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Dialogo di Caino e di Dio

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Scritto da Stefano Curreli

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In copertina Caïno - (1880) Parigi, Musée d'Orsay.Dipinto di Fernand Cormon.

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Caino: E così pure voi, Padre, che più d’ogni altro spirito dovreste conoscere ogni segreto del mio cuore, siete avversi a prestar fede alle mie parole, le quali nulla contengono di falso e oscuro? Credermi è per voi così tanto sacrificio? Dio: È dai tempi in cui il primo sangue – a causa tua – fu sparso tra i campi, che ragioniam sulle traversie del tuo animo, amato Caino. E benché mi sforzi – andand’io, come tu sai, controcorrente agli altri spiriti, facendoti scudo di scherni con chiunque provi ancora a denigrarti e quant’altro – ancor non riesco a trovar dentro me la completa pietate che mi chiedi, ogni dì, da quando vecchio e povero lasciasti Nod per ascendere alla grazia che ti è spettata. Caino: Ahimè, Padre, se questa voi la chiamate grazia vi sbagliate di gran lunga. A viver col cuor che mi si attorciglia in un petto che neanche più ho; prima di chiamarla grazia ci ragionerei un po’. Dio: Non esser blasfemo, Caino, a disdegnare i cieli! Caino: O no, che avete inteso mai, amato Padre? Io non disdegno affatto il vostro regno, e mai

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disprezzai ugualmente il vostro creato in terra, che anzi ogni dì non passò mai un solo istante senza sentirmene innamorato, né da puro né da sporco. Dio: Allora, figlio, cosa ancor ti cruccia nell’animo, se tutto s’è ormai risolto? La mia pietate, in realtà, sostanzialmente l’hai pure avuta. Che t’importa se solo non riesco a capacitarmi di quella tua antica azione? Sei qui al mio fianco, e guarda che luce che puoi ammirar in eterno. Caino: È a veder quell’uomo che struggo. Quell’uomo di cui fui fratello. Le sue buone mani che sempre ho odiato. E mi brucio la lingua a pronunciar quel verbo. Ebbene, io lo feci, lo sappiamo, con pusillanimità e istinto da bestia, provato e geloso dell’amor che riceveva da voi. E vi pensavo ingrato, e anche a voi allora odiavo, e sapete bene e ricordate quei tempi dannati, di quando furioso mi scagliaste contro l’ira vostra e io fuggii, prima negai, poi fuggii. E mai m’avete riconosciuto, Padre, e qui voglio arrivare… Dio: Riconoscerti cosa? Non indugiar, figliuolo, e guarda che luce ora rispende. Non bloccar la tua lingua. Caino: Non avete mai ammesso che il mio nefasto gesto non si sarebbe mai compiuto, se solo voi aveste fermato quel serpente, il quale iniettando il veleno per le vene di mia madre, prima che io

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nacqui, mi corruppe l’animo forgiando il mio nome come assassino, nelle ere e nelle terre in cui io vissi. E qui, Padre, non voglio mentirvi, e io – perdonate le mie parole – vi rimprovero per questo. Dio: Se tu sapessi, Caino, quanto poco potevo fare per fermar quel diavolo, allora non avresti passato tutta questa eternità a rammaricarti con tali pensieri. La bassa lacuna che m’attribuisci la chiamerei piuttosto impotenza. E dimmi tu, figliuolo, se un dì mentre dormi qualcuno entra in casa tua e ti reca qualche noia, se al tuo risveglio puoi esser tu giudicato colpevole per non aver fermato le azioni di quell’uomo? Caino: Ma voi, Padre, non dormite. Dio: Perché bestemmi, Caino? V’ho dato facoltà di leggerle, quelle scritture antiche, e nessun dubbio avreste dovuto mai nutrire, voi uomini, benché le leggeste allegoricamente. Ma pure ricercandoci dei simboli, il mio mancato intervento è inequivocabilmente mia impotenza d’agire. Caino: Mi vergogno, Padre, ad avervi esternato i miei dubbi. Non volevo pensar male di voi. Cercavo soltanto delle risposte che da quei tempi mi dolgono l’animo. Dio: Non star male, Caino, per ciò che nessuno poteva evitare. Sei stato valoroso ad affibbiarti quella fama e a tener alta la testa. Tra le genti

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camminasti e mai ti nascosi, martire dei tuoi sbagli. E procreasti una genia e lavorasti, come ai tempi in cui il tuo animo era candido; e mai ti fermasti, fino all’ultimo alito che ti abitò. Caino: Io vi ringrazio eternamente, Padre, per la forza che m’avete donato là in terra. E a proposito di quella terra di cui parliamo, ricordo che da qua su, i primi tempi che vi ci arrivai, vidi là che mai nessuno sopravvisse a quel diluvio a cui Noè affidasti la conservazione della specie. Non vogl’io rimproverarvi – come pocanzi stoltamente ho fatto – ma ditemi voi, e ve lo chiedo con umiltà: perché quel mio seme lo faceste sparire dal mondo? Fu forse per la mia meschinità di quel gesto e per la paura che ancora, col veleno del demonio dentro al sangue, qualche mio discendente potesse ripeter quell’infamia? Dio: O no, Caino, non pensar oltre. Persone con l’indole di ribellarsi quando lo ritengono buono e giusto non trovano accoglienza e strada ritta in quel mondo di cui noi parliamo, che tu miri e in cui vivesti, e ben poco io potevo fare per salvar la tua genia. Andar contro a certe regole è impossibile anche a me. Ma in tutta confidenza, al contrario di quel che sei convinto, ti confesso che qualche tuo discendente ancor respira e vede i colori, sente i profumi e sfiora la materia con le mani, in quella

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terra laggiù. O Caino, non lacrimar di gioia così, che emozioni anche me. Son là, ammirali. E son incompresi tutt’ora dai figli di Abele, i quali son tutti gli altri uomini ora in vita in quel pianeta. Li vedi, Caino, i tuoi figli lontani? Son pittori, poeti e incompresi. Guardali gridare contro il mondo e contro me. Guardali che belli, con quegli occhi inconfondibili. Figliuolo, malgrado tu non riesca più a parlare, così fradicio di lacrime, continua a guardarli e non lasciarli mai. Hanno bisogno di qualcuno che li ami, che li faccia sentire non soli. Io non posso. Curatene tu coi pensieri e raggiungili. Non farli sentire così soli come sono, Caino. Guardali gridare.

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