Upload
leonardo-annese
View
251
Download
18
Embed Size (px)
DESCRIPTION
Â
Citation preview
CALCESTRUZZI STRUTTURALI INNOVATIVI
TRASFORMAZIONI ENERGETICHE
RIPARAZIONI E RINFORZI
PAVIMENTAZIONI
FENOMENI DI FATICA
I QUADERNI TEMA IV – INFRASTRUTTURE STRADALI
STRADALI C: T. 4.3 – PONTI STRADALI
ISBN 978-88-99161-06-4 ISBN-A 10.978.8899161/064
NOTA INTRODUTTIVA
Il presente quaderno è frutto del lavoro svolto nell’ambito del Comitato Tecnico 4.3 - Ponti Stradali, così composto:
Prof. Ing. Michele Mele (Presidente) - mca s.r.l. - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Dott. Arch. Amedeo Gambino (Segretario)
Dott. Leonardo Alfonsi - Università di Perugia
Dott. Ing. Roberto Andreoli – A.N.P.A.E. Associazione Nazionale Produttori Argilla Espansa
Dott. Ing. Valeria Corinaldesi – Università Politecnica delle Marche
Prof. Ing. Pietro Croce – Università di Pisa
Dott. Ing. Achille Devitofranceschi – ANAS S.p.A.
Dott. Ing. Paolo Formichi – Università di Pisa
Prof. Dott. Luca Gammaitoni – Università di Perugia
Dott. Ing. Giorgio Giacomin – G&P Intech s.r.l.
Dott. Ing. Valerio Mele – ANAS S.p.A.
Prof. Ing: Giacomo Moriconi – Università Politecnica delle Marche
Prof. Ing. Marco Pasetto – Università degli Studi di Padova
Dott. Ing. Eugenio Ricci – ANAS S.p.A.
Dott. Phd. Helios Vocca – Università di Perugia
Il quaderno è stato redatto da:
Dott. Valentina Bacchettini
Dott. Ing. Valeria Corinaldesi
Prof. Ing. Pietro Croce
Dott. Ing. Giorgio Giacomin Prof. Ing. Michele Mele
Prof. Ing. Giacomo Moriconi
Prof. Ing. Marco Pasetto Dott. Phd. Helios Vocca
con la collaborazione del Prof. Ing. Carlo Pellegrino, Dott. Ing. Tommaso D’Antino (Cap. 4) e Dott. Ing. Giovanni Giacomello (Cap. 5) ai quali vanno i ringraziamenti del gruppo di redazione
SOMMARIO
1 PREMESSA .................................................................................................................................................................... 1
2 I CALCESTRUZZI STRUTTURALI INNOVATIVI ........................................................................................................... 2 2.1 CALCESTRUZZO LEGGERO STRUTTURALE ................................................................................................................... 2 2.2 CALCESTRUZZO FIBRORINFORZATO ........................................................................................................................... 4 2.3 CALCESTRUZZO CON AGGREGATI DI RICICLO .............................................................................................................. 8 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................................. 13
3 TRASFORMAZIONI ENERGETICHE ........................................................................................................................... 15 3.1 INTRODUZIONE E OBIETTIVI ...................................................................................................................................... 15 3.2 DESCRIZIONE DEL PROGETTO .................................................................................................................................. 15
4 TECNICHE INNOVATIVE DI RINFORZO DI PONTI ESISTENTI BASATE SULL’USO DI COMPOSITI
FIBRORINFORZATI ..................................................................................................................................................... 32 4.1 INTRODUZIONE ....................................................................................................................................................... 32 4.2 MATERIALI FIBRORINFORZATI IN CARBONIO A MATRICE POLIMERICA (CFRP) ............................................................... 33 4.3 MATERIALI FIBRORINFORZATI IN CARBONIO E ACCIAIO UHTSS A MATRICE INORGANICA (FRCM – SRG) ...................... 53 4.4 PROTOCOLLI DI ACCETTAZIONE, ESECUZIONE E COLLAUDO ........................................................................................ 62 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................................. 65
5 LE PAVIMENTAZIONI SU IMPALCATO DA PONTE .................................................................................................. 69 5.1 INTRODUZIONE ....................................................................................................................................................... 69 5.2 LE PAVIMENTAZIONI SU IMPALCATO DA PONTE E IL LORO DEGRADO ............................................................................ 69 5.3 LO STATO DELL’ARTE SULLE PAVIMENTAZIONI SU IMPALCATO DA PONTE ..................................................................... 72 5.4 RICERCHE RECENTI SULLE IMPERMEABILIZZAZIONI TRAFFICABILI PER IMPALCATO DA PONTE ......................................... 77 5.5 LA SPERIMENTAZIONE SULLE SOVRASTRUTTURE POLIMERICHE PER MANUFATTI STRADALI ............................................ 82 5.6 I RISULTATI ........................................................................................................................................................... 89 BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................... 100
6 FATICA NEI PONTI STRADALI ................................................................................................................................. 102 6.1 INTRODUZIONE ..................................................................................................................................................... 102 6.2 REGISTRAZIONI DI TRAFFICO CON LHV ................................................................................................................. 102 6.3 LA VERIFICA A FATICA DEI PONTI ............................................................................................................................ 103 6.4 SPETTRI DI CARICO PER PONTI STRADALI ................................................................................................................ 104 6.5 IPOTESI DI CALCOLO ............................................................................................................................................ 106 6.6 ANALISI E DISCUSSIONI DEI RISULTATI PER PONTI IN ACCIAIO .................................................................................... 108 6.7 ANALISI E DISCUSSIONI DEI RISULTATI PER PONTI IN C.A. E C.A.P. ........................................................................... 109 6.8 DETERMINAZIONE DEI COEFFICIENTI λ .................................................................................................................... 113 6.9 I COEFFICIENTI PARZIALI γM .................................................................................................................................. 119 6.10 INFLUENZA DELLA POSIZIONE TRASVERSALE DEI CARICHI ....................................................................................... 120 BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................... 126
1
1 PREMESSA
Il lavoro svolto da questo Comitato per il quadriennio
2012-2015 ha voluto fortemente segnare un punto di
svolta rispetto al passato, vale a dire non più limitandosi
ad attività sostanzialmente compilativa sullo stato
dell’arte delle tematiche attinenti il campo dei ponti
stradali ma esplorando ambiti di studio e ricerca dal
carattere fortemente innovativo non solo sul piano
strettamente tecnologica ma anche, e soprattutto, su
quelli economico e della sostenibilità anche in relazione
a quella che è l’odierna situazione congiunturale a livello
mondiale.
In tale prospettiva sono stati attivati ben cinque canali di
attività riguardanti i calcestruzzi strutturali di tipo
innovativo, le trasformazioni energetiche, i metodi di
riparazione e rinforzo strutturale, le pavimentazioni
stradali e i fenomeni di fatica.
Nel caso dei calcestruzzi si sono considerate tutte le
tipologie più interessanti nell’attuale contesto, e cioè
quella degli alleggeriti, interessanti ai fini del recupero di
funzionalità di strutture esistente in virtù sia
dell’alleggerimento che delle migliori caratteristiche
prestazionali oggi conseguibili, dei riciclati,
estremamente interessanti sotto il profilo ambientale, e
dei fibrorinforzati introdotti per portare le caratteristiche
dei calcestruzzi a livelli prestazionali decisamente più alti
che in passato (capitolo 2).
L’interesse per le trasformazioni energetiche è nato
non solo per le possibilità legate alle infrastrutture ma
anche con il più ampio obiettivo di diffondere e
approfondire le conoscenze in questo campo anch’esso
vitale per la sostenibilità. Il tema specifico affrontato dal
Comitato in questo ambito è stato quello della
trasformazione di vibrazioni strutturali in energia elettrica
svolto sia a livello teorico che con sperimentazioni sul
campo (capitolo 3)
Per i metodi di riparazione e rinforzo strutturale
l’interesse si è concentrato su alcune tecnologie più
recenti fra le più promettenti sul piano prestazionale sia
per i materiali impiegati che per le tecniche applicative
(capitolo 4).
Il tema delle pavimentazioni stradali, trattato anche in
altri Comitati di questa Associazione, è stato perciò
limitato ad applicazione di stretto e specifico interesse
per i ponti stradali, in particolare per quelli metallici
(capitolo 5).
I problemi connessi all’insorgenza di fenomeni di fatica
nelle strutture metalliche sono stati infine oggetto di una
riflessione critica sia sui possibili sviluppi normativi che
sulle attuali metodologie di verifica (capitolo 6).
Ai successivi capitoli, come indicato, sono affidate le
sintesi di tutti gli studi condotti e ad essi si rimanda
quindi per ogni maggior dettaglio.
2
2 I CALCESTRUZZI STRUTTURALI INNOVATIVI
2.1 CALCESTRUZZO LEGGERO STRUTTURALE
Il calcestruzzo leggero (LWAC, Light Weight Aggregate
Concrete) offre nuove opportunità progettuali. Una
elevata resistenza con bassi valori di densità possono
consentire soluzioni economicamente competitive, sia
per nuove costruzioni in zona sismica sia per la
riabilitazione strutturale di costruzioni esistenti.
Rispetto ad un calcestruzzo ordinario convenzionale il
calcestruzzo leggero consente:
- riduzione delle sezioni per i minori pesi;
- alleggerimento delle fondazioni;
- minore portanza richiesta ai terreni di fondazione;
- minore spinta sulle casseforme;
- minor costo per trasporto e sollevamento;
oltre a:
- maggiore isolamento termico;
- maggiore resistenza al fuoco;
- maggiore resistenza al gelo.
Cenni storici
Il primo esempio di calcestruzzo leggero strutturale nella
storia è costituito dagli anelli superiori della copertura del
Pantheon a Roma nel cui “calcestruzzo” è stata
impiegata pomice come aggregato allo scopo di ottenere
un’opportuna diminuzione del peso proprio.
Nell’era industriale moderna il calcestruzzo leggero
strutturale si è praticamente sviluppato all’inizio del XX
secolo, quando è stato messo a punto un processo in
forno rotativo per l’espansione termica di scisti e argille e
la produzione di un materiale duro e leggero utilizzato
come aggregato per il confezionamento di calcestruzzi di
pari resistenza (~ 35 MPa) e minor peso (< 1760 kg/m3)
rispetto a quelli ordinari.
Nei primi anni ‘30, il calcestruzzo leggero strutturale è
stato impiegato per il massetto stradale del Bay Bridge
da San Francisco ad Oakland consentendo una notevole
economia nel progetto del ponte.
Nei primi anni ’50 il calcestruzzo alleggerito è stato
impiegato per la prima volta nella costruzione di telai
portanti, nella realizzazione di solette da ponte ed in
prefabbricazione.
Il suo impiego ha consentito l’ampliamento di importanti
edifici senza la necessità di intervenire per modifiche in
fondazione, ed inoltre di ricostruire ampliandoli ponti
collassati (come, ad esempio, il Tacoma Narrows
Bridge) appoggiando il nuovo impalcato in calcestruzzo
leggero sulle pile originali.
Traendo vantaggio dalla riduzione di peso proprio, si
sono costruiti edifici multipiano con solai in calcestruzzo
leggero (42-story Prudential Life Building a Chicago), od
anche strutture intelaiate e solai in calcestruzzo leggero
(18-story Statler Hilton Hotel a Dallas).
Riferimenti normativi
I calcestruzzi leggeri strutturali sono conglomerati
cementizi nei quali tutto, o una parte, dell’aggregato
naturale è sostituito da aggregati leggeri in argilla
espansa con lo scopo principale di ridurne la densità (a
tutt’oggi infatti non sono ancora in commercio alternative
valide all’argilla espansa per questo tipo di
applicazione). La densità del calcestruzzo leggero
strutturale deve essere non inferiore a 1400 kg/m3
(D1,5) e non superiore a 2000 kg/m3 (D2,0).
Le Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC - DM 14
gennaio 2008, § 4.1.12) e le relative Istruzioni contenute
nella Circolare del 2 febbraio 2009 n.617 C.S.LL.PP. (§
C4.1.12) consentono l’impiego di calcestruzzo leggero
nelle strutture e forniscono gli elementi essenziali per la
progettazione. Anche l’Eurocodice 2 - Progettazione
delle strutture di calcestruzzo - Parte 1-1: Regole
generali e regole per gli edifici (UNI EN 1992-1-1:2005)
contempla l’uso di calcestruzzi leggeri strutturali alla
Sezione 11 (Strutture di calcestruzzo con aggregati
leggeri).
Ampliando l’orizzonte oltre confine si può fare riferimento
alla “Guide for Structural Lightweight-Aggregate
Concrete” dell’American Concrete Institute (ACI 213R-
03).
Per quanto riguarda la resistenza a compressione
caratteristica cilindrica, flck, dei calcestruzzi leggeri
strutturali (valutata in conformità alla norma EN 12390-
3), essa non può risultare inferiore a 16 N/mm2 (classe
LC 16/18 secondo EN 206-1) né superiore a 55 N/mm2
(classe LC 55/60).
Affinché possa essere impiegata l’argilla espansa deve
essere conforme alla norma UNI EN 13055-1, e la
conformità deve essere attestata con sistema 2+.
3
Sviluppi
Nonostante la ricerca svolta, il progetto di strutture in
calcestruzzo leggero appare ancora in una fase
embrionale. Ad esempio, le norme tecniche per la
progettazione ancora utilizzano coefficienti correttivi per
adattare le espressioni valide per il calcestruzzo
ordinario a quello alleggerito, in assenza di validazioni
sperimentali e numeriche. Inoltre, il comportamento in
opera degli elementi strutturali in calcestruzzo leggero
dovrebbe essere ulteriormente approfondito sia sul
piano della durabilità sia della sicurezza allo stato limite
ultimo, verificando l'applicabilità delle linee guida
esistenti soprattutto in relazione all'apertura di fessura
negli elementi inflessi ed alla sua propagazione anche
nello stato limite di servizio.
Proporzionamento della miscela
I maggiori problemi nel proporzionamento di un
calcestruzzo leggero sono:
- lavorabilità e segregabilità della miscela;
- assorbimento d’acqua dell’aggregato leggero;
- controllo della quantità d’acqua di impasto per la
lavorabilità;
- volume d’aria e diametro massimo dell’inerte;
- minimizzazione del contenuto di cemento.
La lavorabilità di un calcestruzzo fresco contenente
aggregati leggeri è generalmente significativamente
inferiore a quella dei calcestruzzi preparati con aggregati
ordinari. Per questo motivo la produzione di calcestruzzi
leggeri è in gran parte limitata alla prefabbricazione
industriale.
D’altra parte l’ottenimento di calcestruzzi leggeri molto
fluidi può provocare vistosi fenomeni di segregazione a
causa del galleggiamento degli inerti leggeri [1-2].
Per migliorare la lavorabilità e ridurre i fenomeni di
segregazione e bleeding indotti da dosaggi eccessivi di
additivo superfluidificante, si ingloba dal 4 all’8% in
volume di aria per un diametro massimo dell’inerte di
circa 20 mm, e dal 5 al 9% per un diametro massimo di
circa 10 mm. L’introduzione di questa aria penalizza la
resistenza meccanica ma incrementa la resistenza ai
cicli di gelo-disgelo.
L’aggregato leggero, in quanto poroso, assorbe una
certa quantità d’acqua durante le fasi di miscelazione,
per cui è consigliabile presaturare l’aggregato leggero
per evitare perdite di lavorabilità. Inoltre, tale acqua
assorbita può essere rilasciata durante l’essiccamento
del calcestruzzo alle brevi stagionature assicurando il
cosiddetto effetto “internal curing” [3], che contribuisce a
ridurre il ritiro igrometrico e migliorare la qualità della
zona di transizione fra pasta cementizia ed aggregato.
Generalmente vengono combinati in volume un
aggregato grosso leggero ed una sabbia naturale con
modulo di finezza compreso fra 2,2 e 2,7. Per
conseguire una lavorabilità adeguata (slump > 150 mm)
potrebbe essere necessario ridurre leggermente il
volume di aggregato grosso leggero, mentre per evitare
il conseguente rischio di segregazione inversa
(galleggiamento degli inerti) potrebbe essere utile
aggiungere alla miscela cenere volante in sostituzione
della frazione fine della sabbia, adottando un opportuno
dosaggio di superfluidificante.
Il rapporto acqua/cemento è, in genere, compreso
nell’intervallo 0,38-0,43, mentre è opportuno adottare un
dosaggio minimo di cemento pari a 335 kg/m3.
Posa in opera
In fase di posa in opera va limitato il ricorso alla
vibrazione del getto per evitare problemi di segregazione
e galleggiamento dell’inerte leggero.
Quando la lavorabilità del calcestruzzo leggero deve
essere tale da rendere la miscela pompabile, sono
necessari dosaggi di cemento compresi tra 450 e 480 kg
per metro cubo di calcestruzzo, inserendo ove possibile
aggiunte minerali fino a 100 kg per metro cubo.
Specifiche del calcestruzzo leggero strutturale
Dovranno essere indicati:
- Classe di resistenza a compressione;
- Dimensione massima e tipologia degli aggregati;
- Classe di massa volumica;
- Classe di esposizione ambientale;
- Classe di consistenza;
- Volume d’aria.
Qualora sia ritenuto necessario potranno essere
specificati anche i seguenti requisiti:
- Tipi o classi speciali di cemento (per esempio basso
calore di idratazione);
- Temperatura del calcestruzzo fresco; - Resistenza a trazione;
- Conduttività termica.
4
I controlli di accettazione si conducono secondo i criteri
contenuti nelle NTC correntemente in uso per i
calcestruzzi ordinari, con l’integrazione dei controlli della
massa volumica.
Aspetti economici
Nonostante il costo unitario del calcestruzzo leggero
possa risultare superiore a quello del calcestruzzo
ordinario, il costo complessivo della struttura può
risultare inferiore, come conseguenza della maggiore
leggerezza, del minor peso proprio, dei minori costi in
fondazione, di dimensioni ridotte delle sezioni, di minor
quantità di acciaio di armatura, di minori costi di
trasporto e posa in opera.
Nella maggior parte dei casi questa è la ragione
fondamentale alla base dell’impiego del calcestruzzo
leggero strutturale. Pertanto il bilancio economico
dipende dall’equilibrio fra il costo unitario del
calcestruzzo, la massa volumica e le proprietà strutturali.
Il calcestruzzo ordinario può avere il minor costo
unitario, ma risulterà più pesante per il maggior peso
proprio, con dimensioni maggiori in molte sezioni,
richiedendo una maggior quantità di calcestruzzo e di
acciaio.
2.2 CALCESTRUZZO FIBRORINFORZATO
Il calcestruzzo fibrorinforzato (FRC, Fiber Reinforced
Concrete) è caratterizzato dalla presenza di fibre
discontinue nella matrice cementizia; tali fibre possono
essere realizzate in acciaio o materiale polimerico.
Generalmente le fibre vengono classificate in base al
loro modulo elastico rispetto a quello della matrice
cementizia (20-25 GPa): sono fibre ad elevato modulo
(100-300 GPa) quelle metalliche, in carbonio o vetro,
mentre sono fibre a basso modulo (0,5-3,0 GPa) quelle
polimeriche o cellulosiche.
L’aggiunta di fibre nel calcestruzzo ha lo scopo di ridurne
la fragilità, di contrastarne gli effetti del ritiro, di
migliorarne il comportamento post-fessurativo,
aumentandone la duttilità e la tenacità, e, in definitiva, di
aumentarne la durevolezza, generando fessurazioni
diffuse e di minor ampiezza, con conseguente minor
rischio di aggressione ambientale [4].
Rispetto ad un calcestruzzo armato convenzionale le
fibre consentono di:
- migliorare la resistenza a flessione, trazione e taglio;
- migliorare l’aderenza fra calcestruzzo e barre di
armatura (tension stiffening);
- migliorare la resistenza a fatica, urto, abrasione;
- eliminare l'armatura di pelle;
- ridurre le armature longitudinali ed a taglio;
- esplicare un'azione di cucitura delle fessure (crack-
bridging);
- aumentare l’energia di frattura e, quindi, la duttilità del
calcestruzzo [5].
Le fibre, tuttavia, non apportano alcun vantaggio
significativo in termini di resistenza a compressione del
calcestruzzo e non sono in grado di influenzare
apprezzabilmente il modulo elastico in compressione.
Inoltre, l’aggiunta di fibre non modifica apprezzabilmente
la tensione di innesco delle fessure, in quanto l'azione
delle fibre si manifesta solo dopo la fessurazione del
calcestruzzo. Risulta determinante per le prestazioni
attese il volume di fibre immesso nell’impasto
cementizio.
L’aggiunta di fibre all’impasto cementizio comporta
tuttavia una significativa riduzione della lavorabilità,
recuperabile mediante l’impiego di additivi
superfluidificanti.
Cenni storici
Nonostante l’impiego di fibre, vegetali o animali, per
ridurre la fragilità di prodotti a matrice argillosa come i
mattoni in terra cruda utilizzati nella tecnica costruttiva
dell’adobe, risalga ad ere e culture antichissime, i primi
progetti utilizzando calcestruzzo fibrorinforzato con
l’accezione attuale furono realizzati in USA solo alla fine
degli anni ‘40. Tali progetti prevedevano la costruzione
di opere quali pavimentazioni aeroportuali, barriere per
la protezione delle darsene portuali e rivestimenti
provvisionali di gallerie realizzati con la tecnica dello
“shotcrete”.
Il calcestruzzo fibrorinforzato venne lentamente
introdotto in Europa solo alla fine degli anni ‘70, ancora
in assenza di prescrizioni normative sull’impiego di tale
materiale; tuttavia, il settore della prefabbricazione, assai
diffuso in Europa ed in particolar modo in Italia, iniziò a
sfruttare il calcestruzzo rinforzato con fibre di acciaio
(SFRC) esclusivamente nella realizzazione di elementi
prefabbricati di piccole dimensioni (tubi per condotti
fognari, pannelli di cabine di trasformazione elettrica,
pozzetti d’ispezione, ecc.).
5
La prima applicazione in Italia si può far risalire all’anno
1982, per l’esecuzione del rivestimento di un canale
Enel a Villadossola, con una malta cementizia
premiscelata fibrorinforzata, resa tixotropica mediante
l’aggiunta di fumo di silice.
Riferimenti normativi
Le Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC - DM 14
gennaio 2008, § 4.6) consentono l’impiego di
calcestruzzo fibrorinforzato per la realizzazione di
elementi strutturali od opere, solo previa autorizzazione
del Servizio Tecnico Centrale su parere del Consiglio
Superiore dei Lavori Pubblici, autorizzazione che
riguarderà l’utilizzo del materiale nelle specifiche
tipologie strutturali proposte sulla base di procedure
definite dal Servizio Tecnico Centrale.
L’Eurocodice 2 - Progettazione delle strutture di
calcestruzzo - Parte 1-2: Regole generali –
Progettazione strutturale contro l’incendio (UNI EN
1992-1-2:2005) contempla l’uso nel calcestruzzo delle
sole fibre polipropileniche monofilamento alla Sezione 6
(High Strength Concrete (HSC)) paragrafo 6.2 (Spalling)
come Metodo D per prevenire il distacco del copriferro in
caso di incendio.
Utili riferimenti sono costituiti dal documento CNR-DT
204/2006 - Istruzioni per la Progettazione, l’Esecuzione
ed il Controllo di Strutture di Calcestruzzo Fibrorinforzato
e dal fib Model Code 2010 (Sezioni 5.6 Fibres/Fibre
Reinforced Concrete e 7.7 Verification of safety and
serviceability of FRC structures).
Ampliando l’orizzonte oltre confine si può fare riferimento
alla norma ASTM C1116 / C1116M - 10a (Standard
Specification for Fiber-Reinforced Concrete) ed al
“Report on Fiber Reinforced Concrete (Reapproved
2009)” dell’American Concrete Institute (ACI 544.1R-96).
Le fibre devono essere marcate CE (sistema di
attestazione di conformità di Livello 1) in accordo alle
norme europee armonizzate UNI EN 14889-1 (acciaio)
ed UNI EN 14889-2 (polimeri). È opportuno sottolineare
che la marcatura CE non rappresenta un marchio di
qualità del prodotto ma significa che il prodotto soddisfa i
requisiti essenziali previsti per il prodotto stesso ed il suo
impiego. Per il Livello 1 di attestazione di conformità CE
previsto per le fibre polimeriche e in acciaio è richiesta la
Dichiarazione di Conformità CE alla norma UNI EN
14889-1 (acciaio) o UNI EN 14889-2 (polimeri) rilasciata
dal Produttore, accompagnata dal Certificato di
Conformità del Prodotto alla norma UNI EN 14889 di
riferimento pubblicata da un organismo notificato.
Generalmente la marcatura CE avviene mediante
l'apposizione di un'etichetta direttamente sui prodotti, o
sull'imballaggio ovvero mediante stampa dell'etichetta
sul Documento di Trasporto (DDT).
Sviluppi
Nonostante il notevole contributo alla durabilità delle
strutture in calcestruzzo armato, il calcestruzzo
fibrorinforzato non è ancora accettato dalle Norme
Tecniche come un materiale di ordinario impiego,
probabilmente per il timore che i progettisti vengano
assaliti dalla tentazione, legittima secondo il fib Model
Code 2010, di considerare le fibre come parziale
sostituzione dell’armatura lenta tradizionale.
Sarebbe, tuttavia, auspicabile che il calcestruzzo
fibrorinforzato venisse quanto meno previsto dalle norme
come tipologia di calcestruzzo idoneo ad aumentare la
durabilità delle strutture in calcestruzzo armato.
Sui piano della ricerca sarebbe, invece, auspicabile
conseguire progressi tecnologici nell’impiego delle fibre
per la progettazione di calcestruzzi strutturali polivalenti,
come calcestruzzi leggeri fibrorinforzati autocompattanti,
ottenuti dalla combinazione di proprietà generalmente
antitetiche, come alta resistenza e basso peso unitario, o
l’autocompattabilità in presenza di fibre.
Proporzionamento della miscela
Le fibre metalliche vengono di solito inserite nei
calcestruzzi con dosaggi fra 25 e 60 kg/m3 per
migliorarne il comportamento a trazione e flessione.
È possibile definire un volume critico di fibre (Vcrit in
Figura 1), che rappresenta il volume di fibre che, dopo la
fessurazione della matrice cementizia, può sopportare
tutto il carico gravante sul calcestruzzo.
Quando il volume di fibre è superiore a quello critico il
comportamento post-fessurativo è di tipo incrudente, con
recupero di resistenza e notevole incremento di tenacità,
mentre per volumi di fibre inferiori a quello critico il
comportamento post-fessurativo è di tipo degradante,
senza sviluppo di resistenza residua e con modesto
incremento di tenacità.
Si definisce anche un rapporto d’aspetto delle fibre, pari
al rapporto fra la loro lunghezza ed il loro diametro
equivalente (d = 2 √ A / p, con A sezione delle fibre).
6
All’aumentare del rapporto d’aspetto aumenta l’aderenza
tra fibra e matrice cementizia, ma peggiora la lavorabilità
del calcestruzzo.
Espedienti per migliorare l’aderenza fibra-matrice senza
aumentare il rapporto d’aspetto delle fibre sono l’impiego
di fibre con estremità piegate oppure di fibre ondulate o
dentellate.
La lunghezza delle fibre da adottare dipende dal
diametro massimo dell’inerte utilizzato: maggiore è il
diametro massimo degli aggregati minore è il volume
della pasta cementizia nel calcestruzzo e quindi minore il
quantitativo di fibre che si può inserire senza penalizzare
troppo la lavorabilità.
Figura 1 – Comportamento post-fessurativo in funzione del volume di fibre.
Le fibre polimeriche, nonostante ne esistano di tipo
strutturale (polivinilalcol) in grado di svolgere la stessa
funzione di quelle metalliche [6], sono generalmente
aggiunte ai conglomerati cementizi per contrastare la
formazione di cavillature dovute al ritiro plastico [7-9].
La prova a flessione secondo UNI EN 14651:2005
La prova standard per la determinazione delle proprietà
nominali del calcestruzzo fibrorinforzato si basa sulla
flessione a tre punti di una travetta intagliata in mezzeria
(per controllare la posizione della fessura) ricavando il
diagramma (Figura 2) della forza applicata al provino (F)
in funzione dell'apertura della fessura (CMOD, Crack
Mouth Opening Displacement).
I valori della tensione nominale, fRj, rappresentativa del
comportamento post-fessurativo, sono determinati dalla
curva F-CMOD nel modo seguente:
223
sp
jRj bh
lFf =
dove:
fRj [MPa] è la resistenza residua del composito
corrispondente ad un valore CMOD = CMODj;
Fj [N] è la forza residua corrispondente a CMOD =
CMODj;
l [mm] è la distanza tra gli appoggi della travetta;
b [mm] è la larghezza della sezione trasversale della
travetta;
hsp [mm] è la distanza tra l’apice dell’intaglio e la
superficie superiore del provino.
Nel calcestruzzo fibrorinforzato le fibre possono
sostituire l’armatura convenzionale, anche solo in parte,
se sono soddisfatti i requisiti prestazionali:
fR1k/fLk > 0.4 fR3k/fR1k > 0.5
dove fLk rappresenta il valore caratteristico della tensione
nominale, corrispondente al valore di picco della forza
nel diagramma F-CMOD nell'intervallo di apertura di
fessura 0 - 0,05 mm.
7
Figura 2 – Diagramma forza applicata F in funzione dell'apertura della fessura CMOD in una prova di flessione su 3 punti.
Classificazione del calcestruzzo fibrorinforzato
La classificazione del calcestruzzo fibrorinforzato si basa
sui valori di tensione nominale, fR,j, determinati in
corrispondenza dei valori CMOD1 (0,5 mm per lo Stato
Limite di Esercizio, a cui corrisponde fR1k secondo UNI
EN 14651) e CMOD3 (2,5 mm per lo Stato Limite Ultimo,
a cui corrisponde fR3k).
Le classi prestazionali sono rappresentate con un
numero e una lettera: il numero rappresenta il valore
minimo dell’intervallo all’interno del quale si trova il
parametro fR1k mentre la lettera rappresenta il rapporto
tra i valori dei parametri fR3k e fR1k.
Gli intervalli di resistenza di fR1k sono rappresentati da
due numeri successivi della serie seguente:
1.0, 1.5, 2.0, 2.5, 3.0, 4.0, 5.0, 6.0, 7.0, 8.0, … [MPa]
mentre le lettere a, b, c, d, e corrispondono ai seguenti
intervalli del rapporto fR3k/fR1k:
a se 0.5 ≤ fR3k/fR1k < 0.7
b se 0.7 ≤ fR3k/fR1k < 0.9
c se 0.9 ≤ fR3k/fR1k < 1.1
d se 1.1 ≤ fR3k/fR1k < 1.3
e se 1.3 ≤ fR3k/fR1k
Per quanto riguarda le regole per la classificazione dei
calcestruzzi fibrorinforzati si potrà fare riferimento alla
norma UNI 11188:2007 - Elementi strutturali di
calcestruzzo rinforzato con fibre d'acciaio -
Progettazione, esecuzione e controllo o al fib Model
Code 2010 (5.6.3 Classification).
Specifiche del calcestruzzo fibrorinforzato
La prescrizione del calcestruzzo fibrorinforzato non
differisce sostanzialmente da quella del calcestruzzo
ordinario se non per l'aggiunta di fibre, che comporta:
- una dimensione massima dell'aggregato non superiore
a 0,5 volte la lunghezza delle fibre;
- una distribuzione granulometrica più continua;
- una lunghezza delle fibre correlata allo spessore
minimo dell'elemento strutturale;
- vibrazione adeguata per evitare la segregazione delle
fibre, che comprometterebbe la loro uniforme
distribuzione.
La miscela del calcestruzzo fibrorinforzato deve essere
sottoposta a valutazione preliminare secondo le
indicazioni riportate nel § 11.2.3 delle Norme Tecniche
con determinazione dei valori di resistenza a trazione
residua fR1k per lo Stato Limite di Esercizio e fR3k per lo
Stato Limite Ultimo determinati secondo UNI EN
14651:2007 (Figura 2).
Per le fibre in materiali polimerici, caratterizzati da
comportamento a lungo termine sensibilmente
influenzato da fenomeni di viscosità, i valori della
resistenza a trazione post-fessurazione devono essere
verificati con prove di lunga durata.
In fase di accettazione, oltre a quanto già indicato al
§11.2.5 delle Norme Tecniche, dovrà essere eseguita
dal Direttore dei Lavori la verifica della conformità dei
8
valori della tensione residua a trazione su miscele
omogenee.
Controllo di produzione del calcestruzzo fibrorinforzato
- Applicazioni di Tipo A: Controllo di qualità ordinario sul
materiale; resistenze ottenute con prove standard
nominali.
Tabella 1 - Prove durante la produzione [Tabella 8-1 delle Istruzioni CNR-DT 204]
Oggetto Proprietà Metodo Frequenza Registrazione
FRC fresco corretta miscelazione ispezione visiva (UNI EN 206)
ogni giorno di getto di miscela omogenea
apposito modulo
FRC fresco contenuto di fibre *peso dopo separazione
fibre-matrice (UNI EN 14721)
ogni 50 m3 di getto di miscela omogenea o almeno due controlli
al giorno
apposito modulo
FRC indurito resistenza prima
fessurazione Appendice A
(CNR-DT 204) Appendice B
(CNR-DT 204) apposito modulo
FRC indurito resistenze equivalenti Appendice A
(CNR-DT 204) Appendice B
(CNR-DT 204) apposito modulo
*valida solo per le fibre metalliche (per le fibre di altro tipo occorre mettere a punto modalità specifiche)
Oltre alle prove ed ai controlli previsti dalle norme di
riferimento per le strutture di calcestruzzo armato
ordinario, i controlli aggiuntivi di produzione, realizzati
sotto la responsabilità del direttore dei lavori, sono
riportati in Tabella 1.
- Applicazioni di Tipo B: Elevato controllo di qualità sul
materiale e su elementi strutturali; resistenze ottenute
con prove strutturali specifiche.
Per le applicazioni di tipo B, in aggiunta a quanto
specificato per quelle di tipo A, è richiesto che:
- le prove di carico previste per validare le ipotesi di
progetto debbano essere condotte preliminarmente su
almeno 2 manufatti fino alla rottura, per verificarne la
corrispondenza con le ipotesi progettuali;
- la produzione debba avvenire in un sistema di qualità
certificato da un ente terzo notificato.
2.3 CALCESTRUZZO CON AGGREGATI DI RICICLO
Il calcestruzzo con aggregati di riciclo (RAC, Recycled
Aggregate Concrete) viene prodotto sostituendo parte
degli aggregati naturali con prodotti di riciclo: ad
esempio riutilizzando calcestruzzo demolito proveniente
da impianti di riciclaggio dove il calcestruzzo riciclato
viene macinato, separato da eventuali barre di armatura
ed altre sostanze indesiderabili, vagliato secondo idonee
frazioni granulometriche.
Rispetto ad un calcestruzzo convenzionale di pari
resistenza a compressione, il calcestruzzo con
aggregato riciclato [10]:
- ha una resistenza a trazione inferiore (10% circa);
- ha un modulo elastico inferiore (20-30% circa);
- sviluppa la stessa tensione di aderenza con le barre in
acciaio;
- presenta lo stesso grado di vulnerabilità alla
fessurazione per ritiro igrometrico;
- presenta caratteristiche di durabilità almeno equivalenti
in termini di resistenza ai cicli di gelo e disgelo,
resistenza all’attacco solfatico, resistenza alla
penetrazione di agenti aggressivi per le armature
metalliche;
- presenta una interfaccia fra aggregato riciclato e pasta
cementizia più continua e compatta;
- nessun problema di cessione di sostanze
potenzialmente pericolose per l'ambiente [11].
Riferimenti normativi
Come per gli aggregati naturali, anche il calcestruzzo di
riciclo frantumato deve essere classificato.
Nelle “Norme Tecniche per le Costruzioni”, al paragrafo
11.2.9.2 “Aggregati”, vengono definiti idonei alla
produzione di calcestruzzo per uso strutturale gli
aggregati ottenuti dalla lavorazione di materiali naturali,
artificiali, ovvero provenienti da processi di riciclo
9
conformi alla norma europea armonizzata UNI EN
12620.
Il sistema di attestazione della conformità di tali
aggregati, ai sensi del DPR n.246/93, è quello 2+
(dichiarazione di conformità del produttore e
certificazione del controllo di produzione in fabbrica)
Nelle stesse Norme viene consentito l'uso di aggregati
grossi provenienti da riciclo, secondo i limiti riportati nella
Tabella 2 (Tabella 11.2.III delle Norme), a condizione
che la miscela di calcestruzzo confezionata con tali
aggregati, venga qualificata e documentata attraverso
idonee prove di laboratorio. Per gli aggregati riciclati, le
prove di controllo di produzione in fabbrica (prospetti H1,
H2 ed H3 dell'allegato ZA della norma UNI EN 12620)
devono essere effettuate, per le parti rilevanti, ogni 100
tonnellate di aggregato prodotto e, comunque, negli
impianti di riciclo, per ogni giorno di produzione.
Tabella 2 – Limiti di impiego dell’aggregato riciclato secondo NTC (Tabella 11.2.III)
Origine del materiale da riciclo Classe del calcestruzzo Percentuale di impiego
Demolizioni di edifici (macerie) = C 8/10 fino al 100%
Demolizioni di solo calcestruzzo e c.a. ≤ C30/37 ≤ 30%
≤ C20/25 fino al 60%
Riutilizzo di calcestruzzo interno negli stabilimenti di prefabbricazione qualificati - da qualsiasi classe - da calcestruzzi >C45/55
≤ C45/55
fino al 15%
Stessa classe del calcestruzzo
di origine fino al 5%
Secondo le Norme, nelle prescrizioni di progetto si potrà
fare riferimento alle norme UNI 8520 parti 1 e 2 al fine di
individuare i requisiti chimico-fisici, aggiuntivi rispetto a
quelli fissati per gli aggregati naturali, che gli aggregati
riciclati devono rispettare, in funzione della destinazione
finale del calcestruzzo e delle sue proprietà prestazionali
(meccaniche, di durabilità e pericolosità ambientale,
ecc.), nonché quantità percentuali massime di impiego
per gli aggregati di riciclo, o classi di resistenza del
calcestruzzo, ridotte rispetto a quanto previsto nella
tabella sopra esposta.
Sempre secondo le Norme, il progetto, nelle apposite
prescrizioni, potrà fare riferimento alle norme UNI 8520
parti 1 e 2 al fine di individuare i limiti di accettabilità
delle caratteristiche tecniche degli aggregati.
Nella norma armonizzata UNI EN 12620 “Aggregati per
calcestruzzo”, predisposta dal Comitato Tecnico
CEN/TC 154, che risponde ai requisiti essenziali della
Direttiva Europea 89/106/CEE sui prodotti da
costruzione, vengono specificate le proprietà che
devono essere possedute da aggregati e filler di origine
naturale, industriale o riciclati da utilizzare per la
produzione di calcestruzzo.
La norma specifica inoltre le caratteristiche del sistema
di gestione della produzione degli aggregati ed i requisiti
del sistema di valutazione della conformità dei prodotti
alla norma stessa.
Tuttavia, non fissa i requisiti finali che l’aggregato deve
avere per poter essere utilizzato nella produzione del
conglomerato, ma fornisce un sistema di classificazione
dei requisiti geometrici, fisici e chimici, attraverso i quali
effettuare la scelta dei diversi inerti. La definizione dei
requisiti, di cui in precedenza, è rimandata a standard
nazionali che, in Italia, sono stabiliti dalla UNI 8520.
Rimanendo in ambito europeo, già nell’Eurocodice 2 -
Progettazione delle strutture di calcestruzzo - Parte 1-1:
Regole generali e regole per gli edifici (UNI EN 1992-1-
1:2005) si fa riferimento alla possibilità di utilizzo di
aggregati riciclati, rimandando alla norma UNI EN 206-1,
in cui vengono precisati i requisiti generali ed in
particolare viene specificato che i materiali costituenti la
miscela del calcestruzzo non possono contenere
sostanze nocive e/o che possano pregiudicare la
durabilità del calcestruzzo.
In generale è possibile affermare che la qualità degli
aggregati riciclati che può essere ottenuta è strettamente
legata alle caratteristiche dei materiali di partenza.
Maggiore sarà il grado di omogeneità e selezione del
materiale da trattare maggiore risulterà la qualità del
prodotto finale.
10
La suddivisione principale degli aggregati, definiti dalla
norma UNI EN 12620 come “materiali granulari utilizzati
in edilizia”, avviene sulla base della loro origine ed in
particolare si definisce:
- aggregato naturale quello di origine minerale che è
stato sottoposto unicamente a lavorazione meccanica;
- aggregato industriale quello di origine minerale
derivante da un processo industriale che implica una
modificazione termica o di altro tipo;
- aggregato riciclato quello risultante dalla lavorazione di
materiale inorganico precedentemente utilizzato in
edilizia.
Sviluppi
Nonostante le NTC siano state emanate con l’intento di
adottare criteri prestazionali, le norme relative
all’impiego di aggregato riciclato per il confezionamento
di calcestruzzi strutturali mantengono un carattere
decisamente troppo prescrittivo, se non protezionistico,
per rendere effettivo l’impiego di tale materiale. In
particolare, sarebbe auspicabile che la normativa
recepisse le indicazioni provenienti da numerosi studi
scientifici a livello mondiale, che indicano come il minore
modulo elastico, e quindi la maggiore deformabilità del
calcestruzzo con aggregati riciclati, possa comportare
meccanismi di rottura diversi, con maggiore capacità di
dissipazione di energia ed inaspettati valori di duttilità e
tenacità, indotti da un diverso comportamento a taglio
che richiede opportuni accorgimenti di calcolo [12].
Questo aspetto può risultare vantaggioso in particolari
applicazioni, come il comportamento sotto carichi ciclici
(fatica o sisma).
Inoltre, la normativa limita le percentuali di impiego di
aggregati riciclati nella produzione di calcestruzzo
strutturale e la classe del calcestruzzo conseguibile,
nonostante risultati di ricerche scientifiche ed esperienze
pratiche sempre più frequenti abbiano ampiamente
riconfermato la fattibilità e l’efficacia dell’utilizzo di
materiali riciclati nel calcestruzzo, strutturale o meno, e
nei materiali da costruzione in generale. Pertanto, in
futuro sarà necessario superare tutti i pregiudizi legati
all’utilizzazione di questi materiali, nell’ottica di uno
sviluppo realmente sostenibile. Tuttavia, sarà anche
necessario che vengano adottati opportuni indirizzi
politici responsabili, come ad esempio l'obbligo della
demolizione selettiva, con l’obiettivo di preservare le
risorse naturali e di incoraggiare la sostituzione dell’uso
di aggregati naturali con aggregati riciclati. In questo
senso, in molti stati membri della comunità europea, la
tassazione degli aggregati naturali, che ha un effetto
diretto sul rapporto di prezzo tra aggregati naturali e
riciclati, viene generalmente ritenuta più efficace rispetto
alla tassazione sullo smaltimento dei rifiuti, che
comporta il rischio di smaltimenti illegali [13].
Proporzionamento della miscela
Il proporzionamento della miscela del calcestruzzo con
aggregati riciclati è sostanzialmente condizionato dalla
minore massa volumica (e quindi dalle minori prestazioni
meccaniche) così come dal maggiore assorbimento di
acqua di tali aggregati.
Nel caso di utilizzo di aggregati riciclati ottenuti da
demolizione di solo calcestruzzo, la sostituzione della
frazione costituita da soli aggregati grossi in percentuali
contenute (fino al 20%) non causa decrementi
prestazionali significativi e risulta quella maggiormente
praticata per la produzione di conglomerato strutturale
con inerti riciclati.
Per impiegare elevate percentuali di sostituzione con
aggregato riciclato occorre adottare bassi rapporti
acqua/cemento, per compensare la minore prestazione
meccanica dell'aggregato, e quindi ricorrere ad elevati
dosaggi di cemento. Poiché è consigliabile evitare
dosaggi di cemento superiori a 400 kg/m3, l’impiego di
additivi riduttori d’acqua è fortemente consigliato se non
inevitabile.
La presenza della malta e della pasta di cemento
originali che avvolgono gli elementi lapidei
dell'aggregato riciclato con le loro porosità, di granuli di
cemento parzialmente idratati, e la tessitura ruvida della
superficie del materiale riciclato comportano una
interfaccia pasta-aggregato del calcestruzzo con
aggregati riciclati più omogenea e compatta, ma
determinano anche una maggiore richiesta d'acqua per
confezionare un calcestruzzo con pari consistenza
rispetto ad un conglomerato tradizionale.
Per ovviare alle possibili conseguenze negative di
questa maggiore richiesta d’acqua, è consigliabile pre-
saturare l’aggregato riciclato per varie ragioni:
- evitare errori grossolani nel dosaggio delle frazioni
granulometriche di aggregato, riferito alla condizione
s.s.a. (saturo a superficie asciutta);
- evitare l’assorbimento d’acqua dell’aggregato durante
la miscelazione, compromettendo il mantenimento
11
della lavorabilità per un tempo sufficiente alla posa in
opera;
- creare una riserva d’acqua interna al calcestruzzo,
favorendo l’effetto di "internal curing" [14-15].
Figura 3 - Confronto fra ritiro igrometrico di calcestruzzo con aggregati naturali e calcestruzzo con aggregati riciclati.
Il fenomeno "internal curing" ha effetti positivi sulla
qualità dell’interfaccia pasta–aggregato, sullo sviluppo
della resistenza meccanica alle brevi stagionature, sullo
sviluppo delle deformazioni da ritiro igrometrico, che
subiscono un ritardo temporale (Figura 3).
È opportuno ricordare che la riduzione del rapporto
acqua/cemento per compensare la penalizzazione della
prestazione meccanica causata dall’aggregato riciclato,
e quindi per ottenere un calcestruzzo di pari classe di
resistenza (R0 in Figura 4) rispetto a quello con
aggregati naturali, presenta un limite quando l’aggregato
risulta più debole della pasta cementizia, per cui la
rottura del calcestruzzo è innescata dal cedimento
dell’aggregato. In particolare, tale limite (a/c* in Figura 4)
dipende, nel caso più generale, dai seguenti fattori:
- classe del calcestruzzo da cui proviene l’aggregato;
- eventuale presenza di laterizi;
- diametro massimo dell’aggregato.
Figura 4 – Resistenza a compressione del calcestruzzo con aggregati riciclati in funzione del rapporto acqua/cemento.
L’impiego di cenere volante in parziale sostituzione
dell’aggregato fine è un espediente molto efficace per
migliorare le prestazioni meccaniche e la durabilità dei
calcestruzzi con aggregati riciclati.
Calcestruzzo con aggregati naturali
Calcestruzzo con aggregati riciclati
R0
12
Corrosione delle armature nel calcestruzzo con
aggregati riciclati
L’esperienza ha dimostrato che l’impiego di cenere
volante, anche a dosaggi elevati, e/o aggregati riciclati
non provoca alcun effetto negativo sul comportamento
alla corrosione delle barre di armatura a parità di classe
di resistenza [16]. In particolare, soprattutto la presenza
di cenere volante modifica la morfologia dell’attacco
corrosivo, rendendolo più generalizzato e meno
penetrante.
L’impiego di elevati dosaggi di cenere volante migliora,
invece, sensibilmente la resistenza alla corrosione delle
barre zincate annegate nel calcestruzzo, anche in
ambienti molto aggressivi per elevate concentrazioni di
cloruri ed in presenza di fessure nel calcestruzzo.
Questi comportamenti possono essere spiegati
considerando che, se da un lato l’aggiunta di cenere
volante riduce l’alcalinità generata dall’idratazione del
cemento rendendo instabile la condizione di passività
delle armature, dall’altro lato tale aggiunta migliora
significativamente la microstruttura del calcestruzzo,
rendendo sempre più difficile la penetrazione di agenti
aggressivi capaci di instaurare condizioni favorevoli alla
corrosione delle armature, che risulta persino impedita
quando vengono utilizzate barre zincate.
Specifiche per il calcestruzzo con aggregati riciclati
Tali specifiche non differiscono sostanzialmente da
quelle di un calcestruzzo ordinario.
Tuttavia, occorre ricordare che eventuali esigenze
progettuali in termini di modulo elastico e/o resistenza a
compressione richiedono un opportuno adeguamento
della resistenza a compressione.
Infine, poiché i conglomerati con aggregati riciclati sono
generalmente caratterizzati da una più rapida perdita di
lavorabilità, sarebbe consigliabile, se possibile, l’impiego
di additivi superfluidificanti con effetto ritardante.
