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CORSO “SCUOLA DEL PATRIMONIO”
Classe aperta
Massimo Osanna
Coniugare tutela e valorizzazione: la ricerca nel patrimonio culturale
18 marzo 2019
Mibac – Sala della Crociera
Ringrazio innanzitutto la Direttrice della Scuola, arch. Carla Di Francesco, per l’invito a tenere la
lezione di oggi: ne sono particolarmente lusingato. E la ringrazio anche per l’affettuosa introduzione.
Il tema che mi è stato chiesto di affrontare – come coniugare tutela, valorizzazione e ricerca nel
patrimonio culturale – è molto complesso. Sarà una bella sfida trattare, in un poco più di un'ora, quello
che ritengo sia uno dei temi cruciali per chi lavora nel Ministero dei Beni Culturali. Per farlo non
posso che partire dalla mia esperienza a Pompei, anche se mi fa piacere che sia stata ricordata quella
di un anno come soprintendente in Basilicata. Quella, infatti, è stata una tappa che, oltre ad essere
stata molto formativa, ha rappresentato un punto di svolta nella mia carriera: mi ha permesso di
passare da un approccio teorico – anche se per gli archeologi c'è sempre quel risvolto delle attività
sul campo che rende un po' più concreto il proprio lavoro rispetto ad altre realtà – all'esperienza,
complessa, di gestione di un'area. Allora c'erano le soprintendenze archeologiche regionali: l’area di
competenza interessava quindi tutta la Basilicata, tra l’altro ricchissima da un punto di vista
archeologico. Era anche una delle soprintendenze che credo funzionasse meglio, con funzionari molto
esperti, anche affiatati, e una tradizione che era venuta radicandosi, già negli anni ’60, nel solco della
sperimentazione, con Dinu Adameșteanu che aveva introdotto l’utilizzo di tecnologie, nuove per
l’epoca, nel lavoro quotidiano dell’archeologo: penso alla fotografia aerea per indagare il
Metapontino o ai carotaggi per ricercare il porto di Siris. Questa tradizione aveva visto coniugare in
maniera molto seria e puntuale una attenzione al territorio – da parte di funzionari che vi lavoravano
e lo monitoravano – e alla ricerca. Proprio la ricerca, prima con Adameșteanu e poi con chi lo ha
seguito – per esempio Bottini – si era alimentata di rapporti con altri enti di ricerca e università, anche
internazionali. E la ricerca fece della Basilicata, già negli anni ’80, un luogo di dibattito per tutta una
serie di temi fondamentali: quello del contatto di culture, dell'ibridazione e della fluidità delle culture,
dei movimenti di oggetti e uomini nell'ambito del bacino del Mediterraneo. Tuttavia, se questa è stata
un'esperienza molto formativa per me, quella di Pompei è stata qualcosa di diverso: un'esperienza
straordinaria anche se, adesso lo posso dire, molto faticosa in quanto è coincisa con un momento
molto particolare, quello del Grande Progetto Pompei. Avviato con un po’ di fatica già un paio di
anni prima del mio insediamento, solo nel 2014 il progetto ebbe finalmente un avvio deciso. Ricordo
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con orgoglio la prima relazione Unesco del 2015, anno successivo al mio arrivo, che diceva:
“finalmente a Pompei non più parole ma fatti”. Fu una grande soddisfazione quella. Ovviamente
l’avvio solido del Grande Progetto è dipeso da una somma di fattori, di forze e di impegno da parte
di più Ministeri, di loro società in house – come Ales e Invitalia che erano all'interno della struttura
di gestione – e soprattutto alla presenza, in quel momento, di un team dei Carabinieri guidato dal Gen.
Giovanni Nistri – adesso comandante dell'Arma – che affiancava la soprintendenza. La prima sfida
da affrontare è stata proprio quella: dialogare e far dialogare – cosa non così scontata – tutto il
personale della soprintendenza con il personale che era venuto ad affiancarla. Ogni forma di
colonizzazione nella storia è stata vissuta in maniera molto drammatica. Anche a Pompei, quando
dopo la guerra sociale dell'89 arrivarono i Romani creando la colonia Veneria pompeianorum, i
documenti narrano di questa difficile convivenza, che aveva creato notevoli attriti fra le popolazioni
locali e le persone che erano arrivate da fuori. E fu solo dopo vari decenni che finalmente questo
corpo civico si amalgamò e gli attriti etnici lasciarono il posto, semmai, ad attriti sociali di diverso
livello. Far dialogare queste strutture è stata quindi la vera sfida e, devo dire, il successo
dell’operazione. Con il Gen. Nistri abbiamo avuto da subito un'idea molto chiara degli obiettivi e
delle modalità per raggiungerli, ognuno nell’ambito delle proprie competenze. Lui, che ovviamente
doveva gestire come stazione appaltante tutti i processi di gara e di inizio lavori, si è sempre
confrontato con me per gli aspetti tecnici – se una cosa si può fare, non si può fare, se è giusto farla
in un modo o in un altro – raccogliendo tutte le indicazioni necessarie per fare in modo che la fretta
di voler impiegare le risorse non andasse a discapito del far bene. In fondo il motto è stato “fare
presto, ma anche fare bene”: e questo si è potuto fare grazie ad un dialogo costante fra i due gruppi
di lavoro. In verità anche un altro aspetto molto positivo ha contato per il successo dell'impresa: e
cioè il fatto che anche al Ministero ci si era resi conto che i problemi di Pompei non potevano essere
risolti solo con finanziamenti o commissariamenti. Il Grande Progetto Pompei non era, infatti, il frutto
di un commissariamento, e il Gen. Nistri non era un commissario. A differenza di quanto era accaduto
in passato egli doveva operare nel pieno rispetto del Codice degli Appalti, senza deroghe. Il Gen.
Nistri era dunque un Direttore Generale di progetto che operava nel rispetto delle norme. Quindi le
gare che si facevano, soprattutto europee, seguivano l’intero iter. Si è cercato però di accelerare i
tempi, evitando di cadere in quell’inerzia in cui spesso le nostre amministrazioni ricadono. Per farlo
bisognava avere tutte le fasi molto ben scandite: la progettazione, la messa a gara tramite Invitalia e
soprattutto l'iter delle verifiche, che erano seguite in maniera molto seria in modo da non perdere quei
mesi che spesso le verifiche richiedono. Nel rendersi conto che non si poteva affrontare il complesso
problema di Pompei come in passato, il Ministero si era anche reso conto che serviva ulteriore
personale qualificato. Il personale strutturato a Pompei era pochissimo: pochissimi gli archeologi,
pochissimi gli architetti, assolutamente non adeguati per numero e per esperienza ad affrontare una
sfida così complessa, e portare avanti un grande progetto che implicava operare su tutta la città,
contemporaneamente e su più piani.
È così che, con una legge speciale, a Pompei sono arrivati 20 nuovi funzionari pescati fra gli idonei
all’ultimo concorso. Tra di essi 10 archeologi e 10 architetti – provenienti da tutta Italia e quindi con
un bagaglio di esperienze diverse – che hanno creato da subito un team molto affiatato. Ciò è servito
moltissimo in fase di avvio: perché quando poi siamo arrivati io e il Gen. Nistri abbiamo dato molte
responsabilità a questi giovani, i quali si sono formati anche sul campo. Di questo aspetto ne
parlavamo prima della lezione con lo staff direttivo della Scuola dei beni e delle attività culturali: la
scuola, tra le altre cose, deve fare in modo che i funzionari arrivino già consapevoli delle sfide che
un'operazione come quella della tutela e della valorizzazione di siti archeologici o di musei richiede.
