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1 Convegno annuale della Società italiana di scienza politica Firenze, 12-14 settembre 2013 Sezione 4 – Panel 4.3 - Sistema politico italiano Deliberativa, diretta o partecipativa: quale democrazia per il Movimento 5 stelle? Antonio Floridia e Rinaldo Vignati (non citare senza il consenso degli autori) Abstract: Da più parti – da diversi soggetti politici e sociali e con diverse argomentazioni – la democrazia rappresentativa è oggi sfidata in tutti i sistemi politici occidentali. In Italia questa sfida negli ultimi anni si è incarnata in modo particolare nelle proposte del Movimento 5 stelle, il cui leader ha più volte auspicato un superamento dei partiti e della delega, in favore di un approdo alla democrazia diretta. Nella visione del Movimento 5 stelle tale approdo sarebbe oggi consentito dalla diffusione di strumenti informatici che permetterebbero ad ogni cittadino di prendere parte in prima persona alle decisioni politiche, rendendo quindi inutile l’intermediazione di politici di professione. A un esame attento delle dichiarazioni e dei documenti del M5S emerge però una pluralità di riferimenti a concezioni diverse della democrazia. La relazione intende, in primo luogo, esplorare i legami e le differenze tra l’idea di democrazia deliberativa, quella di democrazia diretta e quella di democrazia partecipativa. Sulla base di questo lavoro di chiarificazione concettuale cerca di ricostruire a quale “idea” di democrazia si ispira il M5S, tanto nelle pratiche effettive che lo caratterizzano, quanto nelle affermazioni di principio che le accompagnano. In particolare, analizzando le idee istituzionali propugnate dal Movimento, si potrà valutare come in esse si mescolano, generando più di una contraddizione, tre diverse sfide alla democrazia rappresentativa: una sfida riformatrice (attraverso il rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta – referendum, petizioni – in un quadro che rimane di natura parlamentare, e anzi legato a una idea di “centralità del parlamento”), una sfida utopica (il completo superamento della democrazia rappresentativa attraverso il massiccio uso degli strumenti informatici) e una sfida plebiscitaria (che si concretizza nell’uso che, fino ad ora, il Movimento ha fatto del web e delle piazze).

Deliberativa, diretta o partecipativa: quale democrazia ... · Se, per un verso, appare corretto ricordare come la cultura politica che esprime il M5S appare pur sempre riconducibile

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Convegno annuale della Società italiana di scienza politica

Firenze, 12-14 settembre 2013

Sezione 4 – Panel 4.3 - Sistema politico italiano

Deliberativa, diretta o partecipativa: quale democrazia per il Movimento 5 stelle?

Antonio Floridia e Rinaldo Vignati

(non citare senza il consenso degli autori)

Abstract: Da più parti – da diversi soggetti politici e sociali e con diverse argomentazioni – la democrazia rappresentativa è oggi sfidata in tutti i sistemi politici occidentali. In Italia questa sfida negli ultimi anni si è incarnata in modo particolare nelle proposte del Movimento 5 stelle, il cui leader ha più volte auspicato un superamento dei partiti e della delega, in favore di un approdo alla democrazia diretta. Nella visione del Movimento 5 stelle tale approdo sarebbe oggi consentito dalla diffusione di strumenti informatici che permetterebbero ad ogni cittadino di prendere parte in prima persona alle decisioni politiche, rendendo quindi inutile l’intermediazione di politici di professione. A un esame attento delle dichiarazioni e dei documenti del M5S emerge però una pluralità di riferimenti a concezioni diverse della democrazia. La relazione intende, in primo luogo, esplorare i legami e le differenze tra l’idea di democrazia deliberativa, quella di democrazia diretta e quella di democrazia partecipativa. Sulla base di questo lavoro di chiarificazione concettuale cerca di ricostruire a quale “idea” di democrazia si ispira il M5S, tanto nelle pratiche effettive che lo caratterizzano, quanto nelle affermazioni di principio che le accompagnano. In particolare, analizzando le idee istituzionali propugnate dal Movimento, si potrà valutare come in esse si mescolano, generando più di una contraddizione, tre diverse sfide alla democrazia rappresentativa: una sfida riformatrice (attraverso il rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta – referendum, petizioni – in un quadro che rimane di natura parlamentare, e anzi legato a una idea di “centralità del parlamento”), una sfida utopica (il completo superamento della democrazia rappresentativa attraverso il massiccio uso degli strumenti informatici) e una sfida plebiscitaria (che si concretizza nell’uso che, fino ad ora, il Movimento ha fatto del web e delle piazze).

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Premessa Lo scenario politico di questi anni, segnato dalla crisi economica e dagli effetti della globalizzazione, si accompagna, sempre più spesso, a una nutrita serie di diagnosi preoccupate sulla “crisi della democrazia”. Diagnosi, occorre aggiungere, che in molti casi, specie nei discorsi correnti, appaiono piuttosto vaghe, così come confuse sono anche le terapie che vengono prospettate. In particolare, non appare ben chiaro quali sono le alternative che veramente si stanno misurando. Così, a fronte di tendenze che vedono l’affermarsi di moderne forme di “oligarchia”, di potentati economici o tecno-strutture che sfuggono ad ogni forma di accountability democratica e che svuotano le sedi “tradizionali” della sovranità, prefigurando un inquietante intreccio tra forme di dispotismo post-democratico ed una “democrazia acefala” (Tuccari, 2012), sembra che la risposta, simmetrica, possa essere soltanto quella di un “ritorno al popolo”, o una visione della democrazia che si appella al recupero di un qualche ruolo diretto ed immediato dei cittadini, al riscatto di una “sovranità popolare” oggi depredata. E ancora, all’opposto, di fronte ad una lettura della crisi come crisi di “governabilità”, come impotenza delle istituzioni democratiche ad offrire risposte “efficaci” e “rapide” alla nuova complessità sociale, la via di fuga sembra poter essere solo quella di un ulteriore accentramento dei poteri, aggirando regole e procedure, con una sorta di “illusione decisionista” che sospenda, di fatto, le mediazioni “faticose” e “lente” delle tradizionali forme della rappresentanza politica. Sfugge così, a nostro parere, quale sia forse la partita più difficile che si prospetta per “il futuro della democrazia”: quale interpretazione (e quale concreta traduzione istituzionale) possiamo immaginare per la democrazia rappresentativa, per quella forma di democrazia, cioè, che rimane pur sempre l’unico orizzonte possibile entro cui oggi la democrazia (senza aggettivi) può essere difesa e sviluppata. Così, molte risposte alla “crisi della democrazia” portano alla ricerca di facili scorciatoie: invece di interrogarsi sulle specifiche risposte che occorre dare a specifici deficit democratici (ad esempio, come costruire istituzioni democratiche sovra-nazionali; o come costruire nuove forme di partecipazione dei cittadini ai processi del policy-making; o anche come ripensare il ruolo dei partiti), si “buttano via” e si svalutano, con una certa faciloneria, concetti e pratiche che, di una definizione della democrazia, costruiscono pur sempre un caposaldo essenziale: a cominciare dal concetto di rappresentanza politica. Il problema serio è che tutto ciò non accade solo nel dibattito accademico o tra gli “addetti ai lavori”, o in quello giornalistico: accade anche nel “senso comune”, nelle idee correnti che poi plasmano anche i comportamenti politici ed elettorali. E tutto questo può mettere a serio rischio le basi di una legittimazione diffusa della democrazia: e sappiamo cosa può accadere quando grandi masse non sembrano più “credere” nella democrazia. L’irrompere del Movimento Cinque Stelle sulla scena politica italiana, e le dimensioni con cui ciò è avvenuto1, possono essere assunti anche come un sintomo di questa fase, insieme confusa e inquietante, che sembra caratterizzare la stessa percezione della “democrazia”, della sua “crisi” e delle possibili risposte: nel nostro paese, ovviamente, con particolare acutezza e molte specificità. E il M5S – che, da un lato, si nutre di questa sfiducia e contribuisce ad alimentarla mentre, dall’altro, si propone come radicale e utopica risposta a tale sfiducia – può essere visto come un attento sismografo di questo fenomeno anche da un altro punto di vista: per l’”ideologia” molto composita che lo caratterizza proprio a proposito della democrazia, delle immagini e delle stesse “rappresentazioni” che della democrazia vengono proiettate. Se, per un verso, appare corretto ricordare come la cultura politica che esprime il M5S appare pur sempre riconducibile ad una matrice definibile, propriamente, come “populista” (Corbetta-Gualmini, 2013); per altro verso, appare necessario interrogarsi sull’originale impasto di elementi che ne costituiscono il profilo politico e culturale. Ed una questione decisiva ci sembra quella dell’idea o del modello di democrazia che hanno in testa non solo Grillo personalmente, o 1 Sono numerosi gli studi che, prima e dopo le elezioni del febbraio 2013, hanno proposto una lettura del M5s: ci limitiamo qui a ricordare Corbetta-Gualmini (2013), Bordignon-Ceccarini (2013), Biorcio-Natale (2013)

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Casaleggio, ma anche gli aderenti al Movimento e i suoi “quadri” intermedi, ad iniziare dalla nutrita pattuglia che il M5S ha eletto in Parlamento. Nella prima sezione di questo paper, proporremo dapprima alcune sintetiche definizioni che ci potranno guidare nell’individuazione del modello, o dei modelli, di democrazia che sembrano ispirare le idee e la prassi del M5S; nella seconda sezione, vedremo come questi “modelli” siano vissuti e interpretati dal M5S; nella terza parte, ci soffermeremo in particolare sul “pensiero istituzionale” del movimento. § 1. Diretta, partecipativa e deliberativa: tre profili di democrazia. Nella prassi, nelle dichiarazioni e nelle affermazioni di principio, con cui Grillo e il M5S hanno avuto modo di definire il proprio modello di democrazia, due aggettivi sono piuttosto ricorrenti: ovvero un richiamo alla “democrazia diretta” e alla “democrazia partecipativa” (o “partecipata”). Ma quel che va subito rilevato è che queste due definizioni sono solo in parte sovrapponibili. Vi è poi un terzo modello (democrazia “deliberativa”) che non è apertamente evocato, ma che da vari osservatori viene indicato come una possibile fonte di ispirazione. Senza in alcun modo poter presumere, in questa sede, di fornire una qualche esaustiva definizione di questi tre “modelli”, alcune precisazioni introduttive ci sembrano necessarie, al solo fine di individuare meglio il retroterra di cultura politica a cui poter ricondurre l’”ideologia democratica” del M5S. “Democrazia diretta” è un termine su cui, naturalmente, non c’è bisogno qui di soffermarsi più di tanto2: è un’idea di democrazia che evoca immediatamente l’immagine (o meglio, lo stereotipo) dell’antica agorà ateniese e con cui si indica una qualche forma di esercizio diretto del potere e della sovranità da parte dei cittadini. Forme di democrazia diretta sono tutte quelle procedure che implicano l’annullamento di ogni mediazione nell’esercizio del “potere del popolo”: il prototipo, per eccellenza, è quello fornito dal referendum, ma rientrano in questa tipologia anche altri istituti, come il recall (la revoca, per via referendaria, di una carica pubblica assegnata ad un eletto), o anche le procedure di proposta di legge di iniziativa popolare, laddove si affermi l’obbligo che esse siano sottoposte, ancora una volta, ad un diretto voto popolare. Una democrazia “diretta” trova il suo termine concettuale opposto nella democrazia “rappresentativa”: e, com’è noto, tutte le teorie che si appellano alla democrazia “diretta” hanno trovato alimento nella critica al ruolo e alla funzione della “rappresentanza”, attingendo in particolare alle posizioni di Rousseau.3 In questa visione “direttistica” della democrazia, centrale appare l’idea che ogni forma di rappresentanza politica conduca inevitabilmente alla separazione, al distacco, degli eletti dal popolo. E da qui, dunque, le contromisure: quelle che portano ad una visione della rappresentanza come delega vincolata e funzionale. Una concezione ben presente anche agli albori della moderna democrazia rappresentativa, ad esempio nel dibattito tra i Founding Fathers della democrazia americana, e in particolare nelle posizioni delle correnti anti-federaliste (cfr. Manin, 2010). L’espressione “democrazia partecipativa” è tornata alla ribalta soprattutto con i movimenti new global dei primi anni Duemila; tuttavia, se vogliamo tornare alle origini, ci dovremmo spostare più indietro nel tempo, negli Stati Uniti, e negli anni Sessanta del Novecento: è allora che nasce e si sviluppa un modello di participatory democracy, che trarrà ispirazione dai grandi movimenti giovanili di quel decennio e, negli USA, in particolare, dalla mobilitazione studentesca contro la guerra nel Vietnam. Tra i tratti costitutivi di questo modello teorico (che poi troverà una sintesi in

2 Per una introduzione alle diverse forme e ai diversi istituti della democrazia diretta, con espliciti intenti applicativi, rimandiamo a V. Beramendi et alii, Direct democracy. The international Idea Handbook, IDEA – International Institute for democratic and electoral assistance, Stokholm, 2008. 3 Su partecipazione e rappresentanza in Rousseau, e in generale per una riflessione teorica e normativa sul tema della democrazia rappresentativa, si veda Urbinati, 2010a. Sulla connessione diretta, in Rousseau, tra “volontà” e “decisione”, senza alcuna dimensione propriamente deliberativa, cfr. Manin (1987).

