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B E R S A G L I O
Le conseguenzeeconomiche della pacedi John M. KeynesUn dibattito a cura di Daniela L. Caglioti, con interventi di Charles S. Maier, Pier Francesco Asso, William R. Keylor, Patrick O. Cohrs, Sally Marks, Eric Bussière
Charles S. Maier
Conseguenze economiche della pace, conseguenze sociali della guerra
Le conseguenze economiche della pace di
Keynes: brillante, ingiusto, sbagliato, forse
distruttivo nelle sue conseguenze... ma giu-
sto per le ragioni sbagliate. Buttato giù nella
concitazione dell’estate e dell’autunno del
1919 da un autore la cui opera principale,
Teoria generale dell’occupazione, dell’inte-
resse e della moneta1, diciassette anni dopo
avrebbe rovesciato un’ortodossia econo-
mica ed aperto la strada – almeno per una
generazione – ad un’altra, il libro, a no-
vant’anni dalla pubblicazione, resta proba-
bilmente l’opera polemica di maggior suc-
cesso del XX secolo.
Keynes, fondamentalmente, affrontava un
argomento cui non dava spazio nel titolo:
le conseguenze economiche della guerra, lo
sconvolgimento dei traffici e delle relazioni
economiche di quel mondo globalizzato
antecedente al 1914 che egli evoca con ef-
ficacia nel primo capitolo. La guerra aveva
mostrato che la politica o almeno le pas-
sioni del nazionalismo avevano sovrastato
il ragionamento economico ed è questo il
motivo per cui la politica, anche se Key-
nes poteva lamentarsene, alla conferenza
di pace ebbe la tendenza a venire prima
di tutto. L’impegno a far rivivere uno stato
nazionale polacco con uno sbocco sul Mar
Baltico significava dar vita ad uno stato che
doveva costare alla Germania i tradizionali
territori prussiani. L’autodeterminazione
nel Baltico e negli ex domini degli Asburgo
significava la creazione di nazioni fragili e
1 J.M. Keynes, Occupazione interesse e moneta: teoria generale, Torino, Utet, 1947 [London, 1936]. L’opera, nelle diverse edizioni italiane, ha conosciuto una variazione nel titolo che, dalla prima edizione qui citata, è passato ad una versione più aderente all’originale [NdR].
Contemporanea / a. XII, n. 1, gennaio 2009
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più deboli. L’incapacità di reprimere i bol-
scevichi e/o il rifiuto di venire a patti con
essi comportava una terribile ambiguità sul
ruolo della Russia nell’Europa del dopo-
1918. Ma Keynes comprese che la tragedia
non giunse soltanto nel 1918, ma nel 1914.
La splendida biografia di Skidelsky chiari-
sce come Keynes, e l’intellighenzia liberale
britannica cui apparteneva, vivesse in un
mondo di cultura transnazionale che dif-
ficilmente avrebbe voluto disgregato, ma
che vide gradualmente distrutto2. Da un
certo punto di vista, Le conseguenze econo-
miche della pace è un cri de coeur contro
la distruzione di quel mondo. Keynes servì
il suo governo durante la guerra ma non
abbandonò mai il suo cosmopolitismo e la
sua speranza in un compromesso che po-
tesse ricomporre il continente. Quello che
egli lamentava nel suo pamphlet era il fatto
che gli statisti del 1919, alla fine, non erano
riusciti a superare la rottura.
La parte del libro che sembra aver più
spesso attirato l’attenzione è quella che con-
tiene i profili dei protagonisti. Ad eccezione
di sua madre – così racconta Skidelsky – i
suoi lettori adoravano questi ameni ritratti.
Essi continuavano la tradizione degli Emi-
nenti vittoriani del suo amico Strachey3.
Secondo Keynes, le caratteristiche che egli
metteva in risalto erano esplicative della
debolezza del trattato: un Lloyd George
troppo furbo, che chiedeva obblighi pe-
santi per la Germania per poi pentirsi della
sua demagogia; un Wilson preso dalla sua
rettitudine presbiteriana e rappresentante
di una grossolana cultura materiale i cui
esponenti politici non potevano guardare
oltre i loro interessi locali; un Clemenceau
cinico, con una sola idea in testa, deciso
ad asservire la Germania. Questi impie-
tosi ritratti (e Keynes alla fine autocen-
surò quello su Lloyd George e lo eliminò
dal libro) giocano un ruolo singolare nel
suo pamphlet. Si ha l’impressione che essi
siano stati inseriti per rendere interessante
un argomento presumibilmente noioso ad
una cultura che probabilmente avrebbe tol-
lerato l’economia politica solo se addolcita
dalla biografia. Essi mostravano che egli
era in grado di padroneggiare «una bella
scrittura». Se fosse stato meno impegnato
ad apparire uno scrittore accattivante, Key-
nes avrebbe potuto riflettere sul fatto che le
caratteristiche che egli si era divertito ad in-
dividuare in quei personaggi erano quelle
che avevano condotto in salvo le loro na-
zioni in condizioni disperate, conferendo la
spietatezza necessaria per mantenere Gran
Bretagna e Francia così risolute nei terribili
anni 1917-18 ed accordando a Wilson il fer-
vore morale per arruolare finalmente i suoi
concittadini per una causa lontana.
Keynes credeva davvero che il trattato di
Versailles fosse stato negativamente in-
fluenzato dal fatto che, secondo lui, le mani
di Woodrow Wilson «sebbene capaci e ab-
bastanza forti, difettavano di sensibilità e di
finezza» (p. 46)? Wilson «non aveva nessun
piano, nessun progetto, non idee costrut-
2 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, vol. 1, Speranze tradite 1883-1920, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 [London, 1983]. I riferimenti alle pagine, inseriti tra parentesi subito dopo le citazioni, di Le conseguenze eco-nomiche della pace sono tratti dalla più recente edizione italiana Milano, Adelphi, 2007 [London, 1919].3 G.L. Strachey, Eminenti vittoriani, Milano, Rizzoli, 1973 [London, 1918].
159
tive di sorta per rivestire di carne viva i co-
mandamenti che aveva tuonato dalla Casa
Bianca» (p. 48). Si trattava semplicemente
di sciocchezze retoriche: per quanto imper-
fetti potessero essere i risultati, la Società
delle Nazioni e la costruzione di stati na-
zionali nell’Europa orientale seguivano le
indicazioni wilsoniane.
Anche Clemenceau, che tenne dal principio
alla fine le sue mani inguantate (Keynes è
affascinato dalle mani!), non poteva essere
accusato di ingenuità o di scarsa compren-
sione. Keynes coglieva nel segno. Secondo
Clemenceau lo stato naturale delle relazioni
franco-tedesche doveva essere di guerra
implicita, se non aperta, e la missione era
dunque quella di ridurre la potenza della
Germania, compresa quella economica.
«Con le perdite territoriali e altre misure si
doveva ridurre la sua popolazione; ma so-
prattutto bisognava distruggere il sistema
economico su cui si basava la sua novella
forza, la vasta struttura edificata sul ferro,
il carbone e i trasporti» (p. 43). La tesi di
Keynes è che questo atteggiamento doveva
portare inevitabilmente alla «pace cartagi-
nese». Ed è qui che il libro acquista forza,
nel sostenere, cioè, «che la pace cartaginese
è in pratica sbagliata e impossibile [...].
Non si può rimettere indietro l’orologio.
Non si può riportare l’Europa centrale al
1870 senza creare nella struttura europea
tensioni tali, e scatenare tali forze umane
e spirituali, da travolgere, oltrepassando
frontiere e razze, non solo noi e le nostre
“garanzie” ma le nostre istituzioni e l’or-
dine esistente della nostra società» (p. 44).
Era questa un’argomentazione di grande
momento. Keynes dedica la parte centrale
del suo libro ad illustrare come gli alleati
stessero lavorando a questo pericoloso ri-
sultato. Il suo pamphlet discuteva in primo
luogo tutte le riduzioni del territorio e della
popolazione tedeschi, lo spostamento delle
risorse carbonifere e gli ostacoli posti alla
marina mercantile: tutto studiato – egli
suggeriva – per mutilare economicamente
la Germania. Keynes passa quindi ad illu-
strare come l’accordo sulle riparazioni non
fosse solamente iniquo, ma anche imprati-
cabile. È su questo punto che la storiografia
degli anni Settanta ha trovato l’opera faci-
lissima da criticare. Come riconosceva lo
stesso Keynes, nell’autunno 1918 la politica
interna britannica fu un fattore decisivo
nello spingere alla richiesta di riparazioni
pesanti. Egli almeno è spietato verso i suoi
concittadini, che promettevano sconsidera-
tamente di spremere il limone tedesco «fino
a farne scricchiolare i semi». Quando Lloyd
George tentò di invertire il corso delle trat-
tative parigine, era ormai troppo tardi. Wil-
son era più facile da illudere che da disillu-
dere (p. 56).
Al momento in cui Keynes scrisse il libro,
la lista delle riparazioni finanziarie non era
stata ancora definita, tuttavia egli calcolava
che i danni che si sarebbero potuti addebi-
tare alla Germania sarebbero ammontati
forse a tre miliardi di sterline per quelli
fisici e ad altri cinque per le pensioni e le
indennità, per un totale di otto miliardi di
sterline.
La lista delle riparazioni ammontò effetti-
vamente a 6,6 miliardi di sterline (o quasi
trentatre miliardi di dollari, o 132 miliardi
di marchi-oro, l’unità di conto basata sul
valore prebellico del marco). Le condizioni
per riscuotere tale somma implicavano che
la Germania avrebbe ammortizzato una
160
serie di obbligazioni che sarebbero state
emesse in serie differenti in sequenza ma col
risultato, secondo le valutazioni di Keynes,
che ci sarebbero voluti quarantotto anni di
pagamenti continuativi per oltre 3 miliardi
di sterline o quasi 60 miliardi di marchi-oro
l’anno. Keynes era «certo, nella misura in
cui può esserlo qualsiasi cosa» che la Ger-
mania non avrebbe potuto pagare questa
somma (pp. 133-138). Due miliardi di ster-
line – pari a 40-50 miliardi di marchi-oro
– rappresentavano il limite massimo della
capacità di pagamento tedesca (p. 162).
Reazioni e protesteIl libro di Keynes suscitò vive proteste tra i
tories ed i settori intransigenti dell’opinione
pubblica britannica mentre fu ovviamente
ben accolto in Germania. La storiografia re-
cente si è divisa. Per molti Le conseguenze
economiche della pace divenne rapida-
mente semplice buonsenso. Keynes aveva
affermato che i tedeschi non erano in grado
di pagare ed in gran parte non lo fecero,
una volta effettuato un pagamento iniziale
di un miliardo di marchi-oro ed una conte-
stata somma in natura entro il 1921. Keynes
aveva previsto una possibile inflazione, che
in effetti si verificò. La generazione di sto-
rici che circa trenta anni fa ha risollevato
la questione delle riparazioni è stata però
molto più critica. Stephen Schuker ha di-
mostrato efficacemente che i tedeschi elu-
sero dei pagamenti che erano in grado di
effettuare. L’accesso ai documenti francesi
ha permesso una ricostruzione più indul-
gente della posizione francese4. La do-
manda diveniva quella su cui avevano insi-
stito i francesi: non quali pagamenti fossero
possibili, ma quale indennizzo fosse giusto.