Anche i nostri funzionari – già preparatissimi dal punto di vista tecnico-scientifico – hanno dovuto
tuttavia formarsi ulteriormente sul campo, sotto altri punti di vista: nello sviluppare anche capacità
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amministrative, per esempio, o nel saper lavorare insieme. Sempre sul fronte della necessità di
acquisire personale qualificato, abbiamo segnalato al Ministero anche la mancanza di ingegneri, che
ha portato a cooptare una segreteria tecnica. Avere gli ingegneri in un luogo dove crollavano le
coperture era abbastanza importante ma, come sapete bene, per una amministrazione pubblica riuscire
a cooptare professionalità dall'esterno equivale a seguire un processo così lungo che a cadere per
prima è la copertura. Tuttavia ci si riuscì. Ci furono vari problemi, all’inizio, come sempre quando si
inizia una nuova attività: nel complesso però fu un'esperienza positiva, perché arrivarono 7 ingegneri
che hanno potuto affiancare i nostri funzionari, entrando come direttori operativi nelle squadre di
progettazione e poi di direzione dei lavori. Sulla stessa scia, come se non bastasse, abbiamo anche
deciso di potenziare tutti quei settori che noi riteniamo fondamentali, per esempio quello
archeologico, integrando la presenza di antropologi fisici, di archeozoologi, di paleobotanici, ecc. In
un sito come quello di Pompei, con decine, anzi migliaia di vittime dell'eruzione e di resti scheletrici
che affollano stanze e stanze di depositi, non si può lavorare senza un antropologo fisico. Così ne
abbiamo preso una a contratto e lì la fortuna è stata che poi è entrata da funzionario effettivo grazie
all'ultimo concorso. Abbiamo anche fatto un accordo con la società in house Ales per acquisire, sotto
forma di servizi, nuovo personale di accoglienza e vigilanza per aprire di volta in volta le domus che
venivano restaurate. Si tratta di 50 nuovi addetti cooptati con contratti annuali che abbiamo rinnovato
di anno in anno, prima sui fondi del Grande Progetto, poi sul bilancio ordinario. Tutto ciò premesso,
richiamando il tema di oggi – come coniugare tutela e valorizzazione attraverso la ricerca –, credo
che uno degli aspetti più importanti venuto fuori dall’esperienza di Pompei è che è fondamentale la
capacità di saper lavorare insieme, in team. Non è possibile non concepire il lavoro in una
soprintendenza, in un museo, in un parco archeologico come un lavoro di squadra, dove tutte le
competenze sono in dialogo reciproco. È sulla base di un retaggio ottocentesco che in passato le
soprintendenze si sono strutturate in funzione delle varie discipline, dove gli archeologi facevano gli
archeologi, gli architetti facevano gli architetti, i restauratori facevano i restauratori senza parlare fra
di loro e creando danni notevoli. Un progetto di restauro, oggi più che mai, deve potersi avvalere
della competenza scientifica dell'archeologo – per la ricostruzione storica del contesto e dei pregressi
interventi sul monumento – che ti permetta, faccio un esempio, di dire che un mosaico distaccato
deve essere ricollocato in un certo modo, ad una certa quota, in una certa maniera, tutto ciò tenuto
conto degli aspetti tecnico-architettonici, sismici e statici, ma anche del contesto che deve essere
ricreato e non stravolto. È ovvio che qui, adesso, tendiamo a parlare delle “magnifiche sorti e
progressive”, però quando contemporaneamente partono 70 progetti, cioè 70 appalti, che vanno in
parallelo per 4 anni, dietro c'è tutta una complessità che può generare anche problemi. E di fatto ogni
progetto ha generato problemi, da tutti i punti di vista. Pensate soltanto al fatto che a Pompei anche il
progetto fatto meglio non può prevedere quello che viene fuori – per esempio strutture preesistenti –
da un restauro, e che nei progetti europei, le varianti non si possono realizzare.
Faccio un piccolo esempio: ristrutturando gli uffici ottocenteschi della soprintendenza, dove
andavano consolidate le fondamenta, durante un saggio è venuta fuori una tomba monumentale. Se
avessimo dovuto seguire l'iter delle linee guida dei fondi europei si sarebbe dovuto chiudere,
tumulare, perdendo questo documento. Ovviamente non me la sono sentita. Così, con il Consiglio di
Amministrazione siamo riusciti a trovare dei fondi extra sul bilancio ordinario per fare lo scavo e
continuare, non senza andare incontro ad una serie di problemi nella gestione amministrativa. In
compenso è venuta fuori una tomba con l'iscrizione più lunga e importante di Pompei che riscrive la
storia degli ultimi decenni della città: una scoperta straordinaria per la ricerca. Come si vede, le
complessità per ogni progetto non sono mancate. Per questo penso che i nostri prossimi funzionari
debbano essere formati al problem solving: perché è facile a un certo punto bloccarsi su un problema,
soprattutto perché ogni problema comporta responsabilità. La cosa più facile da fare in quel caso
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sarebbe stato tumulare la tomba, come qualcuno aveva proposto ovviamente, e dimenticare il
problema. Però il nostro è un dovere, il dovere della tutela: se non salviamo un manufatto di quel
genere, che riscrive la storia di Pompei, dov'è allora il nostro impegno? Il fatto è che troppo spesso
noi ragioniamo per compartimenti stagni. Anche le norme spesso ci inducono a farlo. La tutela, la
valorizzazione, la ricerca sono campi tutti strettamente connessi e non possono che essere trattati in
maniera interrelata, perché non c'è tutela senza conoscenza e dunque ricerca; ed è forse inutile la
tutela se non c'è la valorizzazione. Pensando soprattutto ai luoghi che sono patrimonio dell'umanità,
se rimangono luoghi chiusi, se diventano luoghi non fruibili, in fondo si può dire che sono luoghi non
tutelati. Talvolta ci sono dei controsensi con cui noi ci dobbiamo confrontare. Uno di questi, e che
spesso i nostri funzionari hanno portato avanti, è avere una gestione troppo chiusa del patrimonio,
come se fosse proprietà privata: un comportamento che non si può concepire, e chi lavora
nell’amministrazione ha il dovere etico di combatterlo.
***
Quello che si vede in alto è lo schema del Grande Progetto Pompei che permette di comprendere la
sua articolazione in piani: 105 milioni di euro complessivi, di cui la maggior parte – circa 86 milioni
– erano destinati ai lavori di restauro e messa in sicurezza – perché ovviamente la tutela era il punto
di partenza – e poi ad una serie di altri piani. Tra questi, il Piano della conoscenza, con la
documentazione a tappeto di tutto secondo una metodologia assolutamente contemporanea, che
sfruttava l'avanzamento delle scienze informatiche e delle metodologie di documentazione che vanno
dal drone, al laser scanner, alla fotogrammetria. Pompei è stata dunque documentata a partire da una
nuova pianta in scala 1:50 – laddove noi lavoravamo su scala 1:500, che non era adeguata per
registrare ad esempio gli intonaci murari – che è diventata la base di questo piano della conoscenza,
permettendo di creare un enorme archivio informatizzato webGIS, molto complesso. Data la
complessità, avevamo preso a contratto un esperto di GIS per formare i nostri funzionari a utilizzarlo.
Poi mi sono accorto che non lo usavano: era così complesso che spesso i funzionari lavoravano sulle
piante precedenti. Da qui abbiamo capito che, anche il progetto più utile e ambizioso, deve tener conto
delle difficoltà con cui si misura quotidianamente una struttura organizzativa. Da qui la nostra
prossima sfida: rendere il sistema più friendly. Una cosa analoga successe anche nell'80, subito dopo
il terremoto: l’allora soprintendente Fausto Zevi aveva dato avvio ad un progetto pioneristico di
informatizzazione, creando delle schede informatiche relative allo stato di conservazione del sito.
Purtroppo questo enorme lavoro non è stato mai usato, al punto che quando io sono arrivato non se
ne aveva traccia, non si trovava. Fausto Zevi, che negli anni della mia soprintendenza era presidente
GREAT
POMPEII
PROJECT
THE PUBLIC WORK PLAN
€ 85.000.000
COMUNICATION AND ENHANCEMENT OF
CULTURAL HERITAGE PLAN
€ 7.000.000
SAFETY ENHANCEMENT PLAN
€ 2.000.000
THE KNOWLEDGE PLAN
€ 8.200.000
CAPACITY BUILDINGENHANCEMENT PLAN
€ 2.800.000
The Great Pompeii Project is
an integrated program of
actions and interventions
aimed at halting the decay of
Pompeii and creating the
conditions for its permanent
conservation (programmed
maintenance).
The GPP is carried out with
the contribution of the
European Commission and
the resources of structural
funds (105.000.000 € ).