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alcuni testi: Pateman, 1970; MacPherson, 1977, Barber, 1984) vi era – anche in questo caso - il rifiuto radicale della rappresentanza, di cui si sottolineavano gli effetti perversi: in particolare, l’atrofizzazione delle capacità politiche degli individui, gli incentivi all’apatia e alla passività. Come antidoto a tutto ciò, la participatory democracy esaltava le possibili virtù di una cittadinanza attiva che doveva e poteva essere educata ed alimentata da forme dirette di empowerment, dall’esercizio (anche parziale) di una diretta responsabilità di autonomia, autogoverno e autodeterminazione. Al centro, vi era dunque una visione della democrazia come democrazia locale e comunitaria, fondata sulla diretta partecipazione del cittadino alla formazione delle scelte collettive e sulla diffidenza e l’ostilità nei confronti di tutto ciò che appare proprio di un’élite politica, intellettuale o economica, lontana e prevaricatrice. La ripresa più recente dei richiami alla “democrazia partecipativa” si produce sull’onda dei movimenti di critica alla globalizzazione: contro la logica del “pensiero unico”, occorreva attivare un protagonismo sociale “dal basso” e la “democrazia partecipativa”, in questo senso, diviene lo strumento attraverso cui si costituisce una nuova soggettività sociale critica ed antagonistica. Torna, quindi, in forme rinnovate, l’idea di un empowerment delle società locali, oggi contro i processi di omologazione indotti dalla globalizzazione, e torna l’idea che le comunità locali si possano e debbano autogovernare, attraverso forme “dirette” di democrazia, e che si debbano in tal modo riappropriare del proprio destino4. Tuttavia, a differenza delle visioni che possiamo propriamente ricondurre ad una visione “diretta” della democrazia, le più recenti elaborazioni di un modello di “democrazia partecipativa” tendono a proporre una qualche forma di coesistenza o di complementarietà con le istituzioni della democrazia rappresentativa: le forme e i processi di “democrazia partecipativa”, così, tendono ad essere viste come quelle in cui i cittadini esercitano una qualche forme di “pressione” (Bobbio-Pomatto, 2007), o costruiscono una relazione diretta con i processi decisionali propri delle istituzioni attraverso un loro intervento all’interno di tali processi (Allegretti U., 2010 e 2011). La “democrazia deliberativa”, infine, è tutt’altra cosa. Si tratta di un termine che solo da qualche tempo sta entrando in un dibattito politico e culturale più ampio, ma che certo in Italia non è ancora di uso comune (come comincia ad accadere altrove: ad esempio, il Presidente Obama l’ha citata in uno dei suoi più famosi discorsi)5. Questa corrente del pensiero democratico contemporaneo, che ha vissuto e vive un grande sviluppo, è oramai definibile come un campo teorico al cui interno convivono e si confrontano anche concezioni e teorie piuttosto diversificate (Floridia, 2013a): tuttavia, possiamo trovare una possibile definizione unificante, attraverso cui cogliere il tratto specifico e caratterizzante di questa concezione della democrazia. E il punto cruciale è quello di una contrapposizione tra una concezione “aggregativa” (ovvero, l’idea che le preferenze degli individui possano e debbano essere solo “contate”, assunte come “date” e come espressione “diretta” della loro volontà) e una concezione “trasformativa” e “discorsiva” della democrazia (ovvero, l’idea che le preferenze degli individui non sono “esogene”, ma possono formarsi e trasformarsi nel corso stesso di un processo e di una procedura deliberativa). Una procedura democratica deliberativa si fonda sulla discussione pubblica, sullo scambio di ragioni e di argomenti, e può ambire ad ottenere un consenso razionale e una soluzione condivisa, o produrre decisioni migliori; ma può anche limitarsi a circoscrivere le ragioni di un disaccordo o di un conflitto, a renderlo produttivo, individuando possibili punti di equilibrio e di compromesso. A partire da questo modello normativo, si sono poi creati, diffusi e sperimentati una gran varietà di modelli partecipativi6 che a questo ideale regolativo si sono ispirati. Vi sono dunque forme di 4 In Italia, il testo più ricco e significativo, che meglio riassume questa prospettiva teorica e politica, è quello di Alberto Magnaghi (2010, prima ed. 2000). 5 “What the framework of our Constitution can do is organize the way in which we argue about our future. All of its elaborate machinery –its separation of powers and checks and balances and federalist principles and Bill of Right – are designed to force us into a conversation, a “deliberative democracy” in which all citizens are required to engage in a process of testing their ideas against an external reality, persuading others of their point of view, and building shifting alliances of consent” (Barack Obama, 2006). 6 Basti qui citare solo uno dei più noti, il Deliberative Poll, ideato da James Fishkin (1991, 2002).

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partecipazione in cui vi può essere una più o meno ampia dimensione deliberativa; ma non tutte le forme di deliberazione sono “partecipative”, e non tutte le forme di partecipazione sono deliberative7. Ebbene, “deliberare” significa, classicamente, soppesare i pro e i contro delle possibili soluzioni ad un problema collettivo: un processo di formazione discorsiva delle opinioni e dei giudizi politici che si pone, evidentemente, in radicale antitesi ad ogni concezione immediata della democrazia (in tutte le sue possibili varianti: plebiscitaria, “diretta”; ma anche “tecnocratica”, laddove si ritiene che non vi sia spazio per la scelta e il dialogo, che vi siano decisioni “obbligate”, e che dunque bisogna solo scegliere e affidarsi ai più “competenti”). E nette sono anche le differenze non solo rispetto alla concezione “classica” della “democrazia partecipativa”, ma anche rispetto alle sue più recenti versioni, sebbene vi possano essere delle parziali sovrapposizioni (laddove si ritiene che la “partecipazione” possa e debba assumere forme prevalentemente “deliberative”)8. A partire da queste definizioni, si può ben comprendere anche come non sia possibile alcuna immediata identificazione tra “democrazia partecipativa” e “democrazia deliberativa”: la prima si fonda sull’azione diretta di cittadini che acquisiscono o cercano di esercitare una qualche influenza sulle decisioni istituzionali; la seconda, invece, punta soprattutto sullo scambio argomentativo e sulla discussione pubblica che precedono una decisione, e vedono la deliberazione come fase di un processo di costruzione dialogica e discorsiva di decisioni che spetta comunque alle legittime istituzioni democratiche assumere. Ebbene, alla luce di queste sommarie definizioni, cosa possiamo dire dell’”idea” di democrazia che sembra ispirare la prassi e l’ideologia del M5S? § 2. Idee e immagini della democrazia nel M5S: un’ideologia composita Uno dei tratti che forse maggiormente, e sin dall’inizio hanno caratterizzato la cultura politica del M5S è il richiamo alla “partecipazione diretta”, quella dei cittadini alla gestione della cosa pubblica ma anche quella degli stessi aderenti alla definizione e alla gestione dei programmi politici del Movimento. Vedremo poi alcuni testi e documenti che ci possono meglio far comprendere quale impasto di idee e suggestioni si nascondano dietro quello che ci sembra lo slogan caratteristico dell’approccio “grillino” alla democrazia: l’idea che “ognuno vale uno”. Ma, possiamo intanto chiederci: a quale “aggettivo”, tra quelli che comunemente si affiancano alla “democrazia”, sono riconducibili le idee e la prassi del M5S? Come dicevamo, sono due, soprattutto, le qualificazioni della democrazia evocate più frequentemente nei testi del M5S o nei discorsi di Grillo: “diretta” o “partecipativa”. Nell’ideologia del M5S, l’immagine dell’agorà viene riattualizzata alla luce delle potenzialità della nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Di per sé questa suggestione non è una novità: già negli anni Settanta, come aveva rilevato Sartori9, di fronte alle prime sperimentazioni

7 “Partecipazione”, come è ben evidente, è termine che “copre” molti possibili fenomeni (per una trattazione esaustiva rimandiamo a Raniolo 2008): può essere distinta per la sfera in cui si esprime (politica, sociale, economica, ecc.), e per le forme che assume: idealmente, possiamo collocare tali forme lungo un continuum che vede, da una parte, tutte le forme di una prassi sociale e politica conflittuale e antagonistica e, all’estremo opposto, tutte le forme di cooperazione solidale, le forme di auto-organizzazione della società civile attraverso cui gli individui affrontano problemi comuni o gestiscono beni comuni. In mezzo, tra questi due poli, si può esprimere una ricchissima e variegata serie di possibili forme ed espressioni di partecipazione: la protesta, la denuncia, l’advocacy, la rivendicazione,…; e vi possono anche essere, ovviamente, ibridazioni e sovrapposizioni. E all’interno di queste possibili forme ed espressioni partecipative vi può essere anche, in varia misura, una dimensione deliberativa, ovvero una partecipazione fondata sullo scambio argomentativo e la ricerca di soluzioni condivise, anche attraverso l’attivazione di meccanismi di apprendimento collettivo. 8 Sulla diversa “genealogia” teorica della “democrazia partecipativa” e della “democrazia deliberativa”, e sul rapporto tra partecipazione, deliberazione e forme del policy-making, ci permettiamo di rinviare ad alcuni recenti lavori (Floridia, 2013b e 2013c) 9 Il ben noto articolo di Sartori sul “sistema dei comitati” risale a quarant’anni fa (Sartori 1974) e partiva proprio dalla constatazione che la possibilità tecnologica di consultazioni referendarie quotidiane era di imminente realizzazione

