanciare l’allertasenza negoziare contemporaneamente i titoli in Borsa.Inoltre, come spiegherò in dettaglio più avanti, l’insidertrading tende a spingere i prezzi nella direzione “giu-sta” prima che l’irregolarità venga alla luce. Per contro,se il whistle-blowing si manifesta senza che vi sia alcuntipo di negoziazione in Borsa, i corsi azionari potrebbe-ro non subire alcuna variazione prima che l’informa-zione venga resa nota al pubblico.

VII. Chi paga per il whistle-blowing e per l’insidertrading? Problemi di equità e di distribuzione

La dissertazione ha fin qui presentato un’analisi afavore della legalizzazione dell’insider trading su infor-mazioni di whistle-blowing da una prospettiva stru-mentale e di efficienza. L’insider trading solleva peròanche importanti questioni distributive. Di primoacchito potrebbe sembrare che un vantaggio del whist-le-blowing sull’insider trading sia soprattutto quello diessere più “equo”, perché il suo impatto si distribuiscepiù uniformemente sulla popolazione di azionisti dellasocietà di quanto non faccia quello dell’insider trading.

EquitàDesidero chiarire fin d’ora che non v’è alcun intento

di dichiarare qui che chi negozia titoli sfruttando unvantaggio d’informazione sia particolarmente virtuoso:queste persone non sono degli eroi e nessuno li consi-dera tali. Piuttosto si sostiene semplicemente che chinegozia titoli utilizzando un’informazione riservata suuna frode in azienda non può categoricamente esseregiudicato di moralità inferiore a chi, come Sherron Wat-kins, ha lanciato l’allerta sulla frode societaria nel pro-prio interesse. E questo non perché sia lodevole chi pra-tica l’insider trading, ma piuttosto perché non lo è chipratica il whistle-blowing. Comunque sia, non è affattochiaro perché si debba bandire l’insider trading del tipoqui descritto per ragioni di equità.

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È importante riconoscere in partenza che gli insidertrader di cui si sta discutendo in questo capitolo merita-no la possibilità di vendere le proprie azioni prima deglialtri azionisti. In un’ottica di equità, il modo miglioreper concettualizzare la questione è forse quello di para-gonare gli azionisti di una società colpita dalla frode aldilemma etico di fronte al quale si trova l’equipaggio diuna nave che sta per affondare e che sia dotata di unnumero fortemente insufficiente di lance di salvataggio.Gli azionisti che vendono le proprie azioni sono assimi-labili ai membri dell’equipaggio, che vengono a cono-scenza di un problema qualche tempo prima dei pas-seggeri. Quei membri dell’equipaggio dovrebbero averela possibilità di avvalersi dell’informazione per salvarese stessi assicurandosi un posto sulle scialuppe di salva-taggio prima degli altri passeggeri?

Se si focalizza l’attenzione sulle differenze tra i dipen-denti (l’equipaggio) e gli investitori esterni (passeggeri)potrebbe sembrare che, in un contesto societario, larisposta sarebbe generalmente un sì. A differenza degliinvestitori esterni, i dipendenti di più basso livello nonpossono diversificare i propri investimenti nelle societàin cui lavorano e di conseguenza subiscono in modosproporzionato gli effetti dei più importanti scandalisocietari. Soprattutto, i lavoratori non hanno la possibili-tà di diversificare gli investimenti nel proprio capitaleumano, contrariamente a quanto accade per gli investi-tori esterni. Negoziare titoli sulla base di un’informazio-ne riservata riguardante una frode volta a distruggere lasocietà per la quale lavora consente a un dipendente dirifarsi almeno in parte dell’investimento perduto.

Quando società quotate come Cendant, Enron edEquity Funding implodono, la base impiegatizia è spes-so quella più pesantemente colpita. Quando Enronchiese protezione contro la bancarotta, oltre 4500 lavo-ratori persero il loro impiego.77 Nell’autunno del 2001,

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7777.. Kristen Hays, “Midlevel Enron Corp. Executive Pleads Guilty to FilingFalse Fax Return”, Abilene Reporter-News, mercoledì, 27 novembre 2002,http://www.texnews.com/1998/2002/texas/texas_Midlevel_1127.html, consul-tato 15 febbraio 2007.

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quando i problemi della Enron iniziarono a palesarsi,«la società collassò rapidamente affossando i patrimonie i fondi destinati al pensionamento di migliaia didipendenti».78 I dipendenti di più basso rango dellaEnron si trovarono ad affrontare un periodo molto diffi-cile, nel tentativo di assicurarsi altrove un posto di lavo-ro paragonabile a quello che avevano perduto, ancoraanni dopo il tracollo della società.79 Rispetto ai verticiaziendali, che avevano partecipato alla frode e guada-gnato milioni, «la gran parte degli ex impiegati dellaEnron, i quali non avevano avuto nulla a che fare con lafrode» non se la passò affatto bene.80

Come il 25,6 per cento delle società con 5000 dipen-denti o più, la maggior parte dei dipendenti dellaEnron (60 per cento)81 aveva impegnato i propri rispar-

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7788.. Alexei Barrionuevo, “10 Enron Players: Where They Landed after theFall”, New York Times, 29 gennaio 2006, http://select.nytimes.com/search/restric-ted/article?res=F0061FF83A5B0C7A8EDDA80894DE404482.

7799.. Simon Romero, “Hard Times Haunt Enron’s Ex-Workers: Few FindJobs of Equal Stature Years after Company’s Collapse”, New York Times, 25gennaio 2006, http://select.nytimes.com/search/restricted/article?res=F60C17FC-3B5B0C768EDDA80894DE404482.

8800.. Simon Romero, “Hard Times Haunt Enron’s Ex-Workers”.8811.. Ari Weinberg, “The Post-Enron 401(k)”, Forbes, 20 ottobre 2003,

http://www.forbes.com/2003/10/20/cx_aw_1020retirement.html; Michael W.Lynch, “Enron’s 401(k) Calamity”, Reason, 27 dicembre 2001,http://www.reason.com/ml/ml122701.shtml. Agli inizi del 2001 Enron decisedi appaltare il piano 401(k) a una società esterna. Questo trasferimento pre-supponeva che i conti del 401(k) venissero congelati. Per un certo periodo ditempo, tra ottobre e novembre 2001, i dipendenti di Enron non poteronotogliere i loro fondi pensione dal capitale azionario della Enron: è controver-so se i conti rimasero congelati per dodici giorni lavorativi, dal 26 ottobre al12 novembre 2001, come afferma la società, o per un periodo più lungo.Date a parte, in quei giorni di congelamento alla Enron vi fu un vero e pro-prio sconvolgimento. Il 16 ottobre 2001 la società annunciò che dovevaassorbire una perdita di 1,1 miliardi di dollari per investimenti non andati abuon fine. Il 22 ottobre la SEC annunciò un’indagine informale sulle prati-che contabili di Enron. Il 29 ottobre, Moody’s declassò il rating sulle obbli-gazioni Enron. Il 31 ottobre la SEC formalizzò l’inchiesta. L’8 novembreEnron presentò una riclassificazione dei propri bilanci per tutti gli esercizi dal1997. Il 26 ottobre 2001, il giorno in cui Enron dichiarò di aver congelato ifondi del piano 401(k), le sue azioni venivano negoziate a 13,81 dollari;quando gli investitori furono di nuovo liberi di negoziare, il prezzo delle azio-ni era sceso a 9,98 dollari.

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mi per il pensionamento in azioni della Enron senzadiversificare l’investimento,82 nonostante vi fosseroaltre alternative.83 Allo stesso modo di molte altresocietà quotate, la Enron aveva collegato le proprieazioni con i contributi previdenziali lordi del piano401(k) e limitava la possibilità per i dipendenti di ven-dere quelle azioni.84 Visto che da un lato i dipendentiavevano investito in azioni Enron senza diversificare edall’altro non ne avevano la possibilità, non sarebbesembrato “iniquo” permettere a quei dipendenti divendere le proprie azioni, magari anche allo scoperto,qualora avessero ottenuto informazioni riservateimportanti sulla frode in corso all’interno della lorosocietà. Altri investitori possono evitare il rischio spe-cifico collegato al tracollo di una sola azienda diversi-ficando il proprio portafoglio titoli, ma i lavoratori nonhanno modo di tutelarsi. L’unica opportunità di conte-nere il danno è negoziare le proprie azioni in funzionedelle informazioni societarie riservate di cui sonoentrati in possesso.

Consentire a certi dipendenti di livello inferioreall’interno dell’azienda di negoziare le proprie azionisfruttando un vantaggio d’informazione su una frode inatto sarebbe senz’altro “equo”. I lavoratori sono svan-taggiati nei confronti degli altri azionisti perché nonhanno la possibilità di diversificare il proprio investi-mento in capitale umano all’interno della propria azien-da. Se la legge permettesse a queste persone di negozia-re in Borsa sarebbe coerente con la teoria di John Rawlsper cui i diritti legali dovrebbero essere articolati inmodo da portare «il massimo beneficio ai meno avvan-

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8822.. Corey Rosen, “Questions and Answers about Enron, 401(k), andESOPs”, http://www.nceo.org/library/enron.html.

8833.. Testimonianza di Douglas Kruse dinnanzi alla Sottocommissione suiRapporti tra datore di lavoro e dipendenti della Commissione Istruzione eLavoro, 12 febbraio 2002, in cui si legge che «il 70-75 per cento circa di colo-ro che investono in maniera massiccia in piani azionari proposti dal propriodatore di lavoro [ESOP, 401(k) e piani di distribuzione degli utili] lo fa persocietà che hanno piani pensionistici diversificati».

8844.. Ari Weinberg, “The Post-Enron 401(k)”.

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taggiati».85 In altre parole, Rawls appoggia lo svantaggioinvolontario prodotto dall’insider trading quando talesvantaggio va a beneficio di chi ha la peggio.

Un altro concetto sviluppato da Rawls, il “velo diignoranza”, porta alla stessa conclusione sull’equità del-l’insider trading. Il metodo di Rawls nell’elaborare iprincipi di equità prevede di immaginare quali normedi ordine sociale sceglierebbero alcuni individui razio-nali e motivati da interessi personali da dietro un velo diignoranza: sembra evidente che tutti gli azionisti razio-nali delle grandi società quotate sarebbero d’accordo apriori nel permettere al personale innocente di negozia-re le azioni della società sulla base di un’informazioneda whistle-blower. Nell’ottica qui assunta del contrattointeso come promessa è importante far notare che gliinvestitori motivati da interessi personali approverebbe-ro l’insider trading perché questo riduce la probabilitàche si verifichi una frode, in primo luogo aumentando laprobabilità che tale frode venga scoperta.

È innegabile che l’insider trading comporti per defi-nizione una disuguaglianza di trattamento. Se l’equitàviene definita sulla base dell’uguaglianza dei risultati,allora l’insider trading di cui sto parlando deve esserebandito insieme con tutte le altre forme analoghe dinegoziazione. Ancora più preoccupante è che questoinsider trading comporta anche una disparità di oppor-tunità, perché gli insider trader hanno accesso a infor-mazioni da whistle-blower precluse ai concorrenti. Tut-tavia, come spiegano abilmente Frank Easterbrook eDaniel Fischel, almeno nel contesto societario, equitànon significa parità di trattamento, perché equità euguaglianza non sono la stessa cosa.86 L’equità per gliinvestitori comporta il perseguimento di politiche tese

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8855.. John Rawls, A Theory of Justice, Cambridge MA, Harvard UniversityPress, 1971, pp. 83, 302 [ed. it., Teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli,1982]; vedi anche Daniel Markovits, “How Much Redistribution ShouldThere Be?”, Yale Law Journal, 112, 2003, pp. 2291, 2326-2329.

8866.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure ofCorporate Law, p. 110.

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a massimizzare il valore degli investimenti ex ante.87

Secondo Easterbrook e Fischel, data la scelta tra dueoperazioni rischiose, una che prevede un profitto di 10dollari per ognuno dei dieci investitori di una società el’altra che prevede un profitto di 40 dollari per cinquedei dieci investitori e nulla per i restanti cinque, il con-siglio d’amministrazione di una qualsiasi società opte-rebbe per la seconda delle due operazioni, perché ilritorno complessivo atteso su quell’investimento è di200 dollari, mentre il rendimento atteso per il primoinvestimento è solo di 100 dollari. Come osservanoEasterbrook e Fischel, se per aumentare il rendimentocomplessivo si rende necessaria una distribuzione ine-guale, allora la società è tenuta a scegliere l’ineguaglian-za.88 L’esempio si adatta perfettamente al problema dis-tributivo del whistle-blowing. Vietare l’insider tradingsu informazioni da whistle-blower eliminerebbe la dis-parità indotta dalla negoziazione di un insider traderche sfrutta un vantaggio di informazione, ma elimine-rebbe anche i consistenti guadagni che derivano a tuttigli investitori dall’avere ridotto a priori l’incidenzadella frode. È proprio perché gli azionisti «preferisconoall’unanimità norme di legge volte a massimizzarel’ammontare dei guadagni, incuranti del modo in cuitali guadagni sono distribuiti»,89 che l’insider trading suinformazioni da whistle-blower è equo per gli investi-tori, indipendentemente dalla connotazione che sivoglia attribuire al significato di “equo”.

Infine, per quanto riguarda l’equità, mi affretto ariconoscere che il whistle-blower “puro” (se mai esi-stesse una figura simile) è un Buon Samaritano.90 Gli

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8877.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure ofCorporate Law, p. 110.

8888.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure ofCorporate Law, p. 111.

8899.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure ofCorporate Law, p. 124.

9900.. J. J. Thomson, “A Defence of Abortion”, Philosophy and Public Affairs,n. 1, 1971, pp. 47-66, dove il Buon Samaritano viene definito come «coluiche, per aiutare qualcuno, rinuncia a seguire la sua strada, anche a propriespese».

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insider trader, invece, decisamente non possono defi-nirsi tali. D’altro canto, nessuno ha mai pensato seria-mente che, per legge, una persona debba comportarsida Buon Samaritano. In altre parole, la questione non èse l’insider trading su informazioni da whistle-blowerdebba essere celebrato, ma piuttosto se debba essereconsiderato un reato. Come minimo, la decisioneandrebbe lasciata agli stessi investitori, che dopo larivelazione dovrebbero poter scegliere in autonomia seinvestire in una società quotata che ammetta l’insidertrading su informazioni da whistle-blower oppure no.

Sulla distribuzioneA livello intuitivo, l’impatto del whistle-blowing è

uguale per tutti gli azionisti, mentre l’insider tradingsortisce un effetto differente sugli azionisti che si ritro-vano sfortunatamente ad acquistare mentre gli insidertrader vendono le proprie azioni sfruttando un’infor-

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Figura 12-1 Effetti distributivi della regolamentazione dell’insider trading in caso di illeciti societari

Datadell’annuncio

TempoData dell’evento

Applicazioneimperfetta

Applicazioneperfetta

Nessuna applicazione

$ 50/azione

$ 00,25/azione

Prez

zo

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mazione da whistle-blower. In questo caso, però, l’in-tuizione è errata perché ipotizza falsamente che chi stanegoziando durante un’azione di insider trading basa-ta su un’informazione riservata relativa a una frode inatto venga necessariamente danneggiato. In realtà, èprobabile che gli azionisti esterni, controparte degliinsider trader che stanno negoziando le proprie azionisu un’informazione da whistle-blower, beneficino aloro volta della negoziazione. La vendita di azioni daparte degli azionisti interni in possesso di informazionida whistle-blower, ammesso che essa sortisca un qual-siasi effetto sul corso azionario, lo farà calare a benefi-cio anche della controparte acquirente, che vedrà scen-dere i costi di acquisizione.

La pressione al ribasso dei prezzi delle azioni causa-ta dall’insider trading avvantaggerà anche gli investito-ri comuni, ossia quegli investitori che non hanno inten-zione di negoziare titoli sulla base di informazioni nonancora scontate nel prezzo delle azioni, ma che invececomprano e vendono titoli per bilanciare il proprio por-tafoglio oppure perché sono cambiati gli schemi di con-sumo e di investimento all’interno del loro ciclo di vita.Il punto critico è che questi operatori non sono indottiad acquistare azioni perché gli insider trader le stannovendendo: essi le avrebbero acquistate comunque. Unavendita informata da parte di insider trader non peg-giora bensì migliora la loro posizione, perché spingeverso il basso il prezzo al quale le controparti degli insi-der trader possono acquistare. L’effetto è rappresentatonella figura 12.1.

Il ragionamento è che, lasciando invariato tutto ilresto, in mancanza di restrizioni l’insider trading pro-spererebbe più che in altre circostanze. Questa maggio-re incidenza dell’insider trading provocherebbe unadiscesa dei corsi azionari più veloce che in altri casi. Seinvece l’applicazione di un divieto legislativo fosse“perfetta” e tutti gli insider trader fossero presi e puni-ti, l’insider trading non avrebbe modo di svilupparsi e icorsi azionari si adeguerebbero solo nel momento in cuila frode o gli altri illeciti societari venissero rivelati al

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pubblico, provocando una caduta drammatica. Infine,laddove esistessero delle proibizioni nei confronti del-l’insider trading su informazioni da whistle-blower mavenissero applicate in modo imperfetto, i corsi azionaririsponderebbero all’insider trading in modo meno fortedi quanto non farebbero se quel tipo di negoziazionevenisse condonata.

Visto che, come si vede in figura, i corsi azionari siabbassano in modo più evidente quando l’insider tra-ding è permesso, questo è il regime legale che piùavvantaggia gli acquirenti. Risulta inoltre chiaro che lepersone che negoziano i titoli azionari prima dell’iniziodella frode non vengono interessate dall’insider tradingcome, è ovvio, non vengono colpite le persone che trat-tano i titoli dopo l’annuncio della frode.

Questa dissertazione sugli effetti distributivi dell’in-sider trading praticato su informazioni da whistle-blo-wer è incompleta perché ignora la reale possibilità che,se quel tipo di insider trading fosse lecito, allora gli insi-der trader tenderebbero a ritardare il momento dell’an-nuncio della frode per avere il tempo necessario pernegoziare i propri titoli societari. Di nuovo, tale possi-bilità influisce anche sull’analisi dell’efficienza dell’in-sider trading su informazioni di whistle-blowing. Tut-tavia, da un punto di vista distributivo, non è del tuttochiaro se un ritardo nel rivelare la frode o l’illecito inatto possa nuocere agli attuali azionisti della società,che anzi, beneficiano della situazione fintanto che lafrode viene tenuta nascosta perché i corsi azionari resta-no alti: gli azionisti che riescono a godere di un temposupplementare prima di vendere le proprie azioniottengono dunque un chiaro vantaggio.

Lo scenario può essere ancora diverso: se l’insidertrading è illegale e all’azionista interno rimane solo lavia del ricatto o del whistle-blowing per reagire a unafrode o a un qualsiasi altro illecito in azienda, capitaaddirittura che il ritardo nel rivelare l’informazionesulla condotta illegittima si protragga più di quanto nonsarebbe se l’insider trading fosse ammesso. Ma cosa piùimportante, sia dal punto di vista dell’efficienza sia dal

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punto di vista della distribuzione, è che l’insider tradingsu informazioni di whistle-blowing riduce verosimil-mente gli illeciti aziendali perché la possibilità di prati-care l’insider trading fa aumentare la probabilità che lafrode societaria venga scoperta e dunque porta a unariduzione dell’incidenza delle frodi in generale.

Questa diminuzione delle frodi giova a tutti gli azio-nisti, sia in un’ottica distributiva, sia in un’ottica di effi-cienza. Se dunque esiste una qualche ambiguità suglieffetti distributivi dell’insider trading su informazionida whistle-blower, è invece piuttosto convincente la tesiper cui l’insider trading produce benefici distributivi pergli azionisti esterni, cioè per quella classe consideratapiù meritevole di protezione.

VIII. Whistle-blowing e insider trading: corporategovernance e tematiche di contrattazione

Il whistle-blowing è stato a lungo incoraggiato perridurre l’incidenza delle frodi commesse nei confrontidel governo. Nella common law, l’insider trading era tol-lerato: ai dirigenti, ai dipendenti e alle altre persone astretto contatto della società era infatti permesso dinegoziarne i titoli sulla base di informazioni riservate, ameno che ciò non fosse loro specificamente vietato dacontratto.91 Gli statuti delle società, invece, tacciono inmodo sorprendente sia sulla questione dell’insider tra-ding92 sia sulla questione del whistle-blowing. Èalquanto strano che essi non vietino la negoziazione dititoli sfruttando informazioni da “insider” ed è altret-tanto singolare che non incoraggino il whistle-blowingcon ricompense in denaro agli informatori, simili aquelle previste dalle leggi federali sul whistle-blowingcome per esempio il False Claims Act.

Tuttavia, l’analisi fin qui condotta spiega entrambi i

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9911.. Goodwin v. Agassiz, 283 Mass. 358, 186 N.E. 659, 1933; Commento,“Insider Trading at Common Law”, University of Chicago Law Review, 51,1984, p. 838.

9922.. Vedi Dennis W. Carlton - Daniel Fischel, “The Regulation of InsiderTrading”, Stanford Law Review, 35, 1983, p. 857, dove si sottolinea che glistatuti delle società non impediscono l’insider trading.

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fenomeni. Per quanto riguarda l’insider trading essasuggerisce che non è nell’interesse degli azionisti proi-birlo in tutte le sue casistiche. L’insider trading che pog-gia su informazioni da whistle-blowing non dovrebbeessere vietato, in realtà andrebbe incoraggiato. Per con-tro, l’insider trading dovrebbe essere bandito se com-porta l’appropriazione indebita di informazioni di pro-prietà degli azionisti o della società stessa, come accadenel caso in cui si verificasse prima dell’annuncio uffi-ciale di un’offerta pubblica d’acquisto o degli utili dellasocietà. Facciamo un esempio: un funzionario dellasocietà accetta una tangente in cambio dell’informazio-ne di un imminente riacquisto di un ingente numero diazioni della stessa società con un sovrapprezzo rispettoal prezzo corrente di mercato; questa informazioneviene poi utilizzata dalla persona che ha pagato la tan-gente per acquistare le azioni della società facendo cosìsalire il prezzo che la società dovrà pagare per riacqui-stare le proprie azioni.93 In questa sequenza di eventi siosserva il furto di un’informazione rilevante che rientranella sfera dei diritti di proprietà.

La legge vigente consente l’insider trading soloquando è coerente con i doveri fiduciari di diligenza edi lealtà nei confronti della società. I doveri fiduciarisono i meccanismi utilizzati dalla legge per identificaree attribuire i diritti di proprietà dell’informazione su cuipoggia la negoziazione dei titoli e intervengono nellasfera contrattuale laddove la stipulazione dei contratti ètroppo costosa. Infatti, poiché l’insider trading puòmanifestarsi in una serie di circostanze ampiamentediverse e visto che le società e i loro rappresentanti non

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9933.. Confronta FMC Corp. v. Boesky, 573 F. Supp. 242, N.D. Ill. 1987, in par-ticolare 852 F.2d. 981, 7th Cir. 1988 con riferimento, 1989 U.S. Dist. LEXIS13353 (N.D. Ill.), causa intentata da una società contro un arbitraggista perinsider trading su informazioni relative alla ricapitalizzazione della società, cheavrebbe permesso di distribuire denaro contante agli azionisti in cambio dellariduzione delle loro partecipazioni azionarie nella società, per permettere almanagement di disporre di pacchetti azionari più importanti; la tesi sostenutaè che la società dovette pagare di più per riacquistare le azioni degli investitoriperché l’insider trading aveva provocato un rialzo del loro valore.

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possono prevedere perfettamente e dunque anticiparetutte le situazioni future in cui l’insider trading potràmanifestarsi, sarebbe estremamente oneroso stipularecontratti societari che specifichino con precisione qualitipi di negoziazione dei titoli non è consentita. Quindi,invece di tentare la determinazione a priori di ogni pos-sibile situazione in cui proibire l’insider trading, siricorre a una norma che vieti la negoziazione dei titoliquando essa vìoli un obbligo fiduciario o comporti ilfurto di una proprietà intellettuale.

Il “costo contrattuale” come spiegazione dell’assen-za di disposizioni che vietino l’insider trading negli sta-tuti e nei regolamenti delle società quotate non è peròsufficiente a chiarire perché nei contratti societari non sitrovino disposizioni che invece permettano in modospecifico il whistle-blowing, provvedendo alla sua tute-la e all’autorizzazione delle ricompense monetarie dadestinare agli informatori. Una possibilità è che i diri-genti venali e corrotti della società impediscano di per-fezionare disposizioni costitutive di questo genere alfine di scoraggiare i whistle-blower dal rivelare i loroilleciti. Tuttavia, questa interpretazione è molto invero-simile per la semplice ragione che devono indubbia-mente esserci anche dirigenti onesti all’interno dellasocietà che vorrebbero vedere scoperte frodi e malefat-te; questi dirigenti onesti sarebbero in grado di dimo-strare la propria integrità occupandosi della sicurezzadei posti di lavoro e delle ricompense ai whistle-blower.In altre parole, mentre i dirigenti corrotti e venali siopporrebbero a premiare gli informatori, i dirigentionesti non lo farebbero, soprattutto se avessero la pos-sibilità di ricorrere a un meccanismo che li distinguessedai dirigenti disonesti. Dunque, se non deve stupire chealcune società decidono di non provvedere a questotipo di protezione, è comunque abbastanza curioso con-statare che nessuna società vi abbia mai provvedutoprima che la Sarbanes-Oxley lo imponesse.

La legge federale Sarbanes-Oxley del 2002 contienedue serie di disposizioni rivolte alle questioni cheriguardano i whistle-blower. La prima serie è prevista

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dall’articolo 301, che impone ai comitati di revisionedei consigli di amministrazione di istituire delle pro-cedure interne che riguardano il whistle-blowing con-formemente alla Rule 10A-3 del Securities ExchangeAct, la legge relativa all’emissione e alla negoziazionedei titoli mobiliari. Il secondo gruppo di disposizioniè racchiuso nell’articolo 806 della suddetta Sarbanes-Oxley e va ad aggiungere ulteriori tutele dedicate aiwhistle-blower a quelle già previste dal Titolo 18 dellaraccolta delle leggi federali statunitensi, nota comeU.S. Code.

La Rule 10A-3 del cosiddetto Exchange Act imponealla Borsa valori di New York, al NASDAQ e ad altriorganismi di autoregolamentazione del mercato azio-nario di obbligare i comitati di revisione delle societàquotate in Borsa a istituire procedure formali perrispondere alle denunce dei whistle-blower su contro-versie nell’ambito della gestione amministrativa e dellarevisione dei conti. I comitati di revisione devono intro-durre delle procedure per trattare sia le denunce ester-ne provenienti da qualsiasi fonte, sia le denunce deidipendenti. Le società devono inoltre predisporre unmeccanismo idoneo ad accogliere e a elaborare i dubbiesposti in modo confidenziale o anonimo dai dipen-denti in materia di contabilità o di revisione dei contiritenute discutibili.

L’articolo 806 della Sarbanes-Oxley fissa una serie diprotezioni per i dipendenti-whistle-blower che lancinol’allerta su certe forme di illecito aziendale. Essa prov-vede a proteggere ogni dipendente che agisca in unodei seguenti modi: (a) presenziando, rilasciando unatestimonianza, partecipando o altrimenti collaborandoin un qualsiasi procedimento collegato a una presuntaviolazione delle leggi postali, telematiche, bancarie ofinanziarie; oppure (b) fornendo informazioni o colla-borazione nelle indagini relative a un tipo di condottache il dipendente «abbia ragione di ritenere» in viola-zione alle leggi postali, telematiche, bancarie o finan-ziarie. I dipendenti vengono tutelati dall’articolo 806 sesottopongono l’informazione all’attenzione di un ente

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federale di regolamentazione, delle forze dell’ordine, diun qualsiasi membro o commissione del Congresso, diuna qualsiasi persona con autorità di supervisione suldipendente stesso, o di qualsiasi altra persona che dis-ponga «dell’autorità di indagare, portare alla luce eporre fine all’illecito». Inoltre l’articolo 806 proibisce dilicenziare, degradare, sospendere, minacciare, perse-guitare o discriminare i dipendenti che presentino unadenuncia al segretario del lavoro, proprio a causa ditale comportamento. I rimedi legali previsti per le vio-lazioni ai sensi dell’articolo 806 includono la riassun-zione, il pagamento arretrato degli stipendi con gli inte-ressi e il rimborso delle spese legali.

Altrettanto curioso è il fatto che le società cheriemergono da una bancarotta, le società ammesse perla prima volta alla quotazione in Borsa e le societàfinanziate originariamente con capitali di rischio nontentino di migliorare il proprio accesso ai mercati dicapitale e le condizioni del loro primo finanziamentointroducendo delle protezioni a tutela dei whistle-blo-wer come quelle previste dalla legge Sarbanes-Oxley.Con ogni probabilità tali misure non vengono adottatedalle società perché non danno valore aggiunto agliazionisti. Sarebbe però un’esagerazione asserire che iprovvedimenti a tutela dei whistle-blower non produ-cano benefici; sembra più verosimile, piuttosto, che lesocietà decidano a loro discrezione di non introdurreprotezioni a tutela dei whistle-blower perché il costo dimantenerle ne supererebbe il vantaggio.

Un costo significativo derivante dall’istituzione diprotezioni a favore dei whistle-blower del tipo descrit-to nella Sarbanes-Oxley è quello della valutazione diuna denuncia presentata dal whistle-blower. Soprattut-to quando entrano in gioco le ricompense – come rile-vato più sopra – è probabile che ci si trovi di fronte amolte denunce false per ogni denuncia vera. Il rischiodi vedere inoltrate denunce false è più grave quando cisono ex dipendenti insoddisfatti, soprattutto se licen-ziati, che potrebbero verosimilmente fare denunce dawhistle-blower per ottenere una reintegrazione e/o gli

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arretrati.94 È probabile inoltre che i dipendenti licenzia-ti tentino di rivalersi nei confronti dei loro ex supervi-sori, in particolare di chi si è reso responsabile del lorolicenziamento.95

La preoccupazione relativa alle false denunce dawhistle-blower trova riscontro anche in alcune disposi-zioni della stessa Sarbanes-Oxley, la quale impone allaOSHA, l’agenzia europea per la sicurezza e la salute sullavoro, di respingere senza alcuna indagine le denuncedi whistle-blowing, a meno che il querelante non sia ingrado di produrre una «prova prima facie», ossia unapresunzione semplice, che le sue attività di whistle-blo-wing siano state almeno in parte un «fattore concorren-te» all’azione sfavorevole intrapresa nei suoi confrontida parte dell’ufficio del personale. Sebbene il querelan-te riesca a produrre questa presunzione semplice, laSarbanes-Oxley non permette alla OSHA di investigare«qualora il datore di lavoro riesca a dimostrare, con unaprova chiara e convincente, che avrebbe attuato la stes-sa iniziativa nei confronti di quel dipendente anche sequesti non si fosse comportato così».

Gli elevati costi da sostenere per indagare le rivela-zioni dei whistle-blower e i problemi delle false denunceo delle denunce fatte per ritorsione, insieme a quella chepotrebbe essere, effettivamente, una ridotta incidenzagenerale delle frodi societarie, rende plausibile il fattoche le spese di un provvedimento a favore del whistle-blowing ne superino i benefici. Il costo sembra essere lamigliore spiegazione del perché le società non abbianoprovveduto a introdurre misure a tutela dei whistle-blo-wer simili a quelle ora previste dalla Sarbanes-Oxleyprima che venissero loro imposte per legge.

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Corporate governance

9944.. Il problema di riuscire a discernere le denunce dei whistle-blower èaccentuato dal fatto che questi ultimi sono spesso personaggi stravaganti, conpersonalità in conflitto con i loro supervisori.

9955.. Non ci si stupisce quindi che i whistle-blower siano visti come indivi-dui di moralità ambigua. «Alcuni considerano il whistle-blowing una formaestrema di trasparenza; altri, un comportamento antipatico da parte di impie-gati frustrati e un atto di slealtà verso l’azienda». American Society for PublicAdministration, “Position Statement on Whistle-blowing”, http://www.iit.-edu/departments/csep/codes/coe/aspa-a.html, consultato 12 dicembre 2005.

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IX. Whistle-blowing e insider trading non sono formedi ricatto

Come il whistle-blowing e l’insider trading, anchele richieste di denaro per ricatto dimostrano il tentati-vo di “trafficare” con la proprietà intellettuale. Nellospecifico, tutte e tre le pratiche riguardano un’infor-mazione che qualcuno vuole nascondere e qualcunaltro rivelare. Gli studiosi si sono spesso dilungati neltentativo di spiegare i danni del ricatto96 e io nonvoglio certo aggiungere altro alle teorie esistenti suquanto il ricatto sia diverso o simile ad altri reati. Laragione principale per cui il ricatto pone agli studiosiun problema analitico è che concerne la combinazionedi due atti – la minaccia di rivelare un segreto e larichiesta di denaro per mantenere (presumibilmente)quel segreto – nessuno dei quali è illegale se preso sin-golarmente. Il punto per me importante è, invece, cheil ricatto non offre gli stessi benefici e lo stesso valoreaggiunto dell’insider trading e del whistle-blowing. Inparticolare, mentre il whistle-blowing e l’insider tra-ding conducono inevitabilmente alla scoperta e allarivelazione di un comportamento patologico, il paga-mento e l’accettazione di un ricatto perpetuano l’oc-cultamento di una condotta inaccettabile. Ciò suggeri-sce che il ricatto è una pratica meno desiderabile del-l’insider trading o del whistle-blowing. Mentre l’insi-der trading e un whistle-blowing efficace portano allosmascheramento dell’illecito, un ricatto conduce soloal protrarsi della dissimulazione.97

I ricattatori sono a ragione considerati sordidi e cor-rotti, la loro condotta è decisamente illegale. Per contro,i whistle-blower sono a volte apprezzati perché corag-

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Forme di governance non convenzionale

9966.. Henry E. Smith, “The Harm in Blackmail”, Northwestern Law Review, 92,1998, p. 861; James Lindgren, “Unraveling the Paradox of Blackmail”, Colum-bia Law Review, 84, 1984, p. 670; Jennifer Gerarda Brown, “Blackmail as Pri-vate Justice”, University of Pennsylvania Law Review, 241, 1993, p. 1935.

9977.. Questo non significa che il ricatto non abbia i suoi vantaggi. Fintantoche la possibilità di un ricatto riesce a fungere da deterrente di comporta-menti scorretti, vi sono dei vantaggi. Tuttavia, i costi sociali del ricatto supe-rano di gran lunga i vantaggi privati.

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giosi e altruisti; gli insider trader, considerati in modoun po’ più ambivalente rispetto ai whistle-blower, sem-brano invece attestarsi su una posizione di ordinemorale che oscilla in qualche luogo imprecisato tra iricattatori e i whistle-blower.

I dipendenti o le persone molto vicine alla società chesospettano o sanno di un illecito aziendale in atto posso-no reagire in tre modi: con il whistle-blowing, con l’insi-der trading o con il ricatto. L’insider trading su informa-zioni riguardanti un illecito societario è più simile alwhistle-blowing che non al ricatto: diversamente dalricatto, per avere successo l’insider trading che poggiasull’informazione di un illecito societario ha bisogno chel’informazione sottostante venga rivelata, altrimenti ilprezzo delle azioni della società implicata nell’illecito nonscenderebbe e l’insider trader non guadagnerebbe nullanegoziando le sue azioni. Al contrario, una strategia ricat-tatoria che voglia produrre un guadagno per il ricattato-re deve celare per sempre quell’informazione. L’insidertrading su un’informazione di whistle-blowing, come delresto lo stesso whistle-blower, porterebbero a rivelare l’in-formazione sull’illecito in atto nella società.

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Corporate governance

Definizione

Tabella 12-1Confronto funzionale tra whistle-blowing, insider trading e ricatto

Preesistente relazione contrattuale o quasi-contrattuale di fiducia

Violazione dei doveri fiduciari in caso di insider trading/ whistle-blowing/ ricatto

Whistleblowing

No

Insider trading

No

Ricatto

No

Ripercussioni dell’informazione sui corsi azionari

Sì Sì No

No

Motivazioni di chi agisce

Intermediari dell’informazione

Disparità distributiva degli effetti indotti

Molto varie

Molto varie

Venali

No

Conseguenti misure correttive Sì Sì No

No

Problema del de minimis No Sì

Problemi di accertamento e di verifica Sì No Sì

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Di sicuro, non si deve condonare qualsiasi tipo diinsider trading, piuttosto il contrario. L’analisi finoracondotta si riferisce solo a un ristretto sottoinsieme diinformazioni interne alla società: informazioni cheriguardano un illecito aziendale e che potrebbero esse-re considerate una giusta causa per ricorrere al whistle-blowing. Negoziare titoli in Borsa sulla base di infor-mazioni riservate riguardanti notizie societarie legitti-me, buone o cattive che siano, invece, è – e dovrebbecontinuare a essere – illegale. Vietare questo tipo di insi-der trading è utile perché tutela importanti diritti diproprietà sull’informazione. Le società disoneste e imalfattori al loro interno, invece, non possono nutriredelle aspettative legittime che facciano appello al dirit-to di proprietà quando si tratta di mantenere confiden-ziale un’informazione su un illecito societario in atto.Consentire la pratica dell’insider trading su questo par-ticolare tipo di informazione significherebbe, in nume-rosi e diversi contesti, offrire un ottimo incentivo perscovare e portare alla luce gli illeciti societari.

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Oltre ai consigli di amministrazione e al mercato delcontrollo societario, la possibilità per gli azionisti diesprimere il proprio voto all’interno delle società quo-tate, anche se solo di tanto in tanto, è stata stranamenteconsiderata uno strumento in grado di migliorare lacorporate governance, almeno in termini potenziali.Secondo questa tesi – dominante tra gli accademici e trai responsabili delle decisioni politiche – se agli azionistifossero concessi più articolati e più frequenti diritti divoto, la performance e la trasparenza aziendali potreb-bero ulteriormente migliorare.1 Eppure non manca chidissente vigorosamente: alcuni sostengono che, proba-bilmente, gli azionisti votano già fin troppo2 mentrealtri sono dell’avviso che le norme sul voto siano effi-cienti così come sono.3

Questo capitolo si apre con una breve descrizione eanalisi delle norme che regolano il voto degli azionisti.Avrò modo di argomentare che se il voto non reca agliazionisti gravi danni, d’altro canto non porta loro nem-meno grandi benefici. Il voto è utile agli azionisti nelle

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Capitolo 13

Il voto degli azionisti

11.. Lucian A. Bebchuk, “The Myth of the Shareholder Franchise”, VirginiaLaw Review, 93, 2007, p. 105.

22.. Stephen Bainbridge, “The Case for Limited Shareholder Voting Rights”,UCLA Law Review, 53, 2006, p. 616.

33.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “Voting in Corporate Law”, p.402.

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battaglie per il controllo della società o per esprimere ilproprio dissenso nel caso di gravi crisi di corporategovernance; ma sembra irrazionale pensare che l’am-pliamento del voto degli azionisti possa davveromigliorare la governance e la gestione quotidiana diuna società quotata con un azionariato ampiamente dif-fuso. Semplicemente, gli azionisti non hanno né leinformazioni né la predisposizione necessaria per com-prendere bene quanto sta accadendo all’interno dellasocietà ed essere utili al management. È piuttosto signi-ficativo che quasi tutti gli azionisti, persino le grandiistituzioni quali i fondi pensione, i fondi comuni diinvestimento e le compagnie d’assicurazione, detenga-no portafogli titoli molto diversificati: calarsi nellagestione operativa e strategica dell’attività delle societàin cui hanno investito al punto da poter partecipareall’attività decisionale con cognizione di causa non soloè illogico, è addirittura impossibile. Nello scenariomoderno, in cui i fondi detengono azioni in migliaia disocietà diverse, il costo per i clienti di un eventualecoinvolgimento nella corporate governance sarebbetale da rendere questi fondi non più competitivi.

Fino a quando i fondi comuni di investimento e ifondi pensione continueranno a possedere azioni in unnumero tanto elevato di società, avrà più senso per lorotenersi aggiornati solo sulle questioni più importanti,quali eventuali acquisizioni o altri cambiamenti di rilie-vo nell’assetto societario. Per trovare il tempo di tenersiadeguatamente aggiornati sulle proprie società in porta-foglio devono ridurre il numero delle società nel porta-foglio stesso. La maggior parte degli hedge fund e dellesocietà di private equity perseguono esattamente questastrategia, come avremo modo di vedere nel capitolo 15.Gli hedge fund e le società di private equity detengonopacchetti azionari più consistenti in un numero minoredi società rispetto ai fondi comuni di investimento equesta struttura proprietaria legittima un loro coinvol-gimento nella corporate governance. Tuttavia, il votoformale non è utile per gli hedge fund e i fondi di pri-vate equity, mentre è molto più ragionevole ed efficace

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Corporate governance

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partecipare attivamente all’attività decisionale in azien-da, in tempo reale. Il momento in cui si vota per ratifi-care una decisione di maggiore portata, quale per esem-pio un’acquisizione o una dismissione, è troppo avan-zato perché il contributo degli investitori possa portarevalore aggiunto. Alla luce dei fatti, gli investitori esternipiù sofisticati non si esprimo tramite il voto quandodecidono di intervenire nella corporate governance, masi introducono nei processi decisionali quotidiani dellasocietà in modo sistematico e continuativo.

A mio parere, l’impianto legislativo della legge sulvoto agli azionisti non necessita di grandi cambiamen-ti. Certo, il sistema è lungi dall’essere perfetto e alcunidettagli importanti andrebbero aggiustati. Per esempio,sarebbero da riformare sia la facoltà del management dicontrollare la tempistica delle elezioni sia le normefederali che regolano la sollecitazione delle deleghe divoto, perché non giovano agli interessi degli azionisti.

Inoltre, il fatto che, con ogni probabilità, gli azionistinon riescano a influire in modo efficace sulla corporategovernance solo esercitando i propri diritti di voto meri-ta due importanti precisazioni analitiche. Innanzitutto, èfondamentale chiarire che ai fini della politica aziendalenon è importante stabilire l’efficacia degli azionisti perla corporate governance in termini pressoché astratti. Ladomanda è piuttosto quanto sia efficace per la corpora-te governance il ruolo degli azionisti rispetto a istituzio-ni alternative di corporate governance quali i consigli diamministrazione o il management. Così, se gli azionistisono troppo poco informati e comunque inesperti perprendere decisioni gestionali o strategiche riguardanti lesocietà nelle quali hanno investito, hanno invece la virtùdi essere mossi dagli incentivi giusti.

Gli azionisti non devono affrontare i problemi colle-gati ai conflitti di interessi che contaminano i processidecisionali del management o dei consigli di ammini-strazione, per loro natura abitualmente troppo docili easserviti, come già illustrato nei capitoli precedenti.Dove vi sia da scegliere tra la carenza di informazionidegli azionisti e l’interesse egoistico del management, il

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diritto societario dovrebbe optare per gli azionisti,dando a loro l’ultima parola in fatto di corporate gover-nance. Le acquisizioni sono forse l’esempio più para-digmatico del problema cruciale della corporate gover-nance, cioè il braccio di ferro per “decidere chi debbadecidere” tra gli azionisti e il management.

In secondo luogo, è apprezzabile distinguere tra que-stioni di corporate governance “generiche” e questionidi corporate governance “specifiche dell’azienda”. L’os-servazione per cui gli azionisti con un portafoglio d’in-vestimento diversificato non troverebbero abbastanzaefficiente tenersi sufficientemente informati per interve-nire nella corporate governance delle società in cuihanno investito, vale solo per le questioni di corporategovernance definite “specifiche dell’azienda”, cioè inquei casi unici e particolari collegati a circostanze carat-teristiche di una singola società o dei suoi titoli. Sono daconsiderarsi specifici di una singola azienda, per esem-pio, i casi in cui si debba decidere se confermare o menoun CEO o un CFO, oppure se la società debba acquisireo cedere determinate attività, quali una controllata ouna divisione. In generale, si può affermare che il votodegli azionisti non è probabilmente destinato a essereuno strumento di corporate governance efficace perprendere decisioni in questo tipo di situazioni.

Al contrario, invece, una questione “generica” dicorporate governance è una tematica che riguarda lapolitica d’impresa in senso più ampio, quella che vero-similmente potrà influire sul valore di tutte le società inun qualsiasi portafoglio. Per esempio, l’opportunità diricorrere a un particolare dispositivo anti-scalata qualeuna poison pill (vedi capitolo 8) è presumibilmente unproblema uguale per tutte le società. Per questioni dicorporate governance così generiche e trasversali almercato si rivelerà probabilmente più efficiente per gliazionisti con un portafoglio diversificato tenersi beneinformati, perché le risorse investite nell’analisi appro-fondita dei diversi strumenti anti-scalata potrannoessere spalmati su tutte le società quotate nel portafo-glio dell’investitore.

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Corporate governance

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Leggi e principi economici del voto degli azionistiStephen Bainbridge della UCLA ha succintamente

definito le leggi relative al voto degli azionisti «cosìdeboli da essere poco rilevanti ai fini della corporategovernance».4 Coerente con questa analisi è l’elencodavvero esiguo delle voci per le quali gli azionistihanno il diritto di votare. Gli azionisti votano annual-mente in occasione delle elezioni degli amministratori,per approvare emendamenti all’atto costitutivo dellasocietà ed eventuali cambiamenti societari sostanziali,quali per esempio una fusione, lo scioglimento dellasocietà e l’alienazione di tutte le attività societarie oquasi. È disorientante che azionisti e amministratoriabbiano ugualmente il potere di votare per le modificheallo statuto sociale: si pone un difficile quesito giuridi-co sulla possibilità che il voto degli azionisti in meritoallo statuto possa ribaltare una decisione presa dal con-siglio di amministrazione sullo statuto stesso.

Anche se il voto degli azionisti è limitato a pochiambiti, questa non è l’unica, e forse nemmeno la piùsignificativa delle restrizioni poste all’impatto che ilvoto degli azionisti può avere. Un ulteriore importantevincolo all’efficacia pratica del voto degli azionisti èlegato al problema del vaglio da parte del consiglio diamministrazione. Prima ancora che un’istanza vengasottoposta all’approvazione degli azionisti, deve supe-rare il vaglio del consiglio di amministrazione ed esse-re approvata. Le uniche eccezioni a questa regola, chenon richiedono la previa approvazione del consiglio,sono costituite dalle disposizioni per eleggere gli ammi-nistratori e per emendare lo statuto sociale. Alcuni diri-genti avidi hanno tentato di limitare ulteriormente ilprocesso di elezione cercando di filtrare i candidati deigruppi esterni. Anche se questo tipo di pratica è proba-bilmente illegale, viene comunque messa in atto impo-nendo a tutti i candidati, nominati per la carica diamministratore, di essere prima accreditati dal comita-

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44.. Stephen M. Bainbridge, “The Case for Limited Shareholder VotingRights”, p. 105.

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to di nomina del consiglio di amministrazione in carica.Vista la loro dubbia legittimità, queste disposizionidimostrano fino a che punto alcune società siano dis-poste a spingersi per ostacolare ogni tentativo esternodi assumere il controllo della società.

Forse la più importante caratteristica di corporategovernance legata al diritto di voto degli azionisti è ilruolo chiave svolto nel promuovere il mercato del con-trollo societario.5 Una considerazione che, da sola, bastaa spiegare perché gli azionisti attribuiscano tanto valo-re al diritto di voto. Il voto degli azionisti agevola leacquisizioni in diversi modi. Quando un potenzialeacquirente esterno lancia un’offerta d’acquisto per unaquota azionaria all’interno della società bersaglio, èinteressato solo ad acquisire le azioni che abbiano dirit-to di voto. È infatti esercitando il voto abbinato all’azio-ne acquistata che l’offerente ottiene il potere necessarioper assumere il controllo della società target.6 Così, ogniatto volto a diluire il potere di voto delle azioni riducecontemporaneamente le probabilità che gli azionistiricevano il consistente premio associato all’offerta d’ac-quisto e pertanto abbatte il valore dell’azione.

Il voto degli azionisti ha inoltre assunto un’impor-tanza crescente dal momento in cui il moderno arsena-le di difese anti-scalata, in particolare le poison pills, hadrasticamente ridotto le probabilità di successo di unascalata ostile. I potenziali offerenti esterni hanno sem-pre più spesso sviluppato strategie di scalata che con-templino al tempo stesso l’offerta d’acquisto per leazioni della target e una battaglia delle deleghe perassumere il controllo del suo consiglio di amministra-zione. Con una minoranza anche esigua di posizioninel consiglio, i potenziali acquirenti possono almenodiscutere come accrescere il valore della società e pos-sono battersi per rimuovere la poison pill. Va da sé che i

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Corporate governance

55.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure of Cor-porate Law, p. 70.

66.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, The Economic Structure of Cor-porate Law, p. 70.

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voti degli azionisti sono essenziali per riuscire a presi-diare posizioni all’interno del consiglio di amministra-zione e predisporre così la piattaforma ideale per lan-ciare la scalata.

