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Enciclopedia Vocabolario Sinonimi Dizionario Biografico degli Italiani ENCICLOPEDIA SCUOLA REPETITA WEB TV MAGAZINE COMMUNITY ISTITUTO CATALOGO costantinopoli Login Home Enciclopedia Costantinopoli in Enciclopedia dell' Arte Medievale Enciclopedia dell' Arte Medievale (1994) COSTANTINOPOLI di C. Barsanti COSTANTINOPOLI (gr. ΚωνσταντινούπολιϚ; turco Istanbul) Fondata da Costantino sul sito dell'antica Bisanzio (gr. Βυζάντιον), capitale dell'impero romano d'Oriente e poi di quelli bizantino e ottomano, oggi centro principale della Turchia, C. sorge su di un promontorio collinoso che chiude l'imboccatura dello stretto del Bosforo, il canale naturale che mette in comunicazione il mar Nero (l'antico Pontus Euxinus) con il mar di Marmara (l'antica Propontide). Subito a N del promontorio si stende la profonda insenatura del Corno d'Oro, che separa i quartieri centrali della città dai sobborghi di Pera e Galata. Il profilo orografico del promontorio è movimentato da due gruppi di rilievi collinosi: il primo, disposto immediatamente a ridosso della riva meridionale del Corno d'Oro, è articolato in sei alture; il secondo, più basso e costituito da un solo rilievo prospiciente il mar di Marmara, si colloca invece alla base della penisola ed è separato dal precedente dalla valle del fiume Lycus, l'unico modesto corso d'acqua che attraversa il territorio urbano. Urbanistica e architettura Benché nessuno dei rilievi collinosi superi l'altezza di m. 50 sul livello del mare, la loro particolare conformazione orografica, con piani sommitali piuttosto stretti separati da profondi valloni, condizionò sensibilmente fin dai primi secoli l'espansione e l'assetto urbanistico della città, costringendo spesso i costruttori a operare vasti sbancamenti e ad allestire grandi terrapieni o imponenti opere di sostruzione per garantire agli edifici uno sviluppo sufficiente: le indagini archeologiche hanno dimostrato come lo stesso Grande Palazzo imperiale fosse costruito in larga misura su terrazzamenti artificiali affacciati sul mare, mentre resti imponenti di opere di sostruzione sono visibili nella zona occupata dalla curva dell'ippodromo o al di sotto del complesso monastico del Pantokrator, dove, ancora nel corso del sec. 12°, vennero riutilizzate le vaste strutture di una grande cisterna di epoca protobizantina (Müller-Wiener, 1977, p. 210).Come dimostrano i ritrovamenti (Janin, 19642, pp. 9-11), il popolamento della regione avvenne già in età preistorica (Studien, 1973) e interessò in una prima fase le zone immediatamente a ridosso delle due coste del Bosforo. Il primo insediamento urbano testimoniato dalle fonti risale al sec. 7° a.C., quando sull'estremità del promontorio venne fondata una colonia dorica che assunse il nome di Bisanzio, derivato, secondo le stesse fonti, da quello dell'eroe eponimo Byzas. Nel 196 d.C. Bisanzio, che nella crisi dinastica romana aveva parteggiato per Pescennio Nigro, venne conquistata da Settimio Severo, che ne soppresse lo statuto di città libera distruggendone le difese e riducendola al rango di semplice villaggio. L'importante CONDIVIDI COSTANTINOPOLI COSTANTINOPOLI COSTANTINOPOLI APPROFONDIMENTI IN TRECCANI COSTANTINOPOLI si trova anche ne ENCICLOPEDIA DELL' ARTE ANTIC COSTANTINOPOLI (¿¿¿sta¿t¿¿¿¿p¿¿ p¿¿¿¿; Constantinopolis). - È l'antica dell'Impero di Oriente.La città sorse fi un promontorio trapezoidale che si pr con la sua punta arrotondata e leggerm ENCICLOPEDIA COSTANTINIANA Costantinopoli Sommario: ¿¿ ßas¿¿¿¿ progetto ¿ La riqualificazione urbana Bisanzio. Il Palazzo imperiale e l’Ippo dell’antica acropoli – Il ¿¿¿¿¿¿ e la Ba monumenta... ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI (200 CostantinopoliUna città tra Europa e AsiaCostantinopoli significa "città (in Costantino". Si tratta del nuovo nome Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'... 1 di 58 25/02/2015 19:12

Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale

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ENCICLOPEDIA SCUOLA REPETITA WEB TV MAGAZINE COMMUNITY ISTITUTO CATALOGO

costantinopoli Login

Home Enciclopedia Costantinopoli in Enciclopedia dell' Arte Medievale

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1994)

COSTANTINOPOLI

di C. Barsanti

COSTANTINOPOLI (gr. ΚωνσταντινούπολιϚ; turco Istanbul)

Fondata da Costantino sul sito dell'antica Bisanzio (gr. Βυζάντιον), capitale

dell'impero romano d'Oriente e poi di quelli bizantino e ottomano, oggi centro

principale della Turchia, C. sorge su di un promontorio collinoso che chiude

l'imboccatura dello stretto del Bosforo, il canale naturale che mette in

comunicazione il mar Nero (l'antico Pontus Euxinus) con il mar di Marmara

(l'antica Propontide). Subito a N del promontorio si stende la profonda insenatura

del Corno d'Oro, che separa i quartieri centrali della città dai sobborghi di Pera e

Galata. Il profilo orografico del promontorio è movimentato da due gruppi di

rilievi collinosi: il primo, disposto immediatamente a ridosso della riva

meridionale del Corno d'Oro, è articolato in sei alture; il secondo, più basso e

costituito da un solo rilievo prospiciente il mar di Marmara, si colloca invece alla

base della penisola ed è separato dal precedente dalla valle del fiume Lycus, l'unico

modesto corso d'acqua che attraversa il territorio urbano.

Urbanistica e architettura

Benché nessuno dei rilievi collinosi superi l'altezza di m. 50 sul livello del mare, la

loro particolare conformazione orografica, con piani sommitali piuttosto stretti

separati da profondi valloni, condizionò sensibilmente fin dai primi secoli

l'espansione e l'assetto urbanistico della città, costringendo spesso i costruttori a

operare vasti sbancamenti e ad allestire grandi terrapieni o imponenti opere di

sostruzione per garantire agli edifici uno sviluppo sufficiente: le indagini

archeologiche hanno dimostrato come lo stesso Grande Palazzo imperiale fosse

costruito in larga misura su terrazzamenti artificiali affacciati sul mare, mentre

resti imponenti di opere di sostruzione sono visibili nella zona occupata dalla curva

dell'ippodromo o al di sotto del complesso monastico del Pantokrator, dove,

ancora nel corso del sec. 12°, vennero riutilizzate le vaste strutture di una grande

cisterna di epoca protobizantina (Müller-Wiener, 1977, p. 210).Come dimostrano i

ritrovamenti (Janin, 19642, pp. 9-11), il popolamento della regione avvenne già in

età preistorica (Studien, 1973) e interessò in una prima fase le zone

immediatamente a ridosso delle due coste del Bosforo. Il primo insediamento

urbano testimoniato dalle fonti risale al sec. 7° a.C., quando sull'estremità del

promontorio venne fondata una colonia dorica che assunse il nome di Bisanzio,

derivato, secondo le stesse fonti, da quello dell'eroe eponimo Byzas. Nel 196 d.C.

Bisanzio, che nella crisi dinastica romana aveva parteggiato per Pescennio Nigro,

venne conquistata da Settimio Severo, che ne soppresse lo statuto di città libera

distruggendone le difese e riducendola al rango di semplice villaggio. L'importante

CONDIVIDI

COSTANTINOPOLI

COSTANTINOPOLI

COSTANTINOPOLI

APPROFONDIMENTI

IN TRECCANI

COSTANTINOPOLI si trova anche nelle opere

EN CICLOPEDIA DELL' AR TE ANTICA (1959)

COSTANTINOPOLI (¿¿¿sta¿t¿¿¿¿p¿¿¿¿, o ¿¿¿sta¿t¿¿¿¿

p¿¿¿¿; Constantinopolis). - È l'antica capitale

dell'Impero di Oriente.La città sorse fin dalle origini su

un promontorio trapezoidale che si protende nel mare

con la sua punta arrotondata e leggermen...

EN CICLOPEDIA COSTANTIN IANA (2013)

Costantinopoli Sommario: ¿¿ ßas¿¿¿¿¿ p¿¿¿¿ ¿ Il

progetto ¿ La riqualificazione urbana dell’antica

Bisanzio. Il Palazzo imperiale e l’Ippodromo – L’area

dell’antica acropoli – Il ¿¿¿¿¿¿ e la Basilica ¿ La

monumenta...

EN CICLOPEDIA DEI RAGAZZ I (2005)

CostantinopoliUna città tra Europa e

AsiaCostantinopoli significa "città (in greco pòlis) di

Costantino". Si tratta del nuovo nome assunto

Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...

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posizione strategica della città fece però sì che lo stesso imperatore provvedesse in

seguito al suo ripopolamento e alla costruzione di una nuova cinta di mura a difesa

dell'estrema propaggine del promontorio.Nel 324 Costantino designò la città, che

da lui prese il nome di C., a capitale dell'impero d'Oriente, avviando un grande

programma urbanistico inteso a fare di C. una città in grado di rivaleggiare anche

sul piano monumentale con l'antica Roma e i cui assi portanti condizionarono in

maniera sensibile lo sviluppo urbano anche nei secoli successivi. Le fonti non

concordano sulla cronologia delle fasi di costruzione della città costantiniana, che

venne comunque ufficialmente inaugurata l'11 maggio del 330; da allora e fino alla

sua caduta nelle mani dei Turchi ottomani di Maometto II il 29 maggio 1453 - salvo

la parentesi costituita dall'occupazione latina nel corso della quarta crociata

(1204-1261), quando la sede imperiale fu trasferita a Nicea - C. fu per oltre un

millennio la capitale dell'impero bizantino e, insieme a Roma, il maggior centro

monumentale del mondo tardoantico e medievale.Lo sviluppo e la trasformazione

del tessuto urbano di C. furono segnati in ogni fase da una serie di catastrofi

naturali che contribuirono al continuo riassetto topografico e monumentale della

città. Costruita al centro di una regione fortemente tellurica, la capitale bizantina

fu interessata da un gran numero di terremoti (le fonti ne riportano ben

diciannove tra i secc. 5° e 6°; I terremoti, 1989, pp. 682-706) dagli esiti spesso

devastanti: per citare solo i più rilevanti, vanno ricordati quello del 447, che

distrusse buona parte delle mura di cinta della città, quelli succedutisi a più riprese

tra il 533 e il 538, che causarono tra l'altro danni alla cupola di Santa Sofia, e quelli

dei primi decenni del sec. 11°, che interessarono numerosi edifici religiosi,

determinando in particolare la distruzione della chiesa dei Quaranta martiri di

Sebaste. Lo sviluppo spesso disordinato dell'edilizia residenziale privata - che

ripetuti interventi legislativi imperiali tentarono almeno di controllare (Kriesis,

1960; Dagron, 1974, pp. 91-92) - contribuì inoltre ad accrescere il rischio di

incendi e la portata delle loro conseguenze anche nei confronti di importanti

monumenti pubblici: così, per citare solo i casi più eclatanti, la stessa Santa Sofia fu

distrutta dalle fiamme in due occasioni (404 e 532), nel 476 bruciarono il palazzo

di Lauso e la biblioteca cittadina, nel 1204, durante la presa della città da parte dei

crociati, vennero distrutti interi quartieri e ancora nel 1434 le fiamme divorarono

la chiesa della Theotokos, nel quartiere delle Blacherne (Schneider, 1941a).

Fonti per la storia urbana

Le fasi dell'evoluzione urbana di C. possono essere seguite solo parzialmente

attraverso i dati archeologici, dal momento che per motivi diversi gli scavi e le

ricerche topografiche non hanno mai assunto sul territorio della moderna Istanbul

carattere di sistematicità. Benché il territorio urbano di C. e le sue vestigia

monumentali siano stati al centro dell'attenzione dei viaggiatori e degli studiosi

occidentali già a partire dal Rinascimento - basti ricordare le diverse versioni della

veduta planimetrica della città presenti nelle copie del Liber insularum Archipelagi

di Cristoforo Buondelmonti, del 1420 ca. (Gerola, 1931), o la grande quantità di

informazioni che si possono trarre dal De topographia Constantinopoleos et de

illius antiquitatibus libri quattuor di Pierre Gilles, edito a Lione nel 1561, o ancora

la pianta monumentale della C. antica realizzata tra il 1566 e il 1574 (Mordtmann,

1892), o i disegni di alcuni dei monumenti più significativi a opera di un anonimo

artista tedesco nella seconda metà del sec. 16° (Mango, 1965) -, i decenni della

seconda metà del sec. 19° e degli inizi del 20°, che videro l'affermarsi delle prime

ricerche archeologiche dell'era moderna sulle diverse regioni del mondo bizantino

(Zanini, in corso di stampa), non segnarono di fatto progressi sensibili nella

dall'antica città greca di Bisanzio (oggi Istanbul, in

Turchia) dopo la sua consacrazione come second...

Vedi tutti

VOCABOLARIO

foziano

foziano agg. – Relativo a Fozio, patriarca di

Costantinopoli (9° sec.), e alle sue dottrine teologiche;

scisma f., quello verificatosi fra la Chiesa greca e la

Chiesa latina, causato dall’inserimento, nel Credo

niceno-costantinopolitano, della clausola Filioque dopo

le parole ex Patre (per cui si affermava che lo Spirito

Santo procede non soltanto «dal Padre» ma anche «dal

Figlio»).

costantinopolitano

costantinopolitano agg. e s. m. (f. -a). – Di

Costantinopoli, antica capitale dell’impero ottomano,

oggi la principale città della Repubblica di Turchia (con il

nome di Istanbul); abitante o nativo di Costantinopoli.

ALTRI APPROFONDIMENTI

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conoscenza dell'impianto topografico generale e dei singoli monumenti della

capitale imperiale. Solo con la fine della prima guerra mondiale si crearono le

condizioni per l'avvio dei primi scavi su scala urbana, anche se, a dispetto delle

ricerche fin qui condotte, la topografia di larghi settori della città antica risulta

comunque ancora poco chiara almeno dal punto di vista dell'analisi archeologica

(Müller-Wiener, 1977).A fronte della totale perdita della documentazione

archivistica (Mango, 1980, pp. 6-9), informazioni relativamente ricche di carattere

topografico si desumono dalle fonti storiche, trattatistiche e narrative. La più

antica descrizione della città è costituita dalla Notitia urbis Constantinopolitanae,

opera anonima del secondo quarto del sec. 5° (Mango, 1985), cui segue

cronologicamente la raccolta dei c.d. Pátria (Dagron, 1984; Berger, 1988): si tratta

di una collazione di testi a carattere storico e descrittivo, compilata intorno alla

fine del sec. 10° tenendo conto di numerosi testi non pervenuti e riportando i brani

più significativi di altre tre opere conservatesi - i Pátria Konstantinupóleos, di

Esichio di Mileto (sec. 6°), le Parastáseis sýntomoi chronikái, opera anonima della

prima metà del sec. 8° (Constantinople, 1984), e la Diéghesis perì tès oikodomès tù

naù tès megáles tù Theù ekklesías tès eponomazoménes Haghías Sophías,

anch'essa anonima e di incerta datazione -, che, nonostante la dubbia attendibilità

di molti passi, costituisce un importante riferimento per lo studio della topografia

di C. nei primi secoli della sua storia (Dagron, 1974).Per quanto riguarda l'epoca

protobizantina, si rivelano di notevole utilità le opere degli storici di tradizione

antica (nel sec. 5° Zosimo, nel successivo Agazia, Giovanni Malala e poi Teofilatto

Simocatta e Marcellino Comes), mentre il primo libro del De Aedificiis di Procopio

di Cesarea è interamente dedicato all'elenco e alla descrizione delle costruzioni

civili e religiose fatte erigere a C. da Giustiniano.Solo a partire dai secc. 9° e 10° la

ricerca storico-topografica può trovare nuove basi nelle opere dei cronachisti

(Teofane il Confessore, sec. 9°; il suo anonimo continuatore nel secolo successivo,

noto come Teofane Continuato; Teodosio Meliteno, sec. 11°) e soprattutto nel

trattato De caerimoniis aulae Byzantinae, una collazione di testi diversi operata

dall'imperatore Costantino VII Porfirogenito (912-959), dedicata alla descrizione

del complesso cerimoniale di corte e dei diversi luoghi a esso deputati (Mango,

1959).Per l'epoca immediatamente precedente e successiva all'occupazione latina

di C., la grande attività letteraria e cronachistica fiorita presso le corti dei Comneni

e dei Paleologhi (per es. Anna Comnena e Giovanni Zonara, sec. 12°; Niceta

Coniate, sec. 13°; Giorgio Pachimere, Giovanni Cantacuzeno e Niceforo Gregora,

sec. 14°; Michele Ducas e Giorgio Franze, sec. 15°) ha permesso la trasmissione di

una grande quantità di dati, soprattutto relativi ai quartieri occidentali della città

intorno ai quali ruotavano i nuovi centri aggregativi della capitale

tardobizantina.Alla lunga lista delle fonti per la storia urbana di C. debbono infine

aggiungersi le testimonianze esterne al mondo bizantino, a partire dal resoconto

del viaggio compiuto da Hārūn ibn Yaḥyā alla fine del sec. 9° (riportato nel Kitāb

al-A'lāq al-nafīsa di Ibn Rusta) e dalle relazioni del vescovo Liutprando da

Cremona che nel sec. 10° fu ambasciatore alla corte bizantina, per proseguire con

la Geografia di al-Idrīsī e con le descrizioni dell'ebreo Beniamino di Tudela (sec.

12°), per giungere infine ai resoconti dei numerosi pellegrini russi (Majeska, 1984)

e alle descrizioni redatte dagli stessi comandanti crociati all'indomani della presa

della città.Al tempo di Settimio Severo Bisanzio era dotata di una propria cinta di

mura, solo ipoteticamente ricostruibile sulla base di fonti più tarde. All'interno

della cinta furono realizzati già in quell'epoca alcuni dei monumenti che

continuarono poi per secoli a segnare la topografia del nucleo della capitale

bizantina: si debbono infatti probabilmente a Settimio Severo l'impianto del

Tetrastoon - un grande quadriportico sull'area dell'antica agorá della città

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ellenistica, a ridosso del quale sorsero poi il Grande Palazzo imperiale, uno degli

edifici del Senato e la Santa Sofia -, la primitiva costruzione dell'ippodromo e

l'edificazione delle grandi terme di Zeuxippos.La designazione di C. a capitale

dell'impero d'Oriente diede il via a una fase di rapida e intensa espansione,

inaugurata dalla costruzione di una nuova cinta muraria posta a km. 3 ca. a O della

precedente (Strube, 1973, pp. 131-147; Dagron, 1974, pp. 401-408; Mango, 1990).

Epoca protobizantina

L'età di Teodosio II (408-450) si pone come fondamentale cerniera nella storia

urbanistica di C., segnando il compimento del processo di espansione della città

tardoantica e avviando al tempo stesso quella fase di continua ridefinizione degli

spazi interni che sarebbe stata in seguito caratteristica della capitale bizantina. Il

nome di Teodosio II è legato in primo luogo alla costruzione della nuova cinta

delle mura terrestri, eretta a partire dal 413, che costituì per secoli il cardine del

sistema difensivo della città (Meyer, Schneider, 1943; Tsangadas, 1980). Le mura

teodosiane - oggetto di un recente e discutibile intervento di restauro e di parziale

ricostruzione - si dispongono lungo un arco di cerchio a una distanza di km. 5,5 ca.

dall'estremità della penisola su cui sorge la città; partendo dalla costa della

Propontide, esse si sviluppano verso N per oltre m. 5600 fino a raggiungere il

quartiere delle Blacherne, dove sembrano arrestarsi bruscamente all'altezza del

palazzo del Tekfur Sarayı e dove probabilmente si raccordavano con l'autonoma

cerchia muraria, oggi scomparsa, che già in epoca costantiniana doveva difendere

quel quartiere. Lungo tutta la sua estensione la cinta teodosiana presenta una

peculiare articolazione strutturale, che servì da modello per gran parte dei sistemi

difensivi costruiti in epoca protobizantina in molte delle regioni dell'impero.

Procedendo dall'esterno verso l'interno si incontrano: un fossato artificiale (largo

m. 15-20, profondo m. 5-7) ancora oggi ben riconoscibile sul terreno; una prima

area scoperta, compresa tra il fossato e il primo muro; l'antemurale, fiancheggiato

da novantadue torrette disposte in asse con le cortine libere tra le torri del muro

principale retrostante; una seconda e ampia fascia scoperta; e infine il muro

principale (alto m. 11 ca.), dotato di un cammino di ronda e difeso da novantasei

torri di forme diverse (settantaquattro quadrate, quattordici ottagonali, cinque

esagonali, due eptagonali e una pentagonale), regolarmente distanziate tra loro di

m. 55 circa. Altrettanto peculiare e caratteristica dell'edilizia pubblica

costantinopolitana dei primi secoli dell'impero bizantino appare la tecnica edilizia,

caratterizzata dall'impiego di una muratura a sacco con nucleo centrale in

conglomerato cementizio e cortine a fasce di laterizi alternate a fasce di conci di

pietra squadrati.Nella cinta teodosiana si aprivano dieci porte principali - le più

importanti erano, da S a N, la porta d'Oro, la porta di Peghé o di Silivri, la porta di

S. Romano e la porta di Charisius o di Adrianopoli - cui si aggiungeva un

consistente numero di posterule che davano accesso agli spazi aperti tra le mura e

il fossato.Pur conservando nella loro sostanziale integrità l'aspetto originale

assunto dopo la ricostruzione, ancora in epoca teodosiana, dei lunghi tratti

abbattuti nel corso del terremoto del 447, le mura terrestri di C. furono oggetto nel

corso dei secoli di una serie di restauri volti a risarcire i danni provocati da

catastrofi naturali; le iscrizioni attestano gli interventi di Giustino II (565-578), di

Leone III Isaurico e suo figlio Costantino V dopo il terremoto del 740, di Basilio II

e Costantino VIII nel 975, di Alessio III Angelo (1195-1203), probabilmente

eponimo di una serie di restauri condotti dai comneni Manuele I (1143-1180) e

Andronico I (1183-1185) e di Giovanni VIII Paleologo (1425-1448). All'età

comnena, infine, va probabilmente datata la ricostruzione del segmento delle mura

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nel quartiere delle Blacherne, tra il Tekfur Sarayı e il Corno d'Oro.Il Chronicon

Paschale (Mango, 1985, p. 25, n. 12) e lo pseudo-Codino (Janin, 19642, p. 287, n. 3)

riferiscono a Teodosio II anche la costruzione delle mura che difendono C. lungo i

lati prospicienti il mare, ma questo dato non sembra trovare riscontro in altre fonti

e nell'evidenza dei resti conservatisi, che lascerebbero ipotizzare un'articolata

successione di interventi culminata probabilmente con la costruzione delle mura

lungo il Corno d'Oro nella prima metà del sec. 7° (Grumel, 1964; Mango,

1985).L'epoca teodosiana vide anche il definitivo consolidarsi delle infrastrutture

legate ai diversi momenti della vita cittadina. Il più importante asse stradale

continuava a essere rappresentato, come in età costantiniana, dalla Mese, i cui

rami meridionale e settentrionale vennero prolungati fino a raggiungere la cinta

teodosiana rispettivamente in corrispondenza della nuova porta d'Oro e della

porta di Adrianopoli. Sull'asse principale della Mese - che collegava il nucleo

monumentale ruotante intorno al grande Tetrastoon, più comunemente definito

già in età teodosiana Augusteion, alla porta d'Oro - si disponeva una serie di piazze

che, riprendendo e rielaborando il tema del forum romano, costituivano altrettanti

punti focali nella vita cittadina.Intorno all'Augusteion sorgevano gli edifici più

importanti e intimamente legati con l'esercizio e la rappresentazione simbolica del

potere civile e religioso: a S si apriva infatti la Chalké, il monumentale vestibolo

che dava accesso al Grande Palazzo imperiale; a E sorgevano il Senato e il

complesso della Magnaura, anch'esso parte del palazzo; a N, già a partire

dall'epoca di Costanzo (337-361), sorgeva la chiesa della Santa Sofia, mentre a O si

staccava appunto la Mese, il cui inizio era marcato dalla presenza del

monumentale Tetrapylon del Milion (Verzone, 1956b; Fıratlı, Ergil,

1969).Procedendo verso O il percorso della Mese era scandito dal foro ellittico di

Costantino, il cui centro era segnato dalla grande colonna onorifica in porfido

ancora in parte conservata, quindi dal foro di Teodosio I, detto anche forum Tauri

(Barsanti, in corso di stampa), quindi, dopo la biforcazione del Philadelphion, il

c.d. forum Bovis, di localizzazione ancora incerta e, da ultimo, il foro di Arcadio, il

cui centro è ancora indicato dalla presenza del grande basamento - oggi pressoché

totalmente inglobato in modeste abitazioni - della colonna onorifica eretta agli inizi

del 5° secolo.Tra gli edifici monumentali che caratterizzavano la C. teodosiana tre

appaiono particolarmente importanti per il ruolo che ebbero in tutte le epoche

della storia della capitale bizantina: il Grande Palazzo imperiale, l'ippodromo e la