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della televisione via cavo, e alle possibilità di interattività che esse offrivano, avevano ripreso fiato quelle idee riduttive della democrazia rappresentativa che ne fondavano la legittimità, e ne spiegavano le stesse origini, sulla base della sola impraticabilità delle forme di democrazia diretta nelle condizioni di un grande e popoloso stato nazionale. La democrazia rappresentativa come un ripiego, insomma, che miracolosamente, grazie alle nuove tecnologie che permettono di superare le barriere del tempo e dello spazio, poteva essere oramai superato, dando nuova linfa all’esercizio diretto della sovranità popolare. Certamente, oggi, Internet offre nuove potenzialità, impensabili fino a pochi anni fa: ma il principio rimane lo stesso, ovvero l’idea che la democrazia “vera” non ha bisogno di mediazioni; e che tutto ciò che può far “saltare” questi “filtri”, tutto ciò che può favorire l’espressione diretta della “volontà” dei cittadini, sia da salutare come un passo avanti verso una piena “democrazia realizzata”. Insomma, una sorta di ideale rousseauiano in salsa tecnologica. Questa idea di democrazia diretta, nella moderna visione internettiana, presuppone individui atomizzati che, di fronte allo schermo del computer, “votano” e “decidono”, con scarsissime o nulle possibilità di scambio dialogico, attraverso una relazione uno-tutti (il commento che viene postato, su quel che dice il detentore del potere di agenda) o attraverso una molteplicità irrelata di relazioni binarie (il commento su un altro commento: con scarse possibilità di comprendere, per un terzo, ciò che i due interlocutori si stanno dicendo). Il rifiuto della mediazione è centrale nell’ideologia e nello stesso linguaggio del M5S: gli eletti non sono rappresentanti politici, espressione di una comunanza di idee, valori e interessi, ma portavoce dei cittadini, i quali “direttamente” danno “direttive” e “istruzioni” agli eletti, li controllano, li possono revocare, mettere sotto “accusa”, e costantemente richiamare “all’ordine”, ovvero all’umiltà di chi si deve sentire solo provvisoriamente chiamato a svolgere un ruolo pubblico. Nel M5S questo approccio, come mostrano i casi di espulsione, si presenta anche con tratti pesantemente inquisitori: eppure, giustificati (anche da molti aderenti) con la motivazione che le “regole” vanno rispettate, ovvero che se un eletto mostra una qualche forma di autonomia, questo è un segno di un’arroganza individualistica, che spezza le regole che una comunità si è data: un’ideologia comunitarista, insomma, che sanziona la hybris del singolo individuo. I cittadini sono i “datori di lavoro” dei parlamentari, si legge nel blog di Grillo il 3 marzo 2013, alla vigilia della prima riunione dei neo-eletti, e il modello che regola il rapporto tra elettori ed eletti dovrebbe essere piuttosto quello di un contratto. E da qui, quindi, anche il principio della rotazione delle cariche: se tutti i cittadini in quanto tali sono, in linea di principio (secondo il dogma di fondo di ogni populismo) capaci di esercitare funzioni di governo (e se queste funzioni – in fondo – non sono poi così complicate: basta studiare i problemi, discuterne e risolverli, contro ogni idea di “complessità sociale”) -, allora è un principio democratico basilare quello del “ricambio” costante, di un perenne turn over, anche a fini “pedagogici”, onde evitare che il possesso prolungato di una carica esponga al rischio della “corruzione” morale. E si inscrivono in questa logica anche altre proposte di matrice “direttistica” che il M5S evoca nei suoi programmi: l’iniziativa legislativa popolare, il referendum senza quorum, o il richiamo all’istituto del recall, ovvero la revocabilità degli eletti tramite referendum10.

(“tornando a casa potremmo sedere ogni sera davanti a un video che pone i quesiti ai quali rispondiamo sì e no semplicemente premendo due tasti”, Sartori 1974, 39): tale scenario, per Sartori, non rappresentava però la piena realizzazione della democrazia – come ingenuamente pensano Grillo e Casaleggio – ma una fonte di problemi (“il referendum non è un buon metodo di risoluzione dei conflitti [poiché] lascia le minoranze ‘intense’ e/o informate alla mercé di maggioranze mobilitabili che sono tali in quanto punto o malissimo informate” (ibidem, 38). 10 Il recall fu uno degli istituti proposti e introdotti negli Stati Uniti dai forti movimenti populistici che si svilupparono nel corso della Progressive Era, ovvero in quel periodo della storia politica americana che va dall’ultimo decennio dell’Ottocento alla Prima Guerra mondiale (Calise, 1989; Testi, 2008; Bergamini, 2002; Melchionda, 2005). In particolare, in quegli anni, a fronte dell’invadenza dei boss e delle party machines e alle degenerazioni dello spoils system, si produsse una reazione che promosse, e in parte riuscì ad introdurre nella pratica istituzionale americana, alcune rilevanti innovazioni: le primarie aperte, ma poi anche varie forme di democrazia diretta, i referendum ed altri istituti, come appunto quello del recall, (su cui, cfr. Ronchi, 2009). Da segnalare il giudizio che, su questo istituto, ha

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Come abbiamo detto, altrettanto frequente nel discorso del M5S è poi il richiamo alla “democrazia partecipativa”: si tratta di un’evocazione significativa, che ci può suggerire anche alcuni elementi di una possibile “genealogia” dell’approccio “grillino” alla democrazia. Ma con alcuni caveat teorici e terminologici. Possiamo dire che, rispetto alla definizione e alle varie versioni della “democrazia partecipativa” che abbiamo sopra richiamato, il canale attraverso cui questo richiamo è entrato nella cultura politica del M5S può essere individuato nelle molte reti locali di attivismo civico che nell’ultimo decennio sono nate intorno alla contestazione delle scelte sulle grandi opere infrastrutturali o sui grandi impianti di trattamento dei rifiuti, o che si sono sviluppate intorno al tema dell’acqua come bene comune, o intorno ad iniziative che si ispirano al filone del consumerismo, ossia ad una cultura critica del consumo. Si può comprendere così come, negli stessi programmi amministrativi del M5S, sia frequente il richiamo ad un particolare istituto partecipativo, il Bilancio Partecipativo, ideato nella città brasiliana di Porto Alegre nella seconda metà degli Anni Novanta, che della nuova “democrazia partecipativa” rappresenta per molti versi l’emblema. Le reti locali che si sono costruite attorno a questi temi ci sembra che costituiscano, in molti casi, l’humus su cui si sono coagulati i primi nuclei del M5S e su cui lo stesso Grillo, nella prima fase delle sue campagne, ha molto insistito. Sono temi e ispirazioni che possiamo ben cogliere anche nella biografia politica di molti militanti ed eletti del M5S: espressioni di un diffuso tessuto associativo che ha trovato, grazie al M5S, un canale di accesso alle istituzioni e un canale di mobilitazione e partecipazione politica. Sono dunque due gli assi su cui si muove la particolare “ideologia democratica” del M5S:

a) una certa visione della democrazia “diretta”, alimentata (soprattutto nelle idee di Casaleggio) da una variegata letteratura sulla teoria dei network e da una sorta di propensione futurologica del personaggio: recentemente, lo stesso Casaleggio ha fornito una sorta di bibliografia sulle sue fonti, che ci pare comprenda autori e testi di qualità scientifica e intellettuale piuttosto diseguale, ma il cui tratto unificante può forse può essere individuato in una visione del cambiamento sociale indotto e guidato dalle nuove tecnologie della comunicazione, costruito attraverso reti orizzontali in grado di annullare gerarchie e mediazioni e attraverso fenomeni sistemici “emergenti” che nascono da mutamenti molecolari dei comportamenti individuali11.

recentemente formulato Augusto Barbera, proprio in un’intervista dedicata al M5S: “D: Quanto alla possibilità di sfiduciare i parlamentari attraverso referendum locali?” R: “Immagino che Casaleggio si riferisca all'istituto del recall. Che ha dato pessima prova in alcuni Stati degli Usa. L'unico Paese nel quale ha funzionato è l'Urss, con le teorie marxiste della democrazia diretta, reinterpretate da Lenin” (Corriere della Sera, 24 giugno 2013). 11 Nella sua intervista a “La lettura”(“Corriere della Sera” del 23 giugno 2013), Casaleggio si limita a fornire un elenco di nomi e di titoli (alcuni dei quali già presenti in un precedente volume dello stesso autore – Casaleggio 2004). E’ utile, quindi, una sommaria indagine su questi autori: Steven Johnson, con il suo libro del 2001 Emergence. The connected lives of Ants, Brains, Cities, and Software. Johnson è definito da Wikipedia “an American popular science and media theorist”; il tema del suo libro, fortemente segnato da un approccio biologistico che gli permette di passare dall’organizzazione sociale delle formiche alla realtà del web, è quello dell’”emergenza”, definita come la capacità degli organismi di più basso livello di produrre meccanismi di autoorganizzazione sempre più complessi e sofisticati; b) Duncan Watts, con il suo libro Six Degrees. The Science of a Connected Age (2004). Watts, laureato in fisica e già professore di sociologia alla Columbia, lavora oggi al centro di ricerca della Microsoft; al centro del suo lavoro la teoria dei network; c) lo scrittore e blogger Howard Rheingold, autore di Smart Mobs: The Next Social Revolution (2002): una “smart mob”, a differenza di una “folla” come solitamente intesa, è un gruppo che si comporta in modo intelligente ed efficiente grazie alla crescita esponenziale dei link del proprio network comunicativo, mettendosi in grado di connettere volumi sempre maggiori di informazioni e costruendo così, nello stesso tempo, nuove forme di azione e di coordinamento sociale; d) il giornalista canadese Malcolm Gladwell, con il suo libro The Tipping Point: How Little Things Can Make a Big Difference (2000), un testo in cui si analizzano i meccanismi “incrementali” dei cambiamenti in tutti gli aspetti della vita sociale, individuandone tre particolari “agenti”: gli individui che agiscono come “connettori” (coloro che hanno una particolare abilità nel mettere in comunicazione mondi sociali lontani), gli “agenti di mercato” (coloro che possiedono e sanno gestire le informazioni) e i “venditori” (coloro che hanno particolare abilità persuasive e carismatiche nel convincere gli altri); Lawrence Lessig, giurista statunitense, direttore della Edmond J. Safra Foundation Center for Ethics dell'Università di Harvard, fondatore dello Stanford Center for Internet and Society, fondatore e amministratore della ONG Creative Commons: il suo libro Free Culture (2004) è un testo in cui si affrontano i temi della proprietà intellettuale e del software libero; Albert-Laszlo Barabasi, con il suo libro Linked. The

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b) alcune suggestioni che provengono da più recenti pratiche ed elaborazioni sulla “democrazia partecipativa”, che hanno trovato ispirazione ed espressione in alcuni movimenti degli anni Duemila.