Chi scrive è stato più critico nei confronti
di Keynes negli anni Settanta e Ottanta che
dopo. La ricerca storica successiva ha teso
a ristabilire l’equilibrio ed a guardare meno
all’ingiustizia che alla miopia. Come Keynes
aveva capito, il prelievo forzato di risorse
da una nazione nemica era molto difficile
o richiedeva un più alto grado di controllo
(come quello che i tedeschi esercitarono sui
francesi tra il 1940 ed il 1944 o quello che
i sovietici ebbero sulla Germania orientale
dopo il 1945).
Il cuore del libro di Keynes era sicuramente
il problema economico: il conflitto sulle
riparazioni infiammò l’opinione nazionali-
sta in Germania, portò il paese ad una crisi
disperata nel 1923 e poi si calmò. I termini
in apparenza draconiani imposti nel 1921
furono differiti nel 1924. In effetti, la serie
continuativa di obbligazioni differenti sca-
glionate nel tempo diminuiva il valore at-
tuale del carico (come avrebbe riconosciuto
4 Cfr., tra gli altri, S.A. Schuker, The End of French Predominance in Europe: The Financial Crisis of 1924 and the adoption of the Dawes Plan, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1976; Id., Ameri-can «Reparations» to Germany, 1919-33, Princeton, Princeton University Press, 1988; M. Trachtenberg, Reparation in World Politics: France and European Economic Diplomacy, 1916-1923, New York, Columbia University Press, 1980. Sulla difficoltà di effettuare i pagamenti delle riparazioni cfr. P. Krüger, Das Repara-tionsproblem der Weimarer Republik in fragwürdiger Sicht: kritische Überlegungen zur neuesten Forschung, «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 29, 1981; B. Kent, The Spoils of War: The Politics, Economics and Diplomacy of Reparation 1918-1922, Oxford, Oxford University Press, 1989. Z. Steiner ha tentato una rapida sintesi in The Lights that Failed. European International History 1919-1933, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 193-201. Altri contributi di Barry Eichengreen, dell’ultimo Gerald Feldman, di Carl Ludwig Holtfrerich e di Charles S. Maier, di Sally Marks hanno segnato questo dibattito ancora in corso.
161
Keynes nel 1921), anche se sembrava so-
prattutto prolungarlo. Il sistema bancario
degli Stati Uniti, dal 1924 al 1929, giocò il
ruolo che Keynes avrebbe voluto che la po-
litica ufficiale americana giocasse nel 1919:
riconoscere, cioè, il legame tra i pagamenti
tedeschi ai loro ex alleati ed i pagamenti
di questi ultimi verso gli Stati Uniti. Ma
quando il sistema del credito collassò (ed
in effetti, una volta rivelate le sue debolezze
finì sotto tensione nel 1927 ben prima del
grande crollo) le riparazioni dovettero es-
sere nuovamente allentate. Esse infiamma-
vano ancora la Germania e mobilitavano
unitamente nazionalisti e nazisti. Ma la re-
cessione agricola, i mercati sconvolti erano
il motivo principale: al 1932 le riparazioni
sarebbero cessate. Keynes aveva ragione:
molto meglio aver evitato quel tremendo
inasprimento del sentimento revanchista in
Germania! Molto più saggio per l’America
essersi mossa per limitare l’escalation di ri-
chieste franco-britanniche negli ultimi mesi
della conferenza! Gli americani avrebbero
in effetti sostituito, dopo il 1945, i pagamenti
del piano Marshall alle riparazioni tedesche,
tuttavia, non potendo prevedere le conse-
guenze, dopo il 1919 non erano pronti per
assumersi questo onere. Ma quando negli
anni Venti gli Usa ebbero negoziato accordi
con ciascuna delle nazioni loro debitrici, ave-
vano condonato circa metà del valore cor-
rente di quanto era nominalmente dovuto.
Un libro saggio?Keynes diceva delle cose sagge, ma scrisse
un libro saggio? La sua argomentazione era
destinata a fomentare la resistenza tedesca
alle riparazioni e quasi sicuramente ad in-
coraggiare la Francia ad accettare una re-
visione. L’analisi di Keynes impressionava
per il peso apparentemente scientifico che
stava dietro i numeri. La Germania stava
sacrificando il 15% del suo territorio e la
sua struttura produttiva. Prima della guerra
essa aveva tenuto a malapena in equilibrio i
suoi conti internazionali. Come poteva mai
creare in questo ridotto territorio nazionale
l’eccedenza per l’esportazione necessaria
ad inviare i pagamenti all’estero?
Si tratta però di una singolare argomen-
tazione. Dal 1949 al 1989 la repubblica di
Bonn avrebbe raggiunto i suoi formidabili
risultati economici con un territorio di gran
lunga più piccolo di quello della repubblica
tedesca tra le due guerre. Più fondamental-
mente, Keynes scartava di fatto la possibilità
di crescita economica. Egli sapeva che la
Germania era «capace di un’altissima pro-
duttività» (p. 164), intendendo con questo
la crescita economica, e riconosceva «che
nel 1870 nessuno avrebbe potuto prevedere
la capacità della Germania nel 1910» (p.
165). Ciò nondimeno, egli scartava la pos-
sibilità della crescita, non avendo di fatto
sviluppato il problema. Innanzitutto, egli
sosteneva, il logoramento industriale del
tempo di guerra, i campi non fertilizzati,
la diminuzione del bestiame e il peso delle
pensioni avrebbero precluso, secondo i cal-
coli di Karl Hellferich, il raggiungimento
dei tassi di crescita prebellici (pp. 166-167).
In secondo luogo egli sollevò la questione
che sarebbe diventata rapidamente nota
come il problema del trasferimento: assu-
mendo pure che la crescita sarebbe potuta
riprendere, come avrebbe potuto la nuova
capacità essere trasformata in un’ecce-
denza disponibile per l’esportazione (p.
167)? In questa argomentazione affiorano
162
alcuni escamotage. Keynes sosteneva che
le possibilità di crescita non avrebbero giu-
stificato le idee più folli secondo cui la Ger-
mania avrebbe potuto pagare dieci miliardi
di sterline, ma la questione era se essa fosse
in grado di pagare, alla fine, un ammontare
di sette miliardi di sterline e non le richie-
ste più esagerate. E la crescita economica
tedesca fu resa insufficiente dal problema
del trasferimento? Su questo problema ci
sarebbe stata un’ampia discussione alla
fine degli anni Venti, ma alla fine si sarebbe
dimostrato che gli avanzi di bilancio pote-
vano diventare avanzi di parte corrente.
Quello che stupisce è che Keynes presup-
poneva una struttura malthusiana che la
crescita prebellica aveva smentito, proprio
quella struttura che egli stesso abbandonò
quando, nel 1930, scrisse il saggio Pro-
spettive economiche per i nostri nipoti, che
conteneva la visione di una futura abbon-
danza5. Tuttavia Keynes non era un econo-
mista della crescita; la sua analisi presup-
poneva i momenti di stasi economica: stasi
di abbondanza forse, ma comunque stasi.
La sua opera principale, la Teoria generale
del 1936, si sarebbe incentrata sul rista-
bilimento di una prosperità precedente e
non sull’assicurazione di una crescita eco-
nomica continua. Questa sfida teorica fu
lasciata ai suoi più giovani lettori angloa-
mericani dei tardi anni Trenta e degli anni
Quaranta.
Forse perché desiderava sottolineare la
difficoltà di esigere le riparazioni, Keynes
dipinse il mondo economico prebellico
come una rete di relazioni tese e precarie
che stavano scontrandosi con limiti mal-
thusiani. «Ho scelto di dare risalto a tre o
quattro dei maggiori fattori di instabilità»,
scriveva del 1914: «l’instabilità di una po-
polazione eccessiva dipendente per il suo
sostentamento da una organizzazione com-
plicata e artificiosa, l’instabilità psicologica
delle classi lavoratrici e capitalistiche, e
l’instabilità del flusso dei rifornimenti ali-
mentari del Nuovo Mondo» (pp. 34-35). Che
immagine fuorviante! Invece di mettere in
risalto quale ricchezza materiale era stata
raggiunta o come il settore manifatturiero
europeo esercitasse il suo impareggiabile
dominio sulla produzione agricola mon-
diale (che egli aveva evocato nove pagine
prima), egli sottolineava la fragilità malthu-
siana: una continuata pressione sui limiti
delle risorse. Un frenetico supersviluppo
aveva caratterizzato l’età dell’oro prima del
1914. Per di più, le due risorse più vinco-
lanti erano il grano, o il cibo, ed il carbone.
La scarsità di cibo rendeva certa la vulnera-
bilità rispetto all’America, le limitazioni sul
carbone rendevano sicura l’impraticabilità
degli immediati pagamenti tedeschi. In tutta
la sua argomentazione Keynes attribuiva
all’estrazione di carbone un modello deter-
ministico. Egli avrebbe potuto fornire altri
dati ma era ossessionato da una visione do-
minante di crollo e collasso. Non sto soste-
nendo che egli avesse torto: la grande de-
pressione si può dire abbia mostrato quanto
ben fondata fosse la sua immagine di fragi-
lità. Ma la crescita del 1925-29 in Europa,
per quanto breve, e sicuramente quella suc-
cessiva al 1945 ci porterebbe alla questione
5 Il testo della conferenza del 1930 si trova in J.M. Keynes, Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore, 1968 [London, 1931].
163
se non esistesse una maggiore elasticità di
quella che egli decise di rappresentare.
Infine credo ci fosse un’altra ragione dietro i
suoi assunti malthusiani. Quello che preoc-
cupava Keynes nel 1919 era il futuro del ca-
pitalismo. E, ovviamente, non preoccupava
solo lui! Ma Keynes era preoccupato perché
temeva che la guerra rivelasse su quale esile
fondamento morale poggiava il capitalismo
ed invero quale esile fondamento morale
egli – assieme a tutto il gruppo di Bloom-
sbury – credeva meritasse. Le conseguenze
economiche della pace presuppone non solo
un mondo di economie nazionali rivali. Il
libro suggerisce che tutte le nazioni euro-
pee avevano interesse a non sovraccaricare
un ordine borghese costruito su una grande
disuguaglianza. «La società [europea] era
strutturata in modo da assoggettare gran
parte del reddito accresciuto al controllo
della classe che meno era incline a consu-
marlo. [...]. Qui stava, appunto, la principale
giustificazione del sistema capitalistico»
(p. 30). Solo il risparmio del surplus che i
proprietari ricevevano aveva reso l’accu-
mulazione borghese tollerabile e capace
di prosperità. Ma tale sistema poggiava
su «un duplice bluff». Le classi lavoratrici
erano persuase o costrette a lavorare tanto
duramente per così poco; le classi proprie-
tarie erano convinte della virtù del rispar-
mio. «E così la torta cresceva; ma a quale
scopo non era chiaramente lumeggiato» (p.