Santa Sofia. Il primo sorgeva fin dall'epoca costantiniana (ma le prime fondazioni

potrebbero risalire già all'intervento di Settimio Severo; Herrin, 1991) all'estremità

della penisola su cui si dispone C., su di un grande terrazzamento prospiciente il

mar di Marmara. Le indagini archeologiche condotte a partire dai primi decenni di

questo secolo (Brett, Macauly, Stevenson, 1947; Talbot Rice, 1956; 1957; The Great

Palace, 1958) hanno potuto chiarire solo in minima parte la disposizione e

l'effettiva consistenza dei molti edifici che, collocandosi intorno a corti e porticati,

costituivano l'enorme agglomerato del palazzo, anche se i limiti del complesso

risultano ben definiti dalla presenza di altri monumenti pubblici. Gli edifici che

sorgevano all'interno sono in gran parte noti solo attraverso numerose ma spesso

imprecise fonti antiche - in particolare il De caerimoniis di Costantino VII - che

hanno permesso ricostruzioni ipotetiche (Dirimtekin, 1965; Guilland, 1969;

Miranda, 1983). Sul lato settentrionale del palazzo, rivolto verso l'Augusteion, si

apriva la Chalké, un edificio di impianto quadrangolare ricostruito da Giustiniano

che prendeva il nome dalla grande porta bronzea destinata a mettere in

comunicazione il palazzo con la Santa Sofia e che ospitava nella sala centrale

cupolata una vera e propria collezione di opere d'arte fatte giungere dalle diverse

regioni dell'impero (Mango, 1959). Attraversata la Chalké, si giungeva alle scholae

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dei corpi di guardia e quindi a una serie di sale di rappresentanza che

conducevano direttamente al palazzo di Daphné, di fondazione costantiniana, che

costituiva ancora in età teodosiana il nucleo centrale dell'intero complesso. Già con

Giustino II e poi con il suo successore Tiberio I (578-582) vennero portate a

termine la costruzione e la sontuosa decorazione del Crisotriclinio - la grande sala

ottagonale cupolata e dotata di un'esedra destinata a ospitare il trono imperiale -

che comunicava attraverso una serie di ambienti intermedi con la tribuna

imperiale (Káthisma), posta lungo il lato orientale dell'ippodromo. La zona

meridionale del palazzo sembra avesse invece una connotazione più spiccatamente

religiosa: presso il limite della spianata artificiale si trovavano infatti tre importanti

chiese dedicate rispettivamente alla Vergine, a s. Demetrio e a s. Elia, mentre più

in basso, oltre il limite del terrazzamento, sorse in seguito la grande Nea Ekklesia

voluta da Basilio I il Macedone (867-886) e nota solo dalle fonti.La zona

nordorientale del Grande Palazzo era occupata dal complesso della Magnaura,

utilizzato come luogo di ricevimento degli ambasciatori stranieri, il cui nucleo era

costituito da un edificio di impianto basilicale a tre navate in fondo al quale una

nicchia sopraelevata ospitava il c.d. trono di Salomone, corredato da un'imponente

scenografia di automi (v.), usato dall'imperatore nelle udienze alle delegazioni

straniere.Iniziato già sotto Settimio Severo e completato in età costantiniana,

l'ippodromo, che sorgeva a N-O del Grande Palazzo e tanto vicino a quest'ultimo

da condizionarne in parte lo sviluppo topografico, fu oggetto di continui restauri

nel corso dei secoli e ancora alla metà del sec. 14° ospitava tornei cavallereschi

secondo le mode importate un secolo prima dai conquistatori latini. Benché le

indagini archeologiche condotte negli anni Venti e Trenta abbiano interessato solo

una parte relativamente limitata del grande complesso, le fonti letterarie e

iconografiche - in particolare un'incisione di Panvinio (De ludis circensibus,

Venezia 1600, p. 61, tav. R) - permettono di riconoscerne l'impianto tradizionale

con la doppia corsia separata dalla spina (decorata da un'imponente collezione di

colonne e obelischi portati a C. dalle diverse regioni dell'impero; Guberti Bassett,

1991) e conclusa verso N-E dai carceres e all'estremità opposta dalla grande curva

della sphendoné.Il terzo grande polo del centro monumentale della C.

protobizantina e bizantina era costituito dalla chiesa della Santa Sofia. L'avvio dei

lavori di edificazione di questo grande tempio cristiano, collocato proprio nel

cuore dell'acropoli della città antica, si deve probabilmente già a Costantino, anche

se la prima chiesa - che le fonti consentono di ricostruire ipoteticamente come

impianto basilicale a tre o cinque navate, coperto a tetto e forse dotato di gallerie -

venne consacrata solo nel febbraio del 360, sotto il regno di Costanzo. Le fonti e gli

scarsi dati archeologici non consentono di stabilire quanta parte della chiesa

originaria andò distrutta nell'incendio del 404 nel corso dei disordini legati alla

deposizione di Giovanni Crisostomo dalla carica patriarcale; non è quindi possibile

determinare se il successivo intervento di Teodosio II, culminato con la

riconsacrazione del 415, sia consistito in un semplice restauro o in una radicale

ricostruzione. All'epoca teodosiana debbono essere certamente assegnati i resti del

monumentale portico colonnato venuto alla luce nel corso degli scavi condotti

nell'area antistante l'esonartece della chiesa attuale (Schneider, 1941b), mentre

probabilmente ancora al sec. 4° risale la costruzione dello skeuophylákion che

sorge accanto all'angolo nordorientale dell'edificio (Dirimtekin, 1961; Mathews,

1971, pp. 11-18).Ai decenni centrali del sec. 5° si data inoltre una serie di importanti

chiese ubicate in diversi quartieri della città e che per le loro costanti

caratteristiche morfologiche sembrano costituire uno dei punti di partenza per i

successivi sviluppi dell'architettura della prima età bizantina. Nell'estremo

quartiere sudorientale sorge la chiesa di S. Giovanni di Studios, la cui costruzione

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può essere datata con certezza agli anni sessanta del secolo. Nella chiesa il

tradizionale impianto basilicale a tre navate, scandite da due file di colonne

architravate, con nartece e atrio quadrangolare, appare aggiornato attraverso una

serie di soluzioni peculiari: l'adozione di un impianto rettangolare sensibilmente

raccorciato nel suo asse longitudinale e ampliato in quello trasversale, con una

navata centrale fortemente dilatata in larghezza; la presenza di un'abside

semicircolare all'interno e poligonale all'esterno, che segna il debutto di una

tipologia che ebbe in seguito grande fortuna nel mondo bizantino; l'impiego di una

muratura a fasce alternate di pietra e mattoni che ricorda assai da vicino quella

usata pochi decenni prima nella realizzazione delle contigue mura teodosiane; la

creazione di un sistema di accessi assai articolato (Mathews, 1971, pp. 19-27;

Mango, 1974, p. 61).Le soluzioni adottate in S. Giovanni di Studios si ritrovano

pressoché identiche nella contemporanea chiesa della Theotokos Chalkoprateia - i

cui resti della zona absidale sono riemersi nel corso della sistemazione urbanistica

dell'area a O della Santa Sofia -, dove si registra però l'impiego di una muratura

completamente laterizia che in qualche misura anticipa le soluzioni strutturali

tipiche dell'architettura giustinianea (Lathoud, Pezaud, 1924; Kleiss, 1966;

Mathews, 1971, pp. 28-33). Gli stessi caratteri compaiono infine nella chiesa di

ignota dedicazione i cui resti sono venuti alla luce nel corso di indagini

archeologiche condotte in uno dei cortili del Topkapı Sarayı (il palazzo imperiale

ottomano) e che sembrerebbe poter essere datata prima della basilica di Studios

(Ogan, 1940; Mathews, 1971, pp. 33-38).Ancora all'età tardoantica e protobizantina

risale infatti l'allestimento delle principali infrastrutture di approvvigionamento e

di servizio della città: a partire dalla seconda metà del sec. 4° si assiste a un

continuo ampliarsi e moltiplicarsi delle installazioni portuali sulla costa della

Propontide (Teall, 1959; Mango, 1985, pp. 37-40); le fonti forniscono inoltre i

nomi, anche se non la precisa ubicazione, di numerosi magazzini, raggruppati tutti

nella quinta e nona regione amministrativa e quindi immediatamente a ridosso dei

porti principali (Janin, 1964, pp. 181-182). Ancora alla seconda metà del sec. 4°

risale l'impianto di un nuovo sistema di adduzione e di conservazione dell'acqua: il

vecchio e insufficiente acquedotto della Bisanzio romana venne sostituito da quello

fatto costruire da Valente nel 373 - collegato con una rete di canalizzazioni che

raggiungevano la foresta di Belgrado e forse addirittura i massicci montuosi al

confine con l'attuale Bulgaria - e in epoche diverse vennero allestite tre enormi

cisterne scoperte (c.d. di Ezio, di Aspar e di S. Mocio), che da sole garantivano una

riserva idrica pari a oltre un milione di metri cubi e un numero imprecisato di

cisterne coperte di dimensioni più o meno grandi (Forchheimer, Strzygowski,

1893; Ataçeri, 1965; Müller-Wiener, 1977, pp. 271-285). Fra la metà del sec. 5° e la

metà del successivo, prima della grande peste del 542 che dimezzò la popolazione,

si colloca infine probabilmente il momento di massimo sviluppo demografico della

città, che raggiunse in questo periodo il numero di trecentomila abitanti (Jacoby,

1961).

Età giustinianea

I grandi imperatori evergeti del sec. 6°, in primo luogo certamente Giustiniano, ma

anche Anastasio I (491-518) e Giustino I (518-527), la cui committenza appare

spesso sottaciuta dalle fonti antiche in favore di quella giustinianea (Mango, 1985,

p. 52), ereditarono dai loro predecessori una capitale già definita nelle sue linee

urbanistiche essenziali, che non vennero di fatto più alterate se non in direzione di

un sensibile potenziamento delle strutture. Procopio (De Aed., I), nel descrivere le

numerose opere legate alla committenza giustinianea a C., enumera una serie di

restauri, ricostruzioni e nuove edificazioni di importanti complessi civili, a partire

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dalla ricostruzione del vestibolo del Grande Palazzo, delle terme di Zeuxippos e di

una delle sedi del Senato, distrutti dall'incendio del 532, per giungere alla

realizzazione di enormi cisterne, portici, ospedali e palazzi urbani e suburbani; ma

questi interventi, peraltro anche simbolicamente in linea con la politica di

restauratio imperii perseguita da Giustiniano, appaiono certamente minoritari

rispetto al grande impulso che gli imperatori della prima metà del sec. 6° diedero

all'edilizia religiosa, sia monumentale sia semplicemente di servizio (v.

Architettura). Il catalogo di Procopio - la cui attendibilità a proposito del singolo

monumento può talvolta essere posta in discussione, ma che conserva comunque il

suo assoluto valore quale espressione della tendenza di un'epoca - assegna alla

committenza giustinianea ben trentatré chiese, vale a dire pressoché il doppio di

quelle esistenti fino a quel momento nella città, stando almeno alla citata Notitia

urbis.Agli inizi dell'epoca giustinianea, anche se non direttamente riferibile alla

committenza imperiale, si colloca la costruzione della chiesa dedicata a s.

Polieucto, ubicata nei quartieri centrali della città, lungo la diramazione

settentrionale della Mese; la chiesa, edificata tra il 524 e il 527 su commissione

della ricca aristocratica Anicia Giuliana (v.), andò totalmente distrutta

probabilmente alla fine del sec. 12°, a eccezione dell'alta piattaforma di sostruzione

e dei livelli di fondazione che sono stati indagati archeologicamente nel corso degli

anni Sessanta (Harrison, 1986; Hayes, 1992). Gli scavi hanno consentito di

ricostruire un impianto di base pressoché quadrato (lato m. 52), con un andamento

delle fondazioni che sembrerebbe indicare una tradizionale disposizione basilicale

a pianta raccorciata su tre navate: la potenza dei muri di fondazione lascia però

ipotizzare l'esistenza di una copertura pesante e articolata, probabilmente con una

cupola in muratura (Harrison, 1989).Molti degli stessi caratteri decorativi di S.

Polieucto si ritrovano nella contemporanea chiesa dedicata ai ss. Sergio e Bacco,

posta nel quartiere di Hormisdas, tra la curva dell'ippodromo e la riva della

Propontide (Mathews, 1971, pp. 42-51; 1976, pp. 242-259). La chiesa - che

originariamente faceva parte di un complesso costituito anche dalla contigua e

perduta chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, con la quale condivideva il muro meridionale

- era collegata con la residenza privata di Giustiniano e venne probabilmente

costruita immediatamente dopo la sua salita al trono (Mathews, 1971, pp. 47). I Ss.

Sergio e Bacco costituiscono un'ardita e inedita interpretazione del tema

dell'edificio religioso a pianta centrale, con una struttura a doppio involucro -

quadrangolare con abside poligonale aggettante quello esterno, ottagonale con

alternanza di colonnati rettilinei e di esedre angolari quello interno - coronata da

una grande cupola a ombrello. Il tema dominante dell'intera costruzione, tanto in

pianta quanto in alzato, è quello del ritmico alternarsi di elementi curvilinei e

rettilinei a partire dall'involucro esterno, segnato dalla singolare soluzione delle

quattro nicchie angolari che smussano l'intersezione dei muri perimetrali, per

proseguire nell'involucro interno, in cui gli assi diagonali sono esaltati da ampie

esedre semicircolari, e per svilupparsi poi in alzato con la contrapposizione della

classica trabeazione piana dell'ordine inferiore alla serie di archi aperti da trifore

nelle gallerie, concludendosi infine con l'originale alternanza di spicchi piani e

concavi nella cupola.La ricostruzione di questo edificio si rese necessaria a causa

delle devastazioni che esso aveva subìto nel corso della rivolta di Nika del 532 e

venne condotta a termine, sotto la direzione dei due mechanikói Antemio da Tralle

e Isidoro da Mileto, nell'arco di poco più di cinque anni. L'audacia del progetto

causò diversi problemi già in corso d'opera (Procopio, De Aed., I, 1, 70-78) e la

cupola originale, più bassa dell'attuale di m. 7 ca., crollò nel 558 per essere subito

ricostruita dopo aver convenientemente rinforzato pilastri e arconi di sostegno

(Mango, 1974, pp. 106-123; Mathews, 1976, pp. 162-312; Mainstone, 1987).Anche

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nel caso della Santa Sofia l'organismo architettonico, che peraltro nella sua

assoluta unicità sfugge a qualsiasi classificazione tipologica, si ricollega al tema

dell'impianto centrale a doppio involucro, accentuando in maniera evidente l'asse

principale O-E senza però rinunciare alla dilatazione delle direttrici trasversali e

oblique. Lo spazio rettangolare definito dal perimetro esterno appare scandito

all'interno da quattro enormi pilastri, su cui poggiano gli altissimi arconi che

sostengono la copertura, e articolato da un sistema di ampi colonnati e di profonde

esedre semicircolari che separano il vano centrale, coperto da una cupola e da due

semicupole, dai sei vani esterni risultanti. Analogamente a quanto realizzato nei Ss.

Sergio e Bacco, l'effetto globale di ricercata e assoluta armonia spaziale nasce

anche in questo caso da un ritmico giustapporsi di elementi diversi, con un

progressivo aumento del numero delle aperture - nei colonnati rettilinei si passa

dai cinque intercolumni del piano di base ai sette delle gallerie, così come nelle

esedre angolari il numero delle colonne sale da due a tre - e con una particolare

attenzione al valore architettonico della luce, che, prima delle diverse successive

alterazioni, filtrava dai sei ordini di finestre aperte nel corpo della chiesa e dalla

serie di finestroni posti alla base della gigantesca cupola. Ancora a una concezione

circolare della spazialità dell'edificio rimanda l'articolato sistema degli accessi, che

permetteva di passare dall'atrio nell'esonartece e da questo nel nartece e quindi nel

corpo centrale attraverso una serie di aperture alternate e in parte disassate,

favorendo nello spettatore una percezione non assiale del vastissimo spazio

cupolato. Un ruolo di primaria importanza era infine svolto dal ricchissimo

rivestimento parietale di marmi policromi e mosaici - questi ultimi oggi in

massima parte perduti - di cui resta un'eco nei versi composti da Paolo Silenziario

in occasione della seconda dedicazione della chiesa (Descriptio ecclesiae Sanctae

Sophiae; Majeska, 1978).Alla fase di ricostruzione dopo gli incendi del 532 va

ricollegata anche la riedificazione, avvenuta probabilmente in due tempi, della

chiesa della Santa Irene, posta anch'essa nell'area dell'antica acropoli a un

centinaio di metri a N della Santa Sofia. La storia costruttiva dell'edificio, che vide

almeno un secondo restauro ancora in epoca giustinianea e venne quindi

ulteriormente modificato in seguito al terremoto del 740, non è ancora del tutto

chiarita (George, 1913; Strube, 1973; Mathews, 1976, pp. 102-122; Peschlow, 1977);

ciò nonostante, nelle sue linee generali la Santa Irene si inserisce organicamente

nel percorso dell'architettura giustinianea a Costantinopoli. In questo caso

l'interpretazione del tema della pianta centrale cupolata appare semplificata con

l'abbandono del sistema delle esedre angolari e delle semicupole in favore di un

ampio invaso longitudinale - attualmente prolungato da un profondo imbotte la cui

originaria articolazione strutturale è tuttora oggetto di dibattito - con i quattro corti

bracci coperti da possenti volte a botte che sopportano il peso della grande volta

centrale. Analogamente a quanto accade nella Santa Sofia, le arcate settentrionale e

meridionale sono schermate da colonnati su cui corrono le gallerie.Probabilmente

all'epoca giustinianea o comunque nell'ambito del sec. 6° possono inoltre essere

datati altri due edifici di culto di minori dimensioni venuti alla luce nel corso di

indagini archeologiche: S. Eufemia e la c.d. basilica A del quartiere di Beyazit. Nel

primo caso si tratta di un edificio di culto ricavato all'interno delle strutture del c.d.

palazzo di Antioco, eretto agli inizi del sec. 5° nelle immediate vicinanze

dell'ippodromo: circa un secolo più tardi, un triclinio del complesso - a pianta

esagonale con nicchie semicircolari su ciascun lato escluso quello di ingresso -

venne trasformato in luogo di culto con l'inserzione di un sýnthronon in una delle

nicchie e la creazione di una recinzione presbiteriale all'interno della quale trovava

posto l'altare (Bittel, Schneider, 1941; Naumann, Belting, 1966; Mathews, 1971, pp.

61-67). Nel secondo caso invece si tratta di un edificio di impianto basilicale -

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facente parte di un gruppo di quattro unità scavate solo parzialmente (Fıratlı, 1951)

- le cui soluzioni strutturali (in particolare il nartece che si prolunga oltre i limiti

della facciata e il corpo dell'edificio più esteso in larghezza che in lunghezza) ne

fanno un interessante unicum nel panorama dell'architettura costantinopolitana di

epoca protobizantina (Mathews, 1971, pp. 67-73).Tra le chiese edificate ex novo o

ricostruite in età giustinianea e oggi note solo dalle fonti, quella dedicata ai ss.

Apostoli, che sorgeva sul sito dell'omonimo complesso di epoca costantiniana, è

descritta da Procopio (De Aed., I, 4, 9-18) come enorme impianto a croce libera,

con tutti i bracci scanditi in tre navate con gallerie e con un articolato sistema di

coperture che prevedeva una grande cupola centrale e quattro cupole di minori

dimensioni sui bracci della croce, secondo un modello che si ritrova esplicitamente

riprodotto, ancora in epoca giustinianea, nel S. Giovanni di Efeso.Nel campo

dell'edilizia civile, alla diretta committenza imperiale debbono essere ricollegati gli

interventi all'interno del Grande Palazzo (Mango, 1959), la ristrutturazione e

l'annessione allo stesso complesso imperiale del palazzo di Hormisdas, residenza

privata di Giustiniano, nonché una serie di restauri di edifici e spazi destinati alla

vita pubblica della città. Particolare rilievo in questo contesto assume la

costruzione delle due grandi cisterne coperte, note con i nomi turchi di Yerebatan

Sarayı e di Binbirdirek. In entrambi i casi si tratta di vasti spazi ipogei, scanditi in

moduli quadrangolari da serie di colonne di reimpiego (trecentosessantasei fusti

nel primo caso, quattrocentoquarantotto disposti su due livelli nel secondo) che

sorreggono volte a crociera in mattoni, nella cui realizzazione si coglie un'eco non

secondaria della capacità tecnica dei progettisti e delle maestranze che

realizzarono i grandi monumenti pubblici dell'epoca (Mango, 1974, pp. 123-129).

Secoli 7°-10°

La profonda crisi attraversata dall'impero bizantino nei secc. 7° e 8°, con la perdita

del controllo sulle regioni periferiche, dalla Siria, all'Africa settentrionale e ai

Balcani, non poté non segnare profondamente anche la storia urbana della

capitale. La scarsità delle fonti documentarie e dei dati archeologici impedisce di

fatto di tracciare un quadro preciso dell'involuzione subìta da C. (Mango, 1985, pp.

51-60). È comunque significativo che, fatta eccezione per il citato restauro della

Santa Irene dopo il terremoto del 740, del quale rimane però incerta la reale

portata, nessuno degli edifici religiosi o civili conservatisi possa essere datato,

anche solo per una fase, a questo periodo.Il secondo quarto del sec. 9° marca in

qualche misura una prima inversione di tendenza: la Chronographia di Teofane

Continuato fornisce una lista sufficientemente dettagliata degli edifici fatti

costruire o restaurare dagli imperatori Teofilo (829-842) e Basilio I (867-886). La

ripresa della committenza imperiale sembra comunque interessare solo una zona

piuttosto ristretta della città, limitata al Grande Palazzo e ai suoi immediati

dintorni. Su ristrutturazioni e nuove decorazioni del complesso palaziale appare

particolarmente incentrata l'attività di Teofilo, l'ultimo degli imperatori iconoclasti,

cui si deve peraltro una serie di restauri alle mura marittime testimoniati da

frequenti iscrizioni (Janin, 19642, pp. 287-300). Più ricca e articolata sembra

essere l'opera di Basilio I, al quale possono essere riferiti, secondo Teofane

Continuato (Chronographia, V; CSHB, XLIII, 1838, pp. 211-380), ben trentuno

interventi tra restauri e nuove costruzioni, su edifici religiosi di diversa dimensione

e importanza, a cominciare dall'edificazione della Nea Ekklesia dedicata alla

Vergine (880), posta nella zona meridionale del palazzo imperiale, che le fonti

permettono di ipotizzare con pianta a croce greca coperta da cinque cupole.Gli

inizi del sec. 10°, che costituiscono il momento forse più alto del rinnovamento

complessivo del mondo bizantino legato alla dinastia macedone, sono segnati a C.

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dall'edificazione di due chiese, entrambe legate in diversa misura alla cerchia

imperiale: la chiesa settentrionale del monastero di Costantino Lips (od. Fenari Isa

Cami), dedicata nel 907, e quella del Myrelaion (od. Bodrum Cami), fatta costruire

dall'imperatore Romano I Lecapeno (919-944).Il complesso voluto da Costantino

Lips, alto ufficiale al servizio di Leone VI (886-912), segna il definitivo consolidarsi

della pratica della costruzione di monasteri urbani legati alla committenza di

personaggi di altissimo rango, un fenomeno che, già attestato in epoca

protobizantina, caratterizzò in misura particolarmente significativa l'assetto

urbano di C. in età medio e tardobizantina (Lemerle, 1967). La chiesa

settentrionale, il cui impianto venne parzialmente alterato alla fine del sec. 13°

dall'addossamento di un secondo edificio di culto, è una costruzione di piccole

dimensioni (il vano centrale non raggiunge i m. 10 di lato), con pianta a croce greca

inscritta e tre absidi orientate, poligonali all'esterno, di cui quella centrale traforata

da tre ampie finestre; il naós, delimitato a N e S da pareti alleggerite da trifore e

finestroni, è preceduto da un nartece con volte a crociera, dotato di una galleria

accessibile per mezzo di un corpo-scala addossato al lato meridionale del nartece.