Nell’uno e nell’altro caso, un punto di contatto può essere individuato in una sorta di “ideologia del cittadino comune”, oppresso da élite politiche, economiche e scientifico-tecnocratiche, chiamato al riscatto in nome di una riappropriazione diretta del proprio potere (resa oggi possibile anche dalla rivoluzione delle ICT). In questo senso, l’ideologia del M5S può essere comunque definita “populista”, appartiene alla “famiglia” dei populismi, soprattutto per una concezione che fa da trama sottesa all’intera sua elaborazione politica: ovvero, una concezione “dicotomica” della società, che vede da una parte un corpo indistinto di “governanti” e dall’altra un altrettanto indistinto corpo di “cittadini” – laddove, va da sé, si tratta di una rappresentazione del tutto immaginaria della realtà, segnata da fratture e tensioni dentro il mondo della politica e delle istituzioni, ma anche e nondimeno da identità plurime e contraddittorie degli stessi “cittadini”, portatori di interessi tra loro contrastanti e conflittuali (un aspetto, questo, che viene del tutto oscurato dalla “narrazione” grillina). Questa ibridazione, tuttavia, si produce all’interno di una cultura politica che può essere anche letta e interpretata anche alla luce di altre categorie teoriche. In particolare, ci sembra utile quella proposta da Rosanvallon (2008), la contro-democrazia: nel momento in cui la politica entra “nell’era della sfiducia” (questo il sotto-titolo del lavoro dello studioso francese), ai “cittadini” rimane solo un potere negativo, fatto di controllo, sorveglianza e punizione nei confronti dei governanti. E i cittadini possono essere solo giudici del potere, non attori politici che contribuiscono democraticamente alla sua costruzione12. La famosa metafora dell’”apriscatole”, proposta da Grillo, in fondo, risponde a questa logica: andremo in Parlamento per smascherarli, per denunciare le loro malefatte (e non per “governare”, men che meno insieme agli “altri”). E’ una visione “impolitica” della democrazia, che può evocare anche altre lontane ascendenze: la polemica contro i “partiti” è un altro tassello di questa visione di una democrazia senza mediazioni. I partiti, in questa ottica, sono intrinsecamente “fazioni”, e non soggetti che propongono una propria visione del “bene comune” e cercano di affermarla nel confronto con altre visioni di tale “bene”. E i “cittadini”, in quanto tali, non hanno alcun bisogno di questi “filtri”: tra la loro “volontà” e la “decisione” vi può essere un circuito diretto e immediato di connessioni. La stessa selezione della leadership, in questo quadro, avviene al di fuori di una qualsiasi logica in cui entrino in gioco le idee e le visioni politiche, o le immagini dei diversi progetti di società che si confrontano: nell’epoca della “democrazia digitale”, ha affermato recentemente Casaleggio, “la selezione deve essere fatta “dal basso”, dai cittadini, che propongono le persone più adatte e di cui conoscono la storia e le competenze. Va considerato che il concetto di leadership è estraneo alla democrazia diretta. I movimenti di democrazia diretta rifiutano il concetto di leader”13 (corsivo nostro). Come si vede, un’ideologia che affida il ruolo di motore della storia al cambiamento tecnologico non può che avere un preciso pendant: il governo dei sapienti e dei competenti, con una democrazia ridotta alla selezione dei più “adatti”, dei più “capaci” e “affidabili” (e non di coloro che esprimono e rappresentano le nostre idee). Nel pensiero di Grillo e Casaleggio, peraltro, è ricorrente una contraddizione rispetto agli “esperti”. Da un lato, è infatti costante il richiamo agli “esperti” (“i maggiori esperti del mondo…”) per New Science of Network (2002): fisico di origini ungheresi, professore presso l'università di Notre Dame e direttore del CCNR (Center for Complex Network Research) alla Northeastern University. Come si può notare, peraltro, - ad eccezione del giurista Lessig – si tratta soprattutto di studiosi di formazione scientifica (fisici, in particolare) che tendono ad “estendere” il paradigma epistemologico del network ai fenomeni del cambiamento sociale. 12 Per una critica delle tesi di Rosanvallon, cfr. Urbinati, 2010. 13 “La democrazia va rifondata”, intervista a G. Casaleggio, a cura di S. Danna, “La lettura”, Il Corriere della sera, 23 giugno 2013:

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avallare le proposte avanzate dal blog, e la contrapposizione dell’expertise all’incompetenza dei parlamentari eletti, finendo quindi per sposare implicitamente un superamento tecnocratico della democrazia rappresentativa. Dall’altro, però, non è rara una presa di distanza dagli esperti (che diventano “i cosiddetti esperti”) quando queste si discostano dalle posizioni dello stesso Grillo – il quale, in materia scientifica, ad esempio in campo medico, ha spesso sposato posizioni eterodosse o marginali, denunciando le posizioni predominanti come succubi dei grandi interessi economici: in questi casi viene invocata una democrazia diretta basata sul web che “prende decisioni in tempo reale senza delegarle ai cosiddetti esperti” (Siamo in guerra, p. 172). Se questo è il quadro teorico – sommariamente delineato - dentro cui possiamo cercare di comprendere la “narrazione” del M5S, il nostro discorso non sarebbe completo se non rivolgessimo la nostra attenzione anche ad un’altra concezione della democrazia che pure, a proposito del M5S, è stata richiamata: la democrazia deliberativa. E su questo punto occorre essere molto netti: una concezione “deliberativa” della democrazia appare radicalmente estranea al M5S, un movimento che nella sua “ideologia” si ispira al alcuni classici topoi della democrazia “diretta” o ad alcuni tratti di una più recente visione “partecipativa” della democrazia; ma che poi, soprattutto, nella sua prassi, vede all’opera tratti molto profondi di “plebiscitarismo”. Non è certo “deliberativo”, ad esempio, il rapporto tra il leader e la folla, che abbiamo visto all’opera nei grandi comizi tenutisi durante la campagna elettorale; e certo non presenta alcun tratto di scambio razionale e argomentativo lo stile leaderistico con cui Grillo lancia i suoi diktat, o impone certi comportamenti ai gruppi parlamentari. Ma, soprattutto, non è “deliberativo” l’uso della Rete e del blog: anzi, proprio assumendo le possibili diverse concezioni della E-democracy (Lusoli, 2007), ovvero “deliberativa”, “comunitaristica” o “direttistica”, se la prassi del M5S presenta alcuni tratti di tipo “comunitaristico” (soprattutto nei meet-up locali)14, è soprattutto alla versione “plebiscitaria” che si ispira concretamente l’uso della Rete da parte di Grillo: un uso unidirezionale, in cui “uno” comunica e gli altri di fatto “commentano” soltanto. Centinaia di “post” sui quali, al massimo, e casualmente, si può cliccare sul pulsante “mi piace”…una discussione frammentata, atomizzata, l’opposto di una qualsiasi discussione razionale e argomentata. E non sembra nemmeno propriamente “deliberativa” la prassi che conduce ad impedire che una discussione sulle scelte del Movimento possa avvenire pubblicamente, attraverso i molteplici possibili canali attraverso cui si forma una sfera pubblica (a dispetto della retorica dello streaming: che semmai vale come controllo occhiuto sui propri eletti, quando si entra in contatto con gli altri e si rischia di restarne contaminati…). Se questo è il quadro teorico generale che occorre tener presente, è possibile tuttavia anche distinguere tra una concezione deliberativa della democrazia, in generale, e le tecniche o le metodologie di tipo deliberativo che a tale visione si ispirano e che possono essere assunte come modello nella costruzione di singoli processi decisionali. Detto questo e chiarito questo possibile punto di equivoco, si può anche dire che, su scala locale, nel concreto strutturarsi dei processi decisionali attraverso cui i nuclei di attivisti e militanti definiscono le proprie posizioni, è possibile individuare un’eco delle metodologie di discussione di ispirazione deliberativa, soprattutto quando si tenta di giungere a soluzioni condivise attraverso la discussione e il dialogo e, solo in ultima istanza, attraverso il voto. Questo dato ci riporta ad una delle matrici che, come abbiamo ricordato sopra, caratterizza la cultura politica di molti “quadri” locali del M5S e le esperienze politiche da cui provengono, ossia quel fiume carsico che muove dai movimenti “per una globalizzazione dal basso” dei primi anni Duemila. Movimenti e associazioni (cfr. Della Porta, 2005), che hanno in effetti sperimentato in qualche caso, al proprio interno, procedure di tipo deliberativo: definibili come tali nella misura si strutturano per via “consensuale”; ovvero, attraverso una discussione (dai tempi tendenzialmente indefiniti), che si conclude solo quando si raggiunge un accordo o comunque si profila una soluzione su cui nessuno pone apertamente un qualche veto. Ma si tratta solo di una

14 Si veda, ad esempio, la descrizione del modo di operare dei meet-up in Greblo (2011, pp. 70-81) e in Milic (2008).

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parziale sovrapposizione, tra questa matrice di cultura politica e le pratiche e i modelli sostenuti dal M5S: le metodologie deliberative, in particolare, non prevedono il ricorso al voto, se non come extrema ratio; mentre l’”ideologia democratica” del M5S, al contrario, indulge molto alle suggestioni di una democrazia “diretta” in cui il voto attraverso il web può giocare un grande ruolo e, al contrario, la dimensione dello scambio dialogico è pressoché assente o del tutto subordinata. Democrazia “diretta” e “partecipativa”, dunque, non sono evocazioni strumentali: nella prassi e nell’ideologia del M5S rappresentano effettivamente termini e modelli che corrispondono ad una cultura politica che ha ispirato le genesi di questo movimento e ne caratterizza la cultura politica15. Eppure, evidentemente, il M5S non è riducibile solo ad una tale ispirazione: nel M5S, fino ad oggi, hanno convissuto, da un lato, pratiche politiche locali ispirate ad una tale visione “partecipativa” della democrazia e, dall’altro, una presenza politica e mediatica accentrata, che evoca al contrario un modello plebiscitario di democrazia; ovvero, un’idea di democrazia che si fonda sul rapporto diretto e immediato tra il leader e la folla, e sulla capacità empatica del Capo di farsi interprete dello “spirito del popolo”, di farsene esso stesso espressione, di “presentare” (e non “rappresentare” politicamente) sulla scena pubblica le sue aspirazioni, di esprimerne i risentimenti e di riscattarne e vendicarne le sofferenze (ed in questo, crediamo, sia da individuare il tratto più profondo di una concezione populistica della politica; non l’espressione di una qualche forma di anti-politica). §. 3 Il pensiero istituzionale di Grillo e Casaleggio

Proprio perché composita è la matrice di cultura politica che ne ispira i comportamenti, non è facile definire la posizione istituzionale di Grillo e del M5S. Nei suoi spettacoli, comizi, libri o post sul blog, Grillo ha spesso espresso opinioni sul sistema democratico e/o sull’architettura costituzionale del nostro paese. Ma, a lungo, Grillo è stato reputato un “clown” che non meritava di essere preso seriamente. I suoi discorsi sono quindi stati relegati tra la retorica propagandistica e non sono mai stati considerati come proposte politiche a cui dedicare analisi approfondite. Ci pare, però, che leggere con attenzione questi discorsi possa aiutare a comprendere la natura di una delle sfide alla democrazia rappresentativa più efficaci tra quelle che si sono affacciate sul panorama europeo nel corso degli ultimi decenni. E aiuti a comprendere il sostrato culturale che ha favorito la sua nascita e il suo sviluppo.

Naturalmente, l’analisi deve essere condotta con molta cautela, dato che la prevalente finalità propagandistica di questi discorsi fa sì che essi contengano elementi spesso contradditori che rendono difficile una loro sistematizzazione. Partiamo proprio dalla vaghezza del “programma” istituzionale del M5S. Grillo usa spesso alcune parole d’ordine “evocative” (“democrazia diretta”, “partecipazione”, “uno vale uno”, ecc.) ma tutte queste parole rimangono avvolte da un alone di indeterminatezza, senza un contenuto chiaro e univoco. Un esempio evidente è il sistema elettorale, tema cardine di qualsiasi discorso sull’architettura istituzionale italiana e della sua riforma. Grillo ha spesso urlato la sua opposizione all’attuale legge elettorale, facendo di questo una delle battaglie più identificanti di una fase del suo movimento, ma non ha mai detto una parola precisa su quale sistema elettorale preferisse (e perché)16.

Da buon “demagogo” e leader populista Grillo sa bene dove tira il vento (la rabbia verso i politici e i costi della politica, ecc.) e sa stuzzicare gli istinti che attendono di essere stuzzicati. Le prese di posizione di Grillo sono spesso semplicistiche (come nell’attacco rivolto all’articolo 67 della costituzione italiana che proibisce qualsiasi mandato imperativo), volgari e talvolta in esplicito contrasto con l’idea della “democrazia dei moderni”, ma sono costruiti su una robusta base di senso comune consolidatasi nel corso dell’ultimo ventennio. La nascita e la crescita del M5S avvengono sostanzialmente in contemporanea col successo enorme del libro La casta, che descriveva in termini molto critici il cattivo uso del denaro pubblico dei partiti. Questa coincidenza temporale è indicativa 15 Sull’ambiguità del richiamo alla “democrazia partecipativa” nel M5S, si sofferma Greblo (2011, pp. 103 e ss.). 16 Le cronache politiche del mese di agosto 2013, da ultimo, ci consegnano una certa confusione in materia: con Grillo stesso che sembra voler “salvare” il Porcellum e rimandare la sua riforma al momento in cui il M5S potrà governare.