Temi da sottoporre al voto degli azionisti: questionigeneriche, questioni rilevanti e beni pubblici

Le norme interne di corporate governance che limi-tano le battaglie delle deleghe tra liste rivali sono facil-mente difendibili. Effettivamente è più facile a dirsi chea farsi, e gli azionisti non hanno modo di verificare seun nuovo management scelto da un gruppo vittoriosodi candidati esterni alle poltrone del consiglio di ammi-nistrazione sarà migliore o peggiore di quello in carica.Il problema si risolve collegando i diritti di voto al pos-sesso di azioni, ma questo si pone anche sul piano eco-nomico perché il voto nelle battaglie delle deleghediventa un bene pubblico. Di conseguenza, i candidatiesterni godono di pochi incentivi credibili per migliora-re il funzionamento della società di cui intendonodiventare amministratori, salvo che possiedano azionidella società stessa. Questi candidati e i loro sostenitorisi accollano tutti i costi connessi alla presentazione diun’offerta esterna, senza tuttavia godere di nessunbeneficio, se non in veste di azionisti.

Il problema del voto come bene pubblico che afflig-ge gli offerenti è ben rispecchiato dai problemi di azio-ne collettiva affrontati dagli azionisti. Nella maggiorparte delle società per azioni statunitensi, la proprietà èfortemente frammentata e nessun azionista singolo puòcontare sul fatto che il suo voto sia determinante per ilrisultato. Quindi, anche se una particolare elezionepotrà incidere notevolmente sulla ricchezza di ciascunazionista, nessun singolo azionista è veramente moti-vato a investire per informarsi sull’elezione, perché l’e-sito sarà lo stesso a prescindere dal fatto che un parti-colare votante decida o meno di parteciparvi.7

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77.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “Voting in Corporate Law”, p.402.

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Frank Easterbrook e Daniel Fischel ampliano questopunto fondamentale, osservando che se una data ele-zione ha un valore di 1000 dollari per azione, il titolaredi una sola azione non sarà incentivato a investire piùdi 1000 dollari per ottenere ed elaborare tutti i datinecessari per informarsi.8 Se la società ha 1000 azionisti,l’investimento aggregato ottimale in informazioni saràdi 1 milione di dollari, così probabilmente l’investimen-to marginale di 1000 dollari del nostro azionista risulte-rà insufficiente.

Naturalmente, questi problemi di azione collettivasono mitigati da una serie di fattori. I grandi investitoriche concentrano i loro interessi nella società bersagliosono maggiormente motivati a investire, sia perché perloro il risultato di un’elezione sarà più importante in ter-mini monetari, sia perché è più probabile che i loro votiabbiano un peso. Quindi, va da sé che gli azionisti, inparticolare i maggiori, desiderino votare su questionirilevanti che riguardano le società in cui hanno investito.

In generale, il diritto societario vigente è coerentecon questa analisi e prevede uniformemente che gliazionisti votino solo sui cambiamenti societari fonda-mentali, e non su questioni di gestione ordinaria. Que-ste norme giuridiche riflettono la realtà economica: nonè razionale in termini economici che gli azionisti votino,se non su questioni molto importanti, per le quali valela pena effettuare l’investimento richiesto per prendereuna decisione informata.

Tuttavia, questa analisi è gravemente incompleta, per-ché ignora il fatto molto concreto che gli aventi diritto divoto spesso sono chiamati a votare ripetutamente sullestesse questioni e per gli stessi candidati nelle diversesocietà in cui hanno investito. Quando un azionista è ingrado di ammortizzare il costo dell’investimento per ilsuo voto spalmandolo su una serie di altri voti, magariperché i candidati sono sempre gli stessi o perché sono ingioco le stesse questioni importanti, il calcolo cambia

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88.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “Voting in Corporate Law”, p.402.

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enormemente. Anzi, per i singoli votanti diventa efficien-te informarsi anche su questioni di minore importanza,quando sono generiche e riguardano numerose aziende.Per esempio, nel noto esempio di Easterbrook e Fischelappena citato, dove una data elezione avrà un effetto di1000 dollari su ciascuna azione, i due autori ipotizzanoche «possa essere adeguato un singolo investimento inconoscenza per un valore di 10.000 dollari».9 In tal caso,non saranno solo gli azionisti che possiedono almenodieci azioni a essere incentivati a investire una sommaadeguata per le informazioni necessarie, ma anche i pos-sessori di un’unica azione che abbiano effettuato un inve-stimento analogo in altre nove società dove è probabileche si presenti la stessa questione.

Riconoscendo l’importanza della ricorrenza di que-stioni e candidati, occorre riformulare i famosi modellidell’ignoranza razionale, o apatia dei votanti, elaboratida teorici quali Anthony Downs, Mancur Olson eJoseph Schumpeter10 nel contesto societario, per tenerconto della ripetizione di candidati (che sono contem-poraneamente membri di diversi consigli di ammini-strazione) e di temi. Nella mia analisi sono di particola-re interesse questioni come gli strumenti anti-scalata,quali le poison pills, che riguardano genericamente tuttele società. In questo caso, è evidente che il classicomodello dell’apatia dei votanti non si applica, in parti-colare per investitori come fondi comuni e fondi pen-sione, che detengono partecipazioni in centinaia e tal-volta migliaia di società.

Per questo motivo, i tentativi degli azionisti di otte-nere un maggiore potere di voto in materia di acquisi-

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99.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “Voting in Corporate Law”, p.402.

1100.. Vedi Anthony Downs, An Economic Theory of Democracy, New York,Harper, 1957 [ed. it., Teoria economica della democrazia, Bologna, il Mulino,1988]; Mancur Olson, The Logic of Collective Action: Public Action and theTheory of Groups, Cambridge MA, Harvard University Press, 1971 [ed. it., Lalogica dell’azione collettiva: i beni pubblici e la teoria dei gruppi, Milano, Fel-trinelli, 1983]; Joseph A. Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy,quinta edizione, Londra, Allen and Unwin, 1976 [ed. it., Capitalismo, socia-lismo e democrazia, Milano, Edizioni di Comunità, 1955].

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zioni dovrebbero essere trattati con meno scetticismo diquanto non sia stato fatto finora. I tribunali del Delawa-re, per esempio, non solo hanno convalidato il ricorsoalle poison pills ma sono anche estremamente riluttanti alimitarne l’uso, persino in casi eclatanti.11 I tribunalidegli altri Stati esitano a concedere agli azionisti il dirit-to di votare sull’adozione iniziale delle poison pills, oanche di votare per annullare un’operazione di questotipo approvata da un consiglio di amministrazione.

Dal 1998, gli azionisti tentano di indurre i tribunaliad approvare delle clausole di regolamento, note come“diritti degli azionisti”, che impongono delle limitazio-ni all’uso di poison pills, di solito richiedendo il votodegli azionisti. Per fare un esempio, in una prima ver-sione dello strumento della pillola avvelenata, l’investi-tore attivista Guy P. Wyser-Pratte, che possedeva azionidella Pennzoil, propose che gli azionisti approvasserouna clausola ai sensi della quale una poison pill dellaPennzoil sarebbe decaduta dopo novanta giorni se ilmanagement non avesse ottenuto l’approvazione degliazionisti in merito all’uso continuato dello strumentoper bloccare un’acquisizione. All’epoca della proposta,la Pennzoil aveva combattuto energicamente controun’offerta d’acquisto della Union Pacific ResourcesGroup, Inc. Il consiglio della Pennzoil utilizzò la pillolaavvelenata «solo per dire no» all’offerta, prolungandolapoi fino alla scadenza dell’offerta. La proposta di Wyser-Pratte si applicava solo nel caso in cui una società conuna poison pill (in questo caso, la Pennzoil) avesse rice-vuto un’offerta per l’acquisto del 100 per cento delleazioni ordinarie con un premio del 25 per cento sul prez-zo di mercato.12 In questo scenario, un consiglio diamministrazione potrebbe continuare a utilizzare unapoison pill per bloccare un’offerta, ma solo per novantagiorni, a meno che gli azionisti non ne approvino l’uti-

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1111.. Mark Roe, Strong Managers,Weak Owners: The Political Roots of Ameri-can Corporate Finance, Princeton, Princeton University Press, 1996, p. 162.

1122.. Jonathan R. Macey, “Manager’s Journal: A Poison Pill That Sharehol-ders Can Swallow”, Wall Street Journal, 4 maggio 1998, A22.

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lizzo prolungato. Più recentemente, Lucian Bebchuk, unprofessore di diritto titolare di 140 azioni della CA, Inc.(ex Computer Associates), ha citato in giudizio la CAper obbligarla ad approvare un regolamento che impe-disse l’adozione di poison pills di durata superiore a unanno, salvo approvazione degli azionisti.13

Nessun tribunale del Delaware ha affrontato la que-stione della legalità del regolamento sui diritti degliazionisti. Dirigenti e avvocati anti-scalate sostengonoche secondo la legge del Delaware queste clausole sonoillegali. Inspiegabilmente, la SEC ha appoggiato questaposizione, sostenendo che, ai sensi di varie disposizio-ni di legge del Delaware, gli amministratori possiedonovirtualmente i pieni poteri per gestire la società e crea-re nuove categorie di azioni e altri titoli. Nello specifi-co, ai sensi dell’articolo 141(a) del Codice del Delaware,l’attività e gli affari di una società s’intendono gestiti daun consiglio di amministrazione o sotto la sua direzio-ne. Inoltre, ai sensi dell’articolo 157 del Codice del Dela-ware, non solo le società hanno facoltà di creare edemettere diritti o opzioni che danno titolo agli azionistidi acquistare azioni della società di qualsivoglia classe,ma gli amministratori hanno anche il potere di definirele condizioni di emissione dei titoli e di decidere l’e-ventuale corrispettivo dovuto alla società per le azioni.Tecnicamente, questo è precisamente ciò che fanno gliamministratori quando creano la nuova classe di azioniprivilegiate che costituisce la poison pill.

In un’operazione di poison pill, il consiglio di ammi-nistrazione della società bersaglio crea una nuova clas-se di azioni privilegiate con diritti limitati e le distribui-sce agli azionisti ordinari. Questa nuova classe di azio-ni conferisce agli azionisti il diritto di acquistare azionidella società a un prezzo fortemente scontato, qualoraun terzo “inneschi la pillola” acquistando una certapercentuale di titoli con diritto di voto della società.Una volta che la pillola è innescata, la diluizione delvalore delle azioni di un potenziale acquirente fa

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1133.. Vedi Bebchuk v. CA, Inc., 902 A.2d 737, Del. Ch. 2006.

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aumentare notevolmente i costi per l’offerente, per cuisolitamente l’acquisizione diventa proibitiva a menoche la pillola non venga ritirata. Il consiglio di ammini-strazione si riserva l’opzione di riscattare la pillola (leazioni emesse) per un corrispettivo nominale, e in que-sto modo può approvare un’offerta senza aumentare inmisura proibitiva il costo dell’acquisizione. Tuttavia,finché il consiglio non decide di riscattare la pillola, lasua esistenza funge da deterrente per le acquisizioni. Lescalate di società con un piano di poison pill non sonomai riuscite, salvo nei casi in cui la società target accet-tava volontariamente di riscattare la pillola.

Le poison pills non dovrebbero essere adottate seprima non sono sottoposte al voto degli azionisti.14 Lemodifiche ai regolamenti sui diritti degli azionistihanno finalità di tutela e sono intese a promuovere laresponsabilità secondo modalità che dovrebbero essereavallate dal diritto societario:

(1) simili regolamenti non richiedono l’impiego difondi societari, né impongono l’adozione di misureproattive (anzi, possono economizzare su tattichedifensive costose); (2) inoltre, non interferiscono con“decisioni di ordinaria amministrazione”, secondo ilsignificato normalmente attribuito all’espressione,perché una poison pill rappresenta una decisione finan-ziaria fondamentale che non incide sulle attività quo-tidiane “ordinarie”; e (3) le modifiche ai regolamentiservono a proteggere gli interessi degli azionisti su unpiano di interesse vitale, vale a dire la commerciabili-tà delle loro azioni, perché poison pills e i piani deidiritti degli azionisti restringono necessariamente ilcampo degli acquirenti ammissibili, influendo quindisulla commerciabilità delle azioni.15

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1144.. Jonathan R. Macey, “The Legality and Utility of the Shareholder RightsBylaw”, Hofstra Law Review, 26, 1988, p. 835.

1155.. John C. Coffee Jr., “The Bylaw Battlefield: Can Institutions Change theOutcome of Corporate Control Contests?”, University Miami Law Review,51, 1997, p. 613, dove si analizza la facoltà degli azionisti di impedire almanagement di resistere alle battaglie per il controllo societario tramite emen-damenti ai regolamenti aziendali.

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Un ulteriore punto critico è il fatto che il regolamentosui diritti degli azionisti è un esempio tipico di uno stru-mento di voto di natura generica. In un mercato del con-trollo societario vigoroso, gli azionisti di società oggettodi acquisizioni ostili possono ammortizzare il loro inve-stimento approvando o disapprovando uno strumentodi corporate governance come il regolamento sui dirittidegli azionisti con riferimento a tutte le società del por-tafoglio, riducendo così notevolmente il problema dell’a-patia razionale individuato da Anthony Downs e altri.

Questa soluzione al problema dell’ignoranza razio-nale può contribuire a spiegare certi misteri del dirittosocietario e forse anche della normale politica. Prendia-mo per esempio il dato di fatto che chi è in carica godedi un enorme vantaggio sugli sfidanti. Poiché i dirigen-ti in carica sono entità note, sicure e con una certaavversione per il rischio, gli azionisti preferiranno i latinegativi già noti di chi è in carica piuttosto che gli svan-taggi (e i lati positivi) ignoti di esterni. Per dirla cinica-mente, i votanti sanno quanto rubano di solito i diri-genti attuali, e i nuovi potrebbero rubare anche di più.

Naturalmente, la “soluzione dell’ammortizzazione”per il problema dell’apatia razionale non implica che ilvoto sia perfetto o quasi. Questa soluzione funzionasempre meglio man mano che una particolare questio-ne diventa più generica. Ma supponiamo, com’è indub-bio, che per alcune società sia meglio adottare una poi-son pill, mentre per altre sia meglio il contrario. Per gliazionisti è preferibile la poison pill se i vantaggi deri-vanti dal prezzo più elevato pagato dagli offerenti nelnegoziare con la direzione della società target superanoi costi associati alla riduzione della probabilità chevenga mai fatta un’offerta per la società. D’altro canto,per gli azionisti sarà preferibile evitare misure di poisonpill se il valore del premio che la pillola aggiungerebbea un’offerta futura è inferiore al valore associato allamaggiore probabilità di un’offerta esterna.16

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1166.. David D. Haddock - Jonathan R. Macey - Fred S. McChesney, “Pro-perty Rights in Assets and Resistance to Tender Offers”, Virginia Law Review,73, 1987, p. 701.

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Quindi votare in ogni caso per l’attuazione di unapoison pill può essere una cattiva idea. D’altro canto,una volta che una società ha adottato una simile misu-ra gli azionisti sono in grado di decidere se una parti-colare offerta è nel loro interesse o non lo è. Possonodecidere, per esempio, che un premio del 10 per cento èinsufficiente, mentre è accettabile un premio del 15 percento. In altre parole, il fatto di ammortizzare le infor-mazioni non produrrà un voto perfettamente razionale.Se gli azionisti ammortizzano le informazioni che rice-vono su una particolare strategia o tattica di corporategovernance in tutte le società nelle quali hanno investi-to, il voto si verificherà più spesso e sarà più informatodi quanto non preveda la teoria tradizionale di Downs,ma non sarà comunque perfetto.

Per esempio, immaginiamo che sia la società offe-rente sia la società bersaglio possano votare sull’acqui-sizione. In generale, le azioni di una società offerenteperdono valore all’atto dell’acquisto di un’altra società,mentre gli azionisti della società target beneficiano delpremio che ricavano dalla vendita delle proprie azioni.Nel quadro di una regola di ammortizzazione sponta-nea, tutti gli azionisti “razionalmente non apatici” delletarget voterebbero a favore dell’acquisizione. Nel con-tempo, gli azionisti “razionalmente non apatici” o“razionalmente informati” delle società offerenti utiliz-zerebbero le informazioni raccolte circa gli effetti sulvalore degli azionisti della società bersaglio per votarecontro l’acquisizione. Ovviamente, ne conseguirebbeuna situazione di equilibrio subottimale sistematico,dove non si effettuerebbero più offerte perché gli azio-nisti dei possibili acquirenti le boccerebbero.

Una via d’uscita da questa trappola sarebbe sempli-cemente quella di negare agli azionisti il diritto di vota-re sulle acquisizioni e lasciare decidere al managementse permetterle. Chiaramente, in molti casi, ne risulte-rebbe un rafforzamento del gruppo dirigente. Per ilmercato del controllo societario sarebbe impossibilesostituire anche i manager più inetti o corrotti.

Una seconda soluzione consiste nel permettere agli

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azionisti di votare sulle acquisizioni, in base alla teoriache gli azionisti possono integrare le informazioni,generiche e a poco prezzo, sui costi e benefici delle ope-razioni di fusione e acquisizione per offerenti e targetcon informazioni più specifiche e costose su una parti-colare battaglia per il controllo. L’idea è che i costi soste-nuti per acquisire le informazioni aggiuntive e specifi-che necessarie per prendere una particolare decisionesaranno inevitabilmente inferiori rispetto alla sommadei costi sostenuti per ottenere sia le informazioni gene-riche sia le informazioni più specifiche in merito a unaparticolare acquisizione. Quindi, il costo delle informa-zioni indispensabili per prendere una decisione ade-guata sarà inferiore a quanto si pensava in precedenza.

La riflessione che precede suggerisce che l’attualeconsenso politico sul voto degli azionisti, che si riflettenella legge vigente, sia troppo restrittivo. Con riferi-mento alla teoria di Downs, Easterbrook e Fischelsostengono che agli azionisti dovrebbe essere consenti-to di votare solo su questioni di grande rilevanza, per-ché sono gli unici casi in cui gli azionisti sono in gradodi superare i problemi dell’ignoranza razionale e dell’a-patia che affliggono il processo decisionale e rendono ilvoto poco informato e irrazionale.17 In alternativa, latesi qui presentata suggerisce che agli aventi diritto divoto dovrebbe essere consentito di votare anche su que-stioni generiche, ossia che insorgono costantemente nelperiodo di detenzione della partecipazione (o, in ambi-to politico, nel periodo della cittadinanza) e non soltan-to sulle questioni principali. I costi del reperimentodelle informazioni su tali questioni generiche si posso-no ammortizzare su tutti gli investimenti del portafo-glio dove si verificano queste problematiche.

Nell’analizzare l’efficacia della democrazia degliazionisti rispetto a questioni generiche come le acquisi-zioni o le frodi contabili, una ricerca di Hermang Desai,Chris Hogan e Michael Wilkins ha riscontrato che in un

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1177.. Vedi Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “Voting in CorporateLaw”.

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campione di società ad azionariato diffuso che hannorivisto gli utili, nel 60 per cento dei casi è stato sostitui-to almeno un alto dirigente (presidente o CEO) entroventiquattro mesi dall’obbligo di rivedere i risultaticontabili dichiarati in precedenza, contro il 35 per centodi tutte le società ad azionariato diffuso. Inoltre, dallaricerca emerge che l’85 per cento di questi dirigentisostituiti, in seguito non è stato in grado di ottenere unaposizione paragonabile presso aziende rivali.18

Da questa prospettiva, il voto su questioni concrete,come il regolamento sui diritti degli azionisti discussoin precedenza, effettivamente presenta un potenzialepiù ampio di ammortizzazione rispetto al voto su par-ticolari persone, come gli amministratori. Eppure, vota-re gli amministratori ha più senso di quanto suggeri-rebbe la teoria dell’ignoranza razionale, nella misura incui gli amministratori restano in carica per diversi man-dati e/o in numerose società di un determinato porta-foglio. Un esempio del funzionamento della mia teoriadell’investitore razionalmente informato è evidentenella reazione degli azionisti agli scandali e al crollodella Enron. Tutti gli amministratori della società die-dero le dimissioni dal consiglio. Numerosi amministra-tori della Enron erano anche membri del consiglio diamministrazione di altre società: nel complesso, all’e-poca del crollo gli amministratori della Enron svolge-vano la stessa funzione in altre venti società. La scoper-ta delle loro carenze nella vigilanza della Enron prati-camente pose fine alla loro carriera nel consiglio diamministrazione di queste altre società. Uno di questiamministratori, Frank Savage, decise di opporsi allepressioni degli azionisti per le sue dimissioni. Fucostretto comunque a lasciare il consiglio della Qual-comm, ma resistette per un breve periodo alla Loc-kheed Martin, dove fu rinominato nel consiglio di

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Corporate governance

1188.. Hermang Desai - Chris E. Hogan - Michael S. Wilkins, “The Reputa-tional Penalty for Aggressive Accounting, Earnings Restatements and Mana-gement Turnover”, agosto 2004, http://www.fma.org/NewOrleans/Papers/14-01148.pdf.

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amministrazione ricevendo però «una percentualeminima di voti quasi da record, pur senza essere conte-stato».19 In altre parole, gli azionisti spalmarono lecostose informazioni ottenute sugli amministratoridella Enron sull’intero portafoglio di investimenti, ivicomprese altre società dove queste persone eranoamministratori.20

Analogamente, analizzando il ricambio degli ammi-nistratori esterni dopo le revisioni degli utili, Suraj Sri-nivasan ha riscontrato che gli amministratori di azien-de che registrano delle carenze nei rendiconti finanzia-ri hanno maggiori probabilità di perdere l’incarico.Inoltre, segnala che gli amministratori esterni in gene-rale, e in particolare quelli che sono membri del comi-tato di revisione del consiglio di una società costretta arivedere i suoi utili, hanno maggiori probabilità di usci-re dal consiglio di quella società e di perdere la carica diamministratore anche in altre.21

Su questa falsariga, vale la pena di osservare che unazionista che accumuli oltre il 50 per cento delle azionidi una società in ultima analisi può ottenere il controllodel consiglio di amministrazione, anche completo, pur-ché la società non preveda il voto cumulativo. LucianBebchuk e altri sono convincenti quando affermano chei consigli di amministrazione a elezione scaglionatapossono ritardare i cambi di controllo.22 Ma si tratta diuna scelta degli azionisti e il fatto che i consigli con que-

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Il voto degli azionisti

1199.. Vedi John Chevedden, “Proxy Statement and Notice of 2003 AnnualMeeting of Stockholders: Lockheed Martin”, Stockholder Proposal B, 4 aprile2003, p. 52.

2200.. Vedi Reed Abelson, “Enron’s Many Strands, The Directors; Endgame?Some Enron Board Members Quit or Face Ouster at Other Companies”,New York Times, 9 febbraio 2002, C5; Dan O’Shea, “Ex-Enron Director Lea-ves Qualcomm Post”, Insight, 18 maggio 2004.

2211.. Suraj Srinivasan, “Consequences of Financial Reporting Failure forOutside Directors: Evidence from Accounting Restatements and Audit Com-mittee Members”, Journal of Accounting Research, 43, 2005, pp. 293-294.

2222.. Lucian Arye Bebchuk et al., “The Powerful Antitakeover Force of Stag-gered Boards: Theory, Evidence, and Policy”, Stanford Law Review, 54, 2002,p. 887; Lucian A. Bebchuk - Alma Cohen, “The Costs of EntrenchedBoards”, Journal of Financial Economics, 78, 2005, p. 409.

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sto tipo di organizzazione siano meno diffusi indica chele preferenze degli azionisti si riflettono nella politicasocietaria, almeno per quanto riguarda questioni gene-riche come la scelta di sostenere o meno misure anti-scalata.

Rimozione e sostituzioneAl fine di costituire una base di riferimento signifi-

cativa per valutare l’efficacia della democrazia degliazionisti, vale la pena di porsi una serie di domande. Lapiù immediata è se i manager disonesti o incompetentivengano già sostituiti attraverso meccanismi di merca-to più economici e più rapidi di un’elezione. È necessa-rio ribadire che è importante come vengono rimpiazza-ti i funzionari inadeguati: che avvenga mediante mec-canismi di governance interna o pressioni di investitoridi private equity, venture capitalists o altre istituzioni, oancora a seguito di scalate ostili o della mera minacciadi contestazione di un’elezione (anche se la minaccianon si materializza), il risultato della sostituzione di unmanager resta lo stesso.

Un’altra domanda che ci si pone è se gli ammini-stratori incompetenti abbiano maggiori probabilità diessere sostituiti rispetto ai peggiori membri del Con-gresso in carica. Nel periodo tra il 1990 e il 2000, i mem-bri della Camera dei Rappresentanti sono stati rieletti aun tasso medio del 94,1 per cento.23 Mentre i tassi dirielezione nel Congresso effettivamente sono in aumen-to, i tassi di rielezione degli amministratori sono incalo.24 Questa evoluzione è particolarmente interessan-te considerando il contesto politico nel quale i partiti

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Corporate governance

2233.. Vedi Norman J. Ornstein - Thomas E. Mann – Michael E. Malbin,Vital Statistics on Congress, 2001-2002, Washington DC, American Enterpri-se Institute for Public Policy, 2002, p. 69, tavole 2-7; vedi anche “ReelectionRates over the Years”, www.opensecrets.org/bigpicture/reelect.asp?cycle-2004;http://www.laits.utexas.edu/gov310/VCE/conreelection/index.html, che illustra,tra l’altro, le percentuali di rielezione alla Camera dei Rappresentanti tra il1990 e il 2006, e cioè: 1992 88%; 1994 90%; 1998 98%; 2000 98%; 200296%; 2004 98%.

2244.. Vedi Lucian A. Bebchuk, “The Myth of the Shareholder Franchise”.

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politici rivali effettivamente creano gli antagonisti deideputati in carica. Nelle elezioni societarie non esisteun analogo meccanismo istituzionale per creare auto-maticamente dei candidati di opposizione.

È importante riconoscere che la rimozione di unamministratore e la sostituzione di un politico implica-no problematiche ampiamente differenti. La rimozionedi un amministratore presenta pochi problemi pratici,fintanto che resta un numero di amministratori suffi-ciente per costituire il quorum. In particolare, con larimozione si evita l’arduo compito di individuare ereclutare dei sostituti. Forse Bebchuk e altri hannoragione a sostenere che la rimozione degli amministra-tori dovrebbe avvenire in misura crescente con il votodegli azionisti e che non sarebbe difficile risolvere ilproblema. Basterebbe una regola che richiedesse il votodi maggioranza e il ricorso all’“astensione”, come nelleelezioni Disney del marzo 2004.25

L’effettiva sostituzione di membri del consiglio diamministrazione, invece della loro semplice rimozione,pone due problemi insormontabili. Innanzitutto, nondisponiamo di strategie né di teorie sulle modalità diindividuazione e reclutamento di sfidanti esterni alconsiglio di amministrazione in carica. In secondoluogo, anche se si studiasse un modo per individuare ereclutare amministratori esterni, è altamente improba-bile che degli sfidanti esterni siano in grado di manda-re un segnale credibile della loro capacità di ottenererisultati migliori degli amministratori in carica.

Quanto al problema del reclutamento, non è facile

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Il voto degli azionisti

2255.. Le norme di voto societario obbligano le società per azioni a dare agliazionisti tre alternative: esprimersi a favore di tutti i candidati alla carica diamministratore, astenersi per tutti i candidati, negando così a tutti il propriosostegno, o astenersi solo per alcuni candidati. Vedi 17 C.F.R. art. 240.14a-4(b)(2), 2006. Nel marzo 2004, Michael Eisner fu rimosso dalla carica di pre-sidente della Walt Disney Corporation perché il 43 per cento degli azionistigli negò, con l’astensione, il proprio sostegno per questa carica contesa, e fuquesto episodio a indurre la società a dividere la carica di presidente del con-siglio di amministrazione da quella di CEO. Vedi Michael McCarthy, “Dis-ney Strips Chairmanship from Eisner”, USA Today, 4 marzo 2004, B1.

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trovare persone capaci, esperte e competenti desiderosedi entrare nel consiglio di amministrazione di societàad azionariato diffuso. Nel contesto politico, le demo-crazie dispongono di sistemi ben collaudati con i qualidue o più partiti politici reclutano, selezionano e legit-timano potenziali candidati a una carica politica. Nonesiste un processo analogo nel caso delle elezioni socie-tarie, e non è affatto scontato che si possa creare. Diver-samente dai rivali politici, i potenziali candidati al con-siglio di amministrazione competono in base a caratte-ristiche quali competenza, esperienza e integrità, piut-tosto che ideologia, identificazione di gruppi di interes-se e fedeltà. Stando così le cose, non è chiaro come leparti rivali che nominano i propri candidati alle elezio-ni societarie possano trasmettere dei segnali.

Una battaglia per le deleghe del maggio 2007 checoinvolge un CEO licenziato per avere sottratto inmodo fraudolento fondi per le spese di viaggio allaAtmel Corporation, la società della Silicon Valley percui lavorava, è un esempio deprimente del problemagenerale. George Pergolas, cofondatore della Atmel,un’azienda produttrice di microprocessori, fu rimossotardivamente dalla carica di amministratore della socie-tà a seguito dei risultati di un’indagine effettuata dalcomitato di revisione del consiglio di amministrazione.Dall’indagine era emerso che quattro alti funzionaridella società erano coinvolti in quello che i giornali del-l’epoca descrissero come «un sistema che consentiva adipendenti e amici di viaggiare con i soldi della società,che in parte entravano anche nelle tasche del dipen-dente che aveva organizzato il piano».26

In seguito Pergolas intentò un’azione legale perimporre a un’assemblea straordinaria degli azionisti dirimuovere i cinque amministratori che avevano votatoper licenziarlo dal suo incarico di CEO. Inoltre, definìuna sua lista, selezionata autonomamente, di cinquecandidati per il consiglio di amministrazione dell’a-

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Corporate governance

2266.. Floyd Norris, “High and Low Finance: A Fired Boss Seeks His Reven-ge”, New York Times, 18 maggio 2007, D1.

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zienda che, se eletti, avrebbero estromesso il CEO incarica scegliendone un altro al suo posto (presumibil-mente lo stesso Pergolas). La Institutional ShareholderServices (ISS), un’azienda che fornisce consulenze aigrandi azionisti su come votare, effettivamente sosten-ne uno dei candidati di Pergolas, inducendo Floyd Nor-ris del New York Times a commentare che forse la ISSaveva ragione a sostenere che in passato la vigilanzadel consiglio era carente. Ma è difficile immaginarecome una vittoria dei candidati di Pergolas avrebbepotuto determinare un miglioramento nella corporategovernance futura.27

Al problema generale appena descritto si aggiungeil fatto che il ruolo dell’amministratore è impegnativo erischioso come mai prima d’ora. Probabilmente, i fau-tori di una maggiore democrazia societaria non voglio-no che gli amministratori siano tenuti a rispondere agliorgani di regolamentazione o agli azionisti meno diquanto facciano ora. Ma nel contesto attuale, una per-centuale significativa dei potenziali candidati, se nonaddirittura la metà, declina l’offerta di entrare in unconsiglio di amministrazione, anche quando provienedalla stessa società e non da gruppi di oppositori.28 Gliattuali fautori del voto degli azionisti semplicementetrascurano i gravi problemi comportati dalla necessitàdi identificare, reclutare e sottoporre alla procedura didue diligence potenziali sfidanti degli amministratori incarica.

Inoltre, anche se siamo in grado di individuare even-tuali sfidanti del consiglio in carica, è comunque diffici-le renderli dei candidati credibili. Le elezioni societariesono travagliate da una serie di problemi sul pianodelle azioni collettive e della comunicazione. Le perso-ne che scatenano una battaglia delle deleghe per il con-

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Il voto degli azionisti

2277.. Floyd Norris, “High and Low Finance”.2288.. Vedi “Key Considerations for Serving on a Board of Directors”, in

Advantage, RSM McGladrey, Minneapolis, gennaio 2006, p. 2,http://www.rsmmcgladrey.com/RSM-Resources/Articles/Advantage/Governance-Board-Room/Key-considerations-for-serving-on-a-board-of-directors/, consultato22 febbraio 2008.

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trollo non riescono comunque a percepire tutti i guada-gni che si potrebbero realizzare nell’eventualità di uncambio di controllo, perché inevitabilmente sarannocondivisi tra tutti gli azionisti. I potenziali rivali per lepoltrone del consiglio non assorbiranno completamen-te i potenziali vantaggi derivanti dallo scatenamento ditale battaglia.29 Considerando che gli sfidanti si accolla-no tutti i costi della battaglia delle deleghe senza tutta-via trarne pieno vantaggio, alcune sfide non vengonolanciate anche se ne varrebbe la pena. Inoltre, gli sfi-danti nelle battaglie delle deleghe incontrano delle dif-ficoltà nel comunicare in modo credibile agli azionistiche stanno cercando di sostituire gli amministratori incarica perché si ritengono manager migliori, e non permotivi più scellerati.

In generale, Bebchuk dà atto dell’esistenza di questogenere di problemi, quando scrive che

gli azionisti non possono dedurre dal lancio di unasfida che gli amministratori rivali possano ottenererisultati migliori. Tanto per cominciare, anche ungruppo di oppositori convinto di poter fare megliopuò agire per presunzione. Inoltre, è importante ricor-dare che la decisione di un rivale di lanciare una sfidanon implica neppure che lo stesso rivale ritenga dioperare meglio. Tutto sommato, una sfida potrebbeessere motivata dal desiderio di ottenere i vantaggiprivati associati al controllo.30

Bebchuk ha assolutamente ragione in questa analisidei problemi di comunicazione che incontrano gli sfi-danti dei dirigenti in carica nelle elezioni societarie. Quiil problema non sta nell’analisi di Bebchuk, bensì nellamancata individuazione delle sue implicazioni per dueaspetti fondamentali. Primo, i problemi relativi a comu-nicazione e free-riders contribuiscono in larga misura aspiegare le eventuali “carenze” percepite nell’incidenzadelle sfide agli amministratori in carica. Poiché non

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2299.. Vedi Lucian A. Bebchuk, “The Myth of the Shareholder Franchise”.3300.. Lucian A. Bebchuk, “The Myth of the Shareholder Franchise”.

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godono pienamente dei benefici del controllo societa-rio, gli sfidanti non possono segnalare in modo credibi-le le motivazioni che li inducono a perseguire tale con-trollo. Se gli sfidanti non riescono a persuadere gli elet-tori di non essere imbroglioni intenzionati a depredarela società target, è estremamente improbabile cheriescano a convincerli del fatto che effettivamentesaranno in grado di gestire meglio la società rispettoall’attuale gruppo dirigente.

In secondo luogo, il problema dei free-riders non sipuò affrontare semplicemente rendendo più agevoleper gli sfidanti il rimborso dei costi associati all’orga-nizzazione di una battaglia delle deleghe.31 Il problemadi questa soluzione è il fatto di non riconoscere che,qualunque sia la giustificazione di un rimborso agli sfi-danti che godono di un sostegno rilevante, tale rimbor-so finisce per esacerbare, e non certo per mitigare, i pro-blemi di credibilità degli sfidanti stessi. Un azionistaraziocinante penserà che se il rimborso viene agevolato,gli sfidanti si accolleranno una quota ancora inferioredei costi dell’organizzazione di una battaglia delle dele-ghe per il controllo, pur conservando gli stessi poten-ziali vantaggi. Questo a sua volta offrirà maggioriincentivi a partecipare a candidati meno qualificati econ minori probabilità, soprattutto perché i candidaticon costi di opportunità minimi in termini di tempo e diimpegno trarranno il massimo vantaggio dalla prospet-tiva del rimborso delle spese elettorali.

Fonti di legittimazione degli amministratoriLa mancanza di una voce democratica significativa

degli azionisti, in particolare nella sostituzione del con-siglio di amministrazione, è stata individuata come unproblema perché priva gli amministratori di “legittima-zione”.32 Allo stesso modo, ho osservato che la mancan-

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Il voto degli azionisti

3311.. Lucian A. Bebchuk, “The Myth of the Shareholder Franchise”, che sot-tolinea come i problemi di free-riding rendano «utile considerare un rimbor-so di spese ai concorrenti che ottengono un notevole sostegno e non arrivanoa vincere per pochi punti».

3322.. Vedi Lucian A. Bebchuk, “The Myth of the Shareholder Franchise”, pp. 3-4.

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za di una sorta di infrastruttura elettorale come i caucuso i partiti, da cui emergono dei candidati rivali, priva leelezioni societarie di robustezza, almeno in superficie.

Quest’ultimo argomento appare un po’ più forte delprimo. La questione della legittimazione è un falso pro-blema, perché i meccanismi attuali per l’elezione degliamministratori rispecchiano norme di lunga data chesono sopravvissute non solo al test della concorrenzagiurisdizionale riguardo agli atti costitutivi delle società,ma anche alla capacità degli imprenditori in cerca dicapitali di formulare norme diverse e più democratichequalora gli investitori le preferissero. Se si sostiene cheagire secondo queste norme non sarebbe sufficiente aconferire legittimazione agli amministratori occorreanche domandarsi quali procedure elettorali sarebberosufficienti a legittimare gli amministratori di una società.

Inoltre, occorre chiedersi se tutto quello che gli ammi-nistratori statunitensi fanno sia privo di legittimazione e,se così non fosse, quali aspetti particolari dell’attivitàdegli amministratori sarebbero illegittimi a causa dell’as-senza di un processo elettorale legittimo. Per esempio, imanager delle società statunitensi sono anch’essi privi dilegittimazione perché sono nominati da amministratorinon legittimati? Le fusioni approvate da questi consiglidi amministrazione sono anch’esse illegittime? E cosadire degli acquisti o delle vendite di beni?

Appare plausibile che siano i risultati sui mercati deicapitali, piuttosto che i risultati elettorali, a conferirelegittimazione agli amministratori. La legittimazione didirigenti e amministratori come Jack Welch e WarrenBuffett non deriva dalla loro capacità di raccogliere ivoti degli azionisti al momento delle elezioni quantopiuttosto dalla loro capacità di garantire forti rendi-menti agli investitori, una volta eletti secondo le leggivigenti. Un’elezione che rispetti i requisiti legali minimiè un fondamento necessario per la legittimazione degliamministratori, mentre competenza e integrità sononecessarie per renderla effettiva.

Quindi, una comprovata efficacia nel tempo e lasoddisfazione di tutti i necessari prerequisiti legali

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sono entrambi elementi necessari e sufficienti per lalegittimazione di un’istituzione come il consiglio diamministrazione di una società. Per contro, applicandoil principio per cui le elezioni sono indispensabili perconferire legittimazione agli amministratori, si sugge-risce che i giudici federali mancherebbero di legittima-zione perché godono di una carica a vita, non vengonomai eletti, né possono essere rimossi dall’incarico daaventi diritto di voto. Di fatto, i giudici federali e inparticolare quelli della Corte Suprema godono di unanotevole legittimazione, eppure i votanti hanno moltomeno potere di sostituire membri della Corte Supremadi quanto ne abbiano gli azionisti di sostituire gliamministratori. Il prestigio e la legittimazione dellamagistratura in generale e dei singoli giudici in parti-colare dipende dalla capacità di questi ultimi di ragio-nare con efficacia e di presentare argomenti solidi edefficaci a sostegno delle loro opinioni. Come per i giu-dici, non c’è motivo di pensare che la legittimazionedegli amministratori derivi dalla loro modalità di ele-zione, piuttosto che dalla qualità del loro operato men-tre sono in carica.33

Questo punto trova ulteriore sostegno considerando

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Il voto degli azionisti

3333.. Non vi sono dubbi che un dittatore che abbia conquistato il potere conun colpo di stato violento sia comunque non legittimato a governare, anchese in seguito instaurasse la legalità e promuovesse uguaglianza e prosperità. Ilpunto è che non importa quanto sia abile ed efficiente una persona nel suoincarico; la questione fondamentale è come lo abbia ottenuto, se per vie legit-time o meno, dal punto di vista sia sostanziale che procedurale. Bebchuk nonpuò comunque seriamente sostenere che gli amministratori statunitensi nonsiano legittimati nel loro incarico a causa delle carenze che, secondo lui, mina-no il sistema elettorale. La realtà dei fatti è che gli azionisti sostengono gliamministratori legittimati da elezioni assolutamente legali, ossia secondo unaprospettiva il più possibile vicina all’idea di H.L.A. Hart, per la quale «èopportuno che legge e moralità restino separate; le regole sono il cuore e l’a-nima del processo legale». Allan C. Hutchinson, “A Postmodern’s Hart,Taking Rules Sceptically”, Modern Law Review, 58, 1995, p. 788. In altreparole, poiché esiste una corretta infrastruttura legale che stabilisce le proce-dure per l’elezione degli amministratori, e tali procedure sono in genere segui-te, sono assolutamente soddisfatti i presupposti per la validità legale dell’ele-zione degli amministratori negli Stati Uniti. Ecco perché Bebchuk è libero dicontestare l’appropriatezza dell’attuale procedura di elezione degli ammini-stratori, ma le sue affermazioni sulla legittimità non sono convincenti.

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la legittimazione di valute come dollaro, euro e yen.Fattori complessi, quali la potenza economica, la stabi-lità politica sottostante e l’indipendenza percepita del-l’autorità monetaria contribuiscono alla forza e allalegittimazione di una particolare valuta. Ma le prove asostegno dell’affermazione che la legittimità di un’isti-tuzione dipende dal fatto che sia soggetta a vincolidemocratici sono scarse. Anzi, appare vero il contrario:quanto più la politica monetaria è indipendente dalleistituzioni democratiche, tanto più stabile sarà proba-bilmente la valuta.34

Infine, in aggiunta alle valutazioni di performanceappena citate, la legittimazione di amministratori ealtre importanti figure sociali deriva inizialmente anchedal fatto di aver raggiunto una posizione di potere eautorità con mezzi legittimi. Così, per esempio, quandoBen S. Bernanke divenne presidente del consiglio deigovernatori della Federal Reserve, come il suo prede-cessore Alan Greenspan, la sua legittimazione inizialenon derivò dai successi conseguiti nella politica mone-taria, bensì dal fatto di essere stato correttamente nomi-nato e confermato in una procedura generalmente rico-nosciuta come fonte di legittimazione democratica deicandidati.

È interessante notare che per molta parte della sto-ria degli Stati Uniti e persino nel 1913, quando fuapprovata la legge sulla Federal Reserve, l’idea di unabanca centrale era altamente controversa. A molti nonera chiaro se il Congresso possedesse l’autorità costitu-zionale per creare una banca centrale. Allo stessomodo, inizialmente a molti non era chiaro se la politicamonetaria centralizzata fosse auspicabile nel passaggioa una moneta singola europea.35 La legittimazione dellabanca centrale statunitense non risiede nella Costitu-

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Corporate governance

3344.. Vedi Geoffrey P. Miller, “An Interest-Group Theory of Central BankIndependence”, Journal of Legal Studies, 27, 1998, p. 434.

3355.. Vedi Federal Reserve Bank of Chicago, “Money Matters: The AmericanExperience with Money”, http://www.chicagofed.org/consumer_informa-tion/money_matters.cfm.

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zione, e nemmeno nel fondamento democratico dell’i-stituzione, ma piuttosto nei solidi precedenti di risulta-ti positivi e integrità registrati nel tempo dall’istituzio-ne. Lo stesso vale per i consigli di amministrazione. Inaltre parole, l’affermazione di Bebchuk che gli ammini-stratori non sarebbero legittimati perché non sono elet-ti con il voto popolare degli azionisti e perché le ele-zioni non sono trasparenti né soggette a contestazioneè esagerata, perché lo stesso si potrebbe asserire conforza ancora maggiore contro una serie di altre istitu-zioni palesemente legittimate, come banche centrali,cardinali della Chiesa Cattolica e giudici della CorteSuprema.

Ai sensi della legislazione vigente in tutti i cinquan-ta Stati degli USA, gli azionisti hanno il potere di eleg-gere gli amministratori e di disciplinarne la proceduradi nomina. Se lo desiderano, gli azionisti potrebberorichiedere che i documenti amministrativi di una socie-tà siano allineati a meccanismi di voto diversi da quelliapplicati attualmente. Tuttavia, ai sensi delle leggivigenti nei vari Stati, non esiste una norma che conferi-sca agli azionisti il diritto a un accesso sovvenzionato alsistema elettorale di una società.

Gli azionisti raziocinanti hanno motivi convincentiper dubitare delle motivazioni degli esterni che scate-nano battaglie per rimuovere gli amministratori in cari-ca. La scelta di sovvenzionare i candidati perdenti nonrisolverebbe il problema e probabilmente lo aggrave-rebbe. Inoltre, l’impossibilità per gli azionisti di distin-guere tra candidati che si serviranno del controllo peraumentare il valore dell’azienda e candidati che invecelo ridurranno a causa della loro inettitudine o dellavolontà di depredarla può senz’altro spiegare perché siosservino così pochi casi di elezioni contestate.

Qualcuno ha suggerito che i difetti dell’attuale siste-ma di elezione degli amministratori implicano che laprocedura elettorale non conferisce agli amministratorila legittimazione che dovrebbe. Ma la legittimazionedegli amministratori deriva in primo luogo dal fattoche la legge dello Stato conferisce loro il potere e l’ob-

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bligo di gestire l’attività e gli affari della società.36 Inol-tre, la legittimazione deriva dalla dimostrazione di inte-grità e competenza nell’arco di un lungo periodo ditempo. Una riflessione sul prestigio di valute nazionali,banche centrali e giudici eletti e non eletti fa nascere seriinterrogativi in merito all’affermazione che esista uncollegamento tra la legittimazione e la misura in cui idirigenti in carica vengono contrastati con efficacia dairivali in sede di elezioni.

Voto in assenza di interesse economico: un problemaantichissimo sempre attuale?

Il voto in assenza di interesse economico, il cosid-detto fenomeno dell’empty voting, è un altro problemadivenuto piuttosto rilevante nel contesto societario,anche se non sembra avere destato molto interessealtrove, malgrado le sue caratteristiche di generaleapplicabilità. Se da un lato viene pomposamente colle-gato ai «conflitti di interesse generati dalla separazionetra proprietà nominale (o fiduciaria) e proprietà effetti-va (o beneficiaria), con l’aggravante del moderno istitu-to della proprietà finanziaria», dall’altro il problemadell’empty voting è molto più semplice, non contraddi-stingue soltanto le società ed è ben poco aggravatodalla proprietà finanziaria moderna.37 Il problema cru-ciale è piuttosto l’annoso quesito se si debba o menoconcedere il voto a chi è poco o nient’affatto interessatoal risultato della votazione stessa. In questi ultimi annila questione non solo è riuscita a preoccupare gli stu-diosi, ma ha persino conquistato le prime pagine deigiornali. Il problema consiste nel fatto che gli investito-ri istituzionali, quali gli hedge fund, possono esercitareil diritto di voto per azioni che non possiedono acqui-stando le azioni e rivendendole simultaneamente a ter-

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Corporate governance

3366.. Vedi Model Bus. Corp. Act, art. 8.01(b), 2005. Questa serie di statutimodello è disponibile presso l’American Bar Association, http://www.abanet.or-g/abastore/index.cfm?section=main&fm=Product.AddToCart&pid=5070548.

3377.. Marcel Kahan - Edward Rock, “Hedge Funds in Corporate Governan-ce and Corporate Control”, University of Pennsylvania Law Review, 155,2007, p. 1021.

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mine, un processo conosciuto come “proprietà occulta”(morphable ownership). I critici sostengono che taleopportunità turbi le votazioni perché «attribuisce ilvoto anche agli investitori che non hanno un interesseeconomico nel voto stesso».38 Una questione persino piùcomplessa è quella dell’empty voting in cui un fondod’investimento va a coprire la propria partecipazioneall’interno di una società: così mentre mantiene i dirittidi voto per le azioni in suo possesso, mediante l’opera-zione di copertura elimina ogni tipo di rischio econo-mico associato alle azioni della società per cui sta espri-mendo il voto.

Pensiamo a votazioni sul filo del rasoio in societàquotate, per esempio il voto sulla fusione tra laHewlett-Packard (HP) e la Compaq nel 2002. Una fusio-ne ben riuscita tra le due società avrebbe potenzialmen-te remunerato con generosità gli azionisti della Com-paq, la società bersaglio, ma avrebbe ridotto il valoredelle partecipazioni degli azionisti della HP. All’internodi HP, la fusione era fortemente voluta dal managementma molti azionisti si opponevano. I tentativi della HPper portare a termine la fusione si conclusero nella piùdispendiosa battaglia di deleghe che la storia ricordi.Corse voce che gli azionisti della Compaq avessero per-sino fatto ricorso all’empty voting sulle azioni HP perottenere il consenso sull’operazione: si diceva che gliazionisti della Compaq avessero riportato azioni HP odirettamente acquistato azioni HP per poter esercitare ildiritto di voto, ma che avessero comunque coperto ilrischio finanziario acquistando opzioni di vendita evendendo allo scoperto.

