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DISOCCUPAZIONE E INFLAZIONEPROF. MATTIA LETTIERI

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“DDIISSOOCCCCUUPPAAZZIIOONNEE EE IINNFFLLAAZZIIOONNEE”

PROF. MATTIA LETTIERI

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Università Telematica Pegaso Disoccupazione e inflazione

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 LA DISOCCUPAZIONE ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 3

2 L’INTERPRETAZIONE ECONOMICA---------------------------------------------------------------------------------- 7

3 L’INFLAZIONE --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 11

4 L’INTERPRETAZIONE ECONOMICA DELL’INFLAZIONE ---------------------------------------------------- 15

5 LA CURVA DI PHILLIPS -------------------------------------------------------------------------------------------------- 17

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1 La disoccupazione

Uno dei risultati che ogni paese vorrebbe realizzare è l’obiettivo di garantire uno stabile

livello di occupazione e la presenza di opportunità favorevoli per coloro che desiderano entrare nel

mercato del lavoro.

Una delle conseguenze, forse più gravi, delle recessioni è l’aumento della disoccupazione,

un problema difficile da contrastare.

Per monitorare l’andamento del mercato del lavoro in riferimento al fenomeno della

disoccupazione, l’Istat effettua interviste ad un campione ponderato di famiglie.

La rilevazione campionaria è denominata continua poiché le informazioni sono raccolte in

tutte le settimane dell’anno e non più in una singola settimana per trimestre, come accadeva fino a

qualche anno fa.

Tuttavia, i risultati continuano ad essere diffusi con cadenza trimestrale.

I soggetti a cui viene somministrato il questionario devono rispondere a domande

riguardanti il proprio sforzo lavorativo profuso durante una settimana di riferimento.

Tutti familiari in età da lavoro vengono ripartiti in una delle seguenti categorie:

Occupati: secondo l’Istat, rientrano in questa categoria tutte le persone aventi

almeno 15 anni di età che nella settimana di riferimento della rilevazione:

⁻ Hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che

preveda un corrispettivo monetario o in natura;

⁻ Hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un

familiare nella quale collaborano abitualmente;

⁻ Sono assenti dal lavoro, ad esempio, per ferie o per malattia.

Persone in cerca di occupazione. In questa categoria rientrano le persone non

occupate in età lavorativa che:

⁻ Hanno effettuato almeno una azione attiva di ricerca di lavoro nei

trenta giorni che precedono la rilevazione e sono disponibili a lavorare entro le due

settimane successive alla rilevazione stessa;

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⁻ Oppure inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla rilevazione e sono

disponibili a lavorare entro le due settimane dalla rilevazione qualora fosse possibile

anticipare l’inizio del lavoro.

Non forza lavoro. In questa categoria rientrano tutte le persone che non fanno

parte di nessuna delle due categorie precedenti, ad esempio, casalinghe, studenti, ritirati dal

lavoro per età o per invalidità, ecc.

Un primo indicatore del mercato del lavoro, a cui si fa riferimento di frequente, è il tasso di

attività, ovvero il rapporto tra la forza lavoro e la popolazione in età lavorativa.

Il tasso di disoccupazione è invece espresso come il numero di disoccupati, ovvero tutti

coloro che non hanno una occupazione ma la stanno attivamente cercando, rispetto alla forza

lavoro.

Il tasso di attività dipende da fattori: di natura demografica, sociale, culturale.

Molti paesi industrializzati, tra i quali l’Italia, hanno registrato un progressivo calo del tasso

di attività, per diverse ragioni, tra queste:

Il progressivo invecchiamento della popolazione: per effetto

dell’allungamento della vita media cresce il numero della popolazione inattiva e diminuisce

la forza lavoro;

Il prolungamento della durata media degli studi da parte dei giovani, che

ritardano così il loro ingresso sul mercato del lavoro;

La crescita dell’occupazione femminile e la conseguente riduzione del

numero di casalinghe ha indotto un progressivo aumento della forza lavoro, provocando un

effetto di segno contrario, ovvero cresce la popolazione attiva e aumenta la forza lavoro;

Le immigrazioni, costituite da giovani, in modo prevalente, attivamente alla

ricerca di una occupazione, determinano un aumento della forza lavoro.

Altri importanti indicatori sono quelli che si basano sull’osservazione dei flussi di entrata e

di uscita dalla disoccupazione sulla durata della stessa.