Aspetti economici
Se, come nella maggior parte delle applicazioni
strutturali, è richiesta una classe di resistenza del
calcestruzzo di 30 MPa, il calcestruzzo con aggregati
riciclati senza alcuna aggiunta minerale potrebbe non
soddisfare l'esigenza (quanto meno sul piano economico
per l'elevato dosaggio di cemento richiesto), mentre il
calcestruzzo con aggregati riciclati ed elevato volume di
cenere volante potrebbe offrire prestazioni eccellenti
sotto tutti i punti di vista. Per questo motivo un confronto
economico dovrebbe essere effettuato a parità di
prestazioni [17] tra calcestruzzi, con aggregati naturali o
riciclati od anche cenere volante, della stessa classe di
resistenza.
Tabella 3 - Costi tradizionali (T) ed eco-bilanciati* (E-B) riferiti ad un m3 di calcestruzzo.
Componente Costo
unitario (€/kg)
NAC RAC HVFA-RAC
T E-B T E-B T E-B
Acqua 0,001 0,30 0,30 0,30 0,30 0,30 0,30 Cemento 0,121 45,98 45,98 91,96 91,96 45,98 45,98
Cenere volante 0,022 - - - - 8,36 8,36 Discarica cenere volante 0,250 - - - - - -95,00
Sabbia naturale 0,015 4,55 4,55 - - - -
Pietrisco 0,013 17,26 17,26 - - - -
Aggregato riciclato grosso 0,006 - - 7,54 7,54 6,82 6,82
Discarica macerie 0,050 - - - -58,45 - -52,85
Superfluidificante 1,435 - - - - 9,76 9,76
Totale 68,09 > 68,09* 99,80 41,35 71,22 -76,63
* Solo gli eco-costi negativi, derivanti dal conferimento in discarica dei materiali di risulta, sono stati valutati. I costi relativi all'impatto ambientale causato dall'estrazione degli aggregati naturali in cava dovrebbero essere aggiunti ai costi eco-bilanciati del calcestruzzo con aggregati naturali.
13
Sulla base di costi dei singoli componenti del
calcestruzzo non alterati da situazioni di mercato
contingenti, si può risalire ad un costo tradizionale del
calcestruzzo con aggregati riciclati e cenere volante
(HVFA-RAC in Tabella 3) leggermente superiore (meno
del 5%) di quello tradizionale del calcestruzzo con
aggregati naturali (NAC in Tabella 3), mentre quello del
calcestruzzo con soli aggregati riciclati (RAC in Tabella 3)
risulta nettamente superiore (quasi 50% in più) a causa
del molto maggior dosaggio di cemento.
Tuttavia, oltre ai costi tradizionali (T in Tabella 3) degli
aggregati, sembrerebbe importante e corretto prendere in
considerazione anche i loro costi ambientali (E-B, eco-
bilanciati, in Tabella 3). Gli eco-costi [17], che sono i costi
necessari ad eliminare l'impatto ambientale causato
dall'estrazione degli aggregati naturali in cava,
dovrebbero essere valutati così come gli eco-costi
negativi, che sono i costi per eliminare il danno
ambientale qualora le macerie da demolizione degli
edifici esistenti, ed anche la cenere volante sottoprodotto
delle centrali termoelettriche, non venissero riutilizzate
nella produzione di calcestruzzo. Prendendo in
considerazione anche i costi ambientali degli aggregati
[18], sebbene non facilmente determinabili e variabili con
fattori politici e sociali, si può facilmente prevedere che in
futuro il calcestruzzo con aggregati riciclati e cenere
volante possa risultare molto più economico del
calcestruzzo con aggregati naturali. Peraltro, è stato
dimostrato che, impiegando aggregato grosso costituito
da calcestruzzo riciclato a livelli di sostituzione del 30-
50% di quello naturale, i costi risultano ridotti di circa il
34-41% e le emissioni di CO2 di circa il 23-28%, pur
mantenendo la stessa qualità e gli stessi livelli di
sicurezza del calcestruzzo convenzionale [19].
BIBLIOGRAFIA
[1] Choi, Y.W., Kim, Y.J., Shin, H.C., Moon H.Y. (2006).
“An experimental research on the fluidity and
mechanical properties of high-strength lightweight
self-compacting concrete”, Cement and Concrete
Research, 36(9), 1595–1602.
[2] Wu, Z., Zhang, Y., Zheng, J., Ding, Y. (2009). “An
experimental study on the workability of self-
compacting lightweight concrete”, Construction and
Building Materials, 23(5), 2087–2092.
[3] Bentur, A., Igarashi, S., Kovler, K. (2001). “Prevention
of autogenous shrinkage in high strength concrete by
internal curing using wet lightweight aggregates”,
Cement & Concrete Research, 31, 1587–1591.
[4] di Prisco M., Plizzari G., Vandewalle L. (2009). "Fibre
reinforced concrete: new design perspectives",
Materials and Structures, 42(9), 1261-1281.
[5] Velazco G., Visalvanich K., Shah S.P. (1980).
"Fracture behavior and analysis of fiber reinforced
concrete beams", Cement and Concrete Research,
10(1), 41–51.
[6] A. Passuello, G. Moriconi, S.P. Shah (2009).
“Cracking behavior of concrete with shrinkage
reducing admixtures and PVA fibers”, Cement &
Concrete Composites, 31, 699–704. [7] Berke N.S., Dallaire M.P. (1994). “The effect of low
addition rates of polypropylene fibres on plastic
shrinkage cracking and mechanical properties of
concrete”, ACI SP-142, 37–66.
[8] Soroushian P., Mirza F., Alhozaimy A. (1995).
“Plastic shrinkage cracking of polypropylene fibre
reinforced concrete”, ACI Materials Journal, 92(5),
553–560.
[9] Soroushian P., Ravanbakhsh S. (1998). “Control of
plastic shrinkage cracking with specialty cellulose
fibres”, ACI Materials Journal, 95(4),429–435.
[10] V. Corinaldesi, G. Moriconi (2010).
"Characterization of Mechanical and Elastic
Behaviour of Concretes Made of Recycled-Concrete
Aggregates", The Third International Conference on
Engineering for Waste and Biomass Valorisation
(WasteEng10), Beijing, China, May 17-19, 2010,
Edited by A. Nzihou and H. Liu, Ecole des Mines
d'Albi-Carmaux, Albi, France, 048-C.
[11] D. Sani, G. Moriconi, G. Fava, V. Corinaldesi
(2005). "Leaching and mechanical behaviour of
concrete manufactured with recycled aggregates",
Waste Management, 25(2), 177-182.
[12] V.C. Letelier Gonzalez, G. Moriconi (2014). “The
influence of recycled concrete aggregates on the
behavior of beam–column joints under cyclic
loading”, Engineering Structures, 60, 148–154.
[13] Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, “I rifiuti da
scavo, demolizione e costruzione: iniziative di
riduzione, recupero e riciclo”, Assemblea Generale
del 24 Settembre 2010, pp. 1-101.
14
[14] Lura, P., Bisschop, J. (2004). “On the origin of
eigenstresses in lightweight aggregate concrete”,
Cement & Concrete Composites, 26, 445–452.
[15] V. Corinaldesi, G. Moriconi (2010). “Recycling of
rubble from building demolition for low-shrinkage
concretes”, Waste Management, 30, 655-659.
[16] G. Moriconi (2005). “Reinforcement Corrosion
Experience with Concrete Mixtures Containing Fly
Ash”, Proceedings of the Second International
Symposium on “Concrete Technology for Sustainable
Development with Emphasis on Infrastructure”
(Compiled by N. Bhanumathidas & N. Kalidas),
Hyderabad, India, February 27 – March 3, 2005, 69-
81.
[17] Corinaldesi V., Moriconi G. (2001). “Role of
chemical and mineral admixtures on performance
and economics of recycled-aggregate concrete”, In
V.M. Malhotra (ed.), Fly ash, silica fume, slag and
natural pozzolans in concrete, Proc. Seventh
CANMET/ACI Intern. Conf., Madras, India, 22-27
July 2001, American Concrete Institute, Farmington
Hills, MI, USA, Publication SP-199, 869-884.
[18] Tazawa, E. (1999). “Engineering scheme to
expedite effective use of resources”, In P.K. Metha
(ed.), Concrete technology for sustainable
development in the twenty-first century, Proc. Intern.
Symp., Radha Press, New Delhi, India, 23-42.
[19] Dosho, Y. (2007). “Development of a sustainable
concrete waste recycling system”, Journal of
Advanced Concrete Technology, 5(1), 27-42.
15
3 TRASFORMAZIONI ENERGETICHE
3.1 INTRODUZIONE E OBIETTIVI
Il controllo costante dello stato di salute di ponti stradali
è un’attività che può avere importanti ripercussioni sui
costi di manutenzione e sulla sicurezza di tali opere
viarie. Uno dei parametri che possono essere tenuti
sotto controllo è sicuramente l’entità delle vibrazioni che
si propagano nei materiali al passaggio di autoveicoli e
mezzi pesanti. Studiando le caratteristiche di queste
vibrazioni e verificandone la costanza nel tempo, è
possibile avere informazioni su eventuali modifiche
strutturali. Inoltre le vibrazioni meccaniche possono
essere sfruttate per produrre energia elettrica utilizzando
degli opportuni generatori, chiamati Energy Harvester.
Per arrivare alla realizzazione di un Energy Harvester è
necessario conoscere l’intensità e la distribuzione in
frequenza delle vibrazioni, così da poter adattare il
generatore al particolare ambiente in cui dovrà lavorare.
A tale fine la fase di progettazione è generalmente
preceduta da una campagna di misurazione delle
vibrazioni su strutture campione. Per fare ciò servono
degli appositi strumenti di misura in grado di misurare le
vibrazioni: sono generalmente composti da un
accelerometro ad uno o più assi, una scheda di
acquisizione ed un sistema di archiviazione. Nel progetto
qui descritto l'archiviazione dei dati avviene via internet:
l'invio dei file delle misure è effettuato mediante email.
3.2 DESCRIZIONE DEL PROGETTO
Il lavoro è suddiviso principalmente in due sottoprogetti:
- Realizzazione di un sistema automatico di
misurazione delle vibrazioni ed acquisizione dati.
- Elaborazione dei dati misurati.
Misurazione delle vibrazioni
Per poter misurare l’intensità e la distribuzione in
frequenza delle vibrazioni a cui sono sottoposte le
strutture durante il transito di veicoli, si rende necessaria
l’installazione di uno o più registratori di accelerazioni, di
seguito denominati logger. Mediante l’utilizzo di
accelerometri digitali a tre assi, è possibile individuare su
quali direzioni, con quale intensità e distribuzione in
frequenza le accelerazioni mettono in vibrazione i ponti o
parti della loro struttura. L’obiettivo è campionare, ad
intervalli di tempo prefissati, le vibrazioni e raccoglierle in
un database così che possano poi essere analizzate
mediante calcolatore elettronico.
Generalmente la misura delle vibrazioni si effettua con
accelerometri collegati a schede di acquisizione per
computer. Nello scenario stradale in cui si dovrà
operare, ciò è impraticabile per via di costi, ingombri e
consumi energetici: si prevede di effettuare misure per
due settimane e sul luogo non è disponibile energia
elettrica per alimentare il sistema di misura. Perciò i
logger saranno appositamente progettati e realizzati per
meglio rispondere alle esigenze, ovvero inviare i dati in
tempo reale e funzionare con alimentazione a batteria.
Sistema di misurazione delle vibrazioni
Con riferimento alla Figura 5, ciascun sistema di
acquisizione si compone di:
• una scheda “master” di controllo con sistema
operativo Linux embedded;
• una scheda di supporto alla “master”, denominata
"main", con regolatore di alimentazione, porte di
comunicazione RS232 e RS485 opto isolate;
• una scheda remota di acquisizione con
accelerometro MEMS a 3 assi con 4 mg di
risoluzione, microcontrollore a 16 bit e porta di
comunicazione RS485;
• un modem wireless 3G per trasferimento dati via
internet;
• una scheda SD contenente il sistema operativo ed
utilizzabile per la memorizzazione temporanea locale
dei dati.
16
Figura 5 – Schema a blocchi del registratore di vibrazioni
Nelle seguenti Fig. 6, 7, 8 e 9 vengono riportati gli
schemi elettrici della scheda "Main": la "Master" viene
acquistata già assemblata e può essere perciò
considerata uno degli elementi costituenti la prima.
Alcuni componenti elettronici non sono realmente
montati, erano solo previsti a livello circuitale ma non si
sono resi necessari per lo scopo delle misure.
Il layout con la disposizione dei componenti elettronici è
mostrato in Figura 10.
Figura 6 – Schema elettrico della scheda Main 1/4
17
Figura 7 – Schema elettrico della scheda Main 2/4
Figura 8 – Schema elettrico della scheda Main 3/4
18
Figura 9 – Schema elettrico della scheda Main 4/4
Figura 10 – Layout della scheda Main.
(Su questa viene montata la scheda Master collegandola alla seria di contatti identificati dalla sigla X4)
19
Il software di controllo residente nella scheda "Master" è
basato sul sistema operativo Linux per processore
ARM11 ed una serie di script in linguaggio Python.
Questi si occupano della corretta ricezione delle
informazioni dall'accelerometro e della loro spedizione
via email in file in formato binario: successivamente
andrà riconvertito, per esempio, in csv.
La modalità di lavoro è la seguente:
• campionamento delle vibrazioni a 1600 Hz su
tre assi per un minuto;
• creazione di un file binario e successiva
compressione in gzip;
• invio del file via email.
Le misure vengono acquisite ogni 5 minuti, 24 ore al
giorno.
Le dimensioni della scheda master sono di 109 x 94 mm
l'aspetto complessivo è visibile in Figura 11.
Figura 11 – Scheda Main e Master
Per la scheda remota è prevista la tele alimentazione
tramite il cavo utilizzato per la comunicazione RS485. La
trasmissione dati avviene mediante collegamento
differenziale RS485 a due fili, quindi in totale il cavo
dovrà disporre di quattro conduttori elettrici. La scheda
remota e la master potranno essere poste ad una
distanza non superare a 50 metri. Per distanze superiori
potrebbe essere necessario ridurre la massima
frequenza di campionamento delle accelerazioni,
attualmente prevista a 1600 Hz.
Le vibrazioni sono digitalizzate mediante accelerometri
MEMS a 3 assi con risoluzione di 4 mg e dinamica di
±16g. Il formato dei dati è in virgola fissa a 16 bit "right
justified": l'informazione utile è rappresentata a 13 bit.
L'accelerometro usato è prodotto da Analog Devices,
modello ADXL345. La comunicazione verso il mondo
esterno avviene mediante una comunicazione seriale
sincrona su porta SPI a 4 fili. Perciò è richiesto l'utilizzo
di un microcontrollore. Questo si occupa del corretto
campionamento delle accelerazioni mediante
l'accelerometro, la loro elaborazione ed il loro invio alla
scheda di "Master".
Il software è residente nel microcontrollore è compilato
da dei sorgenti in linguaggio C.
Le seguenti Figure 12 e 13 mostrano lo schema elettrico
della scheda di acquisizione con l'accelerometro.
20
Figura 12 – Schema elettrico della scheda remota con accelerometro 1/2
Figura 13 – Schema elettrico della scheda remota con accelerometro 2/2
21
Il layout del circuito della scheda remota di acquisizione è visibile nella figura seguente:
Figura 14 –Layout del circuito remoto di acquisizione delle vibrazioni (L'accelerometro è piazzato al centro del lato corto, in alto nella figura)
Il piccolo circuito con l'accelerometro, di 43 x 58 mm, è
contenuto in un contenitore ermetico, come visibile in
Figura 15.
Il modem 3G sarà utilizzabile per la comunicazione verso
un server internet, per l'invio della email. In questo modo
è possibile ricevere le misure pochi minuti dopo la loro
acquisizione.
Figura 15 – Il circuito con l'accelerometro inserito nel suo contenitore ermetico
22
Elaborazione delle misure
L’elaborazione dei dati è una parte fondamentale del
progetto e porterà a definire i vincoli costruttivi per un
ipotetico energy harvester quali frequenza, o banda di
frequenze, operativa e dinamica.
Le registrazioni delle vibrazioni sono state effettuate
lungo due ponti del Grande Raccordo Anulare di Roma,
come mostrato dalla Figura 16 e 17.
Figura 16 – Installazioni sul ponte sul fiume Tevere nei pressi dell'uscita di Castel Giubileo, carreggiata interna
Figura 17 – Installazioni su di un ponte lungo il Grande Raccordo Anulare nei pressi dell'uscita per
la via Cassia, Lat. 41.982° N, Long. 12.447° E.
Logger 1
Logger 2
Logger 3
Logger
23
Mediante elaborazione dei dati è infatti possibile
determinare su quale porzione dello spettro di frequenza
le vibrazioni sono maggiormente concentrate. Da questa
prima informazione è possibile determinare se è più
opportuno utilizzare un Energy Harvester lineare o non
lineare, o una combinazione dei due. La prima tipologia è
più adatta in caso di vibrazioni a banda stretta, tipiche di
strutture risonanti eccitate, la seconda in caso di
vibrazione a largo spettro, tipiche di situazioni nelle quali
l’eccitazione della struttura non è sempre ben definita.
Dalla capacità del generatore di “rispondere” bene alle
sollecitazioni dipenderà la sua maggiore o minore
efficienza nella conversione di energia, dalle vibrazioni
meccaniche alla corrente elettrica.
Dall’analisi dei dati si otterrà anche un altro tipo di
informazioni, ovvero si potrà ricavare l’intensità delle
vibrazioni. In questo modo è possibile progettare un
generatore sufficientemente robusto ed in grado di
sopportare l’escursione dinamica delle accelerazioni.
Da notare, maggiori saranno le sollecitazioni
meccaniche, maggiore sarà l’energia elettrica ricavabile,
perciò tale dispositivo sarà progettato per lavorare dove
c’è più energia.
I dati, raccolti in singoli file, possono essere elaborati
singolarmente o a gruppi (per esempio tutti quelli di un
determinato giorno) per ricavare statistiche dettagliate o
mediate nel tempo.
Un frammento di un file, dopo conversione da binario in
csv, è mostrato qui di seguito. I valori riportati sono
espressi in g, dove 1 g corrisponde all'accelerazione di
9,71 m/s2.
x y z
-0.013 -0.015 0.012
-0.005 -0.007 0.036
-0.005 -0.007 -0.003
0.002 0.001 0.059
0.010 0.001 0.082
0.026 -0.007 -0.011
0.026 -0.007 -0.066
-0.013 0.024 -0.019
La mole di dati da elaborare è piuttosto grande. Sono
stati impiegati tre logger in tre postazioni differenti,
ognuno effettua 12 minuti di acquisizione ogni ora, 1600
campioni al secondo per ogni asse, ogni campione di
ogni asse è rappresentato a 16 bit. Il totale per un minuto
di registrazione è di 576000 campioni per logger.
Allo scopo perciò è stato scritto un apposito script in
ambiente Matlab. Questo si occupa di acquisire tutti i file
in una determinata directory (i dati da ciascun logger
sono stati separati in tre differenti directory) e di
processarli ricavando medie e valori di picco delle
accelerazioni di ogni asse e di ogni file.
Infine è stato ricavato anche lo spettro di densità di
potenza delle accelerazioni presenti in tutte le serie
temporali mediato nel tempo.
Ciò che emerge è riportato in oltre 1300 file il cui
contenuto è simile al seguente. I valori riportati sono
espressi in g, dove 1 g corrisponde all'accelerazione di
9,81 m/s2.
x_med y_med z_med x_max x_min y_max y_min z_max z_min x_rms y_rms z_rms
0.084 -0.056 0.886 0.252 -0.341 0.306 -0.304 0.840 -0.886 0.014 0.016 0.029
Il Logger 1, installato all'uscita dal ponte sul fiume Tevere
nei pressi di Castel Giubileo, ha prodotto i risultati visibili
nelle seguenti Figura 18, Figura 19 e Figura 20,
rispettivamente per l'asse X, l'asse Y e l'asse Z
(ortogonale alla direzione del traffico, parallelo alla
direzione del traffico e verticale rispettivamente)
24
Figura 18 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 1, asse X
Figura 19 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 1, asse Y
Figura 20 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 1, asse Z
25
Come appare evidente, l'asse Z è quello più sollecitato,
con intensità di picco di circa 5x10-5 g2/Hz a circa 150 Hz.
Il Logger 2, installato al centro del ponte sul fiume Tevere
nei pressi di Castel Giubileo, ha prodotto i risultati visibili
nelle seguenti Figura 21, Figura 22 e Figura 23,
rispettivamente per l'asse X, l'asse Y e l'asse Z
(verticale).
Osservando gli spettri, si capisce facilmente che la parte
centrale del ponte oscilla praticamente solo intorno ad
una frequenza pari a circa 120 Hz. In questo caso sia
l'asse delle Y che delle X sono i più sollecitati, con
intensità di picco di circa 5x10-5 g2/Hz e 4x10-5 g2/Hz
rispettivamente.
Figura 21 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 2, asse X
Figura 22 –Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 2, asse Y
26
Figura 23 –Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 2, asse Z
Il Logger 3, installato all'entrata del ponte sul fiume
Tevere nei pressi di Castel Giubileo, ha prodotto i risultati
visibili nelle seguenti, rispettivamente per l'asse X, l'asse
Y e l'asse Z.
In questo terzo punto le oscillazioni sono dovute
all'impatto degli pneumatici con il ponte: è presente il
giunto tecnico, si forma un piccolo scalino.
Gli assi Y e Z sono i più sollecitati. Il primo, Y, parallelo
alla direzione del traffico, indica che l'energia è
prevalentemente localizzata sotto i 100 Hz, con picchi di
intensità dell'ordine di 10-5 g2/Hz.
Sull'asse Z, invece, l'energia è dispersa fino a circa 500
Hz, con intensità di picco di circa 3 x 10-5 g2/Hz: ciò
indica una quantità totale di energia maggiore.
Figura 24 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 3, asse X
27
Figura 25 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 3, asse Y
Figura 26 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, Logger 3, asse Z
28
Le misure sul secondo ponte sono state eseguite nel
punto indicato in Figura 17: l'accelerometro è stato
piazzato in prossimità del giunto tecnico tra il terreno e il
ponte, dal lato del secondo (Figura 27), e sulla barriera
New Jersey (Figura 28), sempre in prossimità del giunto.
Figura 27 – Misurazione delle vibrazioni lungo il secondo ponte
Figura 28 – Misurazione delle vibrazioni lungo il secondo ponte
29
L'elaborazione della prima serie temporale ha fornito i
dati rappresentati nelle seguenti Figura 29, Figura 30,
Figura 31.
Figura 29 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, secondo ponte, asse X, al
livello della pavimentazione stradale.
Figura 30 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, secondo ponte, asse Y, al
livello della pavimentazione stradale
30
Figura 31 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, secondo ponte, asse Z, al
livello della pavimentazione stradale
Da queste emerge una dominante accelerazione diretta
verticalmente (asse Z), con una banda utile di circa 200 Hz.
L'elaborazione della prima serie temporale ha fornito i
dati rappresentati nelle seguenti:
Figura 32 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, secondo ponte, asse X,
misurate come indicato in Figura 28
31
Figura 33 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, secondo ponte, asse Y,
misurate come indicato in Figura 28
Figura 34 – Spettro di densità di potenza delle accelerazioni, secondo ponte, asse Z,
misurate come indicato in Figura 28
Da queste ultime immagini si evince ancora una
dominante delle accelerazioni verticale, ma con una
banda più stretta, circa 100 Hz.
Nella direzione del traffico, invece, l'accelerazione
sembra essere piuttosto a banda stretta, con una forte
componente intorno a 180 Hz.
Nella direzione ortogonale al senso di marcia, asse X, le
accelerazioni sono di intensità circa pari a quelle lungo
l'asse Y, ma hanno una banda un po' più estesa, con
energia distribuita fino a circa 500 Hz, anche se la parte
dominante è concentrata sotto i 100 Hz.
32
4 TECNICHE INNOVATIVE DI RINFORZO DI PONTI
ESISTENTI BASATE SULL’USO DI COMPOSITI
FIBRORINFORZATI
4.1 INTRODUZIONE
L’utilizzo di compositi fibrorinforzati per il rinforzo e
l’adeguamento di strutture esistenti in calcestruzzo
armato (c.a.) ha raggiunto una grande popolarità negli
ultimi decenni. Tra i materiali compositi, l’utilizzo dei
cosiddetti polimeri fibrorinforzati (fiber reinforced
polymer, FRP) rappresenta una soluzione efficace per
l’intervento su strutture esistenti in c.a. grazie all’elevata
resistenza meccanica ed al costo relativamente non
elevato del materiale. Gli FRP sono stati largamente
studiati negli ultimi anni e sono attualmente disponibili
diverse linee guida per la progettazione di questo tipo di
rinforzo in tutto il mondo (CEN 2004, ACI 2005, fib 2010).
Numerose campagne sperimentali hanno dimostrato
l’efficacia dei compositi FRP nel caso di rinforzo a
flessione (Pellegrino and Modena 2009a), taglio
(Pellegrino and Modena 2002, 2006, 2008), e per il
confinamento di elementi soggetti prevalentemente a
sforzo assiale (Pellegrino and Modena 2010). Uno dei
problemi di maggiore importanza nell’utilizzo di compositi
FRP è costituito dalla valutazione della resistenza al
distacco (debonding) del composito dal supporto su cui è
applicato; nonostante numerosi studi siano stati condotti
al fine di comprendere appieno il meccanismo di
trasferimento degli sforzi tra il supporto ed il composito
non si è ancora giunti ad un’analisi onnicomprensiva del
fenomeno che possa mettere d’accordo l’intera comunità
scientifica (Chen and Teng 2001, D’Antino and Pellegrino
2014). Inoltre, mentre le formulazioni per il progetto di
rinforzi a flessione sembrano essere in grado di fornire
risultati soddisfacenti, per quanto riguarda la
progettazione di rinforzi a taglio non si è ancora giunti
alla formulazione di modelli analitici in grado di fornire
un’adeguata accuratezza rispetto alle evidenze
sperimentali.
Alla luce di questi problemi, nel presente lavoro vengono
brevemente introdotti i più importanti modelli analitici per
il calcolo della resistenza al distacco del composito FRP
svolgendo un’analisi critica dei corrispondenti risultati alla
luce delle evidenze sperimentali disponibili in letteratura
(D’Antino and Pellegrino 2014). Analogamente, vengono
esposti ed analizzati i più importanti modelli analitici per
la valutazione della resistenza a taglio di elementi
rinforzati con compositi FRP, comparando i risultati
analitici ottenuti con i corrispondenti risultati sperimentali
(Pellegrino and Vasic 2013). A completamento della
trattazione riguardante i compositi fibrorinforzati a
matrice polimerica, viene illustrata una campagna
sperimentale condotta su travi in c.a. rinforzate a
flessione tramite laminati in FRP pretesi (Pellegrino and
Modena 2009a). I risultati ottenuti hanno dimostrato che
l’applicazione della pretensione ai laminati compositi è in
grado di assicurare un ulteriore margine di resistenza
all’elemento rinforzato nel suo complesso. Al fine di
illustrare la modalità di utilizzo del rinforzo FRP vengono
riportati nel presente documento alcuni casi di rinforzo a
flessione e taglio su viadotti italiani.
Una promettente alternativa all’utilizzo dei compositi FRP
è rappresentata dai cosiddetti materiali compositi a
matrice cementizia (fiber reinforced cementitious matrix,
FRCM e steel reinforced grout, SRG ), costituiti da fibre
lunghe in carbonio e trefoli in acciaio UHTSS ad alta
resistenza applicate a supporti in calcestruzzo per mezzo
di matrici cementizie. I compositi FRCM-SRG
rappresentano una novità nel mondo del rinforzo di
strutture esistenti in c.a. e la letteratura disponibile a
riguardo è ancora assai limitata. Il presente lavoro
presenta e discute una campagna sperimentale condotta
su provini di FRCM_SRG con diverse caratteristiche
geometriche e costituiti da differenti fibre e matrici
applicate su supporti in calcestruzzo (D’Antino et al.
2015). Infine, l’efficacia dei compositi FRCM-SRG per il
rinforzo a flessione di strutture esistenti in c.a. è
dimostrata dai risultati di una campagna sperimentale
condotta su travi esistenti in c.a. precompresso rinforzate
con differenti materiali FRCM-SRG e, in un caso, con un
laminato FRP in fibra di carbonio (Pellegrino and
D’Antino 2013).
33
4.2 MATERIALI FIBRORINFORZATI IN CARBONIO A MATRICE POLIMERICA (CFRP)
4.2.1 Analisi critica dei modelli analitici di aderenza di polimeri fibrorinforzati a matrice polimerica applicati a elementi in calcestruzzo armato
Introduzione
Il distacco (deleminazione) dei compositi fibrorinforzati a
matrice polimerica (FRP) dal supporto su cui sono
applicati rappresenta uno dei problemi fondamentali per
la progettazione del rinforzo. Esistono oggigiorno diversi
modelli analitici per la valutazione della resistenza al
distacco di compositi FRP applicati su elementi in c.a.;
alcuni di questi modelli sono stati inoltre adottati da codici
e linee guida di diversi paesi per la progettazione dei
rinforzi con FRP. In questo capitolo vengono presentati
20 differenti modelli analitici per la valutazione della
resistenza al distacco di compositi FRP; l’accuratezza di
ciascun modello è stata valutata tramite il confronto tra i
risultati analitici forniti e i risultati sperimentali presenti in
un ampio database costituito dagli studi presenti in
letteratura.
Esistono differenti configurazioni di prova per la
valutazione della resistenza al distacco di compositi FRP:
1) prova di taglio singolo, in cui una striscia di composito
viene applicata su di una faccia di un prisma in
calcestruzzo; il prisma viene vincolato mentre la forza
viene applicata alla striscia di composito. 2) prova di
taglio doppio, in cui generalmente due prismi in
calcestruzzo vengono vincolati tramite due strisce di
composito applicate sulle facce opposte dei prismi; la
forza viene quindi applicata ad uno o ad entrambi i prismi
in modo da separarli. 3) prova a flessione, in cui una
striscia di composito viene applicata all’intradosso di una
trave in calcestruzzo in cui, generalmente, sia presente
una cerniera od un intaglio per innescare la crisi per
flessione. La prova a flessione viene generalmente
condotta su provini a scala ridotta e presenta delle
criticità nell’interpretazione dei risultati, essendo la
resistenza al distacco influenzata da diversi meccanismi
legati alla configurazione di prova. Per questo motivo i
risultati relativi alle prove a flessione su provini a scala
ridotta non sono stati presi in considerazione nella
seguente trattazione.
L’analisi dell’accuratezza dei modelli analitici qui
presentati è stata condotta tenendo in conto sia
dell’influenza delle diverse configurazioni di prova sia
delle differenze tra i compositi utilizzati, siano essi in
forma di strisce impregnate in-situ o di laminati pre-
impregnati.
Modelli analitici per la valutazione della resistenza al
distacco di compositi FRP
Venti differenti modelli analitici per la valutazione della
resistenza al distacco di compositi FRP raccolti in
letteratura vengono qui di seguito brevemente richiamati,
con particolare attenzione ai modelli adottati dai codici e
dalle linee guida. La notazione adottata è analoga alla
notazione adottata dagli autori dei modelli stessi; il
modulo elastico, lo spessore e la larghezza della striscia
di compositi vengono indicate rispettivamente con fE ,
ft e fb .
fib Bulletin 14-T.G. 9.3 2001
La forza massima max,faN che può essere ancorata dal
composito FRP può essere calcolata secondo la
seguente equazione:
ctmffbcfa ftEbkkcN 1max, α= (1)
dove α è un coefficiente riduttivo che tiene in conto
dell’influenza di fessure inclinate; ctmf è la resistenza a
trazione media del calcestruzzo; 1c è un coefficiente
che può essere ottenuto tramite calibrazione
sperimentale e, nel caso di FRP in carbonio (CFRP) è
uguale a 0.64; ck è un coefficiente che tiene in
considerazione lo stato di compattazione del
calcestruzzo, mentre bk è un coefficiente geometrico:
14001
206.1 ≥
+
−=
f
fb b
bbk (2)
dove b è la larghezza della sezione dell’elemento
rinforzato. Se la lunghezza d’aderenza bl è minore della
lunghezza effettiva d’aderenza max,bl - cioè della
lunghezza necessaria perché il meccanismo di aderenza
si sviluppi completamente - la forza massima max,faN è
ridotta per mezzo della seguente equazione:
34
⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛−=
max,max,max, 2
b
b
b
bfafa l
lll
NN (3)
CNR DT-200 2004
Le linee guida italiane CNR DT-200 2004 propongono
una formulazione simile a quella proposta dal fib Bulletin
14-T.G. 9.3 2001. La tensione massima fddf di una
striscia di composito FRP è funzione dell’energia di
frattura FkΓ secondo la seguente equazione:
f
Fkf
cdf
crfdd t
Ekf
Γ=
2
, γγ (4)
dove df ,γ e cγ sono i coefficienti di sicurezza relativi
al composito ed al calcestruzzo, rispettivamente. Se la
lunghezza di aderenza bl è minore della lunghezza
effettiva di aderenza el la tensione massima viene
ridotta secondo la seguente equazione:
⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛−=
e
b
e
bfddridfdd l
lll
ff 2, (5)
La forza massima che può essere ancorata dall’FRP è
infine calcolata moltiplicando l’area della sezione di
composito per la tensione massima ottenuta. Il
coefficiente riduttivo crk permette di distinguere tra
delaminazione d’estremità ( crk = 1) e delaminazione
intermedia ( crk = 1). L’energia di frattura dell’interfaccia
calcestruzzo-FRP è calcolata come:
ctmckbFk ffk03.0=Γ (6)
dove ckf è la tensione caratteristica a compressione del
calcestruzzo mentre bk è un coefficiente geometrico
uguale a:
14001
206.1 ≥
+
−=
f
fb b
bbk (7)
CNR DT-200 R1/2013
Una nuova versione delle line guida italiane, la CNR DT-
200 R1/2013, è stata pubblicata recentemente; essa
fornisce nuove equazioni che migliorano l’accuratezza
dei risultati rispetto alla versione precedente,
distinguendo anche tra laminati pre-impregnati e strisce
impregnate in-situ. La tensione massima nell’FRP fddf
per distacco d’estremità viene calcolata come:
f
Fdf
df
crfdd t
Ekf
Γ=
2
,γ (8)
eb
e
b
e
bfddridfdd
llforll
ll
ff
<
⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛−= 2, (9)
L’energia di frattura specifica FdΓ è fornita dalla
seguente equazione:
ctmcmGb
Fd ffFCkk
⋅⋅⋅
=Γ (10)
112
≥+
−=
bbbb
kf
fb (11)
dove 023.0=Gk in caso di laminati pre-impregnati,
mentre 037.0=Gk in caso di strisce impregnate in-situ.
FC è un fattore di sicurezza aggiuntivo. Al fine di evitare
la 34e laminazione intermedia la tensione nel composito
deve essere minore o uguale a 2,fddf :
ctmcmGb
f
f
df
qfdd
ffFCkk
tE
kf
⋅⋅⋅⋅
⋅⋅
⋅=
2,
,2,
2
γ (12)
dove 2,Gk è un coefficiente empirico uguale a 0.10,
25.1=qk in caso di carico distribuito e 0.1=qk in tutti gli
altri casi.
35
ACI 440.2R 2008
Il codice americano fornisce il valore della tensione
d’aderenza massima, in caso di rinforzo a flessione,
moltiplicando la deformazione massima nel composito
FRP feε con il corrispondente modulo elastico fE ,
assumendo comportamento perfettamente elastico. La
deformazione massima nel composito è limitata dalla
deformazione corrispondente al distacco, fdε . Infine, la
tensione massima ancorata dal composito FRP, fef , è
ottenuta in relazione ad una certa profondità dell’asse
neutro, come indicato nelle seguenti equazioni:
fuff
cfd tnE
fεε 9.0
'41.0 ≤= (13)
fdf
cufe ccd
εεε ≤⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛ −= (14)
feffe Ef ε= (15)
dove, in questo codice, n indica il numero di strati di FRP
applicati (tf è lo spessore del singolo strato), cf ' è la
resistenza a compressione del calcestruzzo, cuε è la
deformazione massima del calcestruzzo non confinato,
uguale a 0.003; fd e c sono rispettivamente la distanza
del composito FRP e dell’asse neutro dal lembo
superiore della sezione. La forza massima ancorata
dall’FRP è quindi calcolata moltiplicando la tensione fef
con l’area della sezione del composito FRP.
In aggiunta a questi modelli sono state prese in
considerazione altre 16 differenti formulazioni analitiche
proposte da Van Gemert (1980), Tnaka (1996), Hiroyuki
and Wu (1997), Maeda et al. (1997), Neubauer and
Rostàsy (1997), Khalifa et al. (1998), Adhikary and
Mutsuyoshi (2001), Chen and Teng (2001), De Lorenzis
et al. (2001), Yang et al. (2001), Izumo (2003), Iso
(2003), Sato (2003), Dai et al. (2005), Lu et al. (2005), e
Camli and Binici (2007). Ognuno dei modelli analitici
presi in considerazione è stato applicato senza l’utilizzo
di coefficienti di sicurezza.
Database sperimentale
L’accuratezza di ciascuno dei modelli analitici presentati
è stata valutata per mezzo di un vasto database
sperimentale formato dai risultati disponibili in letteratura.
Il database è costituito da 404 provini, 231 dei quali
testati utilizzando la prova di taglio singolo, 60 testati
utilizzando la prova di taglio doppio e 124 testati a
flessione (D'Antino and Pellegrino 2013). Venticinque dei
provini testati a taglio singolo e 74 dei provini testati a
flessione sono stati realizzati con compositi laminati pre-
impregnati. Tutti i provini testati a taglio doppio sono
stati realizzati con compositi impregnati in situ. Le
caratteristiche di ciascun provino sono riportate in
D’Antino and Pellegrino 2014.
Valutazione dell’accuratezza dei modelli analitici
L’accuratezza di ciascun modello analitico è stata
valutata comparando i risultati sperimentali inclusi nel
database con i corrispondenti risultati analitici. I risultati
sono riportati in termini di carico massimo applicato al
provino misurato sperimentalmente expP e
analiticamente thP . I risultati sperimentali sono stati
comparati con i risultati analitici per mezzo di appositi
diagrammi (Lu et al. 2005, Smith and Teng 2002).
L’accuratezza è stata misurata tramite il coefficiente di
variazione CoV, di seguito definito. Oltre al coefficiente di
variazione CoV sono stati calcolati anche la media Avg e
la corrispondente deviazione standard StD.
Figura 1 mostra, a titolo di esempio, i diagrammi
corrispondenti alla CNR DT-200 2004, fib Bulletin 14
T.G. 9.3 2001, ACI 440.2R 2008, e alla CNR DT-200
R1/2013. I valori che si trovano sopra la linea
1/exp =thPP sono conservativi poiché il valore della
resistenza di aderenza misurato sperimentalmente è
superiore al corrispondente valore analitico; viceversa i
valori che si trovano sotto la linea 1/exp =thPP non sono
conservativi. L’analisi dell’accuratezza di ciascun modello
è stata portata a termine distinguendo tra le diverse
configurazioni di prova (prova di taglio singolo = Single,
prova di taglio doppio = Double, prova a flessione =
36
Bending). È stata inoltre analizzata l’accuratezza di
ciascun modello al variare della tipologia di composito
utilizzato (strisce impregnate in situ = Sheet, laminati pre-
impregnati = Laminate). In Tabella 1 sono elencati tutti i
risultati ottenuti dall’analisi in termini di CoV e Avg.
Analizzando i risultati ottenuti nel caso dei codici e delle
linee guida più importanti (CNR DT-200 2004, fib Bulletin
14 T.G. 9.3 2001, ACI 440.2R 2008, CNR DT-200
R1/2013) è possibile notare che le stime analitiche sono
a volte non conservative (Figura 35). Il codice americano
ACI 440.2R 2008 fornisce risultati più conservativi
rispetto agli altri modelli ma la sua accuratezza, misurata
in termini di coefficiente di variazione, è piuttosto limitata.
Questo risultato può essere attribuito al fatto che il codice
americano è basato sulle osservazioni sperimentali di un
numero ridotto di provini.
I risultati riportati in Tabella 4 mostrano che alcuni
modelli sono più accurati nel caso di prove di taglio
doppio mentre altri ottengono risultati migliori nel caso di
prove di taglio singolo. I modelli che hanno ottenuto il
miglior risultato in termini di coefficiente di variazione
sono Lu et al. 2005 (CoV=0.18) nel caso di prove di
taglio singolo e Neubauer and Rostàsy 1997 (CoV=0.22)
nel caso di prove di taglio doppio.
ithii PPx ,exp,= (16)
n
xAvg
n
ii∑
== 1 (17)
( )
n
AvgxStD
n
ii∑
=
−= 1
2
(18)
( )n
AvgxCoV
n
irefi∑
=
−= 1
2
(19)
Si può inoltre notare che, ad eccezione della CNR DT-
200 2004 (CoV=0.33), i risultati ottenuti nel caso di prove
a flessione sono molto inaccurati.
Quest’ultimo risultato si può attribuire al fatto che la
maggior parte dei modelli analitici disponibili in letteratura
sono stati elaborati e calibrati basandosi sui risultati delle
prove di taglio singolo e doppio grazie alla loro rapidità
d’esecuzione e basso costo. Nelle prove a flessione,
inoltre, la resistenza di aderenza del composito non
viene misurata direttamente come avviene nelle prove di
taglio ma viene calcolata in base al momento flettente
massimo misurato. Per questo motivo il risultato ottenuto
nel caso delle prove a flessione risente delle ipotesi di
calcolo adottate, prima fra tutte l’ipotesi che le sezioni si
mantengano piane durante il processo di carico e
distacco del composito.
Non si è notata una chiara influenza del tipo di composito
adottato (fogli impregnati in situ o laminati pre-
impregnati), tuttavia bisogna notare che i laminati pre-
impregnati vengono utilizzati in maggior parte nel caso di
prove a flessione, mentre i fogli impregnati in situ
vengono utilizzati per lo più per le prove di taglio. Non è
stato inoltre possibile reperire risultati di prove di taglio
doppio condotte utilizzando laminati pre-impregnati, fatto
questo che ha impedito di ottenere risultati per questo
particolare tipo di accoppiamento prova-composito.
Infine, considerando i valori dei coefficienti di variazione
ottenuti senza distinguere in base alla tipologia di prova
ed al tipo di composito utilizzato si può notare che il
modello Camli and Binici 2006 fornisce l’accuratezza
maggiore, avendo un coefficiente di variazione uguale a
0.40.
37
Figura 35 – Comparazione tra risultati analitici e sperimentali distinguendo tra diverse configurazioni di prova (Single,
Double, Bending).
0
10
20
30
40
0 10 20 30 40
P exp
[kN
]
Pth [kN]
ACI 440.2R 2008 Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
0
20
40
60
80
100
120
140
0 20 40 60 80 100 120 140
P exp
[kN
]
Pth [kN]
ACI 440.2R 2008 Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
0
10
20
30
40
0 10 20 30 40
P exp
[kN
]
Pth [kN]
CNR-DT 200 R1/2013Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
0
20
40
60
80
100
120
140
0 20 40 60 80 100 120 140
P exp
[kN
]
Pth [kN]
CNR-DT 200 R1/2013Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
0
10
20
30
40
0 10 20 30 40
P exp
[kN
]
Pth [kN]
fib Bulletin 14-T.G. 9.3 2001Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
0
20
40
60
80
100
120
140
0 20 40 60 80 100 120 140
P exp
[kN
]
Pth [kN]
fib Bulletin 14-T.G. 9.3 2001Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
0
10
20
30
40
0 10 20 30 40
P exp
[kN
]
Pth [kN]
CNR-DT 200/2004 Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
0
20
40
60
80
100
120
140
0 20 40 60 80 100 120 140
P exp
[kN
]
Pth [kN]
CNR-DT 200/2004Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
Single
Double
Bending
38
Tabella 4 - Risultati ottenuti dai diversi modelli analitici in termini di coefficiente di variazione CoV e valore medio Avg.
Modelli analitici Single Double Bending Sheet Laminate
Sheet +
Laminate Avg CoV Avg CoV Avg CoV Avg CoV Avg CoV Avg CoV
Van Gemert 1980 1.51 0.84 0.94 0.54 0.79 3.07 1.21 0.66 0.76 1.02 1.10 0.76
Tanaka 1996 1.75 1.20 1.40 0.70 - - 1.88 1.00 1.96 2.54 1.77 1.21
Hiroyuki and Wu 1.91 1.15 1.82 1.25 1.90 1.38 1.88 1.37 1.96 1.40 1.90 1.38
Maeda et al. 1997 0.97 0.24 1.05 0.32 1.34 0.91 1.09 0.56 1.07 0.44 1.09 0.53
Neubauer and Rostasy 1997 0.87 1.38 0.99 0.22 1.31 0.91 1.02 0.51 0.99 0.53 1.02 0.51
Khalifa et al. 1998 1.24 0.41 1.05 0.38 1.25 0.88 1.28 0.62 1.01 0.42 1.22 0.58
fib Bulletin 14-T.G. 9.3 2001 0.84 0.23 0.85 0.26 1.10 0.72 0.93 0.44 0.87 0.41 0.91 0.43
Adhikary and Mutsuyoshi
2001 0.90 0.41 0.55 0.55 0.20 0.81 0.72 0.47 0.45 0.81 0.65 0.57
Chen and Teng 2001 1.47 1.38 1.66 0.75 2.21 1.88 1.71 1.11 1.72 1.13 1.71 1.12
De Lorenzis et al. 2001 0.67 0.36 0.72 0.34 0.88 0.60 0.75 0.45 0.70 0.42 0.74 0.44
Izumo 2003 0.85 0.39 0.69 0.62 0.10 0.98 0.74 0.52 0.07 0.93 0.62 0.61
Iso 2003 1.06 0.26 0.96 0.31 1.06 0.77 1.10 0.49 0.87 0.41 1.04 0.47
Sato 2003 0.73 0.36 0.85 0.53 0.50 0.81 0.76 0.47 0.44 0.73 0.68 0.54
Yang et al. 2003 1.14 0.30 1.04 0.35 1.34 0.91 1.22 0.58 1.09 0.43 1.18 0.55
CNR DT-200 2004 1.42 0.52 1.34 0.52 0.94 0.33 1.34 0.50 1.03 0.39 1.26 0.47
Dai et al. 2005 0.61 0.41 0.67 0.38 0.86 0.59 0.70 0.47 0.66 0.45 0.69 0.46
Lu et al. 2005 1.00 0.18 1.17 0.32 1.55 1.14 1.18 0.64 1.18 0.62 1.18 0.63
Camli and Binici 2006 1.01 0.31 0.84 0.37 0.60 0.56 0.93 0.35 0.68 0.52 0.87 0.40
ACI 440.2R 2008 1.45 0.59 1.78 0.94 2.23 1.50 1.54 0.72 2.12 1.40 1.68 0.93
CNR DT-200 R1/2013 1.30 0.44 1.22 0.42 1.26 0.77 1.23 0.36 1.41 0.91 1.28 0.55
Conclusioni
Nel presente lavoro è stata analizzata l’accuratezza di 20
differenti modelli analitici per la valutazione della
resistenza di aderenza di compositi FRP applicati su
supporti in calcestruzzo. La valutazione dell’accuratezza
di ciascun modello è stata condotta comparando le
previsioni analitiche con i risultati sperimentali contenuti
in un database sperimentale costituito da 404 provini. È
stata analizzata l’influenza di diverse configurazioni di
prova e di diverse tipologie di compositi sulle previsioni
analitiche. I risultati ottenuti hanno mostrato che i più
importanti codici e linee guida fornisco, a volte, previsioni
non conservative. I modelli considerati forniscono buoni
risultati nel caso di prove di taglio singolo e doppio,
mentre risultano molto poco accurate nel caso di prove di
flessione.
Alla luce di questo risultato si ritiene quindi necessario
approfondire lo studio dell’aderenza nel caso di prove a
flessione partendo dai risultati delle prove di taglio diretto
in cui la valutazione della resistenza di aderenza risulta
più agevole.
In generale, i risultati ottenuti forniscono indicazioni sulla
necessità di approfondire alcuni aspetti della
modellazione analitica anche tramite ulteriori indagini
sperimentali volte alla piena comprensione del
meccanismo di trasferimento degli sforzi tra FRP e
calcestruzzo. Appare inoltre chiara la necessità di
individuare, se possibile, una configurazione di prova
univoca e condivisa che permetta di caratterizzare
l’aderenza di compositi FRP applicati su supporti in
calcestruzzo.
39
4.2.2 Analisi critica dei modelli analitici per la valutazione della resistenza a taglio di elementi in calcestruzzo armato rinforzati con compositi FRP
Introduzione
Il problema del progetto di rinforzi a taglio di elementi in
calcestruzzo armato (c.a.) tramite l’utilizzo di compositi
fibrorinforzati applicati esternamente rappresenta una
sfida molto complessa ed importante. I modelli analitici
per il calcolo del contributo a taglio fornito dal composito
FRP, infatti, fornisco a volte risultati non conservati e
necessitano di essere validati tramite un elevato numero
di risultati sperimentali.