All'esterno, in netto contrasto con i grandi e spogli volumi delle chiese di età

giustinianea, fa la sua comparsa quella organizzazione delle superfici, movimentate

da finestre, nicchie e cornici, che, insieme ai motivi decorativi in laterizio qui solo

accennati nei due falsi oculi delle absidi laterali, caratterizzò l'architettura

costantinopolitana dei secoli successivi. Elementi peculiari di questo edificio sono

invece la terminazione orientale, con la moltiplicazione degli spazi destinati al

culto dovuta alle due cappelle che si affiancano ai pastophória, e la presenza di

quattro altre piccole cappelle, poste al piano superiore ai quattro angoli

dell'edificio e accessibili attraverso un sistema di camminamenti esterni a loro

volta raggiungibili attraverso il corpo-scala e la galleria del nartece (Megaw, 1963;

1964; Mango, Hawkins, 1964; Mathews, 1976, pp. 322-345).La chiesa del

Myrelaion, che sorge al centro del moderno quartiere di Aksaray, nell'area

compresa tra il segmento centrale della Mese e il mar di Marmara, venne fondata

intorno al 920 come chiesa di palazzo annessa alla residenza privata

dell'imperatore Romano I Lecapeno, sfruttando in parte, al pari del palazzo cui era

collegata, i resti di un grande edificio in opera quadrata di pianta circolare,

databile con buona probabilità al sec. 5°, ma la cui identificazione rimane ancora

assai problematica (Müller-Wiener, 1977, pp. 103-106; Striker, 1981). Al fine di

raggiungere la quota del terrazzamento artificiale ricavato sulla costruzione

preesistente, la chiesa venne dotata di un'alta sostruzione che, pur non avendo mai

avuto alcuna destinazione liturgica, ripete esattamente l'impianto dell'edificio

sovrastante. Quest'ultimo, realizzato al pari della sostruzione interamente in

laterizio, sviluppa su scala assai ridotta l'impianto a croce greca inscritta su quattro

sostegni - le colonne originali sono state sostituite in epoca turca da pilastri - con il

vano centrale coperto da una cupola con alto tamburo ottagono traforato da

finestre. Nonostante le dimensioni assai ridotte dell'invaso, la perfetta scansione

degli spazi interni - in particolare nei pastophória, che riprendono la suggestiva

articolazione parietale già sperimentata nella chiesa di Costantino Lips - conferisce

allo spazio dell'insieme nartece-naós-prebiterio un notevole slancio verticale,

esaltato all'esterno dalla rigorosa organizzazione parietale scandita da un inedito

sistema di paraste semicircolari e di cornici rettilinee aggettanti che denunciano

l'articolazione dei volumi interni.

Età dei Comneni

I cento anni di regno dei tre grandi esponenti della dinastia comnena, Alessio I

(1081-1118), Giovanni II (1118-1143), Manuele I (1143-1180), coincisero con un

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periodo di notevoli trasformazioni del tessuto urbano di C., rese evidenti in

particolare da due fenomeni tra loro strettamente collegati: il progressivo

abbandono del Grande Palazzo in favore della nuova residenza imperiale fatta

costruire nel quartiere delle Blacherne e il contemporaneo sviluppo

dell'insediamento nei quartieri settentrionali della città prospicienti il Corno d'Oro

a scapito di quelli meridionali affacciati sul mar di Marmara.La data di avvio della

costruzione del palazzo imperiale alle Blacherne non è precisamente definibile

(Papadopulos, 1928; Schneider, 1951; Dirimtekin, 1959). L'Alessiade (X, 11) di

Anna Comnena testimonia comunque che Alessio I Comneno, subito dopo la

conquista del potere, fece erigere in quel quartiere un nuovo palazzo, dove

ricevette i comandanti latini della prima crociata; altre fonti consentono inoltre di

stabilire che il palazzo sorgeva nelle immediate vicinanze se non addirittura a

ridosso delle mura terrestri. Il nipote di Alessio I, Manuele - cui si deve tra l'altro la

ricostruzione di nove torri e di un tratto di cortina in quel settore delle mura -, fece

restaurare e ampliare il palazzo e commissionò inoltre la costruzione di un

secondo edificio, posto a una certa distanza dal primo, lungo il pendio che si

affaccia sul Corno d'Oro. Di entrambi gli edifici non rimangono oggi tracce

archeologiche certe, anche se la complessità della stratificazione muraria in alcuni

settori della cinta nella zona delle Blacherne lascerebbe aperta la possibilità di

condurre indagini archeologiche più approfondite (Paribeni, 1991).Questo

spostamento della sede imperiale all'estremità nordoccidentale della città non fu

certamente estraneo alla grande rivitalizzazione che vissero in quest'epoca i

quartieri settentrionali di C. e che è dimostrata dall'ubicazione delle chiese

direttamente riferibili alla committenza comnena o comunque databili nell'ambito

del sec. 12°: a fronte del caso della chiesa di Cristo Philanthropos, ubicata nel

quartiere delle Mangane (Demangel, Mamboury, 1939), che costituisce l'unica

attestazione di intervento nei quartieri occidentali e meridionali, tutte le altre

chiese di quest'epoca appaiono infatti concentrate sulle alture che dominano il

Corno d'Oro.Non lontano dal sito del complesso dei Ss. Apostoli sorge la chiesa di

Cristo Pantepoptes (od. Eski Imaret Cami), originariamente annessa a un

monastero femminile fatto erigere da Anna Dalassena, madre di Alessio I, poco

prima del 1087 (Mathews, 1976, pp. 59-70). La chiesa, oggi in parte restaurata

dopo un lungo abbandono, sorge sulla sommità di una collina che domina gran

parte della città e presenta il consueto schema a croce greca inscritta, con nartece

ed esonartece, caratterizzato però da una serie di interessanti soluzioni strutturali.

All'interno spicca la presenza di una singolare galleria a U che sovrasta il nartece e

i due angoli occidentali del quinconce e che si apre attraverso un'ampia trifora

verso il corpo centrale cruciforme; all'esterno si fa invece notare un articolato

sistema di coperture, con la cupola centrale parzialmente inglobata da un tamburo

dodecagonale traforato da finestre, una bassa cupola sulla campata centrale

dell'esonartece e i tetti a profilo semicircolare sui bracci della croce. Notevole,

benché parzialmente alterata dai successivi restauri, è poi la qualità della

muratura, ove compare in una versione assai raffinata la tecnica del c.d. mattone

arretrato - realizzata disponendo alternatamente i filari di mattoni su due piani

sfalsati e mascherando in seguito i filari più arretrati con lisciature di malta - che

caratterizza specificamente l'architettura dell'epoca (Vokotopulos, 1979) e che in

questo caso si lega a una ricchissima articolazione parietale, in cui un sistema di

paraste e di archi a doppia e tripla ghiera scandisce le superfici, ospitando fino a

tre ordini sovrapposti di finestre.A poca distanza, su una larga spianata artificiale

ottenuta riutilizzando i resti di una grande cisterna di epoca protobizantina,

sorgono le tre chiese giustapposte del complesso dedicato a Cristo Pantokrator (od.

Zeyrek Kilise Cami), il monastero dei Comneni destinato a divenire luogo di

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sepoltura dei maggiori esponenti della dinastia (Megaw, 1963; Mathews, 1976, pp.

71-101). La prima chiesa, quella meridionale, dedicata a Cristo e commissionata

dall'imperatrice Irene (1118-1124), presentava in origine una struttura piuttosto

articolata, con due gallerie laterali (di cui si conserva solo la meridionale) che

fiancheggiavano l'ampio invaso centrale, coperto da una cupola su tamburo a

sedici lati che, con i suoi m. 7 di diametro, costituisce un'eccezione nel panorama

architettonico dell'epoca; naós e gallerie laterali erano inoltre preceduti da un

vasto nartece a cinque campate con galleria. Nel corso del decennio successivo e

comunque prima del 1136, data dell'atto di fondazione del monastero, l'imperatore

Giovanni II fece aggiungere al nucleo originario prima la chiesa settentrionale,

dedicata alla Vergine Eleúsa, che riprende il tradizionale impianto a quattro

colonne oggi sostituite da pilastri in pietra di epoca ottomana, poi l'edificio

centrale, dedicato a s. Michele: un corpo rettangolare a due campate coperte da

due cupole, ricavato dallo spazio rimasto tra le due costruzioni principali. A

dispetto delle diverse soluzioni strutturali adottate nella realizzazione di ciascun

corpo di fabbrica, nella sua configurazione definitiva il complesso appare come un

insieme armonico, la cui notevole mole è movimentata all'esterno, e

particolarmente nella zona absidale, da un sapiente gioco di nicchie, sfaccettature e

finestrature che rappresentano, insieme con la tecnica muraria a mattone

arretrato, il carattere saliente dell'architettura costantinopolitana di età comnena.

La chiesa meridionale e parte del mausoleo conservano inoltre all'interno uno

splendido pavimento in opus sectile, con medaglioni, motivi a intreccio e racemi

abitati, che, insieme con i resti di crustae marmoree e di vetri istoriati da finestra,

costituisce una concreta testimonianza della magnificenza degli edifici

direttamente collegati con la corte imperiale.Non riconducibili a diretta

committenza imperiale, ma certamente edificati, almeno nella loro fase originaria,

in età comnena, sono poi vari edifici religiosi che continuano a rifarsi al modello

planimetrico della croce greca inscritta, proponendone però di volta in volta

soluzioni in qualche misura originali. È il caso, per es., della Vefa Kilise Cami

(Mathews, 1976, pp. 386-401) e della Gül Cami, di cui è ancora ignota la

dedicazione originaria. Quest'ultima, di dimensioni eccezionali per l'epoca

mediobizantina, particolarmente nel suo sviluppo in altezza, sorge sulle pendici

delle colline a ridosso del Corno d'Oro e per essa l'analisi della tecnica muraria

sembrerebbe suggerire una datazione agli inizi del sec. 12°, anche se gli evidenti

interventi di restauro, in particolare nella zona absidale, lasciano spazio a ipotesi

diverse (Schäfer, 1973).A una spazialità relativamente dilatata simile a quella della

Gül Cami rinvia anche la Kalenderhane Cami, di ignota dedicazione, posta a

ridosso dei resti dell'acquedotto di Valente, che continua a rappresentare uno dei

casi più controversi dell'architettura mediobizantina di Costantinopoli. Le ricerche

archeologiche condotte in occasione dei restauri (Striker, Kuban, 1967-1971)

sembrano aver definitivamente chiarito la cronologia dell'edificio, che nel suo

nucleo essenziale risalirebbe almeno alla fine del sec. 12°, anche se non si possono

escludere fasi precedenti non più leggibili.Al tardo sec. 12° sembra potersi datare

anche l'impianto della chiesa di S. Maria Pammakaristos (od. Fethiye Cami), che

rivela nella ricca articolazione parietale dei muri del nartece caratteri costruttivi

ascrivibili alla tarda età comnena e che, al pari della Kalenderhane Cami, presenta

una particolare accezione del tema dell'impianto a croce greca inscritta, con gli

spazi tra i sostegni scanditi da coppie di colonne a formare, lungo i lati

settentrionale, occidentale e meridionale, una sorta di deambulatorio che fascia il

vano centrale cupolato (Mango, Hawkins, 1964b; Mathews, 1976, pp. 346-365).Più

incerta, nonostante le ricerche archeologiche condotte a partire dal 1948 (Oates,

1960), è infine la portata della fase comnena della chiesa del S. Salvatore di Chora

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(od. Kariye Cami), riconducibile all'epoca di Isacco Comneno, tra il secondo e il

terzo decennio del 12° secolo. A questo intervento risalirebbe infatti la sostituzione

di un preesistente piccolo impianto a quinconce, di cui sono stati rinvenuti resti

delle fondazioni, con l'attuale nucleo dell'edificio, costituito dalla grande abside e

dal corpo cupolato, cui in seguito si addossarono le importanti aggiunte di età

paleologa che ne caratterizzano il profilo esterno e l'articolazione degli spazi

interni (Ousterhout, 1987, pp. 11-36).

Epoca della dominazione latina

La fase di rinnovamento dell'impianto urbano di C. in età comnena si arrestò a

partire dall'ultimo decennio del sec. 12°, in coincidenza con l'aprirsi di un periodo

di aspre lotte dinastiche che indebolirono fortemente l'autorità imperiale e che

ebbero termine solo con la conquista della città da parte dei crociati nel 1204.La

fase della dominazione latina fu caratterizzata da una progressiva sottrazione di

materiali, con un processo che assunse di volta in volta l'aspetto del vero e proprio

saccheggio, segnato dal trasporto in Occidente anche di opere d'arte di notevoli

dimensioni, gran parte delle quali ebbe come destinazione ultima o almeno di

transito la città di Venezia.Se sul piano monumentale il sessantennio della

dominazione latina non lasciò tracce, se non di asportazione, sul piano

demografico e urbanistico, invece, la prima metà del sec. 13° vide giungere a

definitivo compimento il processo di insediamento a C. di gruppi di popolazione

diversi, la cui crescente consistenza numerica finì per caratterizzare in misura

sensibile anche l'articolazione spaziale della città. Le colonie mercantili italiane

occupavano una porzione significativa della zona settentrionale di C., affacciandosi

sul Corno d'Oro in corrispondenza delle porte dette del Neorion, del Drongario e

di Perama, direttamente collegate con gli impianti portuali antistanti. Meno chiara

risulta la disposizione delle colonie provenzale e tedesca, mentre l'insediamento

commerciale russo nei sobborghi lungo il Bosforo sembra inaugurare già alla metà

del sec. 10° una nuova direttrice di espansione urbana della capitale bizantina al di

là dell'antica cinta muraria.Dei numerosi edifici di culto documentati dalle fonti

come annessi alle colonie latine o appartenenti ai diversi ordini religiosi che

stabilirono proprie sedi a C. all'epoca della dominazione latina - Francescani,

Domenicani, Templari, Ospedalieri di s. Giovanni di Gerusalemme - non rimane

alcuna traccia archeologica (Janin, 1953, pp. 582-601; Dufrenne, 1972), al di là del

ciclo di affreschi di ispirazione francescana, databile intorno alla metà del sec. 13°,

rinvenuto nella cappella meridionale della Kalenderhane Cami (Striker, Kuban,

1967-1971), che testimonia un interessante caso di destinazione al culto cattolico

occidentale di una parte almeno di un edificio religioso preesistente.

Epoca paleologa

La rapida e inattesa riconquista della capitale da parte delle truppe bizantine nel

1261 e l'ascesa al trono di Michele VIII, primo esponente della dinastia dei

Paleologhi, che avrebbe regnato fino alla caduta di C. nelle mani dei Turchi,

diedero il via a una nuova fase dell'evoluzione urbana della città, contrassegnata da

un'intensa attività costruttiva. Benché allo stato attuale degli studi appaia ancora

prematuro trarre conclusioni circa l'assetto urbanistico della C. tardobizantina, i

pochi documenti e le sparse notizie delle fonti restituiscono un'immagine di una

città in fase di rapida trasformazione (Frances, 1969). La progressiva occupazione

dei grandi spazi aperti dei monumenti antichi, secondo un processo di

rovesciamento tra spazi liberi e spazi edificati ben noto nelle città del

Mediterraneo occidentale in epoca pieno e tardomedievale, appare documentata

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per es. da una chrysóbulla dello stesso Michele VIII, che si riferisce a case poste

tanto all'esterno quanto all'interno dell'antico Augusteion, la cui fisionomia

monumentale non era evidentemente più riconoscibile e che aveva assunto il

valore di semplice toponimo (Janin, 19642, p. 60). Al tempo stesso l'ubicazione di

tutti gli edifici religiosi e profani legati alla committenza paleologa nella larga

fascia di orti e giardini che si disponeva subito all'interno delle mura terrestri

testimonia chiaramente il definitivo compimento di quel processo, avviato già in

epoca comnena, di spostamento verso la periferia occidentale della città dei centri

direzionali e degli insediamenti privilegiati.Subito a ridosso delle mura, a non

grande distanza dal palazzo delle Blacherne, il figlio di Michele VIII, Costantino,

detto il Porfirogenito come il suo omonimo della prima metà del sec. 10°, fece

edificare un nuovo palazzo, oggi noto con il nome turco di Tekfur Sarayı, destinato

con ogni probabilità a divenire la sede degli esponenti della nuova dinastia

(Dirimtekin, 1952; Mango, 1965, pp. 335-336; Eyice, 19802; Ousterhout, 1991, pp.

78-79). Si tratta di un edificio di pianta rettangolare, articolato su tre piani, che

costituiva la parte nobile di un complesso di maggiori dimensioni disposto intorno

a un vasto cortile ricavato riutilizzando un tratto delle mura terrestri, con i cui

camminamenti era posto in diretta comunicazione. Perdute completamente le

strutture interne, il palazzo conserva ancora l'armonica facciata, la cui superficie,

traforata dall'ampio porticato del piano terreno e dai due ordini di finestre dei

piani superiori, è ulteriormente movimentata da un gioco di archi addossati e di

inserti decorativi a motivi geometrici in laterizio e ceramica invetriata, i quali,

insieme con la caratteristica muratura a fasce alternate di piccoli conci di calcare e

laterizi, in larga misura di reimpiego, costituiscono i caratteri salienti del

vocabolario architettonico dell'edilizia costantinopolitana di età paleologa.Nel

campo dell'architettura religiosa collegata direttamente o indirettamente agli

ambienti di corte, la fase tardobizantina si caratterizzò per due fenomeni

complementari: da un lato un'evidente e consapevole attenzione per il restauro e

l'ampliamento di edifici preesistenti, quasi a sottolineare l'ideale continuità che

legava la dinastia regnante con quelle macedone e comnena; dall'altro il

proliferare di chiese di piccole dimensioni e di struttura semplificata.Il primo

fenomeno è ben rappresentato dai tre casi della chiesa meridionale del monastero

di Costantino Lips, della chiesa di S. Maria Pammakaristos e di quella del S.

Salvatore di Chora, tutti condotti a termine entro il primo ventennio del 14° secolo.

La chiesa meridionale del monastero di Costantino Lips venne commissionata dalla

moglie di Michele VIII, Teodora, e fu probabilmente condotta a termine entro il

1282, anno della redazione dell'atto di fondazione del nuovo monastero.

L'addizione del nuovo corpo di fabbrica - che tipologicamente si rifà agli impianti a

deambulatorio di età comnena - venne realizzata inglobando e riutilizzando come

protesi la cappella meridionale della chiesa precedente, creando così una

terminazione orientale unitaria e articolata che, nel ritmato succedersi delle absidi

e delle nicchie, richiama da vicino, seppure su diversa scala dimensionale, l'effetto

ottenuto quasi due secoli prima nella realizzazione del complesso del Pantokrator.

Il possibile legame anche ideologico del rinnovato complesso con il mausoleo

dinastico dei Comneni sembrerebbe inoltre rafforzato dalla presenza nel nartece e

nel deambulatorio della nuova chiesa di numerosi arcosoli, nonché dall'ulteriore

addizione, intorno al 1300, di un parekklésion a destinazione funeraria.La chiesa

del S. Salvatore di Chora rappresenta forse un caso ancora più emblematico di

restauro e ampliamento di un impianto monastico preesistente a opera di un

personaggio strettamente legato con la corte paleologa, il logoteta Teodoro

Metochite, figura di alto rango, considerata dai suoi contemporanei tra le più

potenti e influenti nella C. degli inizi del 14° secolo. Nominato ktétor del

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monastero di Chora dallo stesso imperatore Andronico II, Teodoro, che risiedeva

in uno sfarzoso palazzo posto nella medesima regione, finanziò i restauri del

complesso a partire probabilmente dal 1315. I lavori erano pressoché terminati nel

1321 e comportarono una radicale trasformazione di quello che rimaneva

dell'impianto del sec. 12°, di cui furono conservati solo il vano centrale cupolato e

la zona absidale, modificandone però sensibilmente il sistema degli accessi dal

nartece e chiudendo la porta del diaconico, che venne così trasformato in una

cappella separata, accessibile solo dal parekklésion meridionale. Al corpo originale

vennero quindi annessi un nartece a due cupole, che riprendeva forse le forme di

una struttura preesistente, e un corpo di fabbrica addossato al lato settentrionale

della chiesa e articolato su due piani raccordati da un corpo-scala; l'impianto fu

completato dalla costruzione del parekklésion, addossato al fianco meridionale del

naós e dotato di arcosoli destinati a ospitare le sepolture dei membri della famiglia

del committente, e di un esonartece, dotato di campanile nell'angolo

sudoccidentale. Anche in questo caso ritornano gli elementi tipici delle strutture

murarie di età paleologa, con una particolare accentuazione degli inserti decorativi

in laterizi, tra cui spiccano alcuni monogrammi di Teodoro Metochite (Ousterhout,

1987).Allo stesso ambito cronologico e a una committenza altrettanto alta deve

essere ricondotta l'edificazione del parekklésion meridionale annesso alla chiesa di

S. Maria Pammakaristos (Hallensleben, 1963-1964; Mango, Hawkins, 1964b;

Mathews, 1976, pp. 346-365). Il nuovo corpo di fabbrica - dedicato, come recita

una lunga iscrizione sulla facciata meridionale, alla memoria di Michele Ducas

Glabas Tarchaniotes dalla vedova Marta - assume l'aspetto di una vera e propria

piccola chiesa del tipo a quattro colonne con nartece a due piani, attraverso cui si

accede a una piccola tribuna che si affaccia sul vano centrale dell'edificio,

permettendo all'osservatore di cogliere l'armonia di volumi che articola,

moltiplicandolo, il ridotto spazio interno dell'edificio. La stessa raffinatezza

compositiva presiede anche alla realizzazione delle superfici esterne, in particolare

nella facciata meridionale, dove l'impianto quadrangolare su tre livelli, scandito

dalle simmetriche trifore sovrapposte che danno luce al nartece e al naós, non

rivela quasi l'articolazione del corpo retrostante, avvicinando l'aspetto esterno

dell'edificio religioso a quello di un palazzo signorile. Questa caratteristica, che

appare essere una sigla architettonica frequente in età paleologa, si ritrova

esplicitata nell'esonartece aggiunto in un'epoca ancora imprecisata, ma

probabilmente di poco più tarda, all'originario corpo di età comnena della Vefa

Kilise Cami, il cui schema su due livelli con finto porticato al piano terreno e una

serie di bifore all'interno di nicchie semicircolari al primo piano ricorda il partito

compositivo del Tekfur Sarayı.Gli stessi caratteri tecnici e il medesimo vocabolario

architettonico applicato a una differente sintassi compositiva si colgono nel

secondo gruppo di edifici - noti oggi solo con la denominazione turca: Boğdan

Sarayı, Isa Kapısı Mescidi (Otüken, 1974), Manastir Mescidi, Sinan Paşa Mescidi

(Eyice, 19802, pp. 26-34) - che caratterizza la fase paleologa dell'architettura

costantinopolitana. Si tratta di costruzioni di modeste dimensioni, a navata unica a

eccezione del Manastir Mescidi, in cui si ritrovano l'impiego della muratura a corsi

alternati di pietra e mattoni e la ricca articolazione delle superfici attraverso l'uso

di nicchie e cornici. La destinazione di alcuni di questi edifici a cappelle di palazzo

e a uso funerario appare la più probabile ed è testimoniata con certezza almeno nel

caso del Boğdan Sarayı, i cui resti sono ancora visibili nel quartiere di Chora, non

lontano dalla chiesa del S. Salvatore. Si tratta di un piccolo edificio mononave a

due piani, dove, nel livello inferiore, seminterrato e privo di finestre, nel corso di

uno scavo archeologico condotto durante la prima guerra mondiale e di cui è

andata perduta ogni documentazione, sarebbero stati rinvenuti tre sarcofagi.Alla

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fase immediatamente successiva al rientro in città dei Paleologhi va ascritta anche

la riorganizzazione urbana dei sobborghi di Pera e Galata, posti sulla riva

settentrionale del Corno d'Oro e destinati a divenire la sede della colonia

mercantile genovese che, nel complesso panorama politico-economico venutosi a

creare dopo la caduta del regno latino, si avviava a ricoprire il ruolo di

interlocutore commerciale privilegiato della nuova dinastia imperiale (Sauvaget,

1934). Con i due trattati del 1267 e del 1303 i Paleologhi riconobbero in effetti ai

Genovesi il diritto di occupare una vasta area in quella regione, di edificarvi le loro

case e i loro magazzini, di crearvi una zona franca commerciale soggetta a leggi e

autorità autonome e infine, a partire dal 1335, di erigere una vera e propria cinta di

mura. L'insediamento genovese si disponeva su una superficie di ha 12 ca., con una

forma allungata e grosso modo rettangolare che seguiva il profilo di quel tratto di

costa, ed era delimitato da una cerchia difensiva di cui restano poche vestigia

(Gottwald, 1907). Nel 1348 una nuova concessione permise ai Genovesi di

espandere verso N l'insediamento, costruendo altri due tratti di mura facenti perno

su un grande torrione cilindrico, la c.d. torre del Cristo, il cui profilo, risultante di

diversi interventi successivi, domina tuttora il panorama della sponda

settentrionale del Corno d'Oro (Müller-Wiener, 1977, pp. 320-323). All'interno del

perimetro del nuovo nucleo urbano, accanto a case, botteghe e magazzini, le fonti

testimoniano dell'esistenza di diverse chiese, oggi pressoché totalmente perdute -

di quelle dei Domenicani (S. Paolo, od. Arap Cami) e dei Benedettini, conservatesi

quasi intatte fino alla fine del sec. 19°, rimangono comunque parti significative

(Müller-Wiener, 1977, pp. 79-80; 100-101) -, nonché di un palazzo comunale il cui

aspetto è noto attraverso alcuni disegni della fine del secolo scorso (Müller-

Wiener, 1977, p. 243).La costruzione e fortificazione di Pera e Galata segnarono di

fatto l'esaurirsi dell'attività edilizia di vasto respiro a Costantinopoli. A partire dalla

metà del sec. 14° e fino alla caduta della città nelle mani dei Turchi, né le

emergenze archeologiche né le fonti documentarie permettono di individuare

mutamenti significativi sul piano urbanistico o di assegnare a quest'epoca alcun

edificio conservatosi, eccezion fatta per diversi interventi di restauro condotti sulle

mura terrestri, in corrispondenza della porta d'Oro e nel settore delle Blacherne,

dove le iscrizioni rinvenute assegnano i lavori alla committenza di Giovanni VIII

Paleologo (1425-1448).