Se si osserva il mercato del lavoro in un dato intervallo di tempo, ad esempio un anno, si

possono registrare ampi movimenti in entrata e in uscita dalla disoccupazione.

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In generale i flussi di entrata sono alimentati da tutti coloro che diventano disoccupati,

perché ad esempio, avevano una occupazione e l’hanno persa o da coloro che entrano perla prima

volta nel mercato del lavoro, o, ancora, dagli immigrati in cerca di lavoro.

Ai flussi di uscita sono, invece, costituiti da tutti quegli individui che escono dalla

condizione di disoccupato e ciò può accadere perché trovano lavoro, o perché ritornano a far parte

della popolazione non attiva, oppure emigrano all’estero o perché deceduti.

Tanto più è intenso il flusso di entrata tanto più è elevato il tasso di disoccupazione che, al

contrario, si riduce quando aumentano i flussi in uscita.

Se il tasso di disoccupazione è stabile, vuol dire che i flussi in entrata e in uscita si

compensano perfettamente.

Il tasso di disoccupazione è influenzato, oltre che dai flussi in entrata e in uscita, anche dalla

durata della disoccupazione, ovvero dal tempo durante il quale un individuo si trova nella

condizione di disoccupato.

Questa durata non corrisponde necessariamente al tempo occorrente per trovare una

occupazione, perché si esce dalla condizione di disoccupato non solo perché si trova lavoro, ma

anche per altre ragioni.

La durata della disoccupazione dipende, inoltre, dalle fasi del ciclo economico. Il tempo

medio necessario per ottenere una occupazione può essere breve nelle fasi di espansione

dell’economia, ma può diventare anche molto lungo nelle fasi di recessione, ovvero quando la

permanenza nella condizione di disoccupazione è superiore a un anno si parla anche di

disoccupazione di lunga durata.

Essa è legata anche alla flessibilità del mercato del lavoro, infatti nei paesi europei che

presentano una maggiore regolamentazione rispetto ad altri sistemi economici la durata della

disoccupazione è di solito maggiore, questo vale soprattutto per i giovani che si affacciano per la

prima volta sul mercato del lavoro.

La durata della disoccupazione, inoltre, dipende, dalla normativa sociale a favore dei

disoccupati. La presenza di sussidi di disoccupazione o di altre forme di sostegno economico di una

certa entità, ad esempio, potrebbero disincentivare gli individui ad accettare qualsiasi tipo di

disoccupazione venga loro offerta, prolungando, in questo modo, la durata media della

disoccupazione.

Inoltre, sia i lavoratori che le imprese potrebbero essere più propensi a istituire rapporti di

lavoro instabili o precari.

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Quando l’ammontare dei sussidi non è molto inferiore al reddito che verrebbe normalmente

percepito lavorando, le imprese possono essere più disposte a sospendere i lavoratori in presenza di

un calo temporaneo della domanda per riassumerli poi in momenti più favorevoli.

Questi effetti, ovviamente, sono poco determinanti per quei paesi, come l’Italia, in cui

l’entità del sussidio di disoccupazione è del tutto irrilevante.

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2 L’interpretazione economica

La teoria economica distingue fra diversi tipi di disoccupazione:

Disoccupazione frizionale;

Disoccupazione ciclica o congiunturale;

Disoccupazione strutturale.

Per disoccupazione frizionale si intende una condizione momentanea di disoccupazione che

si crea a seguito dello squilibrio tra flussi di entrata e flussi di uscita dal mercato del lavoro.

Può accadere che sul mercato vi siano, contemporaneamente, posti di lavoro liberi da un lato

e disoccupati dall’altro. Questo dipende dal fatto che il mercato del lavoro non funziona in modo

perfetto ed automatico ma presenta alcune frizioni.

In qualunque momento si cerchi di stimare il tasso di disoccupazione vi saranno lavoratori in

attesa di passare da una occupazione ad un’altra, o persone che cercano una occupazione migliore,

o, ancora, individui che sono solo temporaneamente inattivi perché in attesa di iniziare una attività

lavorativa.

Quando la disoccupazione frizionale è anche l’unica forma di disoccupazione presente, si

dice che il sistema economico è in una condizione di pieno impiego.

Il tasso di disoccupazione frizionale può variare da paese a paese ma normalmente si stima

che sia compreso tra il 2 e il 5%.