Scopo del presente studio è la valutazione
dell’accuratezza dei più importanti modelli analitici per la
valutazione della resistenza a taglio di elementi in c.a.
rinforzati con compositi FRP. Mentre in letteratura sono
disponibili studi volti alla stima del solo contributo di
resistenza a taglio fornito dal rinforzo FRP, questo studio
prende in considerazione la resistenza globale
dell’elemento rinforzato combinando i modelli analitici
riguardanti i compositi con i modelli di calcolo riguardanti
gli elementi in c.a. Particolare attenzione è stata posta
sull’utilizzo dell’Eurocodice 2 (CEN 2004) associato al
modello di Pellegrino and Modena (2008) in quanto
questi due modelli permettono di tenere in conto sia
dell’inclinazione delle fessure di taglio che della mutua
influenza tra FRP e armatura trasversale in acciaio
eventualmente presente nell’elemento da rinforzare.
Ciascun modello analitico considerato è stato associato
al corrispondente modello di calcolo per elementi in c.a.
ed il risultato è stato confrontato con le evidenze
sperimentali contenute in un ampio database costituito
dai risultati presenti in letteratura.
La maggior parte dei modelli analitici per la valutazione
della resistenza a taglio di elementi in c.a. rinforzati con
compositi FRP quantifica la resistenza globale
dell’elemento rinforzato come la somma dei contributi di
resistenza forniti da calcestruzzo, acciaio e composito,
assumendo quindi che i diversi contributi siano tra loro
indipendenti:
fscn VVVV ++= (20)
dove V!, V!, V!, e V! sono rispettivamente la resistenza
a taglio (globale) dell’elemento rinforzato ed i contributi di
resistenza a taglio fornita dal calcestruzzo, dall’acciaio
trasversale e dal composito. Molti autori hanno
concentrato i loro studi sull’individuazione del contributo
fV suggerendo l’utilizzo dei codici per elementi in c.a.
per il calcolo dei contributi V! e V!. Questa modalità di calcolo non prende però in
considerazione il problema globalmente in quanto si
assume che i diversi componenti resistenti non
interagiscano tra loro.
I codici di calcolo per elementi in c.a. come Eurocodice 2
(CEN 2004), ACI 318 (ACI 2005) and fib Model Code (fib
2010) si basano sul ben noto modello di traliccio di
Morsch pur proponendo approcci differenti e valori
differenti dell’inclinazione delle fessure di taglio.
L’inclinazione delle fessure riveste un importanza
cruciale, così come sottolineato da molti autori. Modifi
and Chaallal (2011), ad esempio, hanno osservato che
l’inclinazione della fessura di taglio deve essere presa in
considerazione nel calcolo di fV . Inoltre Lima and
Barros (2011) hanno analizzato l’influenza
dell’inclinazione della fessura di taglio critica, crθ ,
concludendo che tale valore è strettamente legato alla
presenza dell’armatura a taglio e possa essere anche
molto differente dal valore ottenuto tramite i codici di
calcolo. Per queste ragioni la valutazione
dell’accuratezza dei modelli di seguito riportata tiene in
conto dell’inclinazione della fessura di taglio. Al fine
dell’analisi si definiscono le seguenti quantità:
screfR VVV +=,exp
(21)
,exp,exp fscstrR VVVV ++=
(22)
refR
strRf VVV ,exp,exp,exp −=
(23)
dove refRV exp, è la resistenza a taglio sperimentale
dell’elemento non rinforzato, strRV exp, è la resistenza a
taglio sperimentale dell’elemento rinforzato, mentre
exp,fV è la resistenza a taglio sperimentale del rinforzo
FRP.
Di seguito vengono brevemente illustrati i modelli analitici
proposti nei codici europeo, italiano e americano per il
calcolo della resistenza a taglio di compositi FRP.
Ognuna delle equazioni è riportata utilizzando la
nomenclatura originale utilizzata nei documenti.
40
fib – TG 9.3 2001
Le formulazioni analitiche proposte nel fib - TG 9.3
(2001) sono basate sulla regressione di alcuni dati
sperimentali (Triantafillou and Antonopoulos 2000). La
resistenza a taglio dell’elemento rinforzato viene
calcolata come:
),min( 2,RdfdwdcdRd VVVVV ++= (24)
ααθ
ρε
sin)cot(cot
9.0 ,
⋅+⋅
⋅⋅⋅⋅⋅⋅= dbEV wffuefdfd
(25)
FRP in completo avvolgimento attorno all’elemento in
c.a.:
fuffu
cmefd E
fε
ρε ⋅⎟
⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛
⋅⋅=
30.03/2
, 17.0
(26)
FRP applicato ai lati o ad U:
⎥⎥⎥⎥⎥⎥
⎦
⎤
⎢⎢⎢⎢⎢⎢
⎣
⎡
⋅⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛
⋅⋅
⋅⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛
⋅⋅
=
−
fuffu
cm
ffu
cm
efd
Ef
Ef
ερ
ρε
30.03/2
3
56.03/2
,
17.0
;1065.0
min
(27)
Nel caso di rinforzo a taglio continuo con spessore 𝑡!:
wff bt /sin2 αρ ⋅⋅= (28)
Nel caso di rinforzo a taglio in forma di strisce di
larghezza 𝑏! e spessore 𝑠!:
)/()/2( ffwff sbbt ⋅⋅=ρ (29)
dove cdV e wdV sono rispettivamente i valori di progetto
della resistenza a taglio fornita dal calcestruzzo e
dall’acciaio; fdV è il contributo a taglio dell’FRP, efd,ε è
la deformazione effettiva di progetto dell’FRP, fuε è la
deformazione ultima dell’FRP, fuE è il modulo elastico
dell’FRP nella direzione principale delle fibre espresso in
GPa; cmf è la resistenza a compressione cilindrica del
calcestruzzo espressa in MPa; fρ è il rapporto
d’armatura, d è l’altezza effettiva della sezione; α è
l’angolo tra la direzione principale delle fibre di FRP e
l’asse longitudinale dell’elemento rinforzato; θ è l’angolo
di inclinazione delle fessure di taglio rispetto all’asse
longitudinale dell’elemento rinforzato.
CNR-DT 200 2004
Il modello analitico fornito dalle linee guida italiane CNR-
DT 200 2004 è basato principalmente sul lavoro di Monti
and Liotta 2007:
{ }max,,,, ;min RdfRdsRdcdRdRd VVVVV ++= (30)
FRP applicato sui lati dell’elemento:
{ }
f
fffed
wRd
fRd
pw
tf
hdV
⋅⋅⋅⋅⋅⋅
⋅⋅⋅=
θβ
γ
sinsin2
;9.0min1,
(31)
{ }2
,
,
6.01
;9.0min
⎟⎟
⎠
⎞
⎜⎜
⎝
⎛⋅−⋅
⋅⋅=
eqrid
eq
w
eqridfddfed
zl
hdz
ff
(32)
eqrideqrid lzz +=,
(33)
{ } βsin;9.0min ⋅−⋅= eqwrid lhdz
(34)
βsin/
⋅=ffdd
feq Ef
sl
(35)
FRP in completo avvolgimento o in avvolgimento ad U:
f
fffed
RdfRd
pw
tf
dV
⋅+⋅⋅⋅⋅
⋅⋅⋅=
)cot(cot2
9.01,
βθ
γ
(36)
Configurazione in avvolgimento ad U:
{ }⎥⎦⎤
⎢⎣
⎡
⋅
⋅⋅−⋅=
w
efddfed hd
lff;9.0min
sin311 β
(37)
Configurazione in completo avvolgimento:
{ }
( )
{ }⎥⎦⎤
⎢⎣
⎡
⋅
⋅−⋅
⋅−⋅⋅+
+⎥⎦
⎤⎢⎣
⎡
⋅
⋅⋅−⋅=
w
e
fddfdR
w
efddfed
hdl
ff
hdl
ff
;9.0minsin
1
21
;9.0minsin
611
β
φ
β
(38)
41
w
cR b
r⋅+= 6.12.0φ
(39)
5.00 ≤≤w
c
br
(40)
ctm
ffe f
tEl
⋅
⋅=
2
(41)
ctmckbFk ffk ⋅⋅⋅=Γ 03.0
(42)
4001
2
f
f
b bbb
k+
−=
(43)
f
Fkf
cdffdd t
Ef
Γ⋅⋅
⋅=
21
, γγ
(44)
dove ctRdV , e sRdV , sono rispettivamente i contributi a
taglio del calcestruzzo e dell’acciaio, fRdV , è il
contributo a taglio dell’FRP, wh è l’altezza della sezione,
wb è la larghezza della sezione, fedf è la resistenza di
progetto dell’FRP, β è l’angolo tra le fibre e l’asse
longitudinale dell’elemento, θ è l’angolo di inclinazione
delle fessure di taglio (da assumersi uguale a 45° in
assenza di un calcolo più dettagliato), fw e fp sono
rispettivamente la larghezza e il passo delle strisce di
FRP misurati ortogonalmente alla direzione delle fibre (il
rapporto ff pw / va assunto uguale a 1 nel caso di
strisce applicate in adiacenza), cr è il raggio di
curvatura degli spigoli della sezione, le è la lunghezza di
aderenza ottimale, fE e ft sono rispettivamente il
modulo elastico e lo spessore dell’FRP, ctmf è la
resistenza media a trazione del calcestruzzo.
FkΓ è l’energia di frattura specifica dell’interfaccia FRP-
calcestruzzo, ckf è la resistenza a compressione
cilindrica caratteristica del calcestruzzo, bk è un
coefficiente geometrico che dipende dalla larghezza della
sezione b e del rinforzo fb ; fddf è la tensione ultima di
progetto dell’FRP.
ACI 440.2R 2008
Le indicazioni americane ACI 440 2008 sono basate
sugli studi di Khalifa et al. 1998:
ffscn VVVV ψ++= (45)
f
ffefvf s
dfAV
⋅+⋅⋅=
)cos(sin αα
(46)
fffv wtnA ⋅⋅⋅= 2 (47)
f
ffefv
fffefe
sdfA
VEf⋅+⋅⋅
=
=⋅=
)cos(sin αα
ε
(48)
FRP in completo avvolgimento:
frpfe εε ⋅≤= 75.0004.0 (49)
fv
efv
dLd
k−
=2
(50)
FRP applicato sui lati o in avvolgimento ad U:
004.0≤⋅= frpvfe k εε (51)
75.011900
21 ≤⋅
⋅⋅=
frp
ev
Lkkkε
(52)
75.0)(
2330058.0 ≤
⋅⋅=
ffe EtnL
(53)
3/2'
1 27 ⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛= cfk
(54)
fv
efv
dLd
k2
2
−=
(55)
dove fψ è un fattore riduttivo uguale a 0.95 nel caso di
completo avvolgimento e 0.85 nel rimanenti casi; fvA è
l’area del rinforzo FRP, fs è la spaziature tra le strisce
di FRP, fef è la tensione effettiva nell’FRP; α è l’angolo
di inclinazione delle fibre del composito rispetto all’asse
longitudinale dell’elemento, fd è l’altezza effettiva, fE il
modulo di elasticità delle fibre, feε è la deformazione
effettiva a rottura nell’FRP, vk è un fattore riduttivo. Il
modello proposto utilizza un unico valore dell’inclinazione
delle fessure di taglio uguale a 45°.
42
Pellegrino and Modena 2008
Il modello proposto da Pellegrino and Modena 2008 è
basato sull’osservazione sperimentale della rottura per
peeling di una porzione triangolare a lato dell’elemento
rinforzato con FRP applicato a lato o in avvolgimento ad
U. Il modello tiene inoltre in considerazione l’interazione
tra il rinforzo FRP e l’armatura a taglio eventualmente
presente, assumendo la deformazione nell’FRP uguale
alla deformazione dell’armatura a taglio. Il contributo di
resistenza a taglio dell’FRP fV è ottenuto tramite
l’equilibrio alla rotazione delle forze fF e cF agenti
rispettivamente nell’FRP e nel calcestruzzo, a rottura
(Figura 36 e 37):
f
fffefffff s
hEwLtnV
⋅⋅⋅⋅⋅⋅⋅=
ε2
(56)
dove fn è il numero di strati di FRP, ft è lo spessore
di un singolo strato di FRP, fw è la larghezza di una
striscia di FRP, fE è il modulo elastico dell’FRP, fh è la
distanza verticale tra il lembo superiore dell’FRP e il
lembo inferiore della sezione, fs è il passo delle strisce
di FRP e feε è la deformazione effettiva dell’FRP:
ff
efffff
vccctfe
bhlh
ELtn
bAf
⋅−
⋅⋅⋅⋅
⋅⋅⋅⋅= ,
2cos2 φε
(57)
dove ctf è la resistenza a trazione del calcestruzzo, cA
è l’area della sezione dell’elemento, fL è la lunghezza
della superficie di rottura, el è la lunghezza di aderenza
effettiva, bc,v e bf sono indicati in Figura 36 e 37, Φ è
l’angolo che caratterizza la rugosità dell’interfaccia,
assunto uguale a 79° in accordo coi risultati sperimentali
ottenuti dagli autori.
Figura 36 - Forze agenti nella sezione di un
elemento rinforzato in avvolgimento ad U e lateralmente, secondo Pellegrino and Modena 2008
Figura 37 - Forma della superficie di rottura di un elemento rinforzato in avvolgimento ad U e lateralmente, secondo Pellegrino and Modena 2008
Il modello Pellegrino and Modena 2008 propone inoltre
una formulazione in grado di tenere in conto
dell’influenza tra acciaio trasversale e FRP. Assumendo
che l’ampiezza delle fessure di taglio possa variare, la
deformazione nell’armatura trasversale viene assunta
pari alla deformazione di snervamento solo se la
deformazione nell’FRP è maggiore della deformazione di
snervamento. In questo modo si tiene in considerazione,
in via semplificata, della mutua influenza tra rinforzo
FRP e acciaio d’armatura. La deformazione nell’acciaio
d’armatura in presenza di rinforzo FRP viene quindi
espressa come:
43
⎥⎥⎥
⎦
⎤
⎢⎢⎢
⎣
⎡
⋅⋅
⋅⋅⎟⎠
⎞⎜⎝
⎛ −⋅
⋅⋅=
);min(
cot1
ysfe
v
ws
fEdc
dbV
ε
θρα
(58)
dove α è assunto pari a 0.75 per tenere in
considerazione il fatto che la tensione nell’acciaio
d’armatura varia col variare dell’ampiezza delle fessure
di taglio; vρ è il rapporto d’armatura trasversale, yf è la
tensione di snervamento dell’armatura trasversale, c è la
profondità dell’asse neutro, wb è la larghezza della
sezione dell’elemento, e d è l’altezza effettiva.
Oltre a questi sono stati considerati i modelli analitici
proposti da Chen and Teng (2003a, b), Carolin and
Taljsten (2005), Bukhari et al. (2010), e Modifi and
Chaallal (2011).
Valutazione dell’accuratezza dei modelli analitici per la
stima del contributo a taglio di rinforzi FRP
L’accuratezza di ciascuno dei modelli analitici presentati
è stata valutata comparando i risultati analitici con i
risultati di un ampio database sperimentale. Tale
database contiene i risultati di 215 travi in c.a. di cui 29
con sezione a T e 186 con sezione rettangolare.
Unitamente ai risultati sperimentali sono state raccolte
nel database tutte le caratteristiche geometriche e
meccaniche necessarie all’utilizzo dei modelli analitici.
La valutazione dell’accuratezza dei diversi modelli è
stata fatta distinguendo le diverse configurazioni di
rinforzo degli elementi contenuti nel database:
- 65 travi di controllo non rinforzate;
- 36 travi rinforzate ad U con armatura
trasversale;
- 27 travi rinforzate ad U senza armatura
trasversale;
- 16 travi rinforzate sui lati con armatura
trasversale;
- 49 travi rinforzate sui lati senza armatura
trasversale;
- 22 travi rinforzate in completo avvolgimento.
Le caratteristiche di ciascun provino contenuto nel
database sono riportate in Pellegrino and Vasic 2013. Al
fine di valutare l’accuratezza di ciascun modello non solo
nella valutazione del contributo a taglio del rinforzo ma
nella stima della resistenza a taglio dell’elemento
rinforzato nel suo complesso sono stati considerati i
modelli analitici in accoppiamento con i corrispondenti
codici per c.a. Tale scelta è giustificata dall’osservazione
che il contributo resistente di ogni singolo componente,
calcestruzzo, acciaio e FRP, non è indipendente dagli
altri e non può quindi essere considerato singolarmente
(Pellegrino and Modena 2008). La resistenza globale
dell’elemento rinforzato è stata ottenuta direttamente
dalle misurazioni sperimentali, mentre la stima analitica
è il risultato della combinazione dei modelli analitici con i
corrispondenti codici per c.a., nello specifico Eurocodice
2 (CEN 2004), ACI 318 (ACI 2005) and fib Model Code
(fib 2010). Come si può notare dalle formulazioni
analitiche precedentemente esposte, l’angolo di
inclinazione delle fessure di taglio, θ, ha una grande
influenza sul risultato finale e, per questo motivo, sono
stati considerati diversi valori di θ secondo le indicazioni
fornite nei codici/linee guida di riferimento. L’ACI 318
suggerisce un angolo θ=45°, l’Eurocodice 2 raccomanda
l’utilizzo di un angolo 21.8°≤ θ ≤ 45° (in questo caso è
stato utilizzato il valore di θ che massimizza la
resistenza globale dell’elemento – indicato in Tabella 5
con θ=var – cioè quell’angolo che fornisce
contemporaneamente il valore massimo della resistenza
a taglio nell’armatura trasversale in acciaio e nelle bielle
compresse di calcestruzzo), mentre il fib Model Code
raccomanda l’utilizzo di θ=36°. Come raccomandato in
ognuno dei codici, la resistenza a compressione della
biella in calcestruzzo è stata considerata come limite
superiore di resistenza.
La misura dell’accuratezza di ciascun modello è stata
effettuata confrontando il valore della resistenza teorica
(analitica) theonV , dell’elemento rinforzato con la
corrispondente resistenza misurata sperimentalmente
exp,nV . I parametri utilizzati per tale misura sono la
percentuale di risultati conservativi, il rapporto medio tra
risultato teorico e sperimentale (Avg), la deviazione
standard corrispondente a tale rapporto (StD), ed il
corrispondente coefficiente di variazione (CoV). Il
coefficiente di variazione CoV è il rapporto tra la
deviazione standard Std e il valor medio Avg. Maggiore
è il valore di CoV minore è l’accuratezza del modelli.
L’analisi è stata suddivisa in 5 parti (travi rinforzate ad U
con armatura trasversale, travi rinforzate ad U senza
armatura trasversale, travi rinforzate sui lati con
armatura trasversale, travi rinforzate sui lati senza
44
armatura trasversale, e travi rinforzate in completo
avvolgimento) al fine di studiare l’accuratezza di ciascun
modello nelle diverse configurazioni di rinforzo ed in
presenza o meno di armatura trasversale. Il numero
limitato di provini rinforzati in completo avvolgimento,
dovuto probabilmente alla ridotta applicabilità pratica,
non ha permesso di valutare l’influenza dell’armatura
trasversale ma solamente di fornire un risultato globale.
Tabella 5 riporta i valori dei coefficienti di variazione
(CoV) e dei valori medi (Avg) ottenuti per i diversi
modelli analitici e per diversi valori dell’angolo θ.
In generale la normativa italiana CNR-DT 200 2004 ed il
modelli Pellegrino and Modena 2008 forniscono buoni
risultati nella maggior parte dei casi. In particolare il
modello Pellegrino and Modena 2008 fornisce buoni
risultati in termini di CoV e Avg poiché tiene in
considerazione la mutua influenza del rinforzo FRP e
dell’armatura trasversale. Tale modello fornisce buone
stime sia accoppiato con l’Eurocodice 2 che con il fib
Model Code 2010. Pellegrino and Vasic (2013) hanno
inoltre proposto una migliore calibrazione del modello
Pellegrino and Modena 2008 modificando la stima
dell’angolo di scabrezza da Φ=79° a Φ=75°; i risultati
ottenuti sono riportati in Tabella 5.
La combinazione del modello Pellegrino and Modena
2008 (sia con Φ=79° che con Φ=75°) in accoppiamento
all’Eurocodice 2 nel caso di elementi senza armatura a
taglio fornisce il risultato migliore nel caso di θ=var, cioè
nel caso in cui il valore di θ massimizzi
contemporaneamente il contributo dell’armatura
trasversale e della biella in calcestruzzo. Tale risultato,
insieme ai risultati ottenuti dagli altri modelli, mostra
come la somma semplice dei diversi contributi di
calcestruzzo, acciaio e FRP fornisca delle stime poco
accurate. Molti autori hanno messo in discussione tale
modalità di calcolo osservando che i contributi massimi
forniti dal rinforzo FRP e dall’armatura trasversale non
sempre vengono raggiunti nello stesso istante e che
quindi il valore di resistenza globale stimato può, in
questi casi, essere maggiore della resistenza reale
dell’elemento (Chen et al. 2010, 2013, Pellegrino and
Modena 2002, 2006, D’Antino et al. 2012). Bousselham
and Chaallal 2006, 2008, Pellegrino and Modena 2002,
2006, 2008 e Pellegrino and Vasic 2013 hanno
osservato che la quantità di acciaio trasversale ha un
effetto significativo sulla resistenza globale dell’elemento
rinforzato con FRP. In particolare, l’efficacia dei rinforzi a
taglio con FRP sembra decrescere nel caso di elementi
con elevata quantità di acciaio trasversale (cioè con
elevato valore del rapporto tra la rigidezza assiale
dell’acciaio trasversale e del rinforzo FRP). Questa
osservazione è probabilmente dovuta al fatto che
l’acciaio trasversale, in presenza di rinforzo FRP, in
alcune circostanze non è in grado di raggiungere la
tensione di snervamento prima che si verifichi il distacco
del composito FRP, non riuscendo quindi a fornire
completamente il suo contributo di resistenza.
Conclusioni
In questo studio sono stati esposti i risultati di un’analisi
dell’accuratezza di alcuni importanti modelli analitici per
la valutazione della resistenza a taglio di elementi in c.a.
rinforzati con compositi FRP. Ciascuno dei modelli
analitici considerato è stato accoppiato al corrispondente
codice di calcolo di elementi in c.a. al fine di individuare
la resistenza globale dell’elemento rinforzato. I risultati
ottenuti globalmente mostrano come la modalità di
calcolo proposta dai più importanti e diffusi codici/linee
guida – che consiste nella somma semplice dei
contributi di resistenza a taglio di calcestruzzo, acciaio e
rinforzo FRP – fornisca in alcuni casi delle stime non
conservative. Tale risultato viene attributo alla mutua
influenza tra armatura trasversale e rinforzo FRP che
non viene presa in considerazione in tali modelli analitici.
In alcuni casi, infatti, il distacco dell’FRP non permette
all’armatura trasversale di sviluppare completamente il
proprio contributo di resistenza a taglio che viene invece
preso interamente in considerazione durante il calcolo. Il
modello italiano CNR DT-200 2004 ed il modello
Pellegrino and Modena 2008 hanno fornito risultati
accurati; il modello Pellegrino and Modena 2008, in
particolare, ha ottenuto risultati accurati in quanto in
grado di tener conto dell’influenza dell’armatura
trasversale sul rinforzo FRP.
45
Tabella 5 - Coefficienti di variazione (CoV) e valori medi (Avg) del rapporti tra risultati teorici e sperimentali per diversi modelli analitici e diversi valori dell’angolo θ.
Codici di calcolo per c.a. EC2 2004 fib MC10 2010 ACI318
θ=45° θ=36° θ=var (45- 21.8)
θ=45° θ=36° θ=45°
Parametri statistici CoV Avg CoV Avg CoV Avg CoV Avg CoV Avg CoV Avg
Rinforzo ad U senza armatura trasversale
fib TG 9.3 2001 0.23 1.14 0.20 0.96 0.56 0.66 0.61 2.32 0.54 1.99
CNR-DT 200 2004 0.29 1.28 0.22 1.10 0.37 0.78 0.45 1.65 0.35 1.36
ACI440 2008 0.48 1.67
Chen and Teng 2003a,b 0.61 2.35 0.61 2.35 0.61 2.35 0.79 2.97 0.79 3.97
Carolin and Täljsten 2005 0.21 1.01 0.30 0.83 0.75 0.58 0.32 1.25 0.26 1.00
Pellegrino and Modena 2008
0.37 1.39 0.37 1.39 0.37 1.39 0.57 1.92 0.57 1.92
Pellegrino and Modena φ=75°
0.34 1.08 0.34 1.08 0.34 1.09 0.51 1.40 0.51 1.40
Bukhari et al.2010 0.47 1.76 0.44 1.63 0.37 1.34 0.67 2.67 0.65 2.39
Modifi and Chaallal 2011 0.49 1.82 0.45 1.69 0.35 1.39 0.68 2.79 0.65 2.50
Rinforzo ad U con armatura trasversale
fib TG 9.3 2001 0.59 1.78 0.45 1.30 0.39 0.83 0.47 1.64 0.35 1.29
CNR-DT 200 2004 0.62 1.82 0.49 1.33 0.38 0.84 0.37 1.35 0.28 1.05
ACI440 2008 0.37 1.28
Chen and Teng 2003a,b 0.78 3.31 0.68 2.40 0.41 1.35 0.59 2.07 0.49 1.67
Carolin and Täljsten 2005 0.46 1.48 0.32 1.09 0.41 0.75 0.33 1.21 0.30 0.93
Pellegrino and Modena 2008
0.45 1.54 0.41 1.40 0.31 1.13 0.43 1.50 0.36 1.26
Pellegrino and Modena φ=75°
0.33 1.18 0.29 1.08 0.26 0.95 0.35 1.26 0.31 1.09
Bukhari et al. 2010 0.76 2.99 0.65 2.17 0.37 1.23 0.55 1.93 0.44 1.54
Modifi and Chaallal 2011 0.74 2.64 0.63 1.92 0.37 1.09 0.52 1.77 0.41 1.41
Rinforzo sui lati senza armatura trasversale
fib TG 9.3 2001 0.27 0.94 0.37 0.81 0.76 0.59 0.60 1.93 0.58 1.70
CNR-DT 200 2004 0.39 1.44 0.36 1.35 0.29 1.12 0.54 1.93 0.51 1.78
ACI440 2008 0.46 1.42
Chen and Teng 2003a 0.46 1.04 0.50 0.94 0.61 0.77 0.60 1.36 0.60 1.21
Carolin and Täljsten 2005 0.47 1.00 0.53 0.89 0.70 0.71 0.55 1.28 0.58 1.10
Pellegrino and Modena 2008
0.26 1.16 0.26 1.16 0.26 1.16 0.45 1.53 0.45 1.53
Pellegrino and Modena φ=75°
0.33 0.87 0.33 0.87 0.33 0.87 0.40 1.09 0.40 1.09
Bukhari et al. 2010 0.50 1.62 0.48 1.51 0.46 1.30 0.69 2.42 0.68 2.22
Modifi and Chaallal 2011 0.44 1.49 0.41 1.37 0.39 1.13 0.61 2.12 0.58 1.90
Rinforzo sui lati con armatura trasversale
fib TG 9.3 2001 0.38 1.26 0.30 0.95 0.49 0.72 0.44 1.41 0.34 1.11
CNR-DT 200 2004 0.62 2.14 0.50 1.63 0.26 1.02 0.45 1.47 0.35 1.20
ACI440 2008 0.23 1.07
Chen and Teng 2003a 0.55 1.68 0.41 1.24 0.33 0.86 0.30 1.24 0.24 0.97
Carolin and Täljsten 2005 0.74 1.23 0.67 0.94 0.48 0.84 0.49 1.07 0.57 0.81
Pellegrino and Modena 2008
0.41 1.47 0.37 1.38 0.29 1.18 0.32 1.32 0.24 1.13
Pellegrino and Modena φ=75°
0.22 1.05 0.22 0.98 0.30 1.10 0.23 1.09 0.20 0.94
Bukhari et al. 2010 0.66 2.02 0.52 1.48 0.24 0.99 0.37 1.39 0.28 1.09
Modifi and Chaallal 2011 0.68 1.98 0.55 1.45 0.36 0.95 0.44 1.40 0.36 1.12
46
Rinforzo in completo avvolgimento
fib TG 9.3 2001 0.92 2.54 0.83 1.90 0.44 1.09 0.61 1.79 0.54 1.43
CNR-DT 200 2004 0.84 2.57 0.74 1.90 0.48 1.18 0.54 1.05 0.52 0.99
ACI440 2008 0.51 1.05
Chen and Teng 2003b 1.05 2.48 0.95 1.83 0.65 1.18 0.70 1.70 0.66 1.36
47
4.2.3 Rinforzo di ponti esistenti in calcestruzzo armato con rinforzi frp pretesi: studio sperimentale e applicazione ad un caso reale
Introduzione
Come illustrato in precedenza, i compositi FRP sono stati
diffusamente utilizzati negli ultimi decenni per il rinforzo
di elementi in calcestruzzo armato (c.a.) e calcestruzzo
armato precompresso (c.a.p.) nei confronti della
flessione (Pellegrino and Modena 2009a), taglio
(Pellegrino and Modena 2002, 2006, 2008), e per il
confinamento di elementi soggetti prevalentemente a
sforzo assiale (Pellegrino and Modena 2010). La
capacità di rinforzo dei compositi FRP può essere
sfruttata al massimo applicando una pretensione al
composito prima che questo venga applicato all’elemento
da rinforzare. Secondo questa tecnica il rinforzo FRP
viene prima preteso e successivamente applicato alla
faccia in tensione dell’elemento da rinforzare: il rinforzo
viene infine completato con l’applicazione di ancoraggi
alle estremità (Triantafillou et al. 1992). La letteratura
riguardante l’utilizzo di rinforzi FRP pretesi è molto
limitata (El-Hacha et al. 2003, 2004, Tan et al. 2003,
Triantafillou et al. 1992, Wight et al. 2001) e la maggior
parte delle sperimentazioni a riguardo sono state
condotte su provini a scala ridotta. Inoltre la letteratura
riguardante lo studio dei dispositivi d’ancoraggio, utili ad
evitare il distacco del composito alle estremità così da
poter garantire il corretto funzionamento del rinforzo, è
molto limitata (Brena et al. 2003).
In questo lavoro vengono esposti i risultati di una
campagna sperimentale condotta presso l’Università di
Padova su elementi in c.a. e c.a.p. rinforzati con laminati
FRP ordinari e pretesi (Pellegrino and Modena 2009a).
Viene inoltre illustrata l’applicazione reale di compositi
FRP pretesi per il rinforzo delle travi del viadotto
Battiferro – Navile (Autostrada A14 Bologna – Taranto,
Italia). Al fin di illustrare ulteriormente l'applicazione del
rinforzo CFRP, vengono infine riportati gli interventi di
rinforzo a flessione sulle travi di alcuni viadotti
dell'autostrada A14, tratto Cattolica-Fano, per i lavori di
costruzione della terza corsia, e di riqualificazione del
viadotto Anas Vernalde sulla S.S.V. 17 a Castel di
Sangro, Isernia.
Programma sperimentale
Al fine di valutare l’efficacia del rinforzo FRP preteso
pima della sua applicazione ad un caso reale è stata
sviluppata una serie di prove sperimentali presso
l’Università di Padova. Sono state testate 5 travi di
lunghezza 1000 cm e sezione 30x50 cm, 4 delle quali
realizzate in c.a. ed una un c.a.p. Lo schema di carico ed
i dettagli relativi all’armatura longitudinale delle travi sono
illustrati in Figura 38 e 39. L’armatura a taglio è costituita
da staffe con diametro 8 mm e passo 200 mm, progettata
in modo da avere la rottura a flessione prima della rottura
a taglio. I trefoli d’acciaio, ove presenti, sono stati
pretensionati fino ad una tensione di 1400 MPa.
Un minimo di tre strain gauges sono stati applicati in
corrispondenza della mezzeria della trave sulla faccia
superiore, inferiore e laterale (all’altezza dell’armatura
longitudinale), mentre altri strain gauges sono stati
applicati sulla faccia in tensione lungo l’asse
longitudinale della trave per monitorare l’andamento delle
tensioni. Tre trasduttori di spostamento (LVDT) sono stati
applicati in mezzeria ed in corrispondenza degli appoggi.
Il carico è stato applicato manualmente tramite un
martinetto idraulico di capacità 500 kN.
Sono state condotte prove di caratterizzazione sul
calcestruzzo costituente le travi, l’acciaio d’armatura ed il
composito utilizzato per il rinforzo. Al fine della
terminazione della resistenza a compressione del
calcestruzzo sono stati confezionati dei provini cubici di
dimensioni 150x150x150 mm, mentre dei provini cilindrici
di diametro 150 mm e altezza 300 mm sono stati utilizzati
per la determinazione del modulo elastico e della
resistenza a trazione del calcestruzzo. Sono stati ottenuti
i seguenti risultati medi: resistenza a compressione (19
provini) fcʹ = 71 MPa; resistenza a trazione (prova
brasiliana su 9 provini) fct = 5.2 MPa; modulo elastico (3
provini) Ec = 38060 MPa.
48
Figura 38 - Schema di carico e sezioni delle travi in c.a. (sinistra) e c.a.p. (destra). Dimensioni in mm.
Figura 39 - Trave di controllo non rinforzata prima
dell’esecuzione del test
La resistenza a trazione dell’acciaio è stata ottenuta
tramite prove di trazione su provini di barre e trefoli. I
risultati medi ottenuti sono: tensione di snervamento
dell’acciaio (12 provini) fy = 536 MPa; tensione a rottura
dell’acciaio (12 provini) fu = 633 MPa; tensione di
snervamento dei trefoli (2 provini) fpy = 1693 MPa;
tensione a rottura dei trefoli (2 provini) fpu = 1895 MPa.
Le prove sono state svolte secondo le indicazioni della
normativa europea (EN 12390 2003, EN 10002 2004, EN
15630 2004).
Al fine del rinforzo sono stati utilizzati dei laminati in
carbonio pultrusi di sezione 1.2x100 mm (rinforzo
ordinario) e 1.2X80 mm (rinforzo preteso). Sono state
condotte delle prove a trazione su provini di laminato
secondo le indicazioni della ASTM-D3039 (Figura 40). I
valori della tensione ultima, del modulo elastico e della
deformazione ultima ottenuti sono rispettivamente ffu =
2780 MPa, Ef = 166000, e εfu = 1.8%.
Figura 40 - Rottura di un provino CFRP a seguito di un
test a trazione.
Una delle travi (indicata con RC-C) non è stata rinforzata
in modo da poter confrontare i risultati ottenuti con i
risultati delle travi rinforzate. Ognuna delle superfici delle
travi su cui è stato applicato il rinforzo è stata trattata con
un disco abrasivo al fine di rimuovere lo sporco e
promuovere l’aderenza del rinforzo. Il rinforzo CFRP è
stato applicato lungo l’intera lunghezza delle travi
utilizzando una resina epossidica bicomponente e
garantendo uno spessore uniforme di 2 mm. Nel caso
della trave rinforzata con CFRP non preteso, denominata
RC-N, ad una delle estremità è stata applicata una
striscia di FRP ad U di modo da avere delaminazione
all’estremità opposta che è stata invece strumentata con
una serie di strain gauges. La trave RC-EA è stata
rinforzata con un laminato CFRP non preteso posto
all’intradosso ed ancorato a ciascuna estremità tramite
dei piatti in acciaio imbullonati alla trave (Figura 41).
La trave RC-PrEA è stata rinforzata con un laminato
CFRP preteso con una deformazione dello 0.6%. La
trave PRC-PrEA, l’unica in c.a.p. (Figura 38), è stata
rinforzata con un laminato in CFRP preteso con una
deformazione dello 0.4%.
49
Figura 41 - Piatto in acciaio imbullonato alla trave RC-
EA per ancorare il laminato CFRP.
Risultati sperimentali
Figura 42 mostra i diagrammi carico-abbassamento in
mezzeria di ciascuna delle 5 travi testate (la parte finale
delle curve in cui la delaminazione è già avvenuta e la
resistenza è fornita dagli ancoraggi non è stata inclusa).
La trave RC-C mostra il tipico comportamento a flessione
delle travi in c.a. (fase non fessurata, fase fessurata, fase
acciaio snervato). La trave RC-N mostra un
comportamento fragile dovuto all’improvvisa
delaminazione del rinforzo CFRP iniziata all’estremo
libero e propagatasi verso l’estremo ancorato con la
striscia FRP applicata ad U. La trave RC-EA mostra un
comportamento simile ma con un valore del carico
massimo superiore grazie alla presenza degli ancoraggi
alle estremità. In questo caso la rottura è avvenuta per
cedimento di uno degli ancoraggi d’estremità seguito alla
delaminazione intermedia del composito (Figura 43).
Figura 42 - Diagramma carico-abbassamento in
mezzeria per ciascuna trave testata.
Figura 43 - Cedimento dell’ancoraggio di estremità nella
trave RC-EA.
La rottura delle travi RC-PrEA e PRC-PrEA è avvenuta
per delaminazione del composito ma la presenza della
pretensione e degli ancoraggi ha ritardato molto la
completa rottura. Le travi RC-PrEA ed PRC-Pr hanno
mostrato un incremento rilevante del carico ultimo e del
carico a cui è apparsa la prima fessura per effetto della
forza assiale trasmessa dalla pretensione nel laminato e,
nel caso della trave PRC-PrEA, anche dai trefoli in
acciaio. Figura 44 mostra il rinforzo della trave PRC-
PrEA a seguito della delaminazione.
Le curve carico-deformazione in mezzeria di ciascuna
trave sono riportate in Figura 45-48. Sono riportate la
deformazione al lembo superiore ed inferiore della
sezione ed ai lati, in corrispondenza dell’armatura in
acciaio longitudinale, della trave RC-C (Figura 45), RC-N
(Figura 46), RC-EA (Figura 47), e RC-PrEA (Figura 48).
Figura 44 - Rottura della trave PRC-PrEA
0
50
100
150
200
0 50 100 150 200 250Deflection (mm)
Load
(kN
)
RC-CRC-NRC-EARC-PrEAPRC-PrEA
50
La deformazione nel composito CFRP è riportata in Figura
49 per la trave PRC-PrEA. La deformazione dovuta alla
pretensione non è inclusa in Figura 48 e 49. La
deformazione totale nel composito CFRP (inclusa la
pretensione, ove presente), è di 0.0043 (24% della
deformazione ultima misurata durante le prove a trazione
sul laminato) per la trave RC-N, di 0.0058 (32% della
deformazione ultima) per la trave RC-EA, 0.0117 (65% della
deformazione ultima) per la trave RC-PrEA e 0.0135 (75%
della deformazione ultima) per la trave PRC-PrEa.
Come si può osservare, quindi, la pretensione ha permesso
di sfruttare maggiormente il contributo di resistenza del
composito CFRP rispetto alle configurazioni senza
pretensione.
Figura 45 - Diagramma carico-deformazione in mezzeria della trave RC-C. sup. concrete = deformazione al lembo
superiore della sezione; lat. concrete = deformazione laterale in corrispondenza dell’armatura in acciaio longitudinale; inf. concrete deformazione al lembo
inferiore della sezione
Figura 46 - Diagramma carico-deformazione in mezzeria della trave RC-N. sup. concrete = deformazione al lembo
superiore della sezione; lat. concrete = deformazione laterale in corrispondenza dell’armatura in acciaio longitudinale; inf. concrete deformazione al lembo
inferiore della sezione.; inf. CFRP = deformazione nel CFRP.
Figura 47 - Diagramma carico-deformazione in mezzeria
della trave RC-EA. sup. concrete = deformazione al lembo superiore della sezione; lat. concrete =
deformazione laterale in corrispondenza dell’armatura in acciaio longitudinale; inf. concrete deformazione al lembo
inferiore della sezione.; inf. CFRP = deformazione nel CFRP.
Figura 48 - Diagramma carico-deformazione in mezzeria
della trave RC-PrEA. sup. concrete = deformazione al lembo superiore della sezione; lat. concrete =
deformazione laterale in corrispondenza dell’armatura in acciaio longitudinale; inf. concrete deformazione al lembo
inferiore della sezione.; inf. CFRP = deformazione nel CFRP.
Figura 49 - Diagramma carico-deformazione in mezzeria
della trave PRC-PrEA; inf. CFRP = CFRP strain.
0
20
40
60
80
-4 0 4 8 12 16 20Strain (%o)
Load
(kN
)
sup. concrete
lat. concrete
inf. concrete
0
20
40
60
80
100
120
-2 0 2 4 6 8Strain (%o)
Lo
ad
(kN
)
sup. concretelat. concreteinf. concreteinf. CFRP
0
20
40
60
80
100
120
-2 0 2 4 6Strain (%o)
Load
(kN
)
sup. concretelat. concreteinf. concreteinf. CFRP
0
40
80
120
160
-2 2 6 10 14 18Strain (%o)
Load
(K
N)
sup. concretelat. concreteinf. concreteinf. CFRP
0
50
100
150
200
250
0.0 2.0 4.0 6.0 8.0 10.0Strain (%o)
Loa
d (
kN)
inf. CFRP
51
Un caso di studio: viadotto Battiferro - Navile
La metodologia di rinforzo tramite compositi FRP pretesi
descritta è stata oggetto di diverse applicazioni, delle
quali viene di seguito illustrata a titolo esemplificativo
quella sulle travi del viadotto Battiferro – Navile
(Autostrada A14 Bologna – Taranto, Italia).
Il ponte in oggetto, edificato circa 40 anni prima
dell’intervento di rinforzo, aveva manifestato problemi di
deterioramento del calcestruzzo e di incremento del
carico derivante dal traffico. L’intervento di rinforzo ha
riguardato sia le travi longitudinali in c.a.p. che le travi
trasversali in c.a. Le travi trasversali in c.a. sono state
rinforzate a flessione tramite un laminato in carbonio
applicato all’intradosso ed ancorato alle estremità tramite
un foglio in CFRP applicato ad U che fornisce anche un
incremento di resistenza a taglio all’elemento (Figura 50).
Le travi longitudinali in PRC sono state rinforzate con
laminati in carbonio pretesi ed ancorati alle estremità
tramite piatti in acciaio imbullonati alla trave. Ciascun
laminato è stato preteso con una forza di 120 kN,
misurata valutando l’allungamento del laminato durante il
processo di pretensione. La forza di pretensione
applicata corrisponde ad una deformazione dello 0.6%. Il
processo di pretensione, analogo a quello utilizzato
durante la sperimentazione in laboratorio, può essere
riassunto come segue:
1. Preparazione della superficie di calcestruzzo tramite
un disco abrasivo.
2. Foratura del calcestruzzo per l’applicazione dei
bulloni (Figura 51).
3. Applicazione di resina epossidica bicomponente con
spessore 2 mm (Figura 52).
4. Applicazione del laminato in carbonio.
5. Estremo fisso: inserimento del laminato all’interno
dell’ancoraggio in acciaio provvisorio collegato al
piatto in acciaio imbullonato alla trave (Figura 53)
6. Estremo mobile: il laminato in carbonio è inserito
all’interno dell’ancoraggio in acciaio provvisorio,
simile a quello utilizzato all’estremità fissa;
l’ancoraggio è posto ad una distanza di circa 5 mm
dalla superficie del calcestruzzo per permettere il
movimento del laminato durante la pretensione; un
martinetto idraulico preme contro l’ancoraggio
provvisorio in acciaio applicando la pretensione al
laminato che risulta vincolato all’estremità fissa
(Figura 54).
Il martinetto idraulico e gli ancoraggi provvisori sono
rimossi 48 ore dopo l’applicazione della pretensione
(Figura 55). Figura 56 mostra una visione generale del
viadotto a seguito dell’intervento di rinforzo.
Figura 50 - Rinforzo delle travi trasversali in c.a.
Figura 51 - Foratura del calcestruzzo per l’applicazione
dei bulloni.
Figura 52 -. Applicazione della resina epossidica
bicomponente.
52
Figura 53 - Inserimento del laminato nell’ancoraggio in
acciaio all’estremo fisso.
Figura 54- Applicazione della pretensione tramite
martinetto idraulico.
Figura 55 - Rimozione del martinetto idraulico e di tutti gli ancoraggi provvisori 48 ore dopo l’applicazione della
pretensione.
Figura 56 - Visone globale del viadotto a seguito
dell’intervento di rinforzo.
Conclusioni
In questo lavoro sono stati presentati i risultati di una
campagna sperimentale condotta su travi in c.a. e in
c.a.p. rinforzate con laminati CFRP applicati con
differenti tecniche. Si è osservato come alcuni parametri
influenzino l’incremento della resistenza ultima delle travi
rinforzate. In particolare, l’utilizzo di ancoraggi meccanici
accresce la capacità ultima degli elementi strutturali
ritardando la delaminazione del composito. Il sistema di
rinforzo con laminati CFRP pretesi si è dimostrato in
grado di fornire un ottimo contributo di resistenza
all’elemento aumentando il valore del carico ultimo e del
carico a cui appaiono le prime fessure. Tale sistema ha
permesso inoltre di limitare l’ampiezza delle fessure e di
raggiungere valori di deformazione nel composito vicini al
valore di deformazione ultima.
Alla luce dei buoni risultati ottenuti, la tecnica di rinforzo
con laminati CFRP pretesi è stata utilizzata nel caso del
viadotto Battiferro – Navile (Autostrada A14 Bologna –
Taranto, Italia). Il rinforzo, analogo ai rinforzi testati in
laboratorio, ha permesso di risolvere i problemi strutturali
del ponte, dovuti soprattutto al deterioramento del
calcestruzzo ed all’accresciuto carico da traffico. Sono
state rinforzate sia le travi longitudinali, sulle quali sono
stati applicati laminati CFRP pretesi ed ancorati alle
estremità con piastre in acciaio imbullonate, che le travi
trasversali, sulle quali sono stati applicati laminati CFRP
ancorati all’estremità con fogli FRP applicati ad U che
hanno permesso di ottenere anche un ulteriore contributo
di resistenza a taglio.
53
4.3 MATERIALI FIBRORINFORZATI IN CARBONIO E ACCIAIO UHTSS A MATRICE INORGANICA (FRCM – SRG)
4.3.1 Analisi sperimentale del comportamento di aderenza di compositi FRCM in fibra di vetro, carbonio e acciaio
Introduzione
Da qualche decennio a questa parte i compositi
fibrorinforzati a matrice polimerica (FRP) sono stati
studiati e largamente utilizzati per il rinforzo di strutture
esistenti in calcestruzzo armato. Essi offrono elevate
resistenze associate a ingombri molto ridotti e a costi
relativamente non elevati. Nonostante gli FRP siano stati
oggetto di studi approfonditi esistono ancora dei problemi
risolti, come ad esempio la valutazione dell’aderenza
FRP-supporto in presenza di elevate temperature e/o a
seguito dell’esposizione a raggi UV (Salomoni et al.
2011). Al fine di superare queste difficoltà le matrici
organiche (generalmente resine epossidiche) possono
essere sostituite da matrici inorganiche. Nonostante in
letteratura siano stati utilizzati diversi nomi per indicare
questi compositi costituiti da fibre ad alta resistenza
applicate per mezzo di matrici inorganiche, essi sono
generalmente conosciuti col nome di fiber reinforced
cementitious matrix (FRCM).
Il rinforzo con compositi FRCM rappresenta una tecnica
piuttosto recente e gli studi disponibili in letteratura sono
ancora molto limitati; in particolare esiste solo una guida
(ACI 549.4R-13) con indicazioni all’utilizzo di questi
compositi. La letteratura disponibile riguardo ai compositi
FRCM indica che la rottura tipica di questi compositi
avviene all’interfaccio fibra-matrice (D’Ambrisi et al.
2012, D’Ambrisi et al. 2013, Hashemi and Al-Mahaidi
2012, Carloni et al. 2013, D’Antino et al. 2013, Pellegrino
and D’Antino 2013, Sneed et al. 2014, D’Antino et al.
2014) e non all’interno del substrato, come invece
accade nel caso dei compositi FRP (Wu et al. 2002, Yao
et al. 2005, Subramaniam et al. 2007, Ferracuti et al.
2007, Pellegrino et al. 2008, Subramaniam et al. 2011,
Pellegrino and Modena 2009b, Valluzzi et al. 2009,
Achintha and Burgoyne 2011, Carrara et al. 2011). La
rottura all’interfaccia dei compositi FRCM è caratterizzata
da un distacco progressivo delle fibre dalla matrice
caratterizzato da grandi scorrimenti.
La rottura è inoltre complicata dal cosiddetto effetto
telescopico, un meccanismo per cui i filamenti all’interno
di ciascun fascio di fibre si comportano in modo
differente, principalmente a causa della differente
impregnazione dei filamenti esterni rispetto a quelli
interni (Banholzer 2004). Se i risultati presenti in
letteratura verranno confermati, e quindi verrà
confermata la rottura dell’FRCM all’interno della matrice,
il substrato non rappresenterà più l’elemento debole del
rinforzo, così come accade nel caso dei compositi FRP.