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stampa).E. Zanini

Scultura

La scultura costantinopolitana si fece depositaria e interprete dell'eredità delle

tradizioni classiche, sia nella produzione in funzione architettonica e decorativa sia

nel rilievo figurato (Kollwitz, 1941). Questi legami sono d'altronde palesemente

enunciati dai magniloquenti monumenti celebrativi che gli imperatori dei secc.

4°-5° vollero esemplati su modelli antichi anche per significare la perenne

continuità dell'Imperium romano. Negli aulici monumenti teodosiani - quali i

rilievi scolpiti sulla base dell'obelisco eretto sulla spina dell'ippodromo nel 390

(Kiilerich, 1993) e nei fregi delle colonne coclidi istoriate di Teodosio I (393) e di

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Arcadio (402-403) - se pure sedimentarono ancora tematiche e schemi

iconografici ereditati dall'arte celebrativa romana e tardoromana, si coglie tuttavia

una nuova sensibilità formale e soprattutto l'affermarsi dello spirito cristiano che

compenetrò di trascendenza il contenuto degli eventi narrati nei fregi (Becatti,

1960). Gli artisti della neocapitale non recuperarono pedissequamente i modelli

antichi, ma, sollecitati da nuove esigenze estetiche e semantiche, li

reinterpretarono elaborando uno stile che, se pure modulato sui valori formali

classici, rivela il lento dissolversi di ogni senso di realistica mimesi. Emblematica al

riguardo, ancor più dei citati rilievi, di cui è peraltro pervenuta una

documentazione assai frammentaria (restano solo esigui lacerti e una serie di

riproduzioni grafiche di entrambi i fregi delle colonne), è la testimonianza offerta

dall'enigmatico presunto ritratto di Arcadio (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990,

nr. 5), una scultura nella quale l'artista attenuò i guizzi dell'illusionismo

impressionistico, capace di fissare nel marmo ogni mobilità della fisionomia e ogni

cangiante fluttuazione della vita psichica. Il senso del naturalismo inteso come

rapida registrazione percettiva di una dimensione fisica svanisce in questa forma

perfetta, plasmata con piani fluidi e levigati, impercettibilmente carezzati da

sfumature epidermiche. Il ritratto diviene in questo caso una formula simbolica,

sovraindividuale, nella quale il naturalismo e l'umana fisicità vengono trascesi per

evocare piuttosto il concetto stesso di basiléus. Tale tipo di ritratto concede quindi

all'individuazione del personaggio solo una vaga caratterizzazione che, riferita in

senso lato a Teodosio I, ad Arcadio e anche a Teodosio II, spiega le discordanti

identificazioni proposte dagli studiosi. Con questa straordinaria scultura si

dischiuse dunque una nuova dimensione stilistica, modulata su una sottile tensione

dialettica tra realtà e astrazione, una tendenza che permase del resto sempre

latente nella concezione formale bizantina. Anche altre opere figurate

contemporanee o di poco posteriori manifestano i medesimi intendimenti formali,

volti a smaterializzare il senso della fisicità con volumi morbidissimi e sfumati, nei

quali della forma classica non resta in effetti che un larvato riflesso, come nel

rilievo da Bakirköy (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 89).Nella stessa

direzione si mossero parallelamente le esperienze della scultura decorativa, che si

distaccarono gradualmente dai canoni formali del repertorio classico, attraverso

un percorso evolutivo scandito nel tempo da una serie di complessi monumentali

datati. Dai decori plastici del protiro teodosiano della Santa Sofia (415), a quelli

della basilica di S. Giovanni di Studios (453), sino alle esotiche invenzioni del S.

Polieucto e dei Ss. Sergio e Bacco (524-527) - le cui forme innovative trovarono

una perfetta sintesi nel superbo arredo scultoreo della Santa Sofia giustinianea -, è

infatti possibile ripercorrere tale metamorfosi sia nell'alterarsi dei valori organici e

proporzionali sia soprattutto nell'attenuarsi degli effetti tridimensionali - è

significativa al riguardo la mutazione del fregio a girali di acanto -, con esiti che

travalicarono il classico concetto di decorazione concepita per sottolineare il

plastico vigore delle membrature architettoniche. Sono appunto le immateriali

stesure decorative della Santa Sofia che si espandono senza apparente soluzione di

continuità a guisa di rabesco sui capitelli, sulle cornici e sulle pareti, a siglare il

punto di arrivo delle esperienze accumulate nel recente passato (Strube, 1984).

Tali esperienze erano state del resto perfettamente registrate dalla varietà delle

nuove forme di capitelli create dagli artisti costantinopolitani nel corso dei secc. 5°

e 6°, che ne rigenerarono altresì l'ornamentazione con esotici motivi ispirati al

repertorio sasanide, di cui è soprattutto il decoro plastico del S. Polieucto a offrire

la testimonianza più significativa.L'eleganza e la raffinatezza tecnico-formale che

caratterizzano la produzione scultorea dei secc. 5° e 6° sono apprezzabili anche nei

sarcofagi e negli arredi liturgici, come gli amboni, i plutei, le transenne e gli altri

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elementi delle recinzioni presbiteriali impreziositi anche da intarsi marmorei

policromi. Per gli amboni e i plutei furono privilegiate soprattutto nitide

composizioni decorative a disegni geometrici con elementi vegetali e animali,

ovvero serti di alloro e dischi cruciferi che si stagliano sul liscio piano di fondo,

come appunto è testimoniato dalla splendida serie ancora in opera nella Santa

Sofia (Barsanti, Guiglia Guidobaldi, 1992). Le medesime composizioni decorative si

ritrovano sui sarcofagi, per lo più del tipo a cassapanca, lavorati sia nel marmo

proconnesio, sia nella breccia verde di Tessaglia o in quella rossastra di Hereke, sia

nell'alabastro, come nel caso del monumentale esemplare, oggi all'Arkeoloji Müz.,

attribuito all'imperatore Eraclio (610-641). Predominano clipei lemniscati, dischi

cruciferi e semplici croci, ma non mancano richiami ad antiche tipologie

microasiatiche con partiture architettoniche includenti temi figurati e simbolici,

con cantari, elementi vegetali e animali (Farioli Campanati, 1983), come testimonia

appunto un interessante esemplare di marmo nero, ora all'Arkeoloji Müz. (Fıratlı,

1990, nr. 87). Nelle transenne l'ornamentazione, virtuosisticamente ritagliata a

giorno sulla superficie marmorea, riproduce invece fragili trame nastriformi siglate

da svariati motivi vegetali e animali, come testimonia per es. la serie del S. Vitale a

Ravenna (Ravenna, Mus. Naz.; Deichmann, 1989), in cui è possibile riconoscere

manufatti costantinopolitani e porre quindi l'accento sul fenomeno di vaste

dimensioni dell'esportazione dei materiali marmorei dall'area metropolitana, che

dalla fine del sec. 4° alla prima metà del 6° interessò tutti i territori dell'impero (v.

Capitello).Riveste poi un interesse documentario del tutto eccezionale la serie di

dieci pannelli figurati emersa dallo scavo del S. Polieucto, oggi all'Arkeoloji Müz.

(Harrison, 1986; Fıratlı, 1990, nrr. 485-492), sui quali sono scolpiti a bassorilievo i

busti in posizione frontale di Cristo e degli apostoli, i cui volti furono

probabilmente abrasi in epoca iconoclasta. Benché si tratti di sculture di qualità

piuttosto mediocre, rivelata soprattutto da una resa assai sommaria delle anatomie

e del panneggio, risulterebbe particolarmente interessante la loro eventuale

pertinenza a un témplon, che offrirebbe una concreta testimonianza circa la

presenza di cicli figurati nei témpla del sec. 6°, altrimenti noti solo dalla

descrizione della recinzione presbiteriale della Santa Sofia giustinianea tramandata

da Paolo Silenziario nella Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae (PG, LXXXVI, 2,

coll. 2145-2146; Epstein, 1981; Nees, 1983).Si possono citare altri esempi di

sculture figurate destinate all'arredo architettonico e liturgico degli edifici

dell'epoca: i frammenti di una colonna decorata con un esuberante tralcio di vite

che ospita diverse figurazioni (per es. il Battesimo di Cristo), caratterizzata da uno

stile di gusto naturalistico che richiama alla mente l'antico repertorio degli scultori

afrodisiensi (Fıratlı, 1990, nr. 190), o due capitelli con figure di serafini, destinati a

sorreggere un arco di ciborio (ivi, nrr. 230-231). Nello scavo del S. Polieucto furono

altresì recuperati numerosi frammenti di figure maschili e femminili di piccole

dimensioni che decoravano forse un rilievo o un sarcofago, nelle quali si avvertono

ancora stretti legami iconografici e stilistici con le tradizioni scultoree classiche di

ambito microasiatico (ivi, nrr. 425-484). Relativamente alla scultura figurata si

ricordano inoltre le due basi, con buona probabilità collocate in origine sulla spina

dell'ippodromo, che recavano le statue bronzee di Porfirio, famoso auriga dei

primi anni del 6° secolo. I suoi trionfi circensi sono celebrati appunto da una serie

di iscrizioni (già note nella testimonianza dell'Anthologia Palatina, XVI) e di scene

in cui compare lo stesso Porfirio con la palma della vittoria o sulla quadriga

incoronato dalle Níkai e acclamato dalla folla (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı,

1990, nrr. 63-64). Il codice rappresentativo replica peraltro quello dei

contemporanei dittici consolari d'avorio, nei quali all'immagine dominante del

protagonista si subordinano, anche dimensionalmente, soggetti di carattere

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narrativo organizzati in maniera più sciolta e con figure di modulo ridotto.Un pur

breve cenno va rivolto alla statuaria del sec. 6°, di cui purtroppo, al di là delle

testimonianze testuali che menzionano numerose statue-ritratto imperiali, non

resta altro che la riproduzione grafica (Papadaki-Oekland, 1990) della

problematica statua equestre di Giustiniano - forse un riassemblaggio di un

monumento di età teodosiana - posta sulla colonna dell'Augusteion, ove rimase sin

oltre la conquista turca della città, e l'ancora più enigmatica testa di porfido

diademata, oggi a Venezia (S. Marco), nella quale è stato riconosciuto persino il

ritratto di Giustiniano (Stichel, 1982, pp. 64ss., 104-115).La fine del sec. 6° siglò il

concludersi del primo grande capitolo della storia della scultura

costantinopolitana, il cui prosieguo sfugge purtroppo a qualsiasi concreto tentativo

di valutazione sino almeno a tutto il 9° secolo. La consistenza dei materiali è

piuttosto esigua - forse anche a causa di una sensibile flessione delle attività dei

laboratori marmorari che gravitavano nell'orbita delle cave del Proconneso - ed è

oltretutto priva di concreti referenti cronologici utili a ritesserne con coerenza le

trame evolutive. Bisogna infatti giungere ai primi anni del sec. 10° per 'scoprire'

nei decori plastici della chiesa nord del monastero di Costantino Lips (907) la

nuova fisionomia stilistica della scultura di C., che appare assai distante dalle

tradizioni classiche. Predominano infatti forme vegetali stilizzate e ibridate

all'interno di composizioni addensate, ritmate e coordinate da figure geometriche

con attenuatissimi effetti tridimensionali. In alcune stesure decorative venne anche

adottata la tecnica dell'incrostazione, che, conferendo all'ornato il levigato aspetto

dello smalto o del niello, ne esaltava ancor più l'effetto bidimensionale. Il

multiforme repertorio ornamentale di questo edificio esibisce altresì raffinati

motivi vegetali e animali di ascendenza sasanide, che, a guisa di erudite citazioni

antiquarie, riflettono la cultura contemporanea volta al recupero delle arti antiche,

ma anche il successo sempre più attuale delle mode orientali, mediato dalla

diffusione dei manufatti islamici (Grabar, 1963). Stilemi orientali caratterizzano

infatti sia le composizioni con astratti motivi geometrici e stilizzate sigle vegetali

sia quelle con figure di animali reali o fantastici, già ampiamente diffuse in età

iconoclasta, della scultura dei secc. 10°-11°, nonché la stessa resa formale di effetto

sempre più bidimensionale.Il gusto per una decorazione scultorea ridondante,

come è evidente appunto nella chiesa del monastero di Costantino Lips,

sembrerebbe tuttavia attenuarsi nei decenni successivi. Gli interni dei superstiti

edifici costantinopolitani dei secc. 11°-12° rivelano in effetti, tranne nel caso della

Kalenderhane Cami, un'estrema essenzialità nelle partiture ornamentali scolpite,

anche dal punto di vista repertoriale, come nel monastero del Pantokrator (Zeyrek

Kilise Cami) e nella chiesa del Cristo Pantepoptes (Eski Imaret Cami). La stessa

tendenza si registra anche in epoca paleologa, come attestano infatti le chiese del S.

Salvatore di Chora (Kariye Cami) e di S. Maria Pammakaristos (Fetihye Cami),

dove ricorrono peraltro fregi con tarsie marmoree. Si dovrà comunque tener conto

del fatto che purtroppo le chiese costantinopolitane sono ormai spoglie dei loro

arredi liturgici, i quali, come testimonia specificamente una serie di icone

marmoree e altri materiali scultorei, dovevano essere al contrario assai ricchi e

articolati. Le icone marmoree fecero la loro apparizione all'indomani

dell'iconoclastia e, come segnalano gli stilemi classicheggianti, questa trasposizione

iconografica dalla pittura alla plastica ben si collocherebbe sullo sfondo di quella

rinascita classica di cui si fece interprete la corte macedone (Lange, 1964; Grabar,

1976). Ma se pure si coglie in queste raffigurazioni un richiamo a modelli antichi,

l'eleganza formale di tradizione classica si stempera in un modellato ricco di effetti

smaterializzanti. Uno dei più antichi esempi è la lastra con la Vergine orante

(Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 365) rinvenuta negli scavi della chiesa

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di S. Giorgio di Mangana in prossimità di una fontana di cui doveva senza dubbio

fare parte, come starebbe a indicare infatti la mano perforata dalla quale

probabilmente sgorgava l'acqua; tale funzione, come attestano il De caerimoniis di

Costantino VII Porfirogenito (II, 12) e altri pezzi analoghi, non sarebbe affatto

eccezionale per questo tipo di rilievo. Databile alla prima metà del sec. 11°, la

Vergine delle Mangane, nonostante il suo frammentario stato di conservazione, si

impone come un vero e proprio capolavoro: straordinariamente raffinato appare

infatti il modellato che definisce il chiasmo assolutamente frontale della figura di

modulo allungato, la cui eleganza formale viene peraltro esaltata dalla sobria

ritmica dei panneggi appena chiaroscurati.C. ha conservato altri rilievi di carattere

sacro, per es. una rara immagine della Vergine Odighítria, nonché alcuni

interessanti esempi con iconografie profane, mitologiche e allegoriche, come

l'Apoteosi di Alessandro Magno (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 76,

131), per i quali è tra l'altro possibile individuare dei precisi paralleli iconografici e

stilistici nei contemporanei avori. Relativamente ai secc. 11° e 12° si rammentano

inoltre alcuni pezzi, molto probabilmente spoglie costantinopolitane, riutilizzati

nel S. Marco di Venezia, tra i quali il pannello con la Fortuna, quello con S.

Demetrio e soprattutto la Vergine Aníketos della cappella Zen, che preannuncia

significativamente lo stile paleologo, indicato dalla spazialità generata dalla figura

stessa assisa sul trono e dal panneggio, pur sempre denso, ma assai più

chiaroscurato (Grabar, 1976, nr. 123-124).Nell'età paleologa, infine, la scultura

costantinopolitana espresse i suoi ultimi guizzi creativi in una serie di opere che

manifestano un forte richiamo al passato. Le figure di angeli e i busti di apostoli e

santi scolpiti sull'archivolto della chiesa sud del monastero di Costantino Lips, del

1282-1303, su una cornice della chiesa di S. Maria Pammakaristos, del 1310-1315

(Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 414, 300), nonché su altri frammenti

di archivolti (ivi, nrr. 272-274) e su una serie di capitelli, alcuni dei quali pertinenti

agli arcosoli funerari della chiesa del S. Salvatore di Chora, della metà del sec. 14°,

si ispirano infatti a modelli paleobizantini, tentando di replicarne le morbide

volumetrie con un modellato quasi abbreviato. Non si tratta comunque di

pedisseque imitazioni poiché gli scultori paleologhi riuscirono a infondere alle loro

figure un nuovo senso di vibrante umanità che affiora nella tensione emotiva dei

volti e nel forte páthos espresso dagli sguardi, assai distante dall'icastica iconicità

delle raffigurazioni sacre comnene (Belting, 1972; Grabar, 1976; Hjort, 1979).

Anche nel repertorio specificamente ornamentale si percepisce un intenzionale

recupero dell'Antico: compaiono per es. fregi con girali e foglie di acanto che

sottolineano con effetto tridimensionale il disegno architettonico dei citati arcosoli

funerari della chiesa del S. Salvatore di Chora.Per quanto riguarda invece i decori

della chiesa sud del monastero di Costantino Lips, impreziositi da incrostazioni

plastiche policrome, si ha quasi l'impressione che volessero rievocare i sontuosi

arredi architettonici e liturgici di epoca macedone e comnena realizzati in oro o in

argento, tempestati di pietre e di sfavillanti smalti, ambite prede del bottino

latino.Relativamente all'epoca paleologa si segnalano infine alcune singolari

sculture a carattere profano con le figure di acrobata, di menadi, di danzatore e

anche di un dignitario, nonché un frammento con la raffigurazione di un

personaggio, imperatore o arcangelo, che indossa il lóros gemmato (Istanbul,

Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 33, 241, 295-296, 77).

Bibl.: L. Bréhier, Etudes sur l'histoire de la sculpture byzantine, Nouvelles archives

des missions scientifiques et littéraires, n.s., 20, 1913, 3, pp. 19-105; id., Nouvelles

recherches sur l'histoire de la sculpture byzantine, ivi, 21, 1916, 9, pp. 1-66; J.

Kollwitz, Oströmische Plastik der theodosianischen Zeit (Studien zur spätantiken

Kunstgeschichte, 12), Berlin 1941; G. Becatti, La colonna coclide istoriata. Problemi

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storici iconografici stilistici, Roma 1960; A. Grabar, Sculptures byzantines de

Constantinople (IVe-Xe siècle) (Bibliothèque archéologique et historique de

l'Institut français d'archéologie d'Istanbul, 17), Paris 1963; R. Lange, Die

byzantinische Reliefikone (Beiträge zur Kunst des christlichen Ostens, 1),

Recklinghausen 1964; H. Belting, Zur Skulptur aus der Zeit um 1300 in

Konstantinopel, MünchJBK, s. III, 23, 1972, pp. 63-111; A. Grabar, Sculptures

byzantines du Moyen Age, II, (XIe-XIVe siècle) (Bibliothèque des CahA, 12), Paris

1976; E. Kitzinger, Byzantine Art in the Making. Main Lines of Stylistic

Development in Mediterranean Art, 3rd-7th Century, London 1977 (trad. it. L'arte

bizantina. Correnti stilistiche nell'arte mediterranea dal III al VII secolo, Milano

1989); Ø. Hjort, The Sculpture of Kariye Camii, DOP 33, 1979, pp. 199-289; A.W.

Epstein, The Middle Byzantine Sanctuary Barrier: Templon or Iconostasis?,

Journal of the British Archaeological Association 124, 1981, pp. 1-28; R.H.W.

Stichel, Die römische Kaiserstatue am Ausgang der Antike. Untersuchungen zum

plastischen Kaiserporträt Zeit Valentinian I (364-375) (Archaeologica, 24), Roma

1982; R. Farioli Campanati, Ravenna, Costantinopoli: considerazioni sulla scultura

del VI secolo, CARB 30, 1983, pp. 205-253; L. Nees, The Iconographic Programme

of Decorated Chancel Barriers in the Pre-Iconoclastic Period, ZKg 46, 1983, pp.

15-26; J.P. Sodini, K. Kolokotsas, Aliki II: la basilique double (Etudes Thasiennes,

10), Paris 1984; C. Strube, Polyeuktoskirche und Hagia Sophia. Umbildung und

Auflösung antiker Formen. Entstehen des Kämpferkapitells (Bayerische Akademie

der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, Abhandlungen, n.s., 92),

München 1984; R.M. Harrison, Excavations at Saraçhane in Istanbul, I, The

Excavations, Structures, Architectural Decoration, Small Finds, Coins, Bones, and

Molluscs, Princeton 1986; C. Barsanti, L'esportazione di marmi dal Proconneso

nelle regioni pontiche durante il IV-VI secolo, RINASA, s. III, 12, 1989, pp. 91-220;

F.W. Deichmann, Ravenna, Hauptstadt des spätantiken Abendlandes, II, 3,

Kommentar, Stuttgart 1989; N. Fıratlı, La sculpture byzantine figurée au Musée

archéologique d'Istanbul, a cura di C. Metzeger, A. Pralong, J.P. Sodini

(Bibliothèque de l'Institut français d'études anatoliennes d'Istanbul, 30), Paris

1990; S. Papadaki-Oekland, The representation of Justinian's Column in a

Byzantine Miniature of the Twelfth Century, BZ 83, 1990, pp. 63-71; C. Barsanti, A.

Guiglia Guidobaldi, Gli elementi della recinzione liturgica ed altri frammenti

minori nell'ambito della produzione scultorea protobizantina, in F. Guidobaldi, C.