La disoccupazione ciclica viene considerata disoccupazione di breve periodo e si determina

quando la domanda complessiva di lavoro è scarsa perché il momento congiunturale è sfavorevole.

Essa si manifesta soprattutto nelle fasi di recessione economica, quando la domanda di beni

e servizi è bassa, le imprese riducono la produzione e quindi anche l’occupazione ne risente.

In base alla legge di Okun, che prende il nome dell’economista americano che studiò la

relazione empirica esistente tra crescita reale e variazioni della disoccupazione, ogni diminuzione

del PIL di circa il 2-2,5% rispetto al suo valore potenziale comporta un aumento del tasso di

disoccupazione del’1%.

La disoccupazione strutturale è quella più grave e più difficile da eliminare, poiché colpisce

interi settori industriali o aree geografiche di un paese e si manifesta con squilibri stabili e

permanenti tra domanda e offerta di lavoro.

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In questi casi l’offerta di lavoro risulterebbe comunque eccedente rispetto alla domanda.

Una disoccupazione di tipo strutturale è quella che ha colpito, ad esempio, l’industria

siderurgica o il settore agricolo nel nostro paese.

Le ragioni di questi squilibri permanenti sul mercato del lavoro sono diverse: possono

crearsi a seguito dell’introduzione di tecniche produttive labuor saving, che sostituiscono i

lavoratori con le macchine, come accade a seguito dell’automazione di numerosi processi di

produzione; può essere anche causata da insufficienti livelli di investimento con conseguente basso

impiego di lavoro in alcuni settori produttivi.

Un’altra distinzione è tra disoccupazione volontaria e disoccupazione involontaria:

La disoccupazione volontaria si verifica quando esiste una parte di lavoratori

disposta a lavorare solo per un salario superiore a quello che si determina dall’incontro tra

domanda e offerta;

La disoccupazione involontaria riguarda quei lavoratori che sarebbero

disposti a lavorare per il salario corrente o di mercato ma non riescono a farlo perché la

domanda di lavoro da parte delle imprese è già interamente soddisfatta.

La distinzione fra queste due forme di disoccupazione è legata alla diversa visione del

mondo che le teorie economiche accolgono.

Per i classici, la disoccupazione può essere solo volontaria mentre per i Keynesiani, la

disoccupazione è sempre involontaria.

Secondo le teorie classica e neoclassica, che si basano sull’ipotesi di concorrenza

perfetta e quindi sull’ottimale funzionamento del meccanismo dei prezzi, anche il mercato del

lavoro se lasciato libero di agire troverà il suo equilibrio.

In corrispondenza del saggio di salario di equilibrio, le imprese occuperanno esattamente

il numero di persone che desidera lavorare per quel dato salario. Eventuali lavoratori rimasti

fuori dal mercato potrebbero essere disposti ad offrire il loro lavoro ad un salario più basso

rispetto a quello di equilibrio. Salari più bassi incentivano le imprese ad aumentare la loro

domanda di lavoro e pertanto la disoccupazione diminuirà.

Poiché, in teoria, questo meccanismo può proseguire fino a quando esiste un eccesso di

offerta, la disoccupazione può essere pari a zero, se ciò non accade, significa che vi sono dei

lavoratori che non sono disposti a lavorare per un salario ritenuto troppo basso.

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L’eventuale disoccupazione non può che essere di tipo volontario.

La teoria Keynesiana assume che i salari non siano perfettamente flessibili, con la

conseguenza che il meccanismo di aggiustamento dei prezzi che garantisce l’equilibrio non può

funzionare, poiché i salari non possono scendere al di sotto di un determinato livello, si creano

di conseguenza squilibri sul mercato del lavoro, nel senso che vi sono lavoratori disposti a

lavorare ma, data l’insufficiente domanda effettiva, le imprese non sono disposte ad occuparli.

Le imprese, d’altra parte, non basano la loro domanda di lavoro sul salario, quanto

piuttosto sulle loro previsioni di vendita. Se queste previsioni sono ottimistiche perché sperano

in una crescita della domanda effettiva, esse domandano lavoro e la disoccupazione si riduce,

mentre, se le previsioni future sull’andamento della domanda sono pessimistiche, aumenta.

In queste circostanze la disoccupazione sarà involontaria.