In questo lavoro vengono esposti i risultati di 24 prove di
taglio singolo (single-lap direct-shear test) condotte su
giunti FRCM-calcestruzzo. Vengono esposti i risultati di
prove condotte utilizzando fibra di vetro, carbonio e
acciaio, ciascuna utilizzata con diverse tipologie di
matrice. Sono state prese in considerazione due diverse
lunghezze incollate del composito, entrambe associate
alla medesima larghezza. Questo lavoro contribuisce alla
comprensione dei complessi meccanismi di trasferimento
degli sforzi dal composito al substrato in calcestruzzo
che sono di fondamentale importanza per il corretto
funzionamento dei rinforzi FRCM.
Configurazione di prova
Il composito FRCM è stato applicato alla superficie di un
prisma in calcestruzzo con sezione 125x125 mm e
lunghezza 500 mm. Ciascuna faccia del prisma è stata
utilizzata per l’applicazione di una striscia di composito,
ad eccezione della faccia rivolta verso l’alto del cassero
la cui superficie era irregolare. Le facce sono state
semplicemente pulite da residui e polvere prima
dell’applicazione del composito. Il composito FRCM ha
una larghezza incollata 601 =b mm ed una larghezza
330=ℓ mm o 450=ℓ mm. La matrice è stata applicata
ad una distanza di 30 mm dal bordo del supporto per una
lunghezza ℓ ; le fibre sono state impregnate dalla matrice
per una lunghezza ℓ e sono state lasciate non
impregnate al di fuori della lunghezza incollata. Due piatti
di alluminio di larghezza 1b e lunghezza 60 mm sono
stati incollati all’estremità delle fibre non impregnate per
mezzo di una resina epossidica. Tali piatti in alluminio
vengono poi chiusi tra due piastre in acciaio imbullonate
e collegate alla macchina di prova tramite un giunto
cilindrico (Figura 57).
Le prove sono state condotte imponendo lo spostamento
della traversa della macchina di prova ad una velocità di
0.005 mm/s. Due trasduttori di spostamento (LVDT) sono
stati applicati alla superficie del calcestruzzo, ai lati del
composito, in prossimità dell’estremità caricata della
54
matrice. Tali LVDT reagiscono contro un piatto in
alluminio ad L incollato alle fibre non impregnate
immediatamente fuori dall’estremità caricata della
matrice (Figura 57). La media delle letture dei due LVDT
viene denominata global slip g, mentre il carico applicato
è denominato applied load P.
Figura 57 - a) Configurazione di prova. b) Provino DS_CW_330_60_2 prima dell’inizio della prova
Proprieta’ dei materiali
Al fine di caratterizzare il calcestruzzo, lo stesso getto
utilizzato per i prismi è stato impiegato per la
realizzazione di 6 cubi di lato 150 mm, successivamente
testati secondo le indicazioni della UNI EN 12390-3. La
resistenza cubica media ottenuta è 3.59R =cm MPa
(CoV=0.150). I compositi FRCM sono stati realizzati con
due matrici con differenti caratteristiche. Ognuna delle
due matrici è stata caratterizzata per mezzo di 3 prismi
40x40x160 mm, testati secondo le indicazioni della UNI
EN 1015-11. Il valor medio della resistenza a
compressione cmr e della resistenza a flessione mflexf , di
ciascuna matrice sono riportate in Tabella 6.
Tabella 6 - Proprietà meccaniche delle matrici utilizzate
Matrice cmr [MPa] (CoV) mflexf , [MPa] (CoV)
W 47.6 (0.040) 6.4 (0.009)
S 35.5 (0.011) 6.1 (0.077)
I compositi sono stati realizzati con 3 diverse fibre: fibra
di carbonio, fibra di vetro e fibra d’acciaio. Le fibre di
carbonio e vetro sono organizzate in fasci sia in direzione
longitudinale che in direzione trasversale. Le fibre
d’acciaio sono invece organizzate in trefoli a 5 fili disposti
solo in direzione longitudinale. L’area nominale della fibra
in acciaio è di 24 mm2/m. Ciascun tipo di fibra è stato
testato a trazione per determinare la tensione massima
( )****σ tnbP= , dove *P è il carico massimo misurato,
n è il numero di fasci di fibra longitudinali presenti, *b e
*t sono la larghezza e lo spessore di un singolo fascio.
Le prove di trazione sono state condotte imponendo lo
spostamento della traversa della macchina ad una
velocità di 2 mm/min secondo le indicazioni della ASTM
D3039. Sono state effettuate un minimo di due ripetizioni
per ogni larghezza dei provini 2b .
Alle estremità dei provini sono stati incollati due piatti di
alluminio per promuovere l’aderenza con le ganasce
della macchina di prova. I risultati ottenuti in termini di
tensione media *σ sono riportati in Tabella 7.
55
Tabella 7 - Caratteristiche geometriche e meccaniche
delle fibre utilizzate.
Fibra *b
[mm]
*t
[mm] 2b [mm] ( n )
*σ [MPa]
(CoV)
C 3.5 0.05 4(1), 20(3),
40(5), 60(8)
4330
(0.083)
S - - 60(33) 3700
(0.054)
G221 4.0 0.05 5(1), 20(3),
60(5)
1300
(0.142)
In Tabella 7 C=carbonio, S=acciaio, and G221=vetro con
densità per unità di spessore 220ρ = g/m2.
Risultati sperimentali
I provini testati sono stati indicati con la notazione
DS_FM_X_Y_Z, dove F=fibra impiegata (C=carbonio,
S=acciaio, G221=vetro con densità per unità di spessore
220ρ = g/m2), M=matrice impiegata (vedi Tabella 6),
X=lunghezza incollata ( ℓ ) in mm, Y=larghezza incollata (
1b ) in mm, Z=numero del provino. Il carico massimo
*P e la corrispondente tensione massima *σ per
ciascun provino sono riportati in Tabella 8.
I provini DS_CW_450_60_2 e DS_CW_450_60_3,
costituiti da fibre di carbonio e malta W (Tabella 6) si
sono rotti prematuramente a causa della rottura di uno
dei fasci di fibra esterni immediatamente fuori dai piatti di
alluminio incollati all’estremità delle fibre non impregnate.
Questa tipologia di rottura suggerisce una distribuzione
non uniforme del carico applicato ai diversi fasci
longitudinali, tale per cui la forza si concentra su di un
fascio portandolo a rottura.
Al fine di promuovere una distribuzione del carico più
uniforme, le fibre non impregnate dalla malta dei
rimanenti provini di carbonio, sia con matrice W che con
matrice S, sono state impregnate con resina epossidica.
I diagrammi carico – global slip così ottenuti dai provini di
carbonio con matrice S sono riportati in Figura 58. La
rottura osservata è caratterizzata dal distacco delle fibre
dalla matrice, così come accade in compositi FRCM
costituiti da fibre PBO e malta cementizia descritti in
letteratura (Carloni et al. 2013, D’Antino et al. 2013,
Sneed et al. 2014, D’Antino et al. 2014).
Il diagramma carico - global slip presenta un tratto
lineare iniziale seguito da un tratto non lineare;
assumendo che una lunghezza effettiva effl esista in
questi compositi (D’Antino et al. 2014) e che in questo
caso sia minore della lunghezza incollata ℓ , tale tratto
non lineare prosegue fino all’inizio del distacco della fibra
che avviene ad un carico corrispondente alla tensione di
aderenza tra fibra e matrice. Dopo tale distacco il carico
applicato continua a crescere a causa della presenza
dell’attrito tra fibra e matrice e tra filamenti di fibra
all’interno dei fasci.
Tabella 8 - Risultati delle prove di taglio singolo su giunti
FRCM-calcestruzzo.
Provino *P
[kN] *σ [MPa]
DS_CW_330_60_1 4.77 3400 DS_CW_330_60_2 3.60 2570 DS_CW_330_60_3 4.26 3040 DS_CW_450_60_1 3.82 2730 DS_CW_450_60_2 - - DS_CW_450_60_3 - - DS_CS_330_60_1 4.26 3040 DS_CS_330_60_2 4.51 3220 DS_CS_330_60_3 4.90 3500 DS_CS_450_60_1 5.82 4160 DS_CS_450_60_2 5.72 4080 DS_CS_450_60_3 5.51 3940 DS_G221S_330_60_1 - - DS_G221S_330_60_2 1.35 1410 DS_G221S_330_60_3 1.56 1630 DS_G221S_450_60_1 - - DS_G221S_450_60_2 1.43 1490 DS_G221S_450_60_3 - - DS_SW_330_60_1 9.92 6890 DS_SW_330_60_2 5.84 4060 DS_SW_330_60_3 3.92 2730 DS_SW_450_60_1 7.27 5050 DS_SW_450_60_2 4.50 3120 DS_SW_450_60_3 6.27 4350
Al raggiungimento del carico massimo P* il meccanismo
di aderenza è ancora pienamente sviluppato e l’attrito
agisce sulla porzione di fibra già distaccata dalla matrice.
Dopo tale punto la lunghezza di aderenza risulta
maggiore della lunghezza ancora incollata e per questo
motivo il meccanismo di aderenza non può più essere
completamente sviluppato. Essendo il contributo
dell’attrito molto ridotto rispetto al contributo
dell’aderenza, il carico applicato diminuisce col
progressivo aumentare del global slip fino ad arrivare ad
un carico costante che corrisponde al solo contributo
dell’attrito.
Confrontando i risultati di provini con lunghezza incollate
diverse si può osservare che il carico massimo è
maggiore nel caso di lunghezza incollate maggiori.
56
Assumendo che la lunghezza effettiva di questi compositi
sia minore della lunghezza incollata, la differenza tra i
carichi massimi corrispondenti a ℓ diverse si può
attribuire al differente contributo dell’attrito, mentre il
contributo dell’aderenza rimane costante.
I diagrammi carico – global slip ottenuti dai provini di
carbonio con matrice W sono riportati in Figura 59. Il
comportamento dei provini DS_CW_330_60_2,
DS_CW_330_60_3 e DS_CW_450_60_1 è coerente col
comportamento dei provini in carbonio con matrice S; la
rottura è avvenuta per distacco della fibra dalla matrice
(Figura 60). Il provino DS_CW_330_60_1 si è rotto per
cedimento delle fibre immediatamente fuori dalla
lunghezza incollata all’estremo caricato (Figura 61). I
valori dei carichi massimi ottenuti dai provini di carbonio
con matrice S sono generalmente maggiori dei valori
ottenuti con matrice W, il che indica una migliore
aderenza fibra-matrice nel caso della matrice S.
Figura 58 - Diagrammi P – g dei provini in carbonio con
matrice S.
Figura 59 - Diagrammi P – g dei provini in carbonio con
matrice W.
Figura 60 - Scorrimento delle fibre all’estremo caricato
del provino DS_CW_330_60_3.
Le fibre di vetro non impregnate dalla malta sono state
impregnate con resina epossidica per promuovere una
distribuzione del carico uniforme, ad eccezione dei
provini DS_G221S_330_60_1 e DS_G221S_450_60_1
che infatti si sono rotti per cedimento delle fibre non
impregnate. I diagrammi carico – global slip dei provini
DS_G221S_330_60_2, DS_G221S_330_60_3 e
DS_G221S_450_60_2 sono riportati in Figura 62.
Figura 61 - Cedimento delle fibre all’estremo caricato del provino DS_CW_330_60_1.
Figura 62 - Diagrammi P – g dei provini con fibra di
vetro.
57
Ad eccezione del provino DS_G221S_450_60_3, che si
è rotto prematuramente a livelli di carico molto bassi a
causa della non corretta preparazione del provino, tutti i
provini di vetro si sono rotti per cedimento delle fibre
all’interno della lunghezza impregnata (Figura 62). La
rottura è inizialmente caratterizzata dallo scorrimento
delle fibre all’interno della matrice, così come accade nel
caso del carbonio. Figura 62 mostra come il carico risulti
inizialmente lineare per poi diventare non lineare fino al
raggiungimento del valore massimo *P , simile al valore
ottenuto nelle prove a trazione delle fibre. Non risulta
però chiaro se il meccanismo di aderenza riesca a
svilupparsi pienamente oppure se la rottura avvenga
prima. La rottura delle fibre è caratterizzata dall’effetto
telescopico (Banholzer 2004) che porta a rottura alcuni
filamenti prima di altri. Dopo il raggiungimento di *P il
carico si riduce con l’aumentare del global slip fino alla
rottura di tutti i filamenti che costituiscono i fasci. Dopo la
rottura di tutti i filamenti il carico applicato è fornito dal
solo contributo dell’attrito, il quale diminuisce con
l’aumentare del global slip e col conseguente diminuire
dell’area di contatto fibra-matrice (Figura 62).
Figura 63 - Cedimento delle fibre di vetro all’interno della
lunghezza incollata. I diagrammi carico – global slip ottenuti dai provini con
fibra in acciaio sono riportati in Figura 64. I salti visibili
nel global slip del provino DS_SW_450_60_1 sono stati
causati da problemi col sensore LVDT. I provini con fibra
in acciaio hanno mostrato una rottura fragile
caratterizzata dal distacco dell’intero composito dal
supporto (Figura 65a), ad eccezione del provino
DS_SW_330_60_1 che si è rotto per splitting della
matrice (Figura 65b). Il distacco è avvenuto all’interfaccia
FRCM-calcestruzzo senza l’asportazione di materiale dal
supporto, come generalmente accade nel caso di
compositi FRP (Salomoni et al. 2011, Carloni and
Subramaniam 2012, Chen and Teng 2001). La rottura
per splitting, precedentemente osservata nello stesso
composito testato con modalità diverse (Pellegrino and
D’Antino 2013), è dovuta all’alta densità delle fibre che
impedisce alla matrice di penetrare adeguatamente nella
rete in acciaio.
Conclusioni
In questo lavoro sono stati presentati i risultati
sperimentali di 24 prove di taglio singolo condotte su
giunti FRCM-calcestruzzo costituiti da diverse fibre e
matrici. Il comportamento e le modalità di rottura
osservate sono differenti per ogni composito FRCM
considerato. Il composito costituito da fibra di carbonio e
matrice S giunge a rottura per distacco delle fibre dalla
matrice, così come riportato in letteratura per altri tipi di
composito. La rottura è stata caratterizzata dal
progressivo scorrimento delle fibre all’interno della
matrice ed dalla presenza di attrito tra fibre e matrice e
tra i filamenti di fibra che compongono i singoli fasci. I
compositi in carbonio e matrice W sono giunti a rottura in
un caso per cedimento delle fibre immediatamente fuori
dalla lunghezza incollata, mentre nei rimanenti casi per
distacco delle fibre dalla matrice. I carichi massimi
ottenuti per i compositi in carbonio sono in generale
maggiori con la matrice S piuttosto che con la matrice W,
il che indica una migliore aderenza fibra-matrice nel
primo caso.
Il composito con fibra di vetro ha mostrato un
comportamento simile a quello dei compositi con fibra di
carbonio; la rottura è avvenuta per cedimento delle fibre
all’interno della lunghezza incollata ed è stato possibile
osservare la cosiddetta rottura telescopica. I carichi
massimi ottenuti sono simili a quelli ottenuti nel caso di
prove a trazione sulle sole fibre.
Il composito con fibre di acciaio è giunto a rottura in un
caso per splitting della matrice e nei rimanenti casi per
distacco dell’intero composito dal substrato. L’elevata
densità dei trefoli d’acciaio impedisce alla matrice di
penetrarvi adeguatamente attraverso e provoca quindi la
rottura per splitting.
58
Figura 64 - Diagrammi P – g dei provini con fibra di acciaio.
Figura 65 -. a) Distacco del composito FRCM nel provino DS_SW_450_60_2. b) Rottura per splitting nel provino
DS_SW_330_60_1.
4.3.2 Analisi sperimentale del comportamento di aderenza di compositi FRCM in fibra di vetro, carbonio e acciaio
Introduzione
Un grande numero di strutture esistenti in c.a. necessita
di riabilitazione o rinforzo a causa di progettazione o
costruzione impropria, modifica nei carichi di esercizio,
danni causati da fattori ambientali o ancora danni
derivanti da eventi sismici. Le tecniche di intervento
tramite polimeri fibrorinforzati (FRP) sono state
largamente studiate a partire dagli ultimi decenni del
secolo scorso e molti di questi lavori hanno posto le basi
per la pubblicazione di linee guida per la progettazione
ed il calcolo di questo tipo di rinforzi (CNR DT-200 2004
e CNR DT-200 R1/2013, fib Bulletin 14 T.G. 9.3 2001,
ACI 440.2R 2008). Il rinforzo per mezzo di compositi a
matrice cementizia è una tecnica di recente introduzione
e la letteratura tecnica ne riporta solamente pochi esempi
ed in particolare per quanto riguarda l’utilizzo di fibre in
acciaio. Inoltre le sperimentazioni su elementi pre-
esistenti a scala reale sono molto poche limitate
(Pellegrino and Modena 2009). Alcuni studi di elementi
rinforzati con compositi a matrice cementizia possono
essere trovati in (Jesse et al. 2005, Jesse et al. 2009,
Häußler-Combe and Hartig 2007, Bruckner et al. 2006,
Hegger et al. 2006) mentre recenti sperimentazioni di
elementi in c.a. rinforzati con malte svolte presso
l’Università di Padova possono essere trovati in
(Pellegrino et al. 2009, Pellegrino et al. 2011).
Il presente lavoro descrive l’indagine sperimentale di
quattro travi di copertura in c.a.p. con sezione a π
ricavate da un edificio industriale. Una di esse è stata
utilizzata come trave di controllo non rinforzata, mentre le
altre sono state rinforzate tramite diverse tecniche,
specificamente: (1) con uno strato di laminato CFRP
incollato con resina epossidica al lembo inferiore delle
anime della trave, (2) con fibre di carbonio e matrice
cementizia, (3) con fibre d’acciaio e matrice cementizia.
Ognuna delle prove è stata svolta utilizzando una
configurazione di flessione su quattro punti (Figura 66).
Ognuno dei materiali coinvolti è stato inoltre
caratterizzato meccanicamente. In particolare sono stati
ricavati dei campioni cilindrici di calcestruzzo e dei tratti
di armatura dalle travi in c.a.p.
a. b.
59
Figura 66 - Schema di carico (dimensioni in mm)
Figura 67 - Sezione trasversale delle travi π (dimensioni in mm).
Programma sperimentale
Geometria delle travi
Quattro travi in c.a.p. con sezione a π, ricavate da un
edificio industriale risalente ai primi anni settanta, sono
state investigate. Tali travi hanno una lunghezza di 1167
cm, una larghezza di 128.5 cm ed un’altezza di 40 cm
(con uno spessore dell’ala di 5 cm). Ognuna delle anime
ha uno spessore di 9.5 cm ed il suo asse è posto ad una
distanza di 510 mm dalla mezzeria della sezione.
Ognuna delle anime è armata con staffe φ5/200 mm,
armature lente longitudinali consistenti in 2φ5 in zona
compressa e 2φ5 in zona tesa, due trefoli con diametro di
1/2” e due con diametro di 3/8” posizionati come riportato
in Figura 67.
Modalità di rinforzo
Una delle travi π in c.a.p., di seguito indicata con TT00, è
stata utilizzata come trave di controllo non rinforzata al
fine di confrontare il suo comportamento con quello delle
travi rinforzate.
La trave indicata con TTcl è stata rinforzata tramite un
laminato in carbonio incollato al lembo inferiore di
entrambe le anime. Tale laminato ha uno spessore di 1.4
mm ed una larghezza di 50 mm; è stato applicato lungo
tutta la lunghezza dell’asse longitudinale delle anime fino
ad una distanza di 10 cm dagli appoggi.
La superficie di calcestruzzo è stata preparata prima
dell’applicazione del rinforzo tramite levigatura
meccanica e rimuovendo sporco e polveri presenti;
successivamente è stato applicato uno strato di resina
epossidica per poi procedere al posizionamento del
laminato accuratamente pulito e premuto sul supporto
per mezzo di un martello di gomma.
La terza trave π in c.a.p., di seguito indicata con TTcf, è
stata rinforzata con due fogli sovrapposti di rete in fibra di
carbonio (spessore singola rete 0.117 mm) applicati al
lembo inferiore delle anime e risvoltati sulle facce laterali
delle stesse per un’altezza di circa 95 mm. La scelta di
due strati di fibre di carbonio è giustificata dalla volontà di
raggiungere una resistenza teorica della trave TTcf vicina
alla resistenza teorica della trave TTcl. La malta utilizzata
per l’applicazione, è composta da aggregati selezionati,
leganti inorganici e fibre polimeriche, oltre ad un
componente reattivo che sviluppa un forte legame con le
fibre di rinforzo. Al fine di migliorare l’adesione, la
superficie di calcestruzzo è stata levigata
60
meccanicamente e sono stati rimossi sporco e polveri
presenti. Il secondo strato di fibre è stato applicato sopra
lo strato di malta che ricopriva il primo strato di fibre;
infine è stato applicato un ultimo strato di malta a
protezione dei rinforzi. La quarta trave π in c.a.p., di
seguito indicata con TTsf, è stata rinforzata per mezzo di
uno strato di fibre d’acciaio (area nominale 24 mm2/m),
applicate al lembo inferiore delle anime e risvoltate per
un altezza di circa 98 mm. La malta utilizzata e la
procedura di applicazione del rinforzo sono state
analoghe a quelle utilizzate nel caso della trave TTcf.
In Figura 68 sono rappresentati i tre differenti rinforzi.
Figura 68 - Configurazioni di rinforzo (dimensioni in mm).
Caratterizzazione dei materiali
Ognuno dei materiali coinvolti nella presente
sperimentazione è stato testato al fine di ottenerne le
principali proprietà meccaniche. Provini cilindrici di
calcestruzzo sono stati prelevati dalle travi e, dopo aver
rettificato meccanicamente le teste, sono stati
strumentati e testati a compressione al fine di ottenerne
la resistenza a compressione, fc , ed il modulo elastico,
Ec, seguendo le indicazioni dell’ASTM C42/C42M e
dell’Eurocodice 2 (CEN 2004). I valori medi ottenuti sono:
fc = 59.9 MPa e Ec = 41809 MPa.
Provini di acciaio d’armatura lenta, prelevati sia dalle ali
che dalle anime delle travi, sono stati testati a trazione
ottenendo i seguenti valori medi di tensione di
snervamento e tensione ultima: fy = 612 MPa e fu = 647
MPa. Non essendo stato possibile prelevare campioni
dei trefoli sono stati assunti i valori dichiarati dal
prefabbricatore.
I laminati in carbonio sono stati testati a trazione al fine di
ottenere il valore medio della resistenza ultima, della
deformazione ultima e del modulo elastico. Sono stati
ottenuti i seguenti risultati: tensione ultima ff = 2539 MPa,
deformazione ultima εf = 0.0165, modulo elastico Ef =
168000 MPa.
Per quanto riguarda le fibre di carbonio, sono state
assunte le caratteristiche meccaniche dichiarate dal
produttore. Le fibre d’acciaio sono state invece
caratterizzate tramite test di trazione su singoli filamenti,
ottenendo il valor medio della resistenza ultima del
singolo filamento fu,sf = 3156 MPa.
La malta utilizzata per le sperimentazioni è la stessa sia
nel caso di rinforzo con fibre di carbonio che nel caso
con fibre d’acciaio. Tale malta è stata testata in
compressione e flessione in accordo con la UNI EN
1015-11 2007. I campioni prismatici utilizzati a tal fine
hanno sezione quadrata di lato 40 mm e sono lunghi 160
mm. I risultati hanno fornito il valor medio della forza a
rottura per flessione, fflex,m = 8437 N ed il valor medio
della resistenza a compressione rcm = 39.3 MPa.
Risultati sperimentali
Il carico è stato applicato utilizzando una configurazione
di flessione su quattro punti ed applicando le forze in
corrispondenza delle due anime. I supporti sono stati
realizzati tramite due cavalletti in acciaio; uno strato di
neoprene è stato interposto tra i supporti e i punti
d’appoggio delle travi al fine di evitare fenomeni di
danneggiamento localizzati.
Le travi π in c.a.p. sono state strumentate per mezzo di
trasduttori di spostamento (LVDT) che ne misurassero
l’abbassamento in mezzeria; sensori induttivi (DD1) sono
stati applicati al calcestruzzo al fine di misurare
l’ampiezza delle fessure. Infine, solo nel caso della trave
TTcl, sono state misurate le deformazioni in alcuni punti
della lamina di carbonio per mezzo di strain gauges.
In Figura 69 è riportato il diagramma carico-
abbassamento in mezzeria per ognuna delle travi testate.
La trave di controllo non rinforzata (TT00), ha mostrato la
61
tipica rottura per flessione sviluppando un abbassamento
molto elevato. Il carico ultimo corrispondente è stato di
140 kN. In Figura 70 è riportata un’immagine della trave
TT00 a rottura.
Figura 69 - Curva carico-abbassamento in mezzeria per
le travi π in c.a.p.
Figura 70 - Rottura della trave di controllo non rinforzata
TT00.
La trave π in c.a.p. TTcl, rinforzata con una lamina di
carbonio applicata al lembo inferiore delle anime, è stata
strumentata tramite dieci strain gauges applicati al
rinforzo CFRP lungo tutta la sua lunghezza.
L’abbassamento in mezzeria è stato misurato tramite due
sensori LVDT, mentre quattro DD1 sono stati utilizzati
per misurare le deformazioni del calcestruzzo in
corrispondenza della mezzeria. Due di essi sono stati
posizionati sopra l’ala mentre gli altri sono stati
posizionati sulle facce laterali dell’ala stessa.
La rottura si è verificata improvvisamente al
raggiungimento di un carico di 189 kN, corrispondente ad
un abbassamento di 214.5 mm. Il collasso è stato
causato dal distacco improvviso di una delle due lamine
applicate alle anime, la quale è rimasta incollata al
supporto solo per un breve tratto della sua lunghezza. La
superficie di calcestruzzo è risultata particolarmente
deteriorata in corrispondenza della mezzeria della trave
(Figura 71).
Figura 71 - Dettaglio della trave TTcl a prova conclusa.
La terza trave π in c.a.p. (TTcf), rinforzata per mezzo di
due strati di fibra di carbonio e matrice cementizia, è
stata strumentata tramite sensori LVDT che ne
misurassero l’abbassamento e tramite sensori induttivi
DD1 che misurassero la deformazione a compressione
del calcestruzzo nonché l’ampiezza delle fessure.
Il collasso della trave TTcf è stato causato dal distacco
del composito in corrispondenza della mezzeria. Si è
osservato un quadro fessurativo diffuso a gran parte
della lunghezza ed alcune porzioni di malta sono state
completamente espulse dal supporto, in particolare in
corrispondenza della mezzeria. In alcune sezioni le fibre
di carbonio sono risultate completamente tranciate
(Figura 72). Il carico ultimo registrato è stato di 169.2 kN,
mentre l’abbassamento corrispondente è stato di 200.9
mm.
La quarta trave π in c.a.p. (TTsf), rinforzata per mezzo di
uno strato di fibra d’acciaio e matrice cementizia, è stata
strumentata per mezzo di sensori LVDT che ne
misurassero l’abbassamento e tramite sensori induttivi
DD1 che misurassero la deformazione a compressione
del calcestruzzo nonché l’ampiezza delle fessure.
Il collasso della trave TTsf è stato causato dal distacco
della fibra in acciaio partito dall’estremità e propagatosi
lungo l’asse longitudinale della trave. La rete in fibra
d’acciaio è risultata particolarmente danneggiata ai bordi
delle anime (Figura 73). Il carico ultimo registrato è stato
di 173.6 kN, mentre l’abbassamento corrispondente è
stato di 196.3 mm.
62
Figura 72 -Dettaglio delle fibre di carbonio dopo la
rimozione della malta.
Figura 73 - Rottura del rinforzo a matrice cementizia
della trave TTsf.
Conclusioni
Il presente studio descrive i risultati preliminari di
un’indagine sperimentale condotta su quattro travi con
sezione a π in c.a.p. ricavate da un edificio industriale
pre-esistente. Una di esse è stata utilizzata come trave di
controllo non rinforzata, mentre le altre sono state
rinforzate tramite diverse tecniche, nello specifico con
uno strato di laminato CFRP incollato con resina
epossidica, con due strati di fibra di carbonio e matrice
cementizia e con due strati di fibra d’acciaio e matrice
cementizia. Ognuno dei test è stato condotto utilizzando
una configurazione di flessione su quattro punti. I risultati
hanno mostrato come la modalità di rottura nella trave
rinforzata con laminati sia completamente differente
rispetto alle travi rinforzate con compositi a matrice
cementizia. Quest’ultima tecnica si è inoltre rivelata in
grado di fornire un contributo significativo alla resistenza
a flessione delle travi sia nel caso di utilizzo di fibra di
carbonio che di fibra d’acciaio. In particolare i provini
rinforzati hanno mostrato una crescita nel carico ultimo,
rispetto alla trave di controllo non rinforzata, del 35% per
la trave TTcl (rinforzo con laminati CFRP applicati con
resina epossidica), del 20% per la trave TTcf (rinforzo
con fibra di carbonio e matrice cementizia), e del 24%
per la trave TTsf (rinforzo con fibra d’acciaio e matrice
cementizia).
4.4 PROTOCOLLI DI ACCETTAZIONE, ESECUZIONE E COLLAUDO
4.4.1 Generalità e disposizioni normative
I materiali fibrorinforzati a matrice polimerica (FRP) a
fibre continue, cui fa riferimento il presente documento,
sono materiali compositi costituiti da fibre in carbonio di
rinforzo immerse in una matrice polimerica.
Questi sono disponibili in diverse geometrie quali le
lamelle pultruse, utilizzate per il rinforzo di elementi dotati
di superfici regolari, barre pultruse e tessuti (uniassiali o
multiassiali) che si adattano ad applicazioni su elementi
strutturali con forme geometriche più complesse. I tessuti
vengono applicati sull’elemento da rinforzare mediante
adesivi che svolgono la funzione sia di elemento
impregnante che di adesivo al substrato interessato.
La Normativa vigente già richiamata nel presente
documento prevede la possibilità di utilizzare, per gli
interventi sulle strutture esistenti, anche materiali non
tradizionali purchè nel rispetto di normative e documenti
di comprovata validità tra i quali vengono esplicitamente
citate le Istruzioni ed i Documenti Tecnici del Consiglio
Nazionale delle Ricerche. Il documento tecnico di
riferimento è stato approvato il 24 luglio 2009
dall’assemblea Generale Consiglio Superiore LL PP di
cui si riportano alcuni passaggi allo scopo di definire i
protocolli tecnici applicativi.
Inoltre vengono inclusi il documento CNR-DT200/2004
“Istruzioni per la Istruzioni per la Progettazione,
l’Esecuzione ed il Controllo di Interventi di
Consolidamento Statico mediante l’utilizzo di compositi
fibrorinforzati”, il CNR-DT 200 R1/2013 documento
aggiornato e in fase di approvazione al MIT assieme alle
Linea Guida per la Qualificazione ed il Controllo di
63
accettazione di compositi fibrorinforzati da utilizzarsi per
il consolidamento strutturale di costruzioni esistenti.
Sistemi di rinforzo
I sistemi CFRP idonei per il rinforzo esterno di strutture
esistenti possono essere classificati in due categorie
principali.
- Sistemi preformati (precured systems)
Sono costituiti da componenti di varia forma preparati
in stabilimento mediante pultrusione o laminazione. I
compositi preformati tipo lamelle sono utilizzabili per il
rinforzo esterno incollati all’elemento strutturale da
rinforzare. Rientrano tra i sistemi preformati qui trattati
anche le barre pultruse utilizzate per inserimento nella
membratura da consolidare e rese ad essa solidali
mediante adesivi polimerici.
Questi materiali compositi sono caratterizzati da una
disposizione unidirezionale delle fibre presenti in frazioni
volumetriche > 65%. Per i laminati pultrusi lo spessore
varia da 1,2 a 1,4 mm. e la larghezza sulla base delle
schede tecniche del fornitore.
- Sistemi impregnati in situ (ad esempio wet lay-up
systems)
Sono costituiti da tessuti di fibre unidirezionali o
multidirezionali che sono impregnati con una resina , la
quale funge anche da adesivo con il substrato
interessato (es. calcestruzzo).
Nel caso di sistemi impregnati in situ non è possibile
stimare a priori, con sufficiente accuratezza, lo spessore
finale del laminato, ed è perciò consigliabile fare
riferimento alle proprietà meccaniche ed all’area
resistente del tessuto secco, basandosi sui dati forniti
nelle schede tecniche del fornitore. In generale i tessuti
CFRP sono disponibili in grammature di 200-600 g/m2.
Principali dati tecnici dei sistemi di rinforzo preformati e
impregnati in sito per c.a. e c.a.p.
- Sistemi preformati
Nell’ambito del presente documento i sistemi di rinforzo
preformati in carbonio sono distinti in base ai valori delle
seguenti due caratteristiche meccaniche: modulo elastico
e tensione di rottura. Tali caratteristiche, valutate in
regime di trazione uniassiale, devono essere riferite
all’unità di superficie complessiva del composito FRP
(fibre e matrice), sollecitato nella direzione delle fibre. La
successiva Tabella riporta le classi di rinforzi preformati
contemplate dalla Linea Guida per le prove di
qualificazione ed i competenti valori delle due
caratteristiche meccaniche. La Linea Guida è in
approvazione al MIT.
Tabella 9.
Classe Natura della fibra
Modulo elastico a trazione nella direzione delle fibre [GPa]
Resistenza a trazione nella direzione delle fibre [MPa]
C120 Carbonio 120 1800 C150/1800 Carbonio 150 1800 C150/2300 Carbonio 150 2300 C190/1800 Carbonio 190 1800 C200/1800 Carbonio 200 1800
I valori esposti sono nominali: la condizione che i valori
del modulo elastico medio e della resistenza a trazione
caratteristica di un sistema preformato, calcolati come
sopra indicato, siano maggiori o uguali a quelli nominali,
ne legittima l’appartenenza alla corrispondente classe. Il
valore caratteristico della resistenza a trazione è
calcolato sottraendo al valore medio il prodotto della
deviazione standard per 2,33 su almeno 5 provini per
test. Nel caso di un materiale che, nella fase di
qualificazione, presenti valori del modulo elastico e della
resistenza a trazione ricadenti in classi differenti, la
denominazione è fatta con riferimento alla classe con
caratteristiche inferiori. I valori del modulo elastico e della
resistenza a trazione devono risultare opportunamente
stabili nei confronti del degrado indotto sul composito
FRP da azioni ambientali.
Per la determinazione del modulo elastico e della
resistenza a trazione dei provini ricavati da lamelle
preformate si deve far riferimento alla metodologia
indicata nella norma UNI EN 2561. Nel caso di barre
pultruse la norma di riferimento è ISO 10406. Gli adesivi
utilizzati per solidarizzare i sistemi di rinforzo preformati
alla struttura da consolidare devono essere conformi alla
norma UNI EN 1504-4.
- Sistemi impregnati in situ
Nell’ambito del presente documento i sistemi di rinforzo
in carbonio realizzati in situ sono distinti in base ai valori
del modulo elastico e della tensione di rottura. Le
suddette caratteristiche meccaniche devono essere
riferite all’area delle fibre secche, in assenza cioè di
impregnatura. Con riferimento al valore del modulo
elastico ed a quello della tensione di rottura a trazione,
64
nella direzione delle fibre i sistemi di rinforzo realizzati in
situ sono riconducibili alle classi specificate nella
successiva Tabella 10 per le prove di qualificazione.
Tabella 10.
Classe Natura della fibra
Modulo elastico a trazione nella direzione delle fibre [GPa]
Resistenza a trazione nella direzione delle fibre [MPa]
210C Carbonio 210 2700 350/1750C Carbonio 350 1750 350/2800C Carbonio 350 2800 500C Carbonio 500 2000
I valori esposti sono nominali: la condizione che i valori
del modulo elastico medio e della resistenza
caratteristica a trazione di un sistema di rinforzo
realizzato in situ, calcolati come sopra indicato, siano
maggiori o uguali a quelli nominali, ne legittima
l’appartenenza alla corrispondente classe. Il valore
caratteristico della resistenza a trazione è calcolato
sottraendo al valore medio il prodotto della deviazione
standard per 2,33 su almeno 5 provini per test.
Nel caso di un materiale che, nella fase di qualificazione,
presenti valori del modulo elastico e della resistenza a
trazione ricadenti in classi differenti, la denominazione è
fatta con riferimento alla classe con caratteristiche
inferiori.
Per tessuti pluriassiali, con fibre disposte in più direzioni,
i valori della Tabella 7 si intendono riferiti alla direzione
longitudinale.
Sempre nel caso di tessuti pluriassiali, i valori minimi
esposti in Tabella 7 devono essere ridotti del 10%.
I valori del modulo elastico e della resistenza a trazione
esibiti dal materiale devono risultare opportunamente
stabili nei confronti del degrado indotto da azioni
ambientali. Per la determinazione del modulo elastico e
della resistenza a trazione dei provini realizzati in situ si
deve far riferimento alla metodologia indicata nella norma
UNI EN 2561. Gli adesivi utilizzati per impregnare e
solidarizzare i sistemi di rinforzo realizzati in situ alla
struttura da consolidare devono essere conformi alla
norma UNI EN 1504-4.
Laboratori di prova
Le prove previste nella Linea Guida devono essere
eseguite da parte di laboratori di cui all’art.59 del DPR n.
380/2001, con comprovata esperienza e dotati di
strumentazione adeguata per prove su FRP.
4.4.2 Controlli di accettazione del materiale
Si richiamano le attuali disposizioni vigenti sopra riportate
che andranno comunque integrate con i documenti e
Linee Guida come già riportato in precedenza e
attualmente all’approvazione del MIT.
4.4.3 Collaudo dell’intervento
Il collaudatore deve verificare le ipotesi progettuali, i
modelli di calcolo, l’attendibilità dei livelli di conoscenza
dichiarati in progetto e la puntuale corrispondenza di
quanto eseguito agli elaborati progettuali.
Il collaudatore deve inoltre verificare l’avvenuta
accettazione dei materiali da parte del direttore dei lavori.
Per gli interventi di maggiore importanza o considerevole
estensione, è possibile anche prevedere un congruo
numero di prove non distruttive e semidistruttive. Quando
possibile saranno effettuate prove sino a collasso su
elementi, travi e pilastri rinforzati, tratti dalla struttura.
Nella versione CNR DT 200 R1/2013 sono riportati
specifici set up di prova con indicati i criteri di
accettazione in rapporto alla forza di progetto massima
prevista.
4.4.4 Tecnologia di pretensione dei laminati in carbonio
Un particolare settore d’intervento di rinforzo con i
laminati pultrusi in CFRP riguarda la possibilità di
realizzare una pretensione in opera dei laminati stessi
realizzando così una parziale compressione del
calcestruzzo in area tesa e migliorando pertanto la
rigidezza della trave e dell’impalcato con conseguenti
benefici di resistenza, durabilità e comportamento in
esercizio, senza interruzione del traffico. La tecnica si
applica in particolare per ponti e viadotti esistenti soggetti
a fatica e a carichi ciclici là dove la pretensione in opera
e in asse con la trave consente un netto miglioramento
del comportamento strutturale dell’elemento.
La tecnica è stata sperimentata in scala reale presso
l’Università di Padova e i risultati sono stati riportati nei
capitoli precedenti. Inoltre è stato realizzato un
importante intervento sul viadotto della A14/Tangenziale
di Bologna il cui rapporto è stato presentato in
precedenza.
In questa sezione si intende solamente mettere in
evidenza i vantaggi del sistema rimandando alla parte
sperimentale i principali aspetti tecnici della tecnologia.
65
I principali vantaggi della pretensione CFRP di elementi
pultrusi in carbonio su travi in c.a. sono:
-incremento del momento di rottura dell’ 85% della trave
rinforzata con pretensione rispetto alla trave non
rinforzata
- decremento della freccia di mezzeria con un aumento
della rigidezza flessionale
- incremento del momento di prima fessurazione del
52%
- migliore distribuzione delle fessurazioni (di numero ed
ampiezza inferiore) con un contributo importante di
resistenza dalle aree di luce al taglio a quelle a
momento costante
- migliore efficienza dell’utilizzo del carbonio in termini
di deformazione ultima
- ottimizzazione della sezione di carbonio impiegato
- elevata durabilità della struttura dopo intervento
- impiego della tecnologia senza interruzione del
traffico e minimo impatto sulla viabilità.
4.4.5 I sistemi SRP e SRG in tessuto in acciaio UHTSS
Analogamente a quanto riportato ai paragrafi precedenti
in materia di CFRP per il rinforzo di strutture in c.a. e
c.a.p., si presentano alcune tecnologie che sono state
oggetto di ricerca e sperimentazione nell’ambito
dell’attività svolta da codesto Comitato tecnico TC 4.3
GdL3 nel periodo 2012-2014.
Le tecnologie si riferiscono a tecniche avanzate di
rinforzo dei c.a. e c.a.p. con l’impiego di materiali
compositi in fibra di acciaio UHTSS e matrici organiche
(SRP) e inorganiche (SRG) il cui sviluppo tecnico in
Italia, ma anche in altri Paesi del mondo, ha consentito di
mettere a punto tali tecnologie particolarmente
interessanti nel rinforzo strutturale di ponti e viadotti e di
strutture in cemento armato in generale anche per
l’importante miglioramento tecnologico della sostenibilità
ambientale nell’ambito degli FRCM-SRG. Nei precedenti
capitoli del presente quaderno sono state illustrate
alcune sperimentazioni già presentate in recenti
congressi internazionali (IABMAS, CICE).
L’importanza di tali tecnologie sono state anche
riconosciute dal MIT che ha istituito nel 2012 un’apposita
commissione ministeriale per la definizione delle Linee
Guida per l’impiego di materiali di rinforzo alternativi. La
commissione è tuttora al lavoro.
Va anche precisato che ai sensi delle NTC8 cap. 12
l’impiego di tali fibre diverse dal carbonio sono ammesse,
purché regolamentate da apposite norme di prodotto ed
inoltre siano disponibili per i suddetti materiali compositi
specifiche tecniche e documenti sperimentali di
comprovata validità.
Si auspica altresì che in tale campo di intervento ci possa
essere un proseguo dell’attività di sviluppo da parte dei
futuri comitati tecnici AIPCR.
BIBLIOGRAFIA
[1] Achintha M, Burgoyne CJ. Fracture mechanics of plate debonding: validation against experiment. Constr Build Mater 2011:25(6):2961-71.
[2] Adhikary BB, Mutsuyoshi H. Study on the bond between concrete and externally bonded CFRP sheet. In: Proceedings of the 6th international symposium on Fiber Reinforced Polymer reinforcement for concrete structures, FRPRCS-5, 2001:1:371-78.
[3] American Concrete Institute (ACI) 2008. Guide for the design and construction of externally bonded FRP systems for strengthening of concrete structure. ACI 440.2R-08, Farmington Hill, Michigan.
[4] American Concrete Institute (ACI) 2013. Guide to design and construction of externally bonded FRCM systems for repair and strengthening concrete and masonry structures. ACI 549.4R-13, Farmington Hill, Michigan.
[5] American Concrete Institute. Building code requirements for structural concrete (ACI 318-05) and commentary (ACI 318R-05), 2005, Farmington Hills, Mich., USA.
[6] ASTM C42/C42M-11. Standard test method for obtaining and testing drilled cores and sawed beams of concrete. American society for testing and materials, West Conshohocken, PA, 2011.
[7] ASTM D3039/D3039M. Standard test method for tensile properties of polymer matrix composite materials. American society for testing and materials, West Conshohocken, PA, 2008.
[8] Banholzer B. Bond behavior of multi-filament yarn embedded in a cementitious matrix. PhD Thesis, RETH Aachen University, United Kingdom, 2004.
[9] Bousselham A, Chaallal O. Behaviour of reinforced concrete T-beams strengthened in shear with carbon fibre-reinforced polymer - An experimental study. ACI Struct J, 2006:103(3):339-47.
[10] Bousselham A, Chaallal O. Mechanisms of shear resistance of concrete beams strengthened in shear
66
with externally bonded FRP. J Compos Constr, 2008:12(5):302-14.
[11] Brena SF, Bramblett RM, Wood S, Kreger M. Increasing flexural capacity of reinforced concrete beams using carbon fiber-reinforced polymer composites. ACI Struct J, 2003:100(1):36-46.
[12] Bruckner A, Ortlepp R, Curbach M. Textile Reinforced Concrete for strengthening in bending and shear. Mater Struct 2006:39(8):741–8.
[13] Bukhari IA, Vollum RL, Ahmad S, Sagaseta J. Shear strengthening of reinforced concrete. Magaz Concr Research, 2010:62(1):65-77.
[14] Camli US, Binici B. Strength of carbon fiber reinforced polymers bonded to concrete and masonry. Constr Build Mat 2007;21:1431-46.
[15] Carloni C, Sneed LH, D’Antino T. Interfacial bond characteristics of fiber reinforced cementitious matrix for external strengthening of reinforced concrete members. FraMCoS-8, 2013, J.G.M. Van Mier, G. Ruiz, C. Andrade, R.C. Yu and X.X. Zhang (Eds).
[16] Carloni C, Subramaniam KV, Savoia M, Mazzotti C. Experimental determination of FRP-concrete cohesive interface properties under fatigue loading. Compos Struct 2012; 94:1288-96.
[17] Carolin A, Taljsten B. Theoretical study on strengthening for increased shear bearing capacity. J Compos Constr, 2005:9(6):497-506.
[18] Carrara P, Ferretti D, Freddi F, Rosati G. Shear tests of carbon fiber plates bonded to concrete with control of snap-back. Engng Fract Mech 2011:79:2663-78.
[19] CEN 2004. Eurocode 2: Design of Concrete Structures - Part 1-1: General Rules and Rules for Buildings, EN 1992-1-1 2004, Comité Européen de Normalisation, Brussels, Belgium.
[20] Chen GM, Teng JG, Chen JF, Rosenboom OA. Interaction between Steel Stirrups and Shear-Strengthening FRP Strips in RC Beams. J Compos Constr, 2010:14(5):498-509.
[21] Chen GM, Teng JG, Chen JF. Shear strength for FRP-strengthened RC beams with adverse FRP-steel interaction. J Compos Constr, 2013:17(1):50-66.
[22] Chen JF, Teng JG. Anchorage strength models for FRP and steel plates bonded to concrete. J Struct Eng ASCE 2001;127(7):784-91.
[23] Chen JF, Teng JG. Shear capacity of FRP-strengthened RC beams: FRP debonding. Constr Build Mater, 2003a:17:27–41.
[24] Chen JF, Teng JG. Shear capacity of FRP-strengthened RC beams: FRP rupture. J Struct Engng, 2003b:129(5):615–25.
[25] Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Instructions for design, execution and control of strengthening interventions through fiber-reinforced composites. CNR-DT 200-04, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Rome, Italy, 2004.
[26] Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Istruzioni per la progettazione, l’esecuzione ed il controllo di interventi di consolidamento statico mediante l’utilizzo di compositi fibrorinforzati. CNR-DT 200 R1/2013, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Rome, Italy, 2013.
[27] Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (Cons. Sup. LLPP). Linee guida per la progettazione, l'esecuzione ed il collaudo di interventi di rinforzo di strutture in c.a., c.a.p. e murarie mediante FRP. Assemblea Generale Consiglio Superiore LL PP, 2009.
[28] D’Ambrisi A, Feo L, Focacci F. Bond-slip Relations for PBO-FRCM Materials Externally Bonded to Concrete. Compos B: Engng. 2012:43(8):2938-49.
[29] D’Antino T, Carloni C, Sneed LH, Pellegrino C. Matrix-fiber bond behavior in PBO FRCM composites: A fracture mechanics approach. Engng Fract Mech 2014:117:94-111.
[30] D’Antino T, Pellegrino C, Carloni C, Sneed LH, Giacomin G. Experimental analysis of the bond behavior of glass, carbon, and steel FRCM composites. Key Engng Mech 2015:624:371-8.
[31] D’Antino T, Pellegrino C, Salomoni V, Mazzucco G. Shear behavior of RC structural members strengthened with FRP materials: a Three Dimensional numerical approach. ACI SP286-05, 2012:69-84.
[32] D’Antino T, Pellegrino C. Bond between FRP composites and concrete: assessment of design procedures and analytical models. Compos B: Eng 2014:60:440-56.
[33] D’Antino T, Sneed LH, Carloni C, Pellegrino C. Bond behavior of the FRCM-concrete interface, FRPRCS11, 2013, J. Barros, J. Sena-Cruz (Eds).
[34] Dai J, Ueda T, Sato Y. Development of the nonlinear bond stress–slip model of fiber reinforced plastics sheet-concrete interfaces with a simple method. J Compos Constr ASCE 2005;9(1):52-62.