Il caso High River Limited Partnership v. Mylan Labo-ratories, Inc. ha il merito di aver messo a fuoco in modoesemplare il problema dell’empty voting e della proprie-tà occulta, nonché del ruolo estremamente limitato chei tribunali possono svolgere nel coadiuvare la regola-mentazione aziendale di queste diffuse battaglie sul

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Il voto degli azionisti

3388.. Kara Scannell, “How Borrowed Shares Swing Company Votes”, WallStreet Journal, 26 gennaio 2007, A1.

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voto.39 Il caso è incentrato sul tentativo della MylanLaboratories di acquisire la King Pharmaceuticals. Ben-ché la Mylan avesse lanciato un’offerta alla King Phar-maceuticals di 16 dollari per azione, dopo l’offerta leazioni della King venivano negoziate solamente attornoai 12 dollari. Alcuni tra i più importanti azionisti dellaMylan, tra i quali Carl Icahn, pensavano che l’offerente,Mylan Labs, stesse offrendo un prezzo troppo elevatoper le azioni della King e volevano impedire la conclu-sione della transazione.

Su questo sfondo si affacciò sulla scena l’hedge fundPerry Capital, che rastrellò azioni della società bersa-glio, la King Pharmaceuticals, per circa 12 dollari l’una.Se la fusione si fosse chiusa al prezzo dell’offerta di 16dollari per azione, l’hedge fund avrebbe realizzato 26milioni di dollari di utile. Per aumentare le probabilitàche l’offerta d’acquisto della King da parte della Mylanandasse a buon fine, l’hedge fund Perry si rivolse almercato e fece incetta di 26,6 milioni di azioni Mylan,ossia il 9,9 per cento delle azioni con diritto di votodella società offerente. L’hedge fund Perry fece poiampio ricorso alle vendite allo scoperto e ai prodottiderivati per garantirsi una perfetta copertura. Venden-do simultaneamente a termine per lo stesso importo leazioni appena acquistate della Mylan, l’hedge fundPerry si metteva al riparo da qualsiasi oscillazione nelvalore delle azioni della Mylan annullando ogni possi-bile ripercussione su se stesso. In altri termini, l’hedgefund Perry controllava quasi il 10 per cento dei votidella Mylan, senza peraltro avere alcun interesse eco-nomico nelle vicende della società.

La transazione poneva l’hedge fund Perry in unnotevole conflitto d’interessi con altri azionisti dellaMylan, che vedevano con scetticismo l’acquisizionedella King Pharmaceuticals proposta dalla Mylan.Chiaramente, altri azionisti (diversi dall’hedge fundPerry) avrebbero voluto che una qualsiasi acquisizione

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Corporate governance

3399.. High River Ltd. P’ship v. Mylan Labs., Inc., 353 F. Supp. 2d 487, M.D.Pa. 2005.

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di azioni della King da parte della Mylan avvenisse almiglior prezzo e alle migliori condizioni possibili per laloro società, a prescindere dalla loro opinione generalesull’auspicabilità dell’acquisizione. L’hedge fund Perry,d’altro canto, desiderava che Mylan acquisisse la KingPharmaceuticals, senza badare al fatto che l’operazionefosse una buona soluzione strategica e sinergica perMylan; non solo, l’hedge fund Perry voleva che la fusio-ne si concludesse al prezzo più elevato possibile, vistoche tanto più era alto il prezzo tanto più ingente sareb-be stato il profitto ottenuto sulle azioni della King Phar-maceuticals.

Gli interessi dell’hedge fund Perry, dunque, non soloerano in conflitto con quelli degli altri azionisti: eranodiametralmente opposti.40 Benché non si fosse formal-mente in presenza di una vera e propria compravendi-ta di voti, dal punto di vista economico e funzionale l’o-perazione era di fatto assimilabile a una compravendi-ta di voti. I costi sostenuti dall’hedge fund Perry perallestire la propria struttura di copertura erano infattidel tutto equiparabili al prezzo che si sarebbe dovutosostenere per acquistare voti. La predisposizione di unaposizione coperta all’interno della Mylan non era sen-z’altro stata gratuita, anzi, si era probabilmente rivelatapiuttosto costosa, visto che vendere azioni allo scoper-to comporta un certo esborso di denaro. Il prezzo effet-tivo poteva variare a seconda che l’hedge fund Perryavesse scelto di acquistare derivati in grado di rifletteresinteticamente i risultati positivi dello scoperto oppuredi assumere una vera posizione short, che in genereprevede un profilo di rischio più elevato. In ogni caso,qualsiasi costo l’hedge fund Perry abbia sostenuto percreare quella posizione può essere considerato il “prez-

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Il voto degli azionisti

4400.. Vedi anche Peter Safirstein - Ralph Sianni, “Is the Fix In? – Are HedgeFunds Secretly Disenfranchising Shareholders?”, Bloomberg Law Reports, Cor-porate Governance, 2 gennaio 2005, pp. 1-7, dove si spiega che «fondamen-talmente, Perry Corp. stava acquistando voti per costringere Mylan a rag-giungere un accordo transattivo con King, che avrebbe premiato Perry Corp.probabilmente a scapito di altri azionisti di Mylan».

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zo” pagato per acquistare i voti. È interessante rilevare come, con riferimento alle

leggi vigenti in materia di corporate governance, doverifiduciari e compravendita di voti, questo modo di pro-cedere non potesse considerarsi apertamente illegale.Per quanto riguarda la corporate governance, a tutt’og-gi i consigli di amministrazione non hanno l’autoritàlegale per annullare unilateralmente il potere di voto diun singolo azionista o di un gruppo di azionisti. E sareb-be sconsigliabile concedere un simile potere agli ammi-nistratori, visti i conflitti di interessi che essi si trovano afronteggiare in diversi tipi di contesti. Per quanto con-cerne i doveri fiduciari, invece, l’hedge fund Perry nonricopriva la posizione né di funzionario, né di ammini-stratore, né di azionista di maggioranza della Mylan,quindi non aveva alcun obbligo fiduciario che potesselimitare la sua capacità di votare proprio nel modo in cuiavrebbe voluto per le azioni detenute nella Mylan.

La questione collegata alla compravendita di voti èleggermente più complessa, eppure sembra che per lalegge vigente l’operazione messa in atto dall’hedgefund Perry non sia univocamente interpretabile comeuna compravendita di voti. Pur ammettendo un realeacquisto di voti da parte dell’hedge fund Perry per lasocietà Mylan, tale operazione non sarebbe probabil-mente risultata illegale, almeno non ai sensi delle leggidel Delaware, per una serie di ragioni.41 Non sempre laseparazione tra il diritto di voto e gli altri benefici ine-renti alla proprietà delle azioni si configura come unacompravendita di voti. In questo caso fu una serie ditransazioni indipendenti che portò l’hedge fund Perry adetenere i diritti di voto delle azioni della Mylan, senzaperaltro esporre l’hedge fund al rischio economicoindotto dalle conseguenze di un giudizio improprio o

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Corporate governance

4411.. Vedi la sentenza del caso Schreiber v. Carney, 447 A.2d 17, Del. Ch.1982, secondo la quale, anche se il prestito di una società al titolare delle sueazioni in cambio di un voto allineato con le richieste della società si configu-ra come una compravendita di voti, questa non è illegale di per sé, perché nondefrauda gli altri azionisti del diritto di voto; vedi anche nota 43.

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corrotto nell’esercitare tale privilegio di voto. Questo tipo di pratica, comunque, non è affatto inu-

suale. Per quanto riguarda la separazione tra le azioni eil loro diritto di voto, infatti, le società possono sceglieredi emettere azioni senza diritto di voto, o di emettereazioni con diritti di voto più ampi rispetto ad altre classidi azioni che svicolano così le restrizioni sulla compra-vendita di voti. I patti di sindacato e altri espedienti simi-li si risolvono ugualmente con la separazione tra il dirit-to di voto e gli altri diritti associati alla proprietà dell’a-zione. Ammettendo anche che l’hedge fund Perry agì inmodo estremo, resta il fatto che spesso gli azionisti ricor-rono a operazioni di copertura delle posizioni da loroassunte nelle società in cui hanno investito. Come vedre-mo nel capitolo 15, gli hedge fund non operano solonegoziando opzioni, derivati e futures, ma anche sempli-cemente detenendo portafogli di investimenti moltodiversificati, in grado di eliminare appieno il rischio eco-nomico specifico collegato al singolo investimento in unaparticolare società mediante investimenti in altre società.

Un altro impedimento che non permette di definirel’operato dell’hedge fund Perry un inammissibileacquisto di voti, nasce dalle dichiarazioni incidentalidel caso Hewlett v. Hewlett Packard Company, uno dei piùrecenti sottoposti al tribunale del Delaware in materiadi compravendita di voti.42 Il caso scoppiò in seguito aidisaccordi sul voto degli azionisti per la già citata fusio-ne tra HP e Compaq. Il figlio del cofondatore dellasocietà Bill Hewlett presentò un’azione sociale diresponsabilità nei confronti di Carly Fiorina, CEO dellaHP, accusandola di avere comprato i diritti di voto deri-vanti dal pacchetto azionario controllato dalla DeutscheBank (17 milioni di azioni) per indurre la banca a vota-re a favore della fusione proposta tra HP e Compaq. Ilsignor Hewlett, sosteneva Deutsche Bank, aveva cam-biato il suo voto per favorire e promuovere l’attività di

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4422.. Vedi Hewlett v. Hewlett-Packard Co., Civ. A. No. 19513-NC, 2002 Del.Ch. LEXIS 35, Del. Ch., 30 aprile 2002; Hewlett v. Hewlett-Packard Co., Civ.A. No. 19523-NC, 2002 Del. Ch. LEXIS 44, Del. Ch., 8 aprile 2002.

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intermediazione mobiliare. Rigettando per mancanzadi prove il ricorso presentato da Hewlett contro la pre-sunta compravendita di voti, il giudice Chandler asserìche gli azionisti sono liberi di fare ciò che vogliono conle proprie azioni.43 Se applichiamo questa dichiarazionealle considerazioni sull’hedge fund Perry Capital, sem-bra indubbio che, in qualità di azionista della Mylan,l’hedge fund Perry fosse perfettamente libero di copri-re le proprie azioni contro i rischi e poi di esercitare ilrelativo diritto di voto.

La controversia sul voto degli azionisti del caso HighRiver Limited Partnership v. Mylan Laboratories, Inc. è unesempio dell’inadeguatezza giudiziaria a trattare – pernon dire risolvere in modo soddisfacente – gli evidenticonflitti di interessi che nascono nelle società in meritoal voto degli azionisti. Lo scontro all’interno dellaMylan Laboratories si consumava tra una sola classe diazionisti: gli azionisti ordinari. Tuttavia, vi sono altridue tipi di conflitti interni a questo gruppo di investito-ri degni di nota: oltre alla disputa tra l’hedge fundPerry e gli altri azionisti, in seno alla società si svolgevaanche una seconda battaglia, tra Carl Icahn e gli altriazionisti, nonché uno scontro tra gli azionisti diversifi-cati e quelli non diversificati della Mylan.

Carl Icahn, un investitore anticonformista che si eralamentato più rumorosamente degli altri delle manovremesse in atto dall’hedge fund Perry, sembrava avereassunto un’importante posizione passiva all’internodella King Pharmaceuticals, la società bersaglio cheMylan aveva intenzione di acquisire.44 Tale situazionemetteva chiaramente Icahn in un conflitto di interessi

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Corporate governance

4433.. La corte sostenne che «i ricorrenti [...] non riuscirono a provare che ilmanagement di HP avesse invogliato o costretto Deutsche Bank a votare afavore della fusione». Hewlett v. Hewlett-Packard Co., 2002 Del. Ch. LEXIS35, *63-64. Riguardo all’accusa di aver comprato i voti, il Cancelliere Chand-ler aggiunse che «i ricorrenti non hanno potuto rinvenire alcunché in quegliscambi [tra Deutsche Bank e HP] che si potesse configurare come una minac-cia del management di HP di ripercussioni sulle attività future con la bancatedesca». Hewlett v. Hewlett-Packard Co., *63.

4444.. Business Law Prof Blog, “Hedge Fund Paranoia: Fretting over theMylan/King Deal Hedge”, 27 ottobre 2005, http://lawprofessors.typepa-

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con gli altri azionisti suoi pari all’interno della Mylan.Supponiamo, per esempio, che l’acquisizione dellaKing da parte della Mylan avesse creato significativesinergie a vantaggio degli azionisti della Mylan e altempo stesso un consistente premio d’acquisto per gliazionisti della King. Mentre altri azionisti avrebberovisto di buon grado il successo dell’acquisizione dellaKing da parte della Mylan, Icahn, al contrario, no: se iltentativo di acquisizione della Mylan fosse andato abuon fine, egli avrebbe infatti perso di più a causa dellasua posizione passiva all’interno della King di quantonon avrebbe guadagnato grazie alla posizione attivaassunta all’interno della Mylan.

Così, mentre la copertura totale spingeva l’hedgefund Perry a preferire che la Mylan pagasse il prezzopiù elevato possibile per la King, la posizione short diIcahn all’interno della King lo induceva a preferire cheil prezzo pagato dalla Mylan fosse il più basso possibi-le. Inoltre, mentre l’hedge fund Perry era incentivatodalle proprie operazioni di copertura a portare avanti iltentativo di scalata della King, anche se la transazionenon era nell’interesse degli altri azionisti della Mylan,la posizione allo scoperto di Icahn lo motivava a oppor-si agli sforzi della Mylan di acquisire la King, anche setale acquisizione era negli interessi di altri azionistidella Mylan.

Oltre ai conflitti tra gli azionisti della Mylan e l’hed-ge fund Perry Capital, nonché tra gli azionisti dellaMylan e Carl Icahn, si registravano anche altri tipi diconflitti interni tra gli altri azionisti della Mylan. Consi-deriamo per un attimo le azioni detenute e controllatedal management della Mylan. I dirigenti azionistisarebbero stati egoisticamente a favore dell’acquisizio-ne della King anche se essa non fosse stata l’opzionemigliore per gli altri azionisti della Mylan, perchéun’acquisizione simile avrebbe dato al management

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d.com/business_law/2005/10/hedge_fund_para.html, dove si sottolinea che «nelcaso Mylan, Carl Icahn (il ricorrente) vendeva allo scoperto le azioni di Kingmentre cercava di bloccare la transazione con Mylan».

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più risorse da controllare e li avrebbe resi potenzial-mente meno esposti nei confronti di una scalata ostiledella Mylan.45 Altri azionisti più sofisticati e ampiamen-te diversificati della Mylan, come per esempio chi dete-neva quote azionarie della Mylan attraverso l’investi-mento in un fondo comune, possedevano probabilmen-te anche delle azioni della King Pharmaceuticals. Inbase all’entità del proprio investimento, questi azionistiavrebbero preferito vedere pagare la Mylan un prezzoeccessivo per le azioni della King. Infine, come già dettopiù sopra, altri azionisti della Mylan che avessero a lorovolta fatto ricorso a strumenti di copertura per il loroinvestimento nella Mylan, sarebbero stati meno preoc-cupati da una possibile transazione di acquisto dellaKing di quanto non fossero altri azionisti della Mylan.Conflitti analoghi esistevano naturalmente anche tra lapopolazione di azionisti della King Pharmaceuticals.46

Non è mia intenzione sostenere in questa sede che laproprietà occulta e l’empty voting non siano veri proble-mi; mi preme piuttosto chiarire che comunque non sitratta di problemi legati unicamente al voto nelle socie-tà. Infatti, è un flagello per tutti i tipi di votazione.

In diversi momenti della storia degli Stati Uniti, si èdibattuto sul diritto di voto: per i proprietari di beni,per i residenti temporanei indipendentemente dallaloro cittadinanza, per i criminali condannati per reato,per i residenti senza cittadinanza e per altre categorie diindividui. Solo di recente, sia negli Stati Uniti sia inEuropa, si è sentito parlare di alcune proposte volte ad

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4455.. George W. Dent, “Unprofitable Mergers: Toward a Market-Based LegalResponse”, Northwestern University Law Review, 80, 1986, p. 781, dove si evi-denzia che molte acquisizioni sono il frutto di una tendenza del managementa voler “costruire imperi”; si spiega così la disparità tra gli ampi guadagni degliazionisti delle società target e i ridotti guadagni degli azionisti delle societàacquirenti.

4466.. I manager di King Pharmaceutical avrebbero preferito opporsi all’ac-quisizione, anche nel caso in cui questa fosse stata nell’interesse degli azioni-sti esterni di King, a causa dei notevoli rischi di perdere il posto di lavoro incaso di fusione tra King e Mylan. Pur non avendo perso il posto, avrebberopreferito rimanere top manager e amministratori di King, piuttosto chediventare semplici funzionari di un’impresa molto più grande.

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accordare agli immigrati, ancorché privi di cittadinan-za, il voto nelle elezioni statali o locali.

Le leggi degli Stati Uniti non proibiscono a chi non ècittadino statunitense di votare a livello federale.47 LaCostituzione degli Stati Uniti d’America, per esempio,non esige la cittadinanza statunitense dei votanti. Comesuccede per le votazioni interne alle società, la decisio-ne su chi abbia il diritto di voto alle elezioni federalispetta al potere legislativo dei singoli Stati. Nel diciot-tesimo e nel diciannovesimo secolo, furono almenoventidue gli Stati e i territori statunitensi a concedere ildiritto di voto agli immigrati, sia per le elezioni statali,sia per le elezioni federali; in ogni caso, negli Stati Unitiil diritto di voto a chi non è in possesso della cittadi-nanza è stato concesso nel 1928.48 Analogamente, inEuropa il Trattato di Maastricht ha concesso a tutti glieuropei il diritto di voto non soltanto nel proprio paese,ma anche negli altri paesi dell’Unione Europea.

I teorici del diritto di voto asseriscono in modo con-vincente che i principi fondamentali della democraziaesigono un’estensione del diritto di voto all’interno diuna comunità in base all’«interesse che l’individuo hanella comunità stessa e nell’esito della votazione».49 Maè più facile a dirsi che a farsi, perché è estremamentedifficile definire cosa sia davvero un “interesse” in unacomunità, che sia una città o un’azienda.

Supponiamo che le elezioni abbiano luogo oggi, peresempio, e che io abbia pianificato di partire per un

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4477.. Jennifer Gordon, “Let Them Vote: A Response to ‘The Immigrant asPariah’ by Owen Fiss”, Boston Review, ottobre-novembre 1998, disponibile suhttp:// bostonreview.net/BR23.5/Gordon.html, consultato 22 febbraio 2008.

4488.. Jennifer Gordon, “Let Them Vote”. Vedi anche Minor v. Happersett, 88U.S. 162, 1874; la Corte Suprema degli Stati Uniti affermò che «la cittadi-nanza non è in nessun caso una condizione necessaria per ottenere il dirittodi voto», sottolineando che in diversi Stati, quali Missouri, Texas, Indiana,Georgia, Alabama, Arkansas, Florida, Kansas e Minnesota, gli immigrati nonnaturalizzati hanno diritto di voto. Minor v. Happersett, 177. Come osservaJennifer Gordon in “Let Them Vote”, «offrire il privilegio di voto ai nuoviarrivati era un modo per attirare nuovi coloni in un vasto paese largamentespopolato».

4499.. Vedi Minor v. Happersett, 88 U.S. 162.

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altro paese. Immaginiamo che io possieda le azioni diuna società che ho già deciso di mettere in venditadomani, o che queste azioni facciano parte di un porta-foglio tanto ben diversificato da garantirmi che seanche il loro valore dovesse scendere, quello di altreazioni all’interno del mio portafoglio salirebbe. O chesia chiamato a esprimere il mio voto in un referendumcomunale finalizzato a cambiare le leggi urbanisticheper consentire a un complesso manifatturiero di opera-re in una particolare zona, ma posseggo delle azioni diun gruppo concorrente in Cina. O ancora che sia chia-mato a votare per decidere l’estensione dell’attività diuna società in India ma detenga delle azioni in altresocietà che operano già sul mercato indiano e che sonodestinate a essere le dirette concorrenti della società percui sto votando. Questi conflitti subdoli e sottili sugge-riscono che i criteri indicativi di un interesse nellacomunità – per esempio la proprietà di beni – non solosono grossolani ma al contempo eccessivi e restrittivi.Ovviamente, sono molte le persone che, pur non posse-dendo alcun bene, hanno comunque un interesse nellacomunità per cui dovrebbe essere loro permesso divotare. Analogamente, possono esserci molte personein una particolare comunità che, pur avendo delle pro-prietà, hanno solo un minimo ed evanescente interessenella comunità stessa, magari perché hanno altri inte-ressi di proprietà altrove.

Questi ragionamenti basilari sui principi del voto,che da decenni affliggono le votazioni a vari livelli, soloora iniziano ad affacciarsi anche sulla scena delle vota-zioni societarie. È ovvio che, a fronte delle numeroseopportunità di coprire l’investimento, di vendere alloscoperto o di diversificare completamente il portafo-glio, non tutti gli azionisti hanno interessi o poste ingioco all’interno delle società proporzionali alla percen-tuale di azioni detenute. Così, mentre i lavoratori chehanno un elevato interesse e molto da perdere nellesocietà in cui sono impiegati non sono ammessi al voto(a meno che e nella misura in cui posseggano delle azio-ni), gli azionisti che hanno solo un esiguo interesse, per

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non dire nessun interesse, nella società di cui detengo-no le azioni, possono votare (a meno che non sia statoloro esplicitamente proibito di farlo).

Inoltre, nelle votazioni societarie è estremamenteraro (anche se non impossibile) per altre figure azien-dali non-azioniste, quali gli obbligazionisti o i dipen-denti, essere ammesse al voto. A complicare ulterior-mente le cose v’è inoltre la possibilità di emettere azio-ni con diritti di voto differenti. In Europa, in Asia e, inmisura minore anche negli Stati Uniti, diverse classi diazioni hanno diritti di voto differenti. Per esempio, inGermania il 100 per cento delle azioni votanti dellasocietà automobilistica Porsche è di proprietà dellafamiglia Porsche, la quale detiene invece solo il 10 percento delle azioni societarie senza diritto di voto. Ferdi-nand Piech, nipote del fondatore della società e presi-dente del consiglio di sorveglianza, difende questomodello di voto in base al ragionamento che esso con-sente alla società di investire sul lungo periodo e diavere un approccio più simile a quello degli altri porta-tori di interessi nei confronti dell’attività. Lo stessoPiech, una volta, ebbe modo di osservare che la Porsche«aveva sentito parlare del valore per gli azionisti. […]Ma che metteva al primo posto i clienti, poi i lavorato-ri, i soci d’affari, i fornitori, i rivenditori e solo dopo gliazionisti».50

La situazione per cui una società ha due classi diazioni, una con diritto di voto e l’altra senza, come nelcaso della Porsche, è comune ma non unica. Altre socie-tà sono costituite da classi di azioni con diritti di votomultipli che permettono a una classe di azioni di averepiù voti per ogni azione rispetto a un’altra, esistonoinoltre delle limitazioni al diritto di voto di ogni singo-lo azionista, indipendentemente dal numero o dal tipodi azioni in suo possesso. Un esempio di quest’ultimaconfigurazione di voto si trova alla Volkswagen, la

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5500.. Colin Mayer - Julian Franks, “Different Votes for Different Folks”,Financial Times, 16 ottobre 2006, http://www.ft.com/cms/s/ceb8f2b6-5f79-11db-a011-0000779e2340.html, consultato 26 maggio 2007.

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quale impone a ogni singolo azionista un “tetto divoto” massimo del 20 per cento, a prescindere dalnumero di azioni in portafoglio.51

Tra i risultati statistici più importanti per la corpora-te governance va segnalato che le azioni con diritto divoto vengono negoziate a premio, vale a dire con unsovrapprezzo rispetto al corso delle azioni senza dirittodi voto e che, fermo restando tutto il resto, le azioni conun più ampio diritto di voto hanno un corso superiorerispetto ad azioni identiche della stessa società ma condiritti di voto più limitati. Inoltre, l’entità del sovrap-prezzo associato al potere di voto varia molto nei varipaesi. Ronald C. Lease, John J. McConnell e Wayne H.Mikkelson rilevano un sovrapprezzo medio pari al 5,4per cento soltanto negli Stati Uniti.52 Il sovrapprezzomedio trovato da Brian F. Smith e Ben Amoako-Adu siattesta invece sul 6,4 per cento.53 In Svizzera il sovrap-prezzo è del 18 per cento.54 In altri paesi, i sovrapprezzisono persino più alti. Haim Levy registra un premio al45,5 per cento in Israele.55 Nello studio probabilmentepiù famoso di questa lunga serie, e senz’altro quello conil risultato più intrigante, Luigi Zingales registra unpremio dell’82 per cento per le azioni con diritto di votorispetto alle azioni senza diritto di voto in Italia.56

L’analisi fin qui offre almeno quattro spunti fonda-mentali. La prima osservazione deriva dall’evidenza chele azioni sono “semplicemente” delle attività finanziarie.Come tali non caricano il voto nell’ambito di una società

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5511.. Colin Mayer - Julian Franks, “Different Votes for Different Folks”.5522.. Ronald C. Lease - John J. McConnell - Wayne H. Mikkelson, “The

Market Value of Control in Publicly Traded Corporations”, Journal of Finan-cial Economics, 11, aprile 1983, pp. 439-472.

5533.. Brian F. Smith - Ben Amoako-Adu, “Relative Prices of Dual Class Shares”,Journal of Financial and Quantitative Analysis, 30, giugno 1995, pp. 223-239.

5544.. James J. Angel - Roger M. Kunz, “Factors Affecting the Value of theVoting Right: Evidence from the Swiss Equity Market”, Financial Manage-ment Magazine, 25, autunno 1996, p. 19.

5555.. Haim Levy, “Economic Evaluation of Voting Power of CommonStock”, Journal of Finance, 38, marzo 1983, pp. 79-93.

5566.. Luigi Zingales, “The Value of the Voting Right: A Study of the MilanStock Exchange Experience”, Review of Financial Studies, 7, primavera 1994,pp. 125-148.

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di alcun valore simbolico, dignitario, o intrinseco, con-trariamente a quanto accade invece per le elezioni politi-che. D’altro canto, questo significa che il valore del dirit-to di voto in una società può essere monetizzato.

In secondo luogo, proprio perché le azioni sono atti-vità finanziarie, il solo fatto che le azioni con diritto divoto valgano più delle medesime identiche azionisenza diritto di voto risulta essere interessante in unapura ottica di corporate governance. Dopotutto se gliazionisti “al potere” (cioè quelli con diritto di voto),possono ottenere da quel potere gli stessi benefici dis-ponibili per tutti gli azionisti, per esempio i vantaggiderivanti da un rialzo dei corsi azionari e dal pagamen-to dei dividendi o da altri indici di una buona corpora-te governance, allora le azioni con diritto di voto nondovrebbero valere più delle azioni senza diritto di voto.Dunque il vantaggio relativo di possedere azioni condiritto di voto invece che azioni senza diritto di voto,deve essere attribuibile a un particolare tipo di vantag-gio che scaturisce dal diritto di voto, che i possessoridelle azioni votanti otterranno e che gli azionisti nonvotanti non avranno, perché altrimenti le azioni condiritto di voto e le azioni senza diritto di voto verrebbe-ro vendute allo stesso prezzo. Questi vantaggi vannosotto il nome di “benefici privati di controllo” e posso-no assumere la forma di stipendi superiori alla mediadi mercato, gratifiche d’ufficio e altri benefici, riservatia chi controlla le votazioni all’interno di una società epreclusi invece agli azionisti senza diritto di voto.

Terzo, la miriade di problemi legati al voto e ai suoiincentivi è talmente complessa che, almeno nell’ambitodella corporate governance, avrebbero senso solo normeparticolareggiate e formulate al livello più specifico pos-sibile. Diversamente da quanto accade per le politicheelettorali generali, nella corporate governance non esi-stono problemi di discriminazione per sesso o razza oaltri fattori intollerabili; la questione è puramente econo-mica e ogni società è fortemente incentivata a risolverequesti tipi di problemi almeno ex ante (cioè prima di quo-tarsi) per massimizzare il valore delle proprie azioni.

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In un contesto societario, questa è un’area nellaquale gli incentivi del management sono generalmente– o perlomeno all’inizio – allineati con quelli degli inve-stitori più razionali, che mirano alla massimizzazionedel profitto. Nessuno desidera che un esterno o un altroazionista acquisti la società a buon mercato, o che pro-vochi la diluizione del valore della società pagando unprezzo eccessivo per una società bersaglio. Dunquepossiamo stare certi che se esistono delle soluzioni aquesti problemi, il management le troverà senz’altro.Non si può dire lo stesso per le norme di diritto socie-tario in materia di voto degli azionisti: esiste, infatti, unchiaro e quasi palpabile conflitto di interessi tra gli azio-nisti e il management, con la dirigenza da un lato chefavorisce norme di voto in grado di ostacolare il piùpossibile le scalate e gli azionisti, dall’altro che incorag-giano norme di voto in grado di agevolarle.

Quarto, i problemi di incentivazione e di conflittoche caratterizzano il voto degli azionisti si assommanoalle ben note riflessioni sull’ignoranza razionale e sulfree-riding e nell’insieme suggeriscono che Easterbrooke Fischel avevano fondamentalmente ragione nel soste-nere che se per qualsiasi ragione si dovesse limitare ilvoto degli azionisti, senz’altro non lo si dovrebbe limi-tare nelle battaglie per il controllo societario. Il premiodelle azioni con diritto di voto rispetto a quelle senzadiritto di voto rappresenta almeno in parte «l’opportu-nità per chi vota di migliorare le prestazioni della socie-tà».57 Si supponga, per esempio, che una società abbia100 azioni in circolazione; le azioni valgono 1 dollarol’una al momento attuale, ma con un nuovo gruppodirigenziale il valore delle azioni raddoppierebbe rag-giungendo i 2 dollari. Un azionista con 40 azioni, che hapagato 40 dollari, sarebbe disposto a versare altri 62dollari (5,63 dollari per azione) al fine di acquisire lerestanti 11 azioni che gli permetterebbero di ottenere lamaggioranza di controllo sulla società. Pagare 5,63 dol-lari per ognuna delle 11 azioni porterebbe il suo inve-

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5577.. Luigi Zingales, “The Value of the Voting Right”.

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stimento totale a 101,93 dollari per le 51 azioni, per untotale di 102 dollari (ovvero di 2 dollari per azione).

Nell’esempio, dopo l’acquisizione del pacchetto dicontrollo, la quota di minoranza residua di 49 azioni rad-doppierebbe di valore passando da 1 dollaro a 2 dollariper azione. In queste circostanze gli azionisti di minoran-za sarebbero disposti a concedere agli azionisti di mag-gioranza una serie di benefici privati di controllo perincentivarli ad assumere la posizione di controllo e a met-tere in atto i cambiamenti di corporate governance neces-sari a fare crescere il valore azionario. In altre parole,detenere azioni che abbiano il diritto di voto diventa lachiave per avviare un mercato del controllo societario,perché senza diritto di voto le azioni non avrebbero alcunincentivo per indurre un investitore esterno a pagare unsovrapprezzo per ottenere il controllo a beneficio di tuttigli azionisti, come nell’esempio appena descritto.

Alla luce della complessità e dei conflitti che con-traddistinguono il voto degli azionisti, è bene che il votosia usato solo per integrare, piuttosto che per sostituireil potere del consiglio. Proprio come le forme di gover-no repubblicano, in cui il potere è suddiviso in un siste-ma di controlli e contrappesi, sono superiori rispetto allademocrazia diretta, si rivelano migliori anche i sistemidi corporate governance in cui l’agire degli azionistivenga severamente limitato e temperato da altre istitu-zioni di corporate governance quali i consigli di ammi-nistrazione, il management, le forze di mercato, i con-tratti, i doveri fiduciari e gli atti costitutivi delle società.

La morale è che il voto degli azionisti non è la pana-cea di tutti i problemi di corporate governance, cosìcome non lo sono i consigli di amministrazione o ilmercato del controllo societario. Tutt’al più, questi sin-goli elementi sono i piccoli ingranaggi di un sistema dicorporate governance estremamente complesso, il cuisuccesso non dipende dai singoli elementi.

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Nel 2002, il presidente della banca francese SociétéGénérale, Daniel Bouton, annunciò che il colosso euro-peo Vivendi Universal avrebbe dovuto svendere i pro-pri cespiti per ridurre in parte il proprio indebitamento,lievitato fino a 18,5 miliardi di dollari. La banca dichia-rò che il «presidente [del colosso mediatico] dovrà pre-sto cambiare (l’ottica finanziaria) e iniziare ad alienarecespiti».1 Quando poi il presidente e CEO di Vivendiannunciò la cessione a General Electric di una parteci-pazione in una delle business unit principali, infiorettòl’operazione come «un ottimo accordo per gli azionistidi Vivendi Universal, dal punto di vista sia della crea-zione di valore sia della riduzione del debito. Questaoperazione contribuirà a diminuire significativamentel’indebitamento di Vivendi Universal, che entro la finedel 2004 dovrebbe scendere al di sotto dei [6 miliardi didollari]».2

Nello stesso momento, oltreoceano, alla rivaleTime Warner l’investitore in private equity Carl Icahnaccusava il presidente Richard Parsons di non perse-guire l’obiettivo di «massimizzare il valore per gli

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Capitolo 14

Il ruolo delle banche e di altri intermediarifinanziari nella corporate governance

11.. “Vivendi Will Have to Sell Assets”, The Times of India, 8 luglio 2002,http://timesofindia.indiatimes.com/articleshow/15297327.cms.

22.. “General Electric and Vivendi Universal Sign Agreement to Merge NBCand Vivendi Universal Entertainment”, Business Wire, 8 ottobre 2003, http://www.findarticles.com/p/articles/mi_m0EIN/is_2003_Oct_8/ai_108625382.

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azionisti».3 Icahn, che deteneva una partecipazionepari al 3,3 per cento e dunque era uno dei principaliazionisti di questo colosso, si alleò con altri investito-ri nel 2005 per lanciare un’offerta finalizzata allaframmentazione dell’impero mediatico di Time War-ner, similmente a quello che Société Générale stavafacendo con Vivendi. Icahn ottenne alcune concessio-ni finalizzate alla riduzione dei costi, ma non riuscì ariunire un numero sufficiente di azionisti, tra le migliaiadi aventi diritto, per influenzare l’elezione del consigliodi amministrazione della società. Gli azionisti erano cosìdisseminati che Icahn fu costretto a ritirarsi.4

Come suggeriscono queste e altre storie contenute inquesto libro, i meccanismi americani per il monitorag-gio e il controllo dei dirigenti aziendali differiscono daquelli in uso in Europa. La Germania, per esempio, è unpaese con un sistema bancario universale che ha «l’au-torità, le informazioni e il potere di sorvegliare efficace-mente l’attività del management e sanzionarlo se neces-sario»,5 e le banche commerciali assumono un ruoloattivo nel mitigare l’elusione di responsabilità e gli ille-citi a livello dirigenziale.6 In forte contrasto con le con-troparti tedesche, alle banche americane è tradizional-mente stato impedito di assumere un ruolo attivo nellacorporate governance; poiché non hanno né il potere néla motivazione per controllare le imprese beneficiarie

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33.. “Icahn Prods Time Warner to Take Action”, CNNMoney.com, 15 agosto2005, http://money.cnn.com/2005/08/15/news/fortune500/icahn_timewarner/.

44.. Steven Levingston, “Icahn, Time Warner End Fight: Dissident InvestorWon’t Seek Control”, Washington Post, 18 febbraio 2006, http://www.was-hingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2006/02/17/AR2006021702017.html.

55.. Ronald T. Gilson - Reinier Kraakman, “Investment Companies as Guar-dian Shareholders: The Place of the MSIC in the Corporate GovernanceDebate”, Stanford Law Review, 45, 1993, p. 988; vedi anche Mark J. Roe, “APolitical Theory of American Corporate Finance”, Columbia Law Review, 91,1991, pp. 13-16, sulle recenti critiche al sistema statunitense di corporategovernance.

66.. Vedi Mark J. Roe, “Some Differences in Corporate Structure in Ger-many, Japan and the United States”, Yale Law Journal, 102, 1993, pp. 1927-1948, dove viene descritta l’influenza degli investitori che detengono grandipacchetti azionari all’interno delle società tedesche.

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del credito con la stessa intensità delle banche tedesche,il ruolo di controllo nel sistema statunitense di corpora-te governance è svolto da coloro che forniscono allasocietà unicamente capitale netto, ovvero gli azionisti.Di conseguenza, rispetto alla Germania e al Giappone,la struttura americana di corporate governance concen-tra il potere nelle mani del management.7 Gli azionistiamericani sono troppo frammentati per controllare leattività del management e tipicamente incapaci di crea-re coalizioni politiche efficaci, per cui in genere nonsono in grado di influenzare le decisioni dei verticiaziendali. Gli studiosi di giurisprudenza hanno spessocriticato l’assenza delle banche nel sistema statunitensedi corporate governance, addebitando agli Stati Uniti diaver «rigidamente limitato lo sviluppo di rapporti digovernance a più livelli».8 In particolare, gli strumentiamericani di sorveglianza e controllo del managementaziendale sono ritenuti grossolanamente inferiori aquelli disponibili in paesi che consentono la diversifica-zione dell’attività bancaria. Le imprese americane sonodenigrate come società “Berle-Means”,9 caratterizzateda un azionariato ampiamente diffuso, la separazionetra il management e l’assunzione dei rischi, e notevoliconflitti di agenzia tra dirigenti e azionisti.10

Storicamente, oltre la metà di tutte le azioni delle

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77.. Mark J. Roe, “Some Differences in Corporate Structure in Germany, Japanand the United States”, pp. 1928-1930. Questa concentrazione di potere nellemani del management è originata dalla situazione economica alla fine del XIXsecolo, quando l’avvento delle capacità produttive su larga scala richiese l’inve-stimento di vasti capitali, che potevano essere rastrellati solo presso un vastonumero di investitori disseminati sul territorio. Mark J. Roe, “Some Differencesin Corporate Structure in Germany, Japan and the United States”, p. 1933.

88.. Ronald T. Gilson - Reinier Kraakman, “Investment Companies as Guar-dian Shareholders”, p. 989; vedi anche Mark J. Roe, “A Political Theory ofAmerican Corporate Finance”, pp. 13-16.

99.. Il termine società “Berle-Means” deriva dal nome degli autori di un clas-sico dell’economia, in cui si descrive la separazione tra proprietà e controllonelle grandi società ad azionariato diffuso. Adolph A. Berle Jr. - Gardiner C.Means, The Modern Corporation and Private Property, 1932; ristampa, Buffa-lo NY, W. S. Hein and Company, 1982.

1100.. In realtà, secondo alcuni commentatori, la passività degli azionisti asso-ciata alla natura fortemente disseminata dell’azionariato permette al manage-

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società americane è sempre stata detenuta dalle fami-glie, mentre in Germania lo stesso dato non arriva al 20per cento; d’altro canto, storicamente oltre la metà delleazioni tedesche è sempre stata posseduta dalle banchee dalle imprese,11 mentre le società americane detengo-no meno del 10 per cento del mercato azionario.12 Se ilpotere di voto è frammentato nelle società americane,in Germania è invece molto più aggregato. È lecitoaffermare che uno dei due sistemi sia decisamentemigliore dell’altro? Il paradigma su cui si fonda l’attua-le teoria della corporate governance indica che il siste-ma bancario universale tedesco, a cui questo capitolofarà riferimento in quanto modello di regime bancariouniversale, favorisce un processo decisionale societarioottimale sul piano sociale. Secondo questa teoria, lebanche commerciali, se libere di operare in assenza diregolamentazione, sono in grado di sorvegliare einfluenzare la corporate governance delle società quo-tate in modo da migliorarne con ogni probabilità anchela performance. Tuttavia, il sistema legislativo statuni-tense limita l’influenza delle banche a un livello infe-riore, circoscrivendone le dimensioni e l’ambito di ope-ratività, finanziario e geografico. Potendo contare sol-tanto su un azionariato molto diffuso, le istituzioni digovernance statunitensi sono state costrette a seguireun modello particolare di Berle-Means concepito sulla

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ment di avere il pieno controllo della corporate governance in ogni detta-glio. Vedi, per esempio, Carol Goforth, “Proxy Reform as a Means ofIncreasing Shareholder Participation in Corporate Governance: Too Little,But Not Too Late”, American University Law Review, 43, 1994, pp. 413-414, dove si afferma che il sistema di corporate governance americano,strutturalmente caratterizzato dalla concentrazione del potere nelle manidel management e dall’ampia diffusione dell’azionariato, ha portato ilmanagement a creare un sistema decisionale inefficiente e condizionato dal-l’interesse personale.

1111.. Comprese anche le società di investimento a capitale variabile (sicav) ele società di intermediazione mobiliare, ma non le compagnie di assicurazio-ne e i fondi pensione.

1122.. Gary Gorton - Frank A. Schmid, “Universal Banking and the Perfor-mance of German Firms”, bozza n. 5453, National Bureau of EconomicResearch, febbraio 1996, http://www.nber.org/papers/w5453.pdf.

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base di interventi successivi, dagli amministratori indi-pendenti alle scalate ostili, intesi a colmare la distanzatra la proprietà e il management nonostante la fram-mentazione delle partecipazioni azionarie.

Questo capitolo illustra il ruolo delle banche nellacorporate governance delle società ad azionariato diffu-so. Dubito che sia auspicabile – e tanto meno preferibi-le – un coinvolgimento attivo delle banche commercia-li nella corporate governance. I fautori del coinvolgi-mento delle banche nella corporate governance sullabase di quello che è a volte definito il modello di “bancauniversale”, o modello di “banca principale”, tralascia-no i considerevoli costi della corporate governancedominata dalle banche e ignorano gli importanti bene-fici del sistema americano di corporate governancedominata dal capitale. Chi chiede un ruolo attivo per lebanche nella corporate governance ignora le sostanzia-li differenze tra gli incentivi al controllo di chi detieneuna quota del capitale (azionisti) e gli incentivi al con-trollo di chi detiene una quota del debito (obbligazioni-sti). Una volta comprese le questioni motivazionali chespingono le banche commerciali a introdursi nella sferadella corporate governance, è chiaro che un maggiorcoinvolgimento delle banche nella governance dellesocietà americane non risolverà i problemi generatidalla separazione tra proprietà e controllo. Piuttosto,l’incursione delle banche nella corporate governanceaccende una serie di nuovi conflitti tra aventi dirittopoco propensi al rischio, che accendono prestiti, e i resi-dual claimants, ovvero gli azionisti, che investono incapitale di rischio. Per questo motivo, agli Stati Unitigiova di più tentare di correggere il proprio sistema dicorporate governance liberalizzando il mercato del con-trollo societario e allentando la stretta normativa suhedge fund e private equity piuttosto che tentare diadottare un sistema completamente nuovo, con tutti iproblemi connessi.

Il paragrafo I tratta il conflitto di interessi tra i credi-tori di un’impresa (cosiddetti fixed claimants), compresele banche, da un lato, e i cosiddetti equity claimants del-

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Il ruolo delle banche e di altri intermediari finanziari

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l’impresa dall’altro. La comprensione di questo conflit-to è essenziale per poter analizzare i presunti vantaggidi sistemi dominati dalle banche rispetto al sistemaamericano. Questo capitolo dimostra la fragilità delpresupposto su cui si regge l’attuale paradigma sulruolo delle banche nella corporate governance, ossiache quel che va bene per le banche di un paese va beneanche per le imprese del paese. Facendo riferimento aprincipi fondamentali dell’economia e della finanza,questo capitolo dimostra che nella misura in cui le ban-che controllano le imprese beneficiarie del credito èprobabile che l’assunzione di rischi scenda al di sottodella soglia ottimale in una prospettiva sociale.

Il paragrafo II applica la teoria articolata nel para-grafo I. Punta i riflettori sul sistema di governance tede-sco quale modello del sistema bancario universale e lovaluta rispetto al conflitto descritto nel paragrafo I. InGermania, le banche esercitano più influenza sul pro-cesso decisionale aziendale rispetto alle banche degliStati Uniti. Le banche hanno sfruttato questa influenzaper ridurre l’assunzione di rischi nelle imprese e rallen-tare il mercato del controllo societario. Comunemente,si ritiene che il sistema bancario tedesco prevalga sulmercato del controllo societario perché questo tipo disistema riduce i costi di agenzia e migliora la perfor-mance dei dirigenti.13 Questo capitolo sostiene la tesiper cui il sistema di corporate governance dominatodalle banche costituisce in realtà un ostacolo allo svi-luppo di un efficiente mercato del controllo societario.

Il paragrafo III colloca le implicazioni delle suddetteipotesi nel dibattito sulla corporate governance america-na: dare semplicemente più potere ai fixed claimants chealle imprese beneficiarie del credito non risolverà nessu-

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Corporate governance

1133.. Steven N. Kaplan - Bernadette A. Minton, “Appointments of Outsidersto Japanese Boards: Determinants and Implications for Managers”, Journal ofFinancial Economics, 36, 1994, p. 257. Vedi anche Randall Morck - MasaoNakamura, “Banks and Corporate Control in Japan”, bozza n. 6-92, Institu-te for Financial Research, Faculty of Business, University of Alberta, revisio-ne 26 luglio 1993, pp. 3-5.

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no dei problemi della corporate governance americana.Piuttosto, negli Stati Uniti la performance può essereefficacemente ottimizzata eliminando le restrizioni almercato del controllo societario, agli hedge fund e alleimprese di private equity, ovvero dando più voce aidetentori del capitale. Inoltre, alcune caratteristiche fon-damentali del diritto americano – quali la legislazione inmateria ambientale, il diritto societario e le norme sullaresponsabilità dell’istituto di credito – limitano la capa-cità delle banche statunitensi di monitorare e controlla-re l’azzardo morale delle imprese che accendono il pre-stito come è permesso in base alle normative europee.Per questi motivi, l’attività bancaria universale offremeno vantaggi di quanto possa sembrare, mentre altripiù incrementali mutamenti nelle normative legislativerisultano potenzialmente più premianti.

I. Il conflitto di interessi tra equity claimants “puri” ele banche

Gli studiosi moderni hanno formalizzato il conflittodi interessi nella moderna società ad azionariato diffu-so tra gli interessi dei fixed claimants (quali le banche) egli interessi degli azionisti che hanno diritto al residuodegli utili dell’impresa.14 Nell’allocazione delle attività,le imprese che aumentano il livello di rischio trasferi-scono la ricchezza dai fixed claimants ai residual clai-mants.15 Ne consegue che, se gli azionisti riescono ainfluenzare le decisioni dei vertici aziendali con il pote-re di voto, possono anche arricchirsi a spese dei fixed

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Il ruolo delle banche e di altri intermediari finanziari

1144.. Vedi, per esempio, William A. Klein - John C. Coffee Jr., Business Orga-nization and Finance: Legal and Economic Principles, decima edizione, NewYork, Foundation Press, 2007, pp. 225-226; Barry E. Adler, “Finance’s Theo-retical Divide and the Proper Role of Insolvency Rules”, Southern CaliforniaLaw Review, 67, 1994, p. 1107; Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel,“The Corporate Contract”, Columbia Law Review, 89, 1989, p. 1416; DavidMillon, “Theories of the Corporation”, Duke Law Journal, 1990, p. 201.Questo argomento e l’esempio che segue sono stati ripresi da Jonathan R.Macey - Geoffrey P. Miller, “Bank Failures, Risk Monitoring, and the Marketfor Bank Control”, Columbia Law Review, 88, 1988, p. 1153.

1155.. William A. Klein - John C. Coffee Jr., Business Organization and Finan-ce, p. 257, «indipendentemente dal punto di partenza, se si mantengono

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claimants spostando le attività verso investimentirischiosi. Analogamente, nella misura in cui le banche ealtri fixed claimants riescono a influenzare le decisionidella società tramite strutture di corporate governance(o, come accade in Germania, grazie alla possibilità divotare per conto del titolare del pacchetto azionario),questi possono arricchirsi a spese degli azionisti. L’e-sempio che segue illustra questa teoria.

Supponiamo che un’impresa abbia attività per 1000dollari e passività per 500 dollari. Supponiamo che i 500dollari rappresentino il capitale e gli interessi sul pre-stito richiesto alle banche. Ne risulta che all’impresarimane in effetti un capitale sociale netto pari a 500 dol-lari. L’impresa deve scegliere tra la strategia di investi-mento A, che prospetta un rendimento pari a 2020 dol-lari, e la strategia di investimento B, che prospetta unrendimento pari a 1875 dollari.16

Nella strategia A, esiste una probabilità del 5 percento che la banca subirà una piccola perdita perché sel’investimento rende solo 400 dollari l’impresa non saràin grado di rimborsare interamente il prestito di 500dollari. Per contro, la strategia B non comporta alcunrischio di perdita per la banca perché anche nella peg-giore delle ipotesi la strategia B rende a sufficienza perrimborsare interamente la quota capitale e gli interessidovuti sul prestito acceso dall’impresa presso la banca.