La disoccupazione secondo la teoria Keynesiana, abbiamo visto, che è dovuta al fatto

che, nel breve periodo, il prodotto nazionale effettivo è al di sotto del suo livello potenziale,

soprattutto nelle fasi di recessione, si tratta, quindi, di una disoccupazione ciclica.

Inoltre, poiché, i salari sono rigidi verso il basso, si tratta anche di una disoccupazione

involontaria, ovvero i lavoratori che restano esclusi dal mercato del lavoro sarebbero disposti a

lavorare per il salario corrente di mercato ma la domanda di lavoro da parte delle imprese risulta

già pienamente soddisfatta dai lavoratori occupati.

La ricetta Keynesiana per combattere la disoccupazione, è quella di incrementare

direttamente la domanda aggregata, attraverso un aumento della spesa pubblica, o

indirettamente, favorendo gli investimenti da parte delle imprese con opportune agevolazioni

fiscali o creditizie.

Per cercare di risolvere il problema della disoccupazione strutturale, però, non basta

agire sulla domanda aggregata.

Occorrono interventi specifici come nuovi investimenti, processi di riconversione

industriale, riqualificazione professionale.

Si tratta di interventi che agiscono sulla struttura del mercato del lavoro e sulle

professioni ma che richiedono anche tempi di realizzazione molto lunghi.

Per i classici qualunque intervento dello Stato potrebbe essere controproducente in

quanto rischia di ottenere risultati poco significativi sull’occupazione di lungo periodo e di

produrre soltanto spinte inflazionistiche.

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Tutto ciò che è necessario fare è liberalizzare il mercato del lavoro e cercare di renderlo

più flessibile per ristabilire la piena occupazione.

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3 L’inflazione

Per tasso di inflazione si intende il tasso percentuale di aumento del livello dei prezzi in un

determinato periodo di tempo, di solito un anno.

Indicando con Pt il livello medio dei prezzi in un dato periodo e con Pt+1 il livello dei prezzi

in periodo successivo, possiamo esprimere il tasso di inflazione come:

tasso di inflazione = (Pt+1 - Pt)/Pt

se i prezzi al tempo t sono pari a 100 (Pt = 100) e nel periodo, ad esempio dopo un anno,

salgono a 110 (Pt+1 =110) il tasso di inflazione sarà pari al 10%.

Per misurare il livello dei prezzi si utilizzano i numeri indici, i quali consistono in rapporti

matematici che consentono di confrontare l’intensità di un fenomeno in situazioni temporali e

spaziali differenti.

Si ricorre, a tali rapporti matematici, anche per avere una misura del grado di inflazione in

una nazione.

Ad esempio, in Italia l’ISTAT fa riferimento a tre indici dei prezzi:

L’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC);

L’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati (FOI);

L’indice armonizzato dei prezzi al consumo per i paesi dell’Unione Europea

(IPCA).

Il NIC è il principale indice del sistema degli indici dei prezzi al consumo impiegato

dall’ISTAT a partire dal 1999.

Il FOI e l’IPCA, invece, costituiscono degli indici cosiddetti speciali.

L’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività si riferisce al prezzi della

generalità dei beni e servizi richiesti dalle famiglie italiane.

L’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati tiene conto dei

consumi dei lavoratori non agricoli.

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L’indice armonizzato dei prezzi al consumo per i paesi dell’Unione europea, si riferisce alla

generalità dei consumi delle famiglie presenti nel territorio ma limitatamente a quei beni e servizi i

cui regimi di prezzi sono comparabili nei diversi paesi dell’Unione Europea.

Nel 1999 oltre all’adozione del nuovo sistema degli indici dei prezzi al consumo l’ISTAT ha

anche aggiornato il paniere di beni e servizi sulla base del quale vengono poi calcolati gli indici

stessi.

Il paniere dei prodotti è formato da quei beni e servizi che hanno un peso maggiore nelle

decisioni di spesa delle famiglie considerate.

Inoltre, è possibile determinare l’andamento del livello dei prezzi, costruendo degli indici

che hanno come riferimento alcune grandezze di contabilità nazionale, tra questi il deflatore del

PIL.

Quest’ultimo è un indice dei prezzi che se rapportato al PIL nominale consente di ottenere il

PIL reale, ovvero il prodotto interno lordo depurato dell’aumento dei prezzi.

Per ottenere il PIL reale si assume l’anno 1 come anno base e si pone uguale ad 1 il livello

dei prezzi di quello stesso anno (P=1), tale livello costituisce il deflatore del PIL.