[35] D'Ambrisi A, Feo L, Focacci F. Experimental analysis on bond between PBO-FRCM strengthening materials and concrete. Compos B: Engng. 2013:44(1):524-32.
[36] De Lorenzis L, Miller B, Nanni A. Bond of fiber-reinforced polymer laminates to concrete. ACI Mater J 2001;98(3):256-64.
67
[37] El-Hacha R, Wight RG, Green MF. Innovative system for prestressing fiber-reinforced polymer sheets. ACI Struct J, 2003:100(3):305-13.
[38] El-Hacha R, Wight RG, Green MF. Prestressed carbon fiber reinforced polymer sheets for strengthening concrete beams at room and low temperatures”. ASCE J Compos Constr, 2004:8(1):3-13.
[39] EN 10002. Metallic Materials – Tensile Testing – Method of test. CEN, Comité Européen de Normalisation, 2004, Brussels, Belgium.
[40] EN 12390. Testing hardened concrete. CEN, Comité Européen de Normalisation, 2002, Brussels, Belgium.
[41] EN 15630. Steel for the reinforcement and prestressing of concrete. Test methods. Reinforcing bars, wire rod and wire. CEN, Comité Européen de Normalisation, 2002, Brussels, Belgium.
[42] Fédération Internationale du Béton. Model Code for Concrete Structures. 2010 Lausanne, Switzerland.
[43] Ferracuti B, Savoia M, Mazzotti C. Interface law for FRP–concrete delamination. Compos Struct 2007:80(4):523–31.
[44] fib Bulletin 14. 2001. Externally bonded FRP reinforcement for RC structures. Lausanne, Switzerland.
[45] Hashemi S, Al-Mahaidi R. Experimental and finite element analysis of flexural behavior of FRP-strengthened RC beams using cement-based adhesives. Constr Build Mater 2012:26:268-73.
[46] Häußler-Combe U, Hartig J. Bond and failure mechanisms of textile reinforced concrete (TRC) under uniaxial tensile loading. Cem Concr Compos 2007:2(4):279-89.
[47] Hegger J, Will N, Bruckermann O, Voss S. Load-bearing behaviour and simulation of Textile Reinforced Concrete. Mater Struct 2006:39:765–76.
[48] Hiroyuki Y, Wu Z. Analysis of debonding fracture properties of CFS strengthened member subject to tension. In: Proceedings of 3rd International Symposium on non-metallic (FRP) Reinforcement for Concrete Structures 1997;1:284-94.
[49] Japan Concrete Institute (JCI). Technical report of technical committee on retrofit technology. In: Proceedings of the international symposium on latest achievement of technology and research on retrofitting concrete structures, 2003.
[50] Jesse F, Schicktanz K., Curbach M. Obtaining Characteristic Material Strength of Textile Reinforced Concrete (TRC) from Laboratory Tests. 9th International Symposium on Ferrocement (Ferro9), Bali, May 18-20, 2009:305-18.
[51] Jesse F, Weiland S, Curbach M. Flexural strengthening of RC-structures with textile reinforced concrete, Textile Reinforced Concrete (TRC) -- German/International Experience. Proceedings of ACI Fall Convention. Kansas City, November 2005, A. Dubey editors, ACI Special Publication, SP-250CD-4.
[52] Khalifa A, Gold WJ, Nanni A, Abdel Aziz MI. Contribution of externally bonded FRP to shear capacity of RC flexural members. J Compos Constr, 1998:2(4):195-202.
[53] Khalifa A, Gold WJ, Nanni A, Aziz A. Contribution of externally bonded FRP to shear capacity of RC flexural members. J compos Constr ASCE 1998;2(4):195-203.
[54] Lima J, Barros J. Reliability analysis of shear strengthening externally bonded FRP models. Proceedings of the Institution of Civil Engineers (ICE) - Structures and Buildings, 2011:164(1): 43-56.
[55] Lu XZ, Teng JG, Ye LP, Jiang JJ. Bond–slip models for FRP sheets/plates bonded to concrete. Eng Struct 2005;27:920-37.
[56] Modifi A, Chaallal O. Shear Strengthening of RC Beams with EB FRP: Influencing Factors and Conceptual Debonding Model. J Compos Constr, 2011:15(5):62-74.
[57] Modifi A, Chaallal O. Shear Strengthening of RC Beams with EB FRP: Influencing Factors and Conceptual Debonding Model. J Compos Constr, 2011:15(5):62-74.
[58] Monti G, Liotta MA. Tests and design equations for FRP-strengthening in shear. Constr Build Mater, 2007:21:799-809.
[59] Neubauer U, Rostàsy FS. Design aspects of concrete structures strengthened with externally bonded CFRP plates. In: Proceedings of Seventh International Conference on Structural Faults and Repairs. Edinburgh, ECS Publications, 1997;1:109-18
[60] Pellegrino C, D’Antino T. Experimental behaviour of existing precast prestressed reinforced concrete elements strengthened with cementitious composites. Compos B: Engng. 2013:55:31-40.
[61] Pellegrino C, Da Porto F, Modena C. Experimental behaviour of reinforced concrete elements repaired with polymer-modified cementitious mortar. Mater Struct 2011:44(2):517-27.
[62] Pellegrino C, Da Porto F, Modena C. Rehabilitation of reinforced concrete axially loaded elements with polymer-modified cementitious mortar. Constr Build Mater 2009:23(10):3129-37.
68
[63] Pellegrino C, Modena C. An experimentally based analytical model for shear capacity of FRP strengthened reinforced concrete beams. Mech Compos Mater, 2008:44(3):231-244.
[64] Pellegrino C, Modena C. Analytical model for FRP confinement of concrete columns with and without internal steel reinforcement. J Compos Constr, 2010:14(6):693-705.
[65] Pellegrino C, Modena C. Flexural strengthening of real-scale RC and PRC beams with end-anchored pre-tensioned FRP laminates. ACI Struct J, 2009a:106(3):319-328.
[66] Pellegrino C, Modena C. FRP shear strengthening of RC beams with transverse steel reinforcement. J Compos Constr, 2002:6(2):104-111.
[67] Pellegrino C, Modena C. FRP shear strengthening of RC beams: experimental study and analytical modelling. ACI Struct J, 2006:103(5):720-8.
[68] Pellegrino C, Modena C. Influence of FRP axial rigidity on FRP-concrete bond behaviour: an analytical study. Adv Struct Engng 2009b:12(5):639-49.
[69] Pellegrino C, Tinazzi D, Modena C. An experimental study on bond behavior between concrete and FRP reinforcement. J Compos Constr ASCE 2008:12(2):180-9.
[70] Pellegrino C, Vasic M. Assessment of design procedures for the use of externally bonded FRP composites in shear strengthening of reinforced concrete beams. Comp B: Eng 2013:45:727-41.
[71] Salomoni VA, Mazzucco G, Pellegrino C, Majorana CE. Three-dimensional modeling of bond behaviour between concrete and FRP reinforcement, Engng. Comput. 2011:28(1):5-29.
[72] Sneed LH, D’Antino T, Carloni C. Investigation of bond behavior of PBO fiber-reinforced cementitious matrix composite-concrete interface. ACI Mater J 2014:111(1-6):1-12.
[73] Tan K, Tumialan G, Nanni A. Evaluation of CFRP systems for the strengthening of RC slabs. University of Missouri-Rolla, CIES 02-38, Final Report, 2003.
[74] Triantafillou TC, Antonopoulos CP. Design of Concrete Flexural Members Strengthened in Shear with FRP. J Compos Constr, 2000:4(4):198-205.
[75] Triantafillou TC, Deskovic N, Deuring M. Strengthening of concrete structures with prestressed fiber reinforced plastic sheets. ACI Struct J, 1992:89(3):235-44.
[76] UNI EN 1015-11. Methods of test for mortar for masonry – Part 11: determination of flexural and compressive strength of hardened mortar. Brussels, Belgium: Comité Européen de Normalisation, 2007.
[77] UNI EN 12390-3. Testing hardened concrete. Compressive strength of test specimens. Brussels, belgium: Comité Européen de Normalization, 2009.
[78] Valluzzi MR, Grinzato E, Pellegrino C, Modena C. IR thermography for interface analysis of FRP laminates externally bonded to RC beams. Mater Struct 2009:42(1):25-34.
[79] Van Gemert D. Force transfer in epoxy-bonded steel–concrete joints. Int J Adhes Adhes 1980;1:67-72.
[80] Wight RG, Green MF, Erki A. Prestressed FRP sheets for poststrengthening reinforced concrete beams. ASCE J Compos Constr, 2001:5(4),214-20.
[81] Wu ZS, Yuan H, Niu H. Stress transfer and fracture propagation in different kinds of adhesive joints. J. Engng. Mech. ASCE. 2002:128(5):562-73.
[82] Yao J, Teng JG, Chen JF. Experimental study on FRP-to-concrete bonded joints. Compos B: Eng 2005:36:99-113.
[83] Yuan H, Teng JG, Seracino R, Wu ZS, Yao J. Full-range behavior of FRP-to-concrete bonded joints, Eng Struct 2004;26(5):553-64.
69
5 LE PAVIMENTAZIONI SU IMPALCATO DA PONTE
5.1 INTRODUZIONE
In Italia, il consolidamento più consistente del patrimonio
infrastrutturale può essere fatto risalire al periodo
successivo alla II Guerra Mondiale, quando è stata
effettuata la costruzione (talora il rifacimento) di
numerose arterie stradali e si sono gettate le basi per
una moderna rete autostradale. Tuttavia, i manufatti a tal
fine richiesti, quali ponti, viadotti, sovrappassi, opere di
scavalco in genere, sono stati concepiti, in sede di
progettazione e costruzione, considerando una troppo
elevata durabilità dei materiali componenti (calcestruzzo
armato o meno, calcestruzzo precompresso, acciaio).
Questo approccio non è mutato significativamente negli
anni a seguire, anche se la consapevolezza dei limiti di
tale impostazione è aumentata nel tempo. E così, negli
ultimi venti/trenta anni, il manifestarsi di forme sempre
più evidenti di degrado nei manufatti ha determinato un
frequente impegno degli Enti gestori di strade e dei
progettisti verso la riparazione ed il ripristino di opere
“prematuramente” deteriorate. Il degrado naturale dei
materiali in esame (calcestruzzo, acciaio) è dovuto
fondamentalmente a processi di decadimento della
struttura che essi costituiscono, principalmente
riconducibili a cause di tipo fisico e chimico che
compromettono la durabilità delle opere. Queste, di
conseguenza, non riescono più a conservare le
caratteristiche meccaniche richieste a garantire adeguati
livelli prestazionali e di sicurezza.
Il degrado naturale dei materiali in un’infrastruttura
stradale, oltre ad essere determinato dall’ambiente in cui
essi operano, è accentuato dalle sollecitazioni indotte dal
traffico (in particolare, da quello commerciale),
fortemente aumentate alla fine del secolo scorso e nei
primi anni di quello corrente. L’esperienza maturata
nell’ultimo ventennio ha dimostrato che i manufatti
interessati da elevato passaggio di traffico veicolare e
sottoposti all’azione climatica, specialmente di tipo
aggressivo, devono essere, oltre che opportunamente
dimensionati, anche protetti mediante efficaci sistemi di
impermeabilizzazione. Molti Autori hanno studiato le
tecniche più opportune di previsione del degrado dei
manufatti, la loro durabilità, i meccanismi di affaticamento
degli impalcati da ponte. Minore attenzione è stata,
normalmente, dedicata alla composizione ed alla
protezione delle sovrastrutture, il cui degrado, tuttavia, è
spesso all’origine del decadimento strutturale dei ponti e
viadotti. In tal senso, giocano un ruolo importante alcuni
dettagli costruttivi talora non sufficientemente valutati,
come: la scelta dell’impermeabilizzazione
dell’impalcato/soletta e la sua interazione con i materiali
sottostanti e sovrastanti; la pavimentazione stradale
costituente finitura carrabile; l’aderenza e la regolarità
dello strato superficiale; le tecniche costruttive e
manutentive della sovrastruttura.
Il presente rapporto intende approfondire questi ultimi
aspetti, fissando l’attenzione su materiali e tecnologie
costruttive innovativi, che possono contribuire a risolvere
efficacemente la finitura superficiale del ponte o viadotto,
aumentandone al contempo la durata e minimizzandone
la manutenzione. Fra le soluzioni di seguito analizzate, si
darà rilievo ai leganti polimerici che recenti
sperimentazioni hanno dimostrato poter sostituire
materiali convenzionali, semplificando la realizzazione
della sovrastruttura, impermeabilizzandola ed al
contempo dotandola di una superficie trafficabile ad
elevate prestazioni funzionali e strutturali.
5.2 LE PAVIMENTAZIONI SU IMPALCATO DA PONTE E IL LORO DEGRADO
Le pavimentazioni
La pavimentazione stradale, in genere, è costituita da
vari strati di materiali di diverso spessore, il cui insieme
forma una struttura che ha il compito di distribuire e
trasferire al supporto (terreno o impalcato o soletta di
appoggio) le sollecitazioni impresse dal traffico veicolare,
garantendo agli utenti condizioni di confort e sicurezza
per la circolazione. Le pavimentazioni vengono suddivise
in alcune categorie fondamentali, in funzione del
materiale impiegato per la loro costruzione: sono
denominate “rigide” quando lo strato superiore è formato
da lastre in calcestruzzo; sono definite “flessibili”, quando
gli strati superiori sono bituminosi; sono dette
“semirigide” quando il pacchetto bituminoso è rinforzato
con uno o più strati cementizi in profondità. La scelta di
una specifica tipologia è connessa con le prestazioni e la
durabilità richieste, i costi d’opera, i costi di
manutenzione.
Le pavimentazioni costruite sugli impalcati da ponte
poggiano, in genere, su una soletta di calcestruzzo, che
collabora assieme alla pavimentazione alla distribuzione
70
del carico e ad assorbire le dilatazioni climatiche e le
tensioni interne. Poiché la soletta è un elemento che
possiede una certa rigidezza, la pavimentazione e gli
strati che la compongono hanno uno spessore contenuto
rispetto a quello richiesto alle sovrastrutture poggianti sul
terreno, che è un sottofondo a limitata portanza. In
questo caso, dunque, le soluzioni costruttive si
restringono a due casi principalmente: pavimentazioni
rigide e semirigide. Le pavimentazioni rigide in
calcestruzzo, in Italia poco diffuse, sono caratterizzate da
un comportamento meccanico di tipo elastico, con
elevata resistenza al taglio e flessione; vengono adottate
in strade con elevata intensità di traffico. Per ragioni di
peso, costo, accuratezza di costruzione, non si prestano
ad un impiego nei manufatti stradali, dove si preferisce la
soluzione semirigida, qui costituita da uno strato
cementizio (la soletta, rigida) sormontato da uno o più
strati bituminosi (flessibili). Questa scelta consente di
contenere la deformabilità della pavimentazione,
conferendo un beneficio in termini di resistenza a fatica,
di deformazioni permanenti localizzate (ormaie) e
incrementando quindi la durabilità.
Le diverse tipologie di pavimentazioni su impalcati da
ponte possiedono una vita utile diversa al variare dei
carichi e non consentono, molte volte, una manutenzione
continua a causa degli alti costi di ripristino determinati
dal luogo in cui sono realizzate. Al fine di trovare la
migliore soluzione al degrado di tali sovrastrutture è
importante capire quali siano i possibili danni che esse
possono subire.
Il degrado delle pavimentazioni
Il degrado di una pavimentazione su ponte o viadotto può
dipendere sia dagli ammaloramenti che essa può subire
in funzione delle condizioni di esercizio, sia dai danni
che, sofferti dall’impalcato o – più in generale - dal
manufatto, si possono riflettere sulla sovrastruttura.
L’impalcato (in calcestruzzo o in acciaio) di un ponte,
come la struttura stessa del ponte e la pavimentazione
sovrastante, possono subire danni a causa di: degrado
fisico-meccanico-chimico determinato dall’ambiente, che
modifica la struttura dei materiali costituenti l’opera (si
pensi all’effetto dei sali disgelanti utilizzati nella stagione
invernale sulla pavimentazione stradale o delle acque
piovane che corrodono l’acciaio); sollecitazioni strutturali
non previste o eccessive (ad esempio, cicli termici,
affaticamento dei materiali, sollecitazione per carichi
continui o eccezionali, nascita di forze tangenziali tra
strati e quindi distacco di parti dell’opera); carenze
meccanico-strutturali dell’opera (ad esempio, per
spessori degli strati di pavimentazione insufficienti
rispetto ai carichi esterni, barre d’acciaio
sottodimensionate, ecc.).
Dall’impalcato o dalla struttura del ponte i danni si
propagano alla pavimentazione o viceversa. Il degrado
delle pavimentazioni stradali si manifesta attraverso
l’insorgere di fessure, avvallamenti, deformazioni
permanenti, buche, sgranamenti superficiali, che
determinano una perdita delle caratteristiche
prestazionali e di funzionalità dell’opera intera. Questi
fenomeni sono di seguito descritti, per meglio
comprendere i motivi del loro insorgere, evidenziando
separatamente i danni che si possono manifestare su
una pavimentazione stradale e quelli che si possono
formare sull’impalcato di ponte.
L’ormaiamento è uno dei più importanti tipi di danno che
si possono riscontrare su una pavimentazione di tipo
flessibile: la deformazione permanente del conglomerato
nel punto di passaggio delle ruote aumenta
gradualmente con l’accumulo dei numero di passaggi dei
carichi veicolari (Rodezno, 2005). Per ormaie si
intendono le depressioni longitudinali sul piano viabile,
normalmente accompagnate da rifluimento laterale. Le
principali cause del fenomeno di ormaiamento sono
imputabili al passaggio di mezzi commerciali, di elevato
peso, canalizzati, prevalentemente a bassa velocità,
specialmente se in presenza di elevate temperature di
esercizio. Il fenomeno si manifesta progressivamente: in
una prima fase, dopo l’apertura al traffico della strada, si
verifica un addensamento del materiale bituminoso
(processo volumetrico con saturazione dei vuoti) da parte
dei carichi concentrati veicolari; in una seconda fase, si
ha scorrimento del materiale all’interno degli strati
(processo deviatorico con riorganizzazione dello
scheletro litico). L’ormaiamento è un fenomeno da
contrastare, in quanto le depressioni ed ondulazioni del
piano viabile conferiscono alla sovrastruttura una
irregolarità superficiale, che fa progressivamente
diminuire la sicurezza di circolazione e favorisce altresì il
ristagno delle acque piovane.
La fessurazione a fatica è una delle più frequenti
tipologie di danno che si verifica nelle pavimentazioni
flessibili: l’azione ripetuta dei carichi di traffico induce
delle tensioni di taglio e di trazione negli strati legati, che
71
possono portare anche alla perdita dell’integrità
strutturale dello strato. I carichi ripetuti e la fatica danno
luogo a fessure nei punti dove si verificano tensioni e
deformazioni a trazione incompatibili con le risorse di
resistenza del materiale (Rodezno, 2005). La fatica si
manifesta con fessure localizzate che, nel tempo, si
accrescono e diffondono nello spessore dello strato e
nella superficie della pavimentazione, provocandone un
decadimento delle proprietà meccaniche e una seria
perdita di funzionalità (irregolarità, sdrucciolevolezza,
rumorosità, ecc.). Il danneggiamento per fatica si
manifesta nel medio-lungo periodo, in seguito
all’applicazione ripetuta di carichi derivanti
principalmente dal passaggio di traffico veicolare.
La fessurazione dell’impalcato è generalmente causata
dalle sollecitazioni trasmesse dal traffico e da variazioni
climatiche (di temperatura e umidità). La presenza
diventa particolarmente nociva quando gli sforzi di
trazione all’interfaccia fra strato in conglomerato
bituminoso e impalcato di calcestruzzo diventano elevati
e si creano distacchi tra i due strati (inizialmente nelle
regioni vicine ai giunti, per poi estendersi lungo tutta la
pavimentazione). Queste fessure sono la via principale
per l’infiltrazione dei cloruri (usati nei sali disgelanti o per
sciogliere la neve) e dell’acqua, che provocano la
corrosione delle armature in acciaio. La presenza di
cloro, acqua e ossigeno provoca la formazione di un
ambiente con pH elevato, che neutralizza l’equilibrio
chimico tra calcestruzzo e acciaio e causa l’ossidazione
di quest’ultimo (O’Connor e Saiidi, 1993; Xu et al.,
2009). Il prodotto della corrosione occupa un volume
maggiore rispetto a quello dell’acciaio, determinando
stati di coazione che possono portare a rotture
superficiali e alla formazione di fessurazioni nel
calcestruzzo (e poi sulla pavimentazione). Alcuni studiosi
(French et al., 1999) suggeriscono che la causa
principale della formazione di fessure sulla
pavimentazione sia da imputare alla fessurazione
trasversale dell’impalcato del ponte (per ritiro del
calcestruzzo e stress termici).
I cicli termici costituiscono un ulteriore problema per i
manufatti, a causa della dilatazione dei materiali e dei
singoli strati che compongono la pavimentazione,
essendo essi geometricamente vincolati sul manufatto;
gli stato tensionali che si ingenerano favoriscono la
formazione di fessure e la perdita di aderenza tra strati
della pavimentazione o tra la pavimentazione e
l’impalcato del ponte. La temperatura di esercizio gioca
un ruolo fondamentale, poiché al suo variare cambiano le
risposte meccaniche dei materiali. Alle basse
temperature, ad esempio, il conglomerato bituminoso
risulta maggiormente rigido e con un comportamento più
fragile, mentre alle alte temperature risulta avere un
comportamento maggiormente deformabile. L’escursione
termica giornaliera e stagionale sollecita il materiale,
portandolo a possibili fratture e contribuendo al degrado
complessivo della sovrastruttura. Un ulteriore aspetto
correlato con i cicli termici è il degrado delle strutture in
calcestruzzo provocato dal ripetersi del fenomeno di
congelamento dell’acqua che permea il calcestruzzo. Per
temperature inferiori a 0°C, infatti, l’acqua gela e
aumenta volume. Poiché la formazione di ghiaccio
avviene in modo progressivo dalla superficie verso
l’interno del calcestruzzo, si genera una pressione, che è
in grado di danneggiare la pasta cementizia
disgregandola in modo progressivo.
Ulteriore danneggiamento che interessa le strutture dei
manufatti e della pavimentazione è il degrado fisico-
chimico dovuto ad agenti esterni. I materiali porosi (come
il calcestruzzo) sono caratterizzati da un sistema di vuoti
di varie dimensioni e tra loro connessi e comunicanti con
la superficie: un materiale poroso, tramite processi di
assorbimento capillare è esposto all’attacco di agenti
chimici che possono penetrarvi. L’ingresso di umidità nel
calcestruzzo o nella pavimentazione attraverso i pori e i
successivi cicli di gelo/disgelo provocano il
danneggiamento progressivo del materiale (Nabar and
Mendis, 1997; Silfwerbrand and Paulasson, 1998).
L’attacco dei cloruri contribuisce alla corrosione delle
barre d’armatura d’acciaio e al danneggiamento del
calcestruzzo. Esso consiste in una reazione alcali-
aggregati molto dannosa, in quanto si ha un aumento di
volume del calcestruzzo con la formazione di fessure “a
ragnatela” che ne conducono alla disintegrazione
nell’arco di qualche anno, senza alcuna possibilità di
intervento. Generalmente, tale problema si verifica
quando si utilizzano inerti (come silice) che reagiscono
con gli alcali, sempre presenti nella pasta cementizia. I
sali disgelanti comunemente adottati per lo scioglimento
del ghiaccio o della neve di una pavimentazione stradale
(prevalentemente cloruro di sodio e di calcio) possono
avere effetti anche sulla pasta cementizia o sull’acciaio.
Nel primo caso, il contatto dei sali con il calcestruzzo
comporta un repentino raffreddamento della pasta
72
cementizia creando forti contrazioni e danneggiamenti
del materiale, il quale si distacca a scaglie. Per quanto
riguarda l’acciaio, invece, il contatto con i sali comporta
un’azione acceleratrice di corrosione, ammesso che ci
sia già un processo corrosivo in atto.
L’attacco solfatico avviene con la formazione di ettringite
e thaumasite, che comportando un aumento di volume,
provocano la fessurazione e il distacco del calcestruzzo.
L’attacco dell’anidride carbonica (CO2) al calcestruzzo
può avvenire secondo due tipologie: il dilavamento e la
carbonatazione. Il dilavamento si presenta come una
rimozione parziale della pasta cementizia superficiale in
seguito al passaggio di acqua. Il fenomeno è rilevante
quando il calcestruzzo di trova a contatto con acque
caratterizzate da bassa durezza o in caso di clima umido
a contatto con l’atmosfera. La carbonatazione è un
fenomeno dovuto alla diffusione dell’anidride carbonica
attraverso i pori e le fessure ed è fortemente accentuato
in zone ad alto inquinamento atmosferico. Conseguenza
a livello chimico è la formazione di carbonato di calcio
(CaCO3), il quale neutralizza la calce presente nel
calcestruzzo abbassandone il pH. L’abbassamento del
pH della pasta cementizia elimina le condizioni di
passività delle barre d’armatura dell’acciaio, con
conseguente possibilità di innesco dei fenomeni di
corrosione.
Nelle strutture in acciaio, il processo di corrosione indica
una lenta, ma progressiva consumazione del materiale, e
ha come conseguenza la riduzione della sua sezione
resistente e quindi un peggioramento delle caratteristiche
meccaniche. Affinché venga innescato un processo
corrosivo devono essere presenti contemporaneamente
ferro, ossigeno e acqua. È evidente che la condizione
peggiore per l’innesco e la propagazione della corrosione
si ha quando la struttura è soggetta ad una situazione
caratterizzata da asciutto-bagnato (o ad alti tenori di
umidità) poiché favorisce, seppur in tempi diversi, sia
l’ingresso dell’acqua che dell’ossigeno. La principale
conseguenza strutturale della corrosione nelle strutture in
calcestruzzo armato è la riduzione della sezione
resistente delle barre di armatura d’acciaio, con
conseguente riduzione della resistenza complessiva
della struttura. Altre conseguenze, non meno importanti
sono: riduzione di aderenza tra armature e calcestruzzo
fino ad arrivare alla perdita di ancoraggio, fessurazione
del copriferro con distacchi di pasta cementizia,
cedimenti improvvisi per corrosione sotto sforzo.
5.3 LO STATO DELL’ARTE SULLE PAVIMENTAZIONI SU IMPALCATO DA PONTE
La ricerca sulle pavimentazioni polimeriche
Note le modalità con cui si danneggiano pavimentazione
e impalcato, i problemi da affrontare sono
essenzialmente due: garantire la durabilità delle opere
d’arte (impalcato, struttura del ponte e pavimentazione) e
poter effettuare idonea manutenzione su strutture
costruite in anni passati. Infatti, i ponti stradali in Italia
sono stati costruiti, per la maggior parte, durante gli anni
‘50 e ‘60, spesso con modalità ben diverse dalle tecniche
odierne. I problemi connessi con la durabilità dei ponti e
con la previsione del degrado fisico rivestono, quindi, un
ruolo centrale nella ricerca del settore. In Italia, queste
tematiche sono state ampiamente studiate, come si
evince dall’ampia letteratura (Modena e Siviero, 1992;
Mancino e Pardi, 1994; Mitelli et al., 1994; Ascenzi et al.,
1995; Migliacci, 1999). Negli studi eseguiti si è cercato di
distinguere tra problemi di inadeguatezza strutturale
inficianti la “vita utile” dell’opera e situazioni di
inadeguatezza funzionale in opere strutturalmente sane,
ma non rispondenti alle esigenze di utilizzo, sempre
analizzando i fattori che ne influenzano e favoriscono il
deterioramento (vita trascorsa, ambiente e traffico).
La pavimentazione, come parte integrante della struttura
del ponte, ha bisogno anch’essa di svolgere una
funzione durevole nel tempo, senza richiedere
significativa manutenzione durante la sua vita utile.
Poiché le pavimentazioni su impalcati da ponte devono
mantenere buone proprietà meccaniche, in termini di
portanza, resistenza alle deformazioni ed ai carichi
ripetuti, ed elevate caratteristiche superficiali, è
necessario studiare soluzioni che ottimizzino tali
proprietà, conferendo una vita utile prolungata. E’ altresì
necessario studiare materiali che si prestino a svolgere
una funzione manutentiva per le pavimentazioni in
esercizio.
In letteratura (e nella pratica costruttiva) si riscontrano
molteplici alternative studiate per offrire un rivestimento
carrabile e impermeabilizzante su un impalcato di ponte
o viadotto:
- strato/i in conglomerato bituminoso (con bitume
tradizionale o modificato) sovrapposti a guaine,
geotessuti o geomembrane;
73
- strato/i in conglomerato bituminoso stesi su mano
d’attacco in malta bituminosa o emulsione
bituminosa;
- strato in calcestruzzo armato;
- strato/i in conglomerato cementizio a base polimerica;
- strato/i in malta sintetica a base polimerica.
Come indicato, sugli impalcati da ponte sono state
sperimentate molte tipologie di pavimentazioni:
conglomerati bituminosi con gomma (Rodezno, 2005),
conglomerati bituminosi modificati con polimeri, calcestruzzi,
calcestruzzi modificati con polimeri, pavimentazioni
polimeriche (Pasetto e Giacomello, 2014).
I polimeri utilizzati come leganti al posto del cemento
apportano non solo un miglioramento alla resistenza
della miscela, ma anche un aumento della durabilità,
della resistenza alla fessurazione e agli attacchi chimici
(Chang, 1975).
Le soluzioni “tradizionali” utilizzate in passato si sono
basate principalmente sull’applicazione di una guaina
bituminosa sulla sottostante soletta, in modo da
assolvere la funzione di impermeabilizzazione
dell’impalcato. Secondo alcuni Autori, la posa di una
membrana impermeabilizzante tra l’estradosso della
soletta in calcestruzzo e lo strato di conglomerato
bituminoso della pavimentazione è necessaria per
aumentare la resistenza all’acqua della struttura e
apportare un’adeguata adesione all’interfaccia tra gli
strati (Zhou and Xu, 2009). Al di sopra della guaina sono
posati due o tre strati di conglomerato bituminoso per
ridurre lo stato tensionale indotto dai carichi del traffico e
le sollecitazioni trasmesse al calcestruzzo. Il
conglomerato bituminoso è caratterizzato da un
comportamento meccanico di tipo visco-elasto-plastico
dettato dalle temperature e dalle modalità di
sollecitazione. I benefici correlati col suo impiego sono
diversi: facilità di stesa, facilità di rimozione in sede di
manutenzione, riduzione della permeabilità (il bitume non
è un materiale idrofilo), peso relativamente ridotto,
conferimento di eccellente resistenza allo scivolamento,
buona macrotesssitura della pavimentazione, possibilità
di manutenzione con un ulteriore strato di conglomerato
bituminoso di modesta entità (Cooley, 2001; Hanson,
2001). Spesso si utilizzano spessori contenuti per la
costruzione di pavimentazioni in conglomerato
bituminoso, ciò che oramai è consolidato nella tecnica
comune (Hanson, 2001).
Altri Autori suggeriscono di usare conglomerati
bituminosi il cui bitume sia stato modificato con l’aggiunta
di SBS (copolimero stirene-butadiene-stirene): le prove di
ormaiamento condotte hanno indicato che conglomerati
bituminosi tradizionali subiscono una deformazioni
maggiore di quelli modificati con SBS (Park et al., 2009).
L’utilizzo di pavimentazioni in conglomerato bituminoso
presenta però anche alcuni svantaggi: il frequente
distacco della pavimentazione dall’estradosso della
soletta del ponte o viadotto, la scarsa
impermeabilizzazione del supporto in calcestruzzo
(favorendo il passaggio di acqua e sali disgelanti).
Inoltre, è verificato che la pavimentazione in
conglomerato bituminoso tende a perdere in una decina
di anni le sue caratteristiche superficiali (soprattutto in
termini di aderenza), ed è soggetta a distaccarsi
dall’impalcato. Per questo motivo, taluni Autori
suggeriscono, per la finitura carrabile dei manufatti
stradali, l’uso di materiali meno costosi e che possano
durare maggiormente nel tempo: resine epossidiche,
calcestruzzo, calcestruzzo modificato con latex (Babaei
and Hawkins, 1988). Esperienze nordamericane
(Tennessee, USA) riferiscono di (Knight et al., 2004):
1) strati in conglomerato bituminoso (80 mm circa) posti
sopra ad una membrana (in gomma, in fibra di vetro,
in bitume o in poliestere);
2) uno strato in calcestruzzo Portland in cui vengono
inserite barre longitudinali e trasversali d’acciaio di
rinforzo (114 mm circa);
3) uno strato in calcestruzzo non rinforzato modificato
con una miscela di polimeri (38 mm circa);
4) uno strato sottile di legante polimerico (a base
epossidica o cementizia) soggetto ad applicazione
meccanica superficiale degli aggregati (6 mm circa).
Alcuni ricercatori (Sprinkel, 1984; O’Connor and Saiidi,
1993; Pasetto et al., 2000; Sprinkel, 2001; Stenko, 2001)
consigliano la stesa di una miscela di polimeri (leganti
epossidici o di altra natura chimica) e di aggregati (la cui
tipologia varia a seconda dell’Autore). Altri ricercatori
suggeriscono che la buona tenuta di una pavimentazione
su impalcati in calcestruzzo sia da imputare alla rugosità
del supporto, con ciò concentrando la ricerca su tecniche
di finitura superficiale di quest’ultimo (Silfwerbrand e
Paulasson, 1998). In qualche caso, la tenuta dello strato
superficiale, sia esso una miscela polimerica o un
conglomerato, è fatta dipendere essenzialmente dalla
74
presenza di un sottile strato che impermeabilizzi il
supporto (in resina epossidica o metacrilato) (Gillum et
al., 2001). Rimane di largo utilizzo (Donovan, 2000) la
stesa sul calcestruzzo di una mano d’attacco a matrice
bituminosa su cui viene posata una membrana
geocomposita, e, successivamente, sono posati uno o
più strati in conglomerato bituminoso. Anche in Italia è
stata studiata la posa, su pavimentazioni in conglomerato
bituminoso o cementizio, di un sottile strato di malte
polimeriche per irruvidire la superficie e ottenere una
buona aderenza tra pavimentazione e pneumatico con
buoni risultati (Pasetto e Zanutto, 1999).
Le realizzazioni di pavimentazioni polimeriche
Svariate sono le applicazioni di rivestimenti polimerici
sottili per impalcati da ponte avvenute sino ad oggi,
soprattutto nel Nord America. Un’indagine del 2011,
realizzata dal National Cooperative Highway Research
Program (NCHRP) su 40 stati degli USA e diverse
province del Canada, ha quantificato in 2.400 il numero
di applicazioni. Solo una minima parte è stata però
oggetto di indagine circostanziata. Si citano alcune
applicazioni note, di cui sono conosciuti i risultati.
Nel 1977, il ripristino delle corsie di accesso ai caselli
dell’Aeroporto di Newark ha consentito di mettere a
confronto rivestimenti polimerici sottili applicati a lastre di
calcestruzzo per pavimentazioni rigide. Pur non
trattandosi di interventi su ponti o viadotti, si è potuta
accertare la compatibilità fra calcestruzzo delle
pavimentazioni e il rivestimento polimerico. L’indagine ha
riguardato corsie adiacenti, soggette alla stessa tipologia
di traffico (veicoli pesanti ed autobus). In un caso è stata
ricostruita una pavimentazione rigida di ottima qualità
(resistenza a compressione 41 MPa); per la vicina corsia,
la pavimentazione esistente non è stata rimossa,
nonostante fosse particolarmente degradata e segnata
dalle ruote veicolari. In quest’ultima, soggetta a
preventiva sabbiatura, è stato applicato un rivestimento
polimerico sottile, costituito da resina epossidica, in
quantità pari al 14% in peso, e aggregati silicei. Sul
supporto è stato spruzzato preventivamente un primer,
per uno spessore di 0,25 mm. Lo spessore complessivo
medio del rivestimento ha raggiunto i 16 mm. Il tempo
necessario a rendere transitabile la corsia con la
pavimentazione rigida è stato di circa 7 giorni, mentre il
rivestimento polimerico era già utilizzabile dopo 4 ore,
ma è stato reso carrabile per motivi precauzionali solo
dopo 24 ore. Dopo 6 anni (97 milioni di passaggi
veicolari) si è verificato che il rivestimento polimerico
sottile risultava assolutamente indenne da degradi,
mentre la pavimentazione rigida presentava segni di
danno, fra cui ormaie fino a 19 mm e scivolosità. Dopo
15 anni (243 milioni di veicoli), il rivestimento polimerico
sottile era ancora in buone condizioni e in grado di
proteggere il supporto, nonché di fornire la richiesta
antisdrucciolevolezza, sia in caso di asciutto che in
presenza d’acqua. L’entità del degrado superficiale in
corrispondenza delle traiettorie degli pneumatici risultava
al più di 3 mm.
Il Donner Pass è una superstrada a 4 corsie, realizzata in
California ad un’altitudine di circa 1900 m, con pendenze
variabili dal 5% all’8%, soggetta a fortissime
precipitazioni piovose e nevose nell’arco dell’anno,
nonché ad un traffico giornaliero medio di 9.750 veicoli
(10% pesanti). La pavimentazione realizzata nel 1962, in
calcestruzzo non armato, a distanza di 20 anni appariva
fortemente danneggiata. Il California DoT stabilì allora di
sperimentare materiali diversi per il suo rifacimento,
utilizzando calcestruzzi ad elevata densità e basso
slump, calcestruzzi modificati con lattici o resine,
conglomerati polimerici epossidici, metacrilici, di
poliestere. Fra questi, la scelta ricadde infine su due
miscele polimeriche basate su due diverse resine di
poliestere, una con resistenza a trazione di 17 MPa ed
un allungamento del 35%, l’altra con resistenza a
trazione di 55 MPa ed un allungamento del 5%. Gli
aggregati, di frantumazione solo per il 25%, avevano
dimensione massima di 12 mm. La superficie fu
preparata con shotblasting e successiva applicazione di
un primer di metacrilato ad alto peso molecolare. I
rivestimenti sono stati quindi completati nel 1986, con
uno spessore medio di 19 mm per una lunghezza di circa
6 km. Pur in assenza di indagini successive ad hoc, dieci
anni più tardi l’intervento veniva dichiarato “molto
riuscito”, presentando una eccellente resistenza nei
confronti degli agenti atmosferici, dei cicli termici, delle
azioni di catene da neve, sali disgelanti e lame
spazzaneve.
Nel 1987, in Virginia (USA), è stato effettuato uno studio
su 18 rivestimenti realizzati con il metodo “multistrato” e
un rivestimento monostrato. Le resine utilizzate erano del
tipo poliestere, metacriliche, epossidiche. Sono stati
analizzati l’adesione dei rivestimenti agli impalcati, la
permeabilità ai cloruri e il degrado superficiale. Quanto
75
all’adesione, dalle prove effettuate si è evidenziata una
diminuzione della tenacità del legame tra il conglomerato
polimerico ed il calcestruzzo con il passare del tempo. Le
prove di adesione a rivestimento appena posato hanno
portato alla rottura del sottostrato di calcestruzzo. Le
stesse prove, svolte con il passare del tempo, hanno
dimostrato, invece, come la superficie di rottura tenda ad
avvicinarsi all’interfaccia tra i due materiali e talvolta ad
interessarla. Va però osservato che, in tutte le
applicazioni nelle quali il traffico veicolare è stato
consentito sull’impalcato dopo la sua preparazione e
prima della posa del rivestimento, la capacità di
quest’ultimo di aderire al supporto è stata sempre molto
bassa.
I rivestimenti basati su resine epossidiche hanno
mostrato una permeabilità trascurabile immediatamente
dopo l’indurimento, ed essa si è mantenuta anche per
gran parte della vita utile. Resine diverse come quelle di
poliestere o metacriliche hanno invece mostrato con il
tempo incrementi moderati di permeabilità, pur di lieve
entità. I rivestimenti hanno anche mostrato un’ottima
resistenza al consumo superficiale, indipendentemente
dalla resina adoperata.
Nel 1990 è stato effettuato uno studio in Giappone sui
rivestimenti polimerici sottili, dopo aver accertato che i
conglomerati bituminosi modificati o le malte sintetiche
flessibili a base epossidica risultavano inadeguati a far
fronte ai problemi delle pavimentazioni sottoposte a climi
rigidi e fenomeni di degrado. Si è adoperata, quindi, una
malta sintetica a base di resina metacrilica che, rispetto
al calcestruzzo ordinario, ha superiore peso specifico,
resistenza a compressione pressoché doppia, ridotta
attitudine alla formazione di fessure, modulo elastico
minore e superiore lavorabilità. Due siti sono stati scelti
per l’applicazione, aventi caratteristiche particolarmente
aggressive nei confronti delle pavimentazioni: la strada
Nagano-Gunma, in area montuosa tra 600 e 900 m di
altitudine; il collegamento Tokyo- Aichi, che si sviluppa
ad una altitudine media di 900 m. Nel primo caso, la
pavimentazione di calcestruzzo esistente si presentava
molto degradata (ormaie di 40 mm) a causa dell’azione
di pneumatici chiodati o catene da neve, specialmente
nelle zone sottoposte a frenatura dei veicoli. Nel 1988 il
rivestimento di malta sintetica è stato posato previa
preparazione della superficie ed utilizzo di un primer. Nel
1990 il primo sopralluogo ha rivelato l’assenza di degradi
significativi o di distacchi del rivestimento dal sottostrato.
La massima profondità del degrado riscontrata è stata di
21 mm. Il secondo sopralluogo, avvenuto nel 1995, ha
poi mostrato che non vi erano stati significativi
cambiamenti nello stato di conservazione del
rivestimento rispetto a 5 anni prima.
Nel secondo caso, l’entità del degrado della
pavimentazione esistente era leggermente inferiore
rispetto al precedente, ma vi era comunque la necessità
di realizzare un rivestimento durevole, posato nel 1991
con modalità analoghe a quelle già descritte. Una prima
ispezione nel 1993 ha certificato come la malta
polimerica non mostrasse praticamente segni di
logoramento, essendo la massima profondità di degrado
superficiale di 1 mm. Anche la seconda ispezione,
avvenuta nel 1995, ha portato a concludere che non vi
erano state significative variazioni nei due anni trascorsi.
A partire dal 1990, in Italia, alcuni tratti particolari della
rete autostradale sono stati trattati con un nuovo
materiale, allo scopo di incrementare le prestazioni e la
sicurezza di marcia delle pavimentazioni rigide e
flessibili. Si è adoperata una resina epossidica abbinata
ad aggregati sintetici (cromite), di pezzatura 3-4 mm,
fortemente spigolosi, con alta resistenza all’abrasione e
un basso indice di frantumazione. Il metodo di
applicazione è risultato monostrato, con spessore
complessivo della resina di 0,9 mm ed aggregati immersi
in esso per un terzo della loro altezza.
Relativamente alla tessitura, le misurazioni effettuate
hanno mostrato una iniziale diminuzione del BPN verso
valori comunque molto buoni (65-70), che si sono
successivamente mantenuti anche oltre la vita utile del
prodotto. Altra caratteristica positiva del rivestimento è
risultata la sostanziale insensibilità ai più diffusi agenti
chimici (inclusi solventi e carburanti), l’ottima capacità di
proteggere i sottostrati, la grande capacità drenante.
Quest’ultima, dovuta al fatto che la superficie finita
presentava un elevato numero di microcanalicoli che
permettevano un velocissimo deflusso dell’acqua tra
superficie e battistrada degli pneumatici (la capacità
drenante di questi rivestimenti risultava 4-8 volte
superiore a quella delle superfici bituminose tradizionali).
Il Poplar Street Bridge di St. Louis nel Missouri è un
ponte di 660 m, a cinque campate, con 4 corsie per
direzione di marcia, che attraversa il fiume Mississippi ed
è percorso da un traffico giornaliero medio di circa
120.000 veicoli. La struttura è del tipo “a lastra ortotropa”,
con impalcato in acciaio. Costruito nel 1967, ha sempre
76
avuto come rivestimento carrabile bituminoso additivato
con gomma, che però è stato continuamente ricostruito,
mediamente ogni 6 anni. Nel 1992, dopo test di
laboratorio su 6 materiali diversi, un rivestimento basato
su resina epossidica è stato posato su circa 21.000 m2
con metodo “slurry”. Successivamente alla posa,
annualmente, è stato realizzato un programma di
ispezione, volto ad analizzare l’evolvere dello stato
superficiale del rivestimento, della presenza di fessure,
dell’adesione del rivestimento al sottostrato. Dopo 8 anni,
di servizio il rivestimento si è dimostrato essere ancora in
ottime condizioni, con poche fessure (localizzate in zone
di saldatura) coprenti un’area pari allo 0,5% del totale.
Nella provincia canadese di Alberta, fino al 1985, i
rivestimenti per impalcati da ponte erano realizzati con
calcestruzzo ad elevata densità. Questi rivestimenti,
tuttavia, non proteggevano adeguatamente gli impalcati
(per lo più in acciaio), che in taluni casi si degradavano
molto rapidamente nonostante la ridotta età. Nel 1985 è
avvenuta la sperimentazione di rivestimenti polimerici
sottili. In dieci anni ne sono stati posati più di cento,
molto spesso al di sopra dei rivestimenti precedenti. Le
maggiori problematiche riscontrate hanno riguardato il
costo delle resine, la difficoltà di realizzare le miscele e le
applicazioni, e la loro compatibilità con il calcestruzzo.
Nel 1990, della superficie totale di 22.000 m2 interessata
da rivestimenti polimerici sottili, solo lo 0,6% presentava
distacchi. Nel 1995 questa percentuale giungeva al 2%,
quando l’età media dei rivestimenti era di 9 anni. Dati
ricavati da un gruppo di trattamenti di età compresa tra 5
e 7 anni hanno permesso di constatare come il
deterioramento per corrosione del sottostrato sia assai
ridotto. Dall’esperienza maturata, è emersa la
convenienza delle riparazioni delle fessure presenti
sull’impalcato prima della posa del rivestimento
polimerico sottile. Un’ulteriore indicazione emersa è
quella di realizzare i rivestimenti polimerici il più possibile
sottili: il fallimento delle applicazioni è risultato molto
superiore, frequente e rapido per i rivestimenti spessi,
perché le sollecitazioni indotte dalle variazioni di
temperatura all’interfaccia tra i due materiali, nonché nei
materiali stessi, sono proporzionali allo spessore del
rivestimento. Infine, da questa esperienza è emerso
anche il fatto che l’uso di uno strato isolante posto al di
sopra dei rivestimenti polimerici permette di aumentare la
vita utile degli stessi con una spesa molto bassa.
M. Sprinkel nel 1997 ha pubblicato un articolo nel quale è
riassunta l’esperienza accumulata con l’analisi
prolungata nel tempo di 14 rivestimenti polimerici sottili
realizzati in California, Michigan, Ohio, Virginia e
Washington. Valutazioni sono state effettuate in merito al
legame tra rivestimento e sottostrato, alla permeabilità
dei materiali ai cloruri, alla tessitura, con il passare del
tempo. Quanto all’adesione tra resina ed impalcato, non
è stata individuata una significativa riduzione nel tempo
per i multistrato di resina epossidica o per le malte con
resine poliestere. I multistrato con resina di poliestere
hanno mostrato peggioramenti evidenti di prestazioni in
10 anni.
Lo studio identifica come miglior prodotto, in termini di
permeabilità, la malta con resina metacrilica, ma valori
positivi sono associati anche agli altri rivestimenti. Solo il
multistrato di resina di poliestere ha mostrato un
aumento di permeabilità nel tempo.
Per quanto riguarda la tessitura superficiale, invece, tutti i
rivestimenti, eccetto quello basato su resina metacrilica,
hanno mostrato buone prestazioni e una discreta
attitudine a mantenere le caratteristiche funzionali nel
tempo.
La durabilità, infine, è risultata paragonabile, quando non
superiore, a quella di una pavimentazione in calcestruzzo
ordinario (vita utile di 20 anni).
Nello stato del Missouri più di trecento rivestimenti
polimerici sottili sono stati posati dal 1989. Alcuni di
questi hanno superato senza problemi la prevista vita
utile anche di 10-15 anni, mentre altri hanno dovuto
essere sostituiti dopo appena qualche anno. Lo studio
pubblicato nel 2007 dal Missouri DoT ha riassunto gli
esiti dell’indagine eseguita, col fine di appurare i
fenomeni di degrado dei rivestimenti polimerici e di
individuarne le cause. Tra i più diffusi fenomeni di
ammaloramento registrati, si sono avuti il degrado
superficiale, le fessurazioni, i distacchi dall’impalcato di
porzioni più o meno estese di rivestimento. Fra le cause
più importanti di danno individuate, la presenza d’aria
nella miscela, causata da una errata tecnica di
miscelazione della resina con l’induritore o della resina
con l’aggregato. Fondamentale il buono stato di
conservazione dell’impalcato, dato che il rivestimento
non è una tecnica di manutenzione, quanto piuttosto una
tecnica di protezione. Lo studio ha anche evidenziato
una relazione tra la fessurazione dei rivestimenti e la
dimensione della luce dei ponti. Una luce di dimensioni
77
maggiori infatti, portando con sé maggiore flessibilità
rispetto ad una più piccola, può creare problemi
soprattutto alle resine più rigide. Per questi motivi, lo
studio ha concluso che un rivestimento polimerico sottile
può avere successo solo se l’impalcato, prima della
posa, richiede riparazioni per non oltre il 5% della sua
superficie.