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di un clima d’opinione composito che il M5S ha saputo sfruttare politicamente facendosene imprenditore. Occorre riconoscere, d’altra parte, nel momento in cui si sottolinea la distanza di certe prese di posizione dai principi della democrazia rappresentativa, che esse hanno anche trovato un terreno fertile che ne hanno alimentato la plausibilità: la libertà dal mandato imperativo è, in effetti, uno dei principi fondamentali della democrazia come viene intesa dai moderni, ma in Italia nel corso degli ultimi anni è stata spesso usata per le pratiche trasformistiche più disinvolte17.

Non è dunque facile separare la mera propaganda e i reali contenuti della concezione della democrazia di Grillo. Il fulcro del suo “pensiero costituzionale” è la nozione di “democrazia diretta”. Una nozione di per sé non priva di ambiguità e che Grillo carica di contenuti assai diversificati e persino contraddittori. Nel pensiero di Grillo18, la democrazia diretta è oggi resa possibile dalla vasta diffusione della Rete, che porta con sé dei processi di “disintermediazione” in ogni campo dell’agire umano, dalla politica, al giornalismo, all’economia. “Il temine democrazia diretta descrive un nuovo rapporto tra i cittadini ed i loro rappresentanti, un’evoluzione del sistema democratico più che un suo superamento. La democrazia attuale opera sul principio della delega, non di partecipazione diretta: con il voto si esaurisce il rapporto degli elettori con i candidati e con le scelte che verranno da questi attuate. Si vota senza essere informati, per abitudine, per simpatia. …La Rete ridefinisce il rapporto tra cittadino e politica consentendo l’accesso all’informazione in tempo reale su un qualsiasi fatto, ed il controllo sui processi attivati dal governo centrale o locale. La democrazia diretta introduce la centralità del cittadino” (G. Casaleggio, Web ergo sum, pp. 23-25).

Sotto questo aspetto, le prese di posizione di Grillo e Casaleggio sfociano facilmente in un utopismo naïf, che mai – o quasi mai – considera i possibili pericoli per la democrazia che possono nascere dalla Rete (pericoli su cui hanno riflettuto teorici quali Morozov 2011; Rodotà 2004; Formenti 2008)19.

Questa idea radicale di democrazia diretta, nel quale ogni tipo di intermediazione tra i cittadini e le istituzioni scompare, è l’orizzonte finale della proposta politica di Grillo. Una volta raggiunto questo orizzonte, persino il M5S, strumento di un inevitabile processo storico, è destinato a scomparire.

Indicato questo orizzonte, l’osservazione più ravvicinata della storia del M5S evidenzia due tipi di contraddizioni. Una tra i discorsi che hanno preceduto e poi seguito l’entrata in parlamento. L’altra tra la propaganda del partito e i modi in cui Grillo e Casaleggio hanno esercitato la loro leadership. I due leader, infatti, parlano della rivoluzione della rete, considerano la rete quale strumento di democrazia diretta, ma fino ad ora l’hanno utilizzata come strumento plebiscitario. L’hanno cioè utilizzata per “atomizzare” gli aderenti al partito, evitando che si formassero e consolidassero gruppi o fazioni al loro interno. Sino ad ora non hanno mai provato a usare (a parte qualche caso locale) le potenzialità della Rete come strumento deliberativo (attraverso strumenti quali Liquid feedback o altri software). Da questo punto di vista, un documento pubblicato da alcuni

17 Le ricerche di L. Verzichelli (si veda, ad esempio, Cambiare casacca, o della fluidità parlamentare, in “Il mulino”, n. 388, XLIX, 2000, pp. 273-284) hanno dettagliatamente documentato la frequenza e la disinvoltura con cui i parlamentari, nel corso delle ultime legislature, hanno cambiato gruppo di appartenenza. 18 Quando parliamo del pensiero di Grillo, ci riferiamo anche alle idee di Gianroberto Casaleggio. 19 Solo recentemente Grillo e Casaleggio hanno iniziato a riconoscere alcuni possibili pericoli insiti nella Rete e alcune difficoltà a tradurre in pratica le speranze di radicale cambiamento della politica attraverso la rete. Se nell’intervista rilasciata al “Corriere della sera – La Lettura” (23 giugno 2013), Casaleggio riconosce che “gli effetti di internet sulla società” “possono essere positivi ma anche negativi”: “la Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore”. Più prosaicamente, Grillo, prendendosela con i “troll” che infestano il blog, avrebbe messo in luce come, sul piano pratico, la traduzione dei principi di rinnovamento debba affrontare difficoltà che li possono snaturare. L’annullamento della prima votazione delle “Quirinarie”, per motivi non meglio precisati, è indicativa dello stesso genere di difficoltà.

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attivisti del M5S laziale fornisce una interessante elaborazione dello stato critico della democrazia interna al movimento: “al momento gli eletti del M5S non hanno modo di consultare o interagire in modo efficace con I cittadini e con gli iscritti al M5S. Inoltre le decisioni interne dei vari movimenti locali non vengono prese democraticamente se non in rari casi… Il movimento si è fino ad ora trascinato in un limbo in cui non è né gerarchico, né democratico: praticamente il far west”.

Riguardo alla costituzione italiana, Grillo ha spesso insistito in una sorta di “culto”. Nel suo armamentario retorico si può spesso trovare l’idea (tipica, a lungo, di alcune componenti della sinistra) della costituzione “tradita” dai partiti politici (sia di destra che di sinistra)20. Questo culto della costituzione è frequentemente legato alla celebrazione di alcune figure del passato (Pertini, Berlinguer, etc.), indicate quali esempi di virtù – onestà, dedizione, capacità di essere in sintonia col popolo – scomparse nel ceto politico odierno21.

D’altra parte, lo stesso Grillo non ha esitato ad assumere posizioni di radicale riforma. Un primo tema che aiuta a illuminare il pensiero di Grillo nel campo istituzionale è la relazione

tra il governo e il parlamento. Su questo tema le dichiarazioni fatte dopo l’ingresso del M5S in parlamento coincidono con le prese di posizioni avanzate in precedenza. Molte volte, Grillo ha citato il Belgio – che, come noto, rimase per mesi senza un governo nel pieno dei poteri – come un esempio positivo: “il Belgio è stato per mesi senza governo, ma la sua economia è migliorata e il suo Pil è cresciuto: un caso evidente di autogoverno di successo dei cittadini, non mediato dai partiti” (Casaleggio & Grillo 2012, 127).

Nel suo spettacolo Incantesimi Grillo riduce il governo a un ruolo di natura puramente “esecutiva”. A suo parere, il governo non è il vertice e la guida di una maggioranza parlamentare, ma solo il vertice della burocrazia dello stato. Il suo principale compito non è dunque di proporre leggi che il parlamento dovrà poi approvare, ma di controllare il funzionamento dell’amministrazione dello stato. Un chiaro esempio di questa posizione si trova nella dichiarazione (28 marzo) che spiegava il rifiuto di aderire alla proposta del PD di formare un “governo di cambiamento”): “Se l'Italia è senza governo (in realtà è in carica il governo Monti) ha però un Parlamento che può già operare per cambiare il Paese. Non è necessario un governo per una nuova legge elettorale o per avviare misure urgenti per le PMI o per i tagli delle Province. Il Parlamento le può discutere e approvare se solo volesse sin da domani. Si fa passare l'idea che senza Governo il Paese è immobile, congelato, in balia dello spread, delle agenzie, ma si tace sul fatto che le leggi per le riforme possono essere discusse e approvate senza la necessità di un governo in carica”.

Questa posizione contrasta in modo radicale con le idee che hanno ispirato i principali tentativi di riforma istituzionale degli ultimi due decenni (basati sull’idea di un rafforzamento del governo). Si può dunque dire che Grillo faccia propria una versione estremizzata di quel principio della “centralità del parlamento” che ha costituito una delle più influenti interpretazioni della costituzione

20 Soprattutto nel corso degli anni Cinquanta, l’argomento della “costituzione tradita” o “incompiuta” è stato molto presente nelle posizioni del Pci. 21 www.beppegrillo.it, A riveder le stelle, p. 17. Nello spettacolo registrato nel dvd Beppegrillo.it, Grillo elogia la semplicità e la comprensibilità della costituzione italiana, mettendo ad esempio a confronto la semplicità e la chiarezza dell’articolo 70 con la confusione della revisione dello stesso articolo proposta dal centro-destra nel 2005. L’ideologia di Grillo (non solo nell’ambito istituzionale) è un curioso mix tra modernismo senza freni (l’enfasi sull’innovazione tecnologica, la Rete) e nostalgia per le virtù del passato. Questa nostalgia è un tratto tipico di molti partiti populisti che in tal modo individuano una sorta di età dell’oro da contrapporre al presente.

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italiana 22 – in particolare nel campo della sinistra. Questa posizione è confermata da Casaleggio nel suo dialogo con Dario Fo e con lo stesso Grillo quando sostiene la necessità di ridurre i poteri del Presidente della repubblica: “Qualche mese fa sono andato a verificare quali sono i poteri del presidente della repubblica, mi hanno ricordato quelli di un monarca. Sono in parte regali e in parte indefiniti. Si discute sempre durante le ricorrenti crisi di governo se attribuire a questa figura maggiori poteri, ma si ignora che gli attuali sono già eccessivi. Napolitano ha dichiarato guerra alla Libia, nostra alleata, contravvenendo all’articolo 11 che recita: “L’Italia ripudia la guerra…”. Ha nominato nottetempo un professore senatore a vita e lo ha proposta come presidente del Consiglio senza passare da libere elezioni, ha influenzato la stesura delle leggi dello Sto (prerogativa del parlamento) durante il suo mandato, ha firmato, senza rinviarle al parlamento, leggi come il Lodo Alfano, chiaramente incostituzionali, ha discriminato in discorsi pubblici, senza mai nominarla, una forza politica democratica: il M5S. Gli attuali poteri della presidenza della Repubblica vanno limitati. Un esempio riguarda i senatori a vita. Il presidente ne può eleggere 5 e, considerata la differenza minima in Senato tra maggioranza e opposizione, può alterare la volontà elettorale. Il presidente è eletto per 7 anni, più di qualsiasi altra carica istituzionale. L’art. 87 della Cost. gli attribuisce il comando delle Forze armate, di presiedere il Csm (anche da art. 104), di concedere grazia e commutare le pene. L’art. 88 gli consente di sciogliere le Camere. Per l’art. 90, il presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione (ma firmare una legge incostituzionale è un attentato alla Costituzione?). Per l’art. 92, il presidente nomina il presidente del Consiglio dei ministri. Può sciogliere (art. 126) il Consiglio regionale e rimuovere il presidente della giunta. Può nominare 1/3 della Corte costituzionale (art. 135). Inoltre si può offendere Dio, ma non il presidente. L’art. 278 del Codice penale recita: “Chiunque offenda l’onore o il prestigio del presidente della repubblica è punito con la reclusione da 1 a 5 anni” (Fo et al. 2013, 195-196).

Questo scetticismo nei confronti delle cariche monocratiche, questa opposizione a qualsiasi accenno di “verticalità” in favore di una completa orizzontalità delle relazioni politiche è associato con un più generale rifiuto (dal punto di vista teorico, non pratico, giacché come abbiamo visto e vedremo la conduzione del partito è caratterizzata da elementi di leaderismo assai pronunciati) del concetto di “leadership” come è stato espresso da David Graeber (2007), uno dei teorici che con le sue riflessioni sulla natura della democrazia ha ispirato il movimento di Occupy Wall Street23.