31). Inoltre la guerra poteva mangiarsi la
torta, ed anche se non l’avesse fatto, aveva
«rivelato la possibilità del consumo a tutti
e la vanità dell’astinenza a molti. Così l’in-
ganno è stato scoperto; ed è probabile che
le classi lavoratrici non siano più disposte a
tante rinunce e che le classi capitalistiche,
sfiduciate nel futuro, cerchino di godere più
ampiamente delle loro facoltà di consumo
finché durano, precipitando così l’ora della
loro confisca» (p. 32).
Lenin ed i suoi fanatici seguaci si muove-
vano furtivamente nei corridoi della storia.
La guerra mondiale, che Keynes definiva
una guerra civile europea (p. 19), aveva
già consegnato ai bolscevichi il controllo
di un paese sterminato. Egli non si faceva
illusioni sul fatto che la loro rivoluzione
rappresentasse un qualche progresso. Il
più grande danno che la guerra aveva pro-
vocato non era quello inflitto ai territori
francesi e belgi, ma quello alla finora docile
accettazione della disuguaglianza di classe.
Potevano gli europei e gli americani (cui
si chiedeva anche di cancellare le loro ri-
chieste finanziarie) non comprendere che
era in gioco una vecchia civiltà? Alla fine,
dobbiamo leggere questo testo non come
una semplice trattazione statistica relativa
alla realizzazione di una pace realistica, ma
come un ammonimento per l’ordine sociale
e culturale. Con uno sguardo retrospettivo
noi possiamo sapere che il capitalismo era
più robusto di quanto autorizzassero a cre-
dere i suoi assunti malthusiani: avrebbe
avuto ancora almeno quasi un secolo di
crescita.
164
Con la pubblicazione di The Economic Con-
sequences of the Peace [d’ora in poi Ecp], un
giovane e brillante economista, allievo di
Alfred Marshall e già funzionario al Tesoro
e all’India Office, gettava le fondamenta per
costruire un nuovo modo di concepire la teo-
ria economica e l’uso che di essa ne avreb-
bero potuto fare i governi e i policy makers.
Ecp resta uno dei saggi più influenti scritti
da un economista nel XX secolo e bene ha
fatto l’editore Adelphi a riproporlo all’at-
tenzione dei lettori italiani1. I tre più au-
torevoli biografi di John Maynard Keynes
sono concordi nel definirlo un testo assai
importante nella formazione del suo pen-
siero e nel quale risultano chiaramente
espresse le sue poliedriche doti: in Ecp,
più che in altre sue opere, Keynes riveste
con grande disinvoltura il ruolo di intellet-
tuale impegnato e di raffinato scrittore, di
grande esperto della finanza e delle rela-
zioni economiche internazionali, di antici-
patore delle molte sciagure economiche e
politiche che sarebbero arrivate negli anni
successivi2.
La sua lettura a distanza di tanti anni dalla
pubblicazione ci permette di ascoltare una
voce autorevole e sempre attentamente va-
lutata dagli storici del trattato di Versailles
e della questione delle riparazioni tedesche.
Ma Ecp resta un vero e proprio manifesto di
un nuovo modo di concepire e praticare la
funzione sociale dell’economista. Inoltre, vi
si trovano riflessioni e spunti teorici ancora
utili su problemi che hanno spesso turbato
lo stato delle relazioni economiche interna-
zionali.
In questa nota vorremmo indicare alcune
delle ragioni della sua originalità e rappre-
sentare l’importanza di questo testo nello
sviluppo della successiva teoria keyne-
siana.
La fortuna dell’operaIl libro ebbe un clamoroso successo edito-
riale: nel giro di pochi mesi oltre centomila
copie vendute e ben undici traduzioni; l’im-
patto emotivo che suscitò nelle aule parla-
mentari e fra le grandi masse popolari fu
ancora più eclatante, contribuendo almeno
Ringrazio Piero Bini e Sebastiano Nerozzi per i loro commenti a una precedente versione di questo testo.
1 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007 [London, 1919]. Resta discu-tibile la mancanza di un’edizione critica comprensiva di indici analitici e di un saggio introduttivo, così come lascia perplessi il mancato inserimento del «frammento» del ritratto dedicato a Lloyd George. Poteva infine essere accolto il suggerimento di Roy Harrod di pubblicare in Appendice lo scritto biografico che Keynes avrebbe successivamente dedicato a Carl Melchior. Tutte le citazioni successive sono tratte da questa ultima edizione italiana.2 Si rinvia a R.F. Harrod, La vita di John Maynard Keynes, Torino, Einaudi, 1965 [London, 1951]; R. Skidel-sky, John Maynard Keynes, vol. I, Speranze tradite 1883-1920, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 [New York, 1983]; D.E. Moggridge, Maynard Keynes. An Economist’s Biography, London, Routledge, 1992.
Pier Francesco Asso
Su alcune conseguenze teoriche delle Conseguenze economiche della pace
165
in parte alla mancata ratifica del trattato di
Versailles da parte del Senato americano e
alla conseguente decisione degli Stati Uniti
di non aderire alla Società delle Nazioni.
Grazie a esso, a soli 36 anni, dimessosi con
clamore dall’incarico ministeriale, Keynes
aveva acquisito una fama duratura, una
solida sicurezza finanziaria e una fervente
ammirazione da parte dei più elevati circoli
intellettuali che lo portò a sfiorare, nel 1920,
il premio Nobel per la pace. Come ebbe a
scrivere l’amico e scrittore David Garnett,
manifestando tutto il senso di gratitudine
degli esponenti del circolo di Bloomsbury
che pure così aspramente avevano criticato
l’ingresso di Keynes al Tesoro, l’economi-
sta di Cambridge divenne per molti «una
forza morale». Avendo imposto una pace
cartaginese, violato le regole della logica e
gli elementi più consolidati del diritto in-
ternazionale, il trattato «aveva offeso il suo
senso dell’onore, il suo senso di umanità,
il suo senso di ciò che era possibile»3. An-
che Joseph Schumpeter che, come molti
economisti del tempo, aveva accolto con
freddezza l’approccio iconoclasta con cui
il giovane Maynard ambiva a riporre in
soffitta i grandi classici dell’economia, non
restò insensibile allo sdegno con cui erano
stati esposti i risultati prodotti dalla con-
ferenza di pace e riconobbe che «le Con-
seguenze economiche della pace ebbero
una accoglienza tale per cui la parola “suc-
cesso” suona un luogo comune e riesce
insipida»4.
Il libro si affermò anche come un genere
letterario del tutto innovativo e su cui fino
ad allora i rappresentanti della scienza
economica si erano raramente messi alla
prova. La conoscenza approfondita con dati
di prima mano degli eventi narrati si abbi-
nava a una scrittura icastica, a una rico-
struzione accurata degli elementi giuridici
e geopolitici, a una brillante analisi intro-
spettiva della psicologia dei maggiori prota-
gonisti della conferenza, del loro linguaggio
corporale, dei loro tratti fisionomici, delle
personali tecniche di conduzione delle ri-
spettive strategie negoziali.
In effetti, una parte importante della noto-
rietà di Ecp fu sicuramente dovuta agli im-
pietosi e impareggiabili ritratti che Keynes
dedicò ai grandi potenti della terra: Woo-
drow Wilson, David Lloyd George e George
Clemenceau (il «G3»). Avendo avuto il pri-
vilegio di assistere personalmente alle riu-
nioni in cui i tre grandi decidevano tanta
parte del futuro del Vecchio Continente,
Keynes seppe smascherarne con efficacia
stilistica le meschinità e le ipocrisie, i cal-
coli politici e gli istinti vendicativi, gli atteg-
giamenti decadenti e le fragilità interiori. In
realtà, nella prima stesura di Ecp, la rabbia
di Keynes nei confronti del «G3» per il tra-
dimento dell’armistizio e per le condizioni
cartaginesi stabilite a Versailles, era emersa
con ancora maggior furore. Tuttavia, da en-
trambe le sponde dell’Atlantico, esponenti
di spicco della diplomazia internazionale e
del mondo accademico e finanziario erano
3 D. Garnett, Maynard Keynes as a Biographer, in M. Keynes (ed.), Essays on John Maynard Keynes, Cam-bridge, Cambridge University Press, 1975, p. 259.4 J.A. Schumpeter, John Maynard Keynes, 1883-1946, «American Economic Review», 1946, 4, pp. 495-518, poi ripubblicato anche in Epoche di storia delle dottrine e dei metodi. Dieci grandi economisti, Torino, Utet, 1971, pp. 416-445. La citazione è a p. 421.
166
intervenuti, con successo, per convincere
Keynes a mitigare i tratti più aspri della sua
penna e a non calpestare oltremodo l’im-
magine di colui che maggiormente aveva
attirato l’attenzione degli osservatori e su-
scitato le speranze dei popoli: il presidente
americano Woodrow Wilson.
Nella versione consegnata alle stampe re-
stava comunque intatto il messaggio fon-
damentale di Ecp: una terribile minaccia
incombeva sulla civiltà occidentale a con-
trastare la quale l’azione dei governi e dei
leader delle maggiori potenze mondiali
sembrava, per ragioni molteplici, tragica-
mente inadeguata.
Una visione nuova dell’economiaAlcuni studiosi hanno, anche recente-
mente, sottolineato come i ritratti del «G3»
costituiscano un precoce esempio di appli-
cazione dei concetti della razionalità limi-
tata e dell’euristica cognitiva alle decisioni
politiche e ai meccanismi con cui opera la
diplomazia internazionale5. E tuttavia, al di
là di questi ardui collegamenti a distanza
con alcuni successivi contributi forniti dalla
teoria economica per meglio comprendere
i comportamenti effettivi dell’uomo, o di
gruppi di uomini, in società, sono molti gli
elementi del libro che mantengono una loro
freschezza e consentono di capire meglio
gli sviluppi teorici successivi di Keynes e di
altri protagonisti del pensiero economico
del XX secolo. È soprattutto su questi ele-
menti che vorremmo soffermare la nostra
attenzione.