Sette stati americani (Vermont, Wisconsin, Idaho, New
York, Mississippi, Minnesota, North Dakota, Kentucky)
hanno introdotto, a partire dal 2009, l’uso di rivestimenti
polimerici sottili per la difesa dal ghiaccio nei climi rigidi.
La particolarità dell’applicazione consiste nel brevetto di
un prodotto a base di resina epossidica, in grado di
accumulare sostanze anti-ghiaccio negli aggregati per
poi rilasciarle quando necessario; in tal modo, la
distribuzione di sali disgelanti sulla superficie non è più
necessaria. Il trattamento sostituisce una tipologia di
rivestimento precedente, a base epossi-uretanica con
aggregati quarziferi. Due ponti, con similari
caratteristiche di traffico e sottoposti alle medesime
condizioni ambientali, sono stati scelti in Colorado per
svolgere un test comparativo dei due rivestimenti (traffico
giornaliero medio di 125.000 veicoli). Sull’impalcato
rivestito con resina epossi-uretanica è stato realizzato un
sistema automatico di distribuzione di sostanze
disgelanti.
Quanto alla macrotessitura, il test dell’altezza di sabbia
ha mostrato per il primo prodotto un decadimento di
caratteristiche nei primi 8 mesi di vita, che poi si
stabilizza su un valore di 25 mm, superiore a quello di un
analogo rivestimento in calcestruzzo; nel secondo
trattamento sono stati raccolti solo dati parziali,
comunque con evidenza di tessitura grossa. Per quanto
riguarda l’antisdrucciolevolezza, misurata attraverso lo
skid number, i risultati sono stati molto buoni per
entrambi i rivestimenti, sempre superiori a 35, limite
considerato accettabile dai gestori stradali.
I test di adesione fra rivestimento e supporto, effettuati
dopo due anni dalla posa dei rivestimenti, hanno fornito
risultati positivi nel primo caso, talora negativi nel
secondo (ma forse per errori di realizzazione). I due
sistemi sono apparsi sostanzialmente equivalenti in
termini di permeabilità, denotando di essere ugualmente
validi per proteggere il calcestruzzo d’impalcato e le
barre d’armatura.
Le proprietà anti-ghiaccio si sono dimostrate molto valide
per entrambi i rivestimenti, con la distinzione che il primo
trattamento non necessita di applicazione di sali
disgelanti da parte dell’ente gestore; il secondo materiale
non ha particolari proprietà anti-ghiaccio, per cui la
necessaria contestuale installazione di un sistema
automatico di distribuzione di sostanze disgelanti si rivela
provvedimento valido, ma anche molto costoso (incide
per una quantità pari a due volte il costo del primo
prodotto). Entrambi i rivestimenti hanno comunque
incrementato la sicurezza di circolazione stradale, con il
drastico calo del numero di incidenti.
5.4 RICERCHE RECENTI SULLE IMPERMEABILIZZAZIONI TRAFFICABILI PER IMPALCATO DA PONTE
Introduzione
In tempi recenti, l’attenzione dei costruttori di manufatti
stradali e dei ricercatori del settore si è concentrata sulla
possibilità di realizzare pavimentazioni per ponti e
viadotti con materiali polimerici. Questi materiali, già
utilizzati in campo stradale per impermeabilizzare le
superfici, non sono ancora molto usati per creare
pavimentazioni carrabili. Pertanto, si è valutata la
possibilità di realizzare la pavimentazione con un unico
strato di “usura” in materiale polimerico, di limitato
spessore, al quale viene affidata la funzione di offrire una
superficie con adeguate caratteristiche di aderenza e
regolarità, essenziali per il moto in condizioni di sicurezza
e confortevolezza, assolvendo, al contempo, il ruolo di
sistema impermeabilizzante per l’impalcato.
Il conglomerato polimerico consiste in un miscela di
elementi lapidei e di legante polimerico. A seconda della
tipologia di polimero di base e del metodo di
polimerizzazione, degli altri elementi introdotti in miscela,
della tipologia di aggregato e della relativa distribuzione
granulometrica, nonché del rapporto quantitativo
legante/aggregato, si possono ottenere un’infinità di
combinazioni di miscele, caratterizzate da proprietà
estremamente diversificate. Il risultato di un mirato mix-
design è l’ottenimento di un materiale che possa
adattarsi in modo efficace alla specifica applicazione per
la quale è stato pensato. Col mix-design, attraverso
prove sperimentali, si effettua una caratterizzazione
fisico-meccanica delle miscele più diverse.
Il quadro normativo per la progettazione e il
confezionamento dei materiali, e per l’esecuzione delle
prove sperimentali è assente, in quanto i materiali a base
polimerica risultano essere scarsamente impiegati in
78
ambito stradale italiano. Pertanto, il primo passo per una
caratterizzazione di laboratorio del materiale è lo studio
di un protocollo per la realizzazione e il confezionamento
dei campioni, che possa risultare il più affidabile possibile
e che garantisca il confezionamento di materiali
omogenei dal punto di vista chimico, fisico e meccanico.
Le attività di ricerca sono naturalmente indirizzate verso
la definizione di parametri rappresentativi del
comportamento meccanico complessivo dei materiali: la
resistenza a sollecitazioni statiche e dinamiche, la
risposta ai carichi ripetuti, l’attitudine alle deformazioni
permanenti, la tessitura, le caratteristiche di aderenza,
l’adesione del materiale al supporto in calcestruzzo, la
dilatazione termica del materiale. L’attività sperimentale è
finalizzata a simulare i meccanismi di danneggiamento
del materiale in opera, confrontandone le prestazioni con
quelle di un conglomerato bituminoso tradizionalmente
impiegato. In un’epoca in cui il riutilizzo dei materiali di
scarto assume rilevante importanza, appare altresì
orientare le applicazioni verso l’impiego di inerti
succedanei, sottoprodotti di lavorazioni industriali, quali
scorie di acciaieria, materiale da costruzione e
demolizione, ecc., con cui sostituire l’aggregato naturale,
a parità di prestazioni accertate.
I polimeri e il conglomerato polimerico
Le applicazioni effettuate e la letteratura raccontano di
studi in cui sono state utilizzate diverse tipologie di
polimeri o resine sintetiche, quali le resine metacriliche,
epossidiche, poliuretaniche e poliestere, in sostituzione
del legante bituminoso, per la realizzazione della
pavimentazione su impalcati di manufatti stradali. La
maggior parte di questi leganti ha un comportamento
termoindurente: all’aumentare della temperatura il
reticolo di molecole che si crea durante l’indurimento si
perfeziona, formando ulteriori reticoli. In questo risiede la
principale differenza di tali leganti rispetto al bitume che
tende, invece, a rammollire al crescere della
temperatura. Questa proprietà è stata ottimizzata negli
impieghi e negli studi alle temperature più elevate, in
corrispondenza delle quali si correrebbero rischi di
scorrimento e trasudazione del legante.
I polimeri sono sostanze formate da molecole organiche
molto grandi (macromolecole) derivanti dall’unione,
mediante legami chimici, di piccole unità, chiamate
monomeri, dotate di un più basso peso molecolare. Il
comportamento del sistema, la cui struttura ricorda un
aggrovigliamento di “fili”, sotto una sollecitazione esterna
è caratterizzato dall’impedimento, causato
dall’aggrovigliamento dei “fili”, di far seguire alla massa le
deformazioni imposte senza opporre resistenza.
La classificazione dei polimeri richiede, per essere
descritta in modo non dispersivo, a causa dell’enorme
quantità di polimeri attualmente conosciuti, una qualche
forma di sistematizzazione. La vasta eterogeneità degli
interessi applicativi legati ai polimeri porta però a
classificazioni differenziate a seconda dello scopo di
analisi. Ad esempio, i chimici sono maggiormente
interessati ad una classificazione dei polimeri in base alle
loro proprietà chimiche, mentre gli ingegneri sono
maggiormente interessati ad una classificazione in base
alle loro proprietà fisico-meccaniche. In linea generale, i
polimeri possono essere classificati a seconda delle
materie prima dalle quali provengono o a seconda di una
loro propria caratteristica.
I polimeri possono essere suddivisi in naturali organici,
artificiali e sintetici. I polimeri naturali organici (o
biopolimeri) sono prodotti da esseri viventi o si trovano
semplicemente in natura (cellulosa, caucciù, amido,
ecc.); i polimeri artificiali sono ottenuti da una modifica di
polimeri naturali (acetato di cellulosa, ecc.); i polimeri
sintetici sono ottenuti industrialmente attraverso una
polimerizzazione artificiale (nylon, gomma vulcanizzata,
Kevlar, resine epossidiche, PVC, …).
Esiste anche una classificazione secondo il processo di
polimerizzazione con il quale avviene la produzione:
polimeri in addizione e polimeri in condensazione. I primi
presentano l’unità strutturale (o un suo multiplo)
coincidente con il monomero di partenza e il peso
molecolare è semplicemente la somma dei pesi
molecolari dei monomeri presenti in catena. I polimeri in
condensazione presentano l’unità strutturale con qualche
atomo in meno rispetto al monomero (o monomeri) di
partenza, in quanto la concatenazione dei monomeri di
partenza è una reazione chimica che porta, come
inevitabile sottoprodotto, alla formazione di una molecola
piccola che viene poi eliminata.
Una classificazione secondo la struttura suddivide i
polimeri in lineari, ramificati o reticolati. I polimeri lineari
sono formati da lunghe catene più o meno raggomitolate;
i polimeri ramificati sono dotati di catena principale dalla
quale partono ramificazioni laterali; i polimeri reticolati
sono dotati di più catene connesse chimicamente
attraverso le ramificazioni laterali. Le diverse strutture
79
influenzano le proprietà dei materiali (i polimeri lineari, ad
esempio, sono solubili e rammolliscono all’aumentare
della temperatura fino ad arrivare allo stato liquido,
mentre quelli reticolati sono insolubili e infusibili), inoltre
la diversa struttura molecolare implica differenti proprietà
macroscopiche (la mobilità molecolare, e quindi
l’elasticità del materiale, si riduce drasticamente
passando da polimeri lineari a polimeri reticolati).
Classificando le caratteristiche dei materiali che hanno
origine dai polimeri si hanno: gomme, materie plastiche e
fibre. Le gomme sono caratterizzate da bassi moduli di
rigidezza e grandi deformazioni anche sotto l’azione di
modeste sollecitazioni. Le materie plastiche hanno
modulo di rigidezza e carico di rottura più alto delle
gomme; alcune sono dure, rigide, stabili mentre altre
sono più tenere e flessibili. Le fibre sono le più forti tra i
materiali polimerici. Tra i polimeri naturali troviamo fibre
di origine animale (lana, seta, …) e vegetale (cotone, …).
Le fibre sintetiche vengono preparate mediante un
processo di estrusione accoppiato ad uno di trazione.
Seguendo il comportamento dei polimeri al variare della
temperatura si può eseguire una classificazione fra
termoplastici o termoindurenti. I polimeri termoplastici
(struttura molecolare lineare) rispondono ad un aumento
di temperatura con una diminuzione di viscosità, mentre
la diminuzione di temperatura consente il “congelamento”
della situazione molecolare garantendo al materiale di
mantenere l’ultima forma assunta per un tempo
indefinito. Entro certi limiti, il ciclo riscaldamento-
raffreddamento può essere ripetuto più volte, in quanto la
transizione tra lo stato plastico e quello rigido (transizione
vetrosa) è di carattere fisico e non chimico e quindi
reversibile. I polimeri termoindurenti (struttura molecolare
tridimensionale) hanno un comportamento diverso: il
riscaldamento produce un indurimento del materiale
dando origine a polimeri reticolati. La reticolazione blocca
irreversibilmente la mobilità molecolare e quindi questi
materiali, una volta sagomati, non sono più suscettibili di
modifiche e diventano praticamente insensibili alle
variazioni termiche. Iniziano però a decomporsi, senza
passare per alcuna fase di rammollimento o fusione se
viene somministrata una quantità di calore molto elevata.
Esistono anche polimeri termoindurenti a freddo, i quali
sono caratterizzati da una reticolazione per reazione
chimica che avviene a temperatura ambiente: questa
tipologia presenta il medesimo comportamento chimico e
meccanico dei polimeri termoindurenti che necessitano di
calore per innescare la polimerizzazione.
Nel caso specifico di realizzazione di una
pavimentazione stradale con materiali a matrice
polimerica, le resine termoindurenti maggiormente
utilizzate sono: resine epossidiche, resine poliesteri
insature, resine metacriliche e resine poliuretaniche.
1) Le resine epossidiche sono un’importante classe di
materiali polimerici, caratterizzati dalla presenza di
due o più gruppi epossidi. Il principale utilizzo delle
resine epossidiche risiede nel campo dei rivestimenti,
per le elevate doti di flessibilità, adesione, resistenza
chimica e meccanica del materiale. Le resine
epossidiche sono costituite da due componenti (A e
B) che miscelati tra loro producono un polimero
chiamato sistema epossidico. A rigore, il componente
A è la vera resina epossidica e può essere modificato
con molti tipi di additivi, a seconda delle proprietà
meccaniche che si vogliono ottenere (fluidità,
rigidezza, flessibilità, …). Il componente B è chiamato
induritore o catalizzatore (generalmente ammine,
anidridi e aldeidi) e può essere modificato con un
additivo accelerante di indurimento. Le proprietà
principali sono: elevate caratteristiche di adesione
alla maggior parte dei materiali da costruzione,
eccellente resistenza a sforzi meccanici, ottima
resistenza alla corrosione e all’umidità e buona
resistenza al calore. Difetti: la resina epossidica
durante la reticolazione sviluppa un calore di reazione
molto elevato e quando il sistema è ancora fluido la
resina epossidica subisce un rilevante ritiro.
2) Le resine poliesteri si ottengono per condensazione di
polialcoli con poliacidi e si dividono in poliesteri saturi,
insaturi e modificati (o alchidici). Sono leganti
polimerici bi-componenti ottenuti dal mescolamento di
resina poliestere con un agente induritore
(catalizzatore). Le principali caratteristiche di una
resina poliestere sono: buona resistenza all’acqua,
resistenza alle più comuni sostanze aggressive; la
presenza di ambienti alcalini ha effetti negativi sul
polimero; è inoltre necessario l’utilizzo di un primer
per garantire una migliore adesione al supporto.
3) I leganti metacrilici sono sistemi bi-componenti
costituiti dal mescolamento di resine con un agente
induritore (catalizzatore); il catalizzatore appartiene
alla famiglia dei perossidi organici. Le principali
caratteristiche di una resina metacrilica sono: basso
80
modulo di rigidezza, buona resistenza all’acqua,
resistenza agli agenti aggressivi con eccezione dei
solventi; è necessario l’utilizzo di un primer e di avere
un supporto asciutto per garantire una migliore
adesione.
4) Le resine poliuretaniche sono materiali polimerici
molto utilizzati in diversi campi dell’ingegneria grazie
alle loro elevate caratteristiche meccaniche e
chimiche e alla facilità con cui è possibile modificare
tali caratteristiche a seconda dell’uso; tuttavia, essi
rivestono un ruolo marginale per il confezionamento
di pavimentazioni per ponti stradali. Le resine
poliuretaniche sono più flessibili delle epossidiche e
risultano essere termicamente più stabili (fino a
150°C). Il nome poliuretano deriva dalla presenza
nella sua molecola del gruppo funzionale uretanico.
Alcuni dei polimeri più utilizzati nella realizzazione di
miscele per pavimentazioni di ponti e viadotti stradali
sono le resine poliesteri insature e le resine metacriliche.
Tuttavia, il polimero che viene maggiormente impiegato
in queste applicazioni è, di norma, la resina epossidica. I
criteri generali, di cui si deve tenere conto nella scelta
della tipologia di polimero base da adottare per la
miscela, sono legati principalmente a costi e a durabilità
del materiale, al grado di adesione all’aggregato e alla
capacità di polimerizzare a temperatura ambiente
mediante agente catalizzatore. Per quanto concerne gli
aggregati da utilizzare in miscela, si dovrebbe scegliere
materiale di pregio quale quarzo, silicio, granito o calcare
di ottima qualità; l’aggregato deve presentarsi asciutto (in
quanto l’umidità riduce l’adesione alle resine), e libero da
qualsiasi residuo organico.
Le tecniche di posa
Diversi studi di settore ed applicazioni sperimentali sono
stati dedicati alle tipologie di posa di queste miscele
polimeriche, anche con prove in situ (Sprinkel, 1997;
Knight et al., 2004; Pasetto e Giacomello, 2014).
Il metodo “slurry” (o “premixed”) consiste nel mescolare
resina e aggregati nelle opportune quantità a formare
una malta, che poi viene stesa sull’impalcato (Calvo and
Meyers, 1991; Maass, 2003).
La soluzione chiamata “multiple-layers”, consiste nella
realizzazione di un multi-strato, costituito dall’alternanza
di resina e inerte. Le pavimentazioni multistrato
prevedono:
1) la stesa di uno strato di legante (solitamente alcuni
millimetri di spessore);
2) lo spolvero di aggregato sulla superficie del legante
fino a saturazione;
3) l’eliminazione dell’aggregato in eccesso a presa
avvenuta;
4) la stesa di un nuovo strato di legante (come in 1), con
ripetizione delle fasi successivamente indicate (2, 3).
Usualmente si stendono due soli strati di legante e di
aggregato per formare una pavimentazione dalle
caratteristiche superficiali ottimizzate. Lo spessore finale
solitamente raggiunge gli 8-10 millimetri (Sprinkel 2001;
Stenko, 2001).
Alcuni Autori hanno dimostrato, con prove in situ, che
l’uso di rivestimenti polimerici a base di resine
epossidiche presenta molti benefici: rapidità
dell’intervento, bassa permeabilità della sovrastruttura,
miglioramento dell’antisdrucciolevolezza, migliore
rapporto costo/vita utile dell’impalcato, eccellente
adesione al supporto in calcestruzzo (non influenzato
dalla presenza di alcalinità). Gli Autori indicano che il
sistema è adatto anche alla riparazione e alla
manutenzione di vecchi impalcati di ponti. Seppure il
legante epossidico abbia un basso modulo di elasticità,
la pavimentazione ha una buona resistenza e flessibilità
(Mendis, 1987; Dimmick, 1997; Nabar and Mendis, 1997,
Zalatimo and Fowler 1997).
Il metodo “slurry” (Figura 74, sinistra) è stato usato molto,
in passato, negli Stati Uniti, ed è adoperato per ritardare
il processo di corrosione nel calcestruzzo (prevenendo la
penetrazione degli ioni di cloro e dell’umidità). Un
rivestimento impermeabile costituito da una malta di
natura epossidica ha dimostrato, anche dopo 15 anni di
posa, una resistenza elevata all’usura e un buon
mantenimento delle caratteristiche superficiali,
estendendo la vita utile della pavimentazione e
dell’impalcato (Dimmick, 1996).
Nella tecnica di posa “multistrato” (Figura 74, destra)
l’aggregato viene applicato sulla superficie attraverso un
apposito macchinario, che provvede a spargere il giusto
quantitativo di aggregato facendolo cadere verticalmente
dalla minima altezza possibile, in modo da ridurre al
massimo l’eventuale inclusione di aria nella miscela. La
tecnica di posa “multistrato” non richiede l’utilizzo di
operai specializzati ed è quindi tecnicamente ed
economicamente vantaggiosa; per contro, la tempistica
81
per la realizzazione di un rivestimento mediante tale
tecnica è maggiore rispetto ad altre soluzioni, il che
compensa il risparmio economico dovuto all’impiego di
operai non specializzati. Quest’ultimo aspetto è cruciale,
perché il cantiere deve rimanere aperto per un periodo
più lungo, comportando maggiori disagi alla viabilità.
Figura 74 - Esempi di pavimentazione realizzata con “malta di resina” (a sinistra) e multistrato (a destra).
Numerose prove sperimentali testimoniano che la
tipologia di aggregato non è significativamente influente
sulle proprietà di resistenza della miscela, ma ha solo
effetto sulla durabilità; la distribuzione granulometrica
dell’aggregato, invece, determina le proprietà
meccaniche della miscela.
L’impermeabilizzazione degli impalcati di ponti
Una buona impermeabilizzazione per impalcati di ponte e
viadotto deve conferire al supporto un’assoluta
protezione nei confronti dell’acqua proveniente dalle
precipitazioni meteoriche, assolvendo questa funzione in
modo efficace nel tempo, al fine di garantire funzionalità
e sicurezza all’intera struttura. Per assicurare ciò, i
materiali adottati nella composizione delle
impermeabilizzazioni devono possedere caratteristiche
fisiche, chimiche e meccaniche adeguate, quali:
impermeabilità, ottima adesione al supporto cementizio o
ferroso dell’impalcato e ai cordoli di contenimento, inerzia
chimica nei confronti dell’aggressività degli agenti
atmosferici, resistenza a fenomeni gelivi e modulo
elastico contenuto per evitare forti stress termici.
Al fine di garantire le migliori prestazioni, in tempi
relativamente recenti si è studiato l’utilizzo di un
conglomerato polimerico, che sia in grado di svolgere la
duplice funzione di impermeabilizzazione e di
pavimentazione su un ponte stradale.
L’impermeabilizzazione così realizzata, con
caratteristiche di assoluta durabilità, viene a costituire la
definitiva pavimentazione del ponte, eliminando la
problematica del degrado della sovrastruttura e delle
sottostrutture per ristagno delle acque meteoriche. Con
tale tecnologia tutte le acque restano in superficie e, con
opportune pendenze e con l’ausilio di caditoie,
defluiscono velocemente dalla sede stradale, garantendo
massima sicurezza alla circolazione dei mezzi e
protezione durevole all’intera struttura.
Allo stato attuale, le soluzioni di impermeabilizzazione
carrabile in materiale polimerico trovano applicazione sia
su opere realizzate ex-novo sia su opere già esistenti
che necessitano di rinnovamento della protezione e della
pavimentazione. Le più comuni applicazioni appaiono
essere: protezione di impalcati in calcestruzzo e in
acciaio realizzati ex-novo; protezione di impalcati in
calcestruzzo esistenti, caratterizzati da problemi di
permeabilità e degrado delle pavimentazioni; protezione
di impalcati esistenti che necessitano di rinnovo della
protezione e della pavimentazione, ma devono convivere
con il problema del contenimento dei pesi; manutenzione
di impalcati e manti stradali di ponti esistenti e aventi
ruolo strategico nella viabilità urbana o extraurbana, e
che necessitano di ridotta interruzione del loro esercizio;
protezione di impalcati immersi in un contesto ambientale
aggressivo o soggetti a frequente trattamento con sali
disgelanti.
82
Preparazione del piano di posa
Per garantire una buona impermeabilizzazione del
supporto, è necessario prevedere una perfetta adesione
tra pavimentazione ed impalcato. La perdita di adesione
nel tempo può essere dovuta a diversi fattori come:
variazioni dimensionali differenziali tra impalcato e
rivestimento causate da variazioni termiche giornaliere e
stagionali (tali variazioni producono stati tensionali che
portano alla formazione di fessure e/o distacchi);
trasudamento dell’umidità che si forma nel supporto,
portando a distacchi localizzati della membrana, con
conseguente formazione di punti suscettibili all’attacco di
sostanze aggressive; carichi da traffico e sforzi di taglio
indotti da veicoli in movimento; superficie di posa non
idonea alla stesura del rivestimento.
Particolare cura deve essere posta nella preparazione
delle superfici su cui vengono applicate le
impermeabilizzazioni. Le più comuni tecniche di
rimozione dello strato di impermeabilizzazione degradato
e preparazione del nuovo piano di posa per il nuovo
rivestimento sono:
-‐ shotblasting (pallinatura): procedura di irruvidimento
del supporto e di rimozione di tutti i contaminanti
presenti sulla superficie con particelle metalliche;
-‐ gritblasting (sabbiatura): procedimento analogo al
precedente, che utilizza sabbia in sostituzione delle
particelle metalliche; tra i limiti della tecnica, il difetto
di non riuscire a rimuovere precedenti strati di
impermeabilizzante; tra i pregi, il vantaggio di
arrivare laddove la pallinatura non arriva;
-‐ idroscarifica: procedura di rimozione dei
contaminanti tramite getti d’acqua ad altissima
pressione; l’uso di questa tecnica implica la
necessità di lasciar asciugare il supporto prima della
successiva stesa del conglomerato;
-‐ scarifica: fresatura delle superfici per rimuovere le
precedenti impermeabilizzazioni e poi procedere alla
stesura del nuovo rivestimento.
Se il supporto è di nuova realizzazione, la superficie si
presenta omogenea e liscia, priva di residui di precedenti
impermeabilizzazioni.
Nel caso di un supporto esistente, la superficie si
presenta invece scalinata, con porzioni di calcestruzzo
distaccate o frantumate, porzione di ferri d’armatura in
vista, eventuali avvallamenti. La preparazione del
supporto può essere ottenuta eseguendo una pallinatura,
ripristinando la planarità e una sufficiente rugosità
dell’intera superficie.
In generale, quando si lavora con impalcati in
calcestruzzo già esistenti, degradati e da ripristinare, al
fine di realizzare un’ottima impermeabilizzazione si deve
procedere all’eliminazione di tutte le fessure, le quali
possono essere causa di infiltrazione da parte degli
agenti aggressivi esterni. Le indicazioni dell’American
Concrete Institute (A.C.I.) consigliano di riparare tutte le
fessure con ampiezza superiore a 1 mm. Inoltre, è
opportuno verificare la resistenza del calcestruzzo e
l’umidità in esso contenuta.
Risulta necessario rilevare il quantitativo di umidità
presente nella pasta cementizia che costituisce il
supporto. Il tenore di umidità deve, infatti, essere
inferiore al 4%. Un metodo di prova per valutarlo è il
metodo del carburo di calcio.
5.5 LA SPERIMENTAZIONE SULLE SOVRASTRUTTURE POLIMERICHE PER MANUFATTI STRADALI
Ricerche sono in corso per l’ottimizzazione delle
prestazioni dei materiali da utilizzare come strato di
usura impermeabilizzante e carrabile sull’estradosso di
impalcati di ponti e viadotti. Alcune risultanze della
sperimentazione sono di seguito illustrate e possono
fungere da spunto per ulteriori approfondimenti.
I materiali
Per confezionare prodotti idonei all’utilizzo nella
impermeabilizzazione e pavimentazione di manufatti
stradali, sono stati studiati leganti e inerti di varia origine.
Fra i primi, sono stati impiegati: resine, primer e bitumi.
Per i secondi si è rivolta l’attenzione a materiali
“marginali” o succedanei (sottoprodotti di lavorazioni
industriali, materiali residuali, ecc.), oltre che ai
convenzionali inerti naturali.
I leganti adoperati sono: 2 tipologie di resine, 2 tipi di
primer e un bitume.
Il primo legante (Tabella 1), indicato “A”, è un prodotto
bicomponente (composto da un monomero e da un
catalizzatore) di natura epossi-poliuretanica, che
indurisce a temperatura ambiente. Può essere steso da
solo a formare uno strato impermeabilizzante (1-2 mm
circa, secondo la soluzione “multistrato”), o mescolato
con aggregati a formare una malta (soluzione “premixed”
o “slurry”). Le sue caratteristiche principali sono: duttilità,
83
impermeabilità, tenacità e inerzia chimica. La malta
possiede una resistenza a flessione maggiore di 16 MPa
e una resistenza a compressione maggiore di 10 MPa
(UNI EN 196-1:2005).
Il secondo legante (Tabella 2), indicato “B”, è una resina
poliuretanica modificata, anch’esso bicomponente
(composto da un monomero e da un catalizzatore).
Questo legante è utilizzato nel metodo “multistrato”.
Prima di applicare il legante o la malta, per entrambe le
tipologie di materiale e applicazione, si richiedono delle
operazioni preliminari. In primis, la superficie del
supporto deve essere pulita e sabbiata per eliminare
eventuali parti fragili o che potrebbero distaccarsi.
Successivamente viene steso uno strato di primer, che
aiuta a far aderire il legante, o la malta. Il primer A
(Tabella 11) è un materiale sintetico di natura epossidica
e possiede un’ottima resistenza all’acqua e alle soluzioni
saline. Il primer B (Tabella 12) è una resina metacrilica
composta da due componenti; possiede una bassa
viscosità ed è incolore.
Per valutare il materiale polimerico servono miscele
bituminose di raffronto. Nel caso di seguito illustrato, si
tratta di conglomerato bituminoso (CB) confezionato con
un bitume di penetrazione 50/70 mm/10 (Tabella 13). Per
ottenere una migliore adesione al calcestruzzo, tra il
supporto e il conglomerato bituminoso viene interposta
una guaina bituminosa, costituita da poliestere ricoperto
di bitume e graniglia, con funzione impermeabilizzante.
Nelle tabelle 11 e 12 sono riassunte le principali proprietà
dei leganti sintetici e dei primer considerati. La tabella 13
contiene invece le proprietà fisico meccaniche della
guaina bituminosa e del bitume.
Tabella 11 - Proprietà del legante sintetico A e del primer A
Proprietà Norma Legante sintetico A Proprietà Norma Primer A
Densità [kg/m3] ASTM D792 1,15 Resistenza al taglio [MPa] UNI EN 12615 > 12
Durezza superficiale [Shore A] ASTM D2240 60 Resistenza a
compressione [MPa] ASTM D695 > 60
Resistenza a trazione[MPa] ASTM D638 ≥ 2 Modulo elastic a compressione [MPa] ASTM D695 > 2950
Allungamento a trazione [%] ASTM D638 ≥ 100 Resistenza a flessione [MPa] ASTM D695 > 30
Resistenza allo strappo [MPa] ASTM D4541 ≥ 1,85 Aderenza per trazione
diretta (pull-off) [MPa] UNI EN 1542 > 5
Tabella 12 - Proprietà del legante sintetico B e del primer B.
Proprietà Norma Legante sintetico B Proprietà Norma Primer
B
Densità a 25°C [kg/ml] ISO 2811 0,99 Resistenza a trazione [MPa] ISO 527 13,8
Tempo di presa a 20°C [sec] ISO 527 3600 - 7200 Allungamento a rottura
[%] ISO 527 1,3
Resistenza a trazione a 20°C [MPa] ISO 527 11 Modulo di elasticità [MPa] ISO 527 1500
Allungamento a rottura a 20°C [%] ISO 527 250 Densità a 20°C [g/cm3] ISO 1183 1,16
Modulo di elasticità a 20°C [MPa] ISO 527 82,4
Tabella 13 - Proprietà della membrana bituminosa e del bitume.
Proprietà Norma Membrana bituminosa Proprietà Norma Bitume
Spessore [mm] - 4 Penetrazione a 25°C [dmm] EN 1426 65
Allungamento [%] ASTM D638 > 105 Punto di rammollimento [°C] EN 1427 45
Resistenza a trazione [MPa] ASTM D638 > 2,5 Punto di rottura Fraaas [°C] EN 12593 ≤ -8
Aderenza per trazione diretta (pull-off) [MPa] UNI EN 1542 2,5 Viscosità dinamica a 60°C
[Pa·s] EN 12596 ≥ 145
Modulo a trazione [MPa] ASTM D638 > 9 Duttilità a 25°C [mm] ASTM D 113 ≥ 800
84
Gli aggregati utilizzati sono: sabbia di quarzo (SQ),
calcare naturale (C), scoria di acciaieria da forno ad arco
elettrico (SA), inerte da costruzione e demolizione (CD) e
bauxite (B). Nella tabella 14 sono riassunte le proprietà
fisco-meccaniche degli aggregati.
La sabbia di quarzo e la bauxite sono aggregati molto
simili: possiedono una bassa quantità di fini e un peso
specifico intermedio tra le scorie d’acciaieria e il
materiale di riciclo. Per il calcare naturale e l’aggregato di
riciclo sono state usate due frazioni granulometriche: 0/5
e 5/10 mm. Anche per la scoria di acciaieria sono state
impiegate due frazioni granulometriche: 0/4 e 4/8 mm. Le
scorie di acciaieria sono il materiale con più elevato peso
specifico, hanno un basso tenore di fini e una elevata
resistenza all’abrasione e all’urto (basso valore del
coefficiente Los Angeles). Un basso valore dell’indice di
appiattimento e di forma, come nel caso del calcare e
della scoria di acciaieria, indica una bassa presenza di
aggregati di forma lenticolare e allungata, qualità molto
richieste per ottenere un buon conglomerato per strato di
usura. Il materiale di riciclo, una miscela di vetro e
materiale da costruzione e demolizione, ha proprietà i cui
valori evidenziano minor pregio: bassa resistenza all’urto
e all’abrasione e forma degli aggregati più allungata
rispetto agli altri materiali utilizzati.
Tabella 14 - Proprietà fisico-meccaniche degli aggregati.
Proprietà fisico-meccaniche Norma Sabbia di
quarzo (SQ)
Scoria di acciaieria
(SA)
Calcare (C)
Inerte da Costruzione e
Demolizione (CD)
Bauxite (B)
Pezzature [mm] - 0/4 4/8 0/5 5/10 0/5 5/10 -
Coefficiente Los Angeles [%]
UNI EN 1097-2 - - 11,5 - 16 - 23,6 -
Equivalente in Sabbia [%] UNI EN 933-8 95 87 - 70 - 98 - 98
Indice di Forma [%]
UNI EN 933-4 - 19 15 - 5 15 22 -
Indice di appiattimento [%]
UNI EN 933-3 - 29 8 - 8 16 32 -
Massa volumica reale [g/cm3] CNR 64/78 2,78 3,9 3,92 2,76 2,72 2,6 2,64 2,81
Massa volumica apparente [g/cm3] CNR 63/78 2,57 3,9 3,87 2,55 2,64 2,5 2,48 2,55
Massa volumica apparente non addensata
[g/cm3] CNR 62/78 1,48 2,1 2,13 1,48 1,36 1,3 1,32 1,52
Le miscele
Le soluzioni costruttive qui analizzate riguardano sia la
posa di malta polimerica (soluzione “premixed/slurry” -
PR) sia il “multistrato” (ML).
Le miscele preparate secondo il metodo PR sono
suddivise in due famiglie a seconda del fuso
granulometrico utilizzato per il mix design: Tipo 1 (T1),
fuso già utilizzato in letteratura (Pasetto e Giacomello,
2013 e 2014) per la posa di malte polimeriche, e Tipo
(T2), fuso usato per un conglomerato (bituminoso) per
strato di usura (SITEB).
Con il primo tipo di fuso (T1) sono state confezionate
miscele polimeriche con: sabbia di quarzo (PR-T1-SQ),
scoria di acciaieria (PR-T1-SA) e aggregato di riciclo
(PR-T1-CD). Con il secondo tipo di fuso (T2) sono state
invece prodotti conglomerati polimerici con: calcare (PR-
T2-C) e scoria di acciaieria (PR-T2-SA). Per la
preparazione di entrambi le tipologie è stata impiegata
solo la resina di tipo A.
Per il confezionamento del conglomerato bituminoso
sono state adottate due soluzioni che tradizionalmente
vengono impiegate nel nord Italia: una con calcare (BM-
T2-C) e una con scorie di acciaieria (BM-T2-SA).
85
Per la tipologia di posa ML è stato usato un fuso
granulometrico ricavato dalla letteratura (Pasetto e
Giacomello, 2013 - 2014) e sono state confezionate
miscele polimeriche con: sabbia di quarzo (ML-SQ),
scoria di acciaieria (ML-SA), aggregato da riciclo (ML-
CD) e bauxite (ML-B). Il legante di tipo B è stato usato
solo per confezionare provini ML-B.
Le proporzioni tra le frazioni granulometriche impiegate
sono indicate nella tabella 15. Le granulometrie delle
miscele e i fusi granulometrici sono riportati nelle figure
75, 76 e 77.
Tabella 15 - Proporzioni tra le frazioni granulometriche impiegate.
Composizione della miscela
Pezzatura [mm] Quantità [%]
CB-T2-C& PR-
T2-C
CB-T2-SA & PR-T2-
SA
PR-T1-CD
PR-T1-SQ
PR-T1-SA
ML-SQ
ML-SA
ML-CD ML-B
Calcare 0/5 48 - 40 - - - - - -
5/10 45 - - - - - - - -
Scorie di acciaieria 0/4 - 70 - - 100 - 100 - -
4/8 - 22 - - - - - - -
Inerte da Costruzione e Demolizione
0/5 - - 45 - - - - 100 -
5/10 - - 15 - - - - - -
Sabbia di quarzo 1 - - - - 100 - - - - -
Sabbia di quarzo 2 - - - - - - 100 - - -
Bauxite - - - - - - - - - 100
Filler - 7 8 - - - - - - -
Figura 75 - Fusi granulometrici e curve granulometriche adottati per: CB-T2-SA, CB-T2-C, PR-T2-C e PR-T2-SA.
86
Figura 76 - Fusi granulometrici e curve granulometriche adottati per: PR-T1-SQ, PR-T1-SA e PR-T1-CD.
Figura 77 - Fusi granulometrici e curve granulometriche adottati per: ML-SQ, ML-SA, ML-CD e ML-B.
87
Le miscele del tipo premiscelato (malta) sono state
applicate secondo le seguenti modalità. Dopo aver pulito
la superficie del supporto in calcestruzzo da impurità,
sono stati preparati il primer (mescolando il monomero e
il catalizzatore) e la malta (inizialmente mescolando solo
il legante con un adeguato quantitativo di catalizzatore e
successivamente anche con l’aggregato). Steso il primer,
si è applicato ad un intervallo di qualche minuto il
rivestimento polimerico. Il provino è stato poi lasciato per
un giorno a riposo per consentire l’indurimento della
malta.
Nel caso di miscele “multistrato” il procedimento seguito
è risultato diverso. Pulita la superficie del supporto,
preparato e steso il primer, è stato posato un sottile
strato di legante (ottenuto mescolando resina e
catalizzatore). Prima che il legante indurisse, è stato
spolverato l’aggregato fino a saturare la superficie del
provino. A presa avvenuta (un giorno a riposo),
l’aggregato in eccesso è stato tolto con getto d’aria. Sugli
aggregati rimasti incollati al supporto, è stato steso un
secondo strato di legante, ed è stata effettuata una
nuova semina di aggregato, fino a saturare la superficie.
Dopo un ulteriore giorno di riposo, la pavimentazione
polimerica è risultata pronta.
Solo nel caso della resina di tipo B è stata fatta la semina
di un unico strato di aggregato, poiché al di sotto del
legante non vi è solo il primer, ma anche un altro strato di
resina impermeabilizzante.
Per le prove di ormaiamento e per la verifica delle
proprietà superficiali della pavimentazione, sono stati
usati dei supporti in calcestruzzo fibrorinforzati che
possiedono una lunghezza di 300 mm, una larghezza di
400 mm e uno spessore di 30 mm.
Per le prove di fatica sono stati usati invece dei supporti
in calcestruzzo fibrorinforzati che possiedono una
lunghezza di 400 mm, una larghezza di 60 mm e uno
spessore di 40 mm.
Il calcestruzzo (classe 30 MPa) dei travetti e delle lastre
è stato confezionato con cemento 32,5R, con rapporto
w/c pari a 0,45. Gli aggregati impiegati sono una sabbia
calcarea naturale di pezzatura 0/4 mm e un ghiaino
calcareo naturale di pezzatura 4/8 mm. Le fibre di
rinforzo (dosaggio pari a 40 kg/m3) sono elementi in
acciaio, uncinati all’estremità, di lunghezza 50 mm e di
diametro 1,05 mm (Figura 78).
Lo spessore finale della pavimentazione varia però a
seconda del tipo di rivestimento: nel caso del
“multistrato” si può arrivare ad uno spessore di 15 mm,
mentre nel caso della malta “premiscelata” si possono
raggiungere i 20 mm circa (come per la pavimentazione
in conglomerato bituminoso).
Per effettuare un confronto delle due metodologie sopra
descritte (PR e ML), è stato confezionato un
conglomerato bituminoso, con bitume 50/70 mm/10, con
calcare (CB-C) e con scoria d’acciaieria (CB-SA). La
curva granulometrica del conglomerato e il fuso di
riferimento utilizzato sono riportati in Figura 74. Il
conglomerato bituminoso è stato poi steso su due
tipologie di impermeabilizzazioni: la membrana
bituminosa (MB) e la membrana polimerica (MP).
Figura 78 - Fibre per Il rinforzo del calcestruzzo (a sinistra) e supporto per le prove a fatica (a destra).
Le prove
Le prime prove effettuate sui campioni sono state quelle
per misurare le caratteristiche superficiali. Esse
rivestono, infatti, un’importanza elevata per le
pavimentazioni su ponti e viadotti, che devono offrire
ottimali condizioni di aderenza tra pneumatico e
superficie. Sono state quindi misurate la macrotessitura,
mediante prova dell’altezza in sabbia (UNI EN 13036-
1:2010), l’aderenza (indice PTV - Pendulum Test Value)
mediante il PendulumTest (UNI EN 13036-4:2011), e la
permeabilità (UNI EN 13036-3:2006).
La misurazione della macrotessitura della
pavimentazione viene effettuata seguendo il protocollo
indicato dalla normativa. Si rovescia un quantitativo noto
di microsfere sulla pavimentazione e lo si stende a
88
formare un area circolare, finché tutti gli elementi hanno
riempito le gole tra aggregato e aggregato. Si misurano
quindi due diametri dell’area circolare e, noto il volume
delle sfere, si calcola la macrorugosità della
pavimentazione in termini di altezza in sabbia.
Lo strumento che consente di misurare la resistenza allo
scivolamento è invece costituito da un pattino in gomma
di determinate caratteristiche, collegato ad un pendolo
che oscilla senza attrito intorno ad un perno. Il pattino,
fatto cadere da una precisa altezza, striscia contro la
superficie della pavimentazione e perde una certa
quantità di energia cinetica. La misura effettuata con lo
strumento è indice della quantità di energia persa dopo lo
strisciamento del pattino sulla pavimentazione: più una
pavimentazione è liscia più il valore della resistenza allo
scivolamento sarà basso.
La permeabilità è misurata in termini di tempo (in
secondi) che impiega una quantità nota di acqua a
defluire da un provettone forato inferiormente, nei limiti di
una guarnizione in gomma premuta da una massa (di
peso noto).
La funzionalità e la resistenza dei materiali in esame può
essere valutata mediante una prova di ormaiamento (UNI
EN 12697-22:2007). La prova intende simulare il
passaggio ripetuto di veicoli pesanti sulla
pavimentazione, per registrare la deformazione
permanente nel tempo. Il numero di passaggi (104 cicli) è
tale da simulare un traffico mediamente presente su
strade italiane. Il carico è applicato con una ruota
gommata (assimilabile ad uno pneumatico di
autoveicolo). Il protocollo, valido per i conglomerati
bituminosi, richiede di eseguire le prove ad una
temperatura di 60°C. Sono state comunque eseguite
prove ad altre temperature (0°C, 20°C e 40°C) per
valutare il comportamento termoindurente delle resine
epossidiche.
In tutti i casi è stata testata, inoltre, l’adesione della
pavimentazione al supporto in calcestruzzo. La
normativa UNI EN 1542:2000 richiede la realizzazione di
provini cilindrici di circa 50 mm di diametro fresando il
materiale con punta a tazza, fino ad una profondità di
circa 15 mm all’interno dello strato sottostante in
calcestruzzo. Su ciascun provino è incollato un tassello
circolare con adesivo epossidico (prescritto dalla
normativa), sul quale è esercitata una sollecitazione di
trazione fino alla rottura del provino. Il protocollo
prescrive che l’’aumento della tensione debba essere
progressivo e non superiore a 0,05 MPa/s.
E’ stata, inoltre, valutata la dilatazione termica dei
materiali e calcolato il coefficiente di dilatazione termica.
Sono stati analizzati, insieme ai campioni la cui
dilatazione non era nota, anche provini di materiale la cui
dilatazione era nota ed utile a fornire un
riferimento/controllo. Come provini sono stati utilizzati dei
travetti prismatici, forati ad una estremità per permettere
l’inserimento di una sonda-termometro, in grado di
rilevarne la temperatura interna. Ai campioni di prova
sono stati applicati dei trasduttori di spostamento per
permettere di misurare la dilatazione o contrazione del
provino al variare delle condizioni termiche. I campioni di
prova sono stati riposti all’interno di una cella termica,
soggetta a variazione lineare di temperatura tra 0 e 35°C.
Il coefficiente di dilatazione termica dipende
esclusivamente dalla differenza di allungamento del
campione Δl [mm] e dalla differenza di temperatura ΔT
[°C] e non dalla velocità di variazione della temperatura
nel tempo (dT/dt). Si è cercato di evitare variazioni di
temperatura troppo repentine, in modo da evitare
differenti contrazioni o espansioni volumetriche (per
evitare l’insorgere di tensioni interne). Poiché il
coefficiente di dilatazione termica di un materiale è
possibile che non sia costante, è stato deciso di
effettuare una procedura step by step nella rilevazione
della lunghezza del provino, con intervalli di
osservazione Δt di 30 s. Tramite una procedura grafica è
stato poi possibile risalire al coefficiente di dilatazione
termica lineare λ, correlando le variabili Δl [mm] e ΔT
[°C].
Prove di fatica sono state utilizzate per analizzare
diverse problematiche. Inizialmente, si è provveduto a
capire quale fosse la capacità di adesione tra la
pavimentazione e l’impalcato (simulato tramite il travetto
in calcestruzzo). Successivamente, si è invece studiato il
comportamento a fatica del materiale costituente la
pavimentazione. Nel primo caso, per tenere conto delle
reali condizioni in cui viene posto un rivestimento per
impalcati di ponte, si è deciso di riprodurre in laboratorio
diverse tipologie di superfici in calcestruzzo a simulare
l’estradosso dell’impalcato del ponte:
1. superficie nuova o preparata con sistemi irruvidenti,
2. superficie umida o non preparata con sistemi
irruvidenti,
3. superficie fessurata o danneggiata.
89
La superficie dei travetti è stata quindi preparata come
appena indicato: nel primo caso è stata pulita con una
spazzola d’acciaio, nel secondo caso è stata bagnata, e,
infine, nel terzo caso è stata sottoposta preventivamente
a prove di fatica su apparecchiatura a 4 punti a flessione
(con gli stessi parametri a cui sono stati sottoposti i
travetti nella fase sperimentale).
Le prove di fatica sono state eseguite con
un’apparecchiatura conforme alle norme europee UNI
EN 12697-24:2012 e UNI EN 12697-26:2012. Seppure le
norme siano specifiche per i conglomerati bituminosi, è
stato mantenuto un approccio simile, per caratterizzare a
fatica i rivestimenti innovativi per impalcati di ponte. Le
prove sono state condotte in controllo di deformazione
(150 µstrain), con curva ad onda di tipo sinusoidale e 10
Hz di frequenza per un totale di 1,5·105 cicli. I provini
sono composti dai supporti di calcestruzzo su cui sono
state stese diverse tipologie di rivestimenti: con metodo
PR (20 mm circa di spessore), con metodo ML (15 mm
circa di spessore) e con le due soluzioni tradizionali (una
con membrana bituminosa e conglomerato bituminoso e
una con membrana polimerica e conglomerato
bituminoso, entrambe 25-30 mm circa di spessore).
Prima e dopo le prove di fatica, sono state condotte
prove con ultrasuoni, già adottate in altri studi con validi
risultati (Pasetto et al., 2000). Le prove con ultrasuoni
consistono in un’apparecchiatura con due trasduttori (un
emettitore e un ricevitore), che registra tra due punti il
tempo di passaggio degli ultrasuoni all’interno del
materiale da testare. Il tempo di passaggio è
proporzionale al tipo di materiale, alla sua composizione
e alla presenza di discontinuità interne. L’aumento del
tempo di passaggio degli ultrasuoni sull’intera lunghezza
del supporto in calcestruzzo permette, quindi, di capire
se siano presenti fessure o danni dovuti alle prove di
fatica eseguite.
Sono state eseguite ulteriori prove con lo scopo di
indagare il comportamento a fatica di provini cilindrici
realizzati in materiale polimerico (confezionati con malta
premiscelata) al variare dell’aggregato, confrontando i
risultati con provini cilindrici in conglomerato bituminoso.
I provini cilindrici sono stati sottoposti ad una prova di
fatica a trazione indiretta secondo la norma UNI EN
12697-24. La prova è stata eseguita in modalità di
controllo di tensione, utilizzando i valori: 200 KPa, 350
KPa, 500 KPa.