La centralità del parlamento e la limitata rilevanza assegnata al governo hanno avuto implicazioni rilevanti nel corso delle settimane di blocco istituzionale che hanno fatto seguito alle elezioni. Durante il lungo periodo di consultazioni per la creazione di un nuovo governo, il partito era l’unico a sostenere che le commissioni parlamentari avrebbero potuto formarsi e iniziare a lavorare anche prima che un governo venisse formato. Oltre a ciò, molti parlamentari M5S hanno motivato il loro rifiuto di formare un governo con il Pd con la motivazione che il governo Monti, ancora in carica per “l’ordinaria amministrazione”, avrebbe potuto continuare la sua attività mentre il parlamento avrebbe potuto discutere e approvare leggi di riforma di carattere generale. Non vi era bisogno di iniziativa governativa (si vedano, a tal proposito, gli articoli sull’argomento scritti da Paolo Becchi, un professore dell’Università of Genova, “suggeritore” teorico di alcune delle prese di posizioni in materia istituzionale del M5S, il cui ruolo – fatte le debite proporzioni – ricorda quello di Gianfranco Miglio per la LN). 22 Sulla nozione di “centralità del parlamento” si veda S. Labriola, Sviluppo e decadenza della tesi della centralità del Parlamento: dall'unità nazionale ai Governi Craxi, in L. Violante (a cura di), Il Parlamento, Torino: Einaudi, 2001, pp. 385-418; E. Cheli, La "centralità" parlamentare : sviluppo e decadenza di un modello, Quaderni costituzionali, I, 1981, 2, pp. 343-351; G. Guzzetta, La fine della centralità parlamentare e lo statuto dell'opposizione,in S. Ceccanti, S. Vassallo (a cura di), Come chiudere la transizione, Bologna : Il Mulino, 2003, pp. 301-320; E. Rossi, Centralità del Parlamento o centralità del governo?, in “Italianieuropei”, 2011, n. 1, p. 37-42; P. Ridola, I regolamenti del 1971 e la centralità della democrazia parlamentare, in A. Manzella (a cura di), I regolamenti parlamentari a quarant'anni dal 1971, Bologna : Il Mulino, 2012, pp. 241-250. 23 Graeber è, ad esempio, citato in Fo et al. (2013). Nei testi di Grillo e Casaleggio un altro teorico vicino ai movimenti che per brevità definiamo “no global” che viene citato è Paul Hawken (Moltitudine inarrestabile, ed. Ambiente, 2009).

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Questa idea della centralità del parlamento ha permesso al M5S si porsi in più di un’occasione quale baluardo del parlamento (a fronte dell’invadenza di governo e presidente della repubblica che ne usurperebbero le prerogative) e della costituzione minacciata da imprudenti tentativi di riforma. Basterà citare alcuni casi: l’intervento del presidente della repubblica sull’acquisto degli F35 (stigmatizzato dal M5S come esautorazione delle prerogative del parlamento), l’interruzione dei lavori del parlamento in seguito alla richiesta del parlamentari Pdl dopo la fissazione della data dell’udienza della Cassazione sul processo Mediaset (interruzione giudicata, secondo le parole di un esponente del partito, un’“irresponsabile” resa “agli interessi di una sola persona”) e infine l’“ostruzionismo” messo in atto dal M5S per rimandare la discussione su una revisione della costituzione considerata inappropriata nelle forme quanto nei contenuti. In tutti questi i casi i gruppi parlamentari del M5S hanno assunto una posizione che (senza alcuna connotazione valutativa) possiamo definire “conservatrice” nei confronti della costituzione, in linea con una posizione ben presente all’interno della cultura di sinistra che ha sempre visto tale costituzione minacciata da tentativi (da Craxi a Berlusconi) di piegarla a forme di leaderismo (questo genere di opposizione è emblematicamente riassunta dalla campagna lanciata dal “Fatto quotidiano” nell’estate 2013 per dire “non vogliamo la riforma costituzionale della P2”24).

Accanto a questa (radicale) idea della centralità del parlamento, vi è poi la richiesta di un ampliamento degli strumenti di democrazia diretta che in parte sono già previsti dalla costituzione (ma raramente applicati). In particolare, questo si è tradotto in tre punti principali: (a) “referendum senza quorum: chi sceglie di non partecipare alla vita pubblica, subirà le decisioni degli altri. Ma chi sceglie di partecipare non dovrà vedere il suo voto annullato dal boicottaggio degli organizzatori … Abolire il quorum diventa una forma di democrazia ampliata, perché sprona i cittadini a partecipare. … Noi vogliamo che il cittadino sappia che chi non vota è zitto, muto, non conta, non vale niente. Se la questione gli interessa, deve sacrificare un’oretta di mare, altrimenti le decisioni verranno prese senza di lui” (www.beppegrillo.it, A riveder le stelle, pp. 30-1). (b) “Obbligo della discussione per le leggi di iniziativa popolare: “Se il popolo che ti ha eletto ti chiede di lavorare a una legge, tu ci lavori, non la metti nel cassetto per anni” (www.beppegrillo.it, A riveder le stelle, pp. 31). (c) Leggi rese pubbliche online almeno tre mesi prima della loro approvazione, per ricevere i commenti dei cittadini: l’ha fatto Obama col portale data.gov. (www.beppegrillo.it, A riveder le stelle, pp. 31-32).

La democrazia diretta è dunque concepita con due significanti leggermente diversi. Essa rappresenta, in primo luogo, l’aspirazione a un (lontano) futuro comunitario che è iscritto nelle leggi della storia. Un futuro basato sul superamento dei partiti politici e dell’intermediazione, e anche della stessa idea di politica come la conosciamo. Grillo e Casaleggio sono i profeti di queste leggi della storia, i loro annunciatori. Si potrebbe dire che per i militanti questa idea susciti, per certi versi, speranze di palingenesi simili a quelle che, in altre epoche, venivano evocate dal “sol dell’avvenire” socialista.

In secondo luogo, il significato della democrazia è fondato su un programma più realistico basato sull’uso di referendum e di altri strumenti partecipativi. Questi elementi possono convivere con forme più tradizionali di delega e di democrazia rappresentativa. In effetti, questa idea trova molti sostenitori anche al di fuori del M5S, tra pensatori politici e giuristi che hanno influenti posizioni accademiche o nei processi di costruzione dell’opinione pubblica, come Stefano Rodotà: “nel momento in cui la necessità del modello [della democrazia partecipativa] si manifesta prepotentemente per le richieste dei cittadini e il mutamento continuo dello scenario tecnologico… una revisione [della costituzione] … esige proprio la valorizzazione di tutti gli strumenti della democrazia partecipativa già presenti nella Costituzione, tirando un 24 Anche rispetto alla magistratura: si pensi allo stop intimato da Beppe Grillo sul blog immediatamente dopo le parole di Napolitano che, in seguito al pronunciamento della Cassazione su Berlusconi, auspicava “che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l'esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all'amministrazione della giustizia”. Il M5s sembra agire baluardo di difesa della Costituzione, assumendo – per certi versi paradossalmente, almeno rispetto alcune descrizioni che lo riguardano – una veste istituzionalmente “conservatrice”...

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filo che va dai referendum alle petizioni, alle proposte di legge di iniziativa parlamentare … Questo aprirebbe canali di comunicazione con i cittadini dai quali la stessa democrazia rappresentativa si gioverebbe grandemente” (Rodotà 2013).

Il discorso di Grillo consiste dunque in una duplice sfida alla democrazia rappresentativa. Una è quella che potremmo chiamare la sfida “riformista”: implementare alcuni strumenti di democrazia diretta (referendum, petizioni, iniziativa legislativa popolare, ecc.) all’interno di un sistema che rimane fondamentalmente rappresentativo (e nel quale il parlamento conserva anzi una sua speciale “centralità”). In questa sfida riformista un elemento centrale è quello del controllo e del monitoraggio. Grillo e i parlamentari del M5S si sono spesso concentrati sulla necessità di controllare i politici e il funzionamento delle istituzioni per conto dei cittadini.

In questa sfida “riformista” rientrano anche alcuni richiami – tutt’altro che coerenti e sistematici – ad esperienze o a modelli partecipativi che generalmente vengono rubricate tra le forme possibili di “democrazia deliberativa”, ma che in effetti Grillo e Casaleggio non definiscono mai come tali, ricomprendendole sotto il titolo della “democrazia diretta” o della “democrazia partecipata” e spesso deformandone il senso: come accade ad esempio, per la proposta delle “citoyenne juries” che la candidata socialista Ségolène Royal lanciò durante le primarie e la campagna elettorale presidenziale francese del 2007. Nella visione della Royal, che anche nella sue veste di presidente della regione del Poitou-Charente aveva promosso alcune forme di democrazia partecipativa (ad esempio, i “bilanci” nelle scuole), le “giurie” avrebbero dovuto fungere come una sorta di organo consultivo e di controllo nei confronti degli eletti25. Nel suo post del 17/11/06 (Tutte le battaglie di Beppe Grillo, pp. 491-2) Grillo esalta la proposta di Ségolène Royale, ma la “annette” senza particolari approfondimenti alla sua idea “diretta” di democrazia, definendole come “giurie popolari estratte a sorte che a scadenza fissa giudichino l’operato dei politici” e di fatto assimilandole ad una forma di recall26. Ma la stessa approssimazione si può cogliere nella ripresa, da parte di Casaleggio, (Web ergo sum (pp. 23-25) del Deliberative poll proposto da James Fishkin, (Fishkin, 1991, 2002, 2009) e del Deliberation Day proposto dallo stesso Fishkin e da Bruce Ackerman (2004a e 2004b)27; o nella generica evocazione (Incantesimi, 2006) della “democrazia dal basso” danese contro le decisioni imposte dall’alto (le cosiddette “grandi opere”), citando in particolare come esempio positivo le decisioni assunte sugli impianti eolici, ridotti da 42 a 27 a seguito a queste discussioni28.

Come abbiamo illustrato nella prima parte, “democrazia deliberativa”, da una parte, e “democrazia diretta” o “partecipativa” dall’altra, sono concezioni profondamente differenti. Ma queste differenze non sono in alcun modo prese in considerazione da Grillo e da Casaleggio, per i quali tutte queste innovazioni istituzionali rappresentano forme di democrazia diretta o democrazia partecipata. In effetti, le differenze e i possibili contrasti tra queste forme non interessano Grillo e Casaleggio perché nella loro strategia retorica tutte queste innovazioni devono rappresentare, non

25 Sul senso della proposta di Ségolène Royal, poi peraltro rapidamente abbandonata, e il quadro delle reazioni che suscitò in Francia si veda Sintomer (2009, pp. 7-11). 26 Sul recall è tornato anche Casaleggio nella citata, recente intervista: “Ogni collegio elettorale dovrebbe essere in grado di sfiduciare e quindi far dimettere il parlamentare che si sottrae ai suoi obblighi in ogni momento attraverso referendum locali”. 27 In particolare, il Deliberation Day è una proposta, di dubbia praticabilità, ma che comunque si inscrive in una logica di rafforzamento della qualità deliberativa che accompagna le normali procedure elettorali di una democrazia rappresentativa, sottraendo le campagne elettorali al predominio del puro marketing. Nella proposta di Fishkin e Ackerman, il Deliberation Day dovrebbe essere una vera e propria festività nazionale, da svolgersi in prossimità delle elezioni, nel corso della quale una serie di arene deliberative, sparse in tutto il paese, e connesse da un’adeguata copertura mediatica, permettano ad un campione di cittadini estratti a sorte di farsi un’opinione informata su tutti i grandi temi della politica nazionale e sulle proposte dei candidati. 28In Danimarca, in effetti, opera uno degli istituti più noti nell’ambito della democrazia deliberativa (il Danish Board of Technology) che ha il compito di promuovere forme di discussione pubblica sui grandi temi dello sviluppo tecnologico e sulle grandi questioni ambientali. Ma si tratta di un organismo statale, che opera ovviamente nelle fasi di “istruttoria pubblica” delle decisioni assunte poi dalle istituzioni.