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degli “Amici di Pompei”, mi diceva che sarebbe stato importante ritrovare le schede, per confrontare
lo stato di conservazione: ma non se ne è trovata traccia. Finito il grande momento del terremoto che
aveva visto anche lì grandi forze in campo – funzionari che venivano da tutta Italia, un grande lavoro
di squadra che mi pare avesse visto anche in quel caso la presenza dei Carabinieri o dell'Esercito – si
è tornati all'ordinario, e l'ordinario ha significato dimenticare tutto quello che era stato realizzato. Un
errore fatale che potrebbe verificarsi nuovamente a Pompei. Per evitarlo, contiamo molto sulla forza-
lavoro impiegata e, soprattutto, sulla motivazione. Oltre al Piano della conoscenza, il progetto
includeva un Piano della capacity building, per il rafforzamento delle capacità gestionali della
struttura, in parte fatto con la società Ales. In questo caso abbiamo preso personale amministrativo
per affiancare i vari uffici in sofferenza, che andavano a rilento o il cui personale non era abbastanza
aggiornato in relazione, ad esempio, a tutti i cambiamenti del Codice degli Appalti o alle novità che
spesso affiorano nel mondo dell'amministrazione. Oltre al Piano per la Capacity Building, il progetto
includeva un Piano della sicurezza: nuova videosorveglianza – anche all'interno dell’area laddove
non c'era prima – realizzata in collaborazione col Ministero degli Interni, nuova recinzione e nuova
illuminazione perimetrale. E poi un Piano della comunicazione e fruizione, di cui accennerò, che è
fondamentale in un luogo come Pompei che l'anno scorso ha chiuso con un aumento ulteriore dell’8%
dei visitatori sfiorando i 3,8 milioni. Da quando monitoro il cambiamento, cioè da quando nel 2014
siamo arrivati io e il Gen. Nistri, adesso i visitatori sono saliti di oltre un milione, passando da due
2,5 milioni a 3,5 milioni nel 2017, a 3,8 milioni l'anno scorso: una cifra notevole con cui confrontarsi
e che richiede, ancora una volta, di avere una visione rispetto a cosa voglia dire far funzionare una
città come Pompei. Pompei è frequentata quotidianamente da migliaia di persone con picchi anche
intollerabili. Durante una domenica gratuita che ha avuto 40.000 visitatori ho per esempipo deciso di
inserire un numero chiuso parziale: in questo modo se a mezzogiorno si erano raggiunti i 15.000
visitatori, l’area veniva chiusa fino alle due e poi la si riapriva in modo da consentire il deflusso dei
turisti della mattina e accoglierne di altri, senza mandare via alcun visitatore.
***
Ora parliamo dall'aspetto della tutela cercando di capire come non possa che essere coniugata alla
ricerca e alla valorizzazione.
6
Uno dei lavori più complessi che sono stati portati avanti e che si stanno chiudendo proprio in questi
mesi è quello evidenziato in celeste nella pianta. Si tratta del lavoro di messa in sicurezza delle
regiones 1 e 2, laddove tutte le altre regiones la 6 la 7 la 8 la 4, 5 e 9 erano state già completate. Che
cos'è la messa in sicurezza? Questo è uno degli aspetti che, per iniziare a ragionare in maniera seria
sulla tutela di Pompei, andavano affrontati. A Pompei non era più possibile continuare con singoli
restauri di un'insula, di una casa, magari distribuiti in vari punti senza una sistematicità. Andava
assolutamente fatto un intervento di manutenzione straordinaria – che era quello che era mancato per
tanto tempo – e quindi mettere in campo tutta una serie di forze per evitare l'ulteriore perdita di materia
archeologica.
VI
VII
VIII
IV-V-IX
I-II-III
The Work Plan
Six works tenders were launched by february 2014 for the extraordinarymaintenance and safety works on the Buidings of the entireexcavated town
The Consolidation and Restoration Works Implementation Plan: it provides the fulfilment of 39 projects which concerns the mitigation of hydrogeological risk, consolidation of masonry and restoration of decorative surfaces.
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Qui si vede come il punto di partenza era disastroso, bisogna veramente dirlo. Laddove le aree aperte
al pubblico erano tutto sommato in buono stato, le zone chiuse al pubblico – spesso dai tempi del
terremoto dell'80 – erano in una situazione veramente fatiscente: coperture crollate e mai rimosse,
vegetazione che con le radici creava grossi problemi alle strutture; addirittura domus usate come
deposito da ditte poco accorte che le usavano per scaricare rifiuti. Poi c’era soprattutto un degrado
diffuso ovunque: reti di plastica ormai fatiscenti, cartelli no entry che davano un senso di precarietà
quasi apocalittica, lacune nei paramenti murari, malte ormai impoverite e che non erano più coerenti,
intonaci che si staccavano. Alla luce di questo si è concepito un lavoro complesso che è partito
innanzitutto da un monitoraggio sistematico, fatto da 20 giovani cooptati per l’occasione. Molto del
lavoro era stato già fatto prima che arrivassi io dalla soprintendente che mi aveva preceduto, Teresa
Cinquantaquattro, sotto la quale tutto l'aspetto del monitoraggio era andato avanti per quasi tutte le
regiones, ad eccezione appunto delle regiones 1 e 2. Un lavoro meritorio che aveva fornito lo stato
dell'arte da cui si è partiti per definire un progetto che implicava integrare le lacune murarie, fare
bauletti sulle sommità dei muri laddove era necessario, dare consistenza con materiali compatibili
alle malte antiche ormai completamente sfarinate e poi, soprattutto, ragionare sulla statica di questi
edifici. In passato, per esempio, erano stati molto usati puntelli provvisori per sostenere i muri: questi
però invadevano le strade creando inoltre tutta una serie di problemi, per esempio legati alla non
percorribilità delle strade.
Safety works on the entire s ite (situation in 2013)
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Qui (si vedano foto) faccio vedere lo stato delle cose prima e dopo la cura: come si vede da un lato
c’è il Vicolo delle Pareti Rosse tutto ingombro di puntelli; poi dall'altro lato il Vicolo dopo la cura.
Che cosa si è fatto qui? Per esempio con i nostri ingegneri della segreteria tecnica – ce ne era uno in
particolare molto strutturato e cooperativo – ci si è inventati dei tiranti, posizionati all’interno di
un'area che non era visitabile perché priva di interesse dal punto di vista archeologico e architettonico.
Questi tiranti, tenevano dall'interno il muro che era ormai irriducibilmente fuori piombo. Ne
assicuravano la statica e permettevano di percorrere la strada liberandola da questo degrado. In
generale tutte le forme di sperimentazione sono state fatte in un clima favorevole anche al dibattito e
alla ricerca. Faccio un altro esempio: le colonne a Pompei sono state, nel passato, purtroppo tutte
bucate per inserirvi all'interno elementi metallici i quali, ossidandosi, hanno ovviamente creato
scompensi. Anche in questo caso è stato necessario avviare prima dei progetti di ricerca, per trovare
la soluzione, imparando anche a comprendere i propri limiti e aprirsi agli altri. In questo senso
abbiamo fatto una serie di convenzioni con altre istituzioni dove ricercatori internazionali, in questo
caso quelli del Politecnico di Boston, avevano avviato ricerche specifiche sulla statica delle colonne,
monitorandole anche rispetto a ipotetici terremoti. Lavorando con loro abbiamo trovato insieme, alla
fine della ricerca, una molteplicità di soluzioni per salvare queste colonne che altrimenti andavano
smontate, considerando che la materia archeologica in molti casi era davvero compromessa. In alto a
sinistra c'è il Vicolo di Tesmo che, come si vede, non aveva più i basoli, i quali erano sparsi ovunque.
Lì, per esempio, era caduta una bomba nel ’43, quando Pompei fu drammaticamente bombardata.
Con 150 bombe sganciate fra il 24 agosto e il 13 settembre Pompei visse un’esperienza devastante,
un episodio che si dimentica spesso, laddove invece si ricorda Cassino. Anche se tra il ’43 e il ‘48 le
attività di Amedeo Maiuri furono volte a ricostruire, in quel caso la situazione è rimasta così, con i
basoli ovunque. Per cui lì c’è stata la necessità di avviare ricerca d'archivio e poi una attività di
ricomposizione. Una volta che i blocchi sono stati catalogati e rinumerati, si è provveduto a
ricomporre il tessuto stradale: e a differenza dei restauri precedenti stavolta ogni intervento è stato
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documentato. E qui vengo ad un altro dei problemi drammatici per i nostri luoghi della cultura: la
mancanza di archivi sistematici. Non che non ci sia la documentazione. È semplicemente dispersa in
mille rivoli, nelle cartelle che ogni RUP e ogni funzionario ha, senza un archivio organizzato in
maniera informatica. E siccome spesso è difficilissimo recuperare informazioni sui restauri
precedenti, il Piano della Conoscenza ha previsto la realizzazione di un archivio informatico dove
confluiscono tutti gli interventi, anche quelli di manutenzione ordinaria, in modo che ci sia un
monitoraggio continuo e dinamico dello stato di una struttura o di un manufatto architettonico. Anche
la riapertura delle strade per restituire a Pompei la sua dimensione urbana è stato uno degli aspetti più
interessanti del progetto. L’avevano capito già gli eruditi del ‘700: Scipione Maffei alla scoperta di
Ercolano disse: “Oh qual gran ventura scoprire non l'uno o l'altro dei monumenti, ma un'intera città!