5.6 I RISULTATI
Le caratteristiche superficiali Le prove per rilevare le proprietà superficiali delle
pavimentazioni sono state condotte su ciascun
rivestimento, eseguendo tre misurazioni di permeabilità e
macrotessitura (con il metodo dell’altezza in sabbia) e
cinque di microtessitura (resistenza allo scivolamento
con Pendulum Test).
I risultati di queste prove sono riproposti nella Tabella 16.
Tabella 16 - Valori medi dell’altezza in sabbia, dell’aderenza (PTV) e della permeabilità.
Tipo di rivestimento PR-T1-SQ
PR-T1-SA
PR-T1-CD
PR-T2-SA
PR-T2-C
CB-T2-C
CB-T2-SA
ML-B
ML-SQ
ML-SA
ML-CD
Altezza in sabbia [mm] 0,32 0,60 0,58 0,28 0,36 0,72 0,52 0,46 1,54 2,11 2,31
PTV medio [-] 21 71 86 31 36 116 95 76 104 114 99
Permeabilità [s] > 180 > 180 585 > 180 > 180 163 184 742 21 18 14
E’ possibile notare che le caratteristiche superficiali delle
pavimentazioni studiate variano a seconda del tipo di
aggregato impiegato e del metodo di posa.
I rivestimenti prodotti con metodo “multistrato”,
confrontati con quelli del “premiscelato” (malta), danno
dei risultati molto più soddisfacenti in fatto di
caratteristiche superficiali: la macrotessitura e la
resistenza allo scivolamento sono di gran lunga migliori.
Quasi tutte le tipologie di pavimentazione esprimono una
macrotessitura di tipo “medio” (valori compresi tra 0,40 e
0,80 mm in termini di altezza in sabbia) e solo i
rivestimenti di tipo multistrato arrivano a macrotessiture
di tipo “molto grossa” (valori superiori a 1,20 mm in
termini di altezza in sabbia). Tali valori si spiegano
osservando che gli aggregati creano molte più asperità
90
quando si utilizza il secondo metodo, non essendo
inglobati nella malta e da essa avvolti (Figura 79).
In termini di resistenza allo scivolamento, quasi tutti i tipi
di rivestimento hanno una superficie “antisdrucciolevole
per eccellenza” (valori superiori a 65). Come per la
macrorugosità, esprimono una migliore resistenza allo
scivolamento i rivestimenti multistrato e il conglomerato
bituminoso (Figura 80).
Il materiale da costruzione e demolizione (CD) conferisce
buona rugosità in entrambi i casi (PR e ML) e porta ad un
manto antisdrucciolevole per eccellenza (in termini di
resistenza allo scivolamento). La scoria d’acciaieria (SA)
porta, invece, a discreti risultati. I rivestimenti con
scheletro litico di tipo 2 hanno buone caratteristiche
superficiali se viene impiegato il bitume come legante;
viceversa accade con il legante polimerico. Ciò viene
confermato visivamente (Figura 81): la resina tende a
riempire i vuoti tra gli aggregati creando una superficie
tendenzialmente liscia, mentre il bitume avvolgendo i
singoli grani di aggregato, consente loro di conservare la
loro forma. In questo modo le proprietà globali della
pavimentazione bituminosa sono migliori di quella con
legante polimerico.
Figura 79 - Valori medi dell’altezza in sabbia per ciascuna tipologia di rivestimento.
Figura 80 - Valori medi di microtessitura (PTV) per ciascuna tipologia di rivestimento.
91
Visivamente, già nella fase di realizzazione, è stato
possibile avere un’idea delle differenze superficiali
esistenti nei diversi rivestimenti per impalcato di ponte
preparati. Infatti, le caratteristiche superficiali variano con
il metodo di posa e il tipo di aggregato (Figura 79).
Figura 81 - Superficie delle diverse miscele. In ordine orario, a partire dall’alto a sinistra: sabbia di quarzo,
inerte da costruzione e demolizione, scoria di acciaieria premiscelati; scoria di acciaieria, inerte da costruzione e demolizione, sabbia di quarzo multistrato.
Riguardo i risultati delle prove di permeabilità, i
rivestimenti con superfici più lisce impediscono all’acqua
di fuoriuscire e hanno quindi valori di permeabilità minori.
Viceversa, pavimentazioni di tipo multistrato, che
mantengono maggiori asperità degli aggregati,
consentono un miglior drenaggio dell’acqua. Il
rivestimento ML-B ha valori intermedi tra quelli del
conglomerato bituminoso e quelli riscontrati sulle
pavimentazioni di tipo premiscelato (Tabella 16).
Le deformazioni permanenti
Dai test effettuati con la wheeltracking machine
(macchina ormaiatrice) sono stati ricavati i risultati
riportati nelle figure 9 e 10. Per ciascuna prova effettuata
si è ricavato (come riportato nella normativa) il parametro
WTSAIR, che è la pendenza della curva di deformazione
in millimetri per 103 cicli di carico. Il calcolo consiste nella
sottrazione tra i valori dell’altezza della deformazione a
5000 e 10000 cicli, e nella divisione del risultato per 5.
È stato possibile constatare, immediatamente, che i
leganti polimerici possiedono un comportamento
termoindurente, a causa della loro composizione
chimica. Infatti, il reticolo di molecole si completa,
irrigidendo la matrice polimerica, all’aumentare della
temperatura.
I rivestimenti polimerici con scheletro litico di Tipo 2 si
comportano in modo migliore alle deformazioni
permanenti rispetto a quelli bituminosi. Da notare inoltre
che il conglomerato bituminoso con scorie ha un migliore
comportamento rispetto a quello con calcare, come già
indicato in letteratura (Pasetto e Baldo, 2012).
I rivestimenti polimerici di tipo multistrato soffrono
maggiormente l’accumulo di deformazioni permanenti
rispetto agli stessi rivestimenti di tipo premiscelato
(Figura 82).
La soluzione in conglomerato bituminoso ha dimostrato
di avere delle carenze evidenti, soprattutto alle alte
temperature (40°C e 60°C): il conglomerato ha subito
profonde deformazioni permanenti (come si può vedere
in Figura 84) e ha avuto delle perdite parziali , in alcuni
casi anche totali, di adesione con il supporto sottostante
in calcestruzzo, dimostrando che uno spessore molto
sottile di conglomerato non è adatto per ricoprire
l’impalcato di ponte. Infatti, l’adesione tra conglomerato
bituminoso e calcestruzzo diminuisce al diminuire dello
spessore dello strato di conglomerato bituminoso, a
causa dell’esiguo peso della pavimentazione. Ulteriore
svantaggio è la presenza della guaina bituminosa, che
crea una superficie preferenziale per le tensioni
tangenziali, responsabili dello slittamento della
pavimentazione sull’impalcato del manufatto.
92
Figura 82 - WTSAIR a 20°C e a 60°C per ciascuna tipologia di rivestimento.
In tutti i casi analizzati, il comportamento dei rivestimenti
polimerici (malte e multistrato) ha evidenziato una minore
predisposizione alla deformazione permanente a
temperature alte (60°C - 40°C) e, viceversa, un’alta
predisposizione a temperature minori (0°C - 20°C)
(Figura 83).
Figura 83 - WTSAIR a 0°C, 20°C, 40°C e 60°C per alcune tipologie di rivestimento.
93
Figura 84 - Fotografia dell’ormaia formatasi sulla pavimentazione in conglomerato bituminoso.
L’adesione del rivestimento all’impalcato del ponte.
L’adesione del rivestimento, polimerico e non, al
supporto in calcestruzzo è stata testata con prove di
adesione multiple per ogni tipo di pavimentazione. I
risultati, riassunti nella tabella 17, sono stati diversi di
volta in volta anche all’interno dello stesso campione di
miscela. Ciò è accaduto, soprattutto, perché la superficie
del rivestimento presentava discontinuità, che hanno
impedito all’adesivo di ancorarsi perfettamente. Inoltre,
anche una pur lieve inclinazione del tassello o dello
strumento di prova ha portato ad avere forze di trazione
non omogenee sul provino da testare.
È stato deciso di classificare con un codice alfabetico il
punto in cui è avvenuto il distacco per trazione della
carota:
A) all’interno del supporto in calcestruzzo,
B) all’interfaccia tra il supporto in calcestruzzo e lo
strato di primer,
C) all’interno dello strato di primer,
D) all’interfaccia tra lo strato di primer e lo strato di
rivestimento,
E) all’interno dello strato di rivestimento,
F) all’interno dello strato di adesivo del tassello.
Tipo di rivestimento
Tensione a trazione media
[MPa] Tipo di rottura
PR-T2-C 1,44 F
PR-T2-SA 1,39 A
CB-T2-C 0,70 B (tra calcestruzzo e membrana)
CB-T2-SA 0,76 E
PR-T1-SQ 1,59 B
PR-T1-SA 1,31 C
PR-T1-CD 0,91 C
ML-SQ 1,53 D
ML-SA 1,48 C
ML-CD 0,97 E
ML-B 1,20 B
Tabella 17 - Valori della resistenza a trazione e tipo di rottura per ciascun tipo di rivestimento. Solo nel caso della miscela PR-T2-SA, la rottura del
provino è avvenuta all’interno del supporto in
calcestruzzo, evidenziando che lo scheletro di Tipo 2 con
scorie ha una buona coesione interna. Infatti, seppur le
tensioni sviluppate siano elevate, ha ceduto quasi
sempre il primer o l’interfaccia tra primer e rivestimento.
I conglomerati bituminosi hanno evidenziato prestazioni
peggiori rispetto agli altri rivestimenti: la guaina
94
bituminosa ha dimostrato di avere infatti un minore
grado di adesione al supporto in calcestruzzo rispetto ai
primer utilizzati per le altre soluzioni. In due casi, durante
l’esecuzione del carotaggio, la sola rotazione della punta
a tazza ha fatto in modo che la guaina e il conglomerato
bituminoso si staccassero dal supporto.
I valori di tensione sono globalmente maggiori per le
soluzioni stese con metodo multistrato, che con la malta,
seppure le soluzioni con sabbia di quarzo abbiano
ottenuto sempre alti valori della resistenza a trazione.
Sono state, inoltre, condotte ulteriori sperimentazioni
riguardanti l’adesione dei rivestimenti sull’impalcato da
ponte. Su alcuni provini, simili a quelli già testati, sono
state eseguite prove di fatica: i provini sono stati ripartiti
secondo che si avesse “supporto nuovo o superficie
irruvidita” e “supporto bagnato o pre-fessurato”. Dopo la
prova è stata misurata nuovamente la resistenza a
trazione (Tabella 18).
Tipo di rivestimento PR-T1-SQ
PR-T1-SA
PR-T1-CD ML-SQ ML-SA ML-CD CB-T2-SA
Supporto nuovo o superficie irruvidita Resistenza media a
trazione [MPa] 1,59 1,31 0,91 1,53 1,48 0,97 0,76
Posizione B C C D C E E Supporto nuovo o superficie irruvidita, dopo la prova di fatica
Resistenza media a trazione [MPa] 1,38 1,29 0,91 1,52 1,49 0,95 -
Posizione D C C D E E E Supporto in calcestruzzo bagnato o pre-fessurato, dopo la prova di fatica
Resistenza media a trazione [MPa] 1,33 1,29 0,82 1,46 1,45 0,92 -
Posizione C C C D C E E
Tabella 18 - Pull-off test: tensione media a trazione [MPa]. Molte delle prove (su supporto nuovo o preparato con
sistemi irruvidenti) effettuate dopo le prove di fatica
hanno dato dei risultati che sottolineano l’indebolimento
dell’interfaccia tra il supporto in calcestruzzo e il
rivestimento (o tra il primer e il rivestimento). La prova di
fatica ha, quindi, portato ad un degrado dell’adesione tra
i due materiali. Su supporto umido (o non preparato con
sistemi irruvidenti), le prove di fatica hanno indebolito
ulteriormente il legame all’interfaccia dei materiali,
portando le rotture delle carote decisamente ad un livello
più basso (tra il primer e il rivestimento) rispetto a quanto
osservato su supporto nuovo.
Per quanto riguarda le soluzioni tradizionali, durante le
prove a fatica si sono avuti dei distacchi localizzati dello
strato in conglomerato bituminoso rispetto alla
membrana bituminosa (Figura 85). Ciò ha portato a non
eseguire prove di adesione su tale rivestimento, essendo
impossibile dare seguito alla prova.
Figura 85 - A sinistra: distacco dello strato di conglomerato bituminoso dal supporto in calcestruzzo durante il test a fatica. A destra: fessurazione del travetto in calcestruzzo e suo successivo sviluppo attraverso la membrana, fino alla superficie
della pavimentazione, durante il test a fatica. Le prestazioni ottenute con sabbia di quarzo (SQ) e
scoria d’acciaieria (SA) sono migliori rispetto a quelle
ottenute con il materiale da costruzione e demolizione
(CD). Infatti quest’ultimo tipo di aggregato sviluppa una
minor adesione alla resina epossidica. Minima è
95
l’influenza sull’adesione al supporto del metodo di stesa
(PR o ML).
Le prove con il test di flessione a 4 punti (4PB test)
hanno evidenziato che il supporto di calcestruzzo,
essendo un materiale fragile, dà luogo, in quasi tutti i
casi, a fessurazioni più o meno distribuite. Tali danni
però non si propagano ai rivestimenti, seppure la forza di
adesione al supporto diminuisca dopo le prove di fatica
(con variazioni diverse a seconda del tipo di supporto).
Ciò suggerisce che questi rivestimenti innovativi abbiano
una buona resistenza alla fessurazione e una buona
adesione al supporto, nonostante quest’ultimo si possa
fessurare durante la sua vita utile.
Durante le prove di fatica è stato possibile notare che il
valore del modulo di rigidezza dei provini sia lentamente
diminuito all’aumentare del numero di cicli: ciò conferma
che i campioni si siano danneggiati durante le prove.
Infatti, se da un lato il calcestruzzo del supporto si è
fessurato, dall’altro la resina epossidica (nelle due
soluzioni proposte) ha mantenuto il livello di tensione,
dimostrando di essere un buon materiale per le
applicazioni previste.
La conferma della fessurazione dei supporti in
calcestruzzo è stata ottenuta impiegando uno strumento
ad ultrasuoni. I valori ottenuti misurando il tempo di
passaggio delle onde attraverso il calcestruzzo, prima e
dopo le prove di fatica, suggeriscono che i provini si
siano fessurati o danneggiati. Nelle tabelle 19 e 20 sono
riportati i valori del tempi di passaggio degli ultrasuoni
(Ts), prima e dopo le prove di fatica (preF, postF), al
variare del tipo di supporto, della tipologia di posa e del
tipo di aggregati.
Tipo di supporto Nuovo o preparato con sistemi irruvidenti
Metodo di stesa Malta polimerica Multistrato
Tipo di aggregato SQ SA CD SQ SA CD
TspreF [µs] 102,5 107,5 104,6 106,1 107,0 103,4
TspostF [µs] 112,2 119,4 114,2 116,8 120,0 115,4
Differenza + 9,7 + 11,9 + 9,6 + 10,7 + 13,0 + 12,0
Tabella 19 - Valori medi del tempo di passaggio degli ultrasuoni.
Tipo di supporto Umido o mal preparato
Metodo di stesa Malta polimerica Multistrato
Tipo di aggregato SQ SA CD SQ SA CD
TspreF [µs] 95,2 96,7 98,4 96,6 96,7 97,2
TspostF [µs] 102,3 105,6 107,1 104,4 109,5 114,0
Differenza + 7,1 + 8,9 + 8,7 + 7,8 + 12,8 + 16,8
Tabella 20 - Valori medi del tempo di passaggio degli ultrasuoni. Le prove di fatica
I dati sperimentali ottenuti dalle prove di fatica sui
campioni cilindrici sono stati rappresentati attraverso i
classici diagrammi di Whöler, dove in ascissa è stato
posto il logaritmo del numero di cicli a rottura, mentre in
ordinata è stato posto il logaritmo della tensione [kPa]
(Figura 86). Le prove di fatica condotte su provini
cilindrici dimostrano come il conglomerato bituminoso sia
caratterizzato da una maggior resistenza alla fatica per
ripetuti cicli di carico. Le miscele con legante polimerico
(calcare e sabbia di quarzo) hanno una resistenza a
fatica minore, rispetto alla soluzione in conglomerato
bituminoso. Le soluzioni con aggregato calcareo, anche
presentando pezzature di maggiori dimensioni rispetto a
quelle con aggregato di quarzo, garantiscono una vita a
fatica superiore.
96
Figura 86 - Curve di fatica
Lo studio della dilatazione termica
Figura 87 - Rappresentazione della dilatazione termica del provino PR-T2-C.
97
Figura 88 - Rappresentazione della dilatazione termica del provino PR-T1-SQ.
Figura 89 - Rappresentazione della dilatazione termica del provino PR-T2-SA.
Materiale λ sperimentale [°C-‐1] λ letteratura [°C-‐1]
PR-‐T2-‐C 120·∙10-‐6 Non presente
PR-‐T1-‐SQ 56·∙10-‐6 Non presente
PR-‐T2-‐SA 85·∙10-‐6 Non presente
CB-‐T2-‐C 27·∙10-‐6 25·∙10-‐6
Calcestruzzo 12·∙10-‐6 12·∙10-‐6
Tabella 21 - Risultati sperimentali e dei valori indicati in letteratura per il coefficiente di dilatazione.
98
Per la determinazione del coefficiente di dilatazione
termica dei rivestimenti per impalcati da ponte o viadotto,
è stato elaborato un protocollo di esecuzione, studiato
appositamente per ridurre al minimo l’influenza della
strumentazione adoperata, facendo riferimento alle
prescrizioni indicate da normative redatte per i medesimi
scopi, ma con altre tipologie di materiale. I risultati
ottenuti dalle prove di laboratorio mettono in luce la bontà
del protocollo, in quanto i valori di coefficiente di
dilatazione termica ottenuti per il conglomerato
bituminoso e per il calcestruzzo sono coincidenti o
sufficientemente simili ai valori riportati nella letteratura.
Si suppone che la procedura che ha portato ai valori dei
coefficienti di dilatazione termica per le miscele studiate
sia quindi attendibile.
Comparando le miscele, al variare della tipologia di
aggregato, i coefficienti di dilatazione termica lineare
crescono a partire dalla sabbia di quarzo, passando per
la scoria di acciaieria, fino ad arrivare al calcare. Il
calcare comporta maggiori dilatazioni del rivestimento
all’aumentare della temperatura. In linea generale, è
possibile ipotizzare che le miscele realizzate con legate
polimerico subiscano una maggiore dilatazione rispetto
ad analoghe miscele con bitume.
I coefficienti di dilatazione termica delle miscele
polimeriche sono diversi da quelli calcolati per il bitume e
per il calcestruzzo.
Uno studio sperimentale per la valutazione della
compatibilità termica tra un rivestimento carrabile in
materiale polimerico e l’impalcato da ponte in
calcestruzzo è stato condotto dall’American Concrete
Institute: la diversa natura del rivestimento polimerico,
caratterizzato da coefficienti di dilatazione termica
superiori a quello dei conglomerati cementizi, porta alla
formazione di tensioni interne, le quali si traducono, con il
tempo, in distacchi del rivestimento dal supporto e in
altre problematiche ad essi correlate. Come nel caso in
questione, è opportuno utilizzare pavimentazioni di
piccolo spessore e a basso modulo di rigidezza elastica,
in quanto nascono stati tensionali più lievi (Hoi, Fowler e
Wheat, 1996).
Un ulteriore studio (Islam e Tarefder, 2013) dimostra che
esistono differenti valori tra coefficienti di dilatazione
termica lineare e coefficienti di contrazione termica
lineare di un materiale. Inoltre, lo stesso studio si
propone di verificare che i risultati ottenuti dalle prove di
laboratorio siano simili a quelli che si otterrebbero nella
realtà di esercizio della pavimentazione. Il motivo della
grande variabilità dei risultati delle prove condotte in
laboratorio risiede nell’influenza che hanno, nelle varie
sperimentazioni, la tipologia di strumenti adottati, il
testing mode, il mix design (tipologia di aggregato e
distribuzione granulometrica, tipologia e quantità di
bitume), la geometria e il confezionamento dei provini.
I risultati dimostrano, comunque, che i coefficienti di
dilatazione/contrazione termica ottenuti per via
sperimentale sul campo e quelli ottenuti per via
sperimentale in laboratorio possono differire tra loro a
causa delle differenti condizioni al contorno che
caratterizzano le differenti prove. Il coefficiente di
dilatazione termica di un sistema epossidico puro (circa
) è in genere circa il doppio di quello di
un calcestruzzo. Questa caratteristica insieme al minor
modulo di rigidezza dei sistemi epossidici, può creare
problemi nel caso di rivestimenti di strutture in
calcestruzzo con sistemi epossidici.
Conclusioni
La scelta di integrare in un unico materiale per manto
stradale la funzione di impermeabilizzazione e quella di
carrabilità, si caratterizza certamente per la semplicità ed
efficacia del sistema costruttivo. L’impermeabilizzazione
si realizza contemporaneamente alla pavimentazione del
manufatto, eliminando così la problematica del degrado
di sovrastrutture e sottostrutture per ristagno delle acque
meteoriche. Attraverso questa tecnologia, infatti, tutte le
acque risultano, di fatto, acque superficiali ed esse, con
opportune pendenze e con l’ausilio di caditoie e cunette,
potranno defluire velocemente dalla sede stradale,
garantendo massima sicurezza alla circolazione dei
mezzi e protezione durevole all’intera struttura. Le
conclusioni cui si è giunti dopo sperimentazione in
laboratorio confermano l’interesse della tecnologia delle
impermeabilizzazioni carrabili di materiale polimerico,
anche se ovviamente ulteriori studi e applicazioni sono
richiesti. E, in ogni caso, la proposta di nuove soluzioni
non convenzionali per impalcati di ponte deve prevedere
un confronto comparativo con le pavimentazioni
tradizionali.
Sino ad oggi sono state indagate le caratteristiche
strutturali e funzionali delle pavimentazioni polimeriche,
al variare del tipo e della curva granulometrica
dell’aggregato, del tipo di legante e del rapporto tra le
99
quantità di legante e inerte, prendendo in esame due
diverse tecniche di applicazione: multistrato e malta
premiscelata. Come precisato, i rivestimenti polimerici
hanno il pregio di realizzare una superficie direttamente
carrabile e, nel contempo, un’impermeabilizzazione della
soletta sottostante. Ciò, a svantaggio dei conglomerati
bituminosi, ai quali va sempre associata una membrana
per rivestire l’estradosso ed evitare le infiltrazioni di
acqua e di agenti chimici (sali) che possano danneggiare
il calcestruzzo e le barre d’armatura o l’acciaio. Le malte
sintetiche adoperate e i due metodi di posa si sono
rivelati essere molto adatti allo scopo: i campioni,
sottoposti a prove di fatica e di ormaiamento, hanno
dimostrato di essere flessibili, tenaci e poco deformabili
sotto carichi ciclici. Le malte premiscelate hanno
dimostrato di avere una buona capacità di resistere alle
deformazioni permanenti. Seppur il metodo di posa
multistrato abbia permesso di ottenere ottimi valori degli
indici che caratterizzano le superfici stradali
(macrotessitura HS e microtessitura PTV), esso si è
rivelato meno adatto della malta polimerica a sopperire a
problemi di affaticamento e di ormaiamento del
materiale.
Tra gli aggregati, la sabbia di quarzo fa acquisire alla
malta sintetica una struttura più coesa e più adatta a
sopportare i carichi ciclici. Infatti, la miscela con sabbia di
quarzo presenta il comportamento migliore, perché tende
ad essere più rigida per la presenza di una maggior
quantità di frazione fine. Il materiale di riciclo ha invece
dimostrato di essere il peggiore tra tutti, essendo, per le
sue caratteristiche intrinseche, più fragile e con un
coefficiente di appiattimento più elevato degli altri. A
metà tra queste due soluzioni si pone invece la scoria di
acciaieria, che permette alla malta di acquisire una
struttura monolitica; il minor quantitativo di fine conduce
ad una maggior propensione per le deformazioni
permanenti.
Le prove di adesione hanno suggerito che i rivestimenti
innovativi testati siano migliori di quelli tradizionali: i
materiali sottoposti a fatica hanno dimostrato di essere
tenaci e di formare un buon legame all’interfaccia con il
supporto in calcestruzzo. Anche con supporto umido o
pre-fessurato, il comportamento delle malte sintetiche ha
dato le migliori risposte, rispetto alle soluzioni tradizionali.
Gli studi effettuati hanno permesso di comprendere
anche il legame tra conglomerato bituminoso e
membrana sottostante: quella bituminosa è migliore
rispetto a quella polimerica, nonostante quest’ultima
abbia una migliore adesione al supporto in calcestruzzo
(anche se umido o pre-fessurato). Tra le due soluzioni
tradizionali, la membrana polimerica introduce una
migliore impermeabilizzazione dell’estradosso
dell’impalcato del ponte rispetto alla membrana
bituminosa, ma non ha la capacità di instaurare un buon
legame di adesione con il conglomerato bituminoso.
Le prestazioni ottenute con sabbia di quarzo (SQ) e
scoria d’acciaieria (SA) sono migliori rispetto a quelle
ottenute con il materiale da costruzione e demolizione
(CD). Infatti, quest’ultimo aggregato sviluppa una minor
adesione alla resina epossidica, avendo un coefficiente
di appiattimento più elevato rispetto alle altre tipologie di
aggregato.
Si è visto, inoltre, che l’impiego con leganti polimerici di
uno scheletro litico di Tipo 2, simile a quello usato per un
conglomerato bituminoso, ottiene caratteristiche peggiori
delle soluzioni premiscelate. Per queste ultime, viene
usato uno scheletro litico di Tipo 1, il cui fuso
granulometrico comprende solo materiale fino. L’unione
di polimeri e aggregato fine nella malta porta a
caratteristiche superficiali meno elevate, ma anche ad un
minore accumulo di deformazioni permanenti.
I risultati delle prove di adesione suggeriscono la
necessità di ulteriori studi. Successivi sviluppi della
sperimentazione potrebbero essere quelli di ottimizzare il
protocollo di realizzazione delle prove, affinandone la
procedura e verificandone ulteriormente l’affidabilità dei
risultati attraverso l’analisi di un quantitativo maggiore di
dati.
I materiali che, al giorno d’oggi, sembrano presentare un
miglior comportamento complessivo sono quelli a base di
leganti polimerici. Queste tipologie di
impermeabilizzazioni consentono di colmare alcune
lacune tipiche dei materiali tradizionali, come la scarsa
adesione ai supporti caratterizzati da un alto grado di
umidità (condizione facilmente riscontrabile in cantiere),
la discontinuità dell’azione protettiva e la scarsa
resistenza a carichi elevati (problematica riscontrabile in
zone maggiormente interessate dal traffico stradale
pesante). Inoltre, i prodotti polimerici possono essere
stesi in opera tramite un’operazione di spruzzatura o
stesa, senza dover ricorrere alla preformatura industriale,
garantendo un minor tempo di posa rispetto agli analoghi
prodotti a matrice bituminosa, poiché non necessitano di
calore nella posa e induriscono a temperatura ambiente
100
per mezzo di semplici agenti catalizzatori. Tuttavia, i
materiali polimerici descritti presentano, ad indurimento
avvenuto, una elevata rigidità, ben superiore a quella dei
materiali cui devono aderire, ciò che può facilitare
l’insorgere di uno stato tensionale aggiuntivo che può
indurre a fessurazione la soletta dell’impalcato e il
conglomerato bituminoso della pavimentazione. La
ricerca scientifica e tecnologica è riuscita a colmare le
lacune dei primi materiali polimerici adottati nel campo
delle impermeabilizzazioni, andando a modificare il
polimero base con altri polimeri o additivi per conferire, di
volta in volta, le proprietà chimiche e fisiche più adatte
per ogni applicazione.
BIBLIOGRAFIA
Ascenzi, A., Mitelli, M. D., e Materazzi, A. L. Metodi
regolamentari per la analisi della sicurezza a fatica dei
ponti autostradali. Autostrade, Roma, Anno XXXVII, 1,
1995, p. 109-124.
Babaei, K., e Hawkins, N.M., Evaluation of bridge deck
protective strategies. Concrete International, vol. 10, n.
12, 1988, p. 56-66.
Calvo, L., e Meyers, M. Overlay materials for bridge
decks, ACI Concrete International, Vol. 13, 1991, No. 7,
pp. 48-49.
Chang, T. Y., Stephens, H. L., and Yen, R.C., Polymer
concrete prepared from an MMA-Styrene copolymer
system, Transportation Research Record: Journal of the
Transportation Research Board, National Research
Council, Washington, D.C., 542, 1975
Cooley, L. A. Jr., e, Brown, E. R., Potential of using stone
Matrix Asphalt for thin overlays. Transportation Research
Record: Journal of the Transportation Research Board,
National Research Council, Washington, D.C., 1749,
2001.
Dimmick, F.E. 15-year tracking study: comparing epoxy
polymer concrete to Portland cement concrete applied on
slab-on-grade and bridge decks, ACI Special publication,
1996, Vol. 166, pp. 211-231.
Dimmick, F. E. Premixed epoxy polymer concrete bridge
deck overlays, ACI Special Pubblication, Vol. 169, 1997,
pp. 146-171.
Donovan, E. P. et al. Optimization of tack coat
application rate for geocomposite membrane on bridge
decks. Transportation Research Record: Journal of the
Transportation Research Board, National Research
Council, Washington, D.C., 1740, 2000, p 143-150.
French, C., e et al. Transverse cracking in concrete
bridge decks. Transportation Research Record: Journal
of the Transportation Research Board, National
Research Council, Washington, D.C., 1688, 1999, p 21-
29.
Hanson, D. I., Construction and performance of an
ultrathin bonded hot-mix asphalt wearing course.
Transportation Research Record: Journal of the
Transportation Research Board, National Research
Council, Washington, D.C., n. 1749, 2001.
Gillum, A. J., Shahrooz, B. M., and Cole, J. R. Bond
strength between sealed bridge decks and concrete
overlays, ACI Structural Journal, Vol. 98, No. 6, 2001,pp.
872-879.
Knight, M.L., Wilson, G.S., Seger, W.J., e Mahadevan,
S..Overlay types used as preventive maintenance on
Tennessee bridge deck. Transportation Research
Record: Journal of the Transportation Research Board,
National Research Council, Washington, D.C., 1866,
2004, p 79-84.
Maass, J. How polyester polymer concrete highway and
bridge deck overlays became “state of the art”, ACI
Special Pubblication, Vol. 214, 2003, pp. 39-50.
Mancino, E.,e Pardi, L. Previsione del degrado per gli
impalcati da ponte. Autostrade, Roma, Anno XXXVI, n. 3,
1994, p. 60-71.
Mendis, P. A polymer concrete overlay, ACI Concrete
International, Vol. 9, No. 12, 1987, pp. 54-56.
101
Migliacci, A. L’innovazione e la realtà delle opere di
calcestruzzo strutturale: la durabilità. Atti delle Giornate
A.I.C.A.P. 1997: 23-25. 10. 1997, Roma.
Mitelli, M. D., Santori, A. G, e Improta, G., Il problema
dell’affidabilità residua a fatica dei viadotti autostradali.
Autostrade, Roma, anno XXXVI, n. 4, 1994, p. 68-93.
Modena, C. e Siviero, E. La manutenzione programmata
di ponti e viadotti. Centro Editoriale Veneto, Padova,
1992.
Nabar, S. e Mendis, P. Experience with epoxy polymer
concrete bridge deck thin overlays in service for over 10
year, ACI Special Pubblication, 1997, Vol. 169, pp. 1-17.
O’Connor, Daniel N. e Saiidi, “Saiid” M. Compatibility of
polyester-styrene polymer concrete overlays with
Portland cement concrete bridge decks. ACI Materials
Journal, American Concrete Institute, Detroit, vol. 90 n. 1,
1993, p. 59-68.
Park, H.M., Choi, J.Y., Lee, H.J., e Hwang, E.Y.
Performance evaluation of a high durability asphalt
binder and a high durability asphalt mixture for bridge
deck pavements. Construction and Building Materials,
Elsevier Ltd., n. 23, 2009, p. 219-225.
Pasetto, M., e Zanutto, G. Irruvidimenti superficiali con
inerti e resine. Le Strade, La Fiaccola, Milano, 4, 1999, p.
72-76.
Pasetto, M., Modena, C., Silvan, S., e Bruno, P.
Impermeabilizzazione e pavimentazione di ponti e
viadotti con trattamenti irruvidenti a base di malta
sintetica. X convegno S.I.I.V. : 26-28. 10. 2000, Catania.
Pasetto, M., e Baldo, N. Performance comparative
analysis of stone mastic asphalts with electric arc furnace
steel slag: a laboratory evaluation”. Materials and
Structures, Vol. 45, 2012, pp. 411–424.
Pasetto, M., e Giacomello, G. Experimental analysis of
waterproofing polymeric pavements for concrete bridge
decks. The International Journal of Pavement
Engineering and Asphalt Technology, vol. 15, n. 1, 2014,
p. 51-67.
Rodezno, M. C., Kaloush, K. E. e Way, G. B.,
Assessment of distress in conventional Hot-Mix Asphalt
and Asphalt-Rubber Overlays on Portland Cement
Concrete Pavements. Using the New Guide to
Mechanistic-Empirical Design of Pavement Structures.
Transportation Research Record: Journal of the
Transportation Research Board, National Research
Council, Washington, D.C., 1929, 2005, pp.20-27.
Silfwerbrand, J. e Paulasson, J. Better bonding of bridge
deck overlays, ACI Concrete International, Vol. 20, No.
10,1998, pp. 56-61.
Sprinkel, M. Thin polymer concrete overlays for bridge
deck protection. Transportation Research Record:
Journal of the Transportation Research Board, National
Research Council, Washington, D.C., 950, 1984, p. 193-
201.
Sprinkel, M. Nineteen year performance of polymer
concrete bridge, ACI Special Pubblication, Vol. 169,
1997, pp. 42-74.
Sprinkel, M. Maintenance of concrete bridges.
Transportation Research Record: Journal of the
Transportation Research Board, National Research
Council, Washington, D.C., 1749, 2001, p. 60-63.
Stenko, M. S. e Chawalwala, A. J. Thin polysulfide epoxy
bridge deck overlays. Transportation Research Record:
Journal of the Transportation Research Board, National
Research Council, Washington, D.C., 1749, 2001, p. 64-
67.
Xu, Q. et al. Experimental and numerical analysis of a
waterproofing adhesive layer used on concrete-bridge
deck. International Journal of Adhesion & Adhesives,
Elsevier Ltd., 29, 2009, p. 525-534.
Zalatimo, J.H., e Fowler, D.W. 5-year performance of
overlays in Fort Worth, Texas, ACI Special Pubblication,
Vol. 169, 1997, pp. 122-145.
102
6 FATICA NEI PONTI STRADALI
6.1 INTRODUZIONE
Come ampiamente riportato in bibliografia, [1], [2], [3],
[4], [5], [6] e [7], i modelli di carico da traffico statici e a
fatica dell’EN1991-2 [8], adottati anche in Italia con il
DM14/01/2008, sono stati ottenuti e calibrati utilizzando i
traffici più aggressivi misurati in Europa negli anni 1980-
1994, ed in particolare il traffico registrato in Francia,
sull’autostrada A6 Parigi – Lione, in prossimità di
Auxerre.
La nuova direttiva 96/53/EC [9], che ha armonizzato
dimensioni e masse dei veicoli pesanti di cui è permessa
la libera circolazione in Europa, prevedendo limiti di
18.75 m sulla lunghezza massima e di 44 t sulla massa
limite, ha consentito anche eccezioni nazionali, su basi
paritetiche e non discriminanti. Tra queste eccezioni,
particolarmente importante è quella relativa ai cosiddetti
trasporti modulari, che impiegano veicoli di massa totale
lorda fino a 60 t, lunghi fino a 25.25 m, denominati veicoli
lunghi e pesanti (LHV). Per aumentare l’efficienza del
trasporto su strada, sia in termini di riduzione dei costi,
sia di riduzione delle emissioni di inquinanti, questa
possibilità di trasporto è ampiamente sfruttata in molti
paesi dell’Europa centro-settentrionale, quali la
Germania, la Finlandia, l’Olanda e la Svezia, nei quali il
traffico su lunga distanza tende ad essere caratterizzato
da percentuali via via crescenti di LHV.
Ovviamente, le registrazioni di traffico impiegate per
definire i modelli dell’EN1991-2 e quindi delle NTC2008
non contenevano veicoli LHV ed erano tutti basati sugli
usuali veicoli pesanti da trasporto (HGV), la cui massa
totale limite, come già ricordato, è 44 t. È necessario,
peraltro, considerare, che zone fortemente urbanizzate
e/o industrializzate possono essere soggette a traffici
anche più severi di quello di Auxerre: ma tali situazioni
sono talmente peculiari da richiedere studi specifici, che
non possono essere generalizzate; tipico in tal senso è
l’esempio del Boulevard Périférique di Parigi.
A dispetto della loro efficacia, sia in termini di economia
del trasporto su strada sia in termini di riduzione delle
emissioni inquinanti, i veicoli LHV potrebbero
determinare incrementi inaccettabili delle prestazioni
richieste alle infrastrutture esistenti, in particolari ai ponti.
È opportuno pertanto studiare l’impatto di traffici
caratterizzati da elevate percentuali di LHV sui ponti
esistenti e, soprattutto, stabilire se i modelli di carico da
traffico dell’Eurocodice EN1991-2 sono in grado di
coprire gli effetti di tali traffici.
Ci si propone di confrontare il danneggiamento prodotto
nei ponti stradali dal traffico registrato a Auxerre (F) il 29
e 30 maggo 1986, usato per la calibrazione dei modelli di
carico dell’EN1991-2, con quello prodotto dai modelli di
carico a fatica delle NTC2008 e con quello prodotto dal
modello di carico a fatica, abbastanza grossolano,
previsto in Italia dal previgente DM1990 [10]. Il confronto
è completato considerando anche il danneggiamento
prodotto dai veicoli lunghi e pesanti in riferimento al
traffico registrato a Moerdijk (NL) nel 2007, caratterizzato
da un’alta percentuale di LHV.
Lo studio considera gli spettri di tensione normale in
mezzeria di travate semplicemente appoggiate di luce
compresa tra 1 m e 100 m, in riferimento alle curve S-N
bilatere e trilatere tipiche dei dettagli delle strutture in
acciaio, caratterizzate da limite da fatica e da limite per i
calcoli di fatica (cut-off limit), rispettivamente, date
nell’EN1993-1-9 [11], e alle curve bilatere per dettagli
d’armatura in c.a. e c.a.p. date negli Eurocodici EN1992-
1-1 [12] e EN1992-2 [13]. A partire da detti spettri di
tensione sono determinati anche i corrispondenti
coefficienti di danneggiamento equivalente λ, che sono
confrontati con quelli, analoghi, proposti negli EN1992-2
e EN1993-2 [14], al fine di proporne eventuali
affinamenti.
6.2 REGISTRAZIONI DI TRAFFICO CON LHV
Registrazioni di traffico contenenti un’alta percentuale di
LHV sono state effettuate sistematicamente in Olanda,
utilizzando moderni sistemi di pesatura in marcia dei
veicoli (WIM), soprattutto al fine di indagare le cause di
alcune premature crisi per fatica di moderni ponti in
acciaio [15]. Nel seguito si fa riferimento in particolare
alle registrazioni effettuate presso Moerdijk (NL) nella
prima settimana di aprile del 2007.
Le caratteristiche salienti del traffico di Moerdijk dedotte
dalle registrazioni sono ampiamente discusse in [16], per
cui ci si limita, in questa sede, a ricordare quelle più
significative:
- i veicoli possono essere suddivisi in 53 sottoclassi,
con un numero di assi variabile tra due e nove;
- il massimo numero di assi registrato per un singolo
veicolo è stato tredici, il massimo carico totale,
103
relativo a un veicolo a dieci assi lungo 19.50 m, è
stato circa 1140 kN;
- il massimo carico asse registrato è stato 292 kN, per
il terzo asse di un autoarticolato a 6 assi, di peso
totale 636 kN, con trattore a tre assi, con secondo e
terzo asse in tandem, e semirimorchio a tre assi in
tridem;
- il massimo carico equivalente uniformemente
distribuito, infine, pari a 63 kN/m, è stato rilevato
ancora per un autoarticolato a sei assi di peso totale
813 kN, con trattore a tre assi, con secondo e terzo
asse in tandem, e semirimorchio a tre assi, con il
primo e il secondo asse in tandem;
- il confronto tra il traffico di Auxerre e il traffico di
Moerdijk, riportato in termini di distribuzione dei
carichi-asse e dei carichi totali nelle figure 1 e 2,
rispettivamente, dimostra che, a dispetto del fatto
che sia caratterizzato da massimi giornalieri più
elevati, il traffico di Moerdijk è meno severo di quello
di Auxerre se si considerano tempi di ritorno più
elevati, per cui i modelli di carico da traffico dell’EC1-
2 per le verifiche statiche sembrano coprire
soddisfacentemente anche traffici con LHV.
6.3 LA VERIFICA A FATICA DEI PONTI
La verifica a fatica dei ponti a partire da spettri di carico
convenzionali segue una procedura ben definita, che
influenza la modellazione e la definizione stessa degli
spettri di carico convenzionali, essendo necessario
distinguere gli spettri equivalenti, da impiegare per il
calcolo del danneggiamento, da quelli frequenti, da
utilizzare per il calcolo del Δσmax da confrontare con il
limite di fatica ad ampiezza costante, ove quest’ultimo
esista.
Per la verifica a danneggiamento, il procedimento si
articola sinteticamente come segue:
i. assegnazione dello spettri carico di fatica;
ii. individuazione dei dettagli strutturali sensibili alla
fatica, loro classificazione in termini di resistenza a
fatica, precisando le curve S-N appropriate, e
determinazione delle appropriate superfici di
influenza;
iii. scelta dei coefficienti parziali per le verifiche a fatica
γMf, in funzione della facilità di ispezione ed
eventuale riparazione del dettaglio e delle
conseguenze della crisi per fatica;
iv. calcolo dell’oscillogramma di tensione, σ=σ(t),
indotto nel dettaglio considerato dal traffico reale
oppure da un appropriato spettro di carico
equivalente, in grado di riprodurre il
danneggiamento prodotto dal traffico reale;
v. analisi della storia di tensione mediante un
appropriato metodo di conteggio di cicli - nella
fattispecie il metodo del serbatoio (reservoir
method) o il metodo del flusso di pioggia (rainflow
method) - sì da ottenere lo spettro di tensione di
progetto, ossia il numero di ripetizioni di ciascun
delta di tensione Δσ nell'intervallo di tempo
considerato;
vi. calcolo del danneggiamento cumulativo D con la
legge di Palmgren-Miner,
∑= ii
i
Nn
D (1)
dove: ni è il numero di cicli di ampiezza γMfΔσi,
Ni il numero di cicli di ampiezza γMfΔσi letti
sulla curva S-N caratteristica
e la sommatoria è estesa a tutti i cicli dello spettro.
Se D≤1 la verifica è soddisfatta, altrimenti è
necessario aumentare la resistenza a fatica del
dettaglio, riducendo i Δσ, aumentando, cioè, le
dimensioni, oppure aumentando la sua classe di
resistenza a fatica.
Nel caso in cui, invece, la curva S-N del dettaglio sia
caratterizzata da un limite di fatica ad ampiezza costante,
e solo in quel caso, è possibile eseguire una verifica a
vita illimitata, controllando che il massimo delta di
tensione di progetto significativo ai fini della verifica a
fatica sia non maggiore del limite di fatica ad ampiezza
costante ΔσD.
Noto l’oscillogramma di tensione indotto da uno spettro di
traffico frequente, il massimo delta di tensione
significativo ai fini della verifica a fatica Δσmax può essere
calcolato semplicemente come differenza tra il massimo
assoluto, σmax, e il minimo assoluto, σmin, della storia di
tensione, cosicché la verifica si riduce a controllare che:
( ) DMfMf σΔ≤σ−σγ=σΔγ minmaxmax (2) Ovviamente, in questo caso l’equivalenza tra modello di
carico e traffico reale va intesa in termini di Δσmax. Si
segnala che la determinazione di Δσmax a partire dal
traffico reale non è banale, perché dipende dalla
104
definizione di Δσmax. Nell’EN1991-2 sono state adottate
due definizioni alternative, che conducono a valori
paragonabili. Una prima definizione fa coincidere Δσmax
con il valore Δσ corrispondente al frattile superiore 1%
del danneggiamento cumulativo, nell’ipotesi di curve S-N
rettilinee di pendenza costante m=5, cosicché:
01.0|max
max =σΔ ∑σΔ≥σΔ i i
i
Nn (3)
mentre la seconda identifica Δσmax con il valore che ha
un periodo di ritorno di circa 12 ore, che, considerando
250 giorni lavorativi all’anno, corrisponde a circa 50000
ripetizioni in 100 anni. La denominazione spettro
frequente è conseguenza naturale di quest’ultima
definizione.
È importante sottolineare che la verifica a vita illimitata e
la verifica a danneggiamento sono verifiche distinte, che
non conducono necessariamente allo stesso risultato, e
che il risultato corretto non è necessariamente quello più
conservativo. Così può accadere che, in ponti
caratterizzati da elevati flussi di traffico, dettagli associati
a superfici di influenza di lunghezza base ridotta, quali
quelli delle piastre ortotrope, possano soddisfare la
verifica a vita illimitata, e quindi la verifica a fatica, pur
non soddisfacendo la verifica a danneggiamento, che si
conduce in riferimento ad una diversa curva S-N, quella
convenzionale trilatera. All’aumentare della lunghezza
base della linea di influenza, al contrario, la verifica a vita
illimitata perde importanza pratica, perché diviene
eccessivamente conservativa, e la verifica a fatica, ove
rilevante, è governata dalla verifica a danneggiamento.
6.4 SPETTRI DI CARICO PER PONTI STRADALI
6.4.1 Spettri di carico per ponti stradali dell’EN1991-2 e delle NTC2008
I modelli di carico per le verifiche a fatica dei ponti
stradali in acciaio dell’EN1991-2 e delle NTC2008 sono
cinque e tengono conto del fatto che le curve S-N
possono essere caratterizzate da limite di fatica.
I modelli 1 e 2 sono espressamente concepiti per le
verifiche a vita illimitata, per cui sono significativi soltanto
per ponti in acciaio: il modello 1, derivato dal modello di
carico principale, è estremamente rozzo e conservativo e
non è qui trattato, mentre il modello n. 2, riportato in
Figura 92, è uno spettro di carico costituito da cinque
veicoli-tipo, caratterizzati da valori frequenti dei carichi-
asse. I modelli 3, veicolo equivalente, e 4, spettro di
veicoli equivalenti, sono concepiti per le verifiche a
danneggiamento: il modello 4, più raffinato, è costituito
da un insieme di cinque veicoli standard equivalenti, in
proporzione variabile in funzione del tipo di traffico che
interessa il ponte (Fig.93), mentre il modello di carico 3 è
un modello semplificato costituito da un veicolo
equivalente di fatica, simmetrico, con quattro assi da 120
kN, ipotizzato, viaggiante secondo l’asse longitudinale
del ponte e avente la geometria illustrata in Figura 94. Il
numero di veicoli da considerare dipende dalla vita a
fatica, generalmente 100 anni, e dal flusso annuo di
veicoli pesanti sulla corsia lenta, che, in assenza di studi
specifici, può essere scelto, come suggerito dall’EN1991-
2, in accordo con la Tabella 22.
Il modello di carico a fatica n. 5, infine, è costituito dal
traffico registrato ed è il più raffinato in assoluto: esso è
di applicazione generale, anche se richiede alcune
precauzioni.
Figura 90 - Confronto degli spettri degli assi singoli di
Auxerre (1986) e Moerdijk (2007)
105
Figura 91 - Confronto degli spettri del peso totale di
Auxerre (1986) e Moerdijk (2007)
Figura 92 - Modello di fatica n. 2 delle NTC2008
Figura 93 - Modello di fatica n. 4 delle NTC2008
Figura 94 - Modello di fatica n. 3 delle NTC2008
Tabella 22 - Flussi annui di veicoli per corsia
asse longitudinale del ponte
160
40
200
40
600
160 200
40 80 120 120
40
40
40
40 40 80
Categorie di traffico Nobs
1 Strade e autostrade a due o più corsie per senso di marcia caratterizzate da flussi elevati di veicoli pesanti
2·106
2 Strade e autostrade soggette a flussi medi di veicoli pesanti
0.5·106
3 Strade principali caratterizzate da bassi flussi di veicoli pesanti
0.125·106
4 Strade locali caratterizzate da flussi medi di veicoli pesanti
0.05·106
106
6.4.2 Il modello di carico del DM1990
Il modello di carico a fatica del DM1990 era un modello
estremamente semplificato, da adottare in mancanza di
specifiche analisi, e derivato dal modello statico, ed è
stato in vigore fino all’adozione definitiva dei modelli
dell’EN1991-2 nelle NTC 2008.