L’analisi di Keynes era fondata su tre as-
siomi che, a suo modo di vedere, erano
completamente sfuggiti ai rappresentanti
del «G3» e alla folta comitiva di esperti di
diritto, di finanza e di politica internazio-
nale che li assistevano: 1. che soltanto un
razionale processo di ricostruzione econo-
mica poteva rappresentare la base su cui
fondare un nuovo ordine politico interna-
zionale e costituiva la principale barriera
contro il disordine, la disintegrazione, l’in-
stabilità delle relazioni fra gli stati; 2. che
l’ordine economico internazionale del XIX
secolo, fondato sul libero commercio, sulla
stabilità dei cambi e su un sistema di equi-
librio fra Europa e Stati Uniti, apparteneva
ormai a un’età dell’oro che ben difficil-
mente avrebbe potuto essere restaurata; 3.
che in nessun modo questo modello doveva
essere preso come guida per il futuro, men-
tre qualsiasi speranza di progresso doveva
essere costruita sull’instaurarsi di nuovi le-
gami di fiducia e di cooperazione a livello
internazionale, sulla diffusione dell’istru-
zione delle masse, sulla ripresa della libertà
d’iniziativa.
Questi principi erano stati decisamente
calpestati nel corso della lunga primavera
parigina per essere sostituiti da un trattato
ingiusto e dannoso. Un trattato che aveva
attribuito un valore sacro all’immagine di
colpevolezza della Germania e delle sue
genti per molte generazioni a venire; che
aveva preferito la vendetta alla magnani-
mità, rompendo l’inviolabilità di un con-
tratto e riconoscendo per valide clausole
estranee ai principi del diritto internazio-
5 W.P. Bottom, Keynes’ Attack on the Versailles Treaty. A Study of the Consequences of Bounded Rationality, Framing, and Cognitive Illusions, «International/Negotiation, vol. 8, n. 2 (2003)».
167
nale. Ancor di più il trattato non aveva pro-
dotto evidenti vantaggi economici per i paesi
vincitori: aveva l’unico obiettivo di impove-
rire e deindustrializzare la Germania, ne-
gandole approvvigionamenti e prospettive
di crescita, senza rendersi conto che questo
intento, non solo avrebbe fomentato nuovi
risentimenti e nuovi conflitti, ma avrebbe
provocato l’impoverimento dell’intera Eu-
ropa e minacciato la sua stabilità.
La fine del «mondo di ieri»Dunque Ecp è, in primo luogo, un testo
cruciale per la visione del mondo che vi
si trova contenuta e che Keynes avrebbe
conservato intatta nei decenni successivi.
Con questo pamphlet, scritto di getto in po-
che settimane, si realizzò uno spostamento
radicale dal presupposto tardo ottocentesco
di un progresso economico automatico,
equilibrato, sorretto da istituzioni liberali,
fondato sui principi dell’integrazione inter-
nazionale, del rispetto dei contratti e della
corretta circolazione delle informazioni a
una visione del futuro in cui il benessere
avrebbe dovuto essere strenuamente con-
quistato e difeso palmo a palmo nelle cir-
costanze avverse create dalla guerra. Un
senso di minaccia pervade tutto il libro.
La guerra aveva definitivamente compro-
messo il delicato meccanismo economico
su cui poggiava l’Europa prima del 1914 e
il trattato ne aveva decretato la definitiva
distruzione.
Scrivendo Ecp, è stato notato6, Keynes si
candidò al ruolo di nuovo Machiavelli del
XX secolo, elaborando una visione sull’in-
stabilità del capitalismo e sull’imponente
estensione dei pubblici poteri necessari a
contrastarla, che gli terrà compagnia tutta la
vita. Terminata la sua stesura, Keynes aveva
maturato la convinzione che la fragilità del-
l’equilibrio postbellico non potesse essere
restaurata richiamandosi alla sacralità dei
principi su cui esso si fondava: il sistema
aureo, il libero commercio, l’equilibrio di
bilancio, la stabilità dei cambi rappresen-
tavano strumenti e obiettivi inadeguati al
nuovo stato del mondo. Occorrevano in-
vece nuove regole per riformare le relazioni
economiche internazionali che servissero
a favorire la ripresa degli investimenti e
l’assorbimento degli squilibri dei principali
indicatori macroeconomici. Occorreva una
radicale trasformazione degli obiettivi della
politica economica, che consentisse di dedi-
care maggiore attenzione ai problemi della
stabilità interna e alle misure di protezione
dagli shock esterni. Occorreva disegnare
nuovi modelli di cooperazione internazio-
nale che favorissero una attenuazione della
sovranità nazionale e un più incisivo uso
collettivo delle risorse. Occorreva, in ultima
analisi, abbandonare la visione nostalgica
del «mondo di ieri» e fare in modo che l’eco-
nomia, una nuova economia, strappasse il
predominio alla politica, dopo che quest’ul-
tima aveva clamorosamente fallito nel ga-
rantire qualsiasi prospettiva di stabilità, di
progresso e, quindi, di sicurezza e di pace.
Questa costruzione di una nuova visione
dello stato del mondo, insieme ad alcune
indicazioni di metodo che da essa discen-
devano, rappresentò uno fra i più rilevanti
6 Si veda il saggio introduttivo di Marcello De Cecco a J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983.
168
e duraturi contributi delle denunce e del-
l’invocazione di giustizia contenute in Ecp.
Tuttavia, vi sono altre implicazioni teoriche
interessanti che emergono dalla lettura del
libro. Occorre dire che molti economisti
contemporanei di Keynes, fra i quali nuo-
vamente Schumpeter, hanno minimizzato
il valore analitico di Ecp. La parte teorica
del libro era «delle più semplici e non ri-
chiedeva alcuna tecnica raffinata»7. Si tratta
naturalmente di valutazioni condivisibili
se non persino pletoriche, se si pensa alla
natura dell’opera e al pubblico cui era de-
stinata. Eppure in questo testo si trovano
analisi e spiegazioni innovative sul funzio-
namento dei sistemi economici, la cui im-
portanza sarebbe emersa ben presto nella
nuova congiuntura internazionale prodotta
dalla crisi del 1929 e dalla successiva ca-
tena di eventi.
Ne vorrei, brevemente, esaminare tre: il
problema del trasferimento; il ruolo dell’in-
certezza; l’analisi dell’inflazione.
Le riparazioni e il problema del loro trasferimentoCominciamo dalla prima: è noto che una
delle denunce più vibranti contenute in Ecp
riguarda la violazione dei termini dell’ar-
mistizio e il mancato rispetto del principio
della capacità di pagamento della Germa-
nia. L’ammontare delle riparazioni non era
collegato alle effettive capacità economiche
della Germania o al livello della sua poten-
ziale produzione, ma comprendeva pretese
assurde e voci discutibili che avrebbero
inevitabilmente richiesto un’estensione dei
pagamenti al di là della generazione che
era stata effettivamente responsabile del
conflitto. In questa categoria rientravano
sicuramente gli indennizzi per i sussidi alle
famiglie dei combattenti e le pensioni per
cause di morte in guerra.
Tuttavia, Keynes pose al centro della sua
analisi e della sua denuncia, non tanto
l’entità delle riparazioni in valore assoluto,
quanto il meccanismo tecnico con cui si sa-
rebbe potuto realizzare il loro trasferimento
da un paese all’altro. Egli dimostrò le no-
tevoli complicazioni per l’economia euro-
pea prodotte da una nazione che avrebbe
dovuto far fronte alle proprie obbligazioni
internazionali trovandosi sprovvista di oro
o di altre attività patrimoniali verso l’estero,
essendo stata depredata della flotta e di
tutte le proprietà possedute dai suoi citta-
dini in altri territori, e impoverita dei propri
approvvigionamenti di materie prime e di
prodotti strategici. Su queste basi, il paga-
mento delle riparazioni dipendeva esclu-
sivamente dall’esistenza di un saldo an-
nuale positivo della bilancia commerciale
e quindi dalla possibilità che la Germania
fosse stata in grado di intraprendere rapi-
damente il cammino verso la ripresa delle
attività produttive e, soprattutto, delle pro-
prie esportazioni.
Avrebbe potuto la Germania trasformare
il suo sistema produttivo e di consumi in
modo da generare un cospicuo avanzo di
esportazioni e di entrate valutarie tale da
ripagare negli anni i propri debiti? Avrebbe
potuto farlo senza produrre conseguenze
nefaste sui sistemi economici di altri paesi
e, segnatamente, dei vincitori? Sono queste
alcune domande che il libro pose all’atten-
7 J.A. Schumpeter, John Maynard Keynes, cit., p. 423.
169
zione degli studiosi di economia e più in ge-
nerale delle autorità di politica economica.
Keynes sottolineò l’esistenza di una diffi-
coltà aggiuntiva: nonostante la forza e le
punte di eccellenza produttiva conquistate
a cavallo dei due secoli, l’economia tede-
sca, come quella di tutti i paesi «centro»,
era ormai da decenni caratterizzata da un
disavanzo strutturale nella propria bilan-
cia commerciale. Questa condizione, da un
lato, le consentiva di alimentare la propria
sfera di influenza economica e politica con
i paesi che appartenevano alla propria «pe-
riferia», mentre dall’altro favoriva un in-
cremento del suo consumo interno grazie
al maggior reddito prodotto dagli investi-
menti esteri. Il problema del trasferimento
era dunque ulteriormente complicato: tra-
sformare un disavanzo strutturale in una
situazione di consistente avanzo in man-
canza di adeguate risorse umane, fisiche e
finanziarie avrebbe prodotto un cataclisma
sul sistema dei prezzi e dei redditi, da cui i
paesi vincitori non sarebbero restati esenti.
Qual era dunque il senso di pretendere che
la Germania pagasse un conto così salato?8
Fra le righe, nelle pagine finali, Keynes la-
scia chiaramente intendere come questa
problematica del trasferimento non fosse
soltanto un esercizio di technicalities su
cui aprire un confronto con altri esperti di
economia, ma avrebbe potuto produrre ter-
ribili conseguenze sullo scenario della geo-
politica del nuovo mondo. In una parola,
la sparizione della Germania dalla carta
dell’Europa centrale e la menomazione
del suo ruolo di paese centro in quella area
avrebbe presumibilmente aperto la strada
ad altre ambizioni provenienti dal fronte
orientale.
In ogni caso, di fronte a dimensioni delle
riparazioni fuori da ogni logica e di fronte
a un sistema di annualità così spalmato nel
tempo futuro, il transfer problem avrebbe
accentuato la tendenza allo squilibrio in-
ternazionale e contribuito alla destabiliz-
zazione dell’Europa intera, diffondendo i
germi della crisi attraverso il mercato dei
cambi, l’andamento delle ragioni di scam-
bio, gli inevitabili contraccolpi sulle bar-
riere tariffarie di nuova creazione. E pro-
blemi del genere si sarebbero ripresentati
tutte quelle volte in cui il debito estero di
un paese avesse raggiunto proporzioni
straordinariamente elevate rispetto all’an-
damento del suo commercio internazio-
nale o del prodotto interno. Ne conseguiva,
secondo Keynes, la necessità di rivedere
drasticamente le posizioni di credito e de-
bito internazionale che erano emerse dalla
guerra, favorendo un ritorno allo scambio
e all’integrazione che sarebbe stato vantag-
gioso per tutti:
se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non si farà attendere. Niente potrà allora ritar-dare a lungo quella guerra civile finale fra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel
8 L’ingente incremento delle esportazioni tedesche sarebbe potuto avvenire solo con la riduzione dei prezzi dei beni esportabili, producendo dunque un notevole peggioramento delle ragioni di scambio per la Germania e una ulteriore difficoltà a pagare i propri debiti. La deflazione interna e la forte contrazione delle importazioni non essenziali dai paesi vincitori avrebbero ulteriormente contribuito a diffondere la crisi economica negli altri paesi.