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tanto un’alternativa praticabile, ma piuttosto un “altrove” mitico, rispetto a un mondo (la democrazia rappresentativa) che sempre più è bersaglio di sfiducia e insoddisfazione.

Si arriva così alla seconda sfida, una sfida che possiamo chiamare “utopica”: superare il sistema rappresentativo per arrivare a un futuro comunitario. È l’utopia della “disintermediazione”, come Daniel Innerarity (2012) l’ha chiamata. Questa sfida nasce – per richiamare alcuni dei fattori considerati da Flinders (2012) nella sua analisi delle attuali sfide alla democrazia rappresentativa – dall’impatto della tecnologia sulla politica, dalla crescita delle aspettative dei cittadini nei confronti della politica e al declino della deferenza verso i politici.

Se la prima sfida può trovare eco e possibili alleanze nel campo delle forze politiche e intellettuali del centro-sinistra, questo secondo “fronte” trova invece possibili sostenitori nelle componenti più radicali dei più recenti movimenti di protesta.

Se poi, oltre che sulle dichiarazioni di principio, fermiamo lo sguardo anche sul modo in cui il partito è condotto, possiamo trovare una terza sfida, che possiamo chiamare “plebiscitaria”. In relazione alla vita interna del partito, ci sono diversi segni che, secondo Grillo, il nemico è la nascita di “correnti” all’interno dell’organizzazione che possano coagulare e dare struttura all’espressione del dissenso. Sia gli attivisti sia i parlamentari devono rimanere isolati, atomizzati si potrebbe dire. In tal modo la loro posizione risulta indebolita: sono in condizione di essere isolati ed espulsi nel caso osino sfidare la leadership assumendo posizioni in qualche modo autonome da essa. Isolati in questo modo, possono facilmente essere messi all’angolo con l’accusa che le loro posizioni derivino unicamente dalla ricerca di visibilità dettata da ambizioni personali. In questa strategia l’appello, tipicamente plebiscitario, agli elettori e ai seguaci del web è l’arma per attaccare l’indipendenza dei parlamentari.

Il momento chiave in cui questa concezione ha trovato espressione è stato nel momento delle cosiddette “parlamentarie”, il processo di selezione delle candidature nel quale Grillo decise che solo gli attivisti che non avevano avuto precedenti mandati politici potevano presentarsi come candidati. Più o meno nello stesso periodo, Grillo espulse attivisti che avevano cercato di assumere una posizione autonomo come il consigliere regionale (Emilia-Romagna) Giovanni Favia e la consigliere comunale (Bologna) Federica Salsi. Queste decisioni esprimono in modo chiaro la volontà di scoraggiare la creazione di relazioni consolidate tra i rappresentanti eletti e la base/elettorato, così come di rigettare qualsiasi idea di cursus honorum.

Queste decisioni, però, evidenziano una palese contraddizione tra il rifiuto teorico della leadership e il modo in cui in pratica il partito viene guidato da una leadership indiscussa e indiscutibile, priva di qualsiasi contrappeso (e anzi capace di stroncare sul nascere, attraverso il richiamo plebiscitario alla base, qualsiasi tentativo di coagularsi di un qualche contrappeso). Questa contraddizione sembra essere risolta da un ragionamento che, per certi versi, ricorda alcuni schemi che, in altro periodo storico, nella vulgata marxista-leninista, tendevano a giustificare e a legittimare la fase della “dittatura del proletariato”. I testi di Grillo e Casaleggio immaginano una sorta di “fine della politica”, un futuro comunitario nel quale tutti i partiti, incluso il M5S, spariscono, nel quale non vi sarà più alcun bisogno di intermediazione. Tuttavia per raggiungere questo futuro occorre passare per una sorta di fase “dittatoriale”: ovviamente, nessuno dei due utilizza questo termine e non c’è alcuna esplicita teorizzazione di questo processo in “due fasi” (con una fase di transizione necessaria per raggiungere un luminoso futuro comunitario). Tuttavia, Fo et al. (2013) contiene molti riferimenti circa il bisogno di una ferrea disciplina (espulsione di dissidente, rigido rispetto delle “regole”, ecc.) al fine di raggiungere questo futuro: Grillo: … la coesione deve essere per forza una regola da rispettare. Ritorno a san Francesco, è il nostro riferimento. … Se san Francesco avesse avuto all’interno del suo gruppo, che so, tre prelati di Roma, come sarebbe andata? Sarebbe finito il francescanesimo se lui li avesse accettati? (p. 188) Casaleggio: No, le dimissioni non esistono, perché in Italia non abbiamo il vincolo di mandato. Il MoVimento, il partito, non può far dimettere nessuno. Se vuoi ti dimetti, se non vuoi non ti dimetti. Chi vuole può continuare a fare il consigliere regionale, il consigliere comunale. L’unica cosa che ha fatto Beppe è negare l’utilizzo del simbolo a chi andava contro le regole, le poche regole dello Statuto. Beppe è stato

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dipinto come un dittatore, ma il Pd ha espulso decine di suoi rappresentanti nel più assoluto silenzio dei media (pp. 33-34) Casaleggio: Parliamo del caso di Bologna [il ritiro dell’uso del simbolo alla consigliera comunale Federica Salsi in seguito alla sua partecipazione al programma Ballarò e a sue dichiarazioni successive], che per giorni ha occupato le pagine dei giornali. Qui va fatto un discorso sul rispetto delle regole. In una comunità non puoi andare contro le regole, altrimenti non esiste la comunità. La regola in questo caso è che i rappresentanti del MoVimento sono portavoce della comunità che li ha eletti e possono parlare per ciò che la comunità li ha incaricati. Non puoi andare in televisione a parlare dell’Imu a nome del MoVimento oppure dei finanziamenti regionali senza l’assenso della base. Grillo: Se sei eletto consigliere comunale e vuoi parlare dei problemi di Bologna in tv lo puoi fare, ma dal momento in cui tu esprimi un parere di politica nazionale e internazionale, non lo puoi fare a nome del MoVimento. Come consigliere tu non hai questa facoltà. (pp. 36-37)

Nel pensiero di Grillo c’è una relazione conflittuale con l’idea stessa di rappresentanza politica

(che viene vista in modo riduttivo come mera delega). Si tratta di posizioni, peraltro, non certo isolate, ben presenti anche in ambienti diversi e anche in ambito accademico, espressione di un clima di opinione che tende a ricercare le possibili soluzioni alla crisi della rappresentanza attraverso meccanismi istituzionali che dovrebbero “depoliticizzare” e “departitizzare” la democrazia: si pensi, ad esempio, alla riscoperta delle virtù del sorteggio come metodo di selezione della classe politica (cfr. il volume prodotto da un gruppo interdisciplinare dell’Università di Catania – Caserta et al., 2012) , o alle opinioni anch’esse favorevoli al sorteggio – non si sa se per reale convinzione o per gusto della provocazione – di Michele Ainis (in alcuni articoli sul “Corriere della sera”)29. Ma si pensi anche ad un recente lavoro di Aldo Schiavone sulla crisi della politica e sulla necessità di riforma della democrazia rappresentativa: pur senza prendere posizione accanto ad alcuna forza politica, Schiavone di fatto esprime alcune posizioni perfettamente convergenti con quelle del M5S (anche se, al momento del dunque, si fa molto più cauto e moderato di quanto le premesse del ragionamento avrebbero lasciato supporre), suggerendo di affiancare forme di democrazia diretta a quelle della democrazia rappresentativa30.

La delega è legata al tema del mandato imperativo. Su questo tema, Grillo ha cambiato opinione. Questo cambiamento è indicativo del carattere strumentale di alcune di queste prese di posizione. Nel suo libro Siamo in guerra (pp. 63-4) egli definisce i politici nostri “dipendenti” e,

29 Ainis è uno dei 35 “saggi” nominati dal governo Letta per avanzare proposte di riforma della costituzione. Vedi Privilegium. L’Italia divorata dalle lobby, Rizzoli, Milano, 2012. Il sorteggio è stato favorevolmente preso in considerazione dallo stesso Grillo (post del 24/5/06). Occorre notare, in relazione a quanto sopra affermato sulla possibile fonte della “democrazia deliberativa”come ispirazione del M5S, che è certamente vero che la riscoperta del sorteggio è avvenuta anche nell’ambito di questa corrente del pensiero democratico contemporaneo; ma tutti i maggiori teorici dell’uso della selezione casuale dei partecipanti ad un’arena deliberativa si guardano bene dal conferire a tali arene un qualche diretto potere decisionale: si tratta semmai di microcosmi rappresentativi che, a seconda dei casi, possono svolgere un ruolo di rilevazione delle opinioni e, soprattutto, possono dimostrare come un adeguato setting deliberativo possa favorire la formazione di opinioni più informate e riflessive. Come, a suo tempo, notò Fishkin (1991, p.81), le conclusioni a cui questi minipublic giungono possono avere solo “a recommending force” nei confronti del decisore politico.

30 Occorre, secondo Schiavone, “riformare in profondità l’istituto del referendum,… innanzitutto prevedendo per questo tipo di consultazioni la possibilità del voto telematico…e poi si potrebbe estendere il referendum confermativo o abrogativo fino a incidere sulla stessa struttura del potere legislativo ordinario: per alcuni provvedimenti l’approvazione parlamentare sarebbe seguita da una successiva ratifica referendaria senza quorum (o con uno molto basso) nella prima domenica di voto successiva alla delibera parlamentare… E insieme si introdurrebbe – di nuovo limitandolo ad alcune materie – il referendum propositivo, sempre con votazioni a distanza” (Schiavone 2013, p. 110-111). Anche Schiavone giudica con interesse e favore la possibilità dell’uso del sorteggio per la selezione di parte della classe politica: se per il parlamento, questa proposta “indica una direzione giusta”, ma è “probabilmente per ora troppo avveniristica”, nelle “assemblee elettive di prossimità” (consigli regionali e comunali) è giudicata fin da ora praticabile (per una parte compresa “fra il 30 e il 50%” dei consiglieri) (ivi, p. 112). Oltre a questi punti, Schiavone indica come auspicabili altri punti coincidenti (il limite di due mandati) con la proposta di Grillo o comunque convergenti (“il divieto di iscriversi a più di un gruppo parlamentare nella stessa legislatura o il principio della revoca popolare in caso di inadempienze o indegnità gravi”) [ivi, p. 113].

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citando alcune dichiarazioni del parlamentare di centro-destra, elogia la libertà dal vincolo di mandato (così come è sanzionato dall’articolo 67 della Costituzione): “il deputato Carlo Giovanardi… ebbe a dire: ‘io non sono dipendente di nessuno se non dei miei elettori. In democrazia ognuno risponde delle sue idee e degli elettori che lo hanno votato’. La dichiarazione di Giovanardi è però in contraddizione con la Costituzione italiana, che all’articolo 67 recita: ‘Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato’. Il dipendente Giovanardi, con le sue affermazioni, si poneva fuori dalla Costituzione in quanto non rispondeva alla Nazione, ma solo ai suoi elettori, dei quali, essendo il voto segreto, nessuno saprà mai l’identità”31.