Detto ϕ il coefficiente dinamico, dato da
10max min 1.4 , 1.4 , 1150L⎛ − ⎞⎛ ⎞ϕ = −⎜ ⎟⎜ ⎟
⎝ ⎠⎝ ⎠ (4)
ove L è la lunghezza base della linea d’influenza, lo
spettro di carico da considerare nei ponti di Ia categoria
era costituito da 2·106 ripetizioni del 50% del carico·q1a
dinamizzato, rappresentato quindi da tre assi da 10 t
oltre l’effetto dinamico, e del 50% del carico q1b non
dinamizzato, rappresentato da un carico uniformemente
distribuito di 1.5 t/m (vedi Figura 95) per le verifiche a
fatica degli elementi principali, oppure da 2·106
ripetizioni del carico q1c dinamizzato, composto da
un’unica ruota da 10 t oltre l’effetto dinamico, oppure, in
alternativa se più severo, dell’intero carico
uniformemente distribuito da 3.0 t, q1b non dinamizzato,
per le verifiche degli elementi secondari. Poiché il
numero di cicli da considerare era indipendente dalla
tipologia di strada servita e dalla vita nominale dell’opera,
il danneggiamento risultava indipendente dall’effettivo
volume di traffico.
6.5 IPOTESI DI CALCOLO
6.5.1 Schema statico e linee d’influenza
Nello studio si è fatto riferimento al momento in mezzeria
e alla relativa linea d’influenza di travi semplicemente
appoggiate, di luce variabile tra 1 m e 100 m (1, 2, 3, 4,
5, 6, 8, 10, 12, 16, 20, 25, 30, 35, 40, 45, 50, 60, 70, 80,
90, 100 m), considerando il caso di veicoli transitanti su
un’unica corsia e trascurando l’interazione tra veicoli
transitanti simultaneamente su più corsie, peraltro
rilevante soltanto per luci maggiori di 30 - 40 m [2].
Figura 95 - Modello di fatica del DM1990
6.5.2 Determinazione dello spettro di tensione e calcolo della vita a fatica
Nei casi considerati, facendo transitare i diversi spettri di
carico e le diverse registrazioni di traffico sulla linea
d’influenza e, ipotizzando proporzionalità tra tensioni e
sollecitazioni, si sono determinati gli oscillogrammi di
tensione nei diversi dettagli, dai quali sono stati ricavati
gli spettri di tensione, impiegando come metodo di
conteggio il metodo del flusso di pioggia (rainflow
method).
6.5.3 Curve S-N di riferimento per ponti in acciaio
Come detto, per le verifiche a fatica, si sono considerate
le curve S-N bi e trilatere fornite nell’EN1993-1-9 e dalla
Circolare 617 [17] per i dettagli delle strutture in acciaio.
Le curve S-N bilatere sono caratterizzate da un tratto di
pendenza m=3 per N < 5⋅106 cicli e da un tratto
orizzontale, corrispondente al limite di fatica per N ≥
5⋅106 cicli, mentre le curve trilatere, tipicamente
impiegate nelle verifiche a danneggiamento, sono
caratterizzate da un tratto di pendenza m=3 per N<5⋅106
cicli, da un tratto di pendenza m=5 per 5⋅106≤N<108 cicli
e da un tratto orizzontale, corrispondente al limite per i
calcoli di fatica (cut-off limit) per N ≥ 108 cicli. In ciascun
caso considerato si è determinata la classe minima del
particolare da adottare per soddisfare la verifica a fatica.
6.5.4 Curve S-N di riferimento per ponti in c.a. e c.a.p.
Per le verifiche a fatica dei ponti e delle solette in c.a. e
c.a.p. si sono considerate le sette diverse curve S-N date
dall’EC2-1-1 per i vari dettagli d’armatura, rappresentate
in Figura 94. Dette curve S-N sono caratterizzate
600 150 150 600
1500
1.5 t/m 1.5 t/m
10 t 10 t 10 t
200
30x30
107
dall’assenza di limite di fatica e sono costituite da due
tratti rettilinei di pendenza k1, per Δσ≥ΔσRsk, e k2 per
Δσ≤ΔσRsk, ove ΔσRsk, che identifica la classe del
dettaglio è la resistenza caratteristica a fatica a N* cicli,
essendo N* uguale a 106 o a 107 cicli, secondo i casi.
Le curve S-N di Figura 96 sono associate ai diversi
dettagli d’armatura in Tabella 23, ove sono riportati
anche i corrispondenti valori di k1, k2, ΔσRsk e N*.
Figura 96 - Curve S-N per dettagli d’armatura dell’Eurocodice EN1992-1-1
Armature ordinarie Curva S-N
(fig. 4) N* k1 k2 ΔσRsk(N*)
[MPa]
barre rettilinee 2 106 5 9 162.5
barre saldate e reti 4 107 3 5 58.5
dispositivi di giunzione 7 107 3 5 35
Armature da precompressione
Armature pretese 1 106 5 9 185
Armature post-tese
-‐ trefoli singoli in guaine di plastica 1 106 5 9 185
-‐ trefoli rettilinei (tutti)
-‐ trefoli curvi in guaine di plastica 3 106 5 10 150
-‐ trefoli curvi in guaine di acciaio 5 106 5 7 120
-‐ dispositivi di giunzione 6 106 3 5 80
Tabella 23 – Curve SN per dettagli d’armatura
108
6.5.5 Vita di progetto e calcolo del danneggiamento
Ai fini del confronto, si è considerata una vita di progetto
di riferimento di 100 anni e un flusso annuo di 2⋅106
veicoli pesanti, per un flusso totale di 2⋅108 veicoli,
mentre il danneggiamento D è stato calcolato utilizzando
la legge di danneggiamento di Palmgren e Miner:
i
i i
nDN
=∑ (5)
dove ni è il numero di cicli dello spettro di tensione con
escursione di tensione Δσi, Ni è il corrispondente numero
di cicli a rottura, e la sommatoria è estesa a tutti i delta di
tensione dello spettro. Per tener conto della presenza del
limite di fatica, per ciascun dettaglio si sono considerate,
ove rilevanti, entrambe le curve S-N, bilatera e trilatera,
in relazione ai pertinenti modelli di carico, sì da saggiare
l’effettiva rilevanza del danneggiamento D ai fini della
verifica.
6.5.6 Spettri di carico
Nel calcolo si sono considerati, per ciascun caso
studiato, sette diversi spettri di carico, considerando un
flusso effettivo, ove necessario, di 104 assi:
- traffico pesante della corsia lenta di Auxerre, come
registrato, assunto a riferimento;
- traffico pesante della corsia lenta di Moerdijk, come
registrato;
- traffico costituito dal modello di carico 4 dell’EC1-2
(Fig. 93), con possibilità di interazione tra veicoli
transitanti simultaneamente sulla stessa corsia,
generato in maniera casuale con il metodo
Montecarlo: nella generazione si è considerata la
composizione di traffico relativa a trasporti su lunga
percorrenza, mentre le distanze interveicolari sono
state generate considerando un flusso annuo di
2·106 veicoli/corsia;
- traffico costituito dal modello di carico 2 dell’EC1-2
(Fig. 92), con possibilità di interazione tra veicoli
transitanti simultaneamente sulla stessa corsia,
generato in maniera casuale con il metodo
Montecarlo, come sopra;
- traffico costituito da 104 assi del modello di carico 4
- dell’EC1-2, generato come sopra, ma caratterizzato
- da distanze interveicolari maggiori della lunghezza
della linea d’influenza considerata, sì da escludere
interazioni tra veicoli;
- spettro costituito dal solo modello di carico 3
dell’EC1-2 (Fig. 94), veicolo di fatica equivalente,
considerato isolato;
- spettro di carico del DM04/05/1990.
Ovviamente, il modello di carico 2 ha significato soltanto
per ponti in acciaio, i cui dettagli sono caratterizzati da
limite di fatica.
A causa delle specificità della linea di influenza
considerata, il danneggiamento prodotto dal modello 4 in
assenza di interazioni risulta prossimo a quello indotto
dallo stesso modello considerando le interazioni [18],
come del resto illustrato al successivo §6, pertanto per i
ponti d’acciaio si fa riferimento soltanto a questo secondo
caso.
Naturalmente, il massimo delta di tensione Δσs,Ec indotto
nel dettaglio considerato dal modello di carico 3 ha
costituito anche il valore di riferimento per l’applicazione
del metodo dei coefficienti λ e, quindi, per la loro
determinazione.
6.6 ANALISI E DISCUSSIONI DEI RISULTATI PER PONTI IN ACCIAIO
I risultati dello studio [19] sono sintetizzati in Figura 97,
nella quale gli effetti dei diversi spettri di carico sono
confrontati con quelli indotti dal traffico di Auxerre sotto
forma di curve:
( )min min
min( ) min( )
c c
c Auxerre c Auxerre
LΔσ Δσ=
Δσ Δσ (6)
Nella (6) Δσcmin è la minima classe del particolare che
garantisce il soddisfacimento della verifica a
danneggiamento sotto lo spettro di carico considerato e
Δσcmin(Auxerre) è la corrispondente classe per il traffico di
Auxerre.
Come già detto, si sono considerate, ove rilevanti,
entrambe le possibilità, verifica a vita illimitata con curva
bilatera e verifica a danneggiamento con curva trilatera,
assumendo come classe minima Δσcmin quella minore
risultante dalle due verifiche.
109
Figura 97 - Curve Δσcmin/Δσcmin(Auxerre)-L per travate semplicemente appoggiate (flusso totale 2⋅108 veicoli)
L’esame delle curve di Figura 97 dimostra chiaramente
che:
- i modelli di carico 2 e 4 dell’EC1-2 sono ben calibrati
e sono in grado di cogliere con soddisfacente
precisione il danneggiamento prodotto dal traffico di
Auxerre in tutto l’intervallo di luci considerato,
essendo in genere lievemente conservativi;
- il modello di carico 3, anche se in genere
sufficientemente accurato, non è in grado di
riprodurre il danneggiamento effettivo nel caso delle
piccole luci, minori di 7÷8 m, che è anche quello
maggiormente rilevante, si pensi, per es. agli
impalcati a piastra ortotropa, nella pratica progettuale;
- a dispetto dell’elevata percentuale di veicoli LHV
presenti, il traffico di Moerdijk appare meno severo di
quello di Auxerre ed i suoi effetti sono coperti dai
modelli dell’EC1-2;
- come atteso, il modello convenzionale del DM1990
appare eccessivamente semplificato e inadeguato:
esso, infatti, sottostima sistematicamente il
danneggiamento effettivo, con errori particolarmente
marcati nel campo delle luci medie.
6.7 ANALISI E DISCUSSIONI DEI RISULTATI PER PONTI IN C.A. E C.A.P.
I risultati dello studio sono sintetizzati, per le diverse
tipologie di curve S-N di figura 94, nelle figure 98, 99,
100, 101 e 102 sotto forma di curve Δσcmin/Δσcmin(Auxerre),
in accordo con l’equazione (6).
Più precisamente, la Figura 98 fa riferimento ad
armature pretese, a trefoli singoli in guaine di plastica e
ad armature ordinarie in barre rettilinee (curve 1 e 2 di
figura 96), la figura 99 a trefoli rettilinei in guaine di
plastica o d’acciaio (curva 3 di fig. 96), la figura 100 a
trefoli curvi in guaine d’acciaio (curva 5 di fig. 96), la
figura 101 a dispositivi di giunzione per armature post-
tese (curva 6 di fig. 96) e la figura 102, infine, ad
armatura ordinaria in barre saldate o a dispositivi di
giunzioni per armatura ordinaria (curve 4 e 7 di fig. 96).
0.5
0.6
0.7
0.8
0.9
1.0
1.1
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100L [m]
Δσ
cmin
/Δσ
cmin
(Aux
erre
)
Moerdijk
EC1-2 (LM 2 e 4)
EC1-2 (LM 2 e 3)DM90
110
Figura 98 - Curve Δσcmin/Δσcmin(Auxerre)–L (curve S-N n. 1 e n. 2 - fig. 96)
Figura 99 – Curve Δσcmin/Δσcmin(Auxerre)–L (curva S-N n. 3 - fig. 96)
0.7
0.8
0.9
1
1.1
1.2
1.3
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
Δσcm
in /Δσ c
min(A
uxerre)
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiEC1-‐2 LM3DM90
0.7
0.8
0.9
1
1.1
1.2
1.3
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
Δσcm
in /Δσ c
min(Au
xerre)
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiEC1-‐2 LM3DM90
111
Figura 100 – Curve Δσcmin/Δσcmin(Auxerre) – L (curva S-N n. 5 - fig. 96)
Figura 101 – Curve Δσcmin/Δσcmin(Auxerre)–L (curva S-N n. 6 - fig. 96)
0.6
0.7
0.8
0.9
1
1.1
1.2
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
Δσcm
in /Δσ c
min(Au
xerre)
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiEC1-‐2 LM3DM90
0.5
0.6
0.7
0.8
0.9
1
1.1
1.2
1.3
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
Δσcm
in /Δσcm
in(Auxerre)
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiEC1-‐2 LM3DM90
112
Figura 102 – Curve Δσcmin/Δσcmin(Auxerre)–L (curve S-N n. 4 e n. 7 - fig. 96)
I risultati ottenuti dimostrano che:
• il modello di carico n. 4 dell’EC1-2, costituito da
cinque veicoli equivalenti, benché
originariamente calibrato per i dettagli delle
strutture metalliche, riproduce in maniera molto
soddisfacente il danneggiamento prodotto dal
traffico di Auxerre: per dettagli caratterizzati da
curve S-N tipo 1, 2 e 3 di figura 96 - armature
ordinarie rettilinee, armature pretese e armature
post-tese costituite da trefoli rettilinei o da trefoli
curvi in guaine di plastica;
• il modello sottostima il delta di tensione
equivalente Δσcmin(Auxerre) per luci fino a 15
m circa, ma l’errore massimo è contenuto entro
il 5%, mentre per luci superiori risulta
leggermente cautelativo, essendo l’errore del 3-
4% circa; per gli altri dettagli risulta, invece,
sempre cautelativo: l’errore, che è minimo per
luci minori di 15 m, aumenta lievemente per luci
superiori, stabilizzandosi intorno ad un valore
prossimo al 7% se si considerano curve S-N del
tipo 5 di figura 96 – trefoli curvi in guaine
d’acciaio – e al 10% per gli altri dettagli;
• i risultati forniti dal predetto modello n. 4 non
cambiano in maniera significativa passando dal
caso con veicoli interagenti al caso con veicoli
isolati, essendo la differenza apprezzabile soltanto
per luci molto grandi;
• questo risultato non è inaspettato stante la
particolarità della linea d’influenza presa in esame:
considerando linee d’influenza di travi continue, le
differenze dovrebbero essere molto più marcate;
• il modello di carico n. 3 dell’EC1-2, veicolo di fatica
equivalente, considerato isolato, generalmente
sottostima il delta equivalente Δσcmin(Auxerre) per
luci minori di 5-6 m, con errori massimi dell’ordine
del 10-12%, eccezion fatta per le barre saldate e le
reti e per i dispositivi di giunzione (curve 4, 6 e 7 di
fig. 96): per tali dettagli, infatti risulta sempre
cautelativo;
• per luci maggiori di 5-6 m, il modello n. 3
sovrastima il delta equivalente Δσcmin(Auxerre), essendo logicamente più cautelativo del modello n.
4: l’errore massimo occorre per luci di circa 10 m ed
è circa il 12% per dettagli caratterizzati da curve S-
N tipo 1, 2 e 3, di circa il 20% per trefoli curvi in
0.4
0.5
0.6
0.7
0.8
0.9
1
1.1
1.2
1.3
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
Δσcm
in /Δσcm
in(Auxerre)
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiEC1-‐2 LM3DM90
113
guaine d’acciaio e di circa il 30% negli altri casi; per
luci maggiori di 30 m l’errore è pressoché costante
ed è circa il 10% considerando curve tipo 1 e 2, il
7% considerando curve tipo 3, il 14% considerando
curve tipo 5 e circa il 20% negli altri casi;
• il traffico di Moerdijk è generalmente meno severo,
anche significativamente, del traffico di Auxerre;
• per luci molto piccole, fino a 4-5 m, il delta
equivalente Δσcmin indotto dal traffico di Moerdijk
è fino al 30-40% minore di quello di Auxerre; per
luci superiori, fino a 14-16 m, la differenza
diminuisce fin quasi ad annullarsi, se si considerano
curve tipo 1, 2 e 3, oppure fino a un minimo di circa
5% per curve tipo 5 e del 10-13% negli altri casi;
per luci maggiori di 25-30 m, infine, la differenza
risulta pressoché costante e pari al 4-5% per le
curve 1, 2 e 3, al 10% per la curva 5 e al 15% nei
casi rimanenti;
• il modello di carico a fatica della previgente
normativa italiana (DM 1990) non è in grado di
cogliere l’effettivo danneggiamento;
• se si considerano curve S-N tipo 1, 2 e 3, il delta
equivalente Δσcmin prodotto dal modello del DM
1990 è minore del Δσcmin(Auxerre) nell’intervallo di
luci compreso tra 10 m e 70 m circa, con differenze
massime dell’ordine del 20% per L≅30 m, al di fuori
di questo intervallo il modello sovrastima il delta di
tensione equivalente; le differenze massime sono di
circa il 20% per luci minori di 10 m e di circa il 30%
per luci prossime a 100 m;
• per curve S-N tipo 5 il comportamento è analogo: il
delta equivalente Δσcmin è minore del
Δσcmin(Auxerre) nell’intervallo di luci compreso tra
10 m e 80 m circa, con differenze massime
dell’ordine del 30% in prossimità di 30 m, al di fuori
di questo intervallo il modello sovrastima il delta di
tensione equivalente, ma le differenze non sono
particolarmente rilevanti;
• considerando curve S-N tipo 4 e 7, il delta
equivalente Δσcmin prodotto dal modello del DM
1990 è costantemente inferiore al Δσcmin(Auxerre): la differenza è di circa il 35% per luci fino a 10 m,
aumenta con la luce fino ad un massimo di circa
55% intorno ai 30 m per poi ridursi via via fino a un
minimo del 26% per L=100 m;
• considerando curve S-N tipo 6, il delta equivalente
del modello DM 1990 è ancora costantemente
minore del Δσcmin(Auxerre): la differenza è di circa
il 30% per L=3 m, si riduce a circa il 20% per luci
prossime a 10 m, aumenta poi con la luce fino a un
massimo di circa 45% intorno ai 30 m per poi ridursi
via via fino ad un minimo del 15% per L>90 m;
• il modello DM 1990, peraltro, non può essere
adattato al variare del flusso annuo o della vita di
progetto.
6.8 DETERMINAZIONE DEI COEFFICIENTI λ
Utilizzando i risultati ottenuti, sono stati anche calcolati i
coefficienti di danneggiamento equivalente λ1 associati
ai traffici di Auxerre e Moerdijk e ai traffici derivati dal
modello di carico a fatica n. 4 dell’EC1-2 con veicoli
interagenti, sì da poterli confrontare con quelli
dell’EN1993-2.
La verifica con il metodo λ consiste nel controllare
che risulti:
, , , ,,
Δ Δ cF fat s equ F fat s s EC
s fat
σγ Δσ = γ λ σ ≤
γ (7)
per ponti in acciaio e
fats
RsksECssfatFequsfatF
,
,,,,,
ΔΔ
γ
σσλγσγ ≤=Δ (8)
per ponti in c.a. e c.a.p., dove γF,fat e γs,fat sono i
coefficienti parziali di sicurezza, Δσs,equ è il delta di
tensione equivalente, Δσs,EC è il delta di tensione
massimo indotto nel dettaglio considerato dal modello di
fatica n. 3, λs è il coefficiente di danneggiamento
equivalente e Δσc e ΔσRsk rappresentano la classe del
dettaglio per ponti in acciaio e in c.a., rispettivamente.
Il coefficiente λs può essere calcolato come:
1 2 3 4 s fatλ = ϕ λ λ λ λ (9) essendo λ1 il coefficiente che tiene conto dello schema
statico e della luce del ponte e della forma della curva S-
N, λ2 il coefficiente che tiene conto del volume annuo di
traffico, λ3 il coefficiente che tiene conto della vita di
progetto, λ4 il coefficiente che tiene conto dell’eventuale
interazione dovuta al transito simultaneo di veicoli su più
corsie, che vien qui riportato a fini informativi, e ϕfat il
coefficiente dinamico equivalente.
114
Determinazione dei coefficienti λ per ponti in acciaio
Per i ponti in acciaio il valore di λs è limitato
superiormente; deve, infatti, risultare:
maxsλ ≤ λ (10)
essendo λmax il valore massimo che può assumere λs, in
considerazione della presenza del limite di fatica.
Determinazione dei coefficienti λ1
I risultati ottenuti nell’ambito del presente studio sono
rappresentati in Figura 103, nella quale sono riportate le
curve λ1 e λmax fornite nell’EN1993-2 e le analoghe curve
relative al traffico di Auxerre e a quello di Moerdijk. È
interessante notare che nell’EC19933-2 il coefficiente λ1
è sistematicamente minorato da λmax, se si eccettua il
campo L>80 m.
Nel presente studio, come già detto, per il traffico di
Auxerre e quello di Moerdijk si è ipotizzato un traffico di
riferimento complessivo, con il quale sono stati
determinati i λ1, di 2⋅108 veicoli, mentre il valore massimo
assoluto per il traffico complessivo, in riferimento al quale
è stato calcolato λmax, è stato assunto uguale a 4⋅108
veicoli.
L’esame delle curve di figura 101, se da un lato
conferma che il danneggiamento traffico di Auxerre copre
anche gli effetti del traffico di Moerdijk, dall’altro
evidenzia che i coefficienti λ1 e λmax forniti nell’EN1993-2
appaiono eccessivamente conservativi, soprattutto per le
piccole luci, laddove gli effetti di interazione per traffico
simultaneo su più corsie sono meno significativi. Occorre
ancora osservare che l’EN1993-2 non fornisce
indicazioni per elementi di luce minore di 10 m,
determinando ulteriori difficoltà applicative.
Figura 103 - Curve λ1-L (2⋅108 veicoli) e λmax-L (4⋅108 veicoli) per travate semplicemente appoggiate
Coefficienti di danneggiamento equivalente λ2 e λ3
Come è noto, le variazioni di flusso totale sono
considerate mediante i coefficienti λ2 e λ3 o, meglio,
mediante il loro prodotto, che nelle tabelle dell’EN1993-2
è coerente con l’espressione:
*52 3 = t
rif
NN
λ = λ ⋅λ (11)
dove l’esponente della radice è uguale alla pendenza del
secondo ramo della curva S-N, Nt è il flusso totale
attuale e Nrif è il traffico totale di riferimento, pari a 2·108
veicoli.
Allo scopo di controllare la coerenza dei valori di λ*
assegnati nell’EC3-2, sono stati determinati i valori dei
coefficienti λ*, relativi a flussi totali di 2⋅107, 1⋅108 e 4⋅108
veicoli pesanti, associati ai traffici di Auxerre e di
Moerdijk. I risultati sono sintetizzati nei diagrammi delle
figure 15 e 16, rispettivamente.
L’analisi dei diagrammi delle figure 104 e 105, ove sono
rappresentate per facilitare l’interpretazione, anche le
1.2
1.4
1.6
1.8
2.0
2.2
2.4
2.6
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100L [m]
λ 1, λ
max
lambda 1 (EC3-2)lambda max (EC3-2)AuxerreMoerdijkMoerdijk (max)Auxerre (max)
115
curve λ*-L dell’EC3-2, dedotte dalla (11), evidenzia che
l’impiego dell’espressione (8) porta, in generale, a
sovrastimare l’effettivo danneggiamento nel caso di flussi
totali superiori al flusso di riferimento e a sottostimarlo in
caso contrario, sia considerando il traffico di Auxerre, sia
considerando il traffico di Moerdijk, con errori massimi
nella zona delle piccole luci. Fa parziale eccezione il
caso del traffico di Moerdijk con flusso totale di 2⋅107
veicoli, nel campo di luci maggiori di 7 m.
Figura 104 - Confronto delle curve λ*-L relative al traffico di Auxerre con le curve λ*-L dell’EC3-2
Figura 105 - Confronto delle curve λ*-L relative al traffico di Moerdijk con le curve λ*-L dell’EC3-2
Determinazione dei coefficienti λ per ponti in c.a.
Per i ponti in c.a. ci si è limitati a valutare il solo
coefficiente λ1, dato che per i coefficienti λ* si ottengono
risultati analoghi a quelli già visti per i ponti in acciaio.
Conformemente a quanto previsto nello stesso EN1992-
2 per travate semplicemente appoggiate, il delta di
tensione di riferimento, Δσs,EC, è stato calcolato
incrementando del 40% i carichi asse del modello di
fatica n. 3.
Determinazione dei coefficienti λ1
I coefficienti λ1 relativi ai diversi dettagli d’armatura, per i
quattro traffici considerati, sono rappresentati in funzione
della luce L, nelle figure 106-110, nelle quali sono
confrontati con le corrispondenti curve fornite dall’EC2-2,
ove rilevanti. In particolare, la figura 106 fa riferimento ad
armature pretese, a trefoli singoli in guaine di plastica e
ad armature ordinarie in barre rettilinee (curve 1 e 2 di
fig. 96), la figura 107 a trefoli rettilinei in guaine di
plastica o d’acciaio (curva 3 di fig. 96), la figura 108 a
0.6
0.7
0.8
0.9
1.0
1.1
1.2
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100L [m]
λ2λ
3
Auxerre (400 Mveicoli)EC3-2 (400 Mveicoli)Auxerre (200 Mveicoli)Auxerre (100 Mveicoli)EC3-2 (100 Mveicoli)Auxerre (20 Mveicoli)EC3-2 (20 Mveicoli)
0.6
0.7
0.8
0.9
1.0
1.1
1.2
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100L [m]
λ2λ
3
Moerdijk (400 Mveicoli)EC3-2 (400 Mveicoli)Moerdijk (200 Mveicoli)Moerdijk (100 Mveicoli)EC3-2 (100 Mveicoli)Moerdijk (20 Mveicoli)EC3-2 (20 Mveicoli)
116
trefoli curvi in guaine d’acciaio (curva 5 di fig. 96), la
figura 109 a dispositivi di giunzione per armature post-
tese (curva 6 di fig. 96) e la figura 110, infine, ad
armatura ordinaria in barre saldate o a dispositivi di
giunzioni per armatura ordinaria (curve 4 e 7 di fig. 96).
L’esame delle curve dimostra che i coefficienti λ1
forniti dall’EC2-2 per le armature, ancorché limitati
all’intervallo di luci compreso tra 10 m e 50 m, non
sembrano sufficientemente ben calibrati: essi, infatti,
conducono in tutti i casi, eccetto che per dettagli
caratterizzati da curve tipo 4 e 7, a una sottostima
sistematica del danneggiamento effettivamente indotto
dal traffico di Auxerre, soprattutto per luci piccole, anche
se gli errori massimi sono contenuti entro il 10-12%;
viceversa, l’errore appare eccessivo quando si fa
riferimento ai dispositivi di giunzione per armature
ordinarie (curva tipo 7) - e alle armature ordinarie
saldate, alle reti (curva tipo 4): questa contraddizione si
spiega con il fatto che nell’EC2-2 queste due curve, che
hanno rami di pendenza k1=3 e k2=5 con ginocchio
corrispondente a N*=107 cicli, sono trattate alla stessa
stregua della curva 6, che ha sì rami della stessa
pendenza, ma ginocchio a N*=106 cicli.
Il coefficiente λ4
Il coefficiente λ4, che, come detto, tiene conto delle
interazioni di simultaneità, può essere espresso come:
mi i
mcombcomb
mii
NN
NN
NNNl ∑ ∑
⎥⎥⎦
⎤
⎢⎢⎣
⎡⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛⋅+
⎥⎥⎦
⎤
⎢⎢⎣
⎡⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛⋅+=
1111
*
1
*1
14 ),(ηη
ηη
λ (12)
in cui N1 è il flusso di veicoli sulla corsia principale, Ni
il flusso di veicoli sull’i-esima corsia, N i∗ il flusso di
veicoli isolati sulla i-esima corsia, ηi l’effetto indotto nel
dettaglio dal carico transitante sull’i-esima corsia,
Nc bom il flusso di veicoli interagenti e ηc bom l’effetto
complessivo dei veicoli interagenti, essendo la seconda
sommatoria estesa a tutte le combinazioni significative di
veicoli su più corsie.
Il coefficiente dinamico equivalente ϕfat
Il coefficiente dinamico equivalente per le verifiche a
fatica ϕ fat , infine, è definito come rapporto tra il
danneggiamento indotto dalla storia di tensioni dinamica
ed il danneggiamento indotto dalla storia di tensioni
statica,
( )( )
mm
statistati
mdymidymi
fatn
n
∑∑
Δ⋅
Δ⋅=
,,
,,
σ
σϕ (13)
In definitiva detta Δσ c la classe del particolare, la
verifica è soddisfatta se risulta:
cpfateq σσϕλσ Δ≤Δ⋅⋅=Δ (14)
117
Figura 106 - Curve λ1–L (curve S-N n. 1 e n. 2 - fig. 96)
Figura 107 – Curve λ1–L (curva S-N n. 3 - fig. 96)
0.9
1
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
1.6
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
λ 1
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiAuxerreEC2-‐2 (curve 1 e 2)
0.9
1
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
λ 1
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiAuxerreEC2-‐2 (curva 3)
118
Figura 108 – Curve λ1–L (curva S-N n. 5 - fig. 96)
Figura 109 – Curve λ1–L (curva S-N n. 6 - fig. 96)
1
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
1.6
1.7
1.8
1.9
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
λ 1
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiAuxerreEC2-‐2 (curva 5)
1.3
1.4
1.5
1.6
1.7
1.8
1.9
2
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
λ1
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiAuxerreEC2-‐2 (curva 6)
119
Figura 110 – Curve λ1–L (curve S-N n. 4 e n. 7 - fig. 96)
6.9 I COEFFICIENTI PARZIALI γM
I coefficienti parziali γf, relativo alle azioni, e γ
m, relativo
alla resistenza a fatica, che amplificano le ampiezze di
tensione, coprono le incertezze nella valutazione dei
carichi e delle tensioni e la possibile presenza di difetti
nel dettaglio. Essi sono generalmente conglobati in un
unico fattore mfM γγγ ⋅= . Il valore numerico di γM
dipende sia dalla possibilità di individuare e riparare
eventuali lesioni, e quindi dalla maggiore o minore
accessibilità dei dettagli, sia dalle conseguenze della
rottura per fatica del dettaglio.
Una struttura si dice poco sensibile alla rottura per
fatica se la crisi del dettaglio non comporta il collasso
totale o parziale e se la struttura stessa è facilmente
ispezionabile e riparabile. Nella Tabella 24 sono riportati i
valori dei fattori di sicurezza parziali suggeriti
dall'EN1993-1-9.
Tabella 24 – Fattori di sicurezza parziali γM=γf⋅γm
(EN1993-1-9)
Sensibilità della struttura
Conseguenze della rottura per fatica
moderate significative
Struttura poco sensibile 1.00 1.15
Struttura sensibile 1.15 1.35
È importante sottolineare che l’adozione dei valori dei
coefficienti γM riportati in tabella 24 è subordinata
all’adozione di un piano di ispezioni e manutenzione
periodiche, pertanto, in assenza di ispezioni debbono
essere opportunamente maggiorati. A parere dello
scrivente, poiché la frequenza e il numero delle ispezioni
periodiche non modificano la sensibilità della struttura
alla rottura per fatica, in nessun caso un loro incremento
giustifica una riduzione del coefficiente parziale.
0.8
0.9
1
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
1.6
1.7
1.8
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
λ 1
L [m]
MoerdijkEC1-‐2 LM4 EC1-‐2 LM4 isolatiAuxerreEC2-‐2 (curva 7)
120
6.10 INFLUENZA DELLA POSIZIONE TRASVERSALE DEI CARICHI
Allo scopo di illustrare le modalità di applicazione dei
modelli di carico e di verifica a fatica, si fa riferimento ad
un esempio applicativo, costituito da un ponte a trave
continua a tre campate di luci 60.0+80.0+60.0 m (Fig.
111), avente la sezione trasversale illustrata in Figura
112 e portante una sezione stradale di larghezza
complessiva 11.0 m, con due corsie da 3.50 m e due
banchine da 2.00 m, già adottato come riferimento in un
workshop sugli Eurocodici [21], [22].
Figura 111 – Esempio di ponte in sistema misto
Figura 112 – Sezione trasversale Le travi metalliche, composte per saldatura, hanno
sezione a doppio T simmetrica di altezza costante 2800
mm. Le ali, di larghezza costante 1000, hanno spessore
40 mm tra l’appoggio di estremità e la sezione x=35 m,
55 mm nell’intervallo [35, 40 m], 80 mm nell’intervallo
[40, 50 m], 120 mm nell’intervallo [50, 68 m], 80 mm
nell’intervallo [68, 76 m], 55 mm nell’intervallo [76, 86 m]
e 40 mm nel tratto centrale. Le ali hanno spessore 18
mm tra l’appoggio di estremità e la sezione x=40 m, 26
mm nell’intervallo [40, 76 m] e 18 mm nella zona
centrale.
Le sezioni critiche per quanto riguarda la verifica a fatica
sono le sezioni di estremità, le sezioni x=51 m e x=72 m
e la sezione di mezzeria per il taglio e quindi per la
verifica dei connettori, e le sezioni x=35 m, x=72 m, la
sezione di mezzeria e quella sull’appoggio centrale per il
momento flettente e quindi per la verifica dell’acciaio
strutturale e dell’acciaio da c.a.
I dettagli in acciaio strutturale possono essere classificati
in accordo con le tabelle 8.1÷8.4 dell’EN1993-1-9.
Nel caso specifico, quelli maggiormente sensibili sono
rappresentati dalle saldature trasversali a piena
penetrazione tra le ali, superiore e inferiore, dei profili,
che possono essere assimilate al dettaglio tipo 11,
classe 80, della citata tabella 8.3 (Fig. 113 a),
considerando che la zona di raccordo sia distante dalla
saldatura; dalle ali superiori delle sezioni correnti, che, a
causa della saldatura dei pioli corrispondono al dettaglio
9, classe 80, della tabella 8.4 (Fig. 113 b); dalle ali
inferiori correnti dei profili, che a causa della saldatura di
composizione, sono assimilabili al dettaglio 7, classe
100, della tabella 8.2 (Fig. 113 c).
In riferimento al dettaglio tipo 11 si osserva che la classe
si riduce se lo spessore t è maggiore di 25 mm, e che:
( ) CefC t σΔ=σΔ 2.0, 25 (12)
per cui nella sezione x=35 m, dove t=40 mm, la classe
efficace è ΔσC,ef=72.8 MPa.
Le curve S-N così identificate sono riportate nel
diagramma S-N di Figura 114.
2800
7000
1500
2500 7000
12000
2500
121
(a) ΔσC=80 MPa
(b) ΔσC=80 MPa
(c) ΔσC=100 MPa
Figura 113 – Classificazione dei dettagli del ponte
40
104
50
807060
100
510 610 710N 108
160140120
180
240
320 Δσ, Δτ [MPa]
200
109
30
20
80
m=5
100
72.8
m=3
90
162.5
58.5
k =31
k =51
k =92
k =52
A
B
Cm=8
Figura 114 – Curve S-N dei dettagli
Le barre da c.a. non presentano limite di fatica ad
ampiezza costante e sono caratterizzate da curve S-N
bilineari, con rami di pendenza k1 e k2: le curve
differiscono a seconda che si tratti di barre diritte (curva
A di Figura 114) o di barre saldate e reti (curva B di
Figura 114). Infine, l’attacco del piolo è classificato in
termini di tensione tangenziale nominale come dettaglio
di classe ΔτC=90 MPa, associato ad una curva S-N a
pendenza costante m=8 (curva C di Figura 114).
Ai fini della verifica si è considerata una vita utile del
ponte di 100 anni e un traffico annuo di 5⋅105 veicoli
commerciali per corsia, per un totale di 5⋅107 veicoli,
mentre il coefficiente γMf è stato assunto pari a 1.15,
stimando la struttura poco sensibile al danneggiamento e
considerevoli le conseguenze della crisi, in accordo con
la Tabella 24.
Nell’esempio, oltre ai già citati traffici di Auxerre (F) e di
Moerdijk (NL), è stato considerato anche il traffico
registrato in Spagna nell’anno 2000 sull’autostrada A43
Estremadura – Comunità Valenziana in prossimità
dell’innesto con la N310 ad Argamosilla de Alba (E).
Per evidenziarne i parametri statistici maggiormente
significativi, nelle Figure 115 e 116 sono confrontati,
rispettivamente, gli spettri dei carichi asse Q e dei carichi
totali W dei predetti traffici registrati, dai quali emerge
che il traffico di Auxerre è comunque quello più
aggressivo, soprattutto in termini di carichi asse: la
presenza di veicoli molto pesanti nel traffico di Moerdijk
appare, infatti, molto mitigata dalla loro maggiore
lunghezza.
Ci si limita nel prosieguo ad illustrare le verifiche relative
alla sezione x=35 m, non fessurata, che è quella in cui il
danneggiamento per fatica è massimo.
Poiché nei casi considerati la lunghezza base della linea
d’influenza è rilevante, la verifica significativa è
evidentemente quella a danneggiamento, che è stata
t ≤0.2 b b
122
condotta impiegando, per il flusso totale sopra
determinato, il modello di carico 3, il modello di carico 4
nella sua composizione rappresentativa del traffico su
lunga distanza e le tre registrazioni di traffico.
Per quanto concerne la disposizione trasversale del
carico si è ipotizzata una linea d’influenza trasversale
rettilinea, considerando due possibili numerazioni delle
corsie convenzionali, come illustrato in Figura 117: nel
caso 1 si sono adottati criteri cautelativi, ispirati alle
usuali modalità di verifica statica, mentre nel caso 2, più
realistico, si è tenuto conto della numerazione fisica delle
corsie. Nel calcolo sono state escluse interazioni dovute
a simultaneità.
Figura 115 – Spettri dei carichi asse dei traffici di riferimento
Figura 116 – Spettri dei carichi totali dei traffici di riferimento
123
Figura 117 – Numerazioni alternative delle corsie convenzionali per le verifiche a fatica
Impiegando il modello di carico 3 e considerando che
ogni suo passaggio provoca due cicli di momento
flettente di ampiezza γMf η⋅6818 kNm e γMf η⋅412 kNm,
essendo η l’ordinata della linea d’influenza trasversale, il
danneggiamento a fatica risulta trascurabile ovunque
eccetto che nella saldatura trasversale d’intradosso
(Wi=0.193 m3), ove D=3.717 se si considerano le corsie
disposte come nel caso 1 e D=0.788, se la disposizione
è quella del caso 2.
Come detto, il calcolo del danneggiamento è stato
ripetuto considerando, come specificato sopra, oltre che
lo spettro di carico equivalente (LM4) anche tre diversi
modelli di carico n. 5, costituiti dai traffici registrati. Le
verifiche della saldatura trasversale d’intradosso
forniscono, in funzione della numerazione delle corsie, i
valori di danneggiamento riportati nella tabella 25.
Tabella 25 - Danneggiamento a fatica della saldatura all’intradosso, ΔσC,ef=72.8 MPa, x=35 m Modello di carico a fatica
LM3 LM4 Auxerre (F) Moerdijk (NL) Argamosilla de Alba (E)
D (caso 1) 3.717 1.602 0.275 0.099 0.064
D (caso 2) 0.788 0.257 0.027 0.011 0.003
3,50
2,00
3,50
1,50
3,00 3,00
2,50
Caso 1
1.07
14
0.64
29
1,50 2,00
3,00 3,00
0.78
57
1 0.28
57
1
Caso 2
3,50
2,50
3,50
124
Gli spettri di momento flettente indotti nella sezione x=35
m dai modelli 3 e 4 dell’Eurocodice EN1991-2 e dai
traffici registrati sono riportato in figura 118, ove si è
considerato per semplicità γMf=1.0 e η=1.0, e si è
considerato il traffico su una sola corsia.
Diagrammi analoghi a quelli di Figura 118 si sono
ottenuti anche negli altri casi considerati; a titolo
esemplificativo in Figura 119 sono illustrati gli spettri del
taglio nella sezione d’estremità.
Figura 118 – Confronto degli spettri ΔM – sezione x=35 m
Conclusioni
Ai fini delle verifiche a fatica dei ponti stradali, i modelli di
carico a fatica dell’Eurocodice EN1991-2,
sostanzialmente coincidenti con quelli delle NTC2008,
sono stati confrontati sia con il traffico registrato ad
Auxerre, su cui sono basati i modelli stessi, sia con il
modello di carico a fatica della previgente normativa
italiana (DM1990), sia con il traffico registrato
recentemente a Moerdijk, caratterizzato dalla presenza di
una significativa percentuale di veicoli lunghi e pesanti
(LHV), non solo al fine di valutarne l’impatto in termini
progettuali, ma anche allo scopo di valutare la capacità
dei modelli stessi di coprire anche le nuove tendenze
evolutive del traffico.
1.E+04
1.E+05
1.E+06
1.E+07
1.E+08
0 6500 13000
N
ΔM [kNm]
Auxerre (F)Moerdijk (NL)Argamasilla (E)EC1-2 LM4EC1-2 LM3
125
Figura 119 - Confronto degli spettri ΔV – sezione x=0
Il confronto è stato eseguito considerando ponti a
travata, di luce variabile tra 1 m e 100 m, nello schema di
semplice appoggio, in riferimento a ponti in acciaio e a
ponti in c.a. e c.a.p..
Per i dettagli dei ponti metallici sono state considerate le
tipiche curve S-N bi- e trilatere, sì da poter effettuare le
verifiche sia in termini di danneggiamento, sia, ove
rilevante, in termini di vita illimitata.
Per i dettagli d’armatura dei ponti in c.a., che sono
caratterizzati da assenza di limite di fatica, sono state
considerate, invece, le curve S-N bilatere date
dall’EN1992-1-1 e dall’EN1992-2.
Lo studio è stato completato determinando anche i
coefficienti di danneggiamento equivalente λ1, λ2 eλ3,
relativi ai diversi spettri di carico considerati.
L’analisi dei risultati ottenuti evidenzia che:
- i modelli di carico a fatica dell’EC1-2 sono ben
calibrati e coprono ampiamente anche il traffico di
Moerdijk;
- i coefficienti λ1 dell’EC3-2 sono eccessivamente
conservativi e possono essere affinati anche sulla
base dei risultati qui presentati;
- i coefficienti λ1 dell’EC2-2 sono forniti
limitatamente all’intervallo 10÷50 m e
sottostimano, generalmente, l’effettivo
danneggiamento;
- i coefficienti λ2 e λ3 dell’EC3-2 sono anch’essi
suscettibili di affinamenti: essi, infatti, portano, in
genere, a sottostimare il danneggiamento per
flussi totali minori di quello di riferimento e a
sovrastimarlo per flussi superiori;
- come atteso, il modello del DM 1990,
eccessivamente semplificato e scarsamente
flessibile, conduce a stime del danneggiamento
assolutamente inattendibili.
Nel caso studio è stato considerato anche il traffico
registrato in Spagna, ad Argamosilla de Alba. Il traffico
spagnolo, benché complessivamente meno severo degli
altri due, tende comunque ad uniformarsi a quello
continentale.
Nel caso studio si è evidenziato come le verifiche a fatica
siano fortemente influenzate dalle assunzioni riguardo
alla numerazione delle corsie, che deve quindi essere
considerata con estrema attenzione. Infatti,
l’individuazione di scenari di traffico sul ponte più
realistici, meno severi di quelli da considerare per le
verifiche statiche, può portare a significative riduzioni del
danneggiamento calcolato, con le ovvie conseguenze.
1.E+04
1.E+05
1.E+06
1.E+07
1.E+08
1.E+09
0 500 1000
N
ΔV [kN]
Auxerre (F)Moerdijk (NL)Argamasilla (E)EC1-2 LM4EC1-2 LM3
126
Nel caso in esame, per la verifica dei dettagli in acciaio, i
modelli di carico a fatica LM3 e LM4 risultano molto
cautelativi: tale tendenza, come del resto atteso, è più
evidente per il modello 3. Questo risultato non è
sorprendente se si considera, da un lato, che i modelli di
carico sono stati calibrati impiegando curve S-N prive di
limite di fatica, dall’altro, che, nello specifico, gran parte
dello spettro di tensione si situa in prossimità del limite
per i calcoli di fatica o cut-off limit ΔσL, per cui piccole
variazioni dei Δσ dello spettro determinano grandi
variazioni di D.
Lo studio è ovviamente suscettibile di approfondimenti,
considerando una casistica più ampia e, in particolare,
schemi statici più complessi.
BIBLIOGRAFIA
[1] Bruls, A et al., ENV1991 Part 3: The main model
of traffic loads on road bridges. Background studies.
Proceedings of IABSE Colloquium on Basis of Design
and Actions on Structures. Background and Application
of Eurocode 1. Delft, 1996.
[2] Croce, P., Background to Fatigue Load Models
for Eurocode 1: Part 2 Traffic Loads. Progress in
Structural Engineering and Materials 1(3:4): 250-263,
2001.
[3] Croce, P., Traffic loads on road bridges.
Proceedings of Leonardo Seminar on EN1991 - Actions
on structures. Pisa: TEP, 2001
[4] Croce, P., Salvatore, W., Stochastic model for
multilane traffic effects on bridges. Journal of Bridge
Engineering, ASCE, 6(2): 136-143, 2001
[5] Croce, P., Sanpaolesi, L., Design of bridges.
Pisa: TEP, 2004.
[6] O’Brien, E.J. et al., Bridge applications of weigh-
in-motion. Paris: LCPC, 1998
[7] O’Connor, A.J. et al., Effects of traffic loads on
road bridges – Preliminary studies for the re-assessment
of the Eurocode 1, Part 3. 2nd European Conference on
WIM of road vehicles Proc. Lisbon, 1998
[8] Council Directive 96/53/EC of 25.07.1996 laying
down for certain road vehicles circulating within the
Community the maximum dimensions in national and
international traffic and the maximum authorized weights
in international traffic (OJ L 235, 17.9.1996, p. 59), 1996
[9] UNI EN 1991-2, Eurocode 1: Actions on
structures – Part 2: Traffic loads on bridges, UNI, Milano,
2005
[10] DM 4.5.90, Aggiornamento delle norme tecniche
per la progettazione, l'esecuzione e il collaudo dei ponti
stradali, 1990.
[11] UNI EN 1993-1-9, Eurocode 3: Design of steel
structures – Part 1-9: Fatigue, Milano, UNI, 2005
[12] UNI EN 1992-1-1 – Eurocodice 1: Progettazione
delle strutture di calcestruzzo – Parte 1-1: Regole
generali e regole per edifici, Milano, UNI, 2005.
[13] UNI EN 1992-2 – Eurocodice 1: Progettazione
delle strutture di calcestruzzo – Parte 2: Ponti di
calcestruzzo – Progettazione e dettagli costruttivi,
Milano, UNI, 2005
[14] UNI EN 1993-2, Eurocode 3: Design of steel
structures – Part 2: Steel bridges, Milano, UNI, 2007
[15] van Bentum, C.A. & Dijkstra, O.D., Process
description of equivalent fatigue load on bridge decks.
TNO report 366 B UK. Delft: TNO, 2008.
[16] Caramelli, S., Croce, P., Influence of heavy
traffic trend on EC1-2 load models for road bridges,
CSHM2 Proc. Balkema, Rotterdam, 2009.
[17] Circolare 02/02/2009 n. 617 del C.S.LL.PP.:
Istruzioni per l’applicazione delle norme tecniche per le
costruzioni, Roma, 2009
[18] Croce, N., Croce, P., Evoluzione dei carichi da
traffico e verifiche a fatica dei ponti in c.a. e c.a.p., Atti
delle Giornate Aicap 2009, Pisa, 2009.
[19] Croce, N., Croce, P., Formichi, P., Moderne
tendenze di traffico e verifiche a fatica dei ponti in
acciaio., Atti del XXII Convegno C.T.A., Padova, 2009.
[20] Caramelli, S., Croce, P., Messina bridge: testing
assisted deck fatigue design, IIW Conference on Welded
Constructions: Achievements and perspectives for the
new millennium. Florence, 2000.
[21] Davaine, L., Global analysis of a steel-concrete
composite two-girder bridge according to Eurocode 4,
Workshop Bridge design to Eurocodes Proceedings,
Vienna, 2010.
[22] Croce, P., Actions during execution, Accidental
actions and Traffic loads, Workshop Bridge design to
Eurocodes Proceedings, Vienna, 2010.