Con il termine di deflazione si intende la condizione opposta di una diminuzione del livello

dei prezzi in un dato periodo di tempo.

Nelle economie di mercato i fenomeni di diminuzione costante dei prezzi si verificano di

rado e coincidono generalmente con fasi di profonda recessione.

Ad esempio, negli Stati Uniti assumendo come anno base il 1929, i prezzi scesero da un

livello pari a 100 a 75,4 nel 1933.

A seconda dell’intensità dell’inflazione possiamo distinguere tra:

Inflazione strisciante;

Inflazione galoppante;

Iperinflazione.

Si parla di inflazione strisciante quando l’aumento è relativamente modesto, generalmente

inferiore al 10% su base annua, di inflazione galoppante nel caso di forti aumenti, e di

iperinflazione quando i prezzi subiscono aumenti incontrollabili e così elevati da essere misurati su

base mensile o con riferimento ad intervalli di tempo ancora più brevi.

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I casi più incredibili furono l’iperinflazione tedesca degli anni 1922-1924, il tasso di

inflazione mensile superò il 300% con un picco nell’ottobre del 1923 pari al 29.000%. per fortuna,

oggi, casi di iperinflazione così spaventosa sono rari.

Se l’inflazione fosse perfettamente prevista da parte di tutti gli agenti economici, le imprese,

gli investitori, i lavoratori, i consumatori, essa non comporterebbe alcun costo e non dovrebbe

quindi determinare alcun particolare effetto.

Sarebbe sufficiente prevedere dei meccanismi che tengano conto del fatto che il livello dei

prezzi sarà cresciuto ad un dato tasso. Poiché questi meccanismi si basano sul calcolo di numeri

indice, essi sono detti di indicizzazione.

Confrontando gli schemi teorici a prezzi fissi e a prezzi variabili, gli agenti economici

mettono in atto le loro azioni in relazione alle grandezze reali, non a quelle monetarie. Ai lavoratori,

infatti, interessa il potere di acquisto reale del salario, agli investitori interessa il rendimento reale

dei loro investimenti ecc.

Però, è abbastanza difficile prevedere con esattezza il tasso di inflazione, soprattutto quando

è necessario farlo, come accade in molti contratti, per un lungo intervallo di tempo.

Quando si verificano rialzi improvvisi ed elevati nel livello dei prezzi, inevitabilmente ci

sarà qualcuno che trae dei vantaggi e qualcun altro che sopporta dei costi.

Un primo e importante effetto è dato dalla redistribuzione del reddito della ricchezza e

questo effetto redistributivo si manifesta per ogni attività economica espressa in termini nominali,

come accade per la moneta, per i prestiti e per i contratti.

Chi ha contratto un debito trae un vantaggio netto dal rialzo improvviso dei prezzi poiché,

alla scadenza, dovrà restituire una somma di denaro che nominalmente ha sempre lo stesso valore

ma che, dal punto di vista reale, ha perso potere di acquisto.

Chi ha concesso il prestito, viceversa, subirà una perdita netta poiché l’ammontare di denaro

che riceverà al momento della restituzione avrà un valore inferiore.

Per evitare questi effetti, molte forme di debito hanno tassi di interesse variabili che si

adeguano in relazione all’andamento dei prezzi.

Gli investitori sono interessati al tasso reale e non al tasso nominale delle attività

finanziarie.

Il tasso di interesse reale altro non è che il tasso di interesse nominale depurato del tasso di

inflazione.

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In presenza di un tasso di inflazione del 5%, a un tasso di interesse nominale del 9% sui

titoli del debito pubblico corrisponde, ad esempio, un tasso reale del 4%.

Inoltre si ritiene che l’inflazione determini un vantaggio per chi percepisce i profitti e

colpisca in prevalenza tutti coloro che percepiscono un salario o comunque un reddito fisso. Questo

dipende dal fatto che i prezzi aumentano più velocemente dei salari e per questa ragione i profitti

aumentano mentre i salari perdono potere di acquisto.

Allo scopo di mantenere inalterato il potere di acquisto reale dei salari in Italia, a partire

dalla metà degli anni Settanta e fino al 1993, furono introdotti meccanismi di indicizzazione

salariale che adeguavano automaticamente i salari alla dinamica dei prezzi, la cd. scala mobile.