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Corporate governance

costanti il valore totale di mercato della società e di tutti i titoli, una decisio-ne che sposta gli investimenti in modo tale da aumentare un simile rischioavrà come conseguenza un rialzo del valore delle azioni ordinarie e un ribas-so del valore delle obbligazioni»; Roberta Romano, “Financing the Corpora-tion”, in Foundations of Corporate Law, a cura di Roberta Romano, p. 123.

1166.. Per quanto riguarda la strategia A, ipotizziamo cinque possibili rendi-menti, rappresentati dai ritorni monetari per l’impresa elencati nella secondacolonna della tabella relativa alla strategia A (nella prima vi è invece la proba-bilità che si verifichi ciascuno scenario). Qualsiasi sia il rendimento, la socie-tà prima paga la banca e poi distribuisce eventuali residui tra gli azionisti ordi-nari. Il valore del rendimento atteso per la società, la banca e gli azionisti ordi-nari si ottiene moltiplicando il ritorno monetario per l’indice di probabilità.Le somme dei valori attesi rappresentano i valori complessivi di investimentoattesi dalla strategia A per la società, la banca e gli azionisti. In questo modosi possono leggere anche le altre strategie presentate.

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Tuttavia, tra le strategie A e B vi sono altre dueimportanti differenze: innanzitutto, nell’ottica degliazionisti la strategia B è significativamente meno allet-tante rispetto alla strategia A; la strategia B prospettaun rendimento per gli azionisti pari a soli 1375 dollari,contro 1525 dollari nel caso della strategia A. L’eviden-te disparità nelle previsioni di rendimento si spiega conil semplice fatto che la strategia A ha sia un maggiorepotenziale upside sia un maggior potenziale downsiderispetto alla strategia B. Poiché gli equity claimantshanno diritto a tutti gli utili residui dopo aver rimbor-sato il prestito alla banca ma condividono le eventualiperdite con la banca, ovviamente preferiscono l’investi-mento più rischioso.

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Il ruolo delle banche e di altri intermediari finanziari

Tabella 14-1Strategie d’investimento

Impresa

$20

$200

Banca

$20

$100

Azionisti ordinari

$0

$100

Impresa

$400

$1000

Banca

$400

$500

Azionisti ordinari

$0

A. Probabilità

0,05

0,20 $500

$1000

$600

$250

$100

$750

$500

$2000

$3000

$500

$500

$15000,50

0,20 $2500

$200

$2020

$25

$495

$175

$1525

$4000

$500

$35000,05

1,0 –

Impresa

$250

$1000

Banca

$125

$250

Azionisti ordinari

$125

$750

Impresa

$1000

$2000

Banca

$500

$500

Azionisti ordinari

$500

B. Probabilità

0,25

0,50 $1500

$625

$1875

$125

$500

$500

$1375

$2500

$500

$20000,25

1,0 –

Impresa

$0

$500

Banca

$0

$250

Azionisti ordinari

$0

$250

Impresa

$0

$1000

Banca

$0

$500

Azionisti ordinari

$0

C. Probabilità

0,30

0,50 $500

$1400

$1900

$100

$350

$1300

$1550

$7000

$500

$65000,20

1,0 –

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La strategia B è inadeguata anche dal punto di vistadell’impresa, poiché il rendimento atteso dalla strategiaA è pari a 2020 dollari, rispetto ai soli 1875 dollari dellastrategia B. Pertanto, se il sistema economico lasciassela piena autorità decisionale in materia di investimentiai fixed claimants, quali le banche, la produttività e ilprodotto interno lordo scenderebbero a livelli non otti-mali in quanto le banche distoglierebbero gli investi-menti dai progetti più validi per orientarli verso pro-getti di minor valore. Secondo Frank Easterbrook eDaniel Fischel, nel sistema americano di corporategovernance la facoltà di orientare le decisioni d’investi-mento è in capo agli azionisti, in quanto residual clai-mants, perché su un’ampia serie di questioni sono gliazionisti che hanno il maggior incentivo a massimizza-re il valore dell’impresa.17

Naturalmente, così come il conferimento dell’autori-tà assoluta ai fixed claimants dell’impresa non sarebbeuna soluzione ottimale, altrettanto errato sarebbelasciare carta bianca agli equity claimants per tutte ledecisioni d’investimento, poiché questi ultimi sonomotivati a creare ricchezza per se stessi aumentando illivello di rischio dell’impresa in cui hanno investito.Fatte le dovute considerazioni, gli azionisti potrebberooptare per la strategia C.

La scelta della strategia C accrescerebbe il rendi-mento atteso per gli azionisti da 1525 dollari (strategiaA) a 1550 dollari, ma ridurrebbe il rendimento attesodell’investimento per le banche da 495 a 350 dollari e ilrendimento complessivo per l’impresa da 2020 a 1900dollari. Come sopra, il rischio di ciascuna strategia, rap-presentato dalla probabilità che si verifichi uno specifi-co scenario, determina il rendimento atteso di ciascunprogetto. Per la strategia A, la deviazione standard dal

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Corporate governance

1177.. Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “Voting in Corporate Law”,pp. 403-406. Ma Eugene F. Fama, “Agency Problems and the Theory of theFirm”, Journal of Political Economy, 88, 1980, pp. 290-292, afferma che il piùpotente incentivo a massimizzare il valore dell’impresa è il mercato del lavo-ro dirigenziale.

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rendimento atteso, 2020 dollari, è relativamente conte-nuta, solo 853 dollari.18 Per la strategia B, che nell’otticadella banca è il miglior investimento tra i tre, la devia-zione standard dal rendimento atteso di 1875 dollari èaddirittura inferiore, solo 545 dollari.19 Per la strategiaC, invece, la deviazione standard dal valore atteso di1900 dollari è piuttosto consistente, ben 2784 dollari.20

Per questo motivo, la strategia C è la peggiore delle treopzioni dal punto di vista della banca ma la migliorenell’ottica degli azionisti.21 Agli azionisti spetta la partedel leone dell’enorme potenziale upside associato allastrategia C ma divide il potenziale downside alla paricon la banca.

Se il mercato dei capitali funziona correttamente, èpossibile trovare un punto di equilibrio tra i disparatiinteressi di fixed claimants, equity claimants e tutti gli altriaventi diritto al flusso di cassa dell’impresa, quali lavo-ratori, dirigenti, fornitori e clienti. Una banca razionale

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1188.. La deviazione standard, che costituisce un buon indice di rischio delportafoglio, rappresenta lo scostamento tra i possibili rendimenti attesi per unportafoglio di investimento. Richard A. Brealey - Stewart C. Myers - FranklinAllen, Principles of Corporate Finance, ottava edizione, New York, McGraw-Hill, 2006, p. 134. La deviazione standard, rappresentata da s, è la radice qua-drata della varianza. La varianza si calcola con s[su‘2’] = (x-m)[su‘2’]p(x),dove x è il rendimento in dollari, p(x) la probabilità che si ottenga un tale ren-dimento e m è il valore atteso dalla strategia di investimento. In questo caso,s[su‘2’] = (400–2020)[su‘2’](0,05) + (1000–2020)[su‘2’](0,20) + (2000–2020)[su‘2’](0,50) + (3000–2020)[su‘2’](0,20) + (4000–2020)[su‘2’](0,05)= 727.600. La radice quadrata di 727.600 è 853 dollari, che rappresenta ladeviazione standard della strategia A.

1199.. Per la strategia B, la varianza viene calcolata con s[su‘2’] = (1000–1875)[su‘2’](0,25) + (2000–1875)[su‘2’](0,50) + (2500–1875)[su‘2’](0,25) =296.875; la deviazione standard della strategia B è pari a 545 dollari.

2200.. Per la strategia C la formula è s[su‘2’] = (0–2000)[su‘2’](0,30) +(1000–2000)[su‘2’](0,50) + (7500–2000)[su‘2’](0,20) = 7.750.000; la devia-zione standard raggiunge i 2784 dollari.

2211.. Il grado di varianza del rendimento non è propriamente il motivo percui un fixed claimant debba avversare un particolare schema di investimento.Anche se la varianza sta a indicare il grado di probabilità che il debitore ha difar fronte ai fixed claims, non è necessariamente un elemento determinante.Un fixed claimant è meno interessato al potenziale upside rispetto al rischiodownside, vale a dire rispetto alla probabilità che il rendimento ottenutoimpedisca al debitore di far fronte ai fixed claims. Una varianza alta può deri-vare da una sostanziale disparità tra i potenziali upside e downside, o anchesemplicemente da un elevato rischio downside.

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chiede interessi più elevati per compensare il rischioconnesso al prestito di denaro a imprese con portafoglidi investimento sulla linea della strategia B, solo perindurle a spostare le risorse verso la strategia A o C.D’altro canto, gli investitori sono meno disponibili adacquistare azioni di società le cui strategie di investi-mento siano vicine alla B rispetto ad A o C.

Secondo Ronald Coase, la contrattazione è lo stru-mento con cui le controparti possono raggiungere l’e-quilibrio ideale e massimizzare il rendimento comples-sivo per l’impresa.22 Gli azionisti, per esempio, potreb-bero accettare di pagare un tasso di interesse più eleva-to in cambio della possibilità di perseguire progetti piùrischiosi nella loro qualità di equity claimants. Analoga-mente, gli obbligazionisti potrebbero accettare un tassodi interesse più basso in cambio di una promessa credi-bile da parte degli azionisti di non spostare gli investi-menti verso progetti più rischiosi dopo l’estensione delcredito. Così, l’equilibrio che si realizza in un mercatodei capitali che funzioni correttamente non soltantoprotegge sia le banche che i detentori del capitale socia-le, ma promuove anche l’efficiente allocazione di risor-se all’interno della società perché garantisce il perse-guimento di investimenti tesi a massimizzare il rendi-mento e quindi il valore complessivo dell’impresa.

Questa considerazione offre due spunti importantiper il prosieguo del dibattito sui vari meccanismi dicorporate governance. In primo luogo, l’evidente con-flitto di interessi tra i fixed claimants (tra cui le banche) egli equity claimants dimostra chiaramente che le banchenon sono le istituzioni ideali per controllare la perfor-mance societaria per conto degli azionisti.23 In secondoluogo, i problemi legali e strutturali dei mercati deicapitali elevano i costi di transazione, ostacolandone il

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Corporate governance

2222.. Ronald H. Coase, “The Nature of the Firm”.2233.. Vedi Frank H. Easterbrook - Daniel R. Fischel, “The Corporate Con-

tract”, pp. 1444-1447, dove si afferma che il diritto societario ha la sua ragiond’essere nella minimizzazione dei costi di transazione tra gruppi di interessein competizione all’interno della società.

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funzionamento e rendendo più arduo per gli operatoridel mercato risolvere i conflitti intrinseci tra fixed clai-mants e residual claimants, oltre che con gli altri parteci-panti all’impresa. I dirigenti, per esempio, tendono aessere più avversi al rischio rispetto agli azionisti per-ché la loro retribuzione è per lo più fissa e gli incentivisono più allineati a quelli dei fixed claimants che non aquelli degli equity claimants. I manager sono ancorameno motivati all’assunzione di rischi perché l’investi-mento di capitale umano nel loro lavoro non è diversi-ficabile:24 il valore di tale capitale umano si deprezze-rebbe notevolmente in caso di insuccesso. I costi ditransazione, in particolare i costi della contrattazione el’impossibilità di predire il futuro, rendono impossibilela formulazione di contratti retributivi per la dirigenzain grado di allineare perfettamente gli interessi dei diri-genti con gli interessi degli azionisti.25 La discrepanzatra le preferenze di rischio dei dirigenti e le preferenzedegli azionisti spesso porta le imprese a un livello nonideale di assunzione di rischi.26

Le normative e le istituzioni rischiano di esacerbaretali inefficienze. Le norme che artificiosamente limitanoil mercato del controllo societario o aumentano il pote-re contrattuale di un gruppo di aventi diritto (per esem-pio, garantendo posizioni all’interno del consiglio diamministrazione) possono intralciare le parti di uninvestimento nel raggiungimento di un equilibrionegoziale che massimizzi la ricchezza e nell’allocazioneefficiente delle risorse.

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2244.. William A. Klein - John C. Coffee Jr., Business Organization and Finan-ce, pp. 266-267.

2255.. William A. Klein - John C. Coffee Jr., Business Organization and Finan-ce, pp. 266-267.

2266.. Vedi Irwin Friend - Larry H. P. Lang, “An Empirical Test of the Impactof Managerial Self-Interest on Corporate Capital Structure”, Journal of Finan-ce, 43, 1988, pp. 271, 280. I due autori sostengono che un elevato indice diindebitamento (con conseguenti maggiori rischi) nella struttura del capitalesocietario, è indice di bassa partecipazione azionaria nel management. Lesocietà in cui i principali investitori non sono i dirigenti tendono ad assume-re livelli maggiori di rischio.

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II. La banca universale in Germania a confronto con ilcontrollo degli azionisti negli Stati Uniti

Fin qui si sono delineati i presupposti teorici di duesistemi distinti: uno controllato dai fixed claimants e l’al-tro controllato dagli equity claimants. È il momento dispostare l’attenzione sul versante pratico. Scegliendo laGermania come paradigma di un sistema basato sulcontrollo per delega, questo paragrafo analizza innan-zitutto il funzionamento reale del modello tedesco dibanca universale e poi confronta questo sistema con ilmodello basato sul controllo degli equity claimants esi-stente negli Stati Uniti.

Dalla teoria alla pratica: la Germania«La banca universale rappresenta l’epicentro della

corporate governance tedesca».27 Gli studiosi tendono alromanticismo nella descrizione delle caratteristiche e deibenefici di questo sistema.28 I commentatori sostengonoche, contrariamente alle banche americane, le banchetedesche hanno «l’autorità, le informazioni e il potere percontrollare efficacemente l’attività del management esanzionarlo se necessario».29 Di conseguenza, è presumi-bile che il coinvolgimento della banca migliori la redditi-vità delle imprese.30

La Aktiengesellschaft (AG) è la personalità giuridicache più si avvicina alla società per azioni di stampoamericano, cioè ad azionariato diffuso.31 Diversamente

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Corporate governance

2277.. Ronald T. Gilson - Reinier Kraakman, “Investment Companies asGuardian Shareholders”, p. 988.

2288.. Vedi, per esempio, John Cable, “Capital Market Information and Indu-strial Performance: The Role of West German Banks”, Economic Journal, 95,1985, pp. 118-130, che sottolinea «il positivo rapporto tra il grado di coin-volgimento di una banca» in un’impresa e la performance finanziaria. PerRoberta Romano, “A Cautionary Note on Drawing Lessons from Compara-tive Corporate Law”, Yale Law Journal, 102, 1993, p. 2021, invece, le diffe-renze giuridiche e istituzionali tra paesi rendono difficile affermare che unsistema di corporate governance sia migliore di un altro.

2299.. Ronald T. Gilson - Reinier Kraakman, “Investment Companies asGuardian Shareholders”, p. 988.

3300.. John Cable, “Capital Market Information and Industrial Performance”,p. 121.

3311.. Vedi Norbert Horn - Hein Kötz - Hans G. Leser, German Private and

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dalla società americana, però, nella AG la funzione diamministrazione e controllo è articolata su due livellidistinti, ovvero un comitato gestionale ed esecutivo(Vorstand) e un consiglio di sorveglianza (Aufsichtsrat).32

Il consiglio di sorveglianza nomina il Vorstand ma glialtri poteri sono limitati: «il consiglio di sorveglianzanon può, nemmeno per delega, interferire in alcunmodo nella gestione effettiva» dell’impresa,33 ma vagliai piani di investimento del management e può porre ilveto in caso di disapprovazione.34 Un commentatore haparagonato il ruolo del consiglio di sorveglianza a quel-lo del Senato degli Stati Uniti nel consigliare e approva-re le nomine del presidente e ratificare l’adesione aitrattati.35

L’aspetto più interesante delle AG è che i fixed clai-mants, ovvero banche e dipendenti, dominano quasicompletamente i consigli di sorveglianza. Siccome lebanche tedesche sono ben rappresentate nei consiglidi sorveglianza36 e siccome nelle società con oltreduemila dipendenti le rappresentanze dei dipenden-ti e degli azionisti devono essere paritetiche nel con-siglio,37 il potere combinato dei fixed claimants risulta

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Commercial Law: An Introduction, traduzione di Tony Weir, Oxford, Claren-don, 1982, pp. 257-271, dove viene descritta la struttura giuridica delle AGtedesche.

3322.. Norbert Horn - Hein Kötz - Hans G. Leser, German Private and Com-mercial Law, pp. 258-259.

3333.. Norbert Horn - Hein Kötz - Hans G. Leser, German Private and Com-mercial Law, p. 260.

3344.. Vedi Julian Franks - Colin Mayer, “Corporate Control: A Synthesis ofthe International Evidence”, p. 11, manoscritto inedito su file della StanfordLaw Review, 19 novembre 1992.

3355.. Vedi Mark J. Roe, “Some Differences in Corporate Structure in Ger-many, Japan and the United States”, 1942.

3366.. Nel 1988 i rappresentanti delle banche tedesche sedevano nei consiglidi sorveglianza di 96 tra le 100 maggiori società tedesche. Mark J. Roe,“Some Differences in Corporate Structure in Germany, Japan and the UnitedStates”, 1939. Quattordici di questi consigli di sorveglianza erano presiedutida un rappresentante della banca.

3377.. M. C. Oliver, The Private Company in Germany: A Translation and Com-mentary, seconda edizione, New York, Kluwer Law and Taxation Publishers,1986, p. 12; Friedrich Kubler, “Institutional Owners and Corporate Mana-gers: A German Dilemma”, Brooklyn Law Review, 57, 1991, p. 98.

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dominante. Le banche tedesche detengono soltanto una quota

modesta delle società a cui danno credito, ma esercita-no un controllo notevolmente più ampio in proporzio-ne alla partecipazione azionaria diretta. Nonostantesoltanto il 6 per cento delle quote di maggioranza nelleimprese tedesche sia detenuto dalle banche,38 questetendono a esercitare un controllo effettivo sulla mag-gioranza delle azioni con diritto di voto nelle assembleeannuali degli azionisti.39 Per esempio, Deutsche Bankdeteneva il 28 per cento delle azioni ordinarie di Daim-ler-Benz prima che diventasse in parte americana aseguito della fusione con Chrysler; tuttavia, siccome lebanche tedesche custodiscono tradizionalmente le azio-ni possedute da clienti istituzionali e individuali, labanca votava per il 42 per cento del capitale azionario.Inoltre, i titolari di pacchetti azionari consistenti sonoautorizzati a esaminare i piani e le decisioni del mana-gement da insider, mentre gli outsider hanno menoinfluenza; in questo scenario, le scalate ostili sono estre-mamente rare.40

La disparità tra le piccole partecipazioni di capitalee l’immenso potere di voto delle banche tedesche è

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Corporate governance

3388.. “Those German Banks and Their Industrial Treasuries”, The Economist,21 gennaio 1995, p. 71. Nell’articolo si afferma che l’85 per cento delle 171società non finanziarie tedesche hanno singoli azionisti che posseggono piùdel 25 per cento delle azioni con diritto di voto; solo il 6 per cento di questigrandi pacchetti azionari sono detenuti da banche. Il 10 per cento della capi-talizzazione totale del mercato è posseduto direttamente dalle banche.Michael Hauck, “The Equity Market in Germany and Its Dependency on theSystem of Old Age Provisions”, in Institutional Investors and Corporate Gover-nance, a cura di Theodor Baums - Richard Buxbaum - Klaus Hopt, NewYork,Walter de Gruyter, 1993, p. 561, nota 34.

3399.. Nel 1986, tre banche, Deutsche Bank, Dresdner Bank e Commerzbankcontrollavano mediamente il 45 per cento delle azioni con diritto di voto in32 delle 100 maggiori AG. Otto banche controllano l’80 per cento dei titolicon diritto di voto. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “CorporateGovernance and Commercial Banking: A Comparative Examination of Ger-many, Japan, and the United States”, Stanford Law Review, 48, 1995, p. 88,nota 80.

4400.. “An Overview of Corporate Financing”, presentazione diBrealey/Myers, McGraw-Hill, 1996, fisher.osu.edu/~makhija_1/mba811/Po-werPoint/CH14.PPT.

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attribuibile a una combinazione di tre fattori. Innanzi-tutto, le banche tedesche votano in rappresentanzadelle azioni al portatore che hanno in custodia perconto dei clienti della divisione di intermediazionefinanziaria della banca. Questi investitori individualidepositano le proprie azioni presso le banche e dannoloro delega per votare durante le assemblee degli azio-nisti.41 In secondo luogo, spesso le società tedesche fis-sano una soglia massima per i diritti di voto degli azio-nisti, dal 5 al 15 per cento dei voti totali, indipendente-mente dall’entità della partecipazione azionaria.42 Poi-ché tali restrizioni non si applicano alle banche cheesprimono il voto per delega, esse finiscono per accre-scere il potere di voto delle banche universali.43 Al con-teggio vanno infine aggiunti anche i diritti di voto chederivano dalle azioni dei fondi di investimento gestitidalle banche.44

Anche se le banche tedesche hanno un notevolepotere politico derivante dal potere di voto che sono ingrado di esercitare, le loro partecipazioni nelle AGrisultano soprattutto dalle attività di finanziamento alleimprese. Infatti, la più importante fonte di finanzia-mento per le imprese tedesche è costituita dai prestiti

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4411.. Quando gli investitori tedeschi depositano i loro certificati azionari, labanca che li tiene in custodia riceve dal titolare una delega revocabile, che lepermette di votare grazie al “diritto di voto del depositario” o Depotstimm-recht. La delega ha validità per quindici mesi. Aktiengesetz [AktG] n. 135,1995, legge tedesca sulla società per azioni. Nonostante gli azionisti deposita-ri abbiano il diritto di comunicare il proprio orientamento in merito al voto,solo il 2-3 per cento lo fa. Michael Purrucker, Banken in der kartellrechtlichenFusionskontrolle, Berlino, Duncker und Humblit, 1983, p. 96.

4422.. Julian Franks - Colin Mayer, “Corporate Control”, p. 8. Lo statuto (Sat-zung) può essere modificato con il voto di tre quarti delle azioni, in modo dalimitare il potere di voto di chi possiede ampi pacchetti azionari. AktG n.179, 1995. Vedi Sentenza del 19 dicembre 1977, Bundesgerichtshof [BGH],70 Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen [BGHZ] 117,121, Corte Federale di Cassazione della Repubblica Federale Tedesca.

4433.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “Corporate Governance andCommercial Banking”, p. 88, nota 80.

4444.. Ronald T. Gilson - Reinier Kraakman, “Investment Companies asGuardian Shareholders”, pp. 987-988, dove si afferma che il controllo dellevotazioni esercitato dalle banche tedesche deriva dalle partecipazioni aziona-rie dirette, dalle deleghe e dal controllo dei fondi comuni d’investimento.

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bancari piuttosto che dai mercati dei capitali.45 Il presti-to bancario, soprattutto a lungo termine, rappresentafino al 20 per cento dei finanziamenti esterni dellesocietà tedesche.46 Tradizionalmente, le imprese tede-sche hanno preso a prestito dalle banche 4,20 dollari perogni dollaro reperito sul mercato dei capitali, mentre leimprese americane hanno preso a prestito dalle banche0,85 dollari per ogni dollaro rastrellato sul mercato deicapitali.47

Il duplice ruolo di creditore e azionista svolto dallabanca tedesca dà origine anche a un notevole conflitto diinteressi. Le banche hanno un incentivo economico avotare contro l’assunzione di rischi da parte di imprese acui hanno concesso crediti. Tuttavia, nell’ottica degli azio-nisti per conto dei quali esercitano il diritto di voto, le ban-che riducono l’assunzione di rischi aggregata a un livellonon ottimale e quindi trasferiscono ricchezza dagli azio-nisti a se stesse. Inoltre, è improbabile che gli interessi deilavoratori all’interno del consiglio di sorveglianza sioppongano agli sforzi delle banche di ridurre l’assunzio-ne di rischi aggregata perché anch’essi sono fixed claimantse i loro interessi sono allineati con quelli delle banche.

La suddetta descrizione della corporate governancetedesca dimostra che gli Stati Uniti non sono l’unicopaese a separare la proprietà e il controllo all’internodella società. Come per i piccoli azionisti statunitensi, isingoli azionisti tedeschi non hanno «le informazioni, lecapacità e l’incentivo a controllare il management».48 Ladifferenza sembra risiedere nel fatto che negli Stati Uniti

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4455.. La capitalizzazione del mercato azionario tedesco rappresenta il 25 percento del PIL del paese, mentre la capitalizzazione del mercato azionario sta-tunitense è vicina al 65 per cento del PIL americano. Vedi Matthew Bishop,“Watching the Boss: A Survey of Corporate Governance”, The Economist, 29gennaio 1994, p. 6.

4466.. John Cable, “Capital Market Information and Industrial Performance”,p. 119.

4477.. William A. Klein - J. Mark Ramseyer, Cases and Materials on BusinessAssociations, Agency, Partnerships, and Corporations, seconda edizione, NewYork, Foundation Press, 2000, p. 3.

4488.. Mark J. Roe, “Some Differences in Corporate Structure in Germany,Japan and the United States”, p. 1939.

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il management esercita autonomamente il potere deci-sionale, mentre in Germania lo condivide con le banchee i lavoratori. E le banche tedesche proteggono il mana-gement in carica sopprimendo efficacemente il mercatodel controllo societario: infatti, in Germania il numerototale di acquisizioni durante l’ultimo boom degli anniOttanta è meno della metà rispetto al Regno Unito, men-tre le scalate ostili dalla fine della Seconda Guerra Mon-diale sono state soltanto quattro.49

Dalla teoria alla pratica: il sistema statunitenseQuando il presidente Clinton firmò il Gramm-Leach-

Bliley Act, il 12 novembre 1999, erano in molti a preve-dere una virata della corporate governance statuniten-se in direzione del sistema tedesco di controllo per dele-ga.50 I critici del sistema statunitense di corporate gover-nance vedevano nell’abrogazione del Glass-Steagall Actdel 1933, che separava la banca commerciale dallabanca d’affari, e altre riforme accessorie, un’opportuni-tà per la banca universale di crescere e in ultima analisicontrollare più efficacemente le società americane. Cer-tamente il maggior coinvolgimento nell’attività finan-ziaria si è rivelata vantaggiosa per i gruppi bancariamericani, poiché ha ridotto il rischio grazie alla diver-sificazione e i costi operativi grazie alle economie discala e al più ampio campo d’azione. In realtà, alcunistudi hanno dimostrato che l’attività di intermediazio-ne mobiliare non ha affatto aumentato il livello dirischio delle istituzioni bancarie, anzi, ha reso le banchepiù sicure. Tuttavia, non ha generato un modello dibanca universale come quello tedesco.

Le riforme citate sono importanti per la corporategovernance perché in teoria potrebbero sostenere la tesiche l’industria finanziaria negli Stati Uniti si stia evol-

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4499.. Julian Franks - Colin Mayer, “Corporate Control”, p. 8; vedi ancheMatthew Bishop, “Watching the Boss”, p. 13, «vi sono poche possibilità discalate ostili da parte della [...] Germania».

5500.. Timothy W. Guinnane, “Delegated Monitors, Large and Small: TheDevelopment of Germany’s Banking System, 1800-1914”, Center DiscussionPaper No. 835, http://www.econ.yale.edu/growth_pdf/cdp835.pdf.

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vendo in direzione della banca universale tedesca. Leriforme alla legge statunitense Glass-Steagall non hannoperò avuto un grande effetto sulla corporate governanceamericana perché non consentono alle banche americanedi controllare le società a cui hanno fatto credito. NegliStati Uniti, i fiorenti Debt & Equity capital markets sonoottime fonti di finanziamento per le imprese americanein cerca di capitali, precludendo in tal modo il dominioda parte delle banche commerciali. In altre parole, anchese le banche americane fossero autorizzate a investirecapitale di rischio in imprese a cui hanno concesso credi-to, le stesse banche sarebbero impossibilitate a controlla-re la corporate governance delle imprese beneficiarie.

Le banche americane non vedranno ampliarsi i pro-pri poteri di intermediazione mobiliare con le nuoveproposte di legge, semplicemente avranno la possibili-tà di estendere le affiliazioni con le società finanziarie.E diversamente dalle banche europee, le società diintermediazione mobiliare statunitensi ritengono moltoimportante non interferire con la corporate governancedei propri clienti. D’altro canto, le banche d’affari ame-ricane limitano le loro attività alla sottoscrizione, nego-ziazione e consulenza generale d’investimento nell’am-bito di fusioni e acquisizioni e della finanza aziendale.

Inoltre, è improbabile che le banche d’affari ameri-cane provochino uno scombussolamento nella gestioneaziendale interna perché il settore dei servizi finanziaristatunitensi è caratterizzato da un’aspra concorrenza eda uno scenario eterogeneo. Le società di investimentoche tentassero di interferire nella corporate governancedei propri clienti si troverebbero ben presto senza clien-ti perché, diversamente dalle società tedesche, le impre-se americane possono cambiare impunemente il forni-tore di servizi finanziari. Inoltre, negli Stati Uniti gliinvestitori istituzionali potenti, indipendenti e nonappartenenti al settore bancario, quali compagnie diassicurazione, fondi pensione e fondi d’investimento,solleverebbero forti obiezioni se le società che fornisco-no servizi finanziari si intromettessero nella corporategovernance delle società ad azionariato diffuso.

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Infine, la path dependence, ossia il condizionamentoderivante dal pregresso, è un ulteriore motivo per cui leattuali proposte per liberalizzare l’ambito delle affilia-zioni bancarie autorizzate non rappresentano un perico-lo evidente per la corporate governance delle impreseamericane. In poche parole, i mercati dei capitali ameri-cani hanno sostituito l’industria del credito commercia-le – in declino – come principale fornitore di capitaleall’industria americana. Quindi è troppo tardi perché igruppi bancari americani possano sfruttare la loroinfluenza sulla sfera della corporate governance perritardare la crescita dei mercati americani dei capitali.

Permettendo nuove affiliazioni, le riforme potrebbe-ro rafforzare il settore bancario americano ma le legginon generano di per sé il rischio che le istituzioni ban-carie utilizzino la propria influenza sui clienti societaria discapito degli altri azionisti, per portare avanti i pro-pri interessi in quanto istituti di credito. Ai sensi dellalegislazione vigente, nel sistema statunitense gli azioni-sti, per quanto frammentati, mantengono comunque ilcontrollo, lasciando così il potere reale al management,mentre le banche sono relativamente deboli. In questecondizioni, è il mercato del controllo societario a ridur-re l’inefficienza e tenere a freno gli interessi personalidei dirigenti: il solido mercato statunitense del control-lo societario incoraggia le scalate ostili e la nuova pro-prietà sostituisce il gruppo dirigente se è inefficiente.51 Ifatti indicano chiaramente che le scalate ostili e laminaccia di scalate ostili disciplinano i dirigenti emigliorano la performance della società.52 Nonostante

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5511.. Henry G. Manne, “Mergers and the Market for Corporate Control”,Journal of Political Economy, 73, 1965, pp. 112-113, dove è descritto il pro-cesso di sostituzione di un management inefficiente.

5522.. Vedi Michael C. Jensen - Richard S. Ruback, “The Market for Corpora-te Control: The Scientific Evidence”, Journal of Financial Economics, 11, 1983,pp. 29-30. Gli autori affermano che le scalate ostili limitano l’inefficienza deimanager; Randall Morck - Andrei Shleifer - Robert W. Vishny, “AlternativeMechanisms for Corporate Control”, American Economic Review, 79, 1989, pp.851-852, in cui vengono esaminate 454 delle 500 società Fortune del 1980 e sidimostra che le scalate ostili rappresentano lo strumento principale per la rimo-zione di manager irresponsabili in aziende in difficoltà.

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le riforme degli anni Novanta e dei primi anni Duemi-la, il sistema americano rimane intatto.

L’obiettivo di questo capitolo non è avvalorare lasuperiorità del sistema statunitense di corporate gover-nance sul modello tedesco di banca universale. Il con-fronto serve semplicemente a dimostrare che i vantaggidel sistema tedesco sono stati esasperati, mentre i costisono stati sottostimati. Tali costi non soltanto si rifletto-no in un’eccessiva avversione al rischio, che soffocal’innovazione, ma generano anche mercati dei capitaliilliquidi, sottosviluppati e mal funzionanti. Per diverseragioni, nei sistemi basati sul controllo per delega, comequello tedesco, gli operatori del mercato dei capitalihanno meno incentivi dei loro colleghi americani. Inprimo luogo, le banche tedesche riducono i potenzialiguadagni derivanti dall’investimento sul mercato azio-nario limitando gli utili upside ai residual claimants. Insecondo luogo, in Germania l’elevata concentrazionedelle partecipazioni azionarie ha reso praticamenteimpossibile portare a termine con successo una scalataostile, importante fonte di utili potenziali per gli azioni-sti della società bersaglio. In terzo luogo, la stessa con-centrazione delle partecipazioni azionarie riduce il flus-so di ordini sul mercato, privandolo di liquidità. L’ulti-ma, e forse più importante ragione, è che nel clima digrande incertezza dell’immediato dopoguerra il sistematedesco di corporate governance si proponeva di crearestabilità.53 Tuttavia, i fatti dimostrano sempre più cheoggigiorno questo tipo di stabilità non è vantaggioso, inun sistema in cui la competizione a livello mondiale e ilrapido progresso tecnologico premiano l’innovazione ela flessibilità molto più che la stabilità. Con tutte le sue

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5533.. Ciò è particolarmente vero per il Giappone del dopoguerra. Vedi Ran-dall Morck - Masao Nakamura, “Banks and Corporate Control in Japan”, p.6, nonostante gli sforzi post-bellici delle forze di occupazione. Mark J. Roe,“Some Differences in Corporate Structure in Germany, Japan and the UnitedStates”, p. 1972. Per la Germania, abituata a far conto sulle banche centrali daitempi di Bismarck, era naturale rivolgersi a loro per ricreare la stabilità econo-mica dopo la seconda guerra mondiale. Vedi Mark J. Roe, “Some Differencesin Corporate Structure in Germany, Japan and the United States”, p. 1971.

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pecche, il sistema statunitense ha alcuni straordinarivantaggi, come si vedrà nel prosieguo.

III. Implicazioni: che cosa può imparare la corporategovernance americana dal modello di banca universale

Per confrontare il sistema americano di corporategovernance con il sistema tedesco sopra descritto, vor-rei richiamare l’attenzione su tre nodi problematici nelsistema americano. Il primo è la possibilità di un’ecces-siva assunzione di rischi. Così come il succitato model-lo tedesco dominato dalle banche può indurre le impre-se a rinunciare a progetti potenzialmente redditizi per-ché le banche li reputano troppo rischiosi, il sistemaamericano può indurre le imprese a intraprendere pro-getti troppo rischiosi perché le deboli banche degli StatiUniti non sono in grado di sorvegliare e controllare l’as-sunzione eccessiva di rischi in maniera altrettanto effi-cace delle banche tedesche. La seconda problematicanasce dalla constatazione che nel sistema americano leforze del mercato sono sempre meno in grado di san-zionare il management incapace e contribuire a miglio-rare la performance aziendale. Negli ultimi anni, lapolitica ha interferito sempre più con il funzionamentodel mercato e, in particolare, la politica ha ridotto l’effi-cacia del mercato del controllo societario, che è lo stru-mento principe per regolamentare i dirigenti nei siste-mi di corporate governance orientati al mercato, comequello statunitense. Infine, negli Stati Uniti una serie dinorme apparentemente secondarie impedisce artificio-samente ai fixed claimants di sorvegliare e controllare ibeneficiari del credito. In sintesi, se da un lato il livellodi controllo osservato nel sistema tedesco dominatodalle banche probabilmente è troppo elevato, dall’altroil livello di controllo esercitato dalle banche nel sistemaamericano è innaturalmente basso.

Il problema dell’eccessiva assunzione di rischiCosì come i fixed claimants possono spostare ricchez-

za dagli equity claimants a se stessi riducendo la rischio-sità di un’impresa ex post (cioè dopo aver determinato

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la struttura del capitale di un’impresa), allo stesso modogli equity claimants possono accrescere la propria ric-chezza a spese dei fixed claimants aumentando il livellodi rischiosità dell’impresa.54 In una struttura di corpora-te governance che funzioni correttamente, i fixed clai-mants e gli azionisti raggiungeranno l’equilibrio nego-ziale appropriato tra la propensione al rischio degliazionisti e l’avversione al rischio dei fixed claimants.

Il sistema americano di corporate governance hasvariati meccanismi per impedire agli azionisti di agirecon opportunismo aumentando il livello di rischiosità.In primo luogo, i fixed claimants possono proteggersicontrattualmente.55 In secondo luogo, le banche ameri-cane spesso concedono prestiti a scadenza relativamen-te breve, costringendo così le imprese beneficiarie delcredito ad affidarsi a linee di credito revolving. Poichéle imprese beneficiarie del credito si rendono conto diaver bisogno dell’approvazione della banca per poterloestendere quando il prestito giunge a scadenza, le ban-che vedono crescere il proprio potere finanziario neiconfronti delle imprese man mano che queste operazio-ni vengono reiterate. In terzo luogo, acquistando obbli-gazioni convertibili (in azioni, ovvero diritti sul capita-le), i fixed claimants possono ridurre gli incentivi delleimprese ad assumersi rischi eccessivi perché esse sannoche gli obbligazionisti sono creditori assolutamente pri-vilegiati in caso di fallimento. Se gli investimentirischiosi degli azionisti avranno esito positivo, però, ititolari di obbligazioni convertibili convertiranno i lorodiritti in capitale e parteciperanno al rendimento upside.In quarto luogo, siccome in America l’azionariato è

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5544.. Michael E. Porter, “Capital Disadvantage: America’s Failing CapitalInvestment System”, Harvard Business Review, settembre-ottobre 1992, p. 67;«il sistema americano mette al primo posto gli obiettivi degli azionisti inte-ressati all’apprezzamento delle loro azioni nel breve termine, anche a scapitodella performance di lungo termine delle società americane».

5555.. Clifford W. Smith Jr. - Jerold B. Warner, “On Financial Contracting:An Analysis of Bond Covenants”, Journal of Financial Economy, 7, 1979, pp.124-126, dove si illustrano diversi meccanismi contrattuali utilizzati dai fixedclaimants per controllare gli azionisti.

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generalmente molto diffuso, per cui ogni azionistadetiene solo una infinitesima quota delle azioni circo-lanti di una società, gli azionisti non hanno grandiincentivi a vigilare sul management e devono in granparte sottostare alle scelte dei dirigenti in merito allastrategia di rischio, ma siccome questi sono avversi alrischio tanto quanto gli azionisti vi sono propensi, que-sto costo di agenzia viene in aiuto ad altri fixed clai-mants, quali per esempio le banche. Per tutti questimotivi, la probabilità che le imprese americane si assu-mano un livello di rischio eccessivo appare relativa-mente modesta rispetto al pericolo che le imprese tede-sche evitino rischi efficienti sul piano sociale.

Il mercato del controllo societarioCome già discusso al capitolo 8, il mercato del con-

trollo societario è da sempre un pilastro del sistemaamericano di corporate governance. Gli autori di scala-te ostili prendono di mira imprese con performance sta-gnanti e se il management è inadeguato o elude le pro-prie responsabilità lo sostituiscono con gruppi dirigen-ti rivali.56 Inoltre, innovazioni in ambito finanziarioquali il bridge financing e i junk bonds hanno creato unambiente competitivo in cui praticamente qualsiasiimpresa è un potenziale bersaglio di scalata. Le scalateostili portano con sé un aumento dell’efficienza mana-geriale, poiché un elevato corso azionario è la migliordifesa da una scalata ostile.57

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5566.. Vedi Roberta Romano, “A Guide to Takeovers: Theory, Evidence, andRegulation”, Yale Journal on Regulation, 9, 1992, pp. 129-131, che descrive leacquisizioni come un meccanismo di protezione per controllare la perfor-mance quando altri strumenti di corporate governance falliscono.

5577.. Corsi azionari alti rendono le scalate troppo costose. Vedi Frank H.Easterbrook - Daniel R. Fischel, “The Proper Role of a Target’s Managementin Responding to a Tender Offer”, Harvard Law Review, 94, 1981, p. 1174;«i manager cercano di ridurre i costi di agenzia per ridurre le probabilità discalata, e il processo di riduzione dei costi di agenzia fa salire il prezzo delleazioni». Vedi anche Daniel R. Fischel, “The Corporate Governance Move-ment”, p. 1264, che aggiunge che il mercato del controllo societario «dà aimanager delle società che vogliono evitare una scalata un incentivo a operarein modo efficiente e a mantenere alti i corsi azionari».

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Se da un lato le società per azioni americane nonsono assillate da continue scalate ostili, dall’altro vinco-li di legge e politiche legali mal indirizzate soffocano ladomanda sul mercato, limitandone così il numero. Dalpicco di quarantasei scalate ostili raggiunto negli StatiUniti nel 1988, il numero è letteralmente precipitato neiprimi anni Novanta,58 ma è cresciuto a livello mondialein concomitanza con l’attività di fusione e acquisizioneche ha caratterizzato la seconda parte del decennio e iprimi anni Duemila:59 nel 2002 se ne sono registrate bentrentuno, ma il totale annuo delle scalate ostili non èmai riuscito a eclissare il record ottenuto ai tempi d’oro,alla fine degli anni Ottanta.60 Le leggi anti-scalata deisingoli Stati americani sono sempre più numerose erestrittive, una conferma dell’acume politico dei gruppidirigenti nella gestione delle leggi nei rispettivi Stati adiscapito degli azionisti non residenti.61 Forse la peg-gior conseguenza dell’ampia diffusione dell’azionaria-to americano è che gli azionisti non sono in grado diformare coalizioni politiche efficaci per bloccare lamobilitazione politica del management contro le scala-

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5588.. Marcel Kahan - Michael Klausner, “Antitakeover Provisions in Bonds:Bondholder Protection or Management Entrenchment?”, UCLA LawReview, 40, 1993, p. 979. Nel primo trimestre del 1995, fusioni e acquisizio-ni negli Stati Uniti raggiunsero i 73,2 miliardi di dollari, il picco più alto dal1989 nel primo trimestre. Steven Lipin, “Mergers and Acquisitions in 1stQuarter Increased 35% from the Year Before”, Wall Street Journal, 4 aprile1995, A3. Le fusioni e acquisizioni statunitensi più recenti non sembrano tesead allontanare manager inefficienti, ma a ottenere sinergie (anche economi-che) mediante economie di scala o razionalizzazioni nella gestione. A volte, leacquisizioni mirano ad aumentare la quota di mercato della società acquiren-te piuttosto che a migliorare la performance della target. Vedi Greg Stein-metz, “Mergers and Acquisitions Set Records, But Activity Lacked That 80sPizazz”, Wall Street Journal, 3 gennaio 1995, R8.

5599.. Henri Servaes - Ane Tamayo, “The Response of Industry Rivals to Con-trol Threats”, bozza di lavoro, 2006, http://faculty.london.edu/hserva-es/paper%20 servaes%20tamayo.pdf.

6600.. “ICM Crisis Report, News Coverage of Business Crises during 2002”,maggio 2003, http://209.85.165.104/search?q=cache,-DDggm9ZLGoJ, ww-w.crisisexperts.com/02creport.htm+%22hostile+takeovers+were%22+in+the+United+States+2006andhl=enandct=clnkandcd=10andgl=us.

6611.. Jonathan R. Macey, “State Anti-Takeover Legislation and the NationalEconomy”, Wisconsin Law Review, 1988, pp. 468-470.

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te ostili, che, per citare un esempio, nel 1990 ha portatoalla promulgazione, in Pennsylvania, di una legge anti-scalata che codifica quale legittimo un ingente trasferi-mento di ricchezza dagli azionisti al management incarica.62 Oltre alle leggi anti-scalata, il management incarica è riuscito a persuadere gli organi legislativi deivari Stati americani a promulgare i cosiddetti other con-stituency statutes, che tengono conto degli interessi diparti terze rispetto alla società e agli azionisti. In base atali leggi, nel decidere se e come resistere a una scalataostile il management può prendere in considerazioneanche gli interessi di dipendenti, comunità locali, forni-tori e clienti.63 Questi sforzi, neppure tanto mascherati,di portare avanti gli interessi del management a spesedegli azionisti consentono ai manager di difendersinelle cause intentate dagli azionisti, dopo aver adottatola tattica difensiva di trincerarsi nella propria posizio-ne.64 Queste leggi permettono ai manager di congegnaretesi credibili per cui la loro resistenza alla scalata sareb-be nell’interesse di un gruppo o di un altro che nonsiano gli azionisti, offrendo ai tribunali un appiglio lega-le a cui agganciare le proprie sentenze a favore delmanagement in carica. Ben poche volte i tribunali degliStati americani hanno dato ragione agli azionisti. In par-ticolare, hanno fatto poco per frenare il ricorso a stru-menti anti-scalata, quali la poison pill, che potrebbe esse-re adottata dal consiglio di amministrazione di unasocietà bersaglio senza l’approvazione degli azionisti.65

Un motivo legittimo per criticare la scalata ostile

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6622.. Vedi legge del 27 aprile 1990, P.L. 129, 1990 Pa. Laws 36, agli articolidel 15 Pa. Cons. Stat. Le regole anti-scalata della Pennsylvania sono «più seve-re di quelle degli altri Stati». William A. Klein - J. Mark Ramseyer, Cases andMaterials on Business Associations, p. 819.

6633.. Jonathan R. Macey, “State Anti-Takeover Legislation and the NationalEconomy”, p. 469.

6644.. Nelle leggi formali gli interessi del management sono prioritari rispettoa quelli dei dipendenti. Vedi Roberta Romano, “A Guide to Takeovers”, pp.171-173.

6655.. Vedi Dennis J. Block - Nancy E. Barton - Stephen A. Radin, The Busi-ness Judgment Rule: Fiduciary Duties of Corporate Directors, quinta edizione,New York, Aspen Law and Business, 2001, pp. 233-237.

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come strumento di corporate governance è che, sicco-me è molto costosa, «prima di diventare preda appeti-bile per una scalata ostile, una società deve deviaredalla rotta molto più di quanto sarebbe necessario se idirigenti fossero controllati in modo continuativo».66

Le scalate ostili hanno un altissimo costo di capitale,non soltanto perché richiedono un maggior impegnofinanziario ma anche perché ancor prima di presenta-re un’offerta di acquisto gli offerenti devono investirerisorse sostanziali in ricerca per identificare le societàbersaglio sottovalutate. A meno che un’impresa nonsia davvero molto sottovalutata, gli offerenti nonsaranno in grado di recuperare questi costi di capitalee ricerca.

Tuttavia, questa debolezza del mercato del controllosocietario non pone il sistema americano di corporategovernance in posizione di svantaggio rispetto al siste-ma di banca universale adottato in Germania e in altripaesi, per almeno tre ragioni. Innanzitutto, non vi è unareale differenza tra il sistema americano di corporategovernance e quello tedesco: come le società americane,anche quelle tedesche devono essere piuttosto squili-brate prima di attirare interventi dall’esterno. Nel lororuolo di fixed claimants, le banche tedesche non si preoc-cupano di piccole deviazioni dal livello ottimale di per-formance che non mettono a repentaglio la redditivitàdel loro investimento.

In secondo luogo, il mercato del controllo societarioinfluisce sulla performance manageriale anche in assen-za di un’offerta di acquisto formale. Infatti, un mercatostabile del controllo societario stimola il management aprodurre una buona performance anche solo per ridur-re la probabilità di un’offerta di acquisto: non sapendoquanto potrebbe essere migliore un gruppo dirigenterivale, non sanno nemmeno a che livello il prezzo del-l’azione potrebbe esporre la società a una scalata ostile.Questa incertezza motiva i dirigenti a migliorarecostantemente la performance dell’impresa, anche se

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6666.. Matthew Bishop, “Watching the Boss”, p. 13.

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un’offerta ostile non si concretizza mai.67

In terzo luogo, gli esperti che sostengono l’eccessivaonerosità delle acquisizioni cadono nell’errore di consi-derare l’acquisizione come una proposta “o tutto oniente”, senza vie di mezzo. Gli investitori non hannobisogno di lanciare davvero un’offerta di acquisto permettere in gioco una società bersaglio. Per esempio,innescando una battaglia di deleghe agli investitoripossono bastare 5000 dollari per lanciare una scalata(mentre pochi anni fa ci voleva 1 milione di dollari).68

Analogamente, accade spesso che investitori istituzio-nali acquistino grandi partecipazioni in imprese in dif-ficoltà e utilizzino poi i propri voti per insediare nelconsiglio di amministrazione i propri consiglieri per“smuovere le acque e perfezionare la performance”.69

Per sfruttare queste strategie in modo da produrre unmanagement migliore, i potenziali scalatori devonorappresentare una minaccia credibile.70 Nel modellotedesco, l’insufficiente liquidità del mercato dei capita-li, unita alla grande lealtà delle banche nei confronti delmanagement in carica, condiziona la capacità degliazionisti dissidenti di minacciare una scalata ostilequando la performance non cresce.