Barsanti, A. Guiglia Guidobaldi, San Clemente. La scultura del VI secolo (San

Clemente Miscellany, IV, 2), Roma 1992, pp. 68-270; B. Kiilerich, Late Fourth

Century Classicism in the Plastic Arts. Studies in the So-Called Theodosian

Renaissance, Odense 1993.C. Barsant

Pittura

Tre eventi di portata epocale - la crisi iconoclasta (730-787, 813-843), la conquista

latina di C. (1204-1261), infine la caduta della stessa in mano ottomana (1453) -

hanno inferto a quello che fu il patrimonio più ricco e articolato del mondo

postclassico e premoderno una catena di distruzioni, spoliazioni e alienazioni

senza eguali nel corso del Medioevo. Alla storiografia russa, tedesca, viennese e

francese che fra l'avanzato Ottocento e i primi del Novecento cominciò a riflettere

sui processi dell'arte bizantina, la capitale dell'impero offriva un quadro

desolatamente vuoto. La pittura di C. nell'economia della figuratività bizantina era

un buco nero; solo la lettura delle fonti letterarie permetteva una qualche

conoscenza di cicli e immagini recuperabili, laddove possibile, esclusivamente in

termini iconografici.Ma dagli anni Trenta i connotati del panorama sono cambiati

profondamente. L'attività del Byzantine Inst. americano, volta a riportare alla luce

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e restaurare mosaici e pitture murali, e l'occasione offerta da varie campagne di

scavi sono all'origine di scoperte e ritrovamenti di straordinaria importanza. Perciò

oggi è possibile delineare un quadro della pittura di C. fitto di una quantità di

testimonianze inimmaginabile un secolo fa e, nonostante la non rimarginabilità

delle cesure inferte dalle distruzioni iconoclaste e dalle dispersioni a opera dei

dominatori occidentali, composto nei caratteri di un vero e proprio profilo. Tale

profilo appare cadenzato sui binari della lunga durata (secc. 5°-15°) e dunque

destinato a divenire nei confronti dell'intero sistema figurativo bizantino una

specie di spina dorsale, un asse di riferimento imprescindibile per tutte le

elaborazioni che si danno altrove, dentro e fuori i confini dell'impero.La prima

testimonianza nota riguarda le inedite pitture murali nella camera tombale

scoperta alla fine degli anni Ottanta fra le mura della cinta teodosiana, in un punto

non lontano dalla porta d'Oro (Deckers, 1991). I dipinti comprendono una serie di

figure in un contesto paradisiaco, la loro impaginazione compositiva è assai

semplice e tenuamente simbolico l'ordito tematico. Questo rinvenimento, se da

una parte rende più alta rispetto al passato la soglia cronologica della pittura di C.,

dall'altra concerne tuttavia un battesimo legato a dipinti dal carattere figurativo

'neutro', appartato nei riguardi dello sviluppo costantinopolitano successivo e

invece in sintonia con i tratti di quella pittura funeraria stilisticamente compatta e

poco differenziata che nei secc. 4° e 5° si diffuse abbondantemente in tutto il

territorio dell'impero, dall'Asia Minore alla Grecia, all'area balcanica, a Roma

(Andaloro, 1993). Né d'altra parte la memoria della perduta composizione absidale

probabilmente musiva (datata 473), ubicata nell'oratorio del monastero delle

Blacherne, raffigurante la Vergine, l'imperatore Leone I e vari membri della sua

famiglia, se pure risulta utile nel far luce sulla precoce politique de l'icône praticata

da parte degli imperatori bizantini (Grabar, 19842, p. 29), essendo nota solo

attraverso fonti letterarie (ivi, p. 54, n. 4), è in grado di rischiarare minimamente il

volto figurativo del sec. 5°, il quale continua dunque a rimanere oscuro.Il vero atto

di nascita della pittura di C. è tuttora da ravvisare nella serie di miniature

illustranti il Dioscoride compiuto per la principessa Anicia Giuliana intorno al 512

(Vienna, Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1; Lazarev, 1967; Gerstinger, 1970). Pervade le

miniature la naturalezza tutta sintattica della composizione, per cui figure, gesti e

spazio acquistano un significato concreto, effettivo ed è squisitamente alta

l'esecuzione pittorica, ricca e immediata ovunque, ma già incline a piegarsi -

nell'ambito della struttura figurativa di un'immagine come quella di Anicia

Giuliana al centro della miniatura contenuta a c. 6v - verso moduli di timbro

aulicamente astrattizzante e iconico. L'opera prima della pittura costantinopolitana

nasce dunque nel segno dell''ellenismo perenne', destinato a divenire la stella

polare del suo lungo percorso e a rendere C. il massimo centro di irradiazione di

quell'orientamento artistico e al contempo l'unico, quando si eclissarono le altre

capitali del mondo (Kitzinger, 1936; 1977).Risale agli anni 523-527 e ancora una

volta alla committenza di Anicia Giuliana la decorazione musiva che ornava la

chiesa di S. Polieucto e della quale è stata rinvenuta e raccolta una miriade di

frammenti e di tessere isolate. Molti dei frammenti sono provvisti della malta

d'allettamento, le tessere sono in prevalenza di pasta vitrea, d'oro e d'argento; non

mancano tuttavia quelle in marmo, pietra e terracotta. Poiché la percentuale delle

tessere d'oro rinvenute nella zona absidale è assai alta, è del tutto lecito ritenere

che un mosaico a fondo oro ornasse l'abside della chiesa (Harrison, 1986). Inoltre i

mosaici erano figurati, come attesta la presenza di alcuni frammenti, il più

significativo dei quali raffigura la parte inferiore di un volto virile e barbato. Quella

che tutt'oggi rappresenta la prima testimonianza della gloriosa catena dei mosaici

parietali di C. si trova dunque nella condizione di materia: materia lavorata ma

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svincolata dallo statuto d'immagine che le era proprio. Da qui i limiti di ogni tipo di

ricerca a riguardo. Tuttavia, analizzando le modalità esecutive dei tessuti musivi e

riflettendo sulla fisionomia dei loro tracciati, si sarebbe indotti ad accostare i

frammenti di S. Polieucto alla decorazione musiva del monastero Mar Gabriel,

presso Kartmin (Turchia sudorientale), per la quale appaiono assai convincenti il

termine cronologico del 512 e il collegamento con l'imperatore Anastasio. Con Mar

Gabriel i frammenti musivi di S. Polieucto condividono alcune delle caratteristiche

che, alla stregua di marchio distintivo, si trovano costantemente presenti nei

mosaici di C. o di stretta osservanza costantinopolitana, vale a dire l'allettamento

delle tessere auree in modo da assicurare loro l'inclinazione verso il basso,

l'impiego di quelle d'argento, il ruolo di valenza autonoma agita nel tessuto musivo

dalla singola tessera (Andaloro, in corso di stampa).Si devono all'attività del

Byzantine Inst. il recupero e il restauro di una ragguardevole serie di mosaici

all'interno della Santa Sofia - una volta rimosse le ridipinture a olio stese intorno

alla metà dell'Ottocento, durante il restauro di Gaspare Fossati, allo scopo di

rendere compatibile con la destinazione a moschea della chiesa la decorazione

pittorica - con il risultato che la sequenza di quei mosaici è divenuta

l'imprescindibile quadro di riferimento per l'intera pittura di Costantinopoli. La

più antica testimonianza è contestuale alla fase giustinianea della costruzione e

comprende due diversi momenti. Il primo riguarda la decorazione del nartece

(vele delle volte, intradossi degli archi trasversali, lunette orientali, intradossi degli

archi occidentali; Whittemore, 1933-1952, I) e, all'interno, l'ornamentazione degli

intradossi degli archi delle quattro esedre agli angoli della navata e infine la

decorazione delle grandi arcate dei quattro grandi pilastri. Di quest'ultima

ornamentazione sono superstiti solo dei frammenti, il più ampio dei quali si

conserva sotto la linea d'imposta dell'arco meridionale nella galleria nord

(Underwood, Hawkins, 1961). L'insieme dei mosaici citati (nel nartece motivi

geometrici, floreali, stelle, girali d'acanto e croci; all'interno serie di girali) è

ritenuto coerente con la fase giustinianea dell'edificio (532-537; Whittemore,

1933-1952, I; Underwood, Hawkins, 1961), del quale doveva costituire una

meravigliosa guaina luminosa. Il secondo momento coincide con il pannello,

decorato con motivo a girale contornato da un bordo ornamentale, posto

nell'intradosso dell'arco meridionale, contiguo al citato frammento giustinianeo. Il

bordo si ispira al mosaico preesistente, mentre il tipo del girale ne differisce; ma

soprattutto i due pannelli differiscono per tecnica e uso dei colori. Nel secondo i

filari non sono regolari e sono usate contemporaneamente tessere di colore

diverso: all'oro del fondo è mescolato ca. il 10% d'argento, ai blu sono spesso

mischiati i verdi. Questi rilievi, uniti alle osservazioni scaturite dall'analisi delle

strutture degli archi delle grandi arcate, hanno indotto a ipotizzare (Underwood,

Hawkins, 1961) che la sostituzione della prima decorazione giustinianea sia il

frutto della ricostruzione delle arcate e dei timpani in seguito al crollo del 7 maggio

558 e che dunque la seconda ornamentazione sia stata attuata entro il 562, anno

della ridedicazione della Santa Sofia.Pur nello stato di frammentarietà, quanto

rimane della decorazione giustinianea consente di definire alcuni punti

fondamentali: rivela innanzitutto la natura aniconica del suo programma, dettata

presumibilmente dal desiderio di non contrastare le posizioni dei monofisiti in

materia di immagini; svela il carattere supremamente aulico, raffinato e sublimato

delle stesure musive, scelte quale medium di decorazione pittorica quasi esclusivo;

agevola la comprensione di quella che dovette essere la concezione fondante alla

base dell'intero progetto della Santa Sofia giustinianea, originata dalla

compresenza e interazione dei vari sistemi decorativi agenti nei confronti degli

invasi spaziali: dai mosaici, alle decorazioni in stucco, alle sculture architettoniche,

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ai rivestimenti di lastre marmoree alle pareti, all'opus sectile del pavimento, a

quelli d'argento degli arredi e della suppellettile liturgica, noti attraverso la

descrizione di Paolo Silenziario.La decorazione pittorica giustinianea era inoltre

ideata come totale e diffusa, non doveva rimanerne esente alcuna parte, anche in

contesti di prevalente natura funzionale. Così la rampa sud-ovest conserva tuttora

frammenti di pittura murale nella volta dell'ottava galleria (medaglione con una

grande croce floreale) e sulla parete verticale ovest della decima galleria

(probabilmente motivi floreali), mentre rimane dubbia la cronologia (giustinianea

per Underwood, 1955-1956b; del sec. 9° secondo Cormack, Hawkins, 1977) dei

mosaici sulla volta e sui timpani (girali d'acanto su fondo bianco, medaglioni con

croci raggiate) e sulla semicupola nord e arco nord dell'alcova (girali di vite,

medaglione con bracci di croce o monogramma cruciforme); questo ambiente

aveva la funzione di torre-lucernaio della rampa sud-ovest in epoca giustinianea,

forse di diaconico per l'oratorio della stanza sopra il vestibolo in seguito alla

ristrutturazione della seconda metà del sec. 6° e infine forse quella di passaggio

cerimoniale fra i due sekréta nel sec. 9° (Cormack, Hawkins, 1977).L'immagine

iconica irrompe in ambiti correlati alla Santa Sofia negli anni di Giustino II

(565-578). Nella stanza sopra la rampa, facente parte insieme all'ambiente sopra il

vestibolo del patriarcato costruito da Giovanni III Scolastico (565-577), la

decorazione musiva comprende girali incornicianti un grande medaglione centrale

nella volta, mentre nei timpani, al centro di ogni campo triangolare, compare un

medaglione contenente una croce. Le croci risultano essere un inserto collegabile a

un atto iconoclasta, da identificare con ogni probabilità con quello del 768-769

attestato dalle fonti, compiuto a opera del patriarca Niceta I (Mango, 1962;

Cormack, Hawkins, 1977) e destinato a sostituire la serie di otto figure

accompagnate da iscrizioni, delle quali sono leggibili alcune lettere, collocate

originariamente nei timpani (Cormack, Hawkins, 1977), nonché la figura di Cristo

nel medaglione al centro della volta.Contestata la veridicità della testimonianza di

Corippo in base alla quale risalirebbero al tempo di Giustino II alcuni mosaici con

scene cristologiche (Lazarev, 1967, p. 66), occorre ritenere perdurante fino a epoca

posticonoclasta il carattere aniconico della decorazione musiva della Santa Sofia.

Diversamente ci sono ragioni per non escludere la presenza dei mosaicisti di

Giustino II in almeno una parte di quel ciclo cristologico della chiesa dei Ss.

Apostoli descritto da Costantino Rodio e da Nicola Mesarite.Si deve agli scavi

condotti nell'area della Kalenderhane Cami la scoperta del primo mosaico

parietale con soggetto figurato cristiano del quale sono leggibili le componenti

iconografiche e stilistiche. Il pannello di forma originariamente quadrata (lato cm.

130 ca.), ritrovato nel corso dei lavori di consolidamento del muro sud della

protesi, è isolato, ubicato a un'altezza modesta e rappresenta la scena

dell'Hypapanté. In base al contesto nel quale si trovava il mosaico - in seguito

staccato e restaurato per essere esposto al pubblico - si può affermare che,

risalendo alla fase più antica dell'edificio-chiesa, fu successivamente coperto

dall'innalzamento di un muro, il quale, eretto forse in periodo iconoclasta con il

proposito di sottrarre il rilievo alla vista, lo preservò dalla distruzione. Sulla base di

una serie di elementi di natura archeologica e storica è possibile porre la sua

datazione fra il sec. 6° avanzato e gli inizi dell'8° (Striker, Kuban, 1971). Per

Kitzinger (1977) il mosaico può essere attribuito al sec. 7° e confrontato con i

dipinti di carattere ellenistico di S. Maria Antiqua a Roma. È pienamente

condivisibile la convinzione che il mosaico della Kalenderhane Cami "dimostra

senza alcun'ombra di dubbio che in questo periodo l'arte religiosa della capitale era

profondamente influenzata dalla corrente ellenistica" (Kitzinger, 1977, trad. it., p.

129). Per il resto si attende di poter contare su una cronologia più precisa, sulla

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base di una valutazione che non escluda alcun elemento interno ed esterno. È da

valutare per es. il motivo del poligono ricorrente nell'importante cornice, che è

affine a quello adoperato all'interno della decorazione giustinianea nel nartece

della Santa Sofia; occorre riflettere sullo spostamento della soglia cronologica dal

sec. 7° all'avanzato 6° per ciò che riguarda l'epifania di una pittura di soggetto

cristiano pervasa da forti tendenze figurative ellenizzanti. È questo il nodo

ravvisabile in quello straordinario brano di pittura ellenizzante, di matrice e

formulazione costantinopolitana, che è l'Annunciazione sul secondo strato della

c.d. parete-palinsesto in S. Maria Antiqua, che un fascio di indizi sufficientemente

probanti permette di datare agli anni di Giustino II (Aggiornamento scientifico,

1987).Risale agli anni Trenta la scoperta degli importanti mosaici pavimentali

ubicati nel portico settentrionale e in quello meridionale del peristilio del Grande

Palazzo. Altri frammenti sono stati rinvenuti nel 1953-1954 (Lazarev, 1967). È in

atto la rivisitazione del restauro precedente e dal 1983 viene condotta una nuova

investigazione del sito (Jobst, 1987). A confronto con quelli conservati in Italia, in

Siria e in Africa settentrionale i mosaici del palazzo imperiale di C. sorprendono

per la varietà e la vivacità: combattimenti di belve e di volatili, caccia alla lepre, al

cinghiale, al leone e alla tigre; scene di vita campestre (caprone che bruca l'erba,

mungitura delle capre, cavalli); scene di genere (per es. bambini che pascolano

oche, o che cavalcano un cammello; un mulo che ha gettato a terra il padrone);

inoltre Pan con Bacco su una spalla, un moscoforo, una donna che porta una

brocca, giochi circensi. Sul fondo bianco animato dalla trama raffinatissima del

motivo a pelte, ma sostanzialmente neutro, le figure, vivide e tridimensionali, si

esprimono con una gestualità ricca e verosimile; come in una parata vengono alla

ribalta le immagini di edifici di salda radice ellenistica. Ciò che incrina felicemente

la pelle organica dell'insieme è il meraviglioso disinteresse verso qualsivoglia unità

o verosimiglianza di tipo spaziale. Non è tenuto presente il punto di vista, cosicché

le figure e i motivi appaiono 'galleggiare', disseminati sul fondo. Più in generale, se

si valutano i termini compositivi, il pavimento finisce per essere considerato a

ragione un ragguardevole esempio di tappeto figurato, secondo tipologie già

sperimentate ad Antiochia e altrove nel 5° secolo. Ma spostando l'analisi dallo

schema tipologico a quello della realizzazione, le affinità si affievoliscono e

perdono di efficacia (Kitzinger, 1977): altrove non sono stati raggiunti sia il livello

di perspicuità e padronanza formale ed esecutiva, che fa delle stesure dei mosaici

costantinopolitani un vero e proprio unicum, sia la grana senza sbavature della sua

cultura figurativa di segno profondamente ellenistico. Proprio quest'ultimo aspetto

anche recentemente (Trilling, 1989) ha spinto a individuare nella temperie che

maturò a C. durante gli anni di Eraclio (610-641) il clima storico, culturale,

ideologico più appropriato per i mosaici del palazzo imperiale, che dunque

verrebbero a rappresentare il versante dell'arte profana in felice parallelismo con

quello dell'arte a soggetto religioso della quale è superba espressione il gruppo

degli argenti con le Storie di Davide. Come per tante altre opere preiconoclaste,

anche per i mosaici del Grande Palazzo i problemi della datazione non possono

dirsi definitivamente chiusi. Tuttavia qualunque sia la datazione riferita al

complesso - gli anni di Giustiniano, di Giustino II, di Eraclio o anche dopo -, è

destinata a non accorciarsi la distanza che separa concettualmente, visivamente ed

esecutivamente tali mosaici pavimentali da quelli parietali preiconoclasti di C.: i

minimi frammenti da S. Polieucto, i mosaici di Giustiniano e di Giustino II nella

Santa Sofia, il pannello della Kalenderhane Cami, il frammento con il volto di un

angelo una volta nella chiesa di S. Nicola al Fanar (Lazarev, 1967).In sintesi, ciò che

si verifica è una divaricazione a chiasmo: tanto le stesure musive pavimentali

tendono alla resa quanto più possibile pittorica, attraverso l'iter di una raffinata e

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sorvegliatissima gamma di microvariazioni cromatiche e di passaggi di piani,

quanto le stesure dei mosaici parietali perseguono l'obiettivo di un percorso

autonomo nei riguardi della pittura: da qui il senso e il ruolo diverso che nei

mosaici parietali vengono ad assumere le scelte dei materiali (uso di tessere

d'argento) e le specifiche modalità tecnico-formali (per es. andamento,

allettamento e inclinazione delle tessere); da qui l'impiego della tessera in funzione

di cellula germinativa dell'intero sistema di rappresentazione.Diverse fonti testuali

(per es. Stefano Diacono, Vita sancti Stephani iunioris, PG, C, col. 1113; Lazarev,

1967, p. 106) consentono di penetrare nelle opposte dinamiche figurative

dominanti nella C. del lungo periodo iconoclasta: da una parte il moto di

distruzione applicato alle immagini sacre, dall'altra il rigoglioso rinnovamento

degli apparati decorativi. L'imperatore Costantino V ordinò la distruzione di un

ciclo evangelico nella chiesa delle Blacherne ma vi sostituì, come narra Stefano

Diacono, raffigurazioni di "alberi, fiori, vari uccelli e altri animali, circondati da

tralci d'edera, tra i quali brulicano in gran numero gru, cornacchie e pavoni",

trasformando in tal modo la chiesa in "un verziere e in un'uccelliera" (PG, C, col.

1120). L'imperatore Teofilo si prese cura di far adornare le pareti del palazzo

imperiale con dipinti rappresentanti figure che colgono frutta, vari animali, alberi,

ghirlande, armi. Una decorazione di questo tipo appare debitrice a quella

splendida fioritura che conobbe l'Oriente islamico alla corte dei califfi di Damasco

e di Baghdad (Grabar, 19842, pp. 192-193).A C. nulla è superstite del patrimonio

pittorico di carattere profano del periodo iconoclasta, inghiottito a sua volta dalla

drastica reazione iconodula. Tuttavia se ne può cogliere un riflesso, e non flebile,

nella superba serie di stoffe custodite nei tesori e reliquiari dell'Occidente: per es. i

frammenti di seta con quadriga (Aquisgrana, Domschatzkammer; Parigi, Mus. Nat.

du Moyen Age, Thermes de Cluny); quella della chiesa di Saint-Calais, presso Le

Mans, raffigurante la caccia di Bahrām Gūr, soggetto di origine sasanide utilizzato

a C. per esprimere la glorificazione del trionfo imperiale; la seta di Lione (Mus.

Historique des Tissus), anch'essa con la raffigurazione di una caccia imperiale; il

frammento con il busto d'imperatore di Sens (Trésor de la Cathédrale; Byzance,

1992, pp. 192-199).Un'idea delle grandi decorazioni profane di C.

irrimediabilmente perdute può essere fornita dalle decorazioni musive di epoca

omayyade - dai mosaici della Cupola della Roccia a Gerusalemme a quelli del

portico della Grande moschea di Damasco - nonché dai frammenti musivi che

decorano la parete nord della basilica della Natività a Betlemme, i quali, sebbene

siano stati compiuti tra il 680 e il 724 e in un contesto non iconoclasta, trattano il

tema della raffigurazione dei sei concili provinciali in modo simbolico e astratto,

secondo un'inclinazione alla quale non è estraneo l'influsso dell'arte islamica

(Stern, 1948).Esempi di quell'arte aniconica perseguita dagli iconoclasti all'interno

degli spazi sacri sono invece parzialmente noti. Immagine prediletta fu la croce.

Accanto al citato caso pertinente agli interventi nella stanza sopra la rampa nella

Santa Sofia occorre almeno menzionare il mosaico nell'abside della chiesa della

Santa Irene, dove sul fondo dorato campeggia ancora oggi una croce immensa.A C.

il ritorno all'ortodossia è segnato da un mosaico figurato di eccezionale qualità, in

un luogo denso quanto altri mai di valenze speciali. Il mosaico è quello raffigurante

la Theotókos in trono con il Bambino e due angeli stanti, dei quali rimane solo

quello di destra; il luogo è l'abside e il sottarco della Santa Sofia, tanto altamente

strategico da un punto di vista del 'potere dell'immagine', quanto spazialmente

indifferente o peggio inappropriato nei riguardi dei valori compositivi, e non felice

per la sua fruizione, che, di norma, può contare su punti di stazione troppo lontani

per consentire di cogliere tutta la forza e la sottigliezza di un'opera che a ragione si

annovera fra le più alte e significative dell'intera pittura bizantina. A ragionevole

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distanza sono godibili tanto l'effetto spaziale della figura della Vergine prodotto dal

piedistallo del trono arditamente scorciato, quanto il bel nodo compositivo e

gestuale fra la Vergine e il Bambino seduto sulle sue ginocchia; inoltre è possibile

sia apprezzare in tutta l'abbagliante luminosità la ieratica eppur nervosa e

dinamica figura dell'angelo e l'apertura delle superbe ali sia sorprendere il punto

di fusione fra seducente sensualità e ardente spiritualità nei volti della Theotókos e

dell'angelo (Lazarev, 1967). Ma solo a distanza ravvicinata è dato cogliere quelle

modalità tecnico-formali attraverso le quali si giunge agli esiti altissimi del

mosaico: la scioltezza pittorica delle forme, la liquida e digitale sensibilità a cui

rispondono docilmente le superfici e i lineamenti dei volti, eseguiti con tessere in

pietra naturale di piccole dimensioni, la trasparenza delle ombre, la carica

illusionistica degli sguardi e del pollice e del palmo della mano dell'angelo visti

dietro il globo in trasparenza, il disegno magistrale e astratto del panneggio, fino a

seguire la disposizione delle tessere, il gioco del loro andamento - ora attento e

organico al disegno, ora discontinuo, laddove sono richiesti più intensi gli effetti

impressionistici -, le modulazioni degli interstizi fra tessera e tessera, la mappatura

delle tessere vitree e di quelle lapidee, lo spettro cromatico delle tinte e delle

mezze tinte, per realizzare le quali si giunge a dipingere le tessere allorquando si

prevede che l'effetto cromatico delle tessere di pasta vitrea o lapidee non sia del

tutto soddisfacente in rapporto alla cosa da raffigurare. È questo il caso del colore

rosso delle pantofole della Theotókos. Alla confluenza delle cifre stilistiche e delle

modalità tecnico-formali emerge la consapevolezza di trovarsi davanti a una delle

opere che incarna vividamente e a un livello formalmente assai alto il fenomeno

della reviviscenza ellenistica a Costantinopoli. E tutto ciò avviene in un'opera che

per l'autorevolezza della sua ubicazione assume quasi il valore di una

dichiarazione di intenti. L'iscrizione ubicata nell'abside della Santa Sofia - della

quale sopravvivono quattro lettere del principio e nove della parte terminale, ma

che è nota dal testo di un epigramma dell'Anthologia Palatina ("Le immagini che

gli ingannatori avevano qui distrutto, i pii imperatori hanno ripristinato";

Antoniades, 1907-1909, I) - incontrovertibilmente attesta l'avvenuta riconciliazione

nei riguardi dell'immagine dopo la crisi iconoclasta. D'altra parte in seguito a

un'analisi autoptica delle stesure musive è assodato che il fondo oro e il gruppo

con la Theotókos in trono con il Bambino e gli angeli furono eseguiti prima della

fascia con le ghirlande del sottarco e della contestuale iscrizione (Mango, Hawkins,

1966). Da qui la datazione del mosaico dopo l'843 e prima dell'867, allorquando

l'immagine allora visibile nell'abside della Santa Sofia venne menzionata dal

patriarca Fozio. Senonché testimonianze scritte e figurative - dall'omelia del

patriarca Fozio fino alla biografia del patriarca Bucheiras (1347-1349) e a una serie

di medaglie - descrivono o riproducono le figure rappresentate nell'abside in

forme e iconografie palesemente differenti - la Theotókos stante che regge il Figlio

secondo l'aspetto dell'Odighítria - rispetto al mosaico esistente. Talché in passato si

è potuta anche far strada con vigore l'idea che al mosaico competa una

collocazione cronologica nel corso dell'avanzato Trecento, cronologia alla quale si

oppongono decisamente ragioni stilistiche e le prove a favore della contestualità

esecutiva delle parti figurate del mosaico e dell'iscrizione, di incontrovertibile

tenore iconodulo. L'evidente stallo in cui versa la questione ha suggerito un

andamento dei fatti che s'impernia sulla ipotesi che il mosaico oggi in vista sia stato

concepito ed eseguito negli anni successivi al secondo concilio di Nicea (787),

nell'interludio fra prima e seconda fase iconoclasta (787-813), durante il regno di

Costantino VI e di sua madre Irene. Scialbato in occasione del secondo periodo

iconoclasta, al suo posto alla fine della crisi sarebbe stata dipinta quell'immagine

della Vergine Odighítria in piedi alla quale farebbero riferimento le fonti scritte e

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iconografiche fino a quando, forse in conseguenza della terribile serie di terremoti

avvenuti a metà del Trecento (14 e 18 ottobre, 20 novembre 1344), con la caduta

degli intonaci si intravide il mosaico celato per cinque secoli e mezzo e si decise di

rimetterlo in luce. Sta di fatto che nella medaglia del patriarca Neilos (1380)

l'immagine della Theotókos in trono con il Bambino sulle ginocchia corrisponde

all'iconografia del mosaico dell'abside, che a quel tempo era dunque visibile

(Oikonomidés, 1985). Se la ricostruzione di Oikonomidés, per molti aspetti

convincente, trova conferma, il mosaico dell'abside della Santa Sofia, con il

sorvegliatissimo equilibrio fra illusionismo raffinato di radice ellenistica e processi

di spiritualizzazione, è da considerare come l'opera in grado di aderire, anzi di

incarnare le istanze e gli esiti del dibattito sull'immagine, la sua natura, la sua

funzione, la sua struttura, promosso dal secondo concilio di Nicea.Prevalgono

registri stilistici di matrice diversa negli altri mosaici della Santa Sofia risalenti al

momento posticonoclasta e alla temperie macedone. Nella stanza sopra il

vestibolo, identificata con il grande sekréton del palazzo patriarcale (Mango, 1959;