correrà qui tutta Europa a vedere.” Aveva ragione. Per cui bisognava riaprire le strade eliminando il
degrado, eliminando puntelli e risolvendo i problemi statici delle strutture che affacciano su queste
strade. Questo significava anche avere la possibilità di poter gestire la pressione antropica di un
turismo crescente: riaprire buona parte dei 44 ettari visitabili e costruire degli itinerari ad hoc
attraverso un piano di valorizzazione pensato in funzione dell'apertura di case distribuite in tutta
l'area, e non solo lungo Via dell'Abbondanza, potrebbe consentire una diversa gestione della pressione
antropica, già piuttosto evidente, sul sito. A questo proposito porto un esempio: confrontando, qualche
tempo fa, le foto Alinari di inizio ‘900 della casa del Fauno con la situazione attuale, abbiamo notato
che i pavimenti dell'atrio in cocciopesto sono praticamente del tutto consumati. È quindi chiaro che
lì c'è bisogno di ampliare l'offerta – per fare in modo che i turisti si distribuiscano in un’area più
ampia – e di concepire strutture di protezione – per esempio passerelle trasparenti progettate ad hoc
– che diventino veri e propri itinerari in grado di consentire la visita senza compromettere l’equilibrio
della struttura.
In quest’ottica, una delle esperienze in cui abbiamo voluto coniugare l'aspetto della tutela con quello
della valorizzazione è il progetto “Pompei per tutti”. Partito come un progetto per i diversamente abili
– perché a Pompei camminare sui basoli antichi, sconnessi, spesso anche compromessi delle bombe
non è una cosa facile – è diventato poi un progetto aperto a tutti: mamme e papà con passeggini,
bambini piccoli, persone che hanno difficoltà a deambulare. Il progetto ha permesso di creare itinerari
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percorribili da tutti che si snodano in tutta l’area per circa 3 km. Questi itinerari permettono di
superare tutte le barriere architettoniche grazie a superfici riconoscibili e piane, consentendo di
visitare i maggiori e principali monumenti, in sicurezza: pensate che gli infortuni sono diminuiti del
40%. Per la realizzazione del progetto sono stati ovviamente scelti percorsi dove non c'erano i basoli;
e per la realizzazione dei marciapiedi i progettisti si sono confrontati con un team multidisciplinare.
Ciò ha permesso di scegliere materiali compatibili – cioè materiali che erano già usati nelle
architetture locali, come la pozzolana per esempio – e colori neutri, non dirompenti rispetto a un
immaginario della rovina che va parimenti preservato. Questo lavoro di messa in sicurezza del tessuto
stradale, ha interessato anche aree in cui sono presenti case che ormai hanno perso l’apparato
decorativo – pitture, mosaici, ecc. – e pertanto non è neanche interessantissimo visitarle. Avere però
riaperto tutte queste strade ha cambiato profondamente l'immagine di Pompei.
Parallelamente alla messa in sicurezza, sono stati fatti restauri veri e propri su circa 30 case ed edifici
selezionati in tutta l'area di Pompei: in arancione sono evidenziati gli edifici dove le gare e/o i lavori
sono attualmente in corso; in rosso e in blu sono evidenziati i lavori già finiti (in blu erano quelli che
sono stati fatti contemporaneamente su finanziamento ordinario), trattandosi di case su cui si è
lavorato per prime essendo state segnalate dagli ispettori Unesco. A proposito degli ispettori Unesco,
questi erano venuti due volte e non avevano avuto soddisfazione nel vedere le case nella stessa
identica situazione. Dopotutto non ci voleva molto a dare dei segnali di cambiamento. Appena arrivati
noi, nonostante ci fosse una gara in corso abbiamo fatto almeno il minimo. In corrispondenza del
crollo di un oecus, con un piccolo affidamento abbiamo perlomeno eliminato il degrado più evidente,
in modo da far vedere che si stava intervenendo.
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Invece per i casi come quello della casa di Sirico si è intervenuti con un progetto decisamente più
ambizioso. Questa era una di quelle situazioni segnalate come maggiormente critiche: l’atrio era tutto
puntellato, transennato, e non era assolutamente percorribile (qui si vede prima e dopo gli interventi).
Ma ci sono anche situazioni ben più drammatiche: la casa del Marinaio per esempio era in pieno
abbandono, con addirittura gli infissi risalenti al Maiuri ormai divelti e lasciati per terra, muschi
dovunque, e le tessere dei mosaici ormai saltate. Sembrava impossibile procedere ad un ripristino.
Con un intervento assai complesso, invece, i mosaici sono stati tutti recuperati e si è potuto riaprire
al pubblico lo spazio. Anche qui era caduta una bomba. Ma in questo caso si è avuta l'occasione di
fare nuove ricerche. Scavando il cratere della bomba si è potuta vedere la stratigrafia precedente
all’eruzione e risalire alle fasi preromane di Pompei. Come detto in precedenza, il restauro anche in
questo caso è stato concepito come un momento per fare ricerca. Fare ricerca archeologica significa
fondamentalmente avere a che fare con attività di scavo: per capire come restaurare un edificio
bisogna capire se un muro appartiene ad una fase o ad un'altra, se una struttura è di una fase o di
un'altra.
Nel complesso di Championnet, per esempio, si partiva da una situazione esattamente di questo
genere. Case anche qui chiuse al pubblico e assolutamente fatiscenti, per riaprire le quali si è partiti
da un lavoro di ricerca e scavo, cui ha fatto seguito una discussione sulla progettazione di coperture
sperimentali. Questo fu un progetto fatto dai funzionari interni, quelli che erano arrivati a Pompei e
facevano parte dei 20 con la legge speciale: persone con molte capacità (adesso purtroppo molti di
loro sono tornati nelle loro sedi di origine) con cui abbiamo sperimentato, per esempio, una copertura
in materiale nuovo, il Corian, mai stato usato in area archeologica. Si tratta di un materiale leggero e
lavorabile a caldo, con cui si possono creare delle sagomature eleganti e soprattutto, essendo leggero,
permette di essere appoggiato su murature senza creare piloni invasivi, mantenendo una spazialità
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interna più compatibile con quella antica. Rimanendo nel solco del connubio tutela, ricerca e
valorizzazione, una operazione che si è deciso di fare è stata quella di riconsiderare i contesti e,
soprattutto, riconsiderare i materiali che vi appartenevano, riportandoli “in contesto”. Le case sono
diventate dei piccoli musei.
Quella che si vede in alto è la Casa di Championnet dove ai piani inferiori sono state riallestite le
cucine. Nei piani superiori, dove c'erano due cabine elettriche che sono state ovviamente bonificate,
sono state create due piccole stanze museo dove sono stati esposti i materiali che provenivano dai
magazzini. L’assurdo è che materiali come questi si vedevano in mostre di tutto il mondo, da Sydney
a Seul, tranne che a Pompei. Bisognava quindi creare dei luoghi di esposizione: e quale miglior luogo
se non il loro contesto! Per cui abbiamo tirato fuori dai magazzini il plastico dell'800 che mostrava
com’era la Casa al momento degli scavi, e poi anche quello che era venuto fuori dagli scavi,
aggiungendo l’apparato didascalico che permetteva anche al turista di capire le fasi complesse di
questo edificio.
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Poi, uno degli aspetti sicuramente più complessi che ancora impegna i funzionari a Pompei è il
progetto di messa in sicurezza dei fronti di scavo che riguarda tutta un'area che si estende per 66 ettari,
di cui 22 non scavati e 44 scavati, dove le aree di confine fra scavato e non scavato – che corrisponde
all’area laddove si è arrestato lo scavo dell'800 – sono di una criticità incredibile. Questa era una
progettualità originariamente non inserita nel grande progetto. Con il Gen. Nistri tuttavia se ne è
compresa la strategicità e si è deciso di mandare a gara la progettazione preliminare – realizzata con
risorse interne nonostante fosse un progetto molto complesso – chiedendo alla ditta che ha vinto
l’appalto – allora si poteva fare – di realizzare il progetto esecutivo. Quella che si vede è la situazione:
tutto il materiale vulcanico – 5 metri di lapilli e flusso piroclastico – aveva subito uno smottamento e
in alcuni punti – soprattutto le zone di confine – aveva provocato il crollo dei muri antichi, che erano
i muri delle facciate delle case su cui tutto questo materiale vulcanico premeva.