Tutto ciò non vuole sostenere che negli anni Ottantail mercato statunitense del controllo societario abbiafunzionato perfettamente. I critici di questo strumentodi governance hanno infatti ragione quando sostengo-no che i corsi azionari devono scendere troppo primache il mercato reagisca. Piuttosto, vorrei sottolineare

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6677.. Vedi Jonathan L. Macey, “State Anti-Takeover Legislation and theNational Economy”, pp. 472-473. Naturalmente alcuni manager indirizze-ranno i loro sforzi sul fronte legislativo e tenteranno di procurarsi una prote-zione legale invece di mettersi al sicuro con una performance ineccepibile sulmercato.

6688.. Matthew Bishop, “Watching the Boss”, p. 16.6699.. Matthew Bishop, “Watching the Boss”, p. 16.7700.. L’esempio americano per eccellenza di questa minaccia è Warren Buf-

fett, della Berkshire Hathaway. Buffett non minaccia l’indipendenza di socie-tà con scarsi rendimenti, ma il management delle stesse; in altre parole, losostituisce con dirigenti più capaci di migliorarne le prestazioni. Vedi Mat-thew Bishop, “Watching the Boss”.

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che nemmeno in Germania gli organi di controllo sonomotivati a intervenire prima che il valore dell’impresasia sceso significativamente. Inoltre, se da un lato il pro-blema del mercato delle acquisizioni è che la perfor-mance deve peggiorare troppo prima che il mercato siattivi, dall’altro la soluzione è la realizzazione di unsistema normativo che ridimensioni gli oneri dell’inter-vento. Tuttavia, questo non sta avvenendo né in Ger-mania né negli Stati Uniti, soprattutto a causa della stre-nua riluttanza al cambiamento da parte del manage-ment in carica.71

Norme che negli Stati Uniti limitano la vigilanza e il con-trollo da parte degli intermediari

La critica forse più fondata al sistema americano dicorporate governance è che le norme giuridiche impe-discono agli intermediari finanziari americani di tute-larsi per contratto dal problema dell’azzardo moraleposto dagli azionisti. Sebbene i fixed claimants abbianomotivo di vigilare e controllare le imprese che accendo-no crediti, negli Stati Uniti una serie di norme giuridi-che limitano la possibilità dei fixed claimants di control-lare l’azzardo morale.72 Nel suo libro sulle banche e lacorporate governance, Mark Roe osserva che «le restri-zioni legali negli Stati Uniti hanno sempre mantenuto lebanche americane piccole e deboli, vietando loro dioperare a livello nazionale, intraprendere l’attività com-merciale, affiliarsi con banche d’affari, fondi d’investi-

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Corporate governance

7711.. Per esempio, in Giappone è molto improbabile che la banca centraleintervenga, anche se diversi indici evidenziano performance aziendali scarse.Vedi Randall Morck - Masao Nakamura, “Banks and Corporate Control inJapan”, 25-26, p. 55; Randall Morck - Andrei Shleifer - Robert W. Vishny,“Alternative Mechanisms for Corporate Control”, p. 850, analizzano i bassifatturati tra le 500 società Fortune.

7722.. Mark Roe ha documentato un’ampia serie di queste regole. Vedi MarkJ. Roe, “A Political Theory of American Corporate Finance”, pp. 16-31, dovesi analizzano queste regole nel contesto delle istituzioni finanziarie; Mark J.Roe, “Political and Legal Restraints on Ownership and Control of PublicCompanies”, Journal of Financial Economics, 27, 1990, pp. 9-21, che descri-ve come la legge vincoli il ruolo delle istituzioni finanziarie nella strutturasocietaria.

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mento azionari o assicurazioni e coordinare le parteci-pazioni azionarie con questi altri intermediari».73 Inquesta sede vorrei porre l’accento su un altro aspetto,ovvero sulle restrizioni legali che impediscono alle ban-che americane anche di tutelare la propria esposizionein quanto fixed claimants: tali restrizioni fanno lievitareil costo del capitale e riducono l’efficienza dell’alloca-zione delle risorse perché aumentano i costi degli inte-ressi per le imprese americane.

In sintesi, negli Stati Uniti svariati orientamenti giu-risprudenziali espongono gli istituti di credito a poten-ziale responsabilità se nei contratti di prestito tentanodi tutelarsi dall’azzardo morale dei beneficiari del cre-dito.74 Molte di queste norme di responsabilità discen-dono dalla ragionevole dottrina per cui le banche sonogeneralmente tenute alla buona fede nei confronti di chiaccende un prestito,75 ma spesso i tribunali ne dannoun’interpretazione incoerente con la fondamentalelibertà di stipula contrattuale. Perciò, la proliferazione

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7733.. Mark J. Roe, “Some Differences in Corporate Structure in Germany,Japan and the United States”, p. 1948.

7744.. Vedi, per esempio, United States v. Fleet Factors Corp., 901 F.2d 1550,1557, 11th Cir. 1990; la sentenza stabilisce che «un creditore privilegiato puòincorrere [...] nella responsabilità [...] partecipando nella gestione finanziariadi uno stabilimento a un punto tale da prospettare la possibilità di influenza-re il trattamento dei rifiuti tossici da parte della società», confermata in appel-lo, 498 U.S. 1046, 1991; la sentenza K.M.C. Co. v. Irving Trust Co., 757 F.2d752, 759-60, 6th Cir. 1985, in cui si rileva un obbligo contrattuale implici-to alla buona fede per cui un istituto di credito deve dare al beneficiario delcredito un preavviso prima di rifiutarsi di anticipare fondi ai sensi del con-tratto di prestito; la sentenza Brown v. Avemco Investment Corp., 603 F.2d1367, 1375-76, 9th Cir. 1979, in cui si afferma che per applicare una dispo-sizione di scadenza anticipata occorre una convinzione in buona fede didanno per la sicurezza, non è sufficiente una violazione tecnica; la sentenzaConnor v. Great Western Savings and Loan Ass’n, 447 P.2d 609, 617-20, Cal.1968, in cui si asserisce che un ente finanziatore di un’impresa edilizia ha ildovere di accertare con un grado ragionevole di diligenza che le case costrui-te non siano difettose e che la negligenza di terze parti non solleva dallaresponsabilità l’ente finanziatore; la sentenza State Nat’l Bank v. Farah Mfg.Co., 678 S.W.2d 661, 686, Tex. Ct. App. 1984, in cui si sostiene che il ten-tativo di un istituto di credito di far applicare una clausola di sostituzione delmanagement costituisce coercizione.

7755.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “Bank Failures, Risk Monito-ring, and the Market for Bank Control”, p. 1153.

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di norme sulla responsabilità dell’istituto di credito haconsentito ai beneficiari del credito di arricchirsi perse-guendo opportunisticamente le banche ogni qual voltaqueste minacciavano di far rispettare le norme contrat-tuali.76

Per esempio, se osserviamo i casi in cui le banchehanno minacciato di far rispettare una clausola relativaal cambio di dirigenza (una clausola che apparente-mente permette agli istituti di credito di intentare falli-mento se ai vertici aziendali vengono nominate perso-ne non gradite), le imprese hanno sempre vinto le causeintentate contro le banche per interferenza nei rapporticontrattuali tra esse stesse e i loro dipendenti.77 I tribu-nali hanno addirittura costretto le banche a prestare piùdenaro o a dare un maggior preavviso per la rescissio-ne di un rapporto di prestito di quanto non fosse sanci-to per contratto.78 Inoltre, le banche che intervengonoattivamente negli affari delle imprese per tutelare ilvalore delle proprie quote azionarie si espongonoall’accusa di sostanziale responsabilità per il dannoambientale causato dall’impresa.79

Le norme sulla bancarotta smorzano ulteriormentel’incentivo delle banche americane ad assumere unruolo attivo negli affari delle imprese beneficiarie delcredito, con l’effetto di scoraggiare interventi nei casi incui sarebbero utili, cioè quando le imprese si trovano indifficoltà finanziarie. In particolare, ai sensi della legge

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7766.. Vedi Daniel R. Fischel, “The Economics of Lender Liability”, Yale LawJournal, 99, 1989, pp. 140-142, dove si illustrano le varie interpretazioni deldovere di buona fede e l’importanza di tale dovere come deterrente di com-portamenti opportunistici sia da parte di chi presta sia da parte di chi ricevedenaro.

7777.. Vedi, per esempio, Farah Mfg. Co., 678 S.W.2d, 690.7788.. Vedi, per esempio, K.M.C. Co., 757 F.2d, 759-763.7799.. Vedi Fleet Factors Corp., 901 F.2d, 1557-1568, dove si specifica che un

creditore può essere ritenuto responsabile delle azioni del beneficiario se la suapartecipazione nella gestione dimostra che è in grado di intervenire nellagestione della società. Ma In re Bergsoe Metal Corp., 910 F.2d 668, 672, 9thCir. 1990, si dice che è necessario che vi sia «un certo livello di gestione realedell’impresa» per poter dichiarare che vi sia responsabilità di un creditore pri-vilegiato nelle azioni del beneficiario.

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fallimentare statunitense chi fornisce prestiti privilegia-ti si vede privato del diritto alla garanzia o vede i pro-pri diritti subordinati a quelli di chi emette prestiti nonprivilegiati, o entrambe le cose se l’istituto di creditoesercita un certo controllo sull’impresa che ha acceso ilprestito. Questo principio, noto come equitable subordi-nation, ridistribuisce le priorità dei diritti e scoraggiadecisamente le banche dall’assumere un ruolo attivonella corporate governance. Nel classico caso AmericanLumber,80 una banca americana anticipò ulteriori fondi auna società debitrice in difficoltà e volle partecipare allaristrutturazione. Quando la società iniziò ad andarmale nonostante questi sforzi, la banca tentò di recupe-rare i propri fondi. Altri creditori si lamentarono deltrattamento preferenziale e convinsero il tribunale asubordinare i diritti della banca ai propri.

La corte non si fece impressionare dalla replica dellabanca per cui la subordinazione avrebbe indotto gliattori della comunità finanziaria a pensare di non poterpiù dare credito a società in difficoltà ma di dover inve-ce concludere anticipatamente i propri investimentiazionari e recuperare rapidamente i propri crediti, nonlasciando in tal modo alla società alcuna possibilità disopravvivenza.81 In sintesi, secondo Roe i problemidella corporate governance americana potrebbero nonderivare dall’assenza di concentrazione delle quoteazionarie e dal potere degli intermediari finanziari,82

quanto invece dall’avversione dei tribunali e degliorgani legislativi statunitensi a far rispettare le disposi-zioni contrattuali concordate tra gli intermediari finan-ziari e i beneficiari del credito. L’applicazione di tali di-sposizioni contrattuali avrebbe l’effetto non soltanto ditutelare le banche dall’azzardo morale ma anche di aiu-tare le imprese beneficiarie del credito a evitare onerifinanziari eccessivi.

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8800.. In re American Lumber Co., 5 B.R. 470, Bankr. D. Minn. 1980.8811.. In re American Lumber Co., 5 B.R. 478.8822.. Vedi il testo della nota 74.

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ConclusioniIl più potente strumento di corporate governance è

in assoluto la sana competizione nei mercati dei pro-dotti e del lavoro. La concorrenza sul mercato costringele imprese a competere alacremente per il capitale ed èper questo motivo che la rapida globalizzazione delcommercio e degli investimenti dovrebbe contribuire amigliorare la corporate governance in tutto il mondo.Naturalmente, le economie con le migliori strutture dicorporate governance vinceranno sul piano del margi-ne di profitto.

Questo capitolo ha voluto evidenziare che la vigi-lanza “continuativa e autorevole” che caratterizza i rap-porti tra gli investitori in Germania non è una pana-cea.83 I problemi di entrambi i modelli derivano dai con-flitti di interesse tra i fixed claimants, che controllano gliinvestimenti e sono avversi al rischio, e i residual clai-mants, a cui spetta la parte del leone nel successo finan-ziario dell’impresa. La struttura del capitale delle ban-che, caratterizzata da un elevato indice di indebitamen-to, e la forte esposizione ai depositi a vista rafforzanol’orientamento conservatore delle banche. In qualità difixed claimants, le loro preferenze in termini di strategiadi rischio sono più allineate a quelle del managementche non a quelle degli investitori in azioni o della socie-tà; le banche non espletano un’efficace funzione di con-trollo e non ci si può aspettare che massimizzino il valo-re dell’impresa.

Sfortunatamente, le attuali teorie di relational inve-sting non riconoscono il conflitto di interessi tra merca-ti azionari e fixed claimants, per cui tendono a trattaretutti gli intermediari finanziari alla stessa stregua.84

Inoltre, i commentatori che esaltano le virtù dei model-

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8833.. Jonathan R. Macey - Geoffrey P. Miller, “Universal Banks Are Not theAnswer to America’s Corporate Governance ‘Problem’: A Look at Germany,Japan, and the U.S.”, Journal of Applied Corporate Finance, 9, 1997, p. 57.

8844.. Vedi, per esempio, Helen Garten, “Institutional Investors and the NewFinancial Order”, Rutgers Law Review, 44, 1992, pp. 590-591, dove vengonodescritti due modelli di influenza istituzionale: il modello della “stabilità” e ilmodello della “redditività”. Questa tendenza è sempre più messa a dura prova.

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li di corporate governance dominati dalle banche nontengono nella dovuta considerazione gli effetti negativiche questi modelli hanno sullo sviluppo dei mercati deicapitali nei paesi che li sposano. In altre parole, il ruolocentrale svolto dagli intermediari finanziari ha ritarda-to la crescita dei mercati azionari primari e secondari esoffocato un’importante fonte di capitale di rischio perle imprese.

Naturalmente, non si va affermando che il livelloideale di coinvolgimento delle banche nella corporategovernance debba essere uguale a zero: le banche svol-gono un ruolo prezioso e importante di “controllo perdelega” che va a vantaggio di tutti gli investitori. Peresempio, nel caso citato in apertura del capitolo, Socié-té Générale è riuscita a instaurare il cambiamento allaVivendi meglio di quanto abbia saputo fare la coalizio-ne di soci di minoranza guidata da Icahn alla Time War-ner. Questo perché negli Stati Uniti gli azionisti devonoricorrere alla minaccia di una scalata per spronare ilmanagement a fare meglio: sono gli offerenti esterni atutelare gli interessi degli azionisti controllando ilmanagement nelle società ad azionariato diffuso e lan-ciando scalate ostili quando la performance della socie-tà non è all’altezza. Tuttavia, negli ultimi anni la politi-ca ha interferito con l’efficacia del mercato del controllosocietario: le leggi che i vari Stati americani hanno pro-mulgato per frenare il fenomeno delle scalate hannodrasticamente ridotto il numero di scalate ostili negliStati Uniti, erodendo la ricchezza degli azionisti, chedevono tollerare la performance mediocre delle società,a favore dei manager, che non rischiano più di esseresostituiti. In assenza di un mercato del controllo socie-tario “sano”, la debolezza degli intermediari finanziari

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Vedi Richard M. Buxbaum, “Comparative Aspects of Institutional Invest-ment and Corporate Governance”, in Institutional Investors and CorporateGovernance, a cura di Theodor Baums - Richard Buxbaum - Klaus Hopt, pp.3, 13, dove si sfata l’idea diffusa che gli investitori sostenuti da fondi pensio-ne si comportino sempre come azionisti ordinari e si suggerisce che siano piùvicini ai fixed claimants.

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americani è preoccupante. Purtroppo, gli orientamentigiurisprudenziali americani hanno limitato artificiosa-mente la possibilità per le banche di controllare leimprese beneficiarie del credito. Se ne può concludereche, se in Germania il grado di influenza delle banche èprobabilmente eccessivo, probabilmente negli StatiUniti è troppo basso.

In Germania e in altri paesi simili, il problema è chegli interessi degli azionisti non sono sufficientementerappresentati nella corporate governance. Negli StatiUniti, il problema è che i fixed claimants non sono ingrado di tutelarsi a livello contrattuale dall’azzardomorale delle imprese beneficiarie del credito, dominatedal capitale di rischio. Queste due debolezze nei model-li di corporate governance provocano un incrementodel costo del capitale e una riduzione dell’efficienzaallocativa. Piuttosto che investire risorse per copiarsireciprocamente, i due sistemi farebbero meglio a con-centrarsi sui propri problemi e a trovare le necessariesoluzioni.

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Corporate governance

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Gli hedge fund e i fondi di private equity sono l’ul-tima significativa novità in ambito di corporate gover-nance e sono probabilmente destinati a rimanere unimportante e controverso aspetto del panorama finan-ziario e legale per parecchio tempo. Essi sono strumen-ti reali. In effetti, una delle principali tesi sostenute inquesto libro è che i tradizionali meccanismi e strumen-ti di corporate governance, inclusi i consigli di ammini-strazione, il voto degli azionisti, le azioni di responsa-bilità e class actions dei soci in ambito mobiliare, nonsono la panacea per tutti i problemi di corporate gover-nance, come spesso si sostiene.

Il mercato del controllo societario è invece unostrumento potente, come abbiamo avuto modo di esa-minare nel capitolo 8, ma con alcuni difetti: è sovra-regolamentato, la sua efficacia è attenuata dalle poisonpills, da un potere legislativo assoggettato alle impre-se e dalle disposizioni del Williams Act, che ingiusta-mente priva gli attori di un’offerta d’acquisto dei legit-timi diritti di proprietà sull’informazione imponendoloro di condividere i propri piani strategici con l’inte-ro mercato. Punto centrale del presente capitolo è chegli hedge fund, fino a ora in gran parte – anche se nondel tutto – privi di regolamentazione, rappresentanoun’integrazione universalmente importante al merca-to del controllo societario nell’arsenale degli strumen-

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Capitolo 15

Hedge fund e private equity

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ti di corporate governance a disposizione dei varipaesi.

Il termine “private equity” si riferisce a fondicomuni di investimento che tentano di generare eleva-ti rendimenti per i propri investitori fornendo capitalea società private e formando delle partnership dilungo periodo con il management delle stesse. Lesocietà di private equity investono ingenti percentualidel proprio capitale (spesso fino a un ammontare del10 per cento dell’intero fondo) allo scopo di ottenereuna partecipazione di maggioranza nella società pre-scelta, detta società bersaglio o target. In cambio esseottengono generalmente significativi diritti di gestio-ne e di governance all’interno della società target,compresi alcuni posti nel consiglio di amministrazio-ne. Solitamente, la società è esclusa dalla quotazionein Borsa e l’azionariato è ristretto e impegnato perparecchi anni. Durante quel periodo, la società di pri-vate equity lavora insieme con il management perriformulare la strategia della società bersaglio, perristrutturarne l’organizzazione, rafforzarne la corpo-rate governance e migliorare la performance in gene-rale. Non appena il processo si è compiuto, la societàdi private equity “realizza il valore” dell’investimentovendendo la società in un’offerta pubblica o privata aun prezzo molto più elevato dell’investimento inizia-le. Ecco perché si dice che i fondi di private equity“creino valore” per gli investitori. Le società di priva-te equity investono in genere in dieci o quindici targetnell’arco della vita del fondo, senza che il singoloinvestimento superi mai la soglia del 10 per cento del-l’impegno complessivo.

Sebbene sia difficile generalizzare, ed è abbastanzaevidente che la linea di demarcazione tra private equitye hedge fund si faccia sempre più confusa, gli hedgefund sembrano generalmente perseguire una strategiad’investimento in grado di “trovare valore”, piuttostoche di crearlo. Gli hedge fund trovano valore indivi-duando un «valore preesistente insito in alcune anoma-lie dei meccanismi di funzionamento del mercato e della

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determinazione del prezzo».1 Per esempio, un hedgefund potrebbe acquistare le quote di una società bersa-glio di un tentativo di scalata ostile e, contemporanea-mente, vendere le partecipazioni della società che si staimpegnando nell’offerta d’acquisto ostile. In questomodo, l’hedge fund persegue una strategia d’investi-mento di breve termine che sfrutta la legge delle medie:in genere, i corsi azionari delle società bersaglio salgonomentre i corsi azionari dei potenziali acquirenti, soprat-tutto quando concludono l’acquisizione, scendono.

Ancora più in generale, gli hedge fund utilizzanospesso sofisticati modelli informatici per determinarese particolari beni di investimento (quali immobili,petrolio, singole azioni oppure valute) sono sovrasti-mati o sottostimati rispetto ad altri. L’hedge fund acqui-sterà l’attività sottovalutata e venderà l’attività soprav-valutata fino a quando verrà ristabilita la tradizionalerelazione tra i prezzi. Un celebre esempio della naturaopportunistica degli hedge fund è quello dell’attaccospeculativo sferrato da George Soros alla sterlina bri-tannica nel settembre del 1992; Soros guadagnò 1miliardo di dollari nel giro di pochi giorni scommetten-do che la sterlina sarebbe precipitata rispetto al dollaroe alle altre valute.

Un’altra differenza generica tra hedge fund e fondidi private equity è la natura del conferimento di capita-le degli investitori. Le persone fisiche e le istituzioni cheinvestono nei fondi di private equity concordano nel-l’impegnare il proprio capitale per un periodo moltopiù lungo di quanto non facciano gli investitori inhedge fund. Di conseguenza, gli investitori dei fondi diprivate equity si aspettano che le società di privateequity impegnino progressivamente il loro capitale neltempo, con scommesse di più lungo termine. Per con-tro, gli investitori in hedge fund prevedono che il lorodenaro venga utilizzato praticamente subito. Visto che

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Hedge fund e private equity

11.. Franci Blassberg (a cura di), The Private Equity Primer: The Best of theDebevoise & Plimpton Private Equity Report, New York, Debevoise and Plimp-ton, 2006, p. 3.

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gli hedge fund potrebbero avere necessità di far frontea un ritiro del capitale da parte degli investitori primadi quanto non debbano fare i fondi di private equity,essi preferiscono in genere assumere posizioni di piùbreve termine in attività più liquide.

In genere, sia gli hedge fund sia i fondi di privateequity sono organizzati in forma di società in accoman-dita semplice. Il fondatore e gestore del fondo è il socioaccomandatario, mentre gli investitori sono soci acco-mandanti o membri. L’investimento minimo per entra-re nell’hedge fund è piuttosto elevato, tipicamente tra 1milione e 10 milioni di dollari. Anche se il cosiddettolock-up period, cioè il periodo di vincolo concordato sul-l’investimento, varia da un fondo all’altro, un investito-re alla prima esperienza di hedge fund non devecomunque credere di poter ritirare la propria quotaprima di un anno; nei fondi di private equity, invece, ildenaro investito è spesso bloccato per dieci anni oanche più. Gli investimenti minimi sono dunque eleva-ti per entrambi, sia per gli hedge fund, sia per i fondi diprivate equity, ed escludono così automaticamente l’ac-cesso ai piccoli investitori o al pubblico in generale. Difatto, la maggior parte di questi fondi è aperta solo agliinvestitori istituzionali e/o alle persone fisiche che dis-pongano di ingenti patrimoni propri e vengano ricono-sciute come “investitori accreditati”.

Gli hedge fund e i fondi di private equity sono sog-getti a una regolamentazione di gran lunga meno pun-tuale rispetto agli investimenti offerti al pubblico ingenerale, come nel caso dei fondi comuni di investi-mento. Per esempio, quando le società – o almeno lamaggior parte di esse, comprese le società di investi-mento o i fondi comuni di investimento – vendono tito-li al pubblico, sono tenute a segnalare alla SEC i titolivenduti e a fornire ogni sorta di informazioni su se stes-se e sui valori mobiliari in questione. Gli hedge fund,invece, eludono questa norma evitando offerte pubbli-che delle proprie quote e affidandosi al collocamentoprivato dei propri fondi.

Inoltre, le grandi società quotate con azionariato pub-

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blico e diffuso o negoziate su mercati azionari organiz-zati o nelle Borse valori non sfuggono all’obbligo di regi-strazione ai sensi del Securities Exchange Act del 1934. Glihedge fund riescono invece a evitare anche questo tipodi regolamentazione non emettendo azioni negoziabilisul mercato aperto e non facendo ammettere le proprieazioni alla quotazione sulle piazze borsistiche.

Infine, gli hedge fund si sono sottratti anche alle di-sposizioni della legge sui consulenti finanziari, ossial’Investment Advisers Act del 1940. La SEC si occupa giàda molto tempo dei “consulenti finanziari”, definiticome coloro i quali vengono remunerati per consigliarealtre persone sul valore dei titoli oppure sull’opportu-nità di investire. Ma i consulenti finanziari con meno diquindici clienti che non si prospettano al pubblico comeconsulenti finanziari sono esonerati dal rispetto dellanorma. La SEC ha sempre sostenuto che i consulentifinanziari, quali i gestori degli hedge fund, prestinoconsulenza ai fondi stessi. Secondo questa interpreta-zione della legge, fino a quando un gestore di hedgefund abbia in gestione meno di quindici fondi saràesentato dal rispettare la norma della SEC.

Questa mancanza di controllo istituzionale è crucia-le nel permettere agli hedge fund di differenziare leproprie strategie da quelle dei fondi comuni di investi-mento. Questi ultimi hanno l’obbligo di registrazionepresso la SEC e sono tenuti per legge a dichiarare leproprie posizioni di investimento e i propri dati finan-ziari. Gli hedge fund, per contro, possono mantenere lariservatezza sulle proprie posizioni e sulle strategie diinvestimento persino nei confronti dei loro stessi inve-stitori. Mentre i fondi comuni di investimento non pos-sono negoziare a margine o vendere allo scoperto, glihedge fund non sono soggetti allo stesso genere direstrizioni. Anzi, la negoziazione a margine e la vendi-ta allo scoperto sono entrambi elementi chiave dellestrategie di investimento degli hedge fund. L’ironia èperò che la mancanza di norme per gli hedge fund e peri fondi di private equity ha favorito un’articolazione delmercato su due livelli: gli investitori facoltosi godono

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della possibilità di accedere a investimenti interessantiattraverso alcuni strumenti finanziari non regolamenta-ti, lasciando invece agli investitori comuni, che dovreb-bero essere protetti dalla legge, il solo accesso agli inve-stimenti meno promettenti.

Nel 2004 la SEC fece le prime mosse per regolamen-tare anche gli hedge fund, tentando di obbligarli allaregistrazione. A tale scopo, la SEC creò una nuova tipo-logia di fondo comune di investimento, denominato“fondo privato” e definito come una società di investi-mento che (a) è esonerata dall’obbligo di registrazioneperché avente meno di cento investitori oppure soloinvestitori qualificati, ai sensi del Investment CompanyAct; (b) permette agli investitori di riscattare le proprieposizioni entro due anni dall’investimento; e (c) si pro-pone in base alle abilità, capacità o competenze del con-sulente del fondo. Questa nuova definizione di fondoprivato includeva praticamente tutti gli hedge fund.Prima si riteneva che gli hedge fund fornissero consu-lenza a se stessi e non agli effettivi investitori del fondo;ma la SEC deliberò che questi nuovi fondi privatiavrebbero dovuto includere nel computo dei propriclienti tutti i loro azionisti, i soci accomandanti, i mem-bri o i beneficiari del fondo. In altre parole, tutti gliinvestitori dei fondi privati (hedge fund) concorrevanoa raggiungere il numero minimo di quindici che avreb-be fatto scattare l’obbligo di registrazione previsto dal-l’Investment Advisers Act. Reinterpretando il termine“clienti”, la nuova norma portò il numero dei clientidella maggior parte dei fondi da uno a un numerosuperiore di quindici, cosa che conferiva alla SEC l’au-torità di regolamentazione.

Nel 2006, con la causa Goldstein v. Securities andExchange Commission,2 la Corte d’Appello statunitenseper il Circuito del Distretto di Columbia stroncò però iltentativo della SEC di regolamentare gli hedge fund. Lacorte decretò invalida la nuova definizione del termine

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22.. Goldstein v. Securities and Exchange Commission, 451 F.3d 873, D.C. Cir.2006.

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“clienti” voluta dalla SEC, la quale annoverava gli inve-stitori degli hedge fund tra i clienti del consulente delfondo. La Corte aveva esaminato l’Investment AdvisersAct e la sua storia legislativa e aveva concluso che “con-sulente” è chi elargisce direttamente i propri consigli eche gli investitori degli hedge fund, i quali non sannonemmeno in che attività il fondo stia investendo, pos-sono anche godere dei benefici della competenza deiconsulenti, ma non sono “clienti” perché non ricevonoalcun consiglio di investimento diretto dai consulentistessi. I consulenti, semmai, consigliano il fondo nelquale gli investitori hanno messo il proprio denaro. Inaltre parole, il gestore del fondo non dice e non consi-glia nulla agli investitori, per cui questi non possonoessere considerati clienti. Avendo acquistato un fondo,l’investitore «passa in secondo piano; il suo ruolo si facompletamente passivo».3 Visto che chi controlla ilfondo (il consulente finanziario) non è consulente d’in-vestimento di ogni singolo investitore ma piuttosto delfondo stesso, allora si dà il caso – così almeno ragionòla Corte – che quegli investitori non possono dirsi clien-ti di chi controlla il fondo. Cliente è piuttosto il fondostesso.

Hedge fund, fondi di private equity e corporategovernance

La novità di spicco di questi ultimi anni nell’ambitodella corporate governance è la convergenza degliobiettivi degli hedge fund con quelli dei fondi di priva-te equity. Un numero sempre maggiore di hedge fundtende oggi a somigliare ai fondi di private equity nel-l’approccio alla corporate governance. Di particolareinteresse è il fatto che entrambi, sia gli hedge fund sia ifondi di private equity, sono sempre più coinvolti nelgoverno delle società ad azionariato diffuso.

In realtà, gli hedge fund e i fondi di private equitystanno svolgendo precisamente lo stesso ruolo econo-mico un tempo svolto dalla fusione tra imprese e dal

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Hedge fund e private equity

33.. Goldstein v. Securities and Exchange Commission, 451 F.3d 880.

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mercato del controllo societario, prima che leggi quali ilWilliams Act, insieme con l’inesplicabile tolleranza giu-diziaria nei confronti di strumenti anti-scalata come lepoison pills, riducessero gradualmente il ruolo del mer-cato del controllo societario nell’economia. Di recente,però, il compito di monitorare e disciplinare il manage-ment, originariamente considerato di competenza delmercato del controllo societario, è stato rilevato daglihedge fund e dai fondi di private equity, sia nelle pic-cole sia nelle grandi imprese.

Verso la metà del 2006, per esempio, la Sebastian Hol-dings, società di private equity che acquisì il 4 per centodella Vivendi, contrastò il piano della Vivendi di acquisi-re la società francese di elenchi telefonici Pages Jaunes,argomentando davanti al consiglio di amministrazioneche «un progetto finalizzato a creare un conglomerato diattività sarebbe andato a discapito degli interessi di tuttigli azionisti»;4 con una capitalizzazione ridotta alla metàdel massimo storico «la società ha già generato abba-stanza malcontento tra gli investitori da destare l’interes-se degli investitori di private equity, i quali pensano dipotere fermare l’operazione».5

Quasi nello stesso momento, sulla costa occidentaledell’Atlantico, presso la rivale TimeWarner, il gestore diun hedge fund, Carl Icahn, accusava il presidente dellaTimeWarner, Richard Parsons, di sperperare l’attivodella società non riuscendo a gestirla in un modoimprenditorialmente creativo e non agendo in modoabbastanza aggressivo da «accrescerne il valore per gliazionisti».6 Dopo mesi di manovre Icahn costrinse ilcolosso mediatico ad acconsentire al riacquisto di azioniproprie per l’ammontare di 20 miliardi di dollari, altaglio dei costi per ulteriori 500 milioni di dollari nel2007 e alla nomina di due amministratori indipendenti

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Corporate governance

44.. http://www.finanznachrichten.de/nachrichten-2006-06/artikel-6573799.asp.55.. Steve Rosenbush, “Fresh Barbarians at the Gates?”, BusinessWeek, 13 giu-

gno 2006, http://businessweek.com/investor/content/jun2006/pi20060613_73-6996.htm.

66.. “Icahn Prods Time Warner to Take Action”.77.. “Why Icahn Backed Down”, Time, 27 febbraio 2006.

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all’interno del consiglio di amministrazione.7

Secondo un commentatore di mercato, «l’acquisi-zione ostile era ormai stata rimpiazzata dall’acquistodi consistenti partecipazioni azionarie da parte dihedge fund o fondi di private equity».8 Acquisendoimportanti posizioni di minoranza o di maggioranzaall’interno delle società, gli investitori di privateequity «sfruttano tali posizioni per fare pressione suidirigenti e spingerli a promuovere dei cambiamenti,che spesso riguardano la cessione di business unitdeboli e distribuzioni più generose agli azionisti».9 Inquesto senso «gli investimenti di private equity godo-no di un importante potere di indirizzo e di discipli-na».10 Gli hedge fund, infatti, sono considerati «i nuovisceriffi delle sale riunioni dei consigli di amministra-zione», il «miglior motivo degli azionisti per sperarein rendimenti migliori».11 V’è, in effetti, chi guarda aglihedge fund come «al potere dominante dell’economiae del governo d’impresa; un potere capace di control-lare le tematiche relative al voto degli azionisti e allacorporate governance e che viene esercitato in misurasenza precedenti».12

L’importanza dei fondi di private equity e deglihedge fund nell’ambito della corporate governancespinge a chiedersi se la forte tendenza a regolamentarequesti strumenti di investimento scaturisca dalla loronotevole capacità di indurre i dirigenti a lavorare “atesta bassa”. Da più parti si attribuisce l’eccessiva rego-lamentazione del mercato del controllo societario al

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Hedge fund e private equity

88.. Larry E. Ribstein, “Accountability and Responsibility in CorporateGovernance”, Notre Dame Law Review, 81, 2006, p. 1476.

99.. Larry E. Ribstein, “Accountability and Responsibility in CorporateGovernance”.

1100.. Larry E. Ribstein, “Accountability and Responsibility in CorporateGovernance”.

1111.. Allan Murray, “Hedge Funds Are the New Sheriffs of the Boardroom”,Wall Street Journal, 14 dicembre 2005, A2.

1122.. Andrew M. Kulpa, “The Wolf in Shareholder’s Clothing: Hedge FundUse of Corporate Governance Game Theory and Voting Structures to ExploitCorporate Control and Governance”, U.C. Davis Business Law Journal, 6,2005, p. 4.

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desiderio di proteggere il management in carica, per cuipare altrettanto plausibile che il management in caricareagisca auspicando una maggiore regolamentazioneper affrancarsi dalla disciplina di mercato imposta dal-l’attivismo degli hedge fund e degli investitori di pri-vate equity.

Gli hedge fund e gli investitori di private equitysono divenuti sempre più importanti per la corporategovernance e lo sono soprattutto ora, quando risultadifficile e costoso per le società offrire le proprie azionial pubblico. Gli hedge fund e gli investitori di privateequity guadagnano solo se le società nelle quali inve-stono riescono a prosperare. Gli hedge fund e gli inve-stitori di private equity sono dunque particolarmenteinteressati a fare in modo che le “società in portafoglio”(cioè le società in cui hanno investito) abbiano successoe lo fanno garantendosi dei posti nei loro consigli diamministrazione, controllandone il management e,dove opportuno, sferrando una battaglia di deleghe perrimpiazzarlo. Utilizzano dunque esattamente lo stessogenere di metodi disciplinari contemplati in un benfunzionante mercato del controllo societario.

In particolare quando il corso azionario di una socie-tà è sottovalutato per colpa di un management ineffi-ciente, corrotto o indolente, gli hedge fund hannoun’ottima opportunità di arbitraggio; essi possonoassumere una posizione lunga nella società e utilizzarela loro proprietà azionaria per motivare i dirigenti,riqualificarli e, dove necessario, sostituirli. Detto inaltre parole, i fondi attivisti creano esternalità positiveper tutti gli investitori: la sola minaccia di un interven-to da parte di investitori attivisti genera forti incentivinei dirigenti delle società, i quali iniziano ad agire nel-l’interesse degli azionisti per evitare di perdere la pro-pria autonomia e facoltà di controllo, se non addirittu-ra il posto di lavoro.

Quando la sola minaccia non basta a spronare all’a-zione il management, gli hedge fund non avranno esi-tazioni nel cercare di conquistare posti all’interno delconsiglio di amministrazione della società partecipata

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per riuscire a condizionarne le decisioni. Alcuni recentistudi empirici rilevano che in circa tre tentativi su quat-tro gli hedge fund riescono a ottenere una maggiorerappresentanza all’interno dei consigli di amministra-zione.13 Inoltre, gli stessi studi indicano che «in quasi lametà dei casi in cui l’hedge fund non riesce ad aggiudi-carsi un posto all’interno del consiglio di amministra-zione, ottiene comunque altre concessioni dal manage-ment».14 Per esempio gli hedge fund Appaloosa e For-mation Capital non riuscirono a aggiudicarsi un postonel consiglio di amministrazione della Beverly Enter-prises, ma portarono il management a cedere sulriorientamento della strategia societaria, la quale avreb-be dovuto focalizzarsi sulla ricerca di un acquirente. LaBeverly Enterprises venne venduta mesi più tardi conun premio del 40 per cento sopra al prezzo corrente dimercato, generando un buon utile sia per gli hedgefund sia per gli azionisti in generale.15

Gli hedge fund e le società di private equity inter-pretano inoltre un ruolo fondamentale nel salvaguarda-re gli interessi degli azionisti quando si tratta di incor-porazioni e di acquisizioni. Essi potrebbero persino ten-tare di bloccare completamente la transazione di unasocietà in portafoglio qualora fossero convinti dell’ina-deguatezza strategica dell’operazione. L’esempio, giàcitato prima, è quello della Sebastian Holdings, unasocietà di private equity che tentò di sventare l’opera-zione di acquisizione della Pages Jaunes messa in attodalla sua partecipata Vivendi. In questo caso la Seba-stian Holdings convinse gli azionisti che l’acquisizione

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Hedge fund e private equity

1133.. Jonathan R. Laing, “Insiders, Look Out!”, Barron’s, 19 febbraio 2007,p. 1; April Klein - Emanuel Zur, “Entrepreneurial Shareholder Activism,Hedge Funds and Other Private Investors”, tabella 5, American AccountingAssociation, 2007, Financial Accounting and Reporting Section, FARS Mee-ting, disponibile su http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=9133-62#PaperDownload.

1144.. Jonathan R. Laing, “Insiders, Look Out!”.1155.. “Beverly Enterprises Sold to North American Senior Care”, Memphis

Business Journal, 17 agosto 2005, http://www.bizjournals.com/memphis/sto-ries/2005/08/15/daily19.html.

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sarebbe stata una pessima strategia perché avrebbeavallato la sensazione che la Vivendi fosse una holdingrafforzando così ulteriormente il deprezzamento dellesue azioni.

Gli hedge fund e le società di private equity sonodeterminanti anche quando si tratta di puntare il ditosulla decisione del consiglio di amministrazione di ven-dere irresponsabilmente una società o le sue attività aldi sotto del loro valore di mercato. A differenza di moltialtri investitori comuni, un hedge fund o una società diprivate equity dispone di più strumenti per fare stimeaccurate. Se fosse necessario, inoltre, potrebbe usare leproprie disponibilità per presentare un’offerta competi-tiva, dimostrando così concretamente la propria deter-minazione. Per esempio, gli hedge fund furono i primi aopporsi alla proposta di fusione con la Novartis presen-tata dal consiglio di amministrazione della Chiron. Allafine la Novartis fu costretta ad alzare la propria offertaportandola a 49 dollari, quasi il 25 per cento in più del-l’offerta iniziale e il 10 per cento in più del prezzo che ilmanagement avrebbe accettato per dare il via liberaall’accordo. La Institutional Shareholder Services, unasocietà che ha lo scopo di migliorare il rapporto tra azio-nisti e rispettive società, ha sottolineato che «se a dettadei detrattori gli hedge fund hanno un orizzonte di inte-ressi speculativi di breve termine, che diverge da quellodegli interessi delle società e degli investitori di lungotermine, i casi come quello della Chiron dimostranocome anche gli investitori comuni possano trarre bene-ficio dagli sforzi compiuti dagli hedge fund».16

Gli hedge fund hanno inoltre un vantaggio sostan-ziale nel disciplinare efficacemente la corporate gover-nance, rispetto al mercato del controllo societario, per-ché sono in grado di sostenere posizioni allo scoperto.Così, in casi come WorldCom o Enron, nei quali i prez-zi delle azioni sono sopravvalutati a causa di scorret-

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1166.. Institutional Shareholder Services, “2006 Postseason Report: Spotlighton Executive Pay and Board Accountability”, 25, 2006, http://ww-w.issproxy.com/pdf/2006PostSeasonReportFINAL.pdf.

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tezze contabili nonché vere e proprie frodi, gli hedgefund possono approfittarne smascherando la situazio-ne dopo avere assunto una posizione allo scoperto. Ilmonitoraggio da parte degli hedge fund accresce laprobabilità che i falsi in bilancio vengano individuati,riducendo pertanto le possibilità che tali artefatti conta-bili possano verificarsi.

Infine, gli hedge fund e le società di private equityhanno avuto un ruolo decisivo nel proteggere gli inte-ressi degli azionisti nei casi in cui il consiglio di ammi-nistrazione ha tentato di togliere il diritto di voto agliazionisti. L’hedge fund Relational Investors capeggiòuna rivolta di azionisti quando l’amministratore dele-gato della Sovereign Bancorp, una delle società in por-tafoglio del fondo, cercò di predisporre un’operazionecommerciale in modo da eludere la necessità di appro-vazione da parte degli azionisti. L’hedge fund ottennedue posti nel consiglio di amministrazione della Sove-reign Bancorp e, nonostante si trattasse solo di una pre-senza di minoranza, nel giro di qualche mese fece inmodo di convincere il consiglio di amministrazione arimuovere il CEO dall’incarico.17

I fondi comuni di investimento e altri investitori dibuon senso esprimerebbero il proprio voto andandose-ne, rifiutandosi di primo acchito di investire in societàcon prestazioni insoddisfacenti oppure vendendo leazioni già in loro possesso. Invece di guardare agli“scarsi risultati” come a un male da evitare, gli hedgefund, e in qualche misura anche i fondi di privateequity, li considerano un’opportunità di investimento.

Un esempio concreto della costante ricerca di nuoveoccasioni da cogliere sia da parte degli hedge fund siada parte dei fondi di private equity è dato dal mercatodel distressed debt, o debito in sofferenza: si tratta del

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Hedge fund e private equity

1177.. “Sovereign Shareholders to Confront Board”, Townhall.com, 17 set-tembre 2006, http://www.townhall.com/News/NewsArticle.aspx?ContentGui-d=f96e8265-c3af-488f-b211-fefe36ba232d; Council of Institutional Inve-stors, “2006 Spring Meeting Wrap-Up, Whitworth Anticipates Next Steps atSovereign”, http://www.cii.org/meetings/index.html.

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debito obbligazionario delle società in crisi, che hannogià presentato istanza di fallimento o si accingono afarlo in un prossimo futuro. A volte le società di priva-te equity e gli hedge fund perseguono la strategia dirilevare il debito di quelle società in difficoltà, soprat-tutto quando il costo è inferiore al valore nominale delleobbligazioni a scadenza; ciò accade spesso quando imercati obbligazionari perdono fiducia nella società acausa delle loro inadempienze o in seguito a un gravedeclassamento del rating al di sotto dell’investmentgrade. Queste società che precipitano in disgrazia sonocolloquialmente dette fallen angels, “angeli caduti”.

Non appena un hedge fund o una società di privateequity si appropria del debito della società in crisi dive-nendone il principale creditore, avrà facoltà di control-lo sulla sua corporate governance se questa sarà costret-ta a ricorrere alla procedura di amministrazione straor-dinaria. Se la società in crisi verrà liquidata, le societàche ne detengono il debito in sofferenza saranno messein lista per il rimborso dell’investimento prima dellamaggior parte degli altri investitori, azionisti compresi.Durante l’amministrazione straordinaria della societàin crisi, gli hedge fund o le società di private equity chesi sono fatte carico del debito spesso scelgono di rimet-tere almeno parte delle obbligazioni da loro detenute incambio di una quota capitale della società riorganizza-ta e riemergente.

Una differenza cruciale tra il tipo di investimentoeffettuato solitamente dai venture capitalists nelle impre-se in via di formazione e gli investimenti fatti nellesocietà in crisi dai fondi di private equity e dagli hedgefund consiste nella diversa relazione tra gli investitori eil management. Gli hedge fund e gli investitori in pri-vate equity, al contrario dei venture capitalists, nondanno alla dirigenza un “voto di fiducia”, investendosu di loro. Al contrario, la relazione tra chi ha investitoin un debito in sofferenza e il management della socie-tà che ha emesso quel debito è tesa e spesso ostile,soprattutto perché i gestori degli hedge fund e gli inve-stitori in private equity, che hanno assunto una posizio-

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Corporate governance

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ne nella società in crisi, considerano l’attuale manage-ment come la causa principale dei guai della società.Questi investitori metteranno sotto pressione il mana-gement affinché rimetta in sesto le prestazioni azienda-li o, altrimenti, cercheranno di sostituire i dirigenti.

In altre parole, gli investitori di private equity e glihedge fund sono fondamentali nella corporate gover-nance: vanno a colmare le lacune di governance createdall’inerzia delle agenzie di rating, dal moribondo mer-cato del controllo societario, dall’ignoranza razionaleche domina il voto degli azionisti, dai dirigenti asservi-ti ai consigli di amministrazione e da gruppi dirigentifocalizzati sui propri interessi, come già ampiamentevisto nei capitoli precedenti. Poiché il guadagno è ine-sorabilmente legato alla performance, gli investitori inprivate equity e gli hedge fund ricorrono spesso a unapproccio molto pragmatico per assicurarsi che lesocietà nel loro portafoglio funzionino il meglio possi-bile. Gli hedge fund e gli investitori di private equityassumono sempre più il ruolo di «investitori attivi cheoffrono capacità e competenze complementari ai grup-pi dirigenti e alle società che stanno sponsorizzando. Imigliori investitori di private equity (e i migliori hedgefund) sono partner strategici del management nel pro-cesso di creazione del valore».18 Coerentemente conl’accresciuta importanza che vanno assumendo nellasfera della corporate governance, sia gli investitori inprivate equity sia gli hedge fund pianificano i propriinvestimenti con orizzonti di più lungo periodo. In par-ticolare per gli investitori di private equity, l’ambitotemporale di riferimento è tipicamente di cinque anni,mentre gli hedge fund spesso tentano di riorganizzarepiù velocemente la struttura delle società nelle qualihanno investito.

La reputazione degli investitori in private equity edegli hedge fund dipende soprattutto dalla loro abilità

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Hedge fund e private equity

1188.. John J. Moon, “Public vs. Private Equity”, Journal of Applied CorporateFinance, 18, n. 3, 2006, p. 76, http://www.ingentaconnect.com/content/bsc/ja-cf/2006/00000018/00000003/art00007;jsessionid=766sct71fqe7m.alice.

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nel valutare la condizione finanziaria delle società chehanno in portafoglio prima di investire su di esse e nel-l’individuare un management debole o senza scrupolo.Dalla prospettiva del gestore di un hedge fund o di unfondo di private equity, uno scandalo che riguardi lacorporate governance danneggerà non solo le prestazio-ni del gestore del fondo ma anche la credibilità di ognifondo che abbia investito nella società colpita dalloscandalo. Ciò avrà a sua volta la conseguenza di ridurrela capacità futura del fondo di attrarre nuovi investitori.Le ripercussioni sulla reputazione di una scommessasbagliata peggiorano l’effetto della scommessa sbagliatasulla performance del fondo e rappresentano un ulterio-re incentivo per i gestori del fondo a prendere in manole redini e tenere sotto controllo il management dellesocietà in cui hanno investito.19 Se un hedge fund o unfondo di private equity non riesce a garantire una cor-porate governance decisa nel proprio portafoglio, ipotenziali investitori nel fondo penseranno che non saràin grado di gestire in modo adeguato i loro investimen-ti. Questo crea forti incentivi per gli hedge fund e per ifondi di private equity ad assicurarsi che le societàall’interno del loro portafoglio siano ben gestite.

L’influsso degli hedge fund e delle attività di priva-te equity sulla corporate governance statunitense siestende dalle società ad azionariato particolarmentediffuso a quelle a partecipazione azionaria più ristretta.A queste ultime occorrono proprio le risorse manage-riali e il capitale che gli hedge fund e le società di pri-vate equity sono in grado di fornire. Per contro le socie-tà ad azionariato particolarmente diffuso potrebberoanche non avere bisogno (o credere di non avere biso-gno) né della competenza gestionale né del capitale diun hedge fund o un investitore di private equity. Eppu-re, di questi tempi, vengono pesantemente influenzatidai fondi di private equity e dagli hedge fund persino igruppi dirigenziali di queste società, soprattutto sedesiderano restare indipendenti. Le sale dei consigli di

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Corporate governance

1199.. John J. Moon, “Public vs. Private Equity”, p. 78.