170
nulla, e che distruggerà, chiunque sia il vin-citore, la civiltà e il progresso della nostra ge-nerazione9.
Queste parole cadranno nel vuoto. Torne-
ranno a essere un valido monito quando,
a partire dal 1941, Keynes sarà impegnato
a costruire meccanismi di aggiustamento
degli squilibri su basi cooperative, simme-
triche e sostenibili in modo da evitare le dif-
ficoltà imposte dal transfer problem. In ogni
caso, anche in presenza di un nuovo ordine
economico internazionale, l’esistenza di un
transfer problem continuerà a minacciare
crisi e disordini in occasione dei grandi
shock esterni che colpiranno le economie
avanzate a seguito di variazioni improvvise
nei prezzi di materie prime strategiche o
nei tassi di cambio.
Rischio e incertezzaIl trattato rappresentava dunque una spada
di Damocle sulla stabilità finanziaria del-
l’Europa, prolungando irrimediabilmente
il periodo della ricostruzione e della ri-
presa. In mancanza di una sua revisione si
sarebbero avute notevoli difficoltà tecniche
nel convertire le riparazioni tedesche nelle
valute dei creditori, provocando sconvolgi-
menti a catena sul mercato dei cambi, dei
commerci e delle strutture produttive dei
paesi vincitori.
Tuttavia, così come esposto, il problema
del trasferimento delle riparazioni presup-
poneva l’esistenza di condizioni di partenza
stabilite con certezza dalle varie clausole
del trattato, a cominciare dall’ammontare
complessivo delle riparazioni e dalle mo-
dalità del loro pagamento. Al contrario,
molte di queste clausole erano state lasciate
colpevolmente indeterminate, producendo
conseguenze ancora più funeste sulle pro-
spettive dell’economia europea. Una fra le
più rilevanti era dunque rappresentata dal-
l’incredibile aumento nello stato generale
di incertezza che questo documento era
riuscito a produrre.
Ecp pose al centro dell’attenzione di un va-
sto pubblico di lettori la distinzione fra ri-
schio e incertezza che Keynes aveva matu-
rato nel corso della propria tesi di dottorato
sulla teoria delle probabilità. Per ripristinare
condizioni di normalità e di progresso, ben
diverse erano le implicazioni di un incre-
mento di situazioni di rischio economico
di impresa – cioè di un fenomeno oggettivo
e formalmente assicurabile – rispetto a un
peggioramento delle condizioni generali di
incertezza, il cui impatto sull’attività di in-
vestimento e di accumulazione del capitale
era del tutto imprevedibile. Ora, secondo
Keynes, il trattato aveva enormemente ac-
cresciuto i sentimenti soggettivi – sia del
singolo individuo che di intere collettività
– di confusione, di paura e di incertezza
sullo stato futuro del mondo.
Nella puntigliosa analisi delle clausole del
trattato, a cui Keynes dedicò uno spazio
rilevante anche se forse meno conosciuto
rispetto ad altre parti di Ecp, si trovano
molte dimostrazioni di come i tre grandi,
con i loro compromessi e le loro sofistica-
zioni giuridiche, avessero compiuto il ca-
polavoro di creare una pace in cui il clima
di incertezza era ben più fosco rispetto a
9 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 212.
171
quello prevalente negli anni della guerra.
La stessa frantumazione delle frontiere,
con la moltiplicazione dei segni monetari
e delle barriere tariffarie, avrebbe alimen-
tato la disgregazione e le potenzialità di
futuri conflitti, economici e non. Il trattato
era dunque riuscito nell’impresa di far tor-
nare nuovamente alla luce lo spettro mal-
thusiano, minacciando l’inizio di un’era di
ristagno secolare: l’irrefrenabile crescita
della popolazione insieme al timore di un
impoverimento generale avrebbe prodotto
nuovo caos e instabilità. La mancanza di fi-
ducia nelle prospettive future avrebbe for-
temente indebolito il valore classico della
parsimonia e la sua capacità di sostenere
effettivamente la ripresa degli investimenti
e dell’accumulazione del capitale. Ecco
dunque che emerge, sin da questo testo,
l’indicazione keynesiana che il compito
fondamentale della politica economica
debba essere soprattutto quello di ridurre
l’incertezza e gli eccessi di variabilità ne-
gli indicatori fondamentali, per i seri danni
che questi fenomeni provocano ai sistemi
economici, deprimendo lo spirito di intra-
presa, riducendo gli investimenti e la cre-
scita del reddito al di sotto del loro livello
ottimale.
Invitando il lettore a riflettere su questi temi,
la questione più eclatante, su cui Keynes
insistette a lungo, riguardava il «principio
di indeterminatezza» delle riparazioni che
era dovuto alla fertile mente creativa del
legal advisor di Wilson, John Foster Dul-
les. Dulles aveva elaborato il testo finale
di due fondamentali articoli, il 231 e il 232,
che, con molti equilibrismi, stabilivano: 1)
alla Germania dovevano essere imputati
i costi integrali della guerra; 2) la somma
iniziale dovuta era pari a venti miliardi di
marchi-oro; 3) che spettasse comunque
alla costituenda Commissione interalleata
per le riparazioni la determinazione della
somma finale. Si trattava, in definitiva, di
una open-end solution. Essa forniva al «G3»
un accettabile compromesso fra i punti di
vista contrastanti dei francesi che, con il
sostegno degli inglesi, richiedevano il mas-
simo, e degli americani che, avendo come
obiettivo un saldo più modesto, optavano
per una strategia del rinvio.
Keynes osservò lucidamente come questo
stato di indeterminatezza rappresentasse,
in assoluto, la soluzione peggiore per il fu-
turo dell’Europa:
c’è una grossa differenza fra fissare una
somma precisa, pur grande, che la Germania
abbia la capacità di pagare tenendo al tempo
stesso qualcosa per sé, e fissare una somma
molto superiore alle sue capacità, che poi può
essere ridotta a discrezione di una commis-
sione straniera, guidata dall’obiettivo di otte-
nere ogni anno il massimo consentito dalle
circostanze di quell’anno. La prima alterna-
tiva lascia alla Germania un qualche incen-
tivo all’iniziativa, all’energia e alla speranza.
La seconda la scortica viva anno per anno in
perpetuo, e per quanto abilmente e discreta-
mente sia condotta l’operazione, badando a
non uccidere il paziente sotto i ferri, rappre-
senta una politica che se fosse davvero con-
templata e deliberatamente attuata, sarebbe
condannata dal giudizio degli uomini come
uno degli atti più obbrobriosi di un crudele
vincitore nella storia del mondo civile10.
10 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., pp. 138-139.
172
Con l’approvazione di questi due articoli
l’ammontare del debito tedesco restava
indeterminato, ponendo anche gravi que-
stioni di equità intergenerazionale, e arri-
vando a coinvolgere generazioni future di
cittadini incolpevoli per gli atti commessi
dai loro avi.
Dunque, come Keynes avrebbe scritto qual-
che anno più tardi, una delle più rilevanti
conseguenze teoriche del trattato, consi-
steva nel far venir meno alcuni dei principi
fondamentali che gli economisti ottocen-
teschi avevano posto a base della crescita
e dell’efficienza, e che richiamavano l’im-
magine eloquente della mano invisibile,
delle armonie economiche, dell’equilibrio,
della parsimonia. Nel nuovo mondo che era
sorto sulle ceneri del trattato di Versailles,
la «mano invisibile» smithiana era divenuta
uno strumento obsoleto e una speranza il-
lusoria: si era trasformata in qualcosa di più
terreno e sinistro, ovvero «nel nostro piede
insanguinato con cui ci muoviamo attra-
verso il dolore e il lutto per raggiungere una
direzione incerta e non profittevole»11.
L’inflazione e i suoi effettiL’analisi degli scenari futuri dominati dal-
l’incertezza lo portò naturalmente a dedi-
care molto spazio a discutere gli effetti di-
struttivi dell’inflazione.
In Ecp, ha scritto Roy Harrod, Keynes lan-
ciò un monito severo, quasi profetico, sui
mali dell’inflazione. In effetti, ci pare che
nelle pagine finali siano ben presenti in
Keynes le responsabilità che gli studiosi
della nuova economia dovevano assumersi
per riabilitare il connubio politica-econo-
mia. Difatti, le tensioni inflazionistiche che
si sarebbero prodotte nel dopoguerra non
avrebbero mancato di generare sconquassi
politici di vaste dimensioni. Inventandosi
di sana pianta una citazione di Lenin, che
da quel momento sarebbe divenuta patri-
monio comune di politici ed economisti,
Keynes mise in guardia il mondo moderno
contro le degenerazioni sistemiche prodotte
dalle violente fluttuazioni nei prezzi:
Lenin ha detto, pare, che la via migliore per distruggere il sistema capitalistico è svilire la moneta. Mediante un continuo processo di inflazione, i governi possono confiscare, segretamente e inosservati, una grossa parte della ricchezza dei loro cittadini. Con questo metodo non solo confiscano, ma confiscano arbitrariamente [...] Lenin aveva certamente ragione. Non c’è mezzo più sottile, più sicuro, dello svilimento della moneta per abbattere le basi esistenti della società12.
Innumerevoli erano i mali indotti da un pro-
cesso inflazionistico incontrollato e Keynes
li passò rapidamente in rassegna alla fine
di Ecp, aprendo la strada a quelle riflessioni
sul ruolo e sulla natura di un’economia
monetaria al cui approfondimento avrebbe
11 J.M. Keynes, Sir Oswald Mosley’s Manifesto, in Id., The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. XX, London-New York, Macmillan-Cambridge University Press for the Royal Economic Society, 1981, p. 474. 12 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., pp. 187-188. Il corsivo è nel testo originale. Moggridge attribuisce il pensiero di Lenin alla fertile mente inventiva di Keynes, anche se è probabile che questa notazione sia tratta da E.A. Preobraženskij che, insieme a N. Bucharin, pubblicò nel 1919 un’ope-retta divulgativa, ABC del Comunismo, Roma, Del Bosco Edizioni, 1973. Ringrazio su questo punto Luigi Cavallaro.