Cormack, Hawkins, 1977), i mosaici scoperti da Underwood (1955-1956b)

restituiscono un complesso frammentario ma ricostruibile nelle sue linee

principali. Sulla parete d'ingresso campeggia la Déesis; venti figure - fra le quali si

possono riconoscere il profeta Ezechiele, il martire Stefano, l'imperatore

Costantino - distribuite in due zone occupano la volta; sulle lunette delle pareti

erano rappresentate le mezze figure degli apostoli e dei quattro più accesi

avversari degli iconoclasti, i patriarchi Germano, Tarasio, Niceforo e Metodio. La

presenza di Metodio nel ciclo permette di fissare all'847, anno della sua morte, il

terminus post quem per i mosaici, dei quali a ragione è stato rinvenuto il filo

conduttore nel tema dell'ortodossia con richiami al Synodikón. Concepiti, come

indica il tema raffigurato, in un clima intellettuale particolarmente interessato al

problema delle immagini come era quello della capitale imperiale, allorquando nel

concilio di Fozio (861) e nel quarto concilio di C. (869-870) si discuteva ancora

dell'iconoclastia, i mosaici del grande sekréton non possono oltrepassare la soglia

degli anni settanta del sec. 9° (Cormack, Hawkins, 1977). In questi mosaici del

terzo quarto del sec. 9° i caratteri sono quelli di un'intonazione che ha

nell'icasticità e nel prosciugamento di una presentazione concentrata sullo statuto

iconico il suo punto di maggior forza.Sono di qualche anno posteriori, essendo

state eseguite non prima dell'877, data della morte del patriarca Ignazio, le figure

dei Padri della Chiesa (Giovanni Crisostomo, Ignazio Teoforo, Ignazio patriarca)

scoperte nel timpano nord della Santa Sofia (Underwood, 1955-1956b) e

appartenenti a un programma decorativo che comprendeva quattordici Padri della

Chiesa e sedici profeti. Le grandi figure, dallo squadro ampio, dalle teste piccole e

dalle vesti sobriamente panneggiate, sono accompagnate da scritte che

giganteggiano in modo volutamente coprotagonista sul fondo oro. Ugualmente

semplificata appare la tavolozza, imperniata sui toni chiari, in prevalenza sui grigi

e sui bianchi, tranne nei visi dove prevalgono tonalità rosate su fondo verde nella

duplice funzione di tono di base e di delineazione delle ombre.Non è dato invece

verificare in medias res il nuovo sistema di decorazione pittorica dell'organismo

ecclesiastico che, elaborato nel corso della seconda metà del sec. 9° e destinato a

divenire canone per ben tre secoli in tutti i territori di fede ortodossa, ebbe proprio

a C. le prime grandiose applicazioni. Descritti da Fozio, da Nicola Mesarite, da

Leone VI, i cicli che decoravano le chiese di nuova fondazione (la Nea Ekklesia di

Basilio I, dell'867-886; la chiesa della Vergine del Faro di Fozio; la chiesa del

monastero di Kauleas; la chiesa fondata da Stiliano, ministro e principale

consigliere dell'imperatore Leone VI) sono andati distrutti. Aderenti alla

concezione del tempio come 'un altro cielo' sulla Terra, 'dimora di Dio' (Jenkins,

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Mango, 1955-1956), le pitture avevano come punti di forza la rappresentazione del

Cristo Pantocratore, circondato da angeli nella cupola, la figura della Vergine

orante nell'abside e numerose immagini di patriarchi, profeti, apostoli e

martiri.Sono parimenti distrutti i mosaici della sala del Crisotriclinio nel palazzo

imperiale (856-866), dove sul trono dell'imperatore fu posto il mosaico con la

figura di Cristo re dei re assiso in trono e, sulla parete opposta, un altro mosaico

con la Theotókos in trono, circondata dall'imperatore, dal patriarca e dal loro

seguito; erano raffigurati inoltre angeli, apostoli, profeti.Subito dopo il terremoto

dell'869, sulla cupola della Santa Sofia comparve l'immagine di Cristo fra i

cherubini; sull'arco ovest, restaurato da Basilio I, la Vergine con il Bambino fra i ss.

Pietro e Paolo (Mango, 1962); nei timpani nord e sud le figure di Padri della

Chiesa, profeti e angeli, alcune delle quali sono state riscoperte di recente.Si

afferma che provenga dal monastero di S. Giovanni di Studios ed è ascritto al sec.

9° il frammento musivo con una testa, forse della Vergine, conservato ad Atene

(Benaki Mus.; Coche de la Ferté, 1981, tav. 69). Se venissero confermate

provenienza e cronologia, il brano - appartenente con ogni probabilità a una scena

cristologica, plausibilmente una Crocifissione - sarebbe una rara testimonianza

dell'esistenza a C. di cicli di datazione alta; l'ipotesi finora aveva il suo punto forte

nella menzione del ciclo evangelico nella chiesa della Vergine del Faro da parte di

Nicola Mesarite, ciclo che tuttavia da altri viene ritenuto un'aggiunta alla

decorazione originaria, che risale a epoca foziana (Jenkins, Mango, 1955-1956).Nel

nartece della Santa Sofia sulla lunetta sovrastante la porta Regia l'originario

mosaico giustinianeo a fondo oro e croce risulta essere stato sostituito in epoca

successiva. Il nuovo mosaico comprende la figura di Cristo seduto in trono che

regge il vangelo dove sono leggibili le parole: "La pace sia con voi. Io sono la pace

del mondo". Ai piedi di Cristo, nell'atto della proskýnesis, è raffigurato

l'imperatore - identificato dalla maggior parte degli studiosi con Leone VI

(886-912) - mentre sul fondo ai lati di Cristo stanno entro clipei la Vergine nel

gesto della Haghiosorítissa e l'arcangelo Gabriele.Pochi soggetti della pittura

costantinopolitana possono vantare un'attenzione esegetica paragonabile a quella

di cui ha goduto il mosaico sulla porta Regia dall'indomani della sua scoperta,

avvenuta in occasione della prima campagna di attività del Byzantine Inst. nel

nartece della Santa Sofia (Witthemore, 1933-1952, I). Una volta individuato

nell'incarnazione e nell'intercessione l'orizzonte dottrinario sotteso alla

raffigurazione, le letture divennero progressivamente meno generiche e più

concentrate su fonti e sfondo storico. Sulla base di un passo del De caerimoniis di

Costantino VII Porfirogenito, Grabar (1936) prospettò di vedere nel mosaico il

riflesso della solenne cerimonia concernente il momento dell'ingresso

dell'imperatore nella Santa Sofia e di leggere la scena come un omaggio

dell'autocratore al Pantocratore e la testimonianza della diretta derivazione del re

della terra dal re del cielo. Su questo asse interpretativo sono confluite poi altre

sfaccettature, elaborate alla luce delle opere di Leone VI, in particolare dell'omelia

dell'Annunciazione, cui sembrano ispirarsi le figure della Theotókos e

dell'arcangelo rappresentati nel mosaico in veste di intercessori e patroni

dell'imperatore genuflesso davanti al panbasiléus. Successivamente si fece strada

una nuova interpretazione complessiva in base alla quale l'imperatore raffigurato

sarebbe Leone, ma in atto di penitente. Il senso del mosaico collocato nel nartece,

lo spazio dei non battezzati e dei penitenti, sarebbe da ravvisare nel contesto

storico relativo alle conseguenze del quarto matrimonio di Leone, celebrato contro

le leggi ecclesiastiche, all'origine di uno scisma all'interno del patriarcato di C. che

si ricompose solo con il concilio del 920. Secondo questa nuova lettura il mosaico è

da datare dopo il 920, essendo raffigurato Leone alla destra del Cristo fra i salvati,

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dopo il pentimento avvenuto poco prima di morire (912) e dopo l'assoluzione nel

corso del concilio. La pace annunciata dalle parole di Cristo andrebbe appunto

riferita a quella dopo lo scisma; la funzione profonda della lunetta sarebbe quella

di monito verso i futuri imperatori (Oikonomidés, 1976).Il timbro specifico

dell'opera è dato soprattutto da due elementi: dall'accentuazione del principio

lineare che raffredda la temperatura delle reminiscenze dei prototipi antichi,

preiconoclasti, emergenti nei volti di Cristo, della Theotókos e dell'arcangelo;

inoltre dalle modalità tecnico-formali messe a punto nelle stesure musive. Fra

queste merita attenzione il procedimento dell'allettamento delle tessere nei filari

del fondo oro. Le tessere, ordinatamente disposte in linee orizzontali fra loro

distanziate, sono però allettate con accentuato angolo d'inclinazione (fino a 26°;

Nordhagen, 1984), raggiungendo così un duplice effetto: in primo luogo

neutralizzare gli spazi vuoti fra filare e filare, non visibili in tal modo dal normale

punto di stazione (ca. m. 10 di distanza), in secondo luogo rendere estremamente

dinamico il rapporto con la luce, accrescendone l'intensità.Risale al 912 il mosaico,

rinvenuto alla fine degli anni Cinquanta, ubicato sul pilastro nord-ovest della

tribuna nord, raffigurante l'imperatore Alessandro, fratello di Leone VI.

L'identificazione è sicura grazie al nome leggibile nel medaglione disposto sul

fondo e all'invocazione monogrammata contenuta in altri tre medaglioni: "Signore

aiuta il tuo servitore, imperatore ortodosso e fedelissimo" (Underwood, 1960;

Underwood, Hawkins, 1961). Strutturato come un ex voto, il pannello consegna

un'immagine dotata di concentrata e simbolica rappresentatività. Raffigura infatti

l'imperatore nelle vesti e con le insegne che indossava e portava durante la

processione della domenica di Pasqua nel tratto dai palazzi imperiali alla Santa

Sofia, come testimonia il De caerimoniis. L'imperatore Alessandro regge infatti

nella mano destra l'anexikakía o akakía - un fazzoletto di seta pieno di terra, simile

a un rotulo, simbolo del destino mortale dello stesso imperatore - ed è cinto da un

lungo lóros, tempestato di pietre preziose, alludente al lenzuolo funebre e

simboleggiante la morte e la risurrezione di Cristo (Underwood, 1960; Underwood,

Hawkins, 1961). Se l'impostazione della figura nei suoi connotati di monumentale

ieraticità riflette orientamenti cari all'arte macedone, la fattura musiva,

particolarmente sensibile, è la principale responsabile di quelle impercettibili

modulazioni che rendono il volto di Alessandro così mobile nella ferma ossatura

tipologica. In altra direzione si constatano interessanti 'messe a fuoco'. È

caratteristica peculiare dei mosaici bizantini, e costantinopolitani in particolare, la

tendenza a mescolare le tessere d'argento con quelle d'oro, onde intensificare lo

scintillío dello sfondo aureo. Nella Santa Sofia se ne reperisce un uso ricorrente,

ma variato di continuo nelle modalità, onde raggiungere di volta in volta fini

mirati. Nel fondo contestuale al pannello di Alessandro l'altissima percentuale di

tessere d'argento, che rappresentano addirittura un terzo del totale (Underwood,

1960), è certamente dettata dall'essere il luogo assai poco illuminato.

Diversamente la percentuale di tessere d'argento nel fondo del mosaico, forse

appena più tardo, ubicato sopra la c.d. porta dell'Orologio o porta Bella nel

vestibolo sud-ovest della Santa Sofia, raggiunge meno di un decimo del totale,

trovandosi il mosaico in un ambiente meno buio del precedente. È comunque

impiegata una concentrazione di tessere d'argento con effetti di intensa rifrazione

luminosa nel piano del suppedaneo del trono e nella resa delle vesti d'oro del

Bambino; mentre l'inclinazione delle tessere della lunetta (posta a m. 6,50 di

altezza) è meno della metà di quella precedente (Nordhagen, 1984).La cronologia

del mosaico, il cui soggetto - la Theotókos in trono con il Bambino, affiancata da

Costantino e Giustiniano che le offrono rispettivamente il modello della città di C. e

del tempio della Santa Sofia - rinnova il tema dell'offerta di radice antica, oscilla

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tra la fine del sec. 8° e il 12°, ed è forse da collocare nel corso dell'avanzato sec. 10°

(Lazarev, 1967). Il suo stile, espressione di un neoclassicismo maturo, segna

contemporaneamente l'inizio del nuovo processo che si sarebbe compiuto nel sec.

11° (Lazarev, 1967). Nei riguardi delle espressioni più precoci dell'arte macedone, il

mosaico del vestibolo sud si distingue per almeno tre diverse tendenze: una

concezione dello spazio percepito e costruito nella dimensione della profondità,

per cui appare abitato dalle figure; un'accentuazione del trattamento lineare,

particolarmente evidente nella formulazione dei volti dei due imperatori, della

quale è espressione nel registro delle modalità tecnico-formali la regolarità

dell'andamento delle tessere disposte in filari meno distanziati e discontinui

rispetto al mosaico del nartece; infine l'apertura verso una gamma cromatica densa

e severa, frutto di una scaltrita scelta di sfumature.Alcuni degli orientamenti già

intravisti nel mosaico del vestibolo sud, quali la tendenza alla riduzione grafica del

trattamento delle forme e la ricerca intorno al colore, compaiono anche nella più

tarda opera di pittura monumentale della temperie macedone di C., il mosaico

situato sulla parete est della tribuna sud della Santa Sofia, con Cristo assiso in

trono, al quale Costantino IX Monomaco (1042-1055) e l'imperatrice Zoe (m. nel

1050) offrono doni per la Santa Sofia. Gli esiti puntano verso una qualificazione

della cromia in termini di gemmea matericità e durezza, evidente nell'azzurro

scelto per le vesti del Cristo e nell'enfatizzazione delle stoffe e degli ornamenti, e

verso una graficizzazione che raggiunge nel volto di Zoe, specie nella definizione

dei pomelli, la valenza di una cifra. Questo mosaico risulta essere frutto di un

montaggio, dal momento che le teste di tutte e tre le figure sono state rifatte e

quella dell'imperatore sostituita alla preesistente, raffigurante il precedente marito

di Zoe, Michele IV Paflagone (1034-1041). La sostituzione nel pannello di Zoe,

dovuta soprattutto alla damnatio memoriae, è un esempio indicativo non solo del

potere delle immagini, ma anche delle capacità tecniche sviluppate nelle botteghe

bizantine, in grado di staccare superfici musive, integrarle, manipolarle in vario

modo.Il sec. 12° e la nuova temperie figurativa legata alla dinastia comnena si

aprono con un altro pannello musivo (1118), anch'esso un ex voto,

compositivamente e tipologicamente affine al precedente e, come quello, ubicato

nel vestibolo sud. Giovanni II Comneno e l'imperatrice Irene, stretti entro vesti

tempestate di gemme e con le corone - rispettivamente Kameláukion e modíolos -,

offrono doni per la chiesa e affiancano la figura della Vergine. Al pannello fu

aggiunta la figura del figlio di Giovanni, Alessio, sfruttando uno dei lati del pilastro

adiacente, allorquando Giovanni lo associò al trono nel 1122. Nel mosaico la svolta

verso esiti legati ai valori di pura superficie e alla graficizzazione estrema non solo

del disegno ma anche del colore è radicale, eppure il trattamento dei volti, specie

di Irene e in secondo luogo di Alessio, lascia trasparire un'orma vivida di inquieta

vitalità.I resti dei dipinti della chiesa inferiore di Odalar Cami e l'affresco con la

Vergine Blacherniótissa rinvenuto in una cappella in rovina nel quartiere di

Etyemez non illuminano particolarmente la pittura di un secolo che nella capitale,

diversamente da quello che accadde fuori C., rimane a livello di produzione

monumentale povero di testimonianze.Le monumentali icone a mosaico del S.

Giovanni Battista Pródromos e dell'Odighítria, oggi nella chiesa di S. Giorgio al

Patriarcato greco, ma provenienti dalla chiesa della S. Maria Pammakaristos

(Fethiye Cami), insieme all'innegabile qualità, ostentano uno stampo figurativo di

tipo ambiguo, non essendo pacifico se si tratti di opere della temperie macedone,

postmacedone ma con tratti arcaizzanti, oppure già del sec. 12° (Furlan,

1979).Ritenuto talora frutto supremo del percorso artistico di epoca comnena,

sulla base di confronti con i mosaici dell'abside di Cefalù (1148) e con l'icona della

Vergine di Vladimir, della prima metà del sec. 12° (Mosca, Gosudarstvennaja

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Tretjakovskaja Gal.; Lazarev, 1967), il mosaico con la Déesis, sulla parete

occidentale della tribuna sud della Santa Sofia, è da datare probabilmente al terzo

quarto del 13° secolo. In tal modo viene ad assumere il ruolo di apertura nei

riguardi del nuovo corso paleologo, all'indomani dello iato forzoso che conobbe la

pittura a C. durante i decenni dell'occupazione latina della città (Demus, 1949). La

sua scoperta a opera del Byzantine Inst. (Whittemore, 1933-1952, IV) ha restituito

una testimonianza musiva di qualità assolutamente eccezionale, sia sotto il profilo

stilistico sia sotto quello delle modalità tecnico-esecutive. Su un asse di riferimenti

rivolto da una parte al recupero di tipologie antiche - sono sintomatici al riguardo

la figura del Cristo, per cui vale il richiamo all'antica icona del Sinai, e il motivo a

pelte del fondo oro -, dall'altra all'orizzonte figurativo di radice comnena, l'artista

costantinopolitano, lavorando sul registro del disegno e del colore, giunse a

produrre esiti del tutto innovativi. Affinando al massimo quei canali espressivi e

riscattandoli dalla convenzionalità della cifra, dall'essiccamento manierista al quale

erano approdati nella fase tardocomnena, l'artista li reinserisce nel circuito

dell'organicità della forma con la funzione di griglia portante ma interna. Cosicché

tutto ha un respiro classicamente umano e naturale: i volti e i panneggi

grandemente lavorati, la trasparenza delle ombre, la gradualità piena di sapienza

dei piani e dei passaggi cromatici, fino alla declinazione di una tendenza al patetico

spiritualizzato. Il medium musivo si piega docilmente alle esigenze di questo

progetto stilistico e riesce a sostenerlo senza perciò abdicare alle proprie specifiche

prerogative. Si direbbe che nella Déesis della Santa Sofia il mosaico, in quanto

genere tecnico-formale della rappresentazione, raggiunge il traguardo di essere

massimamente pittorico, ma ancora mosaico e non pittura.Diversi altri dipinti

scoperti di recente aggiungono nuovi tasselli alla fisionomia ancora dai lineamenti

solo accennati dell'avanzato 13° secolo. Dovrebbe risalire a questa epoca

(Naumann, Belting, 1966) il ciclo, dallo stile asciutto e impersonale, con

quattordici scene della Vita di s. Eufemia nel martýrion della santa, ubicato vicino

all'ippodromo, che ostenta un'adesione a impaginazioni iconografiche e a modi

precedenti, mentre stilisticamente trova rapporti con le pitture originariamente

sulla facciata sud della chiesa di S. Maria Pammakaristos, databili poco dopo il

1292 (Belting, Mango, Muriki, 1978).Quanto variegata e vivace fosse la situazione

figurativa a C. al volgere del secolo lo suggerisce la serie dei dipinti scoperti nel

corso degli scavi all'interno della Kalenderhane Cami. Partecipa della temperie

paleologa il bel frammento di affresco rinvenuto, staccato e caduto, con la testa di

un apostolo dormiente nell'area dell'esonartece (Striker, Kuban, 1971); si ritiene di

epoca tardoduecentesca e di impronta paleologa anche il mosaico con la figura

frammentaria dell'arcangelo Michele (Striker, Kuban, 1967), seppure non siano né

pochi né marginali i legami con la pittura comnena. La stessa oscillazione tocca

l'affresco di eccellente qualità campito nella nicchia del diaconico e rappresentante

la Theotókos (in base al titulus la Vergine Kyriótissa) con il Bambino e il

donatore.Vanno infine ricordati i sorprendenti affreschi con scene della Vita di s.

Francesco, ubicati in origine nella semicupola della cappella nell'area del diaconico

(Istanbul, Arkeoloji Müz.). Degli undici assai piccoli pannelli originari, dislocati su

tre registri, si sono conservati i frammenti di quattro scene, fra le quali è

identificabile con certezza la Predica agli uccelli. Il tema degli affreschi, che

costituiscono la prima testimonianza nota di pittura murale dedicata alla vita di

Francesco, e i caratteri latini dell'iscrizione monumentale che corre sull'arco

d'ingresso permettono di datare le pitture entro l'arco di tempo compreso fra la

canonizzazione di Francesco (1228) e la conclusione del regno latino di C. (1261).

La coloritura stilistica da 'lingua franca' e da 'arte del Commonwealth

mediterraneo' rende gli affreschi con Storie di s. Francesco della Kalenderhane

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Cami, per i quali all'indomani della loro scoperta fu suggerita la prossimità con la

cerchia del pittore della Bibbia dell'Arsenale (Parigi, Ars., 5211; Striker, Kuban,

1967), un tassello assai prezioso all'interno delle dinamiche artistiche fra aree

orientali e occidentali nel corso del Duecento.Con l'affacciarsi del nuovo secolo le

tendenze paleologhe poco pronunciate nelle testimonianze pittoriche precedenti si

affermarono con vigore. Esse sono attestate in una rosa di opere sparse e talora

isolate, fra le quali vanno citati il frammento musivo della chiesa di S. Maria dei

Mongoli al Fanar, i mosaici delle cupole del nartece esterno della Vefa Kilise Cami;

i dipinti murali frammentari della Odalar Cami, di Isa Kapı Cami, della chiesa della

Theotokos Chalkoprateia, della Santa Irene, del secondo strato degli affreschi a

palinsesto rinvenuti nel quartiere di Etyemez (Lafontaine, 1959-1960). Ma laddove

esse trovano la massima espressione è nei complessi di S. Salvatore in Chora,

(Kariye Cami) e di S. Maria Pammakaristos. All'incirca coevi, risalendo al secondo

e terzo decennio del Trecento, i mosaici della chiesa di S. Maria Pammakaristos e i

mosaici e gli affreschi di quella del monastero di S. Salvatore di Chora condividono

oltre al comune orientamento figurativo anche il tipo di committenza aristocratica

e colta.I mosaici di S. Maria Pammakaristos ornano il parekklésion della chiesa del

monastero costruita dal protostratore Michele Ducas Glabas Tarchaniotes nel 1292.