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amministrazione sono sempre in fermento quando sitratta di stabilire come comportarsi nei confronti dellesocietà di private equity e degli hedge fund attivisti, ilcui comportamento è molto diverso da quello dei tradi-zionali investitori istituzionali, quali per esempio lecompagnie di assicurazione, i fondi comuni di investi-mento, i fondi pensione o le persone fisiche.

L’attivismo degli hedge fund può assumere molteforme: dare un semplice consiglio, fare pressione priva-ta (o pubblica) sulle società in portafoglio per indurle acambiare le proprie strategie di crescita e di redditività,innescare battaglie di deleghe per guadagnare poltronenei consigli di amministrazione delle società partecipa-te, intentare azioni legali contro i dirigenti e ammini-stratori. Un classico esempio dell’attivismo degli hedgefund in ambito di corporate governance si manifestanella famosa lettera dell’hedge fund Third Point LLCindirizzata a Irik Sevin, CEO della Star Gas, una socie-tà inserita nel portafoglio del fondo e distributrice diolio combustibile per riscaldamento. Nella lettera ci simeravigliava: «com’è possibile che lei abbia scelto difare sedere la sua anziana madre di 78 anni nel consi-glio di amministrazione della società, impiegandolapersino a tempo pieno?». L’hedge fund Third Pointconsigliava Sevin: «è giunto il tempo che lei si dimettadall’incarico di CEO per dedicarsi a ciò che le riescemeglio: ritirarsi nella sua sontuosa villa sul litoraledelle Hamptons dove potrà giocare a tennis e intratte-nersi con gli uomini di mondo del suo pari... Ci chie-diamo in base a quale principio di corporate governan-ce si possa decidere di fare sedere la propria madre nelconsiglio di amministrazione di una società. Se leivenisse giudicato negligente nell’esecuzione dei compi-ti che le competono – come crediamo – la mamma nonci sembra certo la persona più adatta per rimuoverladal suo incarico». Sevin rassegnò le dimissioni un mesedopo avere ricevuto la lettera.20

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Hedge fund e private equity

2200.. Marcel Kahan - Edward Rock, “Hedge Funds in Corporate Governan-ce and Corporate Control”.

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L’importante in questa sede è capire che il ruolochiave giocato dagli hedge fund e dai fondi di privateequity in ambito di corporate governance tocca profon-damente tutte le società. Persino le società che voglionoevitare di essere il bersaglio di un fondo attivista pos-sono riuscire nel loro intento solo migliorando radical-mente la propria corporate governance e facendo inmodo che non vi sia più alcuna possibilità di arbitrag-gio che permetta ai gestori dei fondi di assumere posi-zione nella società per poi indurre il cambiamento.

Ovviamente le società che sono, o stanno per diven-tare, il bersaglio di un hedge fund attivista si sentiran-no prese d’assalto più o meno come se fossero oggettodi una scalata ostile. Martin Lipton, l’avvocato cheinventò lo strumento anti-scalata delle poison pills, harecentemente suggerito ai clienti della propria società:«L’elevato grado di attivismo che si riscontra attual-mente negli hedge fund giustifica che la società si pre-pari come se dovesse affrontare una scalata ostile. Ineffetti, alcuni degli attacchi (sferrati dagli hedge fund)sono pensati per facilitare un’acquisizione di controllooppure per forzare la vendita della società bersaglio[…]. Se la società bersaglio non si prepara avrà menopossibilità di controllare il proprio destino».21 Le teoriestrategiche su cui poggia il modo di investire deglihedge fund attivisti sono allineate con quelle che carat-terizzano un mercato del controllo societario forte. Glianalisti e i responsabili delle politiche di governo afavore di un mercato del controllo societario forte loda-no gli effetti benefici degli hedge fund, degli investitoridi private equity e degli altri attivisti. Chi invece mettein discussione il valore del mercato del controllo socie-tario avanza alcuni dubbi anche sul valore delle moda-lità di investimento degli hedge fund.

Come già evidenziato in precedenza, molte societàattiviste di private equity e molti hedge fund attivisti

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Corporate governance

2211.. Martin Lipton, “Attacks by Activist Hedge Funds”, 7 marzo 2006,memorandum del cliente, Wachtell, Lipton, Rosen and Katz, http://interacti-ve.wsj.com/documents/wsj-law_act-Hfunds.pdf.

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esercitano un ruolo importante nella selezione deimembri del consiglio di amministrazione. Visto che imembri del consiglio identificati e selezionati dallesocietà di private equity o dagli hedge fund provengo-no dall’esterno e sono nominati da investitori esterni,portano nel consiglio prospettive nuove e fresche, e,cosa forse più significativa, non sono inclini all’asservi-mento quanto gli amministratori entrati a far parte delconsiglio attraverso il processo di nomina tradizionale;la loro reputazione personale non è legata a decisioniprecedenti del consiglio e non si sono sbilanciati sullaqualità del management. I membri del consiglio diamministrazione selezionati dagli hedge fund o dagliinvestitori di private equity vengono scelti in funzionedell’indipendenza, della competenza in fatto di corpo-rate governance e «per la perizia in ambito industrialeo funzionale. […] Ciò significa che non sono asservitialle priorità del management».22

A causa delle consistenti quote che gli hedge fund egli investitori di private equity detengono nelle societàpartecipate, attuano forme di controllo tipicamente piùestese di quanto non facciano sia gli amministratori tra-dizionali, sia i tipici investitori istituzionali. Gli hedgefund e gli investitori in private equity si dimostranoparticolarmente efficaci nel controllare il managementperché non limitano l’interazione con i dirigenti allesole sedute previste con regolarità dal consiglio diamministrazione. Molti di loro partecipano con impe-gno sia alla pianificazione strategica sia alle operazionitattiche della gestione ordinaria: «per controllare i pro-pri investimenti, gli investitori in private equity lavora-no fianco a fianco con i CEO mettendo efficacemente adisposizione le diverse competenze, che spaziano dalcoaching dei dirigenti alla alle strategie d’investimento,fornendo continuativamente consulenza e analisi».23

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Hedge fund e private equity

2222.. Boston Consulting Group, “What Public Companies Can Learn fromPrivate Equity”, http://www.bcg.com/publications/files/What_Public_Compa-nies_Can_Learn_from_Private_Equity06.pdf.

2233.. John J. Moon, “Public vs. Private Equity”, pp. 76, 80.

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Forse la differenza più evidente tra hedge fund e inve-stitori in private equity da un lato e investitori tradizio-nali dall’altro è che gli hedge fund e le società di priva-te equity mirano soprattutto a generare contante e a“ripulire” le società partecipate in vista dell’obiettivofinale di venderle oppure di concluderne un’offertapubblica iniziale. Gli investitori in private equity e glihedge fund sono meno interessati a “creare imperi” diquanto non sia il management della società, che a talescopo mette in atto acquisizioni difensive o potenzia lastruttura della corporate governance societaria con unarsenale di strumenti atti a sventare le scalate.

La distribuzione di denaro agli azionisti sotto formadi pagamento di dividendi o di riacquisto di azioni pro-prie è spesso osteggiata dai dirigenti, perché sembraprevaricarli; pagare gli azionisti riduce l’ammontare dicapitale sotto il diretto controllo del management eintensifica l’attività di monitoraggio se si deve rastrella-re nuovo capitale all’esterno.24 I dirigenti hanno interes-se a espandere l’attività – anche se una dimensione piùridotta potrebbe giovare maggiormente agli azionisti –sia perché ciò accresce le risorse sotto il loro controllo,sia perché sembra “foderare meglio le loro tasche”,visto che le loro retribuzioni sono di solito correlateall’aumento del fatturato.25 Più grande è l’azienda emaggiori sono i costi di un’eventuale acquisizione, ecosì la posizione degli attuali dirigenti e amministrato-ri risulta più protetta. La partecipazione attiva degliinvestitori in private equity tende a eliminare la granparte di questi comportamenti interessati.

Case study: Shamrock Holdings e Polaroid CorporationVerso la fine degli anni Ottanta, nel periodo d’oro

delle operazioni di leveraged buyout e delle scalate ostili,il fondo di private equity Shamrock Holdings acquisì

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Corporate governance

2244.. Frank Easterbrook, “Two Agency Costs of Dividends”, American Eco-nomic Review, 74, 1984, pp. 650-659.

2255.. Michael C. Jensen, “Agency Costs of Free Cash Flow, Corporate Finan-ces, and Takeovers”, American Economic Review, 76, 1986, p. 323.

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circa il 5 per cento delle azioni in circolazione dellaPolaroid Corporation. Per venticinque anni, dal lanciodella prima macchina fotografica istantanea nel 1948, laPolaroid aveva goduto di uno sviluppo rapido e conti-nuo, ma negli anni Ottanta la crescita e la redditivitàaziendale avevano subìto un forte declino.26 Gran partedella liquidità aziendale era stata allocata alla Ricerca &Sviluppo (R&S), incidendo così sugli utili di breveperiodo della Polaroid; questa scelta aveva gettato lebasi per un’espansione di lungo periodo, ma solo se imercati finanziari avessero ritenuto che tali investimen-ti in R&S avessero potuto trasformarsi in prodotti com-merciabili di successo. Inoltre, la Polaroid era relativa-mente poco indebitata e molti investitori in capitale dirischio sostenevano che il management non stessesfruttando a sufficienza la possibilità di accesso al cre-dito della società.

La proprietà azionaria dei dipendenti Polaroid ren-deva la situazione di corporate governance all’internodella società ancora più problematica. Fin dai primianni Settanta, la Polaroid aveva iniziato a premiare idipendenti con ingenti quantità di azioni grazie all’Em-ployee Stock Ownership Plan (ESOP), un piano di pen-sionamento creato per dare agli impiegati «una quotadi partecipazione nella società per la quale lavorano».27

L’ESOP della Polaroid, generoso nei confronti delmanagement in carica, utilizzava mezzi esterni peracquisire le proprie azioni, le quali, dette azioni “nonallocate”, venivano tenute separate e allocate all’ESOPuna volta concluso l’acquisto delle azioni da parte dellasocietà.

Come spesso succede in questi casi, il capitale azio-nario dei dipendenti accantonato nell’ESOP della Pola-roid serviva in realtà come efficace strumento di difesa

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Hedge fund e private equity

2266.. Shamrock Holdings, Inc. v. Polaroid Corp., 559 A.2d 257, 260, Del. Ch.1989.

2277.. Eric Grannis, “A Problem of Mixed Motives: Applying ‘Unocal’ toDefensive ESOPs”, Columbia Law Review, 92, 1992, pp. 851-886, in parti-colare p. 861.

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per il management. I dipendenti sono solitamentemolto avversi al rischio perché hanno investito in modonon diversificato il proprio capitale umano nell’aziendaper la quale lavorano. Per questo motivo essi tendonoin genere a sostenere il management anche perché valu-tano la sicurezza del posto di lavoro – che secondo loroderiva dal mantenere indipendente la società presso laquale sono impiegati – più importante di qualsiasipotenziale premio che potrebbero ricavare da un’offer-ta d’acquisto della società stessa. Naturalmente, strate-gie societarie quali le ristrutturazioni aziendali, checomportano il licenziamento di alcune persone, potreb-bero essere anche considerate con favore dagli azionisti,ma vengono strenuamente contrastate dai dipendenti.28

Il management della Polaroid era ben consapevole ditutto ciò e quando capì che la società era diventata unottimo bersaglio per una scalata distribuì quote di capi-tale ai dipendenti e ad altri azionisti “strategici” su cuisapeva di poter contare.29

Shamrock era sempre più preoccupato dell’investi-mento nella Polaroid e dell’atteggiamento apparente-mente apatico del management; così iniziò a circolarevoce che stesse per lanciare una scalata ostile nei con-fronti della società produttrice di macchine fotografichedi Cambridge, Massachusetts. A quel punto era fonda-mentale stabilire a chi spettasse il diritto di voto per leazioni non ancora allocate nell’ambito dell’ESOP diPolaroid (per le azioni già allocate era chiaro che avreb-bero votato i dipendenti). A dimostrazione della tesiche l’ESOP fosse in realtà uno strumento difensivo delmanagement e non un meccanismo per promuovere unvago concetto di “partecipazione dei lavoratori”, laPolaroid e i suoi avvocati anti-scalata argomentaronoche le azioni non allocate avrebbero dovuto essere sog-gette alla cosiddetta regola della “votazione speculare”,per cui il voto delle azioni non ancora allocate avrebbe

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2288.. Eric Grannis, “A Problem of Mixed Motives”.2299.. 15 Del. J. Corp. L. 377, 481.

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dovuto rispecchiare quello espresso dai dipendenti perle azioni già allocate nell’ambito dell’ESOP. Shamrockadì le vie legali per bloccare sia l’adozione dell’ESOP diPolaroid sia l’accordo di votazione speculare, ma i tri-bunali del Delaware presero le parti del management eapprovarono l’ESOP. La sentenza costituì il precedenteche portò all’assunzione di dispositivi difensivi similiin un gran numero di società quotate.

I tribunali del Delaware approvarono l’ESOP dellaPolaroid a dispetto del fatto che il management per-mettesse all’ESOP di acquistare azioni a buon merca-to, a un prezzo che si attestava sul corso azionariomedio prima che si manifestasse l’interesse all’acqui-sizione da parte di Shamrock. La corte dichiarò legitti-mo quel prezzo “da saldi” delle azioni pur sapendoche il management della Polaroid era a conoscenzadell’imminente rialzo del corso azionario a causa del-l’incombente offerta pubblica d’acquisto di Shamrocke pur sapendo che quell’acquisto stava annacquandoil valore della società.30

Comprensibilmente, Shamrock continuava a esserepreoccupato per il suo investimento che languiva inPolaroid e credette di potere accrescere il valore per gliazionisti apportando alcune modifiche al modo di ope-rare della società. A tale scopo, tentò una negoziazioneper l’acquisizione amichevole della società direttamen-te con il management, ma non ebbe successo perché ilmanagement desiderava rimanere indipendente. Mal-grado la sentenza sfavorevole del tribunale, Shamrockcontinuò a battersi per un cambiamento.

A quel punto la Polaroid avrebbe potuto parare i colpidi un investitore tanto attivista solo accrescendo il suovalore per gli azionisti. La società fece dunque un’offertadi acquisto di azioni proprie per 800 milioni di dollari esuccessivamente riacquistò le proprie azioni sul mercatoper 325 milioni di dollari. Il management cominciò inol-tre a tagliare i costi e a ristrutturare la società.31 La divi-

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3300.. Eric Grannis, “A Problem of Mixed Motives”, p. 868.3311.. 15 Del. J. Corp. L. 377, 397.

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sione R&S venne riorganizzata in modo da focalizzarel’attenzione su aree specifiche, potenzialmente ad altaredditività. La società accantonò anche le risorse neces-sarie per entrare nel promettente mercato mondiale dellepellicole tradizionali da 35 mm.32

L’esempio è istruttivo per due motivi. Primo, dimo-stra quanto possano essere efficaci le tattiche difensivemesse in atto dal management in carica per sventare itentativi di acquisizione ostile. Questo, a sua volta,accade perché i tribunali sono eccessivamente inclini adaccogliere le argomentazioni a favore del managemente sono riluttanti ad agevolare il mercato del controllosocietario emanando norme giudiziarie che livellano ilterreno di gioco tra società acquirenti e società target.Secondo – e si tratta comunque del motivo più rilevan-te – l’esempio illustra come gli investitori attivisti pos-sano perdere la battaglia per l’indipendenza sul con-trollo della società ma vincere comunque la guerra,ottenendo un incremento del valore per gli azionisti euna migliore etica professionale da parte sia del mana-gement sia del consiglio di amministrazione. Il mana-gement della Polaroid ha reagito a un investitore attivi-sta scontento promuovendo una lite che rendesse piùdifficile la scalata ostile e ha vinto la battaglia, ma daquel momento in poi ha adottato le misure necessarieper accrescere il valore per gli azionisti. La domandafondamentale è perché, avendo vinto la battaglia legaleper bloccare l’operazione di mercato messa in atto daShamrock per il controllo della società, il managementnon è ritornato alle sue ben consolidate modalità gestio-nali ignorando gli azionisti più agguerriti? Esistonomolte spiegazioni al riguardo e sono la chiave per capi-re come mai gli hedge fund e gli investitori in privateequity siano tanto importanti nell’ambito della corpo-rate governance.

Innanzitutto, al contrario di chi lancia un’offertafinalizzata puramente al controllo societario, gli inve-stitori di private equity e gli hedge fund hanno investi-

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3322.. 15 Del. J. Corp. L. 377, 397.

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to molto nella società bersaglio e non se ne vanno soloperché hanno perso la battaglia per l’acquisizione delcontrollo o una schermaglia legale. Essi rimarranno lì,affronteranno il management e continueranno a spin-gere le soluzioni da loro proposte per risolvere i pro-blemi della società. Per lo più, il management reagisceattuando i cambiamenti necessari ed evitando così ilprotrarsi e l’acuirsi del confronto con gli investitori, conl’effetto di sventare il rischio di nuove scalate ostili.

In secondo luogo, gli investitori attivisti sono spessoa caccia di pubblicità, mentre il management, e ancoradi più i membri dei consigli di amministrazione,vogliono inevitabilmente sfuggire a una pubblicitànegativa e al concomitante stigma sulla loro reputazio-ne che deriva dall’essere bollati come “fantocci” delmanagement. Una reputazione simile potrebbe com-promettere la loro posizione futura in altri consigli diamministrazione di società quotate ed esporre a possi-bili attacchi le società collegate.

Un’altra spiegazione importante è che quando glihedge fund o i fondi di private equity acquisisconoquote di partecipazione in una società ad azionariatoristretto o diffuso (questi investimenti in società quota-te vengono colloquialmente detti PIPES, acronimo diPrivate Investment in Public Equity Securities, cioèinvestimenti privati in titoli azionari quotati), essi ten-dono tipicamente a insediarsi nel consiglio di ammini-strazione della società o a nominarvi persone con unadisposizione mentale indipendente che hanno le lorostesse filosofie di investimento. Questi investitorihanno contatti stretti e assidui con il management e, neltempo, sviluppano una profonda conoscenza dellasocietà e dei suoi problemi, nonché dei clienti, dei con-correnti, della forza lavoro, dei fornitori e così via. Sem-bra che vi sia più conflitto costruttivo e più scambio diidee nelle società in cui siano presenti investitori forti e

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3333.. Vedi “Morgan Stanley Roundtable on Private Equity and Its Import forPublic Companies”, Journal of Applied Corporate Finance, 18, 2006, pp. 8-37,soprattutto i commenti di Michael Jensen a pagina 13.

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competenti.33 Come ha osservato in modo convincenteun investitore in private equity, «il modello di privateequity presuppone l’idea che chiunque abbia bisognodi un capo, inclusi i CEO delle società per azioni». Per-tanto, quando le società di private equity fanno investi-menti di capitale, i partner della società di privateequity «divengono in effetti i capi del CEO. La posta ingioco è alta e siamo sufficientemente coinvolti nellasocietà e abbastanza bene informati sulla sua attivitàper porre le domande più antipatiche e per sostenerediscussioni imbarazzanti e difficili quando le cose nonvanno bene».34

Case study: Carl Icahn v. Time WarnerMentre la Shamrock Holdings battagliava contro la

Polaroid negli anni Ottanta, Carl Icahn stava accumu-lando una fortuna multi-miliardaria nell’era dei cosid-detti junk bond. Ingiustamente, i detrattori pensavanoche Icahn fosse un raider miope e che stesse danneg-giando i co-investitori con “corse al ribasso” sulle socie-tà quotate; tali manovre avrebbero fruttato a Icahn pro-fitti rapidi dalla vendita delle proprie azioni al mana-gement, che sarebbe stato pure obbligato a pagargli una“buonuscita” per liberarsi della sua presenza e dell’in-flusso negativo che egli sortiva sulle società nelle qualiaveva investito.

Oggi, Carl Icahn ha creato il suo hedge fund perso-nale e nessuno può ragionevolmente contestargli chenon stia rischiando in proprio. Icahn investe una parteconsistente del suo patrimonio privato nei progetti cheritiene validi e in poche parole opera come un fondoindividuale di private equity: fa significativi investi-menti di lungo termine nelle società con l’intento dicreare valore aggiunto per gli azionisti, aumentandol’efficienza dei dirigenti, tagliando i costi e imponendoalle società nel suo portafoglio di focalizzare le energiesulle strategie principali.

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3344.. “Morgan Stanley Roundtable on Private Equity and Its Import forPublic Companies”, p. 25, commenti di Cary Davis.

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L’iniziativa di corporate governance più ambiziosadi Icahn fu la battaglia, iniziata nel 2006, per migliorarela corporate governance e la performance per gli azio-nisti del colosso mediatico Time Warner. Una battagliache è già diventata emblematica per dimostrare quantopossa essere efficace l’intervento degli investitori di pri-vate equity e degli hedge fund nell’ambito della corpo-rate governance.

Secondo alcuni studiosi, in particolare Stephen Bain-bridge dell’università UCLA, il tentativo non riuscito diCarl Icahn di ottenere il controllo della Time Warnerdimostrerebbe che l’attivismo degli hedge fund e degliinvestitori in private equity «(a) non è una buona idea e(b) probabilmente non è destinato a diventare unapanacea della corporate governance contro i costi d’a-genzia».35 Altri, quali Larry Ribstein dell’università del-l’Illinois, assumono un punto di vista diverso e ugual-mente tradizionale, asserendo che sì, certo «abbiamoancora bisogno dei consigli di amministrazione pergestire le grandi società, ma occorre che siano più tra-sparenti; e i fondi di private equity [e gli hedge fund]sono un modo per garantirlo».

Entrambe le considerazioni sono sbagliate. Bain-bridge sbaglia perché ha un concetto troppo limitato disuccesso. Anche se Icahn non è riuscito ad assumere ilcontrollo della Time Warner, ha comunque avuto suc-cesso in molti altri modi apprezzabili: ha costretto lasocietà a modificare notevolmente le proprie strategie;ha indotto la società a tagliare i costi e, cosa più impor-tante, ha portato il management e il consiglio di ammi-nistrazione a focalizzarsi sull’obiettivo di massimizzarela ricchezza per gli azionisti, non lasciandosi condizio-nare così tanto da altri gruppi di interesse, forse piùcongeniali, come per esempio i suoi più alti dirigenti.

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Hedge fund e private equity

3355.. Victor Fleischer, “The Future of Hedge Fund Regulation”, 11 novem-bre 2005, Conglomerate Blog of the Business Law Economics Society,http://www.theconglomerate.org/2005/11/hedge_funds_loc.html, consultato 28febbraio 2008, dove si sottolinea che gli investitori in hedge fund «contanoeccessivamente su un elemento labile quale la reputazione per avere la sicu-rezza che i manager agiranno per i loro migliori interessi».

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In termini più generali, hedge fund e società di pri-vate equity non sono probabilmente destinati nel modopredetto da Bainbridge a «risolversi in un fiasco come èsuccesso alle scalate ostili e, in forma minore, all’attivi-smo degli investitori istituzionali», per una serie diragioni.36 In primo luogo, come abbiamo già osservatonel capitolo 8, le scalate ostili sono state piuttosto effica-ci fino all’avvento del Williams Act e di altre leggi for-mali che hanno reso questo tipo di acquisizioni moltopiù dispendiose e dunque molto meno frequenti. Acausa della forte pressione esercitata da gruppi di inte-resse particolari quali la Business Roundtable (per contodel management) e i sindacati dei lavoratori (per contodei lavoratori locali appartenenti al sindacato), nel mer-cato del controllo societario l’ago della bilancia del pote-re si è allontanato sensibilmente dai potenziali acquiren-ti per avvicinarsi sempre più al management in carica eai ben “trincerati” consigli di amministrazione.

Gli hedge fund e le società di private equity differi-scono in modo sostanziale dagli altri investitori in capi-tale di rischio, quali per esempio i fondi comuni diinvestimento, perché i loro portafogli sono molto piùconcentrati e meno diversificati di quelli dei fondicomuni di investimento. Questo significa che, a diffe-renza dei fondi comuni di investimento, quando gliinvestitori in private equity si stancano del proprio por-tafoglio, non possono concedersi il lusso di vendere ilmodesto pacchetto azionario e di andarsene: i loro pac-chetti azionari non sono modesti e, di conseguenza, pergli hedge fund e per le società di private equity vende-re è molto più oneroso di quanto non lo sia per gli altriinvestitori tradizionali, quali i fondi comuni di investi-mento. Inoltre, visto che gli hedge fund e i fondi di pri-vate equity collaborano attivamente con il managemente i consigli di amministrazione nella pianificazione stra-tegica e nella valutazione della performance della socie-tà, le leggi sull’insider trading vietano loro di negozia-re attivamente i titoli in Borsa secondo modalità invece

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3366.. Victor Fleischer, “The Future of Hedge Fund Regulation”.

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consentite a investitori esterni, quali i fondi comunid’investimento. A sua volta, questo obbliga gli hedgefund a trovare una qualche alternativa alla venditadelle proprie azioni per compensare un investimentodeludente o reagire ad altri esempi di declino organiz-zativo. Per dirla con una frase storica di Albert Hirsch-man, in questo caso l’alternativa è “farsi sentire”, unamodalità che hedge fund e fondi di private equityhanno dimostrato essere molto efficace.

Inoltre, come Hirschman ha fatto notare, sia l’uscita(cioè il ritiro da una situazione nella quale si è coinvol-ti scegliendo la strategia dell’uscita, per esempio ven-dendo le azioni) sia il farsi sentire (tentando di recupe-rare o di migliorare la situazione nella quale si è coin-volti ricorrendo a una critica costruttiva o facendo pro-poste di cambiamento) denotano una mancanza difiducia nella società. I fondi comuni di investimento ealtri investitori istituzionali passivi preferiscono uscire,mentre hedge fund e società di private equity si fannosentire. Hirschman ha inoltre osservato come il farsisentire sia più trasparente che non uscire, perché impo-ne al gruppo che ha deciso di farsi sentire di spiegare leragioni che lo spingono a criticare e a promuovere ilcambiamento. Al contrario, uscire è solo un segnale diallarme in vista del declino imminente.

Una delle conclusioni principali a cui giunge Hirsch-man è che, essendo più economico uscire che farsi senti-re, a parità di tutte le altre condizioni, un gruppo esternodi investitori preferirà uscire piuttosto che farsi sentire.Per gli hedge fund e per le società di private equity, inve-ce, la strategia dell’uscita è molto più costosa di quantonon sia per qualsiasi altro tipo di investitore.37

D’altro canto, se si introduce il concetto di lealtà inentrambe le strategie, l’uscire e il farsi sentire, esso con-dizionerà l’analisi costi-benefici e dunque la scelta se

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3377.. Albert O. Hirschman, Exit, Voice, and Loyalty, Responses to Decline inFirms, Organizations, and States, Cambridge MA, Harvard University Press,1970 [ed. it., Lealtà, defezione e protesta: rimedi alla crisi delle imprese, dei par-titi e dello Stato, Milano, Bompiani, 1982].

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convenga adottare l’una o l’altra strategia. Se v’è lealtànei confronti dell’azienda (come è evidente in presenzadi forte affiliazione personale tra management e societàoppure tra consiglio di amministrazione e manage-ment), l’incidenza delle uscite potrebbe risultare infe-riore, soprattutto perché le opzioni di uscita (ossia lamancanza di altre persone che possano assumere l’in-carico di CEO o di amministratore) e i conseguentisacrifici finanziari non sarebbero affatto allettanti.

Anche questo concorre a spiegare il successo deglihedge fund rispetto ai consigli di amministrazione o adaltre categorie di investitori istituzionali. Gli ammini-stratori e i dirigenti hanno investito nelle loro stessesocietà ma spesso non possono uscire perché il rapportocon la società ha offuscato le loro capacità di giudizio eli espone maggiormente all’essere assoggettati all’attua-le strategia e alla vision aziendale dominante. Invece, alcontrario degli amministratori, gli hedge fund e i fondidi private equity non corrono il rischio di essere assog-gettati perché mantengono una salutare distanza rela-zionale dalle società nelle quali investono, nonostante illoro stretto coinvolgimento in qualità di investitori.

La conclusione a cui giunge Ribstein quando asseri-sce che sì, certo «abbiamo ancora bisogno dei consigli diamministrazione per gestire le grandi società, maoccorre che siano più trasparenti; e i fondi di privateequity [e gli hedge fund] sono un modo per garantirlo»è sbagliata perché non rappresenta correttamente ilmodo in cui le società di private equity e gli hedge fundoperano per migliorare i risultati della società. Ribsteinsbaglia a sostenere che sono i consigli di amministra-zione a «gestire le grandi società», perché in realtà è ilmanagement; gli amministratori hanno una posizionedi supporto, che può rivelarsi estremamente utile eimportante. Attualmente, la storia della corporategovernance americana è comunque dominata da unavisione schizofrenica del ruolo degli amministratori. Daun lato si pretende che provvedano all’orientamentostrategico e dare sostegno al management, dall’altro sichiede loro anche di controllare il management e ren-

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derlo più sensibile all’interesse degli azionisti di massi-mizzare il valore della società. Razionalmente parlan-do, è un’aspettativa eccessiva per qualsiasi tipo digruppo. Agli hedge fund e agli investitori di privateequity si chiede invece semplicemente di salvaguarda-re gli investimenti nelle società che hanno inserito nelloro portafoglio e questa non è un’aspettativa illegitti-ma, soprattutto se si considera quanto riccamente i lorosforzi vengano ricompensati dai mercati.

Secondo gli hedge fund e le società di private equity,in una società quotata che essi considerano mal gestita(come per esempio la Time Warner) gli amministratori incarica sono responsabili tanto quanto il management incarica, se non addirittura di più. Dobbiamo perciò ragio-nare sul ruolo dei consigli di amministrazione dellesocietà: dobbiamo scegliere se vogliamo che gli ammini-stratori fungano da controllori oppure da consiglieristrategici del management. Nel ruolo di controllori, gliamministratori sono quasi certamente destinati a fallire.Se invece agiscono in qualità di consiglieri strategici delmanagement, un compito nel quale potrebbero verosi-milmente riuscire, rimarrà comunque un vuoto nell’or-ganizzazione della corporate governance, perché rimanela separazione tra gestione manageriale e proprietà azio-naria. Ci vuole qualcun altro che tenga sotto controllo siai consigli di amministrazione sia il management. Ed èproprio questo il tipo di lavoro che le società di privateequity e gli hedge fund esterni sanno svolgere così bene.

Nel 2000, il colosso mediatico Time Warner e lasocietà di servizi internet America Online (AOL) con-clusero un’operazione di fusione, che è stata poi uni-versalmente riconosciuta come un vero disastro. I piùsostengono che la fusione sia stata una cattiva idea sindall’inizio, altri che il management abbia fatto un pessi-mo lavoro nel tentativo di unire in modo efficiente elogico le due società. Molti osservatori affermano che,in effetti, una fusione nel vero senso del termine non sisia mai realizzata. La AOL venne tenuta in disparte econsiderata al contempo il punto debole e la minacciaper il gruppo manageriale in carica alla Time Warner,

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che si riteneva il vero bersaglio dell’acquisizione. Dopola fusione, si verificarono innumerevoli esempi di mal-governo. Le azioni languivano. AOL e Time Warnercontinuavano a contendersi gli abbonamenti alla televi-sione via cavo e ai servizi internet a banda larga.

Nel 2004 la società ammise i propri problemi e pro-mise di darsi da fare per realizzare economie di scala esinergie migliorando la collaborazione tra le businessunit della Time Warner e della AOL. Il termine “di-sastro” rimane comunque quello più frequentementeutilizzato per descrivere quella fusione costosa e ineffi-cace (la parola ricorre oltre 500.000 volte su Google perdefinire la transazione). Alcuni stimano persino chequella raffazzonata fusione sia costata agli azionisti lacifra sbalorditiva di 40 miliardi di dollari.

Intuendo l’opportunità di un arbitraggio classico concui guadagnare – e creare valore per tutti gli azionistidella Time Warner – acquistando azioni e sollecitando altempo stesso un cambiamento costruttivo, Carl Icahn ini-ziò a comperare le azioni della società nel 2005. Secondo icalcoli di Icahn, il valore della somma delle singole busi-ness unit della Time Warner si collocava tra i 23,30 e i 26,57dollari per azione, un prezzo significativamente più altodel corso azionario nel momento in cui aveva avviato ilsuo piano di acquisizione. Icahn era convinto che il mana-gement della Time Warner non avesse mai gestito lasocietà tenendo conto degli interessi degli azionisti: ilmanagement spendeva in modo dissoluto e intraprende-va acquisizioni al solo scopo di creare un impero e nonpiuttosto con il fine di creare valore per gli azionisti.38

Come evidenziato più sopra, in seguito alla fusionetra AOL e Time Warner nel 2000, le due società perseroil 70 per cento del loro valore e la capitalizzazione dimercato congiunta crollò fino a 84 miliardi di dollari.Icahn iniziò ad accumulare azioni in modo aggressivo,portando il suo investimento nella Time Warner alla

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3388.. Paul R. La Monica, “Icahn Calls for Time Warner Breakup, Buyback”,CNNMoney.com, 8 febbraio 2006, http://money.cnn.com/2006/02/07/new-s/companies/timewarner_icahn/index.htm.

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ragguardevole quota di 2 miliardi di dollari che, tradot-to in termini di proprietà, corrispondeva a 120 milionidi azioni. Il prodigioso investimento di Icahn rappre-sentava però solo il 2,6 per cento della società: le dimen-sioni bastavano di fatto a proteggere la Time Warner dalrischio di una scalata ostile.

Prima dell’investimento di Icahn nella società, ilprezzo delle azioni oscillava tra i 17 e i 18 dollari, rispet-to al picco di 94 dollari per azione registrato verso lafine del 1999. A fronte di questo deprimente andamen-to del corso azionario, soprattutto se paragonato agliindici di mercato e ad aziende simili all’interno del set-tore dei mezzi di comunicazione, insieme con altri inve-stitori attivisti, Icahn commissionò uno studio sullaTime Warner alla banca d’affari Lazard Frères.

Icahn chiese alla Time Warner di avviare un imme-diato riacquisto delle proprie azioni per un totale dicirca 20 miliardi di dollari. Consigliò inoltre di suddivi-dere la Time Warner in quattro società separate: TimeWarner Cable per la televisione via cavo; AOL per i ser-vizi internet; Time Inc. per l’editoria; e un’altra societàper i contenuti, formata dagli studios della Warner Brose dalle emittenti televisive via cavo HBO e CNN – conl’obiettivo finale di far salire il valore delle azioni dellasocietà fino a 27 dollari per azione. Egli si batté inoltrestrenuamente per rimuovere il CEO allora in caricaRichard Parsons, sotto la cui guida la società avevapatito. Nel frattempo Icahn esortò Parsons ad agire nelmigliore interesse degli azionisti riacquistando ancorapiù azioni e tagliando i costi.

Lo spirito dei tentativi messi in atto da Icahn si evin-ce particolarmente bene dalla lettera che Icahn, insiemecon alcuni hedge fund e società di private equity allea-ti, inviò agli azionisti chiedendo il loro sostegno perportare avanti una serie di proposte di riforma allaTime Warner. Il contenuto della lettera fornisce un vivi-do e puntuale esempio del genere di pressione chehedge fund e società di private equity attivisti riesconoa esercitare sul management e sui consigli di ammini-strazione delle società che prendono di mira.

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Gentile Azionista di Time Warner,nella vita come negli affari, i peccati capitali sono due. Il

primo è quello di agire in modo precipitoso, senza pensare, ilsecondo è di non agire affatto. Purtroppo, il consiglio diamministrazione e i vertici aziendali di Time Warner hannogià commesso il primo peccato acconsentendo alla fusione conAOL e noi crediamo siano attualmente in procinto di com-mettere il secondo; non è più tempo di indugiare o subire laparalisi dell’inerzia, ma le recenti dichiarazioni ci inducono atemere che l’attuale direzione di Time Warner non riconoscala necessità di un intervento determinato a favore degli azio-nisti. La “macchina” delle pubbliche relazioni di Time War-ner vorrebbe farvi credere che il Signor Parsons e il consigliodi amministrazione di Time Warner abbiano ottenuto deibuoni risultati, nonché fatto i passi indispensabili per offrirevalore agli azionisti, e sembra che molti organi di stampaabbiano accettato questa versione. Ma dopo avere esaminatocon più attenzione agli anni successivi la fusione con AOL,emerge chiaramente la serie di significativi passi falsi fatti dalconsiglio di amministrazione e dagli alti dirigenti di TimeWarner, che hanno provocato un’ulteriore erosione del valoredella società. Fino a quando non si riconoscerà appieno lostrascico di un processo decisionale povero e sterile all’inter-no della società e finché il consiglio di amministrazione nonsarà chiamato a rispondere del proprio operato, il triste elen-co di errori e di immobilità continuerà ad allungarsi a disca-pito degli azionisti. Vi invitiamo a esaminare i fatti.

Il disastro di AOLÉ comprensibile che il consiglio di amministrazione e i

vertici aziendali di Time Warner vogliano chiudere il capito-lo sul ruolo svolto nella disastrosa fusione tra AOL e TimeWarner. Nel giro di due anni, il disastro di AOL ha portato auna svalutazione contabile dell’avviamento per l’incredibileimporto di oltre 87 miliardi di dollari (più della capitalizza-zione sul mercato azionario dell’odierna Time Warner) e allaperdita di oltre il 75 per cento del valore di mercato dellasocietà. Però, se confrontiamo le impronte digitali lasciatesull’operazione con quelle degli attuali membri del consigliodi amministrazione, è chiaro che la direzione strategica della

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società è ancora largamente nelle mani di chi ha avuto unruolo decisivo nella fusione. Degli undici amministratoriTime Warner pre-fusione che avevano approvato l’operazio-ne, sette siedono ancora nel consiglio; altri cinque degliattuali amministratori provengono dal consiglio pre-fusionedi AOL e anch’essi avevano votato a favore della fusione. Ilnumero totale di sostenitori della fusione è dunque di dodicisu quindici all’interno dell’attuale consiglio di amministra-zione. Richard Parsons, allora presidente di Time Warner eattore principale della fusione, è stato successivamente nomi-nato CEO e poi persino presidente del CdA.

La perdurante presenza di questi individui impone unadomanda: perché la maggior parte degli amministratori che hafirmato la disastrosa fusione con AOL è ancora al timone dellasocietà? Notiamo inoltre di non essere i primi a interrogarci inmerito alle credenziali degli attuali membri del consiglio diamministrazione. Nel 2003, Institutional Shareholder Servi-ces suggerì agli azionisti di non confermare due amministra-tori in carica (Miles Gilburne e James Barksdale) sulla basedelle loro connivenze con la società. Sempre nel 2003, Cal-PERS (il fondo pensione più importante della nazione) votòcontro due amministratori degli amministratori attualmentein carica mettendo in dubbio la loro indipendenza.

Nella sua descrizione della cultura aziendale di TimeWarner nel 2003, dopo le dimissioni di Ted Turner (fondato-re della CNN) e di Warren Lieberfarb (al quale è stato attri-buito il merito di avere collaborato all’invenzione del merca-to dei DVD) dai vertici aziendali, l’analista Tom Wolziendella società Sanford C. Bernstein affermò: «questa doppiauscita rappresenta una brusca svolta verso l’insulsaggine peruna società nella quale ora non v’è più posto per il genio néper i punti di vista contrari». Siamo convinti che nel periodosuccessivo alla fusione il consiglio di amministrazione abbiaulteriormente aggravato il suo già colossale errore mancandodi addebitare al management la responsabilità di non averreagito tempestivamente alla fuga di utenti da AOL. Il mana-gement, che aveva chiaramente creduto fin dall’inizio nellabanda larga, come risulta evidente dai miliardi spesi per TimeWarner Cable, non è riuscito a gestire efficacemente la migra-zione degli abbonati alle connessioni dial-up di AOL verso

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fornitori di servizi a banda larga (puntualizzando, ci sipotrebbe domandare perché Time Warner abbia scelto di fon-dersi proprio con una società fornitrice di servizi di connes-sione a banda stretta con un fatturato di circa 150 miliardi didollari): mentre AOL perdeva abbonati nel settore delle con-nessioni dial-up (approssimativamente 9 milioni dal 2001),Time Warner Cable promuoveva Road Runner, la sua azien-da di servizi a banda larga, senza mai riuscire efficacementea spingere AOL in quella stessa direzione o a integrare AOLsulla stessa piattaforma. In quel periodo la società permiseinoltre l’emarginazione di AOL sul mercato di internet, men-tre portali come Yahoo! e motori di ricerca all’avanguardiacome Google conquistavano quote del mercato online semprepiù consistenti, tanto che oggi i loro capitali azionari hannoun valore di mercato pari rispettivamente a 45 e 85 miliardidi dollari. Riteniamo che se il consiglio di amministrazioneavesse forzato il management ad agire più in fretta non soloavrebbe potuto dimostrare di credere ancora nel principio cheaveva ispirato la fusione (cioè creare sinergie tra le attività diAOL e di Time Warner), ma forse avrebbe potuto anche pre-servare parte del valore degli azionisti andato perduto a causadella fusione. Di recente i vertici aziendali hanno iniziato adare risalto a AOL come investimento di valore, con ottimeopportunità di crescita: ma questi signori dove sono stati dal2000 a oggi? Visto che apparentemente adesso le opportunitàdi accrescere il valore di AOL ci sono, e noi ci crediamo dav-vero, imploriamo il management e il consiglio di ammini-strazione di agire in modo più deciso di quanto non abbianofatto in passato.

Prezzi di vendita stracciati hanno depauperato il valo-re degli azionisti e creato guadagni inattesi per gli altri

Il management di TimeWarner e il consiglio di ammini-strazione hanno alienato attività di valore a prezzi considere-volmente più bassi del valore sottostante, fornendo così gua-dagni inattesi agli acquirenti a discapito dei propri azionisti.

� Cessione di Warner Music – Riteniamo che la venditadel gruppo Warner Music (di seguito “WarnerMusic”) a un consorzio di acquirenti di private equity

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per 2,6 miliardi di dollari, l’anno scorso, dimostri uninadeguato business judgment da parte del consigliodi amministrazione e del signor Parsons e al contem-po l’inettitudine a gestire un’impresa in modo efficien-te. Innanzitutto, pensiamo che la società sia statavalutata al suo minimo storico e che non si sarebbepotuto scegliere un momento peggiore per venderla,visto lo stato in cui versava l’industria della musica aquel tempo. Dovrebbe essere di grande e definitivoimbarazzo per Time Warner sapere che dopo il colloca-mento sul mercato tramite offerta pubblica iniziale, ilvalore di oltre 4,7 miliardi di dollari della WarnerMusic è dell’ 81 per cento superiore al suo prezzo divendita (senza nemmeno considerare che il gruppo diacquirenti era già rientrato del suo investimento con ilsolo incasso dei dividendi distribuiti nel periodo prece-dente all’offerta pubblica iniziale). In secondo luogo,l’evidenza che Warner Music avesse più valore per ungruppo di investitori finanziari piuttosto che per lasocietà mediatica più grande del mondo è già difficileda comprendere, eppure dopo un solo anno di proprie-tà il gruppo di private equity è riuscito a recuperare250 milioni di dollari tagliando i costi, ossia più delmargine operativo lordo degli ultimi dodici mesi in cuila proprietà era ancora in capo a Time Warner.

Invece di disfarsi di questa attività di valore, il consigliodi amministrazione avrebbe dovuto sollecitare il managementa valutare il potenziale risparmio di costi e forzarlo a ristrut-turarlo da capo a piedi. Siamo convinti che Time Warneravrebbe indubbiamente creato più valore e ridotto il debitoche gravava sulla società se si fosse interessata maggiormen-te alle attività di Warner Music invece che alienarla a unprezzo decisamente stracciato.

� Cessione di Comedy Central – Nel 2003 il consiglio diamministrazione ha avallato la decisione del manage-ment di vendere a Viacom la quota del 50 per centodetenuta in Comedy Central per 1,225 miliardi di dol-lari. Meno di due anni dopo, Morgan Stanley ha sti-

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mato che il valore di Comedy Central ha superato i 4,5miliardi di dollari (1), con una rivalutazione di ben2,25 miliardi di dollari per la sola quota di Time War-ner, l’83 per cento in più del valore al quale è stataceduta. Come nel caso della cessione di Warner Music,siamo convinti che il management della società abbiadeciso di alienare Comedy Central nel tentativo disembrare proattivo, invece ha ottenuto solo una perdi-ta di valore per gli azionisti. Queste attività sono statecedute al solo scopo di ridurre l’indebitamento, unobiettivo che con il senno di poi si è dimostrato inutile(poiché l’indebitamento attuale di Time Warner è trop-po basso e il cash flow è sufficiente a sostenere un tassodi indebitamento decisamente maggiore) e che haindotto il management di Time Warner a vendere atti-vità di valore a prezzi di saldo, con grave danno alvalore per gli azionisti. Riteniamo che se il consiglio diamministrazione avesse espletato un’adeguata funzio-ne di controllo, il management di Time Warner sisarebbe concentrato sull’obiettivo di massimizzare ilvalore per gli azionisti gestendo al meglio le attivitàoppure cercando di ottenere un prezzo all’altezza delvalore delle stesse.

Mancata acquisizione di MGMQuando l’anno scorso la società si è ritirata ufficialmente

dall’offerta pubblica per l’acquisto di MGM, ha fatto riferi-mento alla “disciplina fiscale”. Noi pensiamo tuttavia chedietro al fallimento nell’aggiudicarsi un’attività d’importan-za tanto strategica vi sia la consueta tendenza del manage-ment a eccedere nel processo deliberativo e l’incapacità adagire con decisione in nome degli azionisti. Stando a proxystatement informativi e alle notizie divulgate dalla stampa,Time Warner aveva avuto l’opportunità di concludere l’affa-re fin dai primi di agosto, senza dover competere con il grup-po Sony, essendo anche l’offerente preferito di Kirk Kerko-rian, a quel tempo azionista di controllo della MGM. TimeWarner però lasciò passare ben tre settimane aprendo defini-tivamente la strada al gruppo guidato dalla Sony Corpora-tion, che ha poi concluso l’affare. Dieci giorni più tardi e soli

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90 minuti prima che il consiglio di amministrazione di MGMsi riunisse per votare, Time Warner ha fatto l’ultimo dispera-to tentativo di rilanciare la propria offerta, un tentativoinfruttuoso perché Time Warner non ha fatto in tempo a con-cludere la trattativa. Il risultato di un management tantoincompetente è che ora l’immenso archivio di contenuti dellaMGM è controllato da uno dei maggiori concorrenti di TimeWarner nel settore della produzione cinematografica (Sony) eda uno dei suoi maggiori concorrenti nel settore delle trasmis-sioni via cavo (Comcast). Secondo quanto scritto da un com-mentatore del New York Times poco dopo: «il tentativo del-l’ultimo minuto fatto dalla Time Warner solleva almeno qual-che quesito imbarazzante sui commenti del signor Parsonsquando si è ritirato dalla trattativa: se acquistare la MGMallora era troppo dispendioso, come ha sostenuto, come si giu-stifica l’offerta ancora più elevata fatta successivamente?».

Struttura dei costi gonfiata Siamo convinti che i costi della Time Warner si siano gon-

fiati a causa della mancanza di controllo da parte del consi-glio di amministrazione e dei vertici aziendali. Per un esem-pio eclatante, basti guardare alla sede principale di New York,che è costata alla società ben 800 milioni di dollari ed è tal-mente lussuosa da disporre persino di una grandiosa mensaaziendale con enormi vetrate a due piani che si affacciano suCentral Park. Ci domandiamo come un edificio tanto esage-rato, che ospita solo una piccola parte dei dipendenti di TimeWarner, possa accrescere il valore per gli azionisti (e non pos-siamo fare a meno di chiederci dove gli azionisti vadano apranzo!). A fronte di questo sperpero e dell’incapacità ditagliare i costi in attività quali quelle della Warner Music,come già accennato, nelle prossime settimane intendiamoassumere un consulente specializzato per analizzare e con-frontare a vari livelli i costi di Time Warner con quelli diaziende concorrenti, al fine di verificare quanto altro “grassoin eccesso” appesantisca la struttura dei costi della società,comprendendo in questa analisi anche (ma non solo) i benefi-ci concessi a se stessi dai membri del consiglio di ammini-strazione e dai vertici aziendali.