173
dedicato i decenni più fecondi della sua atti-
vità scientifica: l’inflazione genera squilibri
fra creditori e debitori; alimenta manovre
speculative per acquisire extraprofitti; sco-
raggia la formazione di risparmio e distorce
i valori reali dei beni capitali; indebolisce
la posizione sociale degli imprenditori, cioè
dei soggetti economici da cui dipende in ul-
tima analisi il progresso economico; incrina
la fiducia dei cittadini nella loro moneta;
trasferisce indebitamente ricchezza dal
privato al pubblico e stimola la creatività
fiscale dei governanti. Come Keynes dirà
meglio in seguito, il progresso economico
e l’attività produttiva non potevano realiz-
zarsi in condizioni di instabilità monetaria,
di incertezza e di ignoranza ma, in presenza
di inflazione, assumevano i contorni di una
vera e propria lotteria.
L’instabilità monetaria generava una nuova
classe sociale, i profiteers, su cui i governi
cercarono di alimentare un’indignata rea-
zione dell’opinione pubblica, non sapendo
che in questo modo si sarebbero compiuti
passi da gigante nel processo di collasso del
sistema capitalistico indicato da Lenin: «di-
rigendo l’odio contro questa classe, perciò, i
governi europei portano un passo avanti il
fatale processo consapevolmente concepito
dalla mente sagace di Lenin. I profittatori
sono una conseguenza, non una causa del-
l’aumento dei prezzi»13.
In conclusione, tre domandeChe cosa resta oggi di Ecp? Abbastanza
poco, almeno secondo una corrente piutto-
sto nutrita di storici contemporanei che, a
partire dagli anni Settanta, ha ridimensio-
nato la mitologia delle riparazioni anche
sulla base di un’estesa mole di fonti archi-
vistiche14. I calcoli di Keynes erano sbagliati
e approssimativi; fuorvianti le proiezioni
sull’effettivo impoverimento dell’economia
tedesca, che in termini di risorse umane e
materiali aveva subito danni assai inferiori
rispetto ai paesi vincitori; altrettanto discu-
tibili erano le previsioni sugli effetti prodotti
dal trasferimento delle riparazioni che po-
nevano troppa enfasi sulla ripresa del com-
mercio estero e delle esportazioni piuttosto
che su un incremento della pressione fiscale
o dei prestiti internazionali. Accusare poi il
«G3» di violazione del diritto internazionale
era operazione altrettanto controversa in
quanto il contratto sottoscritto dai vincitori
al momento dell’armistizio non era vinco-
lante, mentre Keynes, stranamente, aveva
accuratamente evitato di pronunciarsi sul
problema cruciale della sicurezza fran-
cese. Infine, non sarebbe stato impossibile
per la Germania ripagare le riparazioni e
il trattato rappresentò, anche grazie agli
articoli proposti da Wilson, uno strumento
flessibile che agevolò la significativa ri-
presa dell’economia europea dopo il 1924.
In definitiva, con la sua enfasi sulla puni-
zione e sulla pace cartaginese, il libro aveva
colpevolmente alimentato la propaganda
filotedesca – di cui Keynes stesso era una
probabile vittima – non mostrando alcuna
indulgenza nei confronti della logica e delle
ragioni politiche e finanziarie dei francesi.
13 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 188.14 Si vedano i numerosi saggi contenuti nel volume M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.), The Treaty of Versailles. A Reassessment after 75 years, Cambridge, Cambridge University Press, 1998.
174
Non è questa l’occasione per intervenire su
questo tipo di critiche rivolte a Ecp. Tutta-
via, mi pare che nessuna di esse abbia in
qualche modo sminuito il peso attribuito
da Keynes all’indeterminazione delle ripa-
razioni e ai problemi di equità intergenera-
zionale che esse avrebbero inevitabilmente
provocato.
È possibile sostenere che Ecp riuscì a in-
fluenzare il corso degli eventi? Anche in
questo caso la risposta è negativa. Nella
sostanza, Ecp seguì il destino di tutti gli
scritti e di tutte le iniziative pubbliche e po-
litiche di Keynes, almeno fino alla seconda
guerra mondiale e agli accordi di Bretton
Woods: la sua «fortuna» non derivò tanto
dall’impatto immediato delle sue specifi-
che raccomandazioni, ma dall’influenza
che esse ebbero sul dibattito intellettuale
e pubblicistico e dalla sorprendente capa-
cità di cogliere la tendenza, se non proprio
l’entità, degli avvenimenti futuri. In effetti,
tutte le principali e più originali proposte di
Keynes non ricevettero grande attenzione
nel corso delle numerose conferenze che
seguirono alla firma del trattato e al suo
processo di revisione. Esse riguardavano la
cancellazione dei debiti interalleati, l’aboli-
zione della Commissione per le riparazioni,
l’attribuzione di maggiori poteri alla Società
delle Nazioni, la richiesta di ridefinire con
precisione e in limiti temporali accettabili le
somme da far pagare alla Germania, la ne-
cessità di coltivare strette relazioni econo-
miche con la Russia e di reintegrare al più
presto la Germania nel contesto europeo.
Ben diverso fu invece il destino delle pre-
visioni contenute in questo testo. Da quelle
più apocalittiche, che annunciavano tempi
brevi per il crollo della civiltà europea e dei
suoi antichi splendori; a quelle più tecni-
che e finanziarie, con cui Keynes anticipò
correttamente che, nel giro di pochi anni,
nessuno dei tributi o delle clausole imposte
a Versailles sarebbe sopravvissuto15.
E, infine, quali sono gli insegnamenti che
restano e rendono ancora utile la sua let-
tura?
Ecp rappresentò un grido di rivolta del-
l’economia nei confronti della politica. La
nazione, la patria, la retorica militarista, la
conquista di nuovi confini rappresentavano
falsi idoli ed era indispensabile che chi de-
teneva le leve del potere li riconvertisse
rapidamente verso i traguardi della ripresa
del progresso economico, della stabilità
finanziaria, della rinascita di uno stato so-
ciale. Da fedele suddito di Sua Maestà, Key-
nes mandò un messaggio che voleva toc-
care le corde profonde di una nazione che
aveva dato i natali a Richard Cobden e a
John Stuart Mill: «quale ben diverso futuro
l’Europa avrebbe potuto sperare se Lloyd
George o Wilson avessero capito che i pro-
blemi più gravi reclamanti la loro atten-
zione non erano politici o territoriali ma fi-
nanziari ed economici»16. Cominciò dunque
ad affermarsi con Ecp l’idea che gli uomini
che erano stati chiamati a guidare le sorti
di un paese dovessero prevalentemente
occuparsi dei meccanismi per favorire la
crescita del reddito e dei sistemi sociali in
modo da difendere il benessere collettivo e
individuare i possibili punti di contatto fra
15 Si veda, in proposito, il recente G. Dostaler, Keynes and His Battles, Cheltenham, Elgar, 2007.16 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 123.
175
la sfera della produzione e la sfera della di-
stribuzione del reddito. Saranno idee a cui
Keynes dedicherà tutte le sue energie in-
tellettuali negli anni fra le due guerre ma
che acquisteranno un posto al sole soltanto
dopo il 1945. Basterà tuttavia ricordare che,
già negli anni Venti, personalità come Ezra
Pound e T.S. Eliot riconobbero la grandezza
di Keynes per aver alimentato nuovi inte-
ressi per l’economia, il funzionamento dei
sistemi monetari, i meccanismi di interdi-
pendenza commerciale e finanziaria dei
paesi, le relazioni fra progresso economico
e sicurezza.
Infine, al di là delle illuminanti considera-
zioni su inflazione e incertezza, Ecp rap-
presenta ancora un modello esemplare
su come si scrive un libro di economia.
In quell’occasione, l’economista dotato di
grandi competenze tecniche in materia di
cambi e di sistemi monetari si fuse mirabil-
mente con l’educatore dell’opinione pub-
blica, lo scienziato politico, il letterato. Con
esso si tratteggiò un prototipo ideale di eco-
nomista che, alla luce anche dei successi
professionali ottenuti in tempo di guerra,
affermava la propria capacità di svolgere
un’importante funzione sociale. Dopo la
fine dell’età dell’oro, la ricerca teorica fine
a se stessa, che aveva in larga parte domi-
nato gli sviluppi dottrinari dei precedenti
cinquanta anni, avrebbe dovuto essere ac-
cantonata: il nuovo economista doveva es-
sere in grado di miscelare sapientemente i
dati formali dei problemi e la logica della
loro rappresentazione con l’arte della reto-
rica, la conoscenza della storia e delle rela-
zioni fra popoli, l’introspezione psicologica
che gettava nuova luce sui meccanismi dei
processi decisionali. Il vero cultore di studi
economici, scriverà Keynes di lì a poco, do-
veva essere colui che possedeva una
rara combinazione di doti [...] e combinare capacità che non si trovano spesso assieme. Deve essere in certo modo matematico, sto-rico, statista, filosofo; maneggiare simboli e parlare in vocaboli; vedere il particolare nella luce del generale, toccare astratto e concreto con lo stesso colpo d’ala del pensiero. Deve studiare il presente alla luce del passato e in vista dell’avvenire. Non c’è parte della natura o degli istituti umani che possa sfuggire al suo sguardo. Dev’essere, contemporaneamente, interessato e disinteressato: distaccato e in-corruttibile come l’artista, e tuttavia, a volte, vicino alla terra come l’uomo politico17.
Sono parole appassionate che Keynes aveva
scritto nel 1924 dedicandole alla memoria
del maestro, Alfred Marshall, ma che po-
trebbero essere applicate alla sua persona
e alla trasformazione che fu avviata con la
stesura di Ecp.
Questo modello, anche letterario, sarebbe
progressivamente andato perduto nel corso
dei successivi decenni: non molti protago-
nisti nella storia delle idee economiche
riusciranno a eguagliare questo ideal-tipo
di economista e assai pochi sapranno pro-
durre opere semplici e allo stesso tempo
complete, realiste e analiticamente fondate
come Ecp. Tuttavia, con quest’opera avrà
inizio il percorso che porterà Keynes a
mettere da parte i vecchi strumenti del me-
17 J.M. Keynes, Essays in Biography (1933), ristampato in Id., The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. X, London, Macmillan, 1971, pp. 173-174.
176
stiere per cercare di costruirne dei nuovi e
soprattutto per realizzare quegli obiettivi di
benessere sociale e di stabilità economica
che, rimasti a lungo assenti dalle riflessioni
dei suoi predecessori, sono diventati il pane
quotidiano per gli economisti di oggi.
William R. Keylor
Il libro del secolo (e oltre): la prolungata influenza di Le conseguenze economiche della
pace di John Maynard Keynes
Quando John Maynard Keynes si dimise
disgustato dalla delegazione britannica
alla conferenza di pace di Parigi del 1919
per protestare contro il trattato di pace che
essa aveva prodotto e che egli giudicava
disastroso, si precipitò a dare alle stampe
un libro scritto impetuosamente, che spe-
rava potesse orientare l’opinione pubblica
contro quella che egli definì ironicamente
la «pace cartaginese»1. Se si fosse riusciti a
mettere prontamente in guardia le élite po-
litiche ed il grande pubblico contro i cata-
strofici difetti del trattato di pace del 1919, i
danni fatti dai negoziatori a Parigi si sareb-
bero potuti neutralizzare. L’Europa e gran
parte del mondo avrebbe quindi potuto ri-
prendersi dai devastanti effetti economici
della Grande guerra e dal difettoso accordo
di pace che aveva posto termine ad essa.