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Si è dunque deciso di partire con un progetto particolarmente ambizioso: in bianco e in giallo sono
evidenziate le aree non scavate sottoposte ad intervento perimetrale di messa in sicurezza e
stabilizzazione. Il progetto ha comportato l’eliminazione della vegetazione, ormai secolare, che si era
accumulata e anche la creazione di un profilo del pendio che viene ad essere inclinato fino a
raggiungere i 30 gradi in modo da non avere una massa incombente di materiale. Tutto questo è
ovviamente staccato dai muri, perché lì poi si inserisce una gabbionata fra il pendio e la struttura e
poi tutto questo viene rivestito da una geostuoia rinverdita che darà un aspetto anche omogeneo e
gradevole. Questa è stata una straordinaria occasione di ricerca per Pompei. A proposito di questo,
consentitemi di spendere delle parole sulla necessità della ricerca: in particolare vi farò vedere anche
un esempio di ricerca che mi sembra particolarmente interessante per un’area archeologica.
***
A Pompei si è spesso detto che non bisogna più scavare perché si è scavato moltissimo: è vero,
soprattutto negli anni ’50. Nel dopoguerra, dopo le ricostruzioni post-bombardamento, gli anni ‘50
hanno rappresentato anni di scavo selvaggi, laddove quelli degli anni ‘20/’30 sono stati accortissimi:
tutti pubblicati con piante, accompagnati da progetti di allestimento modernissimi e con una
sensibilità al restauro e alla valorizzazione degni di nota. Mentre si scavava si ricostruivano gli alzati
– i resti dei secondi piani – e contemporaneamente si pensava al progetto di fruizione: veramente
encomiabile, al punto che su molte case abbiamo proprio ripreso parte dei loro allestimenti storici.
Negli anni ‘50 si iniziò a scavare in maniera forsennata anche per una ragione ben precisa: Cassa del
Mezzogiorno, grandi finanziamenti per la costruzione dell’autostrada Napoli-Reggio Calabria che
necessitava di lapilli per la bonifica delle zone più incoerenti e paludose. Questi scavi, che venivano
condotti senza un team avveduto ed organizzato come quello che abbiamo adesso – c’era un solo
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funzionario archeologo con la formazione degli anni ‘50 e centinaia di operai –, oltretutto senza
documentazione e non metodologicamente corretti: erano cioè veri e propri sterri. Per questa ragione,
di quegli anni noi abbiamo purtroppo pochissimo. E non è andato meglio dopo, quando negli anni
‘80 si è scavato – scavi ben più ridotti – con i fondi FIO. Anche quelli sono rimasti tutti inediti: non
c'è nulla e spesso è anche difficile recuperare la documentazione in archivio. È chiaro come alla luce
di queste esperienze negli anni ‘80-‘90 si sia deciso che non bisognava più scavare a Pompei: perché
bisognava sistematizzare tutto il pregresso e, soprattutto, bisognava pensare alla manutenzione.
Perché proprio ora si è ripreso a scavare a Pompei? Non si è iniziato a scavare per mero desiderio di
conoscenza e ricerca. Si è iniziato a scavare perché si doveva scavare, perché in quelle aree non
scavate nell'Ottocento spesso erano rimasti degli strani cunei, delle penisole di non scavato che
creavano fronti di scavo con crolli ovunque. Il problema non era non scavare. Il problema era dove
scavare, perché scavare e come scavare. Cambia completamente la prospettiva: la ricerca deve essere
sempre coniugata alla tutela, lo ribadisco visto che è il tema della giornata.
***
Ora vi faccio vedere questo scavo, impostato proprio come un vero e proprio cantiere di ricerca,
facendo sempre attenzione agli aspetti di fruizione. Tutto questo è la teoria, naturalmente. Perché
anche questo è stato un progetto complicatissimo, in quanto dietro a ogni progetto ci sono esseri
umani con le loro difficoltà e le loro paure, il che può provare interruzioni, discussioni e malumori.
Il progetto ha portato a scoperte di grande rilievo, reperti conservati in una maniera straordinaria di
fronte ai quali si pone un serio problema di tutela che io, quando ero a Pompei, non avevo ancora
affrontato ma che andrà fatto: cosa fare delle pitture che rimangono a ridosso del nuovo fronte di
scavo? Saranno parzialmente interrate dalle gabbionate e poi non saranno mai fruibili? In questo caso,
mentre i miei funzionari archeologi urlano dicendomi che non è possibile staccare, io sarei per
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staccare il manufatto, soprattutto laddove i restauratori ti dicono: “questo, lasciato così, anche coperto,
in vent'anni lo perdi”. Allora, a mali estremi, estremi rimedi: su questo bisogna essere duttili. In
generale siamo tutti convinti che bisogna mantenere i manufatti in situ, ci mancherebbe, però non si
può essere ciechi di fronte a quello che può significare mantenere in situ a tutti i costi una pittura se
poi si corre il rischio di perderla. Ci sono casi in cui, poi, decidere di conservare un manufatto in situ
talvolta implica che bisogna scavare tutta la stanza. E scavare tutta la stanza non comporta soltanto il
trovare risorse aggiuntive, bensì spostare più indietro il pendio, cambiando il progetto in maniera
significativa: cosa che non si può fare, soprattutto se si tratta di fare varianti ai progetti europei.
Nel caso che si vede sopra, per esempio, dato il livello elevato delle pitture si è deciso di scavare. Qui
si vede Leda col cigno, un ritrovamento che ha avuto anche un suo riscontro mediatico: Leda era
proprio sotto il pendio. A seguito di uno sgrottamento è venuta fuori la gamba di Leda. Era un dipinto
di così alto livello che si è deciso di scavare almeno questa parte della parete. All’inizio si era pensato
di staccare il quadro, ma sarebbe stato un peccato; per cui si è invece deciso di scavare tutto il
cubicolo, che ha permesso di portare alla luce una decorazione incredibile. Poi si è dovuto scavare
dietro, ed è venuto fuori parte dell'atrio con pitture di grande livello: un altro pannello dipinto con
Narciso e una parete di quarto stile conservata benissimo – doveva essere stata fatta poco prima
dell'eruzione. Qui si è deciso di lasciare tutto a vista – ovviamente realizzando delle coperture a
protezione degli affreschi – perché tra l'altro affaccia proprio sulla via di Vesuvio ed è quindi possibile
vedere tutto dalla strada. Lungo le vie scavate è venuta fuori ovviamente tutta la quotidianità
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pompeiana, che rappresenta anche una delle cose più toccanti. Penso alle iscrizioni elettorali – che
saranno lasciate a vista ma dovranno essere protette – che erano ovunque e che ci fanno capire
com’era Pompei e, in fondo ci fa capire come venne fuori Pompei nell’800 e negli scavi degli anni
’10 e ’20. Queste case, alcune intonacate e altre no, danno infatti la dimensione work in progress
continuo di una città che aveva subito vari terremoti. Altra cosa incredibile è che nella cenere indurita
sono rimaste le impronte delle strutture.
In questo caso l'ingresso di una bottega con l’impronta della porta ancora nella cenere e soprattutto
all’interno dell'impronta gli elementi metallici conservati: la serratura, le cerniere, ecc. In certi casi si
pone un problema di conservazione incredibile da affrontare: come si conserva un pane di terra con
le impronte? Non è facile: occorre sperimentare. E queste sono cose che non vengono fuori
quotidianamente in uno scavo. In questo, Pompei ha una sua specificità che va preservata e vanno
trovate tecniche di conservazione per questo tipo di sfide.
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Altra situazione che il progetto richiede di affrontare: scavando l'interno di un termopolio è venuto
fuori questo bancone, con sopra tutta la massa vulcanica. Che si fa? Il progetto prevede che ci si fermi.