Il parekklésion fu aggiunto in funzione di cappella funeraria in memoria appunto

dello ktétor o fondatore del monastero dalla vedova Marta dopo la morte di

Michele, avvenuta non prima del 1310. Marta commissionò al poeta di corte

Manuele Philes il compito di comporre gli epigrammi commemorativi per la nuova

costruzione; per ornarla scelse gli artisti nel milieu certamente più aggiornato

onde suggellare un'operazione promozionale e di prestigio assai ardita, come era

quella di destinare un'intera cappella a una sola sepoltura (Belting, Mango, Muriki,

1978).Nel loro complesso i mosaici sono un'opera unitaria, ma venata da molte

sottili variabili. Come è stato a ragione notato, la bottega e l'artista bizantini

possedevano agli inizi del Trecento modelli in una quantità e in una varietà non

accessibili in passato (Belting, Mango, Muriki, 1978) e ovviamente una

propensione a utilizzarli e a manipolarli come non mai. Le varie classi di immagini

(Cristo e i profeti nella cupola, la Déesis nella conca absidale, il Battesimo di Cristo,

la Dormizione della Vergine, quattro arcangeli, figure di santi e monaci) nascono

dall'impatto fra modello esterno e maniera personale, distinguibile quest'ultima

con molta nitidezza all'interno degli orientamenti più generali del cantiere. In

questo scenario trova anche posto il recupero di partiti decorativi antichi, come la

decorazione a girali su fondo bianco, scelta per le volte della protesi, del diaconico

e altrove, che rimanda pianamente a soluzioni del tipo di quelle incontrate nella

volta sopra la rampa sud-ovest della Santa Sofia, dell'inoltrato 6° secolo. Affini

specialmente ai mosaici della chiesa dei Ss. Apostoli di Salonicco, oltre che a quelli

di S. Salvatore di Chora, i mosaici di S. Maria Pammakaristos non sono tuttavia

attribuibili alla medesima cerchia di artisti.Nella mappatura intorno ai processi e

alle articolazioni stilistiche della pittura paleologa fra il 1260 ca. e il 1330,

formulata da Belting (Belting, Mango, Muriki, 1978), mentre i mosaici di S. Maria

Pammakaristos rappresenterebbero una fase denominata 'neoellenismo del I stile',

i mosaici e gli affreschi di S. Salvatore di Chora rappresentano al massimo grado le

tendenze del II stile, caratterizzato da un irrazionale trattamento delle superfici dei

panneggi e dall'inosservanza dei canoni delle figure classiche. I mosaici si stendono

nel nartece interno ed esterno (cicli dell'Infanzia di Cristo e della Vergine) e nel

naós (Dormizione della Vergine, pannelli con il Cristo e la Theotókos Odighítria);

gli affreschi nel parekklésion, dove sono raffigurati diversi soggetti fra i quali

l'Anastasi, vari episodi pertinenti al Giudizio universale, le scene evangeliche della

guarigione della figlia di Giairo e la risurrezione del figlio della vedova di Nain,

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diverse scene dell'Antico Testamento, soggetti che sono legati insieme dalla

funzione sepolcrale dell'ambiente aggiunto alla preesistente chiesa del Salvatore di

Chora da Teodoro Metochite, uno dei dotti bizantini più raffinati del sec. 14°, fine

conoscitore della letteratura antica, committente del vasto programma decorativo

e raffigurato appunto nel ruolo di ktétor ai piedi di Cristo sull'ingresso dal nartece

interno al naós.L'ottimo stato di conservazione rivelato pienamente dal restauro a

opera del Byzantine Inst. consente di cogliere la qualità e le caratteristiche di un

complesso eccezionale. Appaiono pervase da grande novità e forza la libertà delle

composizioni, dinamiche e piene di fantasia, la concezione delle figure eleganti,

slanciate, ora fasciate da panneggi aderenti, ora entro panneggi ampi e svolazzanti,

ma soprattutto il senso di un'unità spaziale che serra insieme in mille modi diversi

e figurativamente inediti sfondi architettonici complicati, paesaggi e figure, e infine

l'invenzione di un registro cromatico chiaro, festoso, fatto dalla combinazione di

colori molto accesi con l'inserto di sfumature delicate, con effetti di forte

cangiantismo nelle pieghe.Pochi complessi della pittura monumentale bizantina

possono vantare un dispiegamento di motivi, che va al di là della pura e semplice

economia dettata dalle ragioni iconografiche, e un piglio narrativo veloce, ricco di

spunti, assai mobile, come i mosaici di S. Salvatore di Chora. L'accumulo che

riguarda soprattutto gli sfondi dei paesaggi architettonici e il continuo movimento

che incalza le figure spesso raffigurate con tagli inediti, da tergo, con i profili

perduti - strutture compositive e ritmi di raffigurazione - squadernano un mondo

rappresentato assai ricco di uomini e cose, colorato, 'cinematografico', ma

antinaturalistico.Dietro le classi di immagini di S. Salvatore di Chora e dei loro

modi srotolano infatti i binari di un iter figurativo legato al filo ininterrotto delle

tradizioni ellenistiche a Costantinopoli. In questo senso le analogie fra i mosaici e

un'opera come il rotulo di Giosuè (Roma, BAV, Pal. gr. 431), della prima metà del

sec. 10°, sono assai illuminanti.Il processo della pittura a C. può dirsi che abbia il

suo ideale epilogo proprio nei mosaici di S. Salvatore di Chora. Successivamente

continuarono a farsi pitture nella capitale bizantina: nello stesso S. Salvatore, dove

sono stati rinvenuti affreschi e mosaici negli arcosoli di una serie di tombe fino

all'affresco nell'arcosolio della parete ovest del parekklésion, che rappresenta la

figura di una donna davanti alla Vergine in trono con il Bambino, eseguito intorno

alla metà del sec. 15° (Underwood, 1958), ma da un artista occidentale,

probabilmente italiano e dell'area padana.

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13° Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Milano 1992" (in corso di

stampa).M. Andaloro

Miniatura

Non vi è dubbio che i più splendidi libri miniati del mondo bizantino siano stati

prodotti a C.; non è facile invece stabilire quali fossero i caratteri della produzione

costantinopolitana ordinaria e come la si possa distinguere da quella provinciale.

Uno dei problemi più complessi che la critica moderna deve affrontare consiste nel

far assumere all'aggettivo 'costantinopolitano' una connotazione topografica e non

qualitativa. Altrettanto arduo è definire il ruolo che ebbe la corte o l'imperatore

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nella produzione di opere di miniatura; i libri con ritratti imperiali sono, infatti,

per lo più doni per l'imperatore e non opere di sua committenza (Spatharakis,

1976) e il concetto di scriptorium imperiale, così ben definito nelle ipotesi degli

studiosi, potrebbe essere, nella maggior parte delle fasi della storia di C., appunto

nulla più che un concetto.Alla base di tali questioni si pone il problema

fondamentale di come fosse organizzata la produzione dei libri miniati nel mondo

bizantino, questione che ha favorito lo sviluppo di teorie pertinenti alla codicologia

piuttosto che alla pittura e ha inoltre accentuato il ruolo di C., in effetti l'unico

centro bizantino cui sia attribuibile con certezza un numero consistente di libri

miniati. Le indagini sui caratteri della produzione e della committenza sono state

agevolate dalle splendide riproduzioni degli elementi ornamentali e delle

miniature dei manoscritti conservati ad Atene (Marava-Chatzinikolau, Tuphexi-

Paschu, 1978-1985), a Oxford (Hutter, 1977), sul monte Athos (The Treasures of

Mount Athos, 1975-1992), a Patmo (Patmos, 1988), in Russia (Lichačeva, 1977), nel

monastero di S. Caterina sul monte Sinai (Weitzmann, Galavaris, 1990) e a Venezia

(Furlan, 1978-1988). È noto che anche artisti armeni e georgiani realizzarono a C.

codici di lusso, ma la presente trattazione riguarda la sola produzione greca.La

storia della miniatura costantinopolitana comincia a definirsi nel sec. 9°, giacché in

precedenza il solo Dioscoride di Anicia Giuliana, del 512 (Vienna, Öst. Nat. Bibl.,

Med. gr. 1; Gerstinger, 1965-1970), è attribuibile con certezza alla produzione

locale. Nella miniatura costantinopolitana apparsa dopo la crisi iconoclasta

confluirono tre tradizioni: quella della stessa capitale, legata a valori

classicheggianti, testimoniata per es. dal Tolomeo vaticano, del terzo decennio del

sec. 9° (Roma, BAV, Vat. gr. 1291), quella palestinese (Weitzmann, 1979) e quella

italiana, evidente nelle iniziali dipinte del codice con le Omelie di Gregorio

Nazianzieno (Parigi, BN, gr. 510), che segnano l'avvio di una tradizione bizantina

delle iniziali ornate distinta dalle illustrazioni a carattere figurativo (Brubaker,

1983).Gli elementi ornamentali dei cinque codici miniati di epoca post-iconoclasta

risultano trascurabili se messi a confronto con le miniature a carattere figurativo,

che sono invece numerose e complesse. Un codice del sec. 9° (Roma, BAV, Vat. gr.

699), che copia una Topographia christiana di Cosma Indicopleuste (sec. 6°), sia

nel formato sia, con alcune aggiunte, nel ciclo illustrativo attesta quell'elemento di

continuità che è tratto ricorrente di tutta la pittura costantinopolitana. Al contrario

il citato codice di Parigi, dono del patriarca Fozio all'imperatore Basilio I, illustra le

quarantacinque omelie di Gregorio Nazianzieno con miniature a piena pagina di

inedita e irripetuta complessità esegetica. Infine tre piccoli salteri a figurazioni

marginali, conservati rispettivamente a Mosca (Salterio Chludov; Gosudarstvennyj

Istoritscheskij Muz., Add.gr. 129), sul monte Athos (Pantocratore, 61) e a Parigi

(BN, gr. 21), rielaborarono i precedenti modelli dell'illustrazione libraria, creando

un ciclo che per secoli venne riprodotto nel mondo bizantino: essi traducono la

tipologia delle catene marginali in vere e proprie miniature marginali, che

interpretano il testo con intensità 'verbosa' e polemica, trasformando i salmi in

un'affermazione di ortodossia cristiana, spesso con valenze antisemite ed

enfaticamente iconodule (Corrigan, 1992).Nella seconda metà del sec. 10° si ha un

aumento significativo dei libri miniati. Tre manoscritti legati all'ambiente della

corte - il Salterio di Parigi (BN, gr. 139; Buchthal, 1983, pp. 188-191), la Bibbia di

Leone sakellários (Roma, BAV, Reg. gr. 1; Dufrenne, Canart, 1988), il rotulo di

Giosuè (Roma, BAV, Pal. gr. 431; Josua-Rolle, 1984) - hanno in comune

quell'ambizioso stile classicheggiante che ha indotto a contrassegnare con la

globale definizione di rinascenza macedone l'arte del 10° secolo. Anche numerosi

evangeliari del tardo sec. 10° presentano ritratti degli evangelisti in uno stile

pittorico spesso di notevole livello qualitativo (Weitzmann, 1935). I tre manoscritti

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citati costituiscono, tuttavia, casi eccezionali piuttosto che esempi rappresentativi

di quest'epoca, i cui caratteri possono essere invece meglio individuati attraverso

tre diversi aspetti. Il primo consiste nel fissarsi di schemi illustrativi in relazione a

determinati testi: l'evangeliario, in cui i ritratti dei quattro evangelisti vennero

ripetuti sistematicamente; il vangelo per uso liturgico o lezionario (Anderson,

1992), che, con alcuni esemplari del tardo sec. 10° (per es. S. Caterina sul monte

Sinai, Bibl., gr. 204), si avvia a divenire uno dei tipi librari più splendidamente

ornati del mondo bizantino; infine, il salterio con miniature entro cornici, attestato

nel sec. 10° dal suo più straordinario esempio, il Salterio di Parigi.La seconda

caratteristica dei manoscritti del sec. 10° è data dallo sviluppo autonomo del

repertorio ornamentale (Weitzmann, 1935; Madigan, 1987; Dufrenne, Canart,

1988), i cui elementi si distinguono per il colore e per i motivi decorativi da quelli

delle cornici delle miniature a carattere figurativo che venivano generalmente

realizzate su fogli aggiunti; ciò induce a ritenere che i pittori delle scene figurate

fossero diversi da coloro che realizzavano le decorazioni, i quali lavoravano invece

sulla pagina scritta, in modo analogo a quello degli scribi. Un indizio di entrambi i

processi sopra descritti si ritrova nel Menologio eseguito per Basilio II (Roma,

BAV, Vat. gr. 1613), un tipo di opera liturgica che in seguito - nella rivisitazione

testuale di Simone Metafraste redatta su suggerimento dello stesso Basilio -

divenne, insieme ai lezionari, uno dei tipi librari più riccamente illustrati del

mondo bizantino. Questo manoscritto, privo di decorazione ornamentale, presenta

oltre quattrocento miniature realizzate da otto pittori, il più importante dei quali è

stato identificato da Ševčenko (1972) come un pittore di icone che non faceva parte

di uno scriptorium organizzato - e men che mai di uno scriptorium imperiale -

bensì era stato appositamente ingaggiato per quel lavoro.Un terzo elemento che

caratterizza la miniatura del sec. 10° è costituito dal nascere di un rapporto di

scambio tra C. e quelle che possono essere definite le sue province. Questo fatto è

evidenziato dal folto gruppo di manoscritti in minuscola bouletée: una produzione

dapprima considerata propria di C., ma attualmente attribuita anche ad altri centri

(Agati, 1992). A questo tipo di minuscola si affiancò la decorazione c.d. a Laubsäge

(con elementi vegetali a intarsio), nota nella capitale, che divenne per secoli una

costante della decorazione dei manoscritti provinciali. Tale interscambio è

evidente nel campo dell'ornamentazione, ma non in quello delle miniature a

carattere figurativo.Nella seconda metà e in particolare nel terzo quarto del sec. 11°

si ebbe la fase più importante della miniatura costantinopolitana, caratterizzata da

un'abbondante produzione di libri riccamente miniati, da ampi cicli illustrativi e da

una squisita raffinatezza di stile e di impaginazione (Weitzmann, 1971). Dominato

da splendidi lezionari, come quelli conservati sul monte Athos (Dionisio, 587) e a

New York (Pierp. Morgan Lib., M. 639), nella cui redazione trovano un perfetto

equilibrio il repertorio ornamentale, le scene miniate entro cornice e i disegni

marginali, questo periodo vide anche la produzione a C. della maggior parte dei

menologi miniati conservati (Ševčenko, 1990) e delle edizioni liturgiche di

Gregorio Nazianzieno (Galavaris, 1969), nonché la creazione di vasti cicli miniati,

la cui aderenza letterale al testo è in forte contrasto con il carattere spiccatamente

esegetico di quelli post-iconoclasti. Per quanto riguarda questi ultimi vanno

menzionati gli ottateuchi (Lowden, 1992), i libri dei Re (Lassus, 1973), la Scala del

Paradiso di Giovanni Climaco (Martin, 1954), il 'romanzo' di Barlaam e Iosafat

(Der Nersessian, 1937) e i vangeli, in una particolare versione con fregi figurati

(Omont, 1908; Velmans, 1971). Il salterio fu decorato in diversi modi. Sono

conservati numerosi esemplari di piccole dimensioni con miniature entro cornice,

chiaramente ideati per un uso privato (Cutler, 1984); un salterio vaticano (Roma,

BAV, Vat. gr. 342) fu realizzato materialmente dal suo colto possessore, così come

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altri a figurazioni marginali. Tra questi ultimi, il più noto (Londra, BL, Add. Ms

19352; Der Nersessian, 1970) fu eseguito nel 1066, per l'abate del famoso

monastero costantinopolitano di S. Giovanni di Studios, da un Teodoro di Cesarea,

che, a quanto egli stesso afferma, eseguì sia la parte scritta sia la scrittura in oro,

vale a dire le miniature. Queste sono dipinte nel c.d. style mignon, minuto e

prezioso, scintillante d'oro, che compare in numerosi altri raffinati manoscritti

dello stesso periodo e che è stato individuato da parte della critica come elemento

caratteristico di un ipotetico scriptorium di Studios, adibito alla produzione di libri

miniati (Dufrenne, 1967). Sulla base di due codici di piccolo formato, conservati a

San Pietroburgo (Saltykov-Ščedrin, gr. 214) e a Mosca (Gosudarstvennyj univ. im.

M. V. Lomonosova, 2280), eseguiti per l'imperatore Michele VII, si è ipotizzata

invece l'esistenza di uno scriptorium imperiale (Lichačeva, 1976). Altre opere

danno invece l'impressione di un più articolato sistema di produzione proprio di

C., nel quale gli artisti venivano ingaggiati a seconda delle necessità per singoli

progetti e potevano scambiarsi le idee nel corso del lavoro (Anderson, 1978).Dopo

un periodo contrassegnato da varie tendenze stilistiche, il secondo quarto del sec.

12° vide l'emergere di una maniera decisa e fortemente decorativa, nella quale

l'ornamentazione che denota un vivace dinamismo acquista spazio, giungendo a

creare frontespizi simili ad arazzi e fantasiose iniziali zoomorfe, che si

armonizzano per colore e per vivacità con le miniature a carattere figurativo.

Praticata da diversi pittori (Anderson, 1979; Buchthal, 1983, pp. 140-149), tale

maniera è associata principalmente a un grande artista noto come Maestro di

Kokkinobaphos, definizione dovuta a due copie superbamente illustrate dei

sermoni sulla vita della Vergine del monaco Giacomo Kokkinobaphos, altrimenti

ignoto (Hutter, Canart, 1991). La ricca gamma cromatica, le caratteristiche

iconografiche e l'esuberante ornamentazione di tale maestro compaiono in altri

quattordici codici, soprattutto testi del Nuovo Testamento, almeno tre dei quali

furono donati alla famiglia regnante dei Comneni o da essa commissionati

(Anderson, 1982). Questo maestro collaborò con molti scribi diversi (Nelson, 1987)

e - sebbene fosse specialista di un'arte libraria per la quale figure e decorazione

erano parti integranti della stessa mansione - non sembra aver fatto parte di uno

scriptorium che associasse scribi e pittori ai fini di una produzione seriale.Le opere

miniate individuabili come costantinopolitane diminuirono decisamente nella

seconda metà del 12° secolo. In un codice conservato a Istanbul (Lib. of the

Ecumenical Patriarchate, 3; Nelson, 1978) il frontespizio multiplo con scene tratte

dai Vangeli è testimonianza dell'innovazione più importante di quest'epoca,

costituita da una modificazione delle scelte dei cicli evangelici raffigurati, atta a

riflettere il carattere intensamente devozionale delle immagini in età comnena, per

cui i Vangeli divenivano strumenti destinati a suscitare partecipazione emotiva.

Evidente nell'aumento sia delle pagine di frontespizio sia dei cicli di illustrazioni,

tale sviluppo ebbe il suo culmine nell'ultimo terzo del secolo con il cospicuo

gruppo di libri realizzati nel c.d. decorative style, la cui relazione con C. è

comunque estremamente problematica (Weyl Carr, 1987).La miniatura

costantinopolitana all'epoca del regno latino (1204-1261) costituisce un enigma, la

cui soluzione si basa su elementi di matrice latina e bizantina. Molti dei codici

miniati delle epoche precedenti la fase della dominazione latina dovettero

rimanere a C., come è testimoniato da una vera e propria abbondanza di cicli dal

carattere retrospettivo a partire dall'ultimo terzo del sec. 13°: i salteri, le cui pagine

di frontespizio sono frutto di accorti assemblaggi dalle miniature del Salterio di

Parigi (Belting, 1972), i ricchi cicli dei vangeli del monte Athos (Iviron, 5) e di

Parigi (BN, gr. 54), gli ottateuchi (Lowden, 1992), i salteri a figurazioni marginali, i

libri dei profeti, la catena del libro di Giobbe e diversi evangeliari. Come Buchthal

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(1979) ha dimostrato a proposito delle serie dei ritratti degli evangelisti nel

manoscritto di Atene (Nat. Lib., 118) e in quello del monte Athos (Iviron, 5), queste

opere non sono esenti dall'influsso occidentale. Un vangelo di Parigi (BN, gr. 54),

imparentato per iconografia con quello del monte Athos (Iviron, 5), e un salterio a

figurazioni marginali, il c.d. Salterio Hamilton (Berlino, Staatl. Mus., Pr.

Kulturbesitz, Kupferstichkab., 78.A.9), hanno testo bilingue, latino e greco.

L'effetto d'insieme è comunque quello di una vigorosa riaffermazione da parte di

Bisanzio della propria tradizione.Dei vasti cicli pittorici che caratterizzano queste

opere dell'epoca immediatamente successiva alla dominazione latina non vi è più

traccia nei secc. 14° e 15°, secondo un processo già evidente nel folto gruppo di

ventidue codici databili a cavallo tra il sec. 13° e il 14°, noti come gruppo

Paleologina (Buchthal, Belting, 1978; Nelson, Lowden, 1991). Questo gruppo - che

comprende opere di incomparabile eleganza, scritte in oro su pergamena

bianchissima, come un Vangelo (Roma, BAV, Vat. gr. 1158) e un codice con le

Epistole e gli Atti degli Apostoli (Roma, BAV, Vat. gr. 1208), le cui tavole dei canoni

recano il monogramma di un personaggio femminile della famiglia paleologa che

ha dato il nome al gruppo - non si caratterizza per le miniature, ma per

l'ornamentazione estremamente raffinata, con motivi con intricati tralci vitinei

propri del sec. 12° e profili di palmette tracciati in oro e blu intorno ad aree di

pergamena bianca che richiamano la Laubsäge del 10° secolo. I ritratti degli autori,

legati alla tradizione iconografica del sec. 10°, costituiscono le poche miniature

presenti nei codici del gruppo e appaiono dipinti da mani diverse su fogli inseriti,

assumendo così il ruolo aggiuntivo di appendice al libro. Il gruppo Paleologina,

l'ultimo insieme coerente di manoscritti costantinopolitani di lusso destinati a

essere miniati, segna il trionfo dell'arte miniatoria intesa come ornamento

piuttosto che come pittura.La miniatura costantinopolitana dei secc. 14° e 15°

costituisce un capitolo nuovo (Buchthal 1983, pp.157-172) e può essere

esemplificata dai molti manoscritti prodotti nell'arco di un secolo nel monastero di

Hodegon da una serie di scribi, che culmina con il grande uomo di lettere ed

egumeno Joasaf, noto per avere eseguito trentuno libri firmati e altri non firmati

tra il 1360 e il 1406 (Politis, 1977). Degli undici libri con miniature a carattere

figurativo realizzati da Joasaf, soltanto quattro furono sicuramente concepiti per

contenere immagini (Weyl Carr, 1981); negli altri sette le figure costituiscono

un'aggiunta e persino la parte ornamentale fu inserita spesso per desiderio dei

successivi proprietari dei manoscritti. Nello scriptorium del monastero di

Hodegon, che era il principale centro di produzione di codici di lusso, la miniatura

costituiva quindi un elemento aggiuntivo, inserita qualora ve ne fosse particolare

richiesta. Laddove compaiono, le miniature sono per lo più limitate a immagini

isolate a piena pagina, in sostanza icone su pergamena.Sebbene esistano libri di

epoca paleologa con un maggior numero di miniature, come per es. l'inno Acatisto

di Joasaf (Lichačeva, 1972), in essi non si ritrovano i cicli tradizionali che si erano

sviluppati per i libri di lusso a carattere devozionale o per uso liturgico. Si tratta

piuttosto di creazioni uniche, ideate appositamente; poche sono le miniature

direttamente correlate al testo e per lo più si tratta di ritratti degli autori o dei

donatori.La separazione tra testo e immagini in età paleologa viene generalmente

spiegata in termini economici, come crisi degli scriptoria integrati a causa del

ridotto mercato dei libri di lusso nel piccolo impero tardobizantino (Belting, 1970).

Va tuttavia sottolineato che lo scriptorium rigidamente integrato non era mai stato

caratteristico della produzione libraria costantinopolitana; sarebbe pertanto

necessario studiare con maggiore attenzione la concezione bizantina del libro

miniato, che permise ai grandi uomini di lettere della tarda epoca bizantina di

superare tale separazione.

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Weyl Carr

Arti suntuarie

I primi espliciti indizi sulle industrie suntuarie a C. sono individuabili già nella

legislazione dei secc. 4°-5°, volta a monopolizzare sotto l'egida dello Stato la

manifattura della seta, che si impose rapidamente soprattutto a partire dal sec. 6°

con l'introduzione della coltura del baco sul territorio bizantino. Il sec. 6° siglò

peraltro una fase di grande sviluppo per le arti suntuarie della capitale, in sintonia

con il periodo di generale fioritura artistica e culturale coincidente con il regno di

Giustiniano. Dalla seconda metà del sec. 7° al 9° l'esiguità delle opere superstiti

sembrerebbe invece segnalare una sensibile flessione della produzione artistica,

sebbene le testimonianze delle fonti contemporanee non diano questa impressione.