Questi meccanismi presentano delle controindicazioni, la più importante è che innescano

una spirale di aumenti prezzi/salari difficile da controllare.

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4 L’interpretazione economica dell’inflazione

Sarebbe relativamente facile trovare una soluzione al problema dell’inflazione se esistesse

un’unica causa.

Vi può essere più di una ragione alla base dell’instabilità dei prezzi, inoltre ciascuna teoria

economica fornisce una diversa giustificazione alle cause dell’inflazione.

Una prima interpretazione è fornita dalla teoria Keynesiana, ed è relativa alla cd. inflazione

da domanda.

Quando il sistema economico è al di sotto del livello di pieno impiego un aumento della

domanda aggregata determina una crescita della produzione e un calo della disoccupazione.

Tuttavia, se la domanda aggregata cresce oltre il potenziale di produzione di un paese, le

imprese non sono in grado, nel breve periodo, di adeguare la loro offerta, per cui si viene a creare

un eccesso di domanda.

Per riportare in equilibrio domanda ed offerta aggregata i prezzi saliranno, determinando in

questo modo una spinta inflazionistica.

I monetaristi spiegano il rialzo dei prezzi come una necessitò di riequilibrare domanda e

offerta, a seguito di una crescita della domanda aggregata al di sopra del livello di produzione di

pieno impiego, ma individuano la causa iniziale dell’inflazione in un eccesso della quantità di

moneta rispetto a quanto sarebbe strettamente necessario.

L’offerta di moneta troppo elevata è il principale fattore che determina inflazione in quanto

inevitabilmente provoca un aumento della domanda aggregata.

Se il sistema economico è vicino al livello di pieno impiego, l’offerta aggregata non può far

fronte a questo eccesso di domanda, per cui i prezzi salgono e si crea inflazione.

I monetaristi a sostegno della loro tesi portano l’esempio dell’iperinflazione tedesca degli

anni Venti, e quella russa agli inizi degli anni Novanta, quando per finanziare il deficit di bilancio il

governo russo aumentò fortemente l’offerta di moneta stampando rubli e provocando una inflazione

superiore al 1.000%.

Un’altra spiegazione è che l’inflazione sia originata da un aumento dei costi. Quando il

prezzo delle materie prime e i salari aumentano le imprese aumentano i prezzi per mantenere i loro

margini di profitto.

Questo tipo di spiegazione sembra essere adeguata a spiegare i fenomeni di inflazione delle

moderne economie industriali. Infatti, la tendenza alla crescita costante dei prezzi anche in periodi

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di recessione è difficilmente spiegabile con la tesi dell’inflazione da domanda. Prezzi e salari

aumentano anche quando la capacità produttiva elle imprese non è pienamente utilizzata e una parte

delle forze lavoro è disoccupata.

Agli inizi degli anni Settanta è stato coniato il termine di stagflazione, stagnazione +

inflazione.

La principale causa di questo fenomeno è rappresentata dalle aspettative che gli agenti

economici hanno sulla dinamitica futura dei prezzi.

In periodi di prezzi elevati, gli individui si aspettano ulteriori aumenti dei prezzi, di cui

tengono conto nei contratti e negli accordi in cui si impegnano per il futuro.

Quindi, ad esempio, i lavoratori attraverso i sindacati chiedono aumenti salariali in

previsione dell’aumento dei prezzi, ma gli aumenti salariali generano a loro volta un rialzo dei

prezzi.

In questo modo, il processo inflazionistico si autoalimenta e, in questo caso, si parla di

inflazione inerziale.

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5 La curva di Phillips

Arthur Phillips, alla fine degli anni Cinquanta, studiando i dati relativi all’andamento della

disoccupazione e dei salari nel Regno Unito nell’arco di un secolo, individuò l’esistenza di una

relazione inversa tra inflazione e disoccupazione. Ciò lo indusse a credere che ad ogni livello di

disoccupazione si associasse un certo saggio di variazione dei salari monetari e che la relazione

fosse così stabile che, controllando il livello della domanda globale, quindi del’occupazione, si

sarebbe potuto controllare la variazione dei salari e quindi dei prezzi.

Nel corso di un periodo di tempo piuttosto lungo, se la disoccupazione è bassa, i salari

tendono a crescere generando un aumento dei prezzi e quindi inflazione.