Io sarei per scavarlo perché questo bancone stupendo, con questi due registri – da un lato quello aulico
con una nereide citarista e un cavallo marino con sfumature di colori notevole, e dall'altro lato la
rappresentazione stessa della taberna con le anfore così come sono state trovate, addossate al bancone
e con tutti i recipienti sopra – rappresenta un contesto di grande rilievo che andrebbe sicuramente
preservato e aperto al pubblico. Un altro degli aspetti che vanno tenuti in conto in questo scavo e per
cui io credo che sia fondamentale scavare oggi a Pompei è il seguente. La Pompei non scavata è
composta da 22 ettari. Lo scavo che stiamo realizzando riguarda circa mezzo ettaro, eppure le scoperte
che stiamo facendo sono assolutamente straordinarie e non inficiano né futuri scavi, né la
preservazione di questi 20 ettari ancora conservati. Stiamo di fatto lavorando su di una estensione
molto ridotta ma con risultati straordinari: perché abbiamo tecniche di scavo più adeguate del passato
e, soprattutto, abbiamo tecniche di documentazione migliori, dove l'informatica ci permette di creare
dossier che saranno disponibili per le prossime generazioni e sarà ben diverso di studiare questi scavi
rispetto a quello che facciamo noi con quelli precedenti, dove sì e no abbiamo delle foto d'archivio.
***
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In questo progetto tutto viene documentato con fotogrammetria, laser scanner e drone che
settimanalmente fa il rilievo sistematico dello scavo.
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Come si vede qui, tutta la documentazione è interattiva e informatizzata, per cui esiste una enorme
mappa GIS che comprende al suo interno tutta la documentazione disponibile, con ricostruzione degli
strati in 3D: per cui diventa veramente facile, sia per un vulcanologo sia per un archeologo, recuperare
tutte le dinamiche dell'eruzione. A proposito di vulcanologi, ovviamente nel team che ha seguito il
progetto di scavo, come potete immaginare, ci sono anche geologi e vulcanologi. A tal proposito c’era
già in essere a Pompei una convenzione di ricerca grazie alla quale abbiamo cooptato, in maniera
gratuita, anche un team di vulcanologi che sono stati presenti quotidianamente sullo scavo, anche per
non perdere niente della documentazione che poteva essere recuperata. Grazie a questa
collaborazione, oggi è possibile documentare tutte le 18 ore di pioggia di lapilli che aveva cominciato
a coprire tutta Pompei nella prima parte dell'eruzione.
Guardate questa stratigrafia: lungo la via, cosiddetta dei balconi che abbiamo scavato ex novo,
troviamo in basso la pioggia di lapilli – tra l’altro con i due grandi strati, le pomici bianche e le pomici
grigie – con sopra una netta cesura. Il momento in cui finisce la pioggia di lapilli iniziano ad arrivare
le correnti piroclastiche, cioè le nubi vulcaniche con ceneri, gas e materiale eruttivo che a ondate
progressive e velocissime travolgono la città. In prima battuta le correnti si fermano alla campagna.
Poi le altre iniziano ad entrare in città e distruggono tutto quello che emergeva ancora dallo strato di
lapilli. E gran parte delle vittime di Pompei sono quelle sorprese mentre cercavano di uscire dai primi
piani delle case e che sono stati raggiunti dal flusso piroclastico mentre correvano su 3, 4 metri di
lapilli. Una situazione drammatica, come potete immaginare: e questo è uno di quei casi dove la
ricerca diventa fondamentale.
***
Solo di recente a Pompei, ma anche altrove, si è iniziato a considerare l'importanza documentaria dei
resti ossei e del problema etico che essi portano con sé, che riguarda il come trattare i resti umani che
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non è cosa da poco. A Pompei e Napoli organizzeremo a maggio, in collaborazione con il museo
Egizio di Torino, un convegno sulla questione etica del trattamento dei resti umani: come si scavano,
come si documentano, come si conservano e come si espongono. Non è una cosa scontata. Noi siamo
abituati perché abbiamo una tradizione – a partire dalle catacombe – di mostrare il corpo umano
decomposto, gli scheletri, ecc. In altre aree del mondo no. In Australia addirittura inorridiscono per
il nostro modo di presentare anche i calchi. Questo ha a che vedere con il fatto che lì esiste un'altra
tradizione di ricerca e un'altra etica che si confronta con il loro problema di come trattare le ossa degli
aborigeni, di come strutturare musei etnologici ecc. Noi, al contrario, dobbiamo porci questo tipo di
domande: perché i resti umani rappresentano una documentazione straordinaria per la conoscenza di
una città antica. È così che abbiamo cominciato, non solo grazie alla nostra antropologa, una ricerca
osteologica potenziando anche il laboratorio di ricerche applicate, che ci permette di svolgere in loco
tutta la prima fase delle indagini. Poi, grazie ad una convenzione con un istituto di Firenze per le
analisi del DNA, completiamo l’iter di ricerca e il tutto ci restituisce una documentazione incredibile
che, grazie al contesto, ci restituisce anche delle biografie – perché di una persona siamo in grado
anche di ricostruire età e patologie.
Nel caso che si vede, abbiamo appurato che si trattava di un soggetto claudicante e, quindi, si spiega
il motivo per cui non era uscito di casa in tempo. La ricerca ci dice inoltre il genere, oltreché lo status:
perché dai denti, che costituiscono veramente un elemento fondamentale per la biografia, si ricavano
tantissimi dati se li si contestualizzano. Se questi dati poi li si incrocia con ciò che ciascuno portava
con sé – ci sono matrone ricoperte di gioielli, c’è chi si portava appresso il sacco con l’argenteria, chi
portava un sacchetto sul cuore con dentro la chiave di casa e poche monete d'argento e di bronzo, che
sono l'equivalente di un mezzo stipendio di una famiglia medio bassa – emergono aspetti anche
toccanti. Vedere esposte all’interno della vetrina di un museo tante “chiavi di casa” organizzate
tipologicamente e tassonomicamente, queste ti dicono qualcosa fino a un certo punto. Qui invece
anche gli oggetti hanno una biografia e per Pompei questo credo sia fondamentale. È importantissimo
comprendere la biografia degli oggetti prima di poterli esporre, e per farlo c'è bisogno di una
competenza seria da parte dei curatori.
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In questo caso, c'è tutta un’altra vicenda da considerare. Per quanto riguarda questi resti, non
riuscivamo a trovare il teschio. Pensavamo che durante il flusso piroclastico un blocco l’avesse
colpito e ammazzato. Dalle analisi è invece venuto fuori che il soggetto molto probabilmente è morto
per asfissia, o per shock termico. La testa era precipitata 2 metri più in basso, all’interno di un cunicolo
di scavi clandestini – un fenomeno incredibile che non era mai stato documentato – e l'abbiamo
trovata un mese dopo. Il tema degli scavi clandestini è davvero fondamentale a Pompei. Laddove gli
scavi autorizzati sono quelli che cominciano nel 1748 sotto i Borbone, di quelli non autorizzati, a
Pompei ve ne sono tracce ovunque. Le pareti delle case presentano spesso dei buchi, degli squarci. Si
è spesso pensato che fossero i fossores, cioè abitanti di Pompei tornati a recuperare cose nelle loro
case dopo l’eruzione; oppure si pensava ai lavori della commissione Restituendae Campaniae che
l'imperatore Tito mise su per cercare di salvare il salvabile. Nella maggior parte dei casi, abbiamo
capito, si tratta di scavi clandestini fatti da chi aveva intuito – lavorando per caso il terreno per
costruire un pozzo o altro – che sotto lo strato vulcanico potevano esserci tesori da razziare. Fatto sta
che grazie a questi nuovi scavi, è venuta fuori la pervasività delle indagini clandestine che,
evidentemente, sono cominciate subito dopo l'eruzione e sono continuate fino al 1748.
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Ora torniamo alle analisi del DNA. Grazie a quelle abbiamo la possibilità di capire, tra le altre cose,
anche la composizione dei gruppi familiari. Ad esempio, in una delle case che abbiamo sondato è
venuto fuori un contesto piuttosto sconvolto dagli scavi clandestini, credo seicenteschi. Nel caso di
specie il contesto è stato oggetto di un saccheggio selvaggio, al punto che abbiamo trovato scheletri
scomposti. A scomporli, era stato in parte il crollo del tetto sotto il peso del flusso piroclastico che
aveva colto di sorpresa il gruppo di persone che si era rifugiato lì. Quando li abbiamo trovati, all’inizio
non capivamo cosa fosse accaduto. Era una scena apocalittica. Grazie alla nostra antropologa, però,
abbiamo ricostruito il contesto e abbiamo capito che erano resti di donne e bambini. Ora le analisi del
DNA ci diranno se erano schiavi o padroni, ed eventualmente quali rapporti di parentela avessero:
insomma, ne verrà fuori una biografia. Per rimanere in tema di trattamento dei resti umani, uno dei
progetti che abbiamo voluto inserire nel Grande Progetto Pompei riguarda il restauro, la catalogazione
e l’avvio delle analisi del DNA dei calchi. Come sapete tutti i calchi sono di fatto esseri umani e
pertanto non hanno il numero di inventario. Non avendo numero di inventario non sappiamo quanti
calchi ci siano in tutta l’area. Si aggiunga il fatto che una parte di essi – quelli bombardati nel ’43 –
erano stati fatti piamente depositare da Amedeo Maiuri all'interno di un deposito di una casa
pompeiana e lì dimenticati. Ad ogni modo, la cosa assurda era che ovunque si è parlato dei calchi e
ovunque si sono fatte mostre, prodotti cataloghi e altre pubblicazioni. Tuttavia nessuno si era più
posto il problema della materialità di questi calchi e della relativa documentazione d’archivio e
riflessioni di tipo scientifico. Così come nessuno si era più posto il problema di andare a cercare gli
originali dei calchi, che non fossero i soliti posizionati nel percorso di visita.