Fu comunque il sec. 9° a inaugurare, sullo sfondo di quella straordinaria rinascita

della cultura e delle arti di cui si fece interprete la dinastia macedone, l'età d'oro

delle arti suntuarie, che fino a tutto il sec. 12° divennero le incontrastate

protagoniste delle pompe imperiali e delle liturgie ecclesiali. Emblematica a

riguardo è la testimonianza del De caerimoniis di Costantino VII Porfirogenito,

dove viene registrato anche il ruolo attribuito agli oggetti, all'abbigliamento e agli

arredi suntuari nell'ambito della complessa etichetta palatina. Le vesti, a seconda

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del colore e della qualità, identificavano tra l'altro le diverse gerarchie, scandendo

altresì i tempi delle processioni e delle udienze imperiali, che prevedevano

reiterati cambi d'abito, di corona e di altri accessori. Ne emerge parallelamente il

messaggio politico affidato agli oggetti suntuari, esibiti nei grandi banchetti o

elargiti in dono agli ambasciatori, ai sovrani stranieri e ai papi di Roma, come segni

tangibili della ricchezza, della gloria e della potenza dell'impero bizantino. Per

quanto riguarda invece il ruolo delle arti suntuarie nell'economia urbana il Libro

degli Eparchi, del sec. 10° - raccolta di norme governative che regolamentavano

rigidamente la produzione e il commercio degli artigiani afferenti a ventidue

specifiche corporazioni professionali, dette systémata o somatéia -, tramanda le

informazioni più interessanti, specie sull'articolata organizzazione dell'industria

tessile.Nonostante i ricorrenti contrasti politici che turbarono nei secc. 11° e 12°

l'impero dei Ducas, dei Comneni e degli Angeli, non sembrerebbe delinearsi alcuna

recessione nelle produzioni suntuarie: il lusso ostentato dalla corte

costantinopolitana appariva anzi ancora più opulento, finché tutto si dissolse nel

saccheggio perpetrato dai crociati latini (1204), dal quale C. non si risollevò più. Il

suo declino offuscava ormai i passati splendori, il cui ricordo era tuttavia

perpetuato da quegli oggetti che in forma e situazioni diverse avevano preso da

tempo la strada dell'esilio (Riant, 1876-1878). Non in Oriente bensì in Occidente,

soprattutto nei tesori delle chiese, dove le stoffe preziose portate da C. servirono ad

avvolgere le reliquie dei santi o furono impiegate come arredi liturgici, vanno

infatti ricercati i frammenti dei tessuti creati dai prestigiosi laboratori

costantinopolitani. Molti pezzi, specie quelli conservati a Roma, provengono da

doni imperiali, altri furono acquistati da pellegrini e ambasciatori, mentre un

numero cospicuo faceva parte del bottino crociato.Molteplici difficoltà complicano

tuttavia lo studio delle sete bizantine, e non solo per la frammentarietà dei

materiali superstiti: assai problematiche sono infatti le datazioni e incerta è

l'identificazione dei luoghi di manifattura. Non sempre è facile distinguere le stoffe

bizantine da quelle sasanidi, alessandrine o siriache, e quindi islamiche,

accomunate da medesime connotazioni tecniche e da analoghi repertori decorativi,

sebbene la produzione costantinopolitana presenti solitamente composizioni più

equilibrate, eleganti abbinamenti cromatici e soprattutto raffinate sfumature delle

tinture porpora, riservate esclusivamente ai tessuti imperiali (Falke, 1913;

Beckwith, 1974).I lacerti superstiti, anche se danno solo in minima parte un'idea

della straordinaria varietà del repertorio ornamentale dei tessuti prodotti nei

laboratori metropolitani, ne offrono comunque un'interessante campionatura sia

per i soggetti cristiani, mitologici e imperiali, sia per i motivi zoomorfi, geometrici

e vegetali racchiusi in grandi medaglioni, ovvero ripetuti in serie simmetriche,

come nel tessuto porpora (Liegi, Mus. d'Art Religieux et d'Art Mosan) con ornati

vegetali stilizzati di colore giallo includenti il monogramma dell'imperatore Eraclio

(610-641; Liegi, Mus. d'Art Religieux et d'Art Mosan). Reiterati sono i richiami ai

modelli sasanidi, soprattutto nelle scene di caccia al leone del re Bahrām Gūr

(Lione, Mus. Historique des Tissus), utilizzate a C. per enfatizzare il trionfo

imperiale, e nelle decorazioni zoomorfe, con animali reali e fantastici come il

senmurv, il cavallo alato, il grifone, l'elefante, il leone e anche l'aquila, che sono tra

l'altro documentate senza soluzione di continuità dal sec. 6° al 12° da una

splendida serie di esempi: il bianco tessuto con grifoni porpora intessuti d'oro

(Sens, Trésor de la Cathédrale); quello con grandi aquile su fondo giallo (Auxerre,

Trésor de la Cathédrale); il tessuto porpora con leoni passanti e i nomi di Basilio II

e Costantino VIII (Colonia, Erzbischöfliche Diözesan- und Dombibl.); la seta

porpora con figure di elefanti, recuperata nel sarcofago di Carlo Magno ad

Aquisgrana (Domschatzkammer), con un'iscrizione che specifica eccezionalmente

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il luogo di fabbricazione, lo Zeuxippos, una manifattura imperiale situata in

prossimità del palazzo imperiale di C. e della c.d. casa delle Luci, denominazione

derivata dall'illuminazione notturna dell'edificio, ove si svolgevano le

compravendite degli articoli di lusso (Giorgio Cedreno, Historiarum compendium;

CSHB, IV, 1838, p. 648).Sovente i tessuti erano impreziositi da ricami d'oro e da

pietre preziose: celebri sono le cortine del ciborio della Santa Sofia giustinianea,

ricamate con le figure di Cristo, della Vergine e degli imperatori (Paolo Silenziario,

Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae, vv. 758-805). Fu del resto proprio il ricamo a

divenire protagonista dell'abbigliamento in età paleologa, siglando

emblematicamente anche l'ultimo atto della parabola bizantina; infatti le aquile

ricamate sulle calzature di seta purpurea permisero di identificare il corpo di

Costantino XI, morto nella difesa di C. il 29 maggio 1453 (Giorgio Franze, Annales,

III, 9).Fu tuttavia nell'oreficeria che i laboratori suntuari di C., padroneggiando con

grande maestria le tecniche ereditate dall'Antichità, riuscirono a esprimere al

meglio gli ideali estetici bizantini, il piacere del lusso e l'ostentazione della

ricchezza, soprattutto nei secc. 10°-12°, allorquando predominò la tecnica dello

smalto cloisonné, di cui il Tesoro di S. Marco a Venezia ha conservato alcuni tra gli

esempi più superbi (Il Tesoro, 1986). Di alta qualità appare comunque sin dal sec.

6° la lavorazione dei metalli preziosi, testimoniata da piatti, coppe, vasi, calici e

altri oggetti di carattere liturgico o di uso profano per lo più in argento, anche

dorato, con decori sbalzati, incisi o niellati, da cui si ricavano peraltro utili

informazioni sul lusso quotidiano e sulla cultura della società dell'epoca, le scelte

della quale riflettono da un lato lo sviluppo dell'iconografia cristiana e dall'altro la

forte impronta della cultura classica, evocata dai temi pagani su un gran numero di

suppellettili. Di tradizione classica è anche lo stile del modellato, che mostra una

piena comprensione della forma e del movimento delle figure sia nelle opere di età

di Giustiniano, come per es. un piatto con scena pastorale siglato appunto dal bollo

di questo imperatore (San Pietroburgo, Ermitage), sia in quelle leggermente più

tarde, come un secchiello con divinità pagane (Vienna, Kunsthistorisches Mus.) e

un piatto con Atalanta e Meleagro (San Pietroburgo, Ermitage), entrambi datati dal

bollo di Eraclio (Age of Spirituality, 1979). Nonostante la presenza dei bolli di

controllo su questi e numerosi altri oggetti (ca. 200), è assai problematico

ricondurne la lavorazione a C., non potendosi in effetti stabilire il momento della

stampigliatura (Dodd, 1961; Feissel, 1986).Dipendono ugualmente da modelli

classici i gioielli coevi: collane, braccialetti (Lepage, 1971), cinture matrimoniali

(Vikan, 1990), ornamenti di cinture, medaglioni, orecchini, soprattutto di forma

semilunata con pendenti, caratterizzati da delicati motivi vegetali e animali

ritagliati a traforo su una sottile lamina aurea (opus interassile), con raffinati

contrappunti cromatici di perle, pietre preziose o semipreziose e di smalti, nonché

di ornati a niello, specie gli anelli, su cui venivano iscritti monogrammi, indicazioni

gerarchiche e invocazioni cristiane. Frequenti sono del resto le raffigurazioni

cristiane sui gioielli bizantini, molti dei quali erano anche specificamente destinati

a contenere reliquie (enkólpia) e venivano indossati a guisa di amuleti (Vikan,

1984). In epoca mediobizantina i gioielli si appesantirono: gli orecchini, lavorati a

filigrana, assunsero forme più tridimensionali, le collane moltiplicarono i pendenti

e i braccialetti divennero fasce assai pesanti con figurazioni a rilievo. Ampiamente

documentata è anche una gioielleria 'minore', che imitava nel bronzo dorato i più

costosi modelli d'oro e d'argento (Hackens, Winkes, 1983).La disomogeneità dei

materiali e soprattutto l'ampia distribuzione geografica dei ritrovamenti rendono

assai problematica la localizzazione dei centri di produzione e quindi la precisa

individuazione dei gioielli di manifattura costantinopolitana. Non sussistono

invece dubbi sulla provenienza dalla capitale imperiale della croce-reliquiario del

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Tesoro di S. Pietro a Roma, con ogni probabilità donata da Giustino II (565-578) a

papa Giovanni III, decorata con pietre preziose e ornamentazioni a sbalzo, in cui,

nonostante interventi posteriori, è forse possibile cogliere un suggestivo riflesso

della ricchezza degli arredi liturgici della Santa Sofia giustinianea decantati da

Paolo Silenziario; in questo oggetto si preannunzia peraltro quel gusto per una

ridondante decorazione policroma che nelle oreficerie mediobizantine venne

superbamente amplificata dagli smalti.Tranne alcuni esempi riferibili forse a epoca

iconoclasta - i problematici smalti della brocca di Saint-Maurice d'Agaune (Trésor

de l'Abbaye de Saint-Maurice), un medaglione di Parigi (Louvre) e i braccialetti

(perikárpia) di Salonicco (Archaeological Mus.), tutti caratterizzati da temi

decorativi profani di ispirazione sasanide che ebbero appunto larga diffusione in

quel periodo -, la maggior parte degli smalti oggi nota si colloca in un periodo

compreso tra i secc. 11° e 12°; in quest'epoca abbondano tra l'altro testimonianze

letterarie circa le opere di oreficeria che accompagnavano la vita pubblica e privata

dei sovrani, dai preziosi oggetti esibiti nei ricevimenti imperiali agli arredi liturgici,

come la recinzione e il ciborio in oro e argento tempestati di perle e pietre preziose

della Nea Ekklesia fondata da Basilio I (867-886) e il témplon dell'oratorio di

Cristo Sotér, costruito dallo stesso imperatore, che presentava anche medaglioni

figurati a smalto (Teofane Continuato, Chronographia, V).Gli esempi di oreficeria

profana sono rari, mentre predominano gli oggetti di uso liturgico, quasi tutti

creati nelle botteghe orafe della capitale, che abbinano al pregio artistico un grande

interesse documentario che si incentra sia sui personaggi di rango imperiale o

comunque aristocratico, al cui nome sono legati il possesso o la committenza degli

oggetti stessi, sia sull'intrinseco significato storico dell'oggetto; è il caso del

coperchio di un reliquiario proveniente dalla chiesa della Vergine del Faro,

acquistato a C. da s. Luigi nel 1241 (Parigi, Louvre), o dell'encolpio del Santo

Sangue (Siena, Spedale di S. Maria della Scala), che faceva parte della collezione

imperiale e che fu venduto ai veneziani nel 1356-1357 dall'imperatrice Elena

Cantacuzena, moglie di Giovanni V Paleologo (Hetherington, 1988). Di

straordinario interesse documentario è anche il piccolo reliquiario smaltato di

Maastricht (Schatkamer van de Basiliek van Onze Lieve Vrouwe), il cui prototipo

iconografico ebbe forse come modello un'icona a smalto conservata nella chiesa di

S. Demetrio a C. (Wessel, 1967, nr. 39).Questa serie di oggetti fornisce inoltre

ampio materiale di studio a proposito delle tecniche esperite dagli orafi

costantinopolitani. Per quanto riguarda gli smalti cloisonnés, è possibile

ripercorrerne l'evoluzione attraverso alcuni esemplari che a loro volta

costituiscono i referenti cronologici per numerosi altri smalti privi di oggettivi

elementi di datazione: la corona votiva di Leone VI (886-912; Venezia, Tesoro di S.

Marco), le eleganti montature dei due calici di Romano (probabilmente

l'imperatore Romano II, 959-963; Venezia, Tesoro di S. Marco), la stauroteca di

Limburg an der Lahn (Staurothek Domschatz und Diözesanmus.), la cui

committenza è legata al nome di Basilio Proedro (940-986), figlio naturale di

Romano I Lecapeno, la corona di Costantino IX Monomaco (1042-1055) e quella

d'Ungheria (1074 ca.), entrambe a Budapest (Magyar Nemzeti Múz.), e infine le

placchette in opera nel grandioso palinsesto della Pala d'oro (secc. 11°-13°;

Venezia, S. Marco). Si tratta di un'evoluzione senza scadimenti di qualità,

caratterizzata dall'arricchimento delle gamme cromatiche e degli effetti traslucidi,

dall'abbandono delle stesure smaltate per gli sfondi delle figure (medaglione con

l'Ultima Cena in una patena d'onice: Bruxelles, Coll. Stoclet; legatura con

Crocifissione e Vergine orante: Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. Cl.1.101),

privilegiando piuttosto l'isolamento delle immagini a smalto sul terso fondo della

lamina d'oro (calici di Romano, calice dei Patriarchi: Venezia, Tesoro di S. Marco),

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e soprattutto dalle più o meno fitte trame di cloisons che disegnano le figure, sino

al ridondante decorativismo di maniera delle opere del sec. 12° (icona

dell'arcangelo Michele stante; Venezia, Tesoro di S. Marco), che s'impone per

l'ineguagliabile maestria tecnica.Altrettanto pregevoli sono le altre tecniche orafe:

il niello, frequente nella decorazione di piccoli oggetti, in particolare anelli ed

encolpi; la filigrana, peculiare dei rivestimenti d'icona di epoca paleologa, ma nella

più economica versione in argento (Grabar, 1975); lo sbalzo (Bank, 1970), presente

soprattutto nelle incorniciature delle icone e nei rivestimenti delle stauroteche

(Frolow, 1965). Tra queste ultime l'esempio più celebre è la citata stauroteca di

Limburg an der Lahn, portata in Europa da C. nel 1207 da Heinrich von Ulmen,

oggetto che esibisce accanto alle altre tecniche orafe figurazioni a smalto di

elevatissima qualità, la cui peculiare sigla stilistica, individuabile nelle fluide

stesure bicrome delle vesti a due tonalità di azzurro, ricorre anche in altre opere,

come i citati calici di Romano, probabilmente realizzati nel medesimo

laboratorio.Per la maggior parte i calici del Tesoro di S. Marco di Venezia, ben più

sontuosi degli esemplari paleobizantini solitamente in argento dorato con decori

sbalzati o incisi, racchiudono entro preziose montature d'argento dorato, con

smalti, perle e cabochons, coppe di pietra dura, soprattutto agata e sardonica, che

nel caso dei calici di Romano e di quello di Sisinnio sono di antica fattura, mentre

negli altri sono di produzione bizantina. Infatti si segnalano alcune incertezze nella

lavorazione, verificabili soprattutto nell'irregolarità degli spessori, nelle levigature

approssimative e nella semplicità delle forme prive di anse e di piede, che si

riscontrano anche in una più ampia serie di vasi e di coppe di pietra dura che

testimoniano il recupero di questa antica tecnica nel corso del sec. 10°; tale ripresa

di gusto antiquario ben si colloca sullo sfondo della colta committenza macedone,

alla quale è stata del resto ricondotta anche una serie di piatti e di coppe di vetro

spesso e incolore con decori a dischi concavi (Venezia, Tesoro di S. Marco) che

riproducono probabilmente più antichi manufatti di cristallo di rocca di tradizione

sasanide.L'arte della glittica, specificamente per quanto riguarda intagli e cammei,

non sembrerebbe aver avuto invece soluzione di continuità dal sec. 6° al 14°, come

attesta il gran numero di esemplari pervenuti, per lo più con iconografie cristiane,

dei quali peraltro datazioni e luoghi di manifattura sono ancora una volta difficili

da definire. Ben pochi sono infatti i pezzi datati e, in considerazione del fatto che

questo tipo di produzione si rivolgeva a una clientela diversificata socialmente,

risulterebbe fuorviante attribuire a C. solo i pezzi iscritti con un nome imperiale,

tra i quali vanno comunque segnalati un diaspro con il Cristo benedicente e sul

verso la croce con il nome Leone, forse Leone VI (886-912), e un medaglione di

serpentino con il busto della Vergine orante che reca il nome di Niceforo III

Botaniate (1078-1081), entrambi a Londra (Vict. and Alb. Mus.; Wentzel, 1959), o i

pezzi di più alta qualità, come due cammei di lapislazzuli eccezionalmente

incrostati d'oro (Parigi, Louvre; Mosca, Cremlino, Oružejnaja palata). Quest'ultima

tecnica, assai rara, si ritrova solo su una coppa d'agata (San Pietroburgo, Ermitage)

e su un grande medaglione di lapislazzuli con la Crocifissione (Venezia, Tesoro di

S. Marco), tutte opere il cui stile ne orienta la datazione all'11°-12°

secolo.Altrettanto raro in epoca mediobizantina fu l'intaglio di pietre preziose o

semipreziose. Questa tecnica di antica tradizione sembrerebbe in effetti declinare

dopo la metà del sec. 7° e non è forse casuale che il suo riapparire sia collegato alla

corte macedone, come testimoniano uno smeraldo incastonato nell'anello che reca

iscritto il nome di Basilio parakoimómenos, identificato con Basilio I (867-886;

Parigi, BN, Cab. Méd.), e un'agata con i ritratti di Leone VI e Costantino VII, del

908 ca. (Baltimora, Walters Art Gall.). Anche questa ripresa ben si adeguerebbe al

contemporaneo clima culturale immerso nel culto dell'Antichità, che viene del

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resto suggestivamente evocato dal celebre vaso di vetro purpureo (Venezia, Tesoro

di S. Marco), dipinto a smalto con scene mitologiche, tratte forse da antiche

gemme, che si abbinano a iscrizioni pseudocufiche in una sorta di erudito pastiche

ispirato probabilmente dallo stesso Costantino VII Porfirogenito, grande

collezionista di gemme antiche (Cutler, 1974; Kalavrezou-Maxeiner, 1985b).Il vaso

veneziano configura tra l'altro un raro esempio dell'arte vetraria della capitale

bizantina. È infatti ancora tutta da verificare la provenienza da C. di una serie di

vetri caratterizzati da un'analoga tecnica decorativa ritrovati a Dvin, Corinto, Cipro,

Novogrudok e, più recentemente, a Otranto e Tarquinia, attribuiti ipoteticamente

ad ambito costantinopolitano (Lafond, 1968; Grabar, 1971; Harden, 1971;

Whitehouse, 1983). È stata piuttosto riconosciuta l'opera di artisti occidentali attivi

durante l'occupazione latina (Lafond, 1968) nei frammenti di vetrate dipinte

ritrovati nella chiesa meridionale del monastero del Pantokrator e in S. Salvatore

di Chora, già datati al sec. 12° e attribuiti a una bottega costantinopolitana (Megaw,

1963).Per quanto riguarda gli avori, la loro produzione può essere circoscritta in

due fasi distanti nel tempo e prive di espliciti collegamenti: la prima nel 6°, la

seconda compresa tra la seconda metà del 10° e l'11° secolo. Al di là della ben nota

serie di dittici consolari, imperiali e con iconografie cristiane e della problematica

cattedra di Massimiano (Ravenna, Mus. Arcivescovile), eclettico capolavoro

dell'arte giustinianea, occorre riconsiderare alcuni aspetti della splendida

produzione mediobizantina, il cui riapparire, dopo oltre tre secoli di eclisse,

coincise con il regno di Costantino VII Porfirogenito, ponendosi dunque ancora

una volta come intenzionale recupero di un'arte antica.Negli avori dei secc. 10°-11°,

che rappresentano forse la testimonianza più elevata della rinascenza macedone,

emergono due precise tendenze: da un lato le eleganti e raffinate rievocazioni

antiquarie dei decori profani ricorrenti nei c.d. cofanetti a rosette, che palesano

appunto il tentativo di restare il più possibile fedeli alle forme e allo stile del

modello antico, dall'altro gli avori con soggetti religiosi, solitamente in forma di

trittico, a guisa d'icona portatile, nei quali le tradizioni classiche appaiono

rielaborate e attualizzate in uno stile che è compiutamente bizantino.Assai più

articolata è la classificazione cronologica e stilistica proposta da Goldschmidt e

Weitzmann (1930-1934) secondo raggruppamenti che individuano la produzione

di differenti botteghe gravitanti nell'orbita della corte imperiale, come il c.d.

gruppo pittorico o antichizzante dei cofanetti a rosette e degli avori con vivaci

iconografie sacre derivate forse da modelli pittorici e il 'gruppo di Romano', che

include anche due avori legati al nome di Costantino VII (trittico: Roma, Mus. del

-Palazzo di Venezia; tavoletta con l'imperatore incoronato da Cristo: Mosca,

Gosudarstvennyj Istoritscheskij Muz.). Proprio questo gruppo, e più precisamente

l'avorio da cui deriva il nome, con la raffigurazione di Cristo che incorona Romano

ed Eudocia (Parigi, BN, Cab. Méd.), è stato oggetto di una revisione cronologica

implicante un problematico prolungamento nel tempo, oltre la metà del sec. 11°,

dello stile 'Romano' (Kalavrezou-Maxeiner, 1977).Sembrerebbe coincidere con il

declino e la scomparsa degli avori la diffusione degli oggetti, per lo più piccoli

rilievi con soggetti esclusivamente sacri, lavorati in steatite, una pietra assai

morbida di colore grigio-verde sovente provvista di policromia; anche se gli esordi

di questa produzione si individuano già sul volgere del sec. 10° - per es. il rilievo

con l'Etimasia e santi militari (Parigi, Louvre), che imita in tono minore alcuni

peculiari stilemi degli avori del 'gruppo di Romano' - il suo grande sviluppo,

alimentato da numerosi laboratori attivi non solo a C., si focalizza nei secc. 11° e 12°

e ancora in epoca paleologa (Kalavrezou-Maxeiner, 1985a).Il sec. 11° vide anche

un'intensa ripresa nella fabbricazione di porte di bronzo, i cui precedenti sono

testimoniati a C. dalle grandiose porte della Santa Sofia, sia quelle giustinianee

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(Bertelli, 1990) sia la c.d. porta dell'Orologio o porta Bella, un vero e proprio

palinsesto di elementi antichi, assemblati in epoca giustinianea e nuovamente

ristrutturati nella prima metà del sec. 9° (Borrelli Vlad, 1990). La produzione del

sec. 11° è documentata dal gruppo di porte con intarsi d'oro e d'argento offerte da

una committenza italiana alle chiese di Amalfi, Montecassino, Roma, Monte

Sant'Angelo, Atrani, Salerno, Venezia (Matthiae, 1971; Frazer, 1973; Mango, 1978).

La porta donata nel 1070 alla basilica romana di S. Paolo f.l.m. da Pantaleone di

Amalfi, prima di essere danneggiata dall'incendio del 1823, recava iscritto in greco

il nome del fonditore Staurachio e in siriaco il nome, purtroppo perduto, del

decoratore. Le porte della cattedrale di Amalfi, ugualmente donate da Pantaleone

nel 1060 ca., sono invece firmate da Simeone il Siriaco. Le iscrizioni latine delle

porte di S. Paolo f.l.m. e del santuario di Monte Sant'Angelo (1076) esplicitano

inoltre la loro provenienza costantinopolitana. Questa inconsueta commistione di

lingue diverse da un lato evidenzia la fisionomia cosmopolita della fabbrica

costantinopolitana, dall'altro - tenendo conto del fatto che nell'iscrizione della

porta di Monte Sant'Angelo Pantaleone si dichiara come colui che portas has

struxit e raccomanda nel contempo un modo speciale per pulirla - potrebbe

lasciare spazio all'ipotesi che Pantaleone e il figlio Mauro, al cui nome sono legate

le porte di Montecassino (1066), fossero a capo di una sorta d'impresa

internazionale che impiegava specialisti orientali per fabbricare a C. oggetti

destinati all'esportazione (Mango, 1978). Anche le porte bronzee della Grande

Lavra e del katholikón del monastero di Vatopedi sul monte Athos, l'una con

decori a sbalzo, l'altra con ornati damaschinati, datate rispettivamente al 1000 ca. e

al sec. 14°, furono probabilmente fabbricate a C. (Lala Comneno, 1990).Nell'ambito

della produzione ceramica costantinopolitana testimoniata da molte suppellettili di

uso comune (Peschlow, 1977-1978; Hayes, 1992) vanno segnalati la serie di

elementi (placche, cornici, colonnette, con decori policromi anche figurati)

rinvenuti nella basilica di S. Giovanni di Studios e in quella del Topkapı (Istanbul,

Asari Atika Müz.; Ettinghausen, 1954) e altri pezzi conservati a Parigi (Louvre) e a

Sèvres (Mus. Nat. de Céramique), ugualmente attribuiti a manifatture attive

nell'orbita metropolitana tra i secc. 9° e 10° (Coche de la Ferté, 1957). Non è

improbabile che questi materiali facessero parte, come quelli di Preslav (Totev,

1987), di un'iconostasi. Dal punto di vista stilistico il confronto più calzante è

individuabile nei decori plastici della chiesa nord del monastero di Costantino Lips

(907), caratterizzati peraltro da un analogo lessico ornamentale d'ispirazione

sasanide. In questo monastero furono recuperati anche numerosi frammenti di

pannelli figurati con incrostazioni di marmi colorati, forse in origine pertinenti a

un'iconostasi che potrebbe essere stata addirittura concepita a imitazione dei

preziosi arredi delle fondazioni di Basilio I (Grabar, 1963).

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COSTANTINOPOLI > ENCICLOPEDIA DELL' ARTE ANTICA (1959)

COSTANTINOPOLI (¿¿¿sta¿t¿¿¿¿p¿¿¿¿, o ¿¿¿sta¿t¿¿¿¿ p¿¿¿¿; Constantinopolis). - È l'antica capitale dell'Impero di

Oriente.La città sorse fin dalle origini su un promontorio trapezoidale che si protende nel mare con la sua punta

arrotondata e leggermen... Leggi

COSTANTINOPOLI > ENCICLOPEDIA COSTANTINIANA (2013)

Costantinopoli Sommario: ¿¿ ßas¿¿¿¿¿ p¿¿¿¿ ¿ Il progetto ¿ La riqualificazione urbana dell’antica Bisanzio. Il Palazzo

imperiale e l’Ippodromo – L’area dell’antica acropoli – Il ¿¿¿¿¿¿ e la Basilica ¿ La monumenta... Leggi

APPROFONDIMENTI

COSTANTINOPOLI > ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI (2005)

CostantinopoliUna città tra Europa e AsiaCostantinopoli significa "città (in greco pòlis) di Costantino". Si tratta del

nuovo nome assunto dall'antica città greca di Bisanzio (oggi Istanbul, in Turchia) dopo la sua consacrazione come

second... Leggi

Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...

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