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Conclusioni In un precedente documento ufficiale di undici pagine,

abbiamo presentato alcune proposte che, se attuate, potrebbe-ro a nostro avviso accrescere in modo significativo il valoreper gli azionisti. Per prima cosa siamo convinti che l’investi-mento migliore che al momento il consiglio di amministra-zione possa fare sia di avviare un piano di riacquisto di azio-ni proprie per 20 miliardi di dollari. Il consiglio di ammini-strazione non dovrebbe perdere questa occasione per intra-prendere un’azione determinata a beneficio di tutti gli azio-nisti. Crediamo inoltre che l’intera Time Warner Cable debbaessere resa indipendente, per dare agli azionisti l’opportunitàdi scegliere se possedere un’azienda con la migliore collezionedi contenuti del mondo o un’attività di franchising delle con-cessioni via cavo, ben gestita e in crescita, o una qualsiasicombinazione delle due. Inoltre, sebbene abbiamo appoggiatola recente acquisizione delle attività di Adelphia in lineagenerale, siamo sconcertati dalla logica di quotare in BorsaTime Warner Cable riservando il 16 per cento della azioniemesse a chi ha investito nel debito in sofferenza di Adelphia:ecco un esempio dell’incapacità esecutiva del management edell’inadeguato controllo da parte del consiglio di ammini-strazione. Proseguire con l’attuale programma di riacquistoper 5 miliardi di dollari e distribuire al pubblico solo il 16 percento delle quote di Time Warner Cable equivarrebbe assolu-tamente a non agire, atteggiamento imperdonabile a questopunto, e sarebbe un altro esempio dell’inettitudine del consi-glio di amministrazione.

Che approviate o meno le nostre proposte, la verità è cheTime Warner ha seriamente bisogno di una nuova rappresen-tanza degli azionisti all’interno del consiglio di amministra-zione. Siamo convinti che Time Warner possieda la più pre-ziosa collezione di contenuti mediatici del settore e, in effetti,il piano che abbiamo proposto si basa sugli ultimi riscontri ditale valore da parte del mercato. Tuttavia pensiamo vi sia unachiara distinzione da fare tra il valore di queste attività e l’a-bilità creativa degli operatori che vi lavorano giorno dopo gior-no da una parte e, dall’altra, la dimostrabile inadeguatezza deivertici dirigenziali e del consiglio di amministrazione a tra-durre questo valore in un buon rendimento per gli azionisti.

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Il signor Parsons ha ammesso che le azioni di Time War-ner sono sottovalutate e ha rilasciato dichiarazioni nelle qualiasserisce di volersi impegnare per migliorare la situazione,ma siamo persuasi che senza la necessaria convinzione daparte del consiglio di amministrazione non potrà mai essereintrapresa un’azione importante. Come abbiamo già spiegatosopra riteniamo che l’attuale consiglio di amministrazioneabbia finora dimostrato la propria incapacità a preservare o acreare valore per gli azionisti. Dare una nuova voce agli azio-nisti all’interno del consiglio di amministrazione servirà, senon altro, a ricordare al consiglio e al management le pro-messe fatte e le loro priorità. Il consiglio di amministrazionesi accorgerà inoltre di dovere rendere conto agli azionisti e chela pazienza di questi ultimi si sta esaurendo.

I membri del consiglio di amministrazione e gli alti diri-genti in carica potranno obiettare che la presenza di nuoviamministratori potrebbe scombussolare la società o che nonsia necessaria. Crediamo, tuttavia, che la presenza di nuoviamministratori indipendenti, in grado di contestare con deci-sione i costi eccessivi o i benefici elargiti al management e alconsiglio, nonché di lavorare con i manager al fine di crearevalore per gli azionisti, sia esattamente il tipo di sconvolgi-mento di cui Time Warner ha bisogno. Per quanto riguardala necessità di una nuova voce per gli azionisti all’interno delconsiglio di amministrazione, confidiamo che un riesame del-l’andamento del corso azionario della società e i fatti sopraillustrati mettano efficacemente a tacere ogni discussionerelativa al fatto che il consiglio di amministrazione stia svol-gendo un buon lavoro e che dovrebbe essere lasciato libero dioperare con gli strumenti di sempre. Di fronte all’evidenzache, malgrado l’eccezionale qualità del portafoglio attivi emalgrado l’ambiente operativo generalmente favorevole incui opera, l’andamento delle azioni della società sia statosignificativamente peggiore di quello di azioni concorrenti apartire dal 2002, siamo convinti che sia ampiamente scadutoil tempo a disposizione per rendere il consiglio e il manage-ment più responsabili. Il signor Parsons e il consiglio diamministrazione hanno promesso di combattere il problemadella stagnazione del corso azionario, ma senza una nuovarappresentanza degli azionisti all’interno del consiglio abbia-

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mo motivo di ritenere che quella promessa, come tante altrefatte prima, non verrà mantenuta.

Le aspettative degli azionisti nei confronti dei consigli diamministrazione e dell’alta dirigenza delle società quotatesono molto cambiate negli ultimi anni. Gli azionisti di tuttoil mondo hanno iniziato a capire in modo sempre più chiaroche molti dei nostri manager e dei nostri consigli di ammini-strazione hanno fallito nel tentativo di perseguire con deter-minazione il valore per gli azionisti e li ritengono responsa-bili per questo. Inoltre, si sono sentiti oltraggiati dai beneficie dai ricchi emolumenti che i consigli di amministrazioneapprovano per se stessi e per gli alti dirigenti senza mai di-scutere, in situazioni in cui i corsi azionari languono. Ènostra convinzione che mettersi in discussione sia salutare enecessario e che non debbano esistere istituzioni intoccabiliquando si è alla ricerca del valore per gli azionisti. Nei mesiche verranno continueremo a parlare della nostra convinzio-ne sulla necessità di dare una nuova voce agli azionisti all’in-terno del consiglio di amministrazione di Time Warner. Sap-piamo già che molti di voi sono d’accordo con noi e speriamodi potere entrare in contatto con voi il prima possibile.39

Anche se la Time Warner non aderì a tutte le richie-ste di Icahn, il consiglio di amministrazione dovettecedere alle pressioni esercitate da Icahn apportandoconsiderevoli modifiche agli obiettivi e alle strategieaziendali. Se ne era andato per sempre quel senso diauto-compiacimento e quella mancanza di orientamen-ti che aveva caratterizzato la società per decenni. Ilmanagement iniziò finalmente ad agire come se doves-se rendere conto ai propri azionisti. La società aumentòi fondi stanziati per il riacquisto delle azioni proprieportandolo da 12,5 a 20 miliardi di dollari, accettò ditagliare i costi di 500 milioni di dollari nel 2006 e di altri500 milioni nel 2007. Anche se la società non fu divisain quattro, venne alienata la divisione editoriale per537,5 milioni di dollari e si ammise che «una diversa

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3399.. La lettera è disponibile su http://money.cnn.com/2005/10/11/news/fortu-ne500/icahn_letter/index.htm.

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struttura societaria e di capitale avrebbe potuto esserepiù adeguata per Time Warner Cable».40 Parsons man-tenne la carica di CEO della società, ma Icahn riuscì afare in modo che la Time Warner aumentasse il grado diindipendenza del consiglio di amministrazione nomi-nando due nuovi amministratori indipendenti.41 Grazieagli sforzi di Icahn il prezzo delle azioni della TimeWarner crebbe di 2 dollari, cioè del 12 per cento, a bene-ficio dello stesso Icahn, ma anche di tutti gli altri azio-nisti della Time Warner.

Nonostante non si trattasse di una vittoria vera epropria, Icahn aveva usato la sua importante posizionedi minoranza per accrescere il valore per tutti gli azio-nisti alterando la corporate governance di una dellesocietà più grandi del mondo e raggiungendo il suo «dasempre dichiarato scopo di creare valore per tutti gliazionisti» e riuscendo a dimostrare, ancora una volta,che «l’attivismo degli hedge fund e degli investitori diprivate equity può essere estremamente efficace».42

Hedge fund e private equity: il rovescio della medagliaL’analisi finora condotta ha messo a fuoco gli impor-

tanti vantaggi che gli hedge fund sono in grado di offri-re agli investitori. Principalmente, il punto è che hedgefund e private equity sono due strumenti estremamen-te efficaci per migliorare la corporate governance; glihedge fund e gli investitori in private equity sono dav-vero in grado di risolvere i problemi di fondo della cor-porate governance causati dalla separazione tra pro-prietà azionaria e controllo del management nelle socie-tà in genere, ma soprattutto nelle società quotate.

Eppure, nonostante le tante e apparentemente ovvievirtù, non passa quasi mai settimana senza che tra gli

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4400.. “Time Warner Statement on Agreement with Icahn Partners”, BusinessWire, 17 febbraio 2006, http://www.findarticles.com/p/articles/mi_m0-EIN/is_2006_Feb_17/ai_n16070367.

4411.. Johnnie L. Roberts, “Crunch Time”, Newsweek, 22 agosto 2005,http://www.newsweek.com/id/56499.

4422.. Steven Levingston, “Icahn, Time Warner End Fight”.

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organi di regolamentazione nasca una nuova disputasui presunti problemi di politica pubblica associati aglihedge fund e, anche se in misura minore, ai loro omo-loghi più stretti: le società di private equity. In generegli argomenti a favore della regolamentazione si posso-no dividere in due categorie. Della prima categoria faparte un argomento già trattato, cioè che in un modo onell’altro, gli hedge fund arrecherebbero danno allesocietà in cui hanno investito, ma è stato confutato conuna schiacciante prova contraria: infatti, gli hedge fundaiutano gli investitori a fare pressione sul managementaffinché esso si preoccupi di produrre risultati positiviper gli azionisti. Esiste tuttavia un altro argomento cherientra in questa prima categoria e che andremo a svi-scerare nel seguente paragrafo del capitolo.

La seconda e più recente categoria di argomenti con-trari agli hedge fund, invece, è che costituiscono“rischio sistemico” per l’economia in generale. Il rischiosistemico è quel tipo di rischio che colpisce l’interosistema finanziario, provocando onde d’urto e reazionia catena quali la contrazione della massa monetaria o ifallimenti bancari multipli. Peggio ancora, il rischiosistemico non può essere evitato nemmeno diversifi-cando gli investimenti in portafoglio perché il fenome-no dilaga in tutti i segmenti di mercato, o quasi. Anchequesto tema verrà analizzato più avanti.

Gli hedge fund e il danno per gli azionisti e le società: dueorizzonti temporali in conflitto?

Alcuni fautori di una maggiore regolamentazionesostengono che gli hedge fund danneggiano sia le socie-tà in portafoglio sia gli investitori di tali società perchéfanno pressione sul management inducendolo a pro-durre risultati di breve periodo e penalizzando quindi iguadagni a lungo termine. Un’accusa, questa, descrittacome «il più grave attacco mai sferrato contro gli hedgefund». Si tratta della manifestazione specifica di un pro-blema più generale per cui si pensa che «gli hedge fundsiano stati creati solo per arricchire i propri investitorisenza valutare se le strategie perseguite vadano a bene-

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ficio generale degli azionisti». Gli hedge fund sono, tratutti gli investitori istituzionali, «quelli più vicini agliarchetipici investitori di breve periodo»,43 e questo,almeno secondo l’avvocato Martin Lipton, significa chei gestori degli hedge fund potrebbero persino rifiutarsidi fare investimenti di lungo periodo perché troppofocalizzati sul breve termine.44

La teoria fondamentale del valore attuale postulache si possa determinare il valore corrente (attuale) diun investimento che rientrerà a una data futura utiliz-zando il tasso di sconto corrente in modo da calcolareoggi il valore di ciò che rientrerà domani. Le principalirettifiche apportate dal tasso di sconto riflettono il tassodi inflazione atteso, nonché il rischio commerciale equello finanziario associati all’investimento, inclusi irendimenti attesi dagli investimenti concorrenti e lecondizioni macroeconomiche generali.

Il concetto finanziario di base del valore attuale sug-gerisce che i gestori degli hedge fund non devono affat-to affrontare il dilemma se massimizzare il prezzo attua-le o di breve periodo delle azioni della società, oppure semassimizzare il loro valore futuro. Al momento di deci-dere i gestori degli hedge fund tenteranno preferibil-mente di massimizzare il valore attuale netto delle azio-ni della società. La teoria finanziaria di base prospettaquindi che i gestori degli hedge fund, razionali e voltialla massimizzazione del loro valore di portafoglio, ten-deranno ad appoggiare pienamente qualsiasi decisionedi investimento di lungo periodo presa dalla società inportafoglio, anche se quella decisione non dovesse ripa-gare l’investimento per molti anni a venire perché i cashflow attesi in futuro avranno comunque un impattoimmediato sul corso azionario, il quale non è altro che ilvalore di quei cash flow scontato al valore attuale. I cashflow attesi in futuro verranno semplicemente riscontatidal mercato al valore attuale e incorporati nel prezzo

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4433.. Marcel Kahan - Edward Rock, “Hedge Funds in Corporate Governan-ce and Corporate Control”.

4444.. Martin Lipton, “Attack by Activist Hedge Funds”.

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corrente delle azioni societarie. L’asserzione che gli hedge fund sacrifichino le pro-

spettive di lungo periodo del management delle socie-tà in portafoglio per perseguire gli interessi degli inve-stitori di breve termine a discapito degli interessi degliinvestitori di lungo periodo, i quali scelgono strategiedi investimento dette “strategie buy and hold” è esatta-mente la critica sollevata nei giorni felici del mercatodel controllo societario: allora si sosteneva che le scala-te ostili fossero un male per le aziende americane per-ché costringevano i dirigenti statunitensi a focalizzarel’attenzione in modo sproporzionato sul breve periodoe a trascurare le attività di lungo periodo, tanto impor-tanti per il benessere finanziario delle aziende.

Il vero messaggio che i dirigenti stavano mandandoai raider allora e che mandano ai gestori degli hedgefund oggi è che, secondo loro, i mercati dei capitaliapplicano tassi di sconto troppo elevati sul flusso degliutili attesi dagli apprezzati investimenti di lungo perio-do. L’elevato tasso di sconto del mercato è il responsa-bile del troppo esiguo valore attuale del cash flow futu-ro collegato agli investimenti di lungo periodo. Questoragionamento ha parecchi difetti e dovrebbe essereaccolto con scetticismo dagli analisti e dagli economistipolitici indipendenti, perché è impossibile confutarlo eperché mira al vantaggio personale di chi lo promuove.

L’affermazione che il mercato abbia assegnato untasso di sconto eccessivo a un particolare prodotto èimpossibile da provare: perché non è dato dimostrareche ciò sia falso, in alcun modo empirico e aneddotico.Pertanto, nessuno studioso di scienze sociali che abbiarispetto per se stesso dovrebbe prendere sul serio unasimile affermazione. Non vi sono nemmeno prove indi-rette a sostegno dell’asserzione che gli investitori inhedge fund o private equity tentino di fare profitti esor-tando le società in portafoglio a perseguire strategie chedanno priorità a obiettivi di breve periodo, prevedendoper esempio il taglio drastico delle spese di Ricerca &Sviluppo.

Esiste invece un’abbondanza di prove a favore del

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fatto che i mercati dei capitali siano molto efficienti,soprattutto nel tempo. Inoltre, è chiaro che si possonorealizzare profitti notevoli individuando società congrandi prospettive per il futuro e acquistando le loroazioni nel tentativo di anticipare il momento in cui quel-le grandi prospettive diventeranno realtà oppure ver-ranno riconosciute come tali dagli operatori del merca-to, che inizieranno così a negoziare le azioni sospingen-do il corso azionario verso l’alto. Quindi, non è del tuttoplausibile che i mercati sottovalutino sistematicamente iprogetti a lungo termine. La bolla speculativa della neweconomy e altri periodi simili caratterizzati da valuta-zioni molto alte di società senza redditi (e a volte senzaprodotti) suggeriscono che probabilmente è vero il con-trario: a volte i mercati sopravvalutano i progetti alungo termine a spese dei progetti a breve.

Inoltre, nella disamina dell’affermazione che i diri-genti si sentono messi sotto pressione dagli hedge funde dagli investitori di private equity e perciò si focaliz-zano in modo eccessivo sul breve periodo a discapitodel lungo termine, è importante tenere presente la fontealquanto dubbia di questa asserzione, cioè primaria-mente i dirigenti in carica e i loro esecutori, visto chequesta lamentela serve i loro interessi privati. Se siinduce il pubblico a credere che focalizzarsi sul breveperiodo sia un male, i dirigenti possono agevolmenterazionalizzare lo scadente andamento del corso aziona-rio delle loro società facendo appello all’antica scusache li vede «impegnati su obiettivi di lungo periodopiuttosto che sui corsi azionari a breve».

Non si può ovviamente negare che i corsi azionariforniscano una misura oggettiva e molto pubblica delleprestazioni del management. Se i dirigenti non voglio-no essere valutati con quel metro tenteranno di confu-tarne la credibilità. Per screditarlo pretenderanno allorache i prezzi stabiliti dai mercati dei capitali siano ine-satti perché non premiano in modo sufficiente le strate-gie societarie di lungo periodo. In realtà, una spiegazio-ne più realistica di tale disparità è da ricercarsi piutto-sto nella natura umana: è naturale che i dirigenti delle

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società chiamati a prendere decisioni sugli investimen-ti siano più ottimisti sulle probabilità di successo futu-ro delle società che gestiscono di quanto non lo sia ilresto del mercato.

Combinando gli insegnamenti della teoria del valo-re attuale con i principi della teoria dell’efficienza neimercati dei capitali giungiamo all’importante constata-zione che i rendimenti azionari, pur non essendo per-fetti, sono la misura migliore della performance di unasocietà. Altri tipi di dati, in particolare i dati contabilirelativi agli utili o, peggio ancora, le proteste sollevatedai dirigenti, a loro esclusivo vantaggio, su quanto laloro geniale ottica di lungimiranza sia poco apprezzatadai mercati dei capitali, sono senz’altro meno affidabili,poiché non sono verificabili. Inoltre, pur ammettendoche i mercati di capitali non sono efficienti, nessuno èmai riuscito a spiegare perché essi debbano per forzapropendere a favore, e non contro, le strategie di inve-stimento di lungo periodo. È dunque più plausibile teo-rizzare che, seppure non perfettamente efficienti, i mer-cati sono senz’altro imparziali, perché chi vi opera puòtrarre profitto sia da investimenti sopravvalutati sia dainvestimenti sottovalutati.

Rischio sistemico: reale o immaginario?La definizione “rischio sistemico” è mutuata dalla

politica per indicare il rischio che un evento, per esem-pio il tracollo di un elevato numero di hedge fund,possa innescare il collasso dell’intero sistema finanzia-rio, provocando ondate di fallimenti bancari, il crollodei mercati azionari e un clima di caos e panico genera-lizzato in tutto il mondo finanziario. L’affermazione chele strategie di investimento degli hedge fund costitui-scano una minaccia per l’intero sistema finanziario è,forse non casualmente, identica all’asserzione che que-sti investimenti danneggiano l’economia riducendo ilgrado di attenzione del management nei confronti degliinvestimenti di lungo periodo, per almeno un motivoimportante: prospetta uno scenario allarmante, ed èimpossibile da confutare.

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Certo è che la pur remota eventualità che il nostrotanto flessibile sistema finanziario possa misteriosa-mente subire un qualche tipo di tracollo sistemico percolpa delle attività di investimento degli hedge fund ètalmente allarmante da indurre i dirigenti delle societàa chiedere un massiccio intervento di regolamentazionee gli organi competenti più ligi a giustificarlo, persinoquando la probabilità che una simile catastrofe si mani-festi è minima. In genere, però, non è dato sapere se unaparticolare attività economica rappresenti un rischiosistemico finché l’evento non si verifica, fornendo cosìuna prova empirica. Nel caso degli hedge fund, però, èfacile dimostrare come la stessa struttura del settoreimpedisca loro di rappresentare un rischio sistemicoper l’economia.

Contrariamente a quanto accade per i settori dellacontabilità o delle banche di investimento, il settoredegli hedge fund è altamente disaggregato e variegato:esistono più di diecimila hedge fund e non ve ne sonodue uguali; molti, ma non tutti, si specializzano in inve-stimenti azionari, altri si rivolgono al mercato obbliga-zionario e altri ancora investono in valute estere. Alcu-ni hedge fund sono completamente indipendenti, altrisono legati ai più svariati tipi di istituzioni finanziarie,tra cui banche di investimento e fondi comuni di inve-stimento. Alcuni hedge fund, ma assolutamente nontutti, hanno un elevato rapporto di leva finanziaria.Molti di loro investono in società le cui azioni sonooggetto di intensi scambi. Inoltre, al contrario dei fondidi private equity e delle banche commerciali, gli hedgefund tendono verso investimenti con orizzonti di breveperiodo, cosa che permette loro di essere più liquidi.

Non ha dunque senso chiedere una maggiore rego-lamentazione degli hedge fund al fine di ridurre laminaccia di un rischio sistemico. Gli hedge fund noncostituiscono alcun tipo di pericolo per il sistema acausa dell’incredibile varietà delle loro strategie diinvestimento e questa affermazione è comprovata dadecenni di esperienza maturata con gli hedge fund. Nel1998 il Long-Term Capital Management, un hedge fund

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enorme, subì ingenti perdite quando la Russia minacciòdi non rimborsare il debito. Nel settembre 2006 l’Ama-ranth Advisors, un altro importante hedge fund, riferìuna perdita di quasi 5 miliardi di dollari per avere fattoalcuni investimenti rischiosi sul mercato del gas natu-rale. In entrambi i casi i mercati finanziari continuaronoa operare perfettamente, senza minimamente paventa-re un rischio sistemico.

Inoltre, la segretezza con la quale operano gli hedgefund assicura che essi non costituiranno mai unaminaccia per l’economia nel suo complesso. Al contra-rio di quanto avviene per gli investimenti fatti da insi-der o dai fondi comuni di investimento, gli hedge fund,proprio perché poco regolamentati, non sono obbligatia rendere note ad altri investitori le proprie scelte diinvestimento. Alcuni biasimano questa mancanza ditrasparenza, ma in realtà la scarsa regolamentazione diquesto mercato tutela i preziosi interessi di proprietàintellettuale che gli hedge fund hanno sulle strategie diinvestimento attuate dai loro portafogli. Cosa ancorapiù importante, la segretezza previene il rischio siste-mico evitando gli investimenti per emulazione e le altreforme di atteggiamento “gregario” che potrebberoveramente mettere a rischio l’intero sistema.

In altre parole, da una prospettiva economica, l’as-senza di regolamentazione per gli hedge fund ha unduplice vantaggio: accresce la ricchezza, tutelando idiritti di proprietà sull’informazione degli hedge fund,ed elimina il rischio sistemico perché gli altri investito-ri non possono seguire come un branco di pecore lestrategie di investimento sviluppate dai gestori deglihedge fund.

Inoltre, gli hedge fund differiscono da altri investi-tori di tipo istituzionale e dagli insider nei due modi giàanalizzati sopra. Primo, essi assumono un ruolo attivoall’interno della corporate governance; creano le condi-zioni per rimuovere dall’incarico i CEO che ottengonorisultati al di sotto della media del mercato; esercitanopressione sugli amministratori e sul management persnellire l’attività aziendale e per distribuire dividendi

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agli azionisti. Secondo, proprio perché non regolamen-tati, gli hedge fund possono vendere azioni allo scoper-to. Di conseguenza traggono profitto sia quando pro-nosticano rialzi dei corsi azionari, sia quando riesconoa prevedere che il valore delle azioni calerà. Gli hedgefund, dunque, riducono il rischio sistemico contribuen-do all’efficienza dei mercati dei capitali: quanto più effi-cienti sono i mercati, tanto più informazioni si hannosulle aziende che stanno facendo bene e su quelle che,come Enron, sono sull’orlo dell’implosione.

I promotori di una maggiore regolamentazione pergli hedge fund hanno altre motivazioni: gli organi diregolamentazione cercano di allargare la loro sfera diinfluenza; i vertici aziendali non gradiscono la pressio-ne a produrre buoni risultati cui è sottoposta daglihedge fund e ritengono che una maggiore regolamen-tazione possa attenuare il loro potere di controllo. Manascondere le vere motivazioni a favore di una mag-giore regolamentazione degli hedge fund dietro l’appa-rente necessità di minimizzare il rischio di sistema nonè meritevole.

La regolamentazione degli hedge fundAnche se gli hedge fund non sono molto regolamen-

tati, le regole alle quali devono sottostare sono pocopertinenti e gravose perché indeboliscono la loro capa-cità di partecipare concretamente alla corporate gover-nance delle società ad azionariato particolarmente dif-fuso. Gli hedge fund sono regolamentati dal WilliamsAct, un’integrazione al Securities Exchange Act del 1934,che obbliga gli investitori che hanno anche la più picco-la prospettiva di ottenere il controllo di una società quo-tata a fornire tutta una serie di dati su se stessi.

Per esempio, ai sensi dell’articolo 13D del SecuritiesExchange Act del 1934, un investitore (o gruppo di inve-stitori) che abbia acquisito in un modo qualsiasi oltre il5 per cento del capitale di una società quotata è tenutoa rivelare la propria identità e il proprio contesto perso-nale, le fonti utilizzate per l’acquisizione nonché even-tuali piani o proposte per apportare rilevanti cambia-

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menti all’attività o alla struttura della società partecipa-ta. Gli investitori devono inoltre rendere conto dellemotivazioni per le quali stanno acquistando le azioni espiegare se lo fanno per acquisire il controllo dellasocietà o semplicemente in ragione di un investimentopassivo. Queste informazioni vanno inoltre fornite nelmomento in cui l’investitore lancia un’offerta pubblicad’acquisto o un’offerta di scambio. Il problema di taliobblighi è che costringono purtroppo a inefficienti tra-sferimenti di ricchezza dai gestori degli hedge fund eda altri investitori agli azionisti delle società bersaglio.

Cosa ancora peggiore, l’articolo 13F del Williams Actimpone a tutti i gestori di investimenti istituzionali,compresi i fondi pensione e gli hedge fund, nonché adalcuni investitori in private equity che possiedono azio-ni o contratti a premio di società quotate (cioè dellesocietà le cui azioni sono registrate presso la SEC), dipubblicare trimestralmente i dati relativi alle loro parte-cipazioni se superano i 100 milioni di dollari in titoli disocietà quotate. Esistono importanti prove aneddoticheche dimostrano quanto questi adempimenti possanodanneggiare investitori attivisti come gli hedge fund.

L’esempio più eclatante è quello del miliardarioWarren Buffett alla guida della Berkshire Hathaway,Inc., una grande società assicurativa e d’investimento, einvestitore attivista ostacolato nei propri investimentidagli obblighi informativi di legge. Nel secondo trime-stre del 2006, la Berkshire Hathaway acquistò 22,6milioni di azioni della Johnson & Johnson e 1,97 milio-ni di azioni della Target Corp., la seconda più grandecatena statunitense di hard-discount. La BerkshireHathaways avrebbe voluto tenere riservate queste ealtre acquisizioni simili, ma la SEC rifiutò le ripetuteistanze della società. Il risultato fu che Berkshire Hatha-way, la quale aveva precedentemente tenuto segreta lasua quota di partecipazione in Target, fu costretta arivelare la propria posizione in occasione della registra-zione obbligatoria ai sensi dell’articolo 13F. Dalla regi-strazione si evinse inoltre che la Berkshire Hathawayera uno dei maggiori azionisti della Johnson & Johnson,

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avendo accresciuto la propria quota azionaria da pocomeno di 2 a 24,6 milioni di azioni.

Il problema della trasparenza è che gli hedge fund,come gli altri investitori, devono essere compensati per icosti sostenuti nel processo di ricerca e identificazionedelle opportunità di investimento sul mercato. Comesuggerito da Sanford Grossman e Oliver Hart a proposi-to dei potenziali acquirenti in un recente dibattito intel-lettuale sulle acquisizioni societarie, gli azionisti tesi allamassimizzazione del valore azionario sfrutteranno ledichiarazioni pubbliche rese dagli hedge fund e da altriinvestitori attivisti per rivedere al rialzo il prezzo alquale sono disposti a cedere le proprie azioni.45 Gros-sman e Hart hanno dimostrato che nel momento in cuigli azionisti vengono a sapere che un investitore esterno,quale un hedge fund, aumenterà il valore della societàapportando cambiamenti strategici all’attività dellasocietà bersaglio, essi alzeranno il prezzo al quale sonodisposti a vendere le azioni a un prezzo almeno ugualeal valore che la società ha per l’hedge fund.46 Grossman eHart fondano le loro conclusioni sul ragionevole assuntoche il singolo azionista di una tipica società statunitensead azionariato particolarmente diffuso sia abbastanzapiccolo da non compromettere l’esito dell’offerta d’ac-quisto con la propria decisione di rilanciare sul prezzo divendita delle sue azioni. Ciò solleva però per gli azioni-sti della società bersaglio il problema dell’azione colletti-va, quasi come il dilemma del prigioniero.

Si supponga, per esempio, che un azionista possiedale azioni di una società ad azionariato diffuso le cui azio-ni siano attualmente negoziate a un prezzo di 15 dollaril’una. Un hedge fund annuncia la propria offerta d’ac-quisto agli azionisti di 20 dollari per azione (oppureacquista, nel tempo, il 5 per cento delle azioni della

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4455.. Sanford Grossman - Oliver Hart, “The Allocational Role of TakeoverBids in Situations of Asymmetric Information”, Journal of Finance, 36, 1981,p. 253.

4466.. Sanford Grossman - Oliver Hart, “Disclosure Law and Takeover Bids”,Journal of Finance, 35, 1980, p. 323.

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società target a un prezzo medio, diciamo, di 16 dollariper azione). Nel momento in cui l’hedge fund deve for-nire le informazioni richieste dal Williams Act, in conco-mitanza con l’offerta d’acquisto, gli azionisti della socie-tà bersaglio capiscono – cosa abbastanza logica – che lasocietà oggetto dell’offerta vale persino più di quantol’hedge fund è disposto a pagare; altrimenti l’acquisi-zione non avrebbe senso. Dopotutto l’hedge fund gua-dagna solo se riesce ad accrescere il valore delle azionidella società bersaglio più di quanto non le abbia paga-te. Così, visto che ogni azionista si può rifiutare di ven-dere le proprie azioni all’hedge fund senza compromet-tere la probabilità che l’hedge fund riesca ad acquisire ilnumero di azioni che gli servono per rendere proficuol’investimento, sarà ragionevole per lui rifiutarsi di ven-dere le proprie azioni. Trattenendo le azioni, l’azionistache non è disposto a vendere può ottenere dall’investi-mento profitti addirittura superiori a quelli dell’hedgefund sia perché l’azionista che non vende non ha dovu-to pagare alcun sovrapprezzo rispetto al prezzo di mer-cato per le proprie azioni, sia perché non ha dovutosostenere i costi di ricerca per fare indagini sulle poten-zialità della target, costi che invece l’hedge fund si èaccollato prima di procedere con l’investimento. In altreparole, gli azionisti delle società bersaglio possono“sfruttare liberamente” la ricerca sulle potenzialità dellatarget compiuta dagli investitori dell’hedge fund.

Oltretutto, la soluzione migliore per gli azionisti diuna società bersaglio è tenersi ben strette le proprieazioni quando all’orizzonte appaiono hedge fund atti-visti e competenti. Una conclusione a cui era già giuntoil padre della regolamentazione dei mercati finanziariamericani Louis Loss, dell’Università di Harvard,osservando che «la trasparenza porta con sé una conse-guenza degna di nota, tra le altre: quanto più brillantisono la reputazione e il successo dell’offerente, tantopiù alto è il prezzo che sarà costretto a pagare».47 Per

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4477.. Louis Loss - Joel Seligman, Fundamentals of Securities Regulation, quar-ta edizione, New York, Aspen, 2004, p. 580.

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ironia della sorte, però, è vero anche il contrario; tantopeggiori sono la reputazione e il successo dell’offerente,tanto più basso sarà il prezzo che dovrà pagare, per lomeno quando gli azionisti della società bersaglio si con-vinceranno che l’acquirente, pur con la sua storia discarsi successi alle spalle, riuscirà a conquistare unaposizione influente per la corporate governance dellatarget. Per gli azionisti della società bersaglio la solu-zione migliore è dunque di vendere agli offerenti piùincompetenti, corrotti e disonesti, ma di non vendereagli offerenti capaci, incorruttibili e onesti, mentre lasoluzione peggiore è in ogni caso di vendere troppo infretta e a un prezzo troppo basso. Se tenersi ben strettele proprie azioni e declinare la vendita agli hedge fundo ad altri investitori attivisti, onesti e competenti è lastrategia più razionale per gli azionisti della società tar-get quando agiscono individualmente, non è però piùcosì quando ad agire in modo allineato sono un gruppodi azionisti della società bersaglio.

Tutto ciò per dimostrare che obbligare un hedgefund attivista a informare il pubblico della sua inten-zione di investire in una società sottovalutata prima diprocedere indebolisce il diritto di proprietà sull’infor-mazione dell’hedge fund.48 Tutto questo, inoltre, riducela probabilità che l’hedge fund s’impegni nuovamentein un tipo di investimento attivista, visto che per l’hed-ge fund quell’investimento è meno proficuo di quantonon sarebbe senza il Williams Act. In altre parole, tuttigli investitori saranno svantaggiati perché l’hedge fundnon s’impegnerà più nemmeno a tenere sotto controllole prestazioni del management, come invece avrebbefatto se avesse potuto abbattere i costi dell’acquisizioneevitando di rendere nota la propria posizione.

Come un gestore di un hedge fund attivista ebbemodo di dirmi in modo molto convincente (e riservato),

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4488.. Per un dibattito similare sulla regolamentazione delle acquisizioni vediGregg Jarrell - Michael Bradley, “The Economic Effects of Federal and StateRegulation of Cash Tender Offers”, Journal of Law and Economics, 23, 1980,p. 371.

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la legge impone «a ogni gestore patrimoniale con oltre100 milioni di dollari in attivo di rendere pubblico tuttoil suo portafoglio 45 giorni dopo la chiusura del trime-stre. Per un investitore di lungo periodo ciò equivale abuttare via una proprietà intellettuale. Sarebbe comechiedere a Microsoft di svelare il proprio codice […] eper quale ragione poi?».

ConclusioniGli investitori in private equity e in hedge fund por-

tano la luce forte e brillante della speranza in un pae-saggio altrimenti tetro e desolato. Laddove gli altri stru-menti di corporate governance sembrano prometteremolto e dare poco, gli hedge fund e le società di priva-te equity tengono davvero fede alle loro promesse diprestare una più disciplinata attenzione all’operato delmanagement, ridurre l’incidenza delle frodi sugli inve-stitori e migliorare la performance operativa reale. Igestori degli hedge fund e dei fondi di private equitydispongono delle risorse, delle competenze e degliincentivi necessari a migliorare la gestione delle societàin portafoglio.

Nella valutazione dell’efficacia degli investitori inprivate equity e in hedge fund è importante notare,anche solo a livello puramente descrittivo, che il mec-canismo di corporate governance che funziona meglio èquello meno regolamentato.

Altri strumenti di corporate governance, sottoposti apiù stringente regolamentazione, compresi il mercatodel controllo societario, i consigli di amministrazionedelle società e il voto degli azionisti, si sono rivelatimolto meno efficaci. Queste considerazioni, a lorovolta, fanno nascere spontanea la domanda se i suddet-ti strumenti di corporate governance abbiano menosuccesso appunto perché troppo regolamentati, oppurese sono più regolamentati perché si sono dimostratimolto efficaci. Nel caso del mercato del controllo socie-tario è evidente che le pressioni politiche per una mag-giore regolamentazione siano nate dalla paura dei diri-genti, spaventati dall’efficacia di questo strumento di

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corporate governance. Per quanto riguarda i consigli diamministrazione e il voto degli azionisti, la spiegazioneè meno cinica, anche se non più incoraggiante: chi gesti-sce questi strumenti di corporate governance – ammi-nistratori e azionisti – è diventato, nell’immaginariocollettivo, un eroe che tenta la storica impresa di sorve-gliare le sentinelle della società. Esistono senz’altroamministratori indipendenti, valenti e onesti, comeanche azionisti vigili e ben informati, e sono davvero digrande utilità per la corporate governance. Ma cosìcome gli eroi sono mosche bianche, non è nemmenomolto facile trovare azionisti illuminati e pronti, oamministratori indipendenti e capaci. Per garantire unagestione corretta delle società per azioni è dunquenecessario avvalersi di istituzioni meno romantiche mapiù fidate, concrete e serie quali gli hedge fund e gliinvestitori in private equity.

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L’idea intorno alla quale ruota tutto il libro è che lacorporate governance si occupi di come mantenere lepromesse fatte agli investitori. Tali promesse nasconoper favorire l’investimento e la partecipazione nelleimprese e a loro volta generano aspettative. Se gli inve-stitori non fossero convinti che le loro ragionevoliaspettative, derivate dalle promesse, saranno soddisfat-te, non investirebbero il loro denaro, con infauste con-seguenze sul piano economico, quali un rallentamentodella crescita, un alto tasso di disoccupazione e la fugadi capitali.

Gli azionisti e gli altri investitori esterni hanno a di-sposizione un’ampia gamma di meccanismi e istituzio-ni, in particolare i contratti, il diritto e le norme, perassicurarsi che il management agisca in linea con le pro-messe fatte. I meccanismi e le istituzioni sono tantoimportanti per gli imprenditori e i dirigenti in cerca dicapitale quanto lo sono per i potenziali investitori, per-ché un investitore che non ritiene credibili le promessedella società deciderà di tirarsi indietro. Gli imprendi-tori e i dirigenti che operano in un sistema di corporategovernance poco credibile, per cui non riescono a per-suadere gli investitori che manterranno le promessefatte, inevitabilmente non otterranno il capitale neces-sario per avviare, gestire o espandere un’impresa. Inaltre parole, non riusciranno a realizzare i loro sogni.

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La premessa è modesta: gli investitori hanno aspet-tative semplici e ragionevoli su quello che il manage-ment dovrebbe o non dovrebbe fare con i propri poteriall’interno della società in cui hanno investito, aspetta-tive basate sulle promesse ricevute; se gli investitoridubitano che tali promesse saranno mantenute, preferi-ranno non investire.

Ne consegue che, per valutare e mettere a confronto isistemi di corporate governance, si deve misurare fino ache punto le società che li applicano riescono a mantene-re le promesse che generano le aspettative degli investi-tori. In altre parole, la corporate governance è incentratasu quanto le società riescono a mantenere le promessefatte agli investitori. Il rapporto tra gli investitori e lesocietà è di tipo contrattuale, perciò le due parti sonolibere di accordarsi come meglio credono. In genere,tutte le società si pongono l’obiettivo primario della mas-simizzazione degli utili per gli azionisti, non perché esi-stano leggi o regole a tale riguardo, ma perché è la con-tropartita che le società propongono agli investitori nelvendere le proprie azioni. La corporate governance devequindi sostenere le società nella massimizzazione degliutili per gli azionisti, perché questa è la promessa fatta.

Ritengo che lo scopo della corporate governance siaanche quello di tenere sotto controllo la devianza nellagestione della società, dove per devianza si intendequalsiasi azione del management in contrasto con lepromesse fatte dalla società, che come già spiegato sonoall’origine delle legittime aspettative degli investitori.Ecco perché nei capitoli del libro ho preso in considera-zione il ruolo di una serie di strumenti, meccanismi eistituzioni di corporate governance, che influenzano l’i-ter decisionale e il modo in cui vengono mantenute lepromesse. Tra le promesse che costituiscono il sistemadi corporate governance ve ne sono alcune più valide dialtre, così come vi sono meccanismi e istituzioni chefunzionano più di altri. Ciò che colpisce in questa ana-lisi è che esiste ancora molta confusione su quali siano imeccanismi che funzionano meglio di altri.

Le istituzioni di corporate governance sulle quali si

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fa più affidamento (il voto degli azionisti, i consigli diamministrazione, i whistle-blower, le agenzie di ratingdel credito e le banche) sono molto meno efficaci diquanto si creda o si speri. È quindi sorprendente che ilmondo accademico e quello politico ripongano la lorofiducia più in questi meccanismi che non in altri che sisono rivelati ben più efficaci. Tra le alternative più effi-caci vi sono gli amministratori dissidenti, il mercato delcontrollo societario e attori attivisti sul mercato, comegli hedge fund e gli investitori in private equity; neidibattiti sulla corporate governance, il loro ruolo rima-ne però marginale. Scopo di questo libro è quello dichiarire quali siano i meccanismi di corporate gover-nance che funzionano e di portarli al centro dell’atten-zione, illustrandone i pregi e sottolineando i difettidegli altri meccanismi.

Nel condurre l’analisi non si può fare a meno di evi-denziare gli stretti legami tra il mondo della corporategovernance e la politica. Le regole di corporate gover-nance promulgate dagli enti governativi e dai legislato-ri hanno effetti profondi sulla stabilità dei posti di lavo-ro, sui livelli retributivi e sull’autonomia dei più impor-tanti attori in ambito societario. Non sorprende chequesti attori abbiano dato vita a influenti gruppi dipressione per contenere la domanda pubblica di normedi corporate governance che riducano il potere delmanagement. Le “soluzioni” per ridurre tale potere nonsono però così efficaci come sembrano, soprattuttoquando si parla di norme mirate a disciplinare il votodegli azionisti, il whistle-blowing e le agenzie di ratingdel credito. Anche se sono stati messi al centro dell’in-teresse negli ultimi anni, questi meccanismi difficil-mente riescono a condizionare la condotta dei manager.Ai whistle-blower spesso non si crede e, in ogni caso, èdifficile capire se dicono la verità o se sono solo dipen-denti frustrati. Le agenzie di rating del credito non solosono inaffidabili, ma sono anche così lente nell’aggior-nare i rating che a quel punto gli azionisti hanno giàperso la maggior parte degli investimenti.

È significativo che i legislatori continuino ad aumen-

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tare le responsabilità a carico dei consigli di ammini-strazione e, in particolare, ai comitati interni di revisio-ne. In teoria, ai consigli di amministrazione si chiedenon solo di valutare il management e dare l’orienta-mento strategico, ma anche controllare la gestioneaziendale nel suo complesso. Purtroppo, è impossibiledimostrare la competenza del consiglio di amministra-zione in merito a tutti questi aspetti e soprattutto visono forti dubbi che possa svolgere con competenzatutti questi compiti allo stesso tempo. Inoltre, comeviene ampiamente discusso nel volume, esiste un serioproblema di asservimento dei consigli di amministra-zione, per cui è difficile per gli azionisti poter contare suquesto organo societario per proteggersi da dirigentiche curano solo i propri interessi. Certamente non siintende dire che tutti i consigli di amministrazione sonoasserviti al management; anzi, probabilmente la mag-gior parte è dominata da amministratori onesti, affida-bili e coscienziosi. Il problema è che è impossibile pergli investitori distinguere tra consigli che funzionano econsigli che non funzionano, se non quando è troppotardi. Ecco perché un azionista raziocinante nondovrebbe affidarsi solo al consiglio di amministrazioneper tutelarsi contro una gestione scorretta della società.Il consiglio di amministrazione dovrebbe essere infattisolo uno (e non certo il più importante) dei numerositasselli del sistema di corporate governance che gliazionisti dovrebbero avere a disposizione per valutaree tenere sotto controllo il management.

Purtroppo, spesso a disposizione degli investitoririmangono solo meccanismi di corporate governanceinefficaci, perché quelli che funzionano sono semprepiù ostacolati da normative inefficienti. Questa affer-mazione si dimostra particolarmente vera nel caso dellaregolamentazione del mercato del controllo societario,nel quale gli interessi politici personali prevalgonosulla policy aziendale. Ne consegue che questo impor-tante mercato è soffocato da una regolamentazionestringente, che priva gli investitori di un importante erealmente efficace meccanismo di corporate governan-

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ce. Negli ultimi anni, anche gli hedge fund sono diven-tati oggetto di eccessiva attenzione da parte degli orga-ni di regolamentazione, apparentemente perché impli-cano problematiche di politica pubblica, ma più proba-bilmente perché hanno acquisito sempre più potere suiconsigli di amministrazione, mettendo sotto pressionele società con risultati insoddisfacenti. Contemporanea-mente, è cresciuto l’interesse degli hedge fund per lacorporate governance e molti gestori attivisti hannomanifestato le loro opinioni nei consigli di amministra-zione delle società statunitensi. Questo sembra spiega-re la richiesta di regolamentazione degli hedge fund inmodo più convincente di altre argomentazioni quali ilpericolo di “rischio sistematico” o i problemi inerentialla scarsa trasparenza dei bilanci degli hedge fund.

Due distinte osservazioni di James Madison neiFederalist Papers, mutuate dallo spirito costituzionalistadell’autore, possono essere applicate allo studio dellacorporate governance. La prima, contenuta nel Federa-list 62, sottolinea che per un “buon governo” occorronofedeltà allo scopo prefisso e conoscenza degli strumen-ti con il quale perseguirlo. Per analogia tra il mondopolitico e quello societario, nel caso della corporategovernance questo significa avere come obiettivo lamassimizzazione degli utili per gli azionisti e la capaci-tà di perseguirla con i dovuti meccanismi. Il problemadi fondo è che, pur essendo l’obiettivo definito, gli stru-menti attuativi sono spesso aleatori; in altre parole,spesso (anche se non sempre) dirigenti e amministrato-ri posseggono le dovute competenze gestionali, ma nonsono sufficientemente votati agli obiettivi degli azioni-sti. La seconda famosa osservazione del Federalist 10,secondo la quale “gli statisti più illuminati non sempresono alla guida di una nazione”, rinforza il problema diagenzia identificato nel Federalist 62. Meccanismi e isti-tuzioni di corporate governance dovrebbero agire suentrambi i livelli. Il voto degli azionisti affronta diretta-mente il rapporto di agenzia, ovvero il problema dell’o-biettivo, ma non è d’aiuto sul piano delle competenze,per cui negli anni, con la crescente complessità e spe-

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cializzazione di società e mercati, il problema si è accen-tuato. La nomina di amministratori interni sempre piùesperti in seno al consiglio affronta la questione dellecompetenze, ma confonde il piano del rapporto diagenzia e le motivazioni a perseguire l’obiettivo.

Ne consegue che i meccanismi e le istituzioni di cor-porate governance più efficaci sono quelli che riesconoad agire sui due livelli contemporaneamente; tra questi,vi sono il mercato per il controllo societario, gli hedgefund e gli amministratori dissidenti. Sono questi chedobbiamo cercare di rinforzare mediante iniziative dipolitica pubblica, ma, per le stesse ragioni, sono questia essere più vulnerabili agli attacchi di gruppi di inte-resse organizzati in ambito politico.

Tuttavia, rispetto al semplice cittadino votante, l’in-vestitore ha un paio di significativi vantaggi. La perfor-mance del governo è infatti difficilmente verificabile,soprattutto per chi risiede in territori lontani dai centridi potere o per chi non è in sintonia con le idee di chigoverna. Né i politici rendono la cosa più facile e, comei dirigenti delle società, tendono a vantarsi del loro ope-rato indipendentemente dai fatti. A complicare la valu-tazione in modo esponenziale è il fatto che i risultati delgoverno devono essere valutati su piani molteplici e dasvariati punti di vista. Come ben sappiamo, le opinionidella gente su che cosa sia un buon programma politi-co possono divergere notevolmente e gli ambiti spazia-no dalla politica estera a quella interna, dall’educazionealla sanità, dai trasporti alle telecomunicazioni e cosìvia. Per contro, gli investitori valutano la performancesocietaria mediante un unico dato: il corso azionario. Èquesto indice a rendere possibile una valutazioneoggettiva della performance del management che nonsi può fare in campo politico. L’efficacia del corso azio-nario come strumento di corporate governance vienepotenziata in modo esponenziale dall’esistenza di unmercato pubblico di contrattazione. I mercati che dannoun prezzo ai capitali azionari delle società quotate sonooggettivi e neutrali, perché chi vi partecipa può trarreprofitto identificando le azioni sottovalutate e può

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favorirne il rialzo mediante l’acquisto, oppure identifi-cando le azioni sopravvalutate e facendone scendere ilprezzo vendendole. Questi mercati sono un potentedeterrente disciplinare per i manager e si dimostrano ilpiù efficace strumento di corporate governance in asso-luto. Meccanismi di corporate governance fondamenta-li, quali gli hedge fund e il mercato del controllo socie-tario, non potrebbero funzionare senza le quotazioni ele informazioni fornite dai mercati dei capitali. Per que-sto motivo, i meccanismi di determinazione dei prezzisui mercati dei capitali spiccano come il più efficacestrumento di corporate governance in assoluto: ognisingolo meccanismo di corporate governance descrittoin questo libro si basa almeno in parte su questi mecca-nismi di determinazione del corso azionario.

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PremessaIn questo libro Macey individua una serie di stru-

menti di corporate governance osservando come allaloro efficacia non corrisponda mai l’incentivazione alloro uso da parte del legislatore. Sebbene le riflessionisvolte dall’autore siano di carattere generale e nonmanchino i riferimenti a ordinamenti non statunitensi,esse hanno per presupposto un contesto economico,giuridico e culturale molto diverso da quello italiano.

In Italia questi stessi meccanismi si presentano inmodo diverso, perché diversi sono sia l’ordinamentosia il contesto economico e culturale. Nel complesso,essi sono forse meno efficaci di quanto non lo sianonegli Stati Uniti; ma una nota di merito – anticipando leconclusioni – va comunque alla legge che, più di quellaamericana nella tesi di Macey, sembra aver puntato,almeno in parte, su meccanismi efficaci e, in particola-re, sugli amministratori di minoranza, analoghi ai dissi-dent directors di cui parla il libro, potenzialmente ingrado di incidere in misura molto significativa sulgoverno delle società quotate.