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Cosicché ad un certo punto, uno studioso americano ha pubblicato un libro sulle Pompeii's Living
Statues, cioè sui calchi fatti nell'Ottocento, dandoli tutti per distrutti nel bombardamento del ’43.
Invece c'erano tutti: tant'è che abbiamo avviato un’operazione di catalogazione e poi un’attività di
restauro che ha dato dei risultati straordinari, soprattutto perché abbiamo accompagnato il tutto con
una attività di ricerca: TAC per studiare gli scheletri, (perché all'interno dei calchi ci sono gli scheletri)
e poi analisi del DNA attraverso cui abbiamo sfatato anche alcuni miti.
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Per esempio c'era un gruppo di calchi rinvenuti negli anni ’70 nella Casa del bracciale d’oro, da
sempre considerato un gruppo familiare composto da padre, madre e due figli. Grazie all’analisi del
DNA è invece venuto fuori che i calchi degli adulti appartengono a due uomini, forse schiavi (un
articolo del Corriere della Sera uscito a margine di questa scoperta finì per argomentare, anche in
maniera simpatica, che si era di fronte alla prima famiglia arcobaleno della storia).
***
Ora vi mostro ora i risultati di questa ricerca.
A sinistra si vedono gli scavi dell'800, dove i fanciulli e i bambini venivano utilizzati per portare via
i cesti di lapilli. Si vedono inoltre gli scavi e quel cuneo, una sorta di penisola di circa mezzo ettaro,
che era rimasta non scavata dall'800.
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Rispetto all'estensione di Pompei, si vede sulla destra parte del plateau non scavato e l'appendice che
stiamo scavando. Quest’ultima è composta, in fondo, da queste poche decine di metri quadrati di
scavo, le quali però hanno portato alla luce cose davvero straordinarie. Considerate infatti che è stato
possibile scavare una via intera, Vicolo dei balconi, che in parte era stata oggetto di scavo nell'800,
in quanto era il bordo della Casa delle nozze d’argento.
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Si è cominciato lo scavo prima a partire da questa casa che abbiamo chiamata “col giardino”, perché
aveva un grande spazio destinato a giardino. Quì lavorando con la paleobotanica è stato possibile,
facendo i calchi delle radici, ricostruire anche la composizione stessa del giardino. Da un lato la casa
era abitata, dall'altro aveva due porzioni che erano in corso di ristrutturazione: il giardino e l'atrio
della casa. Qui si vede il portico: le pitture di questo grande triclinio affacciato sul portico con sia
scene mitologiche – una con Afrodite, Venere e Adone – sia scene realistiche, con la presenza di un
ritratto femminile con pettinatura alla Agrippina, forse risalente agli anni ’40.
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Una cosa interessante di questa casa è un’iscrizione che è stata rinvenuta e che è stata presa in
considerazione per spostare la datazione tradizionale dell'eruzione dal 24 di agosto al 24 di ottobre.
Si tratta di un indizio particolarmente importante perché rinvenuto nell'atrio della casa, che è la parte
pubblica per eccellenza. È la parte dove tutti entrano, dai clientes a tutti quelli che portano derrate. Si
consideri anche che era una porzione sottoposta a ristrutturazione: c'era una macina reimpiegata per
fare la calce, così come sui muri c’erano graffiti, anche osceni, e caricature. In alto a sinistra si vedono
dei volti di profilo, fatti a carboncino. Fra queste iscrizioni, ne abbiamo trovata una che riportava una
data, 16 k, che sta per kalendae nov, cioè 16 giorni prima delle Calende di novembre. Da qui è
scaturita una discussione - animata anche dai blog – che è durata finché non è intervenuta una docente
della scuola Normale di Pisa, Giulia Malnati, che ha dato una interpretazione che credo sia quella più
solida. Secondo l’interpretazione, l’iscrizione “in olearia proma sumserunt” seguita da una
cancellatura sta a significare che “nella cella olearia il 17 di ottobre hanno ingressato o preso”
qualcosa che è stato cancellato. Si trattava dell’appunto di qualcuno, probabilmente uno schiavo,
messo sulla parete insieme ai graffiti, alle caricature, come qualcosa che non era destinata a durare a
lungo. Qualcuno dice che potrebbe essere un’iscrizione risalente all'anno precedente: è difficile che
sia così. Difficilmente una casa abitata ha lavori in corso nell'atrio – lavori per ridipingere l’atrio –
che durino più di un anno. Motivo per cui credo che sia un buon indizio per confermare che l’eruzione
di Pompei è avvenuta in ottobre. Due mesi di differenza cambia molto per Pompei: uno, perché è una
delle date più celebri della storia e due, perché spiega tante anomalie.
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Un’altra delle altre particolarità su cui si sta molto lavorando a Pompei riguarda il patrimonio di
elementi organici, in relazione ai quali abbiamo iniziato anche una sistematica inventariazione e
catalogazione del materiale, dal pane ai frutti. Come si vede qui, ci sono a Pompei – come a Oplontis
– grandi quantità di melograni. La presenza di questi frutti ha sempre suscitato un po' di perplessità
circa la datazione estiva dell’eruzione. D’altronde bastava fare una ricognizione delle fonti. Cassio
Dione – l'altra fonte che oltre ai codici di Plinio parla dell’eruzione – dice che l’eruzione avvenne nel
φθινόπωρο, che in greco antico vuol dire l'autunno. Gli stessi codici pliniani riportano datazioni
diverse: alcuni riportano la datazione di novembre. Insomma, probabilmente la datazione suggerita
da Dione va ricongiunta a tutta una serie di altri dati. Già nel tardo ‘800 l’allora soprintendente
Ruggero aveva fatto un calco di una pianta di lauro che aveva delle bacche. In un suo celebre articolo
dell’epoca lui già sosteneva che la presenza delle bacche non poteva essere compatibile con una
datazione estiva dell’eruzione. Fino a qui vi ho fatto vedere la “Casa col giardino” che è quella sul
lato destro. Dall’altro lato abbiamo la casa cosiddetta “del mosaico di Orione” e rappresenta una delle
scoperte più straordinarie fatte in questi ultimi mesi, in quanto apre tutta una serie di riflessioni per la
conoscenza della Pompei preromana. Si tratta di una casa dipinta e ci fa capire come questo tipo di
abitazioni avesse facciate dipinte e pannelli in stucco, del cosiddetto primo stile in giallo e in bianco.
Tra l'altro abbiamo rinvenuto anche iscrizioni elettorali e graffiti di tutti i generi.
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Poi abbiamo la casa di cui abbiamo recuperato tutta la planimetria tranne quella che era stata già
scavata. Tutta la casa è del II secolo A.C., con fauces, atrio e impluvio. Aveva dei cubicula che
correvano tutt’intorno da un lato, mentre dall'altro lato c’erano ambienti di servizio con una scala che
portava ai secondi piani. La cosa interessante, si noti, è che nonostante alcuni cambiamenti apportati
successivamente, questa casa aveva mantenuto tutta la decorazione del suo primo stile, risalente al II
secolo A.C. Qualcuno, quindi, non aveva voluto rinnovarla, come era accaduto per la Casa del Fauno.
Probabilmente si trattava di una famiglia che aveva tradizioni antiche e, quindi, in questa casa
bisognava ricordare il mos maiorum.