Invece, accade il contrario quando la disoccupazione è elevata, infatti i salari si abbassano e

con essi anche i prezzi. Questo dipende dal fatto che i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali

esercitano una pressione maggiore per ottenere aumenti salariali quando la disoccupazione è bassa.

Viceversa, in periodi di elevata disoccupazione, il potere contrattuale dei sindacati è inferiore,

quindi i salari e i prezzi sono stabili.

Questa relazione è nota come curva di Phillips.

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Figura n.80

La curva di Phillips mette in luce l’esistenza di una relazione reciproca, tade-off, tra

inflazione e disoccupazione.

Più è alto il tasso di disoccupazione, più è basso il tasso di inflazione. Questo vuol dire,

almeno in linea teorica, che il sistema economico potrebbe ridurre la disoccupazione purché sia

disposto a pagare il prezzo di un tasso di inflazione più alto o può scegliere di ridurre l’inflazione

ma sopportando il costo di un aumento della disoccupazione.

Phillips e, più approfonditamente, Lipsey spiegarono i risultati dell’indagine empirica

osservando che il mercato del lavoro funziona, come ogni altro mercato, in base alla legge della

domanda e dell’offerta e che l’aumento dei salari a bassi livelli di disoccupazione è dovuto

soprattutto il fatto che quando la domanda globale è alta e la forza lavoro viene a mancare gli

imprenditori si fanno concorrenza gli uni con gli altri offrendo salari più alti per attrarre lavoratori

dalle altre imprese. Nelle interpretazioni successive la curva di Philips è stata usata per spiegare le

inflazioni da costo.

Lipsey spiegò la curva di Phillips con la consueta legge della domanda e dell’offerta,

argomentando che i salari monetari crescono solo quando vi è eccesso della domanda sull’offerta di

lavoro e si riducono quando l’offerta di lavoro è maggiore della domanda.

Di conseguenza il punto in cui la curva di Phillips taglia l’asse delle ascisse, che è il punto in

cui i salari monetari sono costanti, non può essere che il punto in cui la domanda di lavoro è eguale

all’offerta e il mercato del lavoro è in equilibrio. L’equilibrio nel mercato del lavoro non significa

che non ci sia disoccupazione.

A partire dagli anni Sessanta, furono condotte numerose ricerche empiriche per cercare di

confermare o smentire questa relazione.

Da questi studi è emerso che una reazione inversa tra disoccupazione e inflazione talvolta

esiste, ma solo nel breve periodo. La relazione esistente nel corso degli anni Sessanta tra inflazione

e disoccupazione rispecchierebbe abbastanza bene la curva di Phillips, mentre nei due decenni

successivi questo trade-off sembra essere venuto meno, poiché vi sono stati periodi in cui una

elevata inflazione è stata accompagnata da una disoccupazione altrettanto elevata.

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Se nel breve periodo la curva di Phillips è stabile ed esiste un trade-off tra disoccupazione e

inflazione, nel lungo periodo questa relazione viene meno e il tasso di disoccupazione risulta essere

indipendente dal tasso di inflazione di lungo periodo.

Figura n.81

La differenza fra relazione di breve e di lungo periodo è stata messa in luce anche dalla

scuola monetarista.

Secondo tali economisti, tale differenza, dipende dal fatto che la curva di Phillips non

esprime una relazione stabile tra le due grandezze, ma varia al variare delle aspettative di inflazione

e si sposta nel tempo.

Se le aspettative sono una crescita dell’inflazione, nel periodo successivo la curva di Phillips

si sposterà verso l’alto, il risultato finale è che il tasso di disoccupazione non cambia mentre

l’inflazione aumenta.

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Nel breve periodo la curva di Phillips può avere pendenza negativa, nel lungo periodo esiste

un solo tasso di disoccupazione in corrispondenza del quale l’inflazione è costante. Per questa

ragione la curva di Phillips di lungo periodo è rappresentata da una retta verticale in corrispondenza

del tasso di disoccupazione naturale, figura n. 81.

Il tasso di disoccupazione naturale, Un, è quello in corrispondenza del quale c’è una piena

occupazione e non vi sono pressioni né per un rialzo dell’inflazione né per un suo calo.

Questo non significa che all’interno del sistema economico non vi sono disoccupati, ma vuol

dire che la disoccupazione è al suo livello più basso possibile.

Quando la disoccupazione scende al di sotto del suo tasso naturale l’inflazione tende ad

aumentare. Viceversa, quando la disoccupazione è al di sopra del suo tasso naturale l’inflazione

diminuisce.