Il contesto italiano: mercati piccoli e soci fortiLe differenze tra Italia e Stati Uniti sono di almeno

due tipi. La prima, e più evidente, è quella normativa.Gli strumenti di corporate governance sono creati o

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Postfazione

Gli strumenti di corporate governancenell’ordinamento italiano

di Andrea Zorzi

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riconosciuti dall’ordinamento giuridico, che è diversoin Italia e negli Stati Uniti. La seconda, correlata allaprima, è data dalla diversa importanza e struttura deimercati dei capitali e dalla diversa struttura proprieta-ria – ovverosia, la composizione dell’azionariato – dellesocietà quotate.

Negli Stati Uniti il mondo imprenditoriale è caratte-rizzato dalla grande importanza del mercato dei capita-li e dalla prevalenza, tra le società quotate, di quelle adazionariato diffuso. Il rapporto tra la capitalizzazionedi borsa e il PIL è, negli Stati Uniti, circa il triplo di quel-lo che è in Italia. Numeri simili agli USA si ritrovano nelRegno Unito, mentre numeri simili a quelli italiani sitrovano in Germania.

Il modello della società ad azionariato diffuso (opublic company), che domina la cultura e la legge ameri-cane, è quello in cui la proprietà della società è in manoa una moltitudine di piccoli azionisti dotati per legge discarsi poteri e, in ogni caso, incapaci di esercitarne inci-sivamente altri che fossero loro attribuiti, mentre lagestione della società è in mano agli amministratori e,tra questi, agli esecutivi.

In questo contesto, il problema di “agenzia” – ovve-ro il problema del contenimento dell’infedeltà dell’a-gente (agent) rispetto al preponente o mandante (princi-pal) – si pone tra gli amministratori-manager e i soci.L’obiettivo della corporate governance americana è dievitare che i manager non perseguano gli interessi degliazionisti ma, invece, i loro propri.

In Italia, viceversa, spicca l’enorme proporzione disocietà a proprietà concentrata, in cui un azionista (ouna coalizione stabile di azionisti) non solo è in gradodi controllare la società (in particolare, nominando erevocando gli amministratori e prendendo le decisionipiù importanti) ma è perfino immune da qualsiasi ten-tativo di scalata ostile. Queste condizioni di contestosono combinate con una serie di altri fattori economicie culturali che ulteriormente caratterizzano la situazio-ne italiana: la rilevanza della proprietà familiare, ungenerale scarso dinamismo sociale e un sistema sociale,

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politico e istituzionale che non incoraggia il rispettodelle regole. Per questi ultimi aspetti mi accontenterò diuna affermazione apodittica; la circostanza che si trattadi dati di comune esperienza può forse alleviare questamancanza.

Per quanto riguarda il contesto economico, le socie-tà quotate italiane sono in larghissima prevalenza sal-damente in mano a un socio di controllo: solo il 17,7 percento delle società italiane ha un flottante di almenol’80 per cento, contro oltre il 37 per cento di quelle quo-tate sull’Euronext (Francia, Olanda, Portogallo), oltre il50 per cento di Germania, Svezia e Svizzera, per taceredi Irlanda (75 per cento) e Regno Unito (83 per cento)(dati riferiti al 2003).

La quota media del primo azionista è, sebbene inlieve calo, ancora molto elevata: nelle società non finan-ziarie, si avvicina ancora al 50 per cento (dati riferiti al2007).

Vi è, poi, un’ampia fascia di società che sono astrat-tamente contendibili (quota del primo socio inferiore al30 per cento): il 28 per cento delle società, che rappre-sentano però il 63 per cento della capitalizzazione, è inquesta condizione. Pochissime di queste, tuttavia, sonoprive di un socio di controllo e con un flottante moltoampio. Poche – appena il 3 per cento per numero, cherappresentano però oltre un decimo della capitalizza-zione di borsa – hanno un flottante superiore al 70 percento. Per queste (ma solo per queste), dunque, i pro-blemi di agenzia sono simili a quelli delle società ame-ricane, di cui si occupa Macey.

Alla struttura proprietaria concentrata fanno da con-torno alcuni significativi fenomeni. Innanzitutto, oltrealla magnitudine assoluta della proporzione dellesocietà a proprietà concentrata, si osserva una densarete di interconnessioni personali tra le società, i c.d.interlocking directorates, ovverosia la comunanza dialmeno un amministratore tra due o più società. Il mer-cato italiano è network fittamente interconnesso, il cuidato di fondo emerge con chiarezza, ed è un dato nonnuovo: le società quotate italiane sono per la maggior

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parte in mano a pochi gruppi familiari o allo Stato.Il 64 per cento delle società quotate, che valgono il 22

per cento della capitalizzazione, sono in mano a indivi-dui o famiglie e poco meno del 9 per cento – ma chevale quasi il 30 per cento in termini di capitalizzazione– è in mano pubblica (dati riferiti al 2007).

La proprietà familiare, per vero, e a differenza diquella pubblica, garantisce in massimo grado tra leforme di proprietà concentrata che gli obiettivi degliamministratori e quelli degli azionisti (che esprimonogli amministratori) siano allineati; tant’è che, in media,le società familiari sono gestite meglio di quelle nonfamiliari. Condizione di questo allineamento di interes-si è, tuttavia, che il potere all’interno della società(essenzialmente il diritto di voto) sia proporzionale allatitolarità dell’interesse economico. Lo sfalsamento tra idue piani (ovvero il problema della “separazione traproprietà e controllo”) può avvenire mediante diversetecniche, che hanno in comune quella di far venir menoil parallelismo tra diritto di voto e interesse economico.Può cioè accadere che una persona controlli una societàsenza che faccia proporzionalmente propri gli esiti del-l’esercizio del suo controllo. In altri termini, gli interes-si del socio di controllo non collimano più con quellidegli altri soci, e si esacerbano i problemi di agenzia dicui diremo subito.

Alcune di queste tecniche di separazione tra pro-prietà e controllo non sono ammesse in Italia, altre inve-ce sono ampiamente diffuse. Il ricorso a una combina-zione di questi strumenti, per esempio, consentiva allafamiglia Tronchetti Provera di controllare Telecom conappena lo 0,7 per cento dell’interesse economico.

L’altro aspetto rilevante è la presenza dello Stato,tuttora grande azionista, il cui peso sull’azionariatodelle società quotate è andato calando quanto al nume-ro, ma crescendo nella capitalizzazione. La presenzadello Stato complica il quadro per almeno due motivi.In primo luogo, non sempre il governo – e con lui gliamministratori che ne sono espressione – è motivato daintenti economici o, in ogni caso, i suoi interessi sono

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allineati a quelli degli altri azionisti. In secondo, lo Statoha mezzi indiretti per espropriare gli azionisti di mino-ranza; tuttavia, mentre dalle imprese private si puòattendere una certa resistenza, ciò non sempre accadeper le società a controllo pubblico.

Proprietà concentrata, dunque, a base familiare ostatale; sovente, una forte separazione tra controllo einteresse economico.

In questo contesto, il problema non è dunque, comenegli Stati Uniti, di controllare l’autoreferenzialità deimanager, ma quello di controllare che il socio di con-trollo (che tiene a briglia stretta i manager ed è benattento alle loro prestazioni quali gestori dell’impresa)non ponga in essere condotte che vanno a suo vantag-gio e a detrimento dei soci di minoranza.

I meccanismi di corporate governance italiani, a dif-ferenza di quelli americani, dunque, devono esserevalutati principalmente in base alla loro capacità dimitigare questo conflitto.

I poteri degli azionistiLa struttura di governo delle società per azioni si

articola in tre possibili modelli, due dei quali introdottidalla riforma del 2003 e che, per la loro scarsa diffusio-ne (quantunque abbiano avuto applicazione in casi rile-vanti), trascurerò. I sistemi-base sono uguali per socie-tà quotate e società non quotate, ma vi sono alcunepeculiarità delle prime, delle quali soltanto parlerò qui,rispetto alle seconde.

Il modello “tradizionale” si incentra sulla presenzadi un consiglio d’amministrazione, di un organo di con-trollo (il collegio sindacale), dell’assemblea dei soci e diun revisore contabile esterno.

L’assemblea dei soci riunisce gli azionisti; il suocompito principale è quello di nominare e revocare gliamministratori e di approvare il bilancio (oltre che deli-berare sulle operazioni straordinarie). In alcune materiespecifiche essa può deliberare solo su iniziativa del con-siglio d’amministrazione; in generale, tuttavia, poichégli amministratori possono essere sempre revocati,

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anche senza una giusta causa, è l’assemblea ad averel’ultima parola.

Il consiglio di amministrazione è incaricato dellagestione dell’impresa. Esso è composto da un numerovariabile di consiglieri nominati per un periodo massi-mo di tre anni (e solitamente per questo periodo) e sem-pre revocabili. La riforma del 2003 ha reso il consigliod’amministrazione più “distante” e autonomo dall’as-semblea di quanto non fosse prima, avvicinando, sottoquesto profilo, il diritto italiano a quello americano, nelquale gli amministratori hanno la gestione esclusivadella società e possono compiere atti che, in Italia, sonoinvece (ancora) di competenza dell’assemblea. Tuttavia,la predominanza dell’assemblea permane.

Un tempo si diceva che l’assemblea era sovrana,mentre gli amministratori non erano che i mandataridei soci, incaricati di porre in essere le direttive dei“padroni”. Da tempo – anche da prima della riformadel 2003 – non è più così, ma si è lungi dall’essere inuna situazione come quella americana, non solo e nontanto per effetto della legge vigente, ma anche, appun-to, per effetto della struttura proprietaria delle società.

Di conseguenza, le esortazioni a dare maggiori pote-ri agli azionisti assumono significati completamentediversi negli Stati Uniti e in Italia. Là, si tratta di darepotere contro i manager; in Italia, si tratta di dare pote-ri alla minoranza contro i soci di controllo.

Il testo unico della finanza, del 1998, ha dimostratodi nutrire una certa fiducia nelle minoranze e, soprat-tutto, negli investitori istituzionali, prevedendo nume-rosi poteri esercitabili dai soci in possesso di una certapercentuale del capitale. Ulteriori poteri sono statiintrodotti da leggi successive, tra cui la legge sulla tute-la del risparmio. Allo stato attuale, le minoranze posso-no infatti chiedere l’integrazione dell’ordine del giornodell’assemblea (soci che rappresentino almeno il 2,5 percento del capitale); chiedere la convocazione dell’as-semblea (5 per cento del capitale); denunciare “fatticensurabili” al collegio sindacale (che ha l’obbligo diindagare se la denuncia proviene da soci che rappre-

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sentino almeno il 2,5 per cento del capitale); denuncia-re al tribunale sospette irregolarità nella gestione (5 percento del capitale); esercitare l’azione sociale di respon-sabilità contro gli amministratori (2,5 per cento delcapitale); impugnare le deliberazioni dell’assembleache non siano conformi a legge o statuto (0,1 per milledel capitale). I soci di minoranza, poi, sin dal testounico del 1998 possono nominare un sindaco, mentre apartire dalla legge sulla tutela del risparmio possononominare anche un amministratore, come si vedràmeglio più avanti.

Al fine di favorire la partecipazione delle minoranzealla vita decisionale della società, il testo unico avevaprevisto – sulla scia dell’esperienza delle società priva-tizzate – il voto per corrispondenza. Una direttivacomunitaria di recente attuazione prevede un potenzia-mento delle previsioni volte a favorire la partecipazio-ne attiva dei soci (tra cui più ampi obblighi informativia carico delle società, anche a mezzo internet, e la pos-sibilità di votare in via elettronica), oltre ad abolire unaprevisione che poteva dissuadere gli investitori dall’e-sercitare il diritto di voto, ovvero il blocco delle azioniprima dell’assemblea nella quale si sarebbe votato. Siprevede ora una data convenzionale anteriore all’as-semblea per la rilevazione degli aventi diritto al voto,senza nessun impedimento alla circolazione successivaa questa data di registrazione.

Anche queste misure, come già i diritti della mino-ranza, sono rivolte agli investitori istituzionali, daiquali ci si attendeva un grande contributo al migliora-mento delle pratiche di governance delle società quota-te che, però, non si è realizzato appieno. Gli investitoriistituzionali incontrano infatti significativi ostacoli, datisoprattutto dalle tecniche di investimento (ampiadiversificazione, indexing, ovvero replicazione di unindice) e dalla mancanza di adeguati incentivi, all’atti-vismo che non si estrinsechi nella sollecitazione a forni-re maggiore informazione al mercato o ad attuare gene-rici miglioramenti della governance.

Le misure previste dalla legge, sebbene poco efficaci

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(eccetto, probabilmente, l’amministratore di minoran-za, come si vedrà), sono però anche, apparentemente,poco costose: se, quindi, tali misure non sembrano ingrado di imporre mutamenti significativi nella gover-nance delle società più saldamente controllate, essealmeno non sembra neppure impongano costi elevatialle società.

Il ruolo degli amministratori: i controlli interni edesterni

I soci di maggioranza, dunque, si tutelano benissimoda sé contro gli amministratori; mentre i soci di mino-ranza hanno alcuni diritti esercitabili in via diretta che,però, non sono di grande potenza.

Come si è accennato sopra, la legge attribuisce alconsiglio d’amministrazione, l’organo che gestisce lasocietà, poteri e importanza crescenti. Nelle società aproprietà concentrata esso è espressione del socio dicontrollo, che ne nomina tutti i componenti secondo laregola di maggioranza.

Sulla scia di quanto accaduto negli Stati Uniti, anchein Italia, a partire dalla metà degli anni Novanta, si fastrada il convincimento che sia opportuno assicurareche all’interno del consiglio d’amministrazione vi sianodei membri “indipendenti”. In un sistema a proprietàdiffusa, in cui il problema è il controllo dell’amplissimadiscrezionalità dei manager, l’indipendenza deve esse-re misurata rispetto alla società e al management stes-so. In un sistema a proprietà concentrata, l’indipenden-za, viceversa, va intesa come indipendenza non solodalla società e dai suoi amministratori esecutivi, maanche, se non soprattutto, dal socio di controllo.

D’altro canto, se c’è un socio di controllo (e non vi èeccessiva separazione tra interesse economico e potere),questi provvede egregiamente a verificare che le presta-zioni degli amministratori esecutivi e del managementsiano adeguate. L’amministratore indipendente è chia-mato quindi a vigilare soprattutto sulle occasioni diespropriazione della minoranza, di arricchimento delsocio di controllo non proporzionale al suo investimento.

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Gli amministratori indipendenti entrano a pienotitolo nel dibattito italiano con la prima edizione delCodice di autodisciplina delle società quotate, nel 1999;seguono iniziative a livello europeo e, poi, la riformadel diritto delle società (2003), che, però, ne prevedeuna presenza ancora opzionale, salvi casi particolari.Solo con la legge sulla tutela del risparmio la presenzadi almeno un amministratore indipendente (due in certicasi) è resa obbligatoria.

Contemporaneamente, la stessa legge prevedeanche la nomina di un amministratore da parte della“minoranza” che rappresenti una (piccola) percentualedel capitale (dallo 0,5 per cento al 4,5, a seconda dellacapitalizzazione, del flottante e della struttura proprie-taria delle società).

Gli amministratori indipendenti (e in generale ilconsiglio d’amministrazione) funzionano bene negliStati Uniti, riferisce Macey, non tanto nella selezione enel controllo dei manager, quanto nelle situazioni criti-che: nel caso del passaggio del controllo della società(mediante fusioni o acquisizioni) e nel caso delle opera-zioni in possibile conflitto di interessi. In Italia, il pro-blema – come si è accennato – non è tanto quello dellaselezione degli amministratori delegati o quello dell’a-dozione delle scelte strategiche, che possono esserelasciate agli azionisti di controllo. Piuttosto, gli ammi-nistratori indipendenti possono essere uno strumentoadatto a contenere l’estrazione di benefici privati pro-prio da parte dei soci di controllo, mediante la politicadi remunerazione e le operazioni in conflitto d’interes-si o in ogni caso con parti correlate.

Gli amministratori indipendenti hanno riscosso,nella pratica, un discreto successo. Essi siedono nei con-sigli di quasi tutte le società italiane e costituisconoquasi il 40 per cento dei consiglieri d’amministrazionedelle società quotate.

La figura dell’amministratore indipendente presen-ta, però, significative debolezze. In particolare, oltre alladifficoltà di selezionare persone indipendenti in concre-to, si evidenzia da più parti il problema della loro defe-

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renza nei confronti dei soci di controllo, dovuto inevi-tabilmente al fatto che essi sono nominati dallo stessosocio di maggioranza cui dovrebbero impedire di porrein essere operazioni dannose per i soci di minoranza.

Non è noto se la presenza di amministratori indi-pendenti abbia un impatto positivo sul valore dellesocietà. Tuttavia, gli aspetti critici esposti suggerisconoche essi non siano uno strumento particolarmente effi-cace, mentre esso è, indubbiamente, ormai decisamentefavorito dal legislatore.

Parimenti oggetto di favore legislativo sono i sistemidi controllo interno ed esterno, probabilmente (anche)in conseguenza del fatto che i componenti di questiorgani appartengono a professioni tradizionalmenteprotette e organizzate corporativamente in efficaci lob-bies, come – in primo luogo – commercialisti ed esperticontabili.

L’organo di controllo è il collegio sindacale, i cui com-ponenti si caratterizzano per la loro indipendenza: essinon devono essere parenti degli amministratori dellasocietà o di altre società appartenenti allo stesso gruppo,né essere legati alla società e alle società del gruppo o agliamministratori delle medesime da rapporti professiona-li o patrimoniali in grado di incidere sulla loro indipen-denza. Come si accennava, per la nomina del collegio ènecessario procedere con il sistema del voto di lista, inmodo da garantire alla minoranza la nomina di almenoun membro del collegio, che assume le vesti di presiden-te. I membri del collegio sono nominati per tre anni, illoro compenso è fissato all’atto del conferimento dell’in-carico ed essi non possono essere revocati se non per giu-sta causa. Il collegio sindacale ha il compito di controlla-re il rispetto della legge e dei principi di corretta ammi-nistrazione da parte degli amministratori, nonché – o,forse, soprattutto – l’adeguatezza della struttura orga-nizzativa della società, del sistema di controllo interno(che riferisce al consiglio d’amministrazione) del sistemaamministrativo-contabile. Date queste funzioni, si sonodefinite le sue funzioni come organo di “alta vigilanza”:un custode dei custodi.

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A queste responsabilità fanno da contraltare poterimolto incisivi. Il collegio riceve dal consiglio d’ammini-strazione un costante flusso informativo. Ciascun sin-daco può procedere a ispezioni e controlli anche indivi-dualmente e chiedere agli amministratori notizie einformazioni. Il collegio sindacale nel suo insieme puòconvocare l’assemblea dei soci, può denunciare al tri-bunale le gravi irregolarità commesse dagli ammini-stratori, provocando un’ispezione della società che puòa sua volta condurre alla nomina di un amministratoregiudiziario, e può esso stesso direttamente esercitarel’azione di responsabilità contro gli amministratori.

All’organo di controllo interno si affianca sempre lafunzione di revisione legale dei conti, svolta da unasocietà di revisione iscritta in un albo sotto la vigilanzadella Consob. L’incarico di revisione è dato per sei anni,e vi sono stringenti regole volte a evitare da un lato chesi instauri una eccessiva familiarità tra il responsabiledella revisione e la società sottoposta a revisione, dal-l’altro a garantire la massima indipendenza delle socie-tà di revisione.

Non è chiaro quanto questi strumenti siano efficaci.Per i sindaci, l’esperienza passata sembra indicare cheessi non abbiano svolto il ruolo loro affidato in modoadeguato. Sebbene alcuni dei poteri che hanno attual-mente esistessero anche prima della legge sulla tuteladel risparmio e prima della riforma delle società, è unaconstatazione condivisa, ancorché forse da verificare,quella secondo cui il collegio sindacale non ha mai fun-zionato, scontando il fondamentale problema dellanomina a opera del socio di controllo. Tuttavia, sembraanche che il legislatore su di essi continui a contare,ancorché offra, ora, l’alternativa del sistema “monisti-co”, che prevede solo – in modo simile a quanto accadenegli Stati Uniti – la costituzione in seno al consigliod’amministrazione di un comitato “per il controllo sullagestione”. La rara adozione di questo modello da partedelle società quotate può essere interpretata in varimodi: il sistema monistico è meno efficace, e quindi lesocietà vogliono continuare a segnalare al mercato la

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loro “virtuosità” prevedendo un collegio sindacale;oppure, il sistema monistico è più efficace e, quindi, lesocietà non vogliono vedersi precluse le opportunità diespropriazione che avevano in precedenza. Vi è ancheuna terza possibilità: che, più banalmente, le societàritengano i due sistemi equivalenti, onde non vi sareb-be motivo di sostituire l’incertezza della novità almodello già ampiamente sperimentato.

L’attività di revisione contabile, viceversa, è uno stru-mento di governance essenziale, perché dovrebbegarantire l’attendibilità dell’informazione contabile datadalle società al mercato, ed è stata oggetto di recentiinterventi normativi sia interni (con una dettagliata estringente disciplina delle incompatibilità) sia a livellocomunitario. Tuttavia, effettuare un giudizio di efficaciao inefficacia è difficile, perché essa, anche quando fun-ziona bene e fornisce al mercato dati attendibili, ha solol’importantissimo ma limitato effetto di far sì che il prez-zo di borsa rispecchi il “reale” valore della società, cheincorpora tutte le informazioni pubbliche disponibili.

È, però, richiesto l’intervento di altri e diversi stru-menti affinché si riverberino sull’efficienza della gestio-ne le conseguenze necessarie dell’informazione che èincorporata nel valore di borsa delle azioni. Neppure uncorso di borsa depresso può spaventare un socio di con-trollo che continui a estrarre ingenti benefici privatidalla società, se non funziona, o non può funzionare, ilmercato del controllo societario, come si vedrà tra breve.

Gli amministratori di minoranzaMentre il consiglio d’amministrazione e, al suo inter-

no, gli amministratori indipendenti sono strumenti digovernance di dubbia efficacia, diversa valutazione devefarsi per l’amministratore di minoranza, ossia l’ammini-stratore dissidente cui Macey dedica il capitolo 6.

Con il maturare della consapevolezza che uno deimali che affligge i mercati finanziari italiani è il poten-ziale per l’espropriazione delle minoranze, la legge sullatutela del risparmio prende atto che è necessario fareentrare nel cuore decisionale della società chi possa fare

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da contrappeso ai soci di controllo e a chi li rappresenta. L’amministratore di minoranza, sebbene sia indivi-

dualmente dotato di minori poteri di controllo rispettoai sindaci, è però collocato in seno al consiglio e puòpartecipare attivamente alla discussione e alla delibera-zione. Fino a non molto tempo addietro si manifestava-no in letteratura voci contrarie all’amministratore diminoranza perché, si diceva, l’amministratore deve farel’interesse della società, non certo l’interesse del socio –di minoranza – che lo ha votato in consiglio. Questaprospettiva ha tuttavia dovuto cedere il passo alla con-statazione che il consiglio d’amministrazione è il luogodove l’interesse sociale prende forma ed è anche illuogo dove devono essere prevenute le deviazioni daquesto interesse.

D’altro canto, l’imposizione di un obbligo di preve-dere la possibilità che sia nominato un amministratoredi minoranza non equivale a imporne la presenza in cia-scuna società. Infatti, l’inclusione nel consiglio di unamministratore non espresso dalla maggioranza avver-rà se, e solo se, vi sia una minoranza che ritenga chevalga la pena di investire risorse per candidare e votareun suo consigliere. In altri termini, se la legge impone –con norma imperativa – l’adozione dei necessari accor-gimenti per consentire la nomina di un amministratoredi minoranza, questa opportunità “si attiva” solo se ilmercato (nella persona di uno o più azionisti in posses-so di una percentuale minima di azioni) reputa necessa-rio dotare la società di un amministratore di minoranza.

Una volta nominato in seno al consiglio d’ammini-strazione, l’amministratore di minoranza, da chiunquedesignato, deve perseguire l’interesse di tutti i soci. Pernatura e provenienza, egli è lì per interpretare nel modopiù rigoroso possibile il principio secondo cui la gestio-ne dell’impresa è volta alla massimizzazione del valoreper gli azionisti e, in altri termini, – per chi crede all’ef-ficienza del mercato – il valore di borsa della medesima.A differenza degli amministratori indipendenti, l’am-ministratore di minoranza è meno suscettibile alla cap-ture da parte della società e dei suoi soci di controllo,

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dal momento che la sua nomina e la sua riconferma nondipendono da loro.

Si potrebbe temere il replicarsi del fenomeno, sosti-tuendo ai soci di controllo le minoranze che l’hannonominato. Questa prospettiva, tuttavia, non coglie nelsegno. Questo potrebbe accadere solo se l’amministrato-re fosse espressione di una minoranza non istituzionalecon interessi diversi da quelli degli altri soci di mino-ranza (per esempio, un socio industriale, più interessatoai rapporti d’affari che al valore di borsa delle azioni).Tuttavia, dovrebbe trattarsi di una minoranza in nessunmodo collegata con i soci di controllo, altrimenti il suoamministratore non sarebbe considerato “di minoran-za” dalla legge; e questa eventualità è improbabile.Oppure, si potrebbe pensare a un hedge fund partico-larmente aggressivo, che ha interesse a estrarre beneficiprivati in danno degli altri azionisti: ma si tratterebbe diuna strategia non facile da attuare, posto che richiede-rebbe la collusione con il socio di controllo.

Al di fuori di questi casi, se l’amministratore diminoranza proviene dalla comunità delle minoranzeorganizzate (investitori istituzionali e hedge fund), lasua “cattura” da parte di costoro altro non significhe-rebbe che la creazione di una classe di persone con unareputazione per il perseguimento dell’obiettivo dellamassimizzazione del valore di mercato delle società;prospettiva dalla quale si può dissentire, ma della cuitrasparenza e linearità non si può che prendere atto.

Il possibile ruolo dei fondi speculativiL’amministratore di minoranza non è che uno stru-

mento in mano, appunto, alla minoranza, concetto poli-semico che abbraccia molti diversi tipi di soci, con l’u-nico denominatore comune del non essere soci di con-trollo.

È qui che entrano in gioco quei soci di minoranzache sono investitori istituzionali e hedge fund. Ai primi,e ai limiti sofferti dalla loro azione, si è già accennatosopra. Uno spazio di rilevo, piuttosto, sembra poteressere occupato dai fondi speculativi, o hedge fund.

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Questi fondi, che sono assoggettati a una regolamenta-zione molto essenziale e la cui raccolta è andata cre-scendo in maniera straordinaria negli ultimi anni, sonostati la vera novità della corporate governance america-na e, più recentemente ancora, europea, come esponeMacey stesso.

Il loro attivismo – che, comunque, caratterizza solouna piccola percentuale dei fondi – si svolge su moltifronti: essi intervengono per indurre ristrutturazionidella struttura finanziaria o imprenditoriale, per bloc-care acquisizioni sgradite o favorirne di gradite, e sisono spinti a fare essi stessi offerte ostili, con effetticomplessivamente positivi sul valore delle società. Essisi caratterizzano, rispetto agli investitori istituzionali,per almeno tre aspetti: hanno una forte propensione alrischio; non hanno vincoli di composizione del portafo-glio, onde possono concentrare le loro risorse su unobiettivo; hanno fortissimi incentivi alla performance,perché i gestori sono retribuiti, oltre che con una com-missione annuale sulla massa gestita dell’1-2 per cento,con una quota del 15-20 per cento dei profitti del fondo.

L’esperienza degli ultimi anni dimostra che vi è largospazio per l’attivismo nella governance da parte deifondi speculativi anche in Italia. La possibilità di impor-re un amministratore di minoranza è certamente ingrado di rendere più efficaci gli interventi dei fondi, cheinvestono e alzano la voce non soltanto nelle società adazionariato diffuso, ma anche in società con un nucleostabile di azionisti, e perfino in società con un socio dicontrollo forte. In questi ultimi due gruppi di società essinon possono mirare a imporre cambiamenti nella politi-ca industriale o finanziaria. Nelle società a proprietà con-centrata, i fondi hanno però ampio margine per miglio-rare la governance e, in particolare, ridurre l’espropria-zione dei soci di minoranza. Il margine di miglioramen-to del valore delle azioni potrebbe essere, in teoria, parial valore del “premio di controllo”, ovvero la differenzadi valore tra le azioni del pacchetto di controllo e quellein mano alla minoranza, differenza che in Italia è, o erafino a tempi recenti, singolarmente elevata. Non è un

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caso che, quando fondi speculativi sono intervenuti nellagovernance di società italiane, sia stato sollevato il pro-blema del conflitto d’interessi del socio di maggioranza.

In questo quadro di contenimento del conflitto d’in-teressi e di minimizzazione dell’estrazione di beneficiprivati del controllo, l’efficacia dello strumento “com-posito” di governance dato dall’amministratore diminoranza nominato da un fondo speculativo gode diun effetto leva grazie al regolamento Consob circa ilprocedimento che le società quotate devono seguire perapprovare operazioni “con parti correlate”, ovverosiacon quei soggetti che possono, per i particolari rappor-ti con una società, influenzarne la gestione o singoleoperazioni – ivi inclusi, naturalmente, i soci di control-lo. Questa disciplina ha la caratteristica di rendere difatto essenziale, quanto meno nelle operazioni di mag-giore rilevanza, l’approvazione dell’operazione daparte di un comitato di amministratori indipendenti,nel quale troverebbe naturale collocazione anche l’am-ministratore di minoranza che fosse eventualmentenominato. I già efficaci meccanismi di governance del-l’amministratore di minoranza e dei fondi speculativi,quindi, dovrebbero essere ancor più efficaci nel com-battere il profilo di governance più critico delle societàitaliane, ovverosia l’appropriazione da parte della mag-gioranza dei benefici privati del controllo.

Il mercato del controllo societarioIl “mercato del controllo societario” è quel mercato

nel quale l’oggetto dello scambio sono le azioni checonsentono di esercitare il controllo sulla società. Unsuo corretto ed efficiente funzionamento è importanteper almeno due motivi: allocare il controllo nelle manidel socio che massimizza il valore della società e – pereffetto della “minaccia” che intervenga un terzo cheacquisti il controllo – imporre agli amministratori e (neilimiti in cui il controllo sia effettivamente contendibile)ai soci attuali di controllo una disciplina nella gestionedella società che, altrimenti, non osserverebbero. Unabuona regolamentazione dovrebbe cercare di rendere

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agevole il cambio del controllo (in questo senso, favo-rendo le scalate, anche ostili), solo nei limiti in cui talecambiamento portasse a risultati efficienti (e, quindi,all’incremento di valore della società).

In Italia, la materia è stata oggetto di recenti inter-venti legislativi; attualmente, la disciplina ha alcunitratti salienti. In primo luogo, vige la regola (che nonc’è, invece, negli Stati Uniti) secondo cui chi vogliaacquisire il controllo (stabile: ossia sopra il 30 per centodel capitale) di una società deve offrire a tutti gli azio-nisti di vendere a un prezzo che tiene conto anche delpremio di controllo. Questa regola ha una sua logica,quella di rendere partecipi anche i soci di minoranzadel valore del controllo, che altrimenti resterebbe acqui-sito ai soli soci di maggioranza e, quindi, teoricamentesi adatta bene a un contesto di proprietà concentratacome quella italiana. Tuttavia, essa rende più costoso ilcambio di controllo, con ciò incidendo negativamentesul potere “disciplinare” del mercato del controllo.

In secondo luogo vige, dopo alterne vicende, unaregola (ora tendenziale) di “passività” della società ber-saglio dell’offerta, regola secondo la quale gli ammini-stratori della società si astengono dal compiere atti chepossano contrastare l’offerta di acquisto. Nella versioneoriginaria del testo unico della finanza, essa era unaregola imperativa e sempre applicabile, salva la possi-bilità per l’assemblea, che deliberava con maggioranzequalificate, di consentire l’adozione di misure difensive(e ciò in netto contrasto con la regola americana, in cuigli amministratori possono sempre opporsi alle offerteostili). Successivamente, nell’arco di tre anni si è dap-prima introdotta, in sede di attuazione della direttivasulle offerte pubbliche di acquisto, una disposizioneche rendeva applicabile quest’obbligo di astenersi damisure difensive solo a condizione che anche l’offeren-te fosse soggetto ad analoga regola di passività; poi,sulla scia di preoccupazioni protezionistiche, si è previ-sto che la regola di passività si applicasse solo in base aspecifica opzione in questo senso dello statuto; infine,con soluzione più equilibrata, si è optato per un regime

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analogo, ma in cui la regola è la passività, derogabile daparte dello statuto.

Nel complesso, dunque, il contesto non è dei piùfavorevoli al mercato del controllo: esso è reso costosodalla regola dell’opa obbligatoria; lo statuto può rende-re inapplicabile il divieto di misure difensive, divietoche vige peraltro solo a condizioni di reciprocità e sem-pre che la società decida di vincolarsi al divieto. Altreregole rendono ulteriormente costose le acquisizioni,tra cui quella che impone l’obbligo di comunicazionedelle partecipazioni acquisite in una società quotata sinda una soglia molto bassa (appena il 2 per cento; e si erapensato di abbassarla ulteriormente, sempre sulla sciadi preoccupazioni protezionistiche).

Non sarebbe esatto, probabilmente, dire che è lalegge a rendere poco rilevante il mercato del controllocome strumento di corporate governance: più verosi-milmente, sono la struttura stessa del mercato e dell’a-zionariato a rendere poco probabili scambi non concor-dati del controllo e, di conseguenza, a rendere poco effi-cace il mercato del controllo come pungolo per lamigliore gestione delle imprese.

Si tratta, quindi, di uno strumento difettoso perchéinsiste su un mercato con una struttura tale da render-lo scarsamente applicabile, e non in grado di contribui-re significativamente a risolvere il grande problema digovernance italiano, ovvero l’espropriazione dellaminoranza ad opera del socio di controllo.

L’enforcement privato: la fosca luce della giustizia ita-liana su azioni di responsabilità e class actions

I diritti degli azionisti che si sono menzionati in pre-cedenza possono richiedere l’intervento dell’autoritàgiudiziaria; anche questo momento attuativo deve dun-que essere considerato nella valutazione dell’efficaciadi un certo strumento. D’altro canto, le modalità con cuila legge viene applicata sono sempre sullo sfondo deicomportamenti delle parti e delle loro scelte contrattua-li. In questa prospettiva, la situazione italiana è davve-ro sconfortante.

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Da un lato, a parità di condizioni, in Italia convienelargamente stare dalla parte di chi è convenuto in giu-dizio, perché a favore gioca sempre, inevitabilmente, lalunghezza del processo; dall’altra, le regole processualinon favoriscono gli attori nei casi in cui occorra dispor-re di informazioni non pubbliche, mancando qualcosadi simile alla discovery americana, nell’ambito dellaquale si può ottenere pressoché qualsiasi fonte di provain possesso della controparte. I giudici, infine, tendonoa essere formalisti e tende anche a mancare – soprattut-to nel ragionamento giudiziale – l’idea che anche i pri-vati possono essere strumento di perseguimento del-l’interesse pubblico.

In Italia, ancora, non vi è una cultura delle azionilegali di massa, sia per la mancanza, che si è protrattafino a pochissimo tempo fa, di una disciplina specificache consenta l’aggregazione delle liti, sia per la diversaorganizzazione delle professioni legali, ancora legate amodelli organizzativi d’altri tempi. Il secondo punto èben lungi dall’essere non già risolto, ma neppure seria-mente affrontato; quelle caute aperture che si sonoavute – per esempio, con l’introduzione del patto diquota lite, ossia il patto, essenziale per qualsiasi classaction, secondo cui l’avvocato viene pagato in percen-tuale su quanto effettivamente recuperato per effettodell’azione – sono costantemente messe in dubbio e,comunque, certo non sedimentate nella pratica legale.

La class action esiste in Italia, dopo alterne vicende,solo dall’inizio del 2010, e la sua disciplina è contenutanel “codice del consumo”. Quanto poco il legislatore leritenga dei meccanismi di corporate governance èdimostrato, oltre che dalla stessa collocazione sistema-tica della norma, dall’assenza nella nuova disciplina diqualsiasi menzione delle liti di carattere societario efinanziario, che fa dubitare che la nuova disciplina siapplichi anche a questi casi. È possibile – anzi, probabi-le – che la pratica interpretativa conduca a ritenere cheanche il risparmiatore, e non solo il consumatore di pro-dotti e servizi non finanziari, possa fare uso dell’azionedi classe; tuttavia, l’assenza di ogni indicazione esplici-

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ta ha un rilevante valore segnaletico, in negativo.Un altro possibile strumento di governance per via

contenziosa, che sta a cavallo tra azioni di classe e tute-la delle minoranze organizzate, è la possibilità di eser-citare l’azione di responsabilità contro gli amministra-tori per i soci che detengano almeno il 2,5 per cento delcapitale, della quale si è già accennato. I destinatari diquesta norma sono, quanto meno originariamente, gliinvestitori istituzionali, ma non è escluso, in prospetti-va, che essa possa essere usata anche per avanzare pre-tese da una moltitudine aggregata di piccoli azionisti.

Tale percentuale non è insignificante ma non è nep-pure, se non nelle società con maggiore capitalizzazio-ne, realmente preclusiva. Tuttavia, mai nessuna azioneè stata portata contro un amministratore di una societàquotata a fare data dalla sua introduzione, nel 1998 (l’a-liquota richiesta era allora del 5 per cento e si prevede-va anche un tempo minimo di permanenza in società).I motivi dello scarso ricorso a questo strumento sonodiversi: in primo luogo, le regole dell’azione non pre-vedono alcun incentivo in favore della minoranza che siattiva e agisce: il risarcimento del danno che si ottengaper effetto dell’azione va a beneficio della società, senzapoterne attribuire una quota non proporzionale allaminoranza attiva, come “premio”. In secondo, le regoleprocessuali italiane, come si è detto sopra, sono pocoattente alle esigenze degli attori, specie in contesti diasimmetria informativa (mancanza di regole di disco-very, cui si aggiunge un regime delle spese di lite percui chi perde paga anche le spese di lite della contro-parte; recenti riforme hanno inasprito questa regola,togliendo discrezionalità al giudice). Infine, lo scarsosuccesso di questa azione è forse dovuto alla tendenzadegli investitori istituzionali a non adottare strategie dicontrasto diretto; anche questo strumento, quindi, daràforse migliori frutti nelle mani dei fondi speculativi,come elemento di una complessiva strategia di investi-mento più aggressiva.

Manca invece, in Italia, una norma come la “Rule10b-5” americana nella sua applicazione giurispruden-

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ziale, che consenta di agire in giudizio contro chiunqueabbia fornito informazioni false, sulla cui base gli inve-stitori abbiano patito un danno negli scambi sul merca-to secondario, ovverosia comprando e vendendo daaltri investitori che, al loro pari, erano ignari dellafrode. Questa regola è soggetta a critiche negli StatiUniti principalmente perché, si dice, non fa altro cheriallocare una perdita da un gruppo di investitori(essenzialmente, gli azionisti attuali della società) a unaltro gruppo di investitori (quelli che subirono undanno dalla frode), entrambi ignari della frode, senzatenere conto, inoltre, del fatto che un investitore chediversifica i suoi investimenti ha le stesse possibilità diessere dal lato della transazione che per effetto dellafrode guadagna o, invece, dal lato che perde. Tuttavia,essa rimane un caposaldo della corporate governanceamericana e si ricorre a essa anche in quei casi in cui sipotrebbe usare un’azione specifica contro gli ammini-stratori, a causa del regime sotto certi aspetti più favo-revole della securities class action rispetto all’azione diresponsabilità. C’è da dubitare che, allo stato attualedella riflessione in tema di corporate governance, essapossa mai essere introdotta in Italia: infatti, essa richie-de una presa d’atto della funzione non solo, e nontanto, compensativa della responsabilità civile, masoprattutto dissuasiva; prospettiva che tende a non farebreccia, prima ancora che nell’argomentare giuridico,nella cultura italiana, più incline a pensare che gli inte-ressi generali debbano essere perseguiti da enti di carat-tere pubblico o collettivo.

La governance in via contenziosa è, secondo Macey,inefficace e costosa; dovremmo quindi salutare confavore gli ostacoli posti a essa dall’ordinamento italia-no. In realtà, agli occhi italiani sembrano critiche fatteda chi può permettersi il lusso di farle. La governancein via contenziosa, infatti, è forse inefficace e costosaanche a causa degli eccessi che essa conosce negli StatiUniti, ma non si può dubitare vi sia una via di mezzotra il contenzioso pressoché automatico che parte a ognibrusco calo del corso delle azioni e la sostanziale impu-

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nità di cui godono, in Italia, le società che pongono inessere condotte illecite o espropriative in danno del“parco buoi”.

Inoltre, lo stato della giustizia in Italia incide anchesulla libertà contrattuale, perché rende di fatto inutiliz-zabili quei meccanismi di governance contrattuali il cuifunzionamento dipende (anche) dalla possibilità di rea-lizzazione coattiva dei relativi diritti, rendendo il qua-dro degli strumenti di governance sbilanciato in favoredi quelli che non richiedono, tendenzialmente, attivitàesecutiva (c.d. self-enforcing).

Il “whistle-blowing”Un’ultima forma di applicazione delle regole in via

privata è il “whistle-blowing”. La traduzione più pros-sima già ne può suggerire il grado di apprezzamento inItalia: “delazione”. La cultura italiana è intrisa di omer-tà, che si presenta talvolta sotto le mentite spoglie dellasolidarietà (di classe, di gruppo, di famiglia). A livelloculturale basti segnalare il dato di comune esperienzasecondo cui in Italia i più bravi hanno un obbligo mora-le di “passare” i compiti in classe, quando questo com-portamento, nella cultura angloamericana, è sempreoggetto di generale riprovazione; mentre segnalare ilfatto al docente qualifica immediatamente come spia ildelatore (“spia, spia, maledìa”). La riprovazione socialeche la delazione suscita sembra precluderne l’uso comeserio strumento di corporate governance e dovrebbeindurre cautela nell’invocarne una incentivazione daparte del legislatore. Si può ipotizzare, infatti, che lariprovazione sociale relegherebbe il whistle-blowing o acasi davvero egregi, o a casi in cui i segnalatori sianomossi da invidia, desiderio di vendetta, o simili motivi;motivi non rilevanti in sé, ma che lo diventano se influi-scono sul livello di qualità delle segnalazioni.

In ogni caso, non sembra che in Italia si corra alcunrischio di favorire la delazione. L’unica traccia normati-va a livello di organizzazione d’impresa si ha nellalegge sulla responsabilità amministrativa delle personegiuridiche, che impone che i modelli organizzativi volti

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alla prevenzione dei reati adottati dalle società (obbli-gatoriamente, se quotate) prevedano degli obblighi diinformazione nei confronti dell’organismo di vigilanzaistituito ai sensi della legge. Ma, al di là di questo tribu-to formale a una sorta di obbligo di denuncia, non esi-stono previsioni di tutela del lavoratore che effettua ladenuncia; i modelli organizzativi di fatto sovente pre-vedono il divieto di ritorsioni e l’obbligo di riservatez-za, ma contengono altresì una generale clausola di ecce-zione all’obbligo di riservatezza, oltre che per ottempe-rare a obblighi di legge e per la tutela delle personeaccusate erroneamente o in mala fede, per ragione di“tutela dei diritti della società”, che è formula quantomai ampia e in grado di vanificare, in punto di fatto,qualsiasi obbligo di riservatezza imposto e garantitoall’organismo di vigilanza.

ConclusioniIl problema principale della corporate governance

italiana è l’estrazione di eccessivi benefici privati daparte dei soci di controllo in danno dei soci di mino-ranza.

È alla luce di questa peculiarità della governance inItalia che si può tentare una valutazione in termini diefficacia dei diversi strumenti di governance e, succes-sivamente, in termini di adeguata incentivazione daparte del legislatore.

Molti strumenti sono complessivamente utili, manon determinanti, come la maggior parte dei diritti datialla minoranza; altri – come i controlli interni ad operadi amministratori indipendenti e organo di controllo –non sembrano adeguati allo scopo. L’unico che spicca,in questo contesto, è il diritto di nominare un ammini-stratore di minoranza, specie se letto in combinazioneda un lato con l’azione dei fondi speculativi, dall’altrocon la disciplina, ancora in formazione, delle operazio-ni con parti correlate.

Altri ancora, invece, potrebbero svolgere un ruolo digrande importanza, ma non sono affatto incoraggiatidalla legge: questo vale, in particolare, per tutti quegli

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strumenti, anche contrattuali, che richiedano l’interven-to dell’autorità giudiziaria.

Con riguardo alla giustizia civile vi è però motivo dicauto – molto cauto – ottimismo. Da alcuni anni il pro-blema della giustizia ha iniziato a essere inquadratonon più solo in termini di equità, ma anche in terminidi efficienza. Sono, forse, le premesse perché – sotto lapressione della competizione internazionale – si possariformare un apparato giudiziario da ormai troppotempo in stato comatoso. Si aggiungerebbe, così, anchealla corporate governance un tassello essenziale, ovve-ro la fase dell’attuazione del diritto.

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Mercato, Diritto e Libertà

Richard Epstein, Mercati sotto assedio. Cartelli, politiche e benessere sociale

Benjamin Constant, Conquista e usurpazione

Paul H. Rubin,La politica secondo Darwin.L’origine evolutiva della libertà

Peter T. BauerDalla sussistenza allo scambio.Uno sguardo critico sugli aiuti allo sviluppo

Fred FoldvaryBeni pubblici e comunità private.Come il mercato può gestire i servizi pubblici

Sergio RicossaStraborghese

Jonathan R. MaceyCorporate governance.Quando le regole falliscono

Vernon L. SmithLa razionalità nell’economia.Tra teoria e analisi sperimentale

Policy

Václav Klaus, Pianeta blu, non verde. Cosa è in pericolo: il clima o la libertà?

Arnold Kling, La sanità in bancarotta. Perché ripensare i sistemisanitari

Andrea Giuricin, Alitalia. La privatizzazione infinita

Alberto Mingardi (a cura di), La crisi ha ucciso il libero mercato?

Nicholas Eberstadt e Hans Groth,L’Europa che invecchia. La qualità della vita può sconfiggere il declino

John B. Taylor,Fuori strada.Come lo Stato ha causato,prolungato e aggravato la crisi finanziaria

Kevin Dowd,Abolire le banche centrali

Stephen Goldsmith e William D. EggersGovernare con la rete.Per un nuovo modello di pubblica amministrazione

Gabriele Pelisseroe Alberto Mingardi(a cura di), Eppur si muove.Come cambia la sanità in Europa, tra pubblico e privato

Report

Andrea Giuricin e Massimiliano Trovato (a cura di), La telefonia mobile e il laboratorio Italia. Primo rapporto sulla telefoniamobile in Italia

Carlo Stagnaro (a cura di),Indice delle liberalizzazioni 2009

Piercamillo Falasca (a cura di),Dopo! Come ripartire dopo la crisi

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L’Istituto Bruno Leoni (IBL), intitolato al grande filosofodel diritto Bruno Leoni (1913-1967), nasce con l’ambizione distimolare il dibattito pubblico, in Italia, esprimendo in modopuntuale e rigoroso un punto di vista autenticamente liberale.

L’IBL intende studiare, promuovere e divulgare gli idealidel libero mercato, della proprietà privata e della libertà discambio.

Attraverso la pubblicazione di libri, l’organizzazione diconvegni, la diffusione di articoli sulla stampa nazionale einternazionale, l’elaborazione di brevi studi e briefingpapers, l’IBL mira a orientare il processo decisionale, a infor-mare al meglio la pubblica opinione, a crescere una nuovagenerazione di intellettuali e studiosi sensibili alle ragionidella libertà.

L’IBL vuole essere per l’Italia ciò che altri think tank sonostati per le nazioni anglosassoni: un pungolo per la classepolitica e un punto di riferimento per il pubblico in generale.Il corso della storia segue dalle idee: il liberalismo è un’ideaforte, ma la sua voce è ancora debole nel nostro Paese.

IBL Libri è la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni. Volti ad approfondire la dimensione teorica dei dibattiti

sulla libertà individuale e sulla giustizia, i volumi della col-lana Mercato, Diritto e Libertà si caratterizzano per il rigorecon cui difendono la tradizione liberale più coerente. L’obiet-tivo è di offrire i migliori strumenti intellettuali alle giovanigenerazioni, favorendo quel mutamento del dibattito cultu-rale che è premessa indispensabile a un’efficace difesa dellelibertà minacciate e a una riconquista di quelle perdute.

Istituto Bruno LeoniVia Bossi 1–10144 Torino, ItalyTel. 011-070.2087Fax: 011-437.1384E-mail: [email protected]

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Finito di stampare nel mese di maggio 2010 daFVA – Fotoincisione Varesina

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