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La casa aveva dunque pannelli in primo stile nell'atrio – con questi rossi, queste specchiature rosse e
nere conservate benissimo – e anche graffiti, ovunque, anche cancellati. Ce ne è uno che riporta una
offesa al padrone di casa, così come c'è una bella iscrizione che ci fa comprendere bene il livello di
apertura e di connessioni mediterranee e di multietnicità che si aveva al tempo, a Pompei. L’iscrizione
riporta un nome scritto in greco, Αϑήναις, e un nome scritto in latino, Balbus. Probabilmente Αϑήναις
è il nome di una schiava greca e Balbus è forse il nome del suo proprietario latino. La cosa interessante
è che questi due nomi sono insieme. La cosa forse sta ad indicare che c'era un rapporto fra i due.
Potrebbe trattarsi dunque di uno sfottò, che mette in risalto un tipo di rapporti che tra l'altro sappiamo
bene essere, al tempo, all'ordine del giorno. Una ricerca condotta dall’École Pratique e William Van
Andringa nella Necropoli di Nocera permette, attraverso lo studio delle ceneri rinvenute all’interno
di una tomba familiare di cui sono stati scavate e analizzate tutte le ossa, di ricostruire tutta la vicenda
di una famiglia, arrivata da fuori, in età augustea. La vicenda avrebbe a che fare con una schiava e un
pater familias. Poi si capisce bene che la schiava deve aver sposato il figlio tanto che nella tomba di
famiglia le ceneri della schiava sono mescolate, nell’urna, a quelle del figlio, come a sancire una loro
riunione. I graffiti, quindi, ci restituiscono uno spaccato incredibile della vita quotidiana.
***
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Un'altra cosa molto interessante su cui stiamo lavorando riguarda gli alzati dei primi piani delle case
di Pompei. Nella casa di cui stiamo parlando abbiamo ritrovato elementi di colonne del primo piano,
ma il primo piano è inesistente. In questo caso, grazie alla collaborazione con la collega Luisa Ferro
del Politecnico di Milano – tramite una Convenzione di ricerca – si sta lavorando alla possibile
ricostruzione degli alzati delle case che è una delle cose meno note a Pompei. Qui, oltretutto, viene
fuori anche una anomalia: la casa non ha l’impluvium. Potrebbe trattarsi di uno di quei rari atrii
testudinati citati da Vitruvio per i quali finora si è avuto grandi difficoltà nel rintracciarli e, soprattutto,
nel ricostruirli.
***
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Vorrei, infine, chiudere con questi mosaici che, oltre ad essere dei capolavori, sono veramente
interessantissimi per la storia della cultura del Mediterraneo in età ellenistica. Sulla pianta sono
evidenziati due mosaici. Quello a destra è un pavimento in cocciopesto con tessere marmoree che
dovrebbe risalire, anche questo, al tardo II secolo A.C.. La cosa da notare è che il mosaico viene
rispettato – anche a costo di creare uno sgradevole gradino per poter accedere in casa – quando, in
momenti successivi, il pavimento dell'atrio viene ristrutturato. Quello a sinistra, nell'altra stanza, è
realizzato con la stessa tecnica, quindi stessa bottega, e risale allo stesso periodo. Ora, è da notare la
stranezza delle due iconografie. Me ne sto occupando personalmente perché rappresentano veramente
un'incognita, non senza paralleli. Vi dico brevemente qual è stato il mio percorso. Una prima parte in
basso è verde e rappresenta un cobra. Poi c'è uno scorpione, di cui si vede la parte inferiore che emerge
dalla terra. Poi ancora una strana figura, un essere alato a cui un demone incendia i capelli
indicandogli l'alto. Infine, sopra, un erote che plana con un bellissimo scorcio. Sicuramente il modello
è tratto da una pittura ellenistica, forse di ambiente alessandrino, con influenze provenienti
dall’Egitto. Credo si possa parlare di Alessandria d'Egitto, perché nella biblioteca di Alessandria e
nel museo di Alessandria si lavorava moltissimo sul tema astrologico, sotto i Tolomei, recuperando
anche documentazione babilonese, assira, ecc. Al tempo si componevano opere come quella di
Eratostene, Catasterismi, cioè relative ai processi di metamorfosi di eroi in stelle. Il mosaico potrebbe
rappresentare la trasformazione in costellazione del gigante Orione, cioè la costellazione che ancora
oggi vediamo nei cieli invernali e che è una delle più luminose. Fonti antiche riferiscono che Orione
fosse una stella particolarmente luminosa, usata tra l’altro per orientare la navigazione. Orione dunque
è un personaggio noto anche ad Eratostene, che lavora ad Alessandria, o ad Arato, che lavora invece
nel III secolo presso la corte macedone di Antigono. Nel mito greco Orione è un bellissimo e
gigantesco cacciatore che, come tutti i cacciatori, è affetto da hybris, tracotanza. Orione afferma di
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voler cacciare tutte le bestie della terra e Gaia, la dea Terra, adirandosi fa sorgere uno scorpione
gigantesco, che lo ferisce mortalmente con il pungiglione. Quello che è interessante è che noi siamo
in grado di identificare questo personaggio con Orione grazie ad una serie di documenti che abbiamo
a disposizione, come l’Atlante Farnese a Napoli, con la prima rappresentazione di un globo celeste e
la rappresentazione delle costellazioni come se fossero viste dall'alto. Poi il codice Vaticano 1084, il
codice greco che riprende l’epitome dei catasterismi di Eratostene, i testi di Arato, ecc. A questo mito
è connesso anche quello dello scorpione dove Zeus, impietositosi per la morte di questo pur valente
eroe, trasforma sia Orione che lo Scorpione in costellazioni. Il personaggio raffigurato potrebbe essere
il proprietario, persona coltissima con legami nel Mediterraneo orientale, che potrebbe aver scelto
questa rappresentazione per un legame con il proprio oroscopo. Non lo possiamo sapere ma è
verosimile. Tutto questo ci permette di spiegare anche l'altro mosaico, purtroppo più danneggiato.
Anche qui siamo di fronte ad una iconografia piuttosto strana. Nel mosaico vediamo una farfalla
insieme ad un eroe. Si vedono le gambe e il braccio che al guinzaglio tiene delle bestie (una pseudo-
Chimera con il serpente sulla coda zampe di capra e zampe leonine, un orso, una pantera, un
coccodrillo, (ancora l'Egitto) un cinghiale, un'aquila, un cane e una volpe). Potrebbe trattarsi di Orione
che voleva cacciare tutte le bestie della terra. Allora è possibile che questo mosaico rappresenti la
parte del mito che precede il catasterismo. Le bestie sarebbero, appunto, la rappresentazione di tutte
le bestie selvagge che Orione avrebbe cacciato. La farfalla probabilmente allude al destino successivo,
quando Orione salirà in cielo con ali di farfalla. Voi sapete come in greco il termine farfalla sia ψυχή,
ovvero la psiche, l'anima. Quella rappresentata - bianca e con le ali di farfalla – è dunque l'anima di
Orione. Il catasterismo altro non è che la trasformazione dell'eroe, della sua anima, in una
costellazione. Il demone in alto potrebbe essere colui che assicura il catasterismo. Se facciamo un
salto di qualche secolo in avanti, troviamo anche nel mondo romano molti riferimenti al catasterismo.
Troviamo Aion, personificazione del tempo e dell'eternità, che porta Antonino e Faustina in cielo.
Troviamo Aeternitas, personificazione dell'eternità, che porta la moglie di Adriano, Sabina, in cielo.
Guardate, il nostro demone ha lo stesso gesto di Adriano che indica verso l'alto: è il gesto che indica
l’assunzione in cielo. In quel caso l’assunzione riguarda Sabina, ma Adriano sta preparando anche il
suo di catasterismo. In coincidenza di questi lavori è uscito il libro di Carandini su Adriano ad Atene
e Roma, nel quale Carandini dedica delle pagine alla sua ansia di eternità e alla preparazione di un
catasterismo che non era cosa rara nel mondo romano. Ovidio racconta il catasterismo del divo
Cesare. Quando Cesare viene ucciso nel Senato nel cielo sopra il Senato appare una cometa. Si dice
che la cometa fosse Cesare. Ovidio lo dice in maniera molto chiara: quando viene ucciso Cesare, la
grande Venere, sua madre – o comunque sua ava perché la famiglia Giulia discende da Venere -,
invisibile, si ferma in mezzo al Senato e dal corpo del suo Cesare estrae l'anima non ancora liberata.
L’anima, la psiche, quindi viene presa. I capelli si infuocano – segno che sta per diventare stella – e
l'anima vola trascinandosi dietro una coda di fiamme che brilla. Avviene così il catasterismo di
Cesare, sul modello più antico, del II secolo, del catasterismo di Orione.