In questa campagna personale contro il
trattato di Versailles Keynes riscosse un
successo che andava molto al di là delle sue
aspettative. Subito dopo la sua apparizione
nel dicembre 1919, il libro venne citato dai
senatori americani che avrebbero presto
rifiutato la ratifica legislativa dell’accordo
di pace che il presidente Woodrow Wilson
aveva portato a casa da Parigi2. Al momento
in cui il Senato, il 19 marzo 1920, espresse il
suo voto definitivo che respingeva il trattato
di Versailles, negli Stati Uniti erano state
vendute quasi settantamila copie del libro3.
Nel giro di pochi anni sarebbe stato tradotto
in undici lingue.
Nel decennio successivo il libro continuò
ad influenzare il pensiero dei leader poli-
tici, soprattutto negli Stati Uniti ed in Gran
Bretagna. L’insoddisfazione per l’accordo
di pace faceva passi da gigante, spingendo i
funzionari di entrambi i paesi a richiedere
ed ottenere alcune radicali revisioni delle
clausole finanziarie del trattato di Versail-
1 L’ampiezza della sua delusione per l’accordo di pace si riflette abbondantemente nella sua lettera di di-missioni al primo ministro britannico David Lloyd George: «Devo informarla che sabato dormirò lontano dalla scena di questo incubo. Non posso fare più nulla di buono qui. Ho continuato a sperare, anche in queste ultime terribili settimane, che lei trovasse qualche modo per rendere il trattato un documento giusto ed utile. Ma ormai sembra troppo tardi. La battaglia è persa», cfr. John Maynard Keynes a David Lloyd George, 5 giugno 1919, House of Lords Record Office, The Papers of David Lloyd George, F/7/2/32.2 «New York Times», 19 febbraio 1920.3 R. Skidelsky, John Maynard Keynes. vol. 1. Speranze tradite, 1883-1920, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 [London, 1983], pp. 381, 456.
177
les. L’ammontare dell’obbligo di ripara-
zione della Germania verso gli Alleati euro-
pei vincitori – che avevano suscitato le pro-
teste più fragorose da parte di Keynes nel
suo libro – fu sistematicamente ridotto nel
corso di quel decennio. Al 1931, quando fu
accettato da tutte le parti in causa l’Hoover
Moratorium, che proponeva la sospensione
di un anno dei pagamenti del debito inter-
governativo, la Germania aveva cessato
completamente di pagare le riparazioni e
non avrebbe più ricominciato.
L’ammontare totale dei pagamenti ese-
guiti dalla repubblica di Weimar tra il 1919
ed il 1931 era inferiore a ventitre miliardi
di marchi-oro. Tale somma era ben lon-
tana dalle cifre stratosferiche discusse alla
conferenza di pace ed inferiore a quello
che Keynes suggeriva nel suo libro come
limite massimo della capacità di paga-
mento della Germania4. Inoltre, come ha
mostrato Stephen Schuker, dopo che la
Germania venne meno ai suoi debiti com-
merciali verso l’estero (soprattutto verso le
banche americane) durante la Grande de-
pressione, finì per non pagare neanche le
riparazioni nette. Gli investitori americani,
in realtà, avevano finanziato i pagamenti
delle riparazioni così come gran parte
della spesa interna cui si abbandonò la
repubblica di Weimar nella seconda metà
degli anni Venti5.
Dopo che, negli ultimi anni della repub-
blica di Weimar, venne abbandonata la
parte del trattato di Versailles relativa alle
riparazioni, le clausole territoriali e quelle
relative al disarmo furono progressiva-
mente demolite durante il periodo nazista
in conseguenza delle minacce diplomatiche
tedesche e dell’arrendevolezza degli alleati.
Una delle principali motivazioni che sta-
vano dietro alla politica di appeasement era
la convinzione che l’accordo di pace fosse
stato eccessivamente duro nei confronti
della Germania sconfitta. Questo senso di
colpa per il trattato di Versailles suscitò,
soprattutto in Gran Bretagna, la convin-
zione che, se legittime lamentele della Ger-
mania potessero essere risolte attraverso
le reciproche concessioni della trattativa
diplomatica, l’Europa avrebbe allontanato
l’orrore di un’altra guerra distruttiva. La
lucida e suggestiva denuncia keynesiana
della parte economica degli accordi di
pace aprì la strada a quegli opinionisti ed
a quei politici che – soprattutto nel mondo
di lingua inglese – erano desiderosi di ri-
vedere le clausole territoriali e di disarmo
del trattato di Versailles per facilitare l’ac-
cettazione, da parte della Germania, del-
l’assetto postbellico dell’Europa. Sebbene
la critica di Keynes a Versailles fosse limi-
tata agli aspetti economici del trattato, essa
contribuì all’idea diffusa in Gran Bretagna
(e, entro certi limiti, negli Stati Uniti) che
l’accordo del 1919 non meritasse di essere
mantenuto e che, sicuramente, non valesse
un’altra guerra europea6.
4 S. Marks, Reparations Reconsidered: A Reminder, «Central European History», 1969, 2, pp. 356-365; J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007 [London, 1919], pp. 207-208.5 S.A. Schuker, American «Reparations» to Germany, 1919-1933, Princeton, Princeton University Press, 1988.6 Sull’impazienza dell’amministrazione Roosevelt di rivedere gli accordi di pace cfr. A.A. Offner, American Appeasement. American Foreign Policy and Germany, 1933-1938, Cambridge (Ma), Harvard University
178
Una lunga e contraddittoria fortunaL’impatto del libro di Keynes non si esaurì
però con la seconda guerra mondiale. Le
nuove edizioni che continuarono ad essere
pubblicate contribuirono ad influenzare i
giudizi sull’accordo di pace del 1919 anche
della generazione successiva al secondo
conflitto mondiale. Dopo il 1945 gli stu-
diosi si affannarono a rispondere ad uno
scomodo interrogativo: come ha potuto la
patria di Schiller, Beethoven, Goethe spro-
fondare nella barbarie del Terzo Reich?
Come ha potuto il continente che ha tra-
smesso al mondo le tradizioni umanisti-
che del Rinascimento e dell’Illuminismo
permettere un’aggressione ed uno sfrutta-
mento così scoperti? Uno dei modi possibili
per spiegare l’epoca più tragica nella storia
del continente fu attribuirne la responsabi-
lità all’accordo di pace che Keynes aveva
screditato in modo così argomentato alla
fine dell’ultima guerra. Questa analisi re-
trospettiva conduceva ad un’implicita affer-
mazione controfattuale, che contribuì a pla-
smare la storiografia sul trattato di pace per
molti anni a venire: se solo gli Alleati vinci-
tori, nel 1919, avessero dominato le loro an-
guste e provinciali ambizioni nazionali per
costruire una pace di riconciliazione con la
Germania sconfitta – proprio il genere di
pace che Keynes aveva caldeggiato in Le
conseguenze economiche della pace – gli or-
rori del recente passato si sarebbero potuti
evitare. Un biografo di Keynes lo ha detto
apertamente: «Se il programma di Keynes
del 1919 fosse stato attuato è improbabile
che Hitler sarebbe diventato cancelliere te-
desco»7. Se il trattato di Versailles rappre-
sentò – come recita il titolo di un libro pub-
blicato negli anni Sessanta – «il semenzaio
della seconda guerra mondiale»8, quanto
fu tragico allora che i leader mondiali non
ascoltassero i terribili ammonimenti di
questa chiaroveggente Cassandra e non
ponessero rimedio ai danni di Versailles
prima che fosse troppo tardi!
Keynes non era solo nella sua rumorosa
denuncia del trattato di Versailles in quanto
iniquo ed impraticabile. Altri membri de-
lusi delle delegazioni americana e britan-
nica alla conferenza di pace seguirono le
orme dello specialista del Tesoro britan-
nico con loro proprie geremiadi. Il gior-
nalista Ray Stannard Baker, che era stato
l’addetto stampa di Woodrow Wilson alla
conferenza di pace, pubblicò nei primi anni
Venti un’opera in due volumi che elogiava
a profusione il presidente americano per la
sua eroica battaglia per una pace di riconci-
liazione contro le trame ciniche degli avidi
e vendicativi statisti Alleati9. Nello stesso
anno in cui Hitler saliva al potere, Harold
Nicolson, un altro membro disilluso della
delegazione britannica a Parigi, riprese
molte delle critiche di Keynes ai difettosi
metodi della conferenza di pace. Come
Keynes e Baker, egli criticava aspramente
gli statisti europei per aver abbandonato il
nobile progetto di una pace moderata che
Press, 1969. Si veda, inoltre, il giudizio provocatorio di A. Lentin, Lloyd George, Woodrow Wilson and the Guilt of Germany. An Essay in the Pre-history of Appeasement, Leicester, Leicester University Press, 1984.7 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, cit., p. 473.8 R.J. Schmidt, Versailles and the Ruhr: Seedbed of World War II, Den Haag, Nijhoff, 1968.9 R.S. Baker, Woodrow Wilson and the World Settlement, Garden City, Doubleday, 1922-23.
179
il presidente Woodrow Wilson si era sfor-
zato inutilmente di inserire nel trattato10.
Quantunque molti partecipanti alla confe-
renza si precipitassero a stampare libri per
difendere il proprio operato contro i pesanti
attacchi di Keynes, non riuscirono ad avere
un grande effetto sull’opinione pubblica
né sulla storiografia relativa all’accordo di
pace11. «Delle dozzine di analisi del trattato
pubblicate negli anni Venti – ha giusta-
mente osservato Skidelsky – è questa l’unica
che non sia sparita senza lasciare traccia»12.
Il primo efficace attacco all’interpretazione
del trattato di pace del 1919 di Keynes uscì
dalla penna di un francese. Étienne Man-
toux, il figlio dell’interprete dei Quattro
Grandi alla conferenza di pace di Parigi
che fu ucciso in servizio attivo per le For-
ces françaises libres alla fine della seconda
guerra mondiale, scrisse un libro che fu
pubblicato postumo con il titolo provo-
catorio di La paix calomniée ou les con-
séquences économiques de M. Keynes 13. Ap-
profittando dei vantaggi del senno del poi,
Mantoux confutava le terribili previsioni di
Keynes sulle spaventose conseguenze del-
l’accordo sulle riparazioni per la Germa-
nia esaminando le statistiche commerciali
e finanziarie relative all’economia tedesca
durante il periodo di pagamento delle ripa-
razioni stesse. Egli dimostrò che la previ-
sione dell’economista britannico secondo
cui l’industria del carbone e dell’acciaio
tedesca sarebbe stata menomata dall’ob-
bligo delle riparazioni era eccessivamente
pessimista. Infatti, la produzione tedesca di
carbone e di acciaio si era ripresa consi-
derevolmente negli ultimi anni Venti. Egli
confutò l’affermazione di Keynes secondo
cui le obbligazioni delle riparazioni avreb-
bero distrutto il tasso di risparmio tedesco
mostrando che in Germania l’incremento
mensile dei depositi delle casse di rispar-
mio al 1928 era cresciuto di quasi due volte
e mezzo rispetto ai dati del 1913. L’argo-
mento più efficace di Mantoux contro le
disastrose previsioni di Keynes sulla mise-
ria tedesca fu il fenomenale primato della
spesa tedesca per la difesa sotto il regime
nazista, che superava di gran lunga la cifra
che Keynes sosteneva la Germania potesse
permettersi per pagare le riparazioni14.