Solo quando la disoccupazione è al suo livello naturale anche l’inflazione è stabile e sotto

controllo.

Il fatto che la curva di Phillips di lungo periodo sia una retta verticale ha due conseguenze

sulle scelte di politica economica:

Nel lungo periodo un sistema economico non può ridurre la disoccupazione al

di sotto del suo tasso naturale senza provocare un forte aumento dei prezzi e dei salari;

Nel breve periodo è possibile intervenire a favore dell’una o dell’altra

grandezza, ma sono scelte che hanno un costo. Se si vuole intervenire a favore

dell’occupazione si dovrà accettare un tasso di inflazione più elevato, se, invece, si può

cercare di tenere sotto controllo il tasso di inflazione si può provocare una recessione e un

peggioramento della disoccupazione.

La conclusione degli economisti classici e dei monetaristi è che le politiche Keynesiane a

sostegno dell’occupazione, condotte attraverso aumenti della domanda aggregata, non producono

alcun risultato positivo sul mercato del lavoro ma generano soltanto disoccupazione.

Gli economisti Keynesiani non sono dello stesso parere. Il sistema economico può non

essere in grado di raggiungere spontaneamente l’equilibrio di pieno impiego, con un tasso di

disoccupazione al suo livello naturale. Ma se la produzione effettiva è al di sotto del suo livello

potenziale e quindi la disoccupazione è al di sopra del suo livello naturale, la relazione tra

inflazione e disoccupazione potrebbe non essere rigida.

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Sul fronte delle politiche antinflazionistiche i rimedi saranno diversi a seconda delle cause.

Se l’inflazione è la conseguenza di un eccesso di moneta è necessario ridurre la moneta in

circolazione e attuare politiche monetarie restrittive.

Nel caso in cui l’inflazione è originata da un eccesso di domanda rispetto all’offerta occorre

fare in modo di contrarre i consumi, di ridurre gli investimenti e di tenere sotto controllo la spesa

pubblica. In questo caso sono necessari più interventi combinati di politica economica.

Infine, se l’inflazione è dovuta al rialzo dei costi, bisognerà agire sui costi stessi cercando di

frenare la crescita dei salari e dei profitti.

Si potrebbe intervenire sul tasso naturale di disoccupazione per abbassarne il livello,

mettendo in atto una serie di misure specifiche che riducano la componente frizionale e strutturale

della disoccupazione. Investendo, ad esempio nella formazione professionale dei lavoratori,

facilitando la ricerca di un lavoro attraverso uffici di collocamento che permettano davvero alla

domanda e all’offerta di lavoro di incontrarsi, introducendo meccanismi di sostegno ai disoccupati

che non disincentivino la ricerca di lavoro.

La curva di Phillips è stata usata molte volte per spigare le vicende delle’economia italiana.

In particolare Tarantelli e Modigliani, hanno cercato di arricchire la teoria della curva di

Phillips con considerazioni tratte dall’esperienza di un paese con una economia in fase di

trasformazione da una situazione ancora in parte di sottosviluppo ad una situazione di sviluppo

avanzato.

La loro idea è che, in una situazione come quella italiana degli anni ’50 e ‘650, caratterizzata

da alti livelli di disoccupazione strutturale, un rapido sviluppo economico, creando nuovi posti di

lavoro, addestra al lavoro industriale una gran quota di lavoratori inizialmente non qualificati, e

traspone in questo modo la curva di Phillips verso il basso.

Per Modigliani e Tarantelli la curva di Phillips spiega bene lo sviluppo economico italiano

sino al 1968, anche se non tiene conto dell’azione sindacale. Poiché per interpretare le vicende delle

economia italiana di quegli anni, per i due autori, le variazioni della disoccupazione bastano da sole

a spiegare anche i forti aumenti di salario che si sono avuti in Italia nel 1963-64.

Dopo il 1968, invece, la curva di Phillips non sembra riesca bene a spiegare le vicende della

nostra economia. Nel 1969, ad esempio, sono mutate le relazioni industriali in Italia e la

conflittualità nei rapporti di lavoro negli anni successivi al 1969 fu assai forte.

Occorre precisare, però, che il dibattito sulle applicazioni della curva di Phillips al caso

italiano è molto complesso che ne abbiamo dato solo un breve cenno.