Recenti affermazioni fatte sul blog (si veda, per esempio, il post del 3 marzo 201332) indicano una chiara inversione di rotta intorno a questo tema: vi è a questo punto un’aperta critica all’articolo 67, una norma che permetterebbe ai parlamentari di prendersi gioco degli elettori: “Il voto è un contratto tra elettore ed eletto ed è più importante di un contratto commerciale, riguarda infatti la gestione dello Stato. Se chi disattende un contratto commerciale può essere denunciato, chi ignora un contratto elettorale non rischia nulla, anzi di solito ci guadagna. E' ritenuto del tutto legittimo il cambio in corsa di idee, opinioni, partiti. Si può passare dalla destra alla sinistra, dal centro al gruppo misto, si può votare una legge contraria al programma. Insomma, dopo il voto il cittadino può essere gabbato a termini di Costituzione. L'articolo 67 della Costituzione della Repubblica italiana recita: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Questo consente la libertà più assoluta ai parlamentari che non sono vincolati né verso il partito in cui si sono candidati, né verso il programma elettorale, né verso gli elettori. Insomma, l'eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno. Per cinque anni il parlamentare vive così in un Eden, in un mondo a parte senza obblighi, senza vincoli, senza dover rispettare gli impegni, impegni del resto liberamente sottoscritti per farsi votare, nessuno lo ha costretto con una pistola alla tempia a farsi inserire nelle liste elettorali. La circonvenzione di elettore è così praticata da essere diventata scontata, legittima, la norma”.

L’ideologia di Grillo si fonda su un forte rigetto dei partiti. Non sono considerati strumenti di democrazia. Questo punto di vista trova un terreno favorevole nell’attuale clima culturale, che può essere testimoniato non solo dai numerosi libri che, sulla scia del successo de La casta, hanno puntato il dito contro i costi della politica e l’uso del denaro pubblico ma anche dalla quasi contemporanea ristampa di alcuni testi “classici” che criticano apertamente il ruolo dei partiti in democrazia33.

La tabella 5 riassume le tre sfide che abbiamo illustrano in precedenza (“riforma”, “utopia”, “plebiscitarismo”).

31 Grillo ripete esattamente lo stesso discorso nel suo show Incantesimi, dove però cita erroneamente l’articolo 64 invece del 67. Egli considera positivamente l’articolo 67 anche nel post pubblicato il 10 agosto 2010. 32 Si veda anche il post del 16 marzo 2013, dopo il voto per l’elezione del Presidente del Senato, durante il quale alcuni senatori M5s – forse 16 – votarono differentemente dalle indicazioni del gruppo. 33 Ci riferiamo a testi quali: S. Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti (poi in Senza partito, con prefazione di M. Revelli), A. Olivetti, Democrazia senza partiti (con prefazione di S. Rodotà), E. Rossi, Contro l’industria dei partiti (con prefazione di P. Flores d’Arcais). Si tratta di testi e di autori che muovono da una visione profonda di ispirazione comunitaria, o che – come nel caso di Ernesto Rossi – sono espressione di quelle minoranze di cultura politica laica e liberale che, in Italia, hanno sempre vissuto con sofferenza l’egemonia dei due grandi partiti di massa. Ma ad alimentare oggi la cultura dell’”antipartitismo” sono soprattutto alcune correnti profonde presenti nella storia italiana: correnti nelle quali prevalgono elementi di carattere antiparlamentare e antipolitico. Su questo, e sul radicamento di questa cultura politica nella storia repubblicana italiana, si vedano i lavori dello storico Salvatore Lupo (2004, 2013).

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Tabella 1 Le sfide del M5S alla democrazia rappresentativa Sfida Contenuti Alleati potenziali Riferimenti

comparativi “Riforma” Allargamento degli strumenti di

democrazia diretta; parziale, ma profonda, revisione della democrazia rappresentativa

Alcuni partiti di sinistra e alcuni “liberi pensatori” di sinistra

Sinistra post-materialista; (verdi, ecc.)

“Utopia” Aspirazione a un futuro comunitario; superamento della democrazia rappresentativa

Movimenti Occupy Wall Street, Indignados, Piraten

“Plebiscitarismo” Guida dispotica del partito, rifiuto del dissenso (no ad assemblee per discutere ed esprimere forme di dissenso); uso plebiscitario del Web. Idea “atomizzata” della democrazia

Rifiuto delle alleanze politiche e appello diretto ai cittadini

Partiti populisti

Conclusioni

Presente e futuro, conservazione e innovazione, leaderismo e partecipazione, culto della costituzione vigente e spericolato utopismo, nel M5S hanno finora convissuto spinte assai complesse e differenziate. Questo, per certi versi, è stata la sua forza, ma allo stesso tempo, è il terreno da cui facilmente possono nascere contraddizioni e debolezze.

Questi due poli hanno potuto convivere, ed anzi rafforzarsi a vicenda, perché il M5S può essere definito, a tutti gli effetti, come un modello di partito in franchising (Carty, 2006). Un siffatto modello organizzativo prevede la complementarità di due poli: da una parte, un “centro”, a cui spetta la definizione delle strategie comunicative e politiche e che possiede e registra un “marchio”, un brand che viene concesso alle “filiali” locali, a certe condizioni. Il successo del M5S si è costruito su queste basi: è infatti attraverso questo rapporto tra nazionale e locale che, sotto l’etichetta delle “cinque stelle”, gruppi, associazioni e singole persone hanno trovato un canale di mobilitazione e partecipazione politica, e un canale di accesso alle istituzioni, che, evidentemente, non hanno trovato altrove. La forza del M5S non è solo data dalla potenza comunicativa di Grillo: è data anche dal fatto che, sotto la copertura di questo marchio, si sono messe in moto (anche attraverso il web, ma non solo) reti locali di attivismo civico che, in tutti questi anni, hanno agito nella società civile e a cui i partiti e le istituzioni non hanno saputo proporsi come interlocutori credibili. Grillo ha “coperto” con la sua strategia mediatica e l’uso del suo blog il proliferare di gruppi locali che sono nati sulle più diverse issues locali e che hanno trovato nel marchio “cinque stelle” e nel “megafono” di Grillo una sorta di moltiplicatore e amplificatore34.

Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini concludono il volume da loro curato sul “partito di Grillo” (2013), avanzando l’ipotesi che il M5S si possa trovare ora di fronte ad un duplice e 34 Sulla “reinvenzione dell’attivismo civico” di cui il M5S sarebbe espressione, si sofferma in particolare il libro di Greblo (2011), - una ricerca interessante e utile per molti aspetti ma che risente, a nostro avviso, dei limiti temporali in cui si è svolta e conclusa, ovvero in un periodo antecedente la fase del 2012-2013, segnata dall’irruzione del movimento sulla scena politica nazionale. Greblo analizza in generale i tratti degenerativi di quella che definisce “democrazia identitaria”, le torsioni populistiche e plebiscitarie cui è soggetta oggi la democrazia rappresentativa, e focalizza bene i termini con cui, nel decennio trascorso, si sono delineati percorsi di riattivazione di reti civiche e partecipative che hanno cercato nuove risposte alla chiusura autoreferenziale del sistema politico; ma poi tende ad inscrivere univocamente e ottimisticamente l’emergere del M5S entro questo quadro, non nascondendo le pulsioni populiste e demagogiche che il leader ha impresso al movimento, ma valorizzando soprattutto il significato positivo del nuovo “attivismo civico” di cui le reti locali del M5S sono espressione. Le vicende degli ultimi due anni hanno, quanto meno, mostrato che esiste anche un altro lato della medaglia: e forse il M5S non è solo una reazione all’affermazione di una “democrazia identitaria”, non può essere visto come una soluzione ai problemi che questa pone, ma si rivela parte ed espressione, esso stesso, del problema.

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problematico passaggio, quello dal locale al nazionale, e quello dal movimento all’istituzione. Tutto lascia presagire, e ce ne sono già alcuni segni, che si possa produrre una tensione tra la logica centralistica e plebiscitaria che ha portato Grillo a catalizzare intorno al M5S tutte le più disparate ragioni del rancore e del risentimento popolare, e la cultura politica da cui provengono gran parte dei neo-eletti: una cultura che è un impasto originale di ambientalismo vecchio e nuovo, cultura del consumo critico, cultura della cittadinanza attiva, propensione partecipativa. Dall’esito che avrà questa tensione, crediamo che dipenda in gran parte il futuro stesso del M5S, Riferimenti bibliografici Ackerman B., 2004, Il Deliberation Day, festa per informarsi e discutere, in Fishkin, Maffettone (2004). Ackerman B., Fishkin J., 2004, Deliberation Day, The Yale university Press. Allegretti U., 2010, Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze, Firenze University Press. Allegretti U., 2011, Democrazia partecipativa, in “Enciclopedia del diritto”, Milano, Giuffrè. Barber B., 1984, Strong Democracy. Participatory Politics for a New Age, Berkeley, University of California Press, Bergamini O., 2002, Storia degli Stati Uniti, Roma-Bari, Laterza. Biorcio R., Natale P., 2013, Politica a 5 stelle. Idee, storia e strategie del movimento di Grillo,Feltrinelli, Milano Bordignon F., Ceccarini L., 2013, Five Stars and a Cricket. Beppe Grillo Shakes Italian Politics, in “South European Society and Politics”, forthcoming. Bosetti G., Maffettone S., (a cura di), 2004, Democrazia deliberativa: cosa è, Luiss University Press, Roma. Calise M, 1989, Governo di partito. Antecedenti e conseguenze in America, Bologna, Il Mulino Carty R.K, 2006, I partiti come sistemi di franchising. L'imperativo organizzativo stratarchico, in Bardi L. (a cura di), 2006, Partiti e sistemi di partito, Bologna, Il Mulino. Casaleggio, G., 2004, Web ergo sum, Milano, Sperling & Kupfer Casaleggio, G., Grillo, B., Siamo in guerra. La rete contro i partiti per una nuova politica, Milano, Chiarelettere, 2012 Caserta M., Garofalo C., Pluchino A., Rapisarda A., Spagano S., 2012, Democrazia a sorte. Ovvero, la sorte della democrazia, , Catania, Malcor D’ edizioni Della Porta D.,2005, Democrazia in movimento, partecipazione e deliberazione nel movimento per la globalizzazione dal basso, in “Rassegna italiana di sociologia”, a. XLVI, n. 2., pp. 307-341. Fishkin J.,1991, Democracy and Deliberation: New Directions in Democratic Reform, Yale University Press, Yale. Fishkin J. S 2002, La nostra voce. Opinione pubblica & democrazia, una proposta, Padova, Marsilio. Fishkin J. S 2009, When the People Speak. Deliberative Democracy and Public Consultation, Oxford, Oxford University Press. Flinders, M. (2012) Defending Politics. Why democracy matters in the Twenty-First Century, Oxford, OUP. Floridia A., 2013a, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Roma, Carocci. Floridia A., 2013b, Partecipazione, deliberazione e politiche pubbliche: soltanto inefficacia o manipolazione ? uno schema analitico e un caso di studio, paper presentato al XXVII convegno annuale della SISP, Firenze 12-14 settembre 2013 Floridia A., 2013c, Participatory Democracy versus Deliberative Democracy: Elements for a Possible Theoretical Genealogy. Two Different Histories, Some Intersections¸ paper presentato alla VIIa General Conference dell’ECPR , Bordeaux, 4-7 settembre 2013 Fo, D., Casaleggio G., Grillo B., Il Grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere, Milano, 2013 Formenti, C. (2008), Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Milano, Cortina. Graeber, D., Critica della democrazia occidentale (2012, ed. or. 2007), Eleuthera, Milano Greblo E, 2011, Filosofia di Beppe Grillo. Il movimento 5 stelle, Milano, Mimesis.

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