Tuttavia, per quanto risultasse accurato
nella ricerca e ben argomentato, il libro
di Mantoux ebbe una scarsa influenza sul
giudizio del grande pubblico o sulla ricerca
storica. Il verdetto su Versailles che Key-
nes aveva formulato pochi mesi dopo che il
trattato era stato firmato era sopravvissuto
in gran parte integro.
L’apertura degli archivi e la nuova storiografiaLa situazione cominciò a cambiare negli
anni Settanta, quando una nuova genera-
zione di ricercatori ottenne ciò di cui né
10 H. Nicolson, Peacemaking, 1919, London, Constable, 1933.11 B. Baruch, The Making of the Reparation and Economic Sections of the Treaty, New York-London, Harper, 1920; A. Tardieu, La paix, Paris, Payot, 1921; D. Lloyd George, The Truth about the Peace Treaties, London, Gollancz, 1938, 2 voll.; G. Clemenceau, Grandeurs et misères d’une victoire, Paris, Plon, 1930. 12 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, cit., p. 473.13 Paris, Gallimard, 1946. Si fa qui riferimento alla traduzione inglese dal titolo The Carthaginian Peace, or The Economic Consequences of Mr. Keynes, Oxford, Oxford University Press, 1946.14 Ivi, in particolare pp. 163 ss.
180
Keynes né Mantoux avevano potuto gio-
varsi: l’accesso agli archivi britannici e
francesi, che furono aperti, rispettivamente,
negli anni Sessanta e Settanta. Tale accesso
risultò importante per un aspetto cruciale
delle trattative alla conferenza di pace del
1919 che Keynes ed altri critici del trattato
di Versailles avevano trascurato: il divario
tra le dichiarazioni pubbliche dei leader al-
leati e le loro effettive posizioni negoziali in
privato. Gli statisti europei che elaborarono
il trattato con la Germania dipendevano dal
sostegno delle opinioni pubbliche e dei par-
lamenti dei loro paesi, i quali chiedevano
a gran voce una severa resa dei conti con
la Germania che avrebbe ricompensato i
vincitori per quattro anni di sofferenza e sa-
crificio. I leader alleati erano quindi portati
ad assumere posizioni esigenti ed intran-
sigenti nelle sessioni plenarie della confe-
renza, per evitare di essere rovesciati dai
loro parlamenti in eccitazione. Keynes non
ebbe accesso al santuario segreto dei Quat-
tro Grandi nell’appartamento parigino del
presidente Wilson, eccetto una breve appa-
rizione per discutere la capacità della Ger-
mania di pagare le riparazioni. Né egli fu
presente agli importanti scambi nelle com-
missioni specializzate ed a quelli tra singoli
in cui veniva discussa la questione delle ri-
parazioni. Egli dunque non si accorse che
l’insensibile retorica che si concedevano
i leader alleati mascherava quello che le
ricerche successive scoprirono essere un
approccio alla questione di gran lunga più
moderato, pragmatico e conciliatorio nelle
loro condotte private. Pubblicamente essi
chiedevano che la Germania fosse punita
severamente per le sue violazioni e che
le si facesse pagare tutta la sofferenza che
i suoi eserciti avevano causato. In privato
riconoscevano che la potenza sconfitta
era incapace di rialzarsi e di trasferire alle
sue vittime del tempo di guerra le enormi
somme che sarebbero state necessarie per
soddisfare le eccessive aspettative dei citta-
dini delle nazioni Alleate.
Questo spirito di moderazione era partico-
larmente autentico per la delegazione fran-
cese alla conferenza di pace, quella cioè che
Keynes considerava la principale responsa-
bile per quelle che denunciava come le non
realistiche richieste contenute nelle clausole
di riparazione del trattato di pace. Nessuno
dei plenipotenziari era più riservato del set-
tantottenne primo ministro francese Geor-
ges Clemenceau. Egli si rifiutò di rivelare
ai due rami del governo, al presidente della
repubblica e al parlamento, la sua posizione
ai negoziati perché essi stavano chiedendo
molto di più di quanto egli sapeva di poter
fornire. Egli invece si confidò quasi esclusi-
vamente con due fidati collaboratori, André
Tardieu (per i problemi della sicurezza) e
Louis Loucheur (sulle questioni finanziarie).
Nessuna di queste due autorevoli figure au-
torizzò l’accesso ai propri documenti privati
fino a molti decenni dopo. Analogamente,
l’unico resoconto completo dei riservatis-
simi incontri nell’appartamento parigino del
presidente Wilson non fu pubblicato prima
di trentasei anni dopo l’evento15. Keynes non
15 P. Mantoux, Les Délibérations du Conseil des Quatre, 24 mars-28 juin 1919, Paris, Cnrs, 1955. Le carte Tar-dieu sono conservate a Parigi, presso gli Archives du ministère des Affaires étrangères; le carte Loucheur alla Stanford University, presso la Hoover Institution of War, Revolution, and Peace.
181
era quindi al corrente degli sforzi segreti
della delegazione francese per realizzare un
accordo moderato sulle riparazioni con la
Germania, proprio mentre essa formulava
richieste pubbliche esorbitanti per fini di po-
litica interna.
Lo storico Marc Trachtenberg, che esaminò
attentamente le carte private e i documenti
ufficiali relativi alle riparazioni, concluse
che la delegazione francese aveva insi-
stito privatamente per una somma relati-
vamente moderata e fissa per la lista delle
riparazioni. In questo tentativo di realizzare
un accordo praticabile, Clemenceau ed il
suo delegato Loucheur ricevettero il rifiuto
del primo ministro britannico David Lloyd
George, che riuscì ad aggiungere la voce
delle pensioni nella sezione del trattato re-
lativa alle riparazioni al fine di ottenere una
maggiore quota di pagamenti tedeschi per
il suo paese (che subì una quantità di danni
materiali da risarcire molto ridotta ma
contrasse una straordinaria obbligazione
finanziaria verso i veterani invalidi, le ve-
dove e gli orfani)16. Trachtenberg ha anche
messo in luce uno sviluppo che era sfuggito
del tutto a Keynes: la sincera speranza, nu-
trita dai funzionari francesi, che la Francia
e la Germania, dopo la guerra, avrebbero
potuto raggiungere un’intesa economica
reciprocamente vantaggiosa. Contatti in-
formali tra funzionari tedeschi e francesi
erano stati avviati durante la conferenza di
pace. Dopo la firma del trattato, Loucheur
ed il funzionario del ministero degli Esteri
francese Jacques Seydoux fecero sforzi de-
cisi per elaborare un accordo finanziario
attraverso negoziati bilaterali con i rappre-
sentanti tedeschi17.
In breve, questa documentazione d’archivio
ha rivelato che i funzionari francesi, dopo
la Grande guerra, riconobbero che il loro
paese mancava degli strumenti militari ed
economici per distruggere la Germania o
anche per evitare che essa riacquistasse il
suo status di grande potenza. Essi speravano
invece di utilizzare il vantaggio temporaneo
che avevano acquisito attraverso le clausole
del trattato di Versailles per ridurre la pre-
cedente supremazia economica del nemico
sulla Francia, lavorando intanto ad un’intesa
economica franco-tedesca sul continente.
Mentre essi cercavano invano sicurezza e
protezione dalla Gran Bretagna e dagli Stati
Uniti nel corso degli anni Venti, esploravano
simultaneamente la possibilità di riconci-
liarsi con l’ex nemico, prima con gli accordi
di Locarno del 1925 e poi con il piano Briand
per una Unione europea nel 193018.
La caricatura della Francia tracciata da
Keynes in Le conseguenze economiche della
pace come di una potenza avida, prepo-
tente, che sventra la Germania con il peso
schiacciante delle riparazioni è stata quindi
messa in discussione da monografie pro-
dotte da questa scuola revisionista e basate
16 Cfr. M. Trachtenberg, Reparation at the Paris Peace Conference, «Journal of Modern History», 1979, 1, pp. 24-55, in particolare pp. 40-41; Id., Reparation in World Politics. France and European Economic Diplomacy, 1916-1923, New York, Columbia University Press, 1980, in particolare il secondo capitolo.17 Cfr. G.-H. Soutou, The French Peacemakers and Their Home Front, in M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.) The Treaty of Versailles: A Reassessment after 75 Years, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 179-181; M. Trachtenberg, Reparation in World Politics, cit., pp. 86-87, 110-121, 158-191.18 M. Trachtenberg, Versailles Revisited, «Security Studies», 2000, 4, pp. 191-205.
182
su documentazione d’archivio. Le loro con-
clusioni sono confluite successivamente in
due studi generali sull’argomento: quello di
M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser,
che raccoglie alcuni contributi che attac-
cano direttamente l’interpretazione key-
nesiana19, e quello di Margaret Macmillan,
che fonde i risultati della ricerca d’archivio
e le interpretazioni revisionistiche che ne
sono derivate in uno stile brillante grazie
al quale ha raggiunto un vasto pubblico20.
Mentre il XX secolo volgeva al termine ap-
pariva evidente che l’autorità quasi incon-
trastata dell’atto d’accusa di Keynes contro
l’accordo di pace del 1919 ed i successivi
giudizi secondo cui il trattato di Versailles
era responsabile di tutti i mali che afflissero
il mondo tra il 1933 ed il 1945 erano stati
finalmente rovesciati.
Skidelsky ha definito Le conseguenze econo-
miche della pace «uno dei libri più impor-
tanti del ventesimo secolo»21. Come però si
è rivelato, egli è stato fin troppo cauto nel
suo giudizio. Nonostante le confutazioni
della scuola antikeynesiana, l’influenza
del libro si è estesa anche al nostro secolo.
Una valutazione neokeynesiana del trattato
di Versailles è riaffiorata recentemente in
due studi molto ben accolti sulla pace e le
sue conseguenze. David Andelman ha giu-
dicato il trattato di Versailles responsabile
non solo della seconda guerra mondiale,
ma anche della guerra fredda, della guerra
del Vietnam, come pure dei recenti conflitti
nei Balcani e nel Medio Oriente22. Patrick
O. Cohrs ha elogiato i funzionari britan-
nici ed americani degli anni Venti per aver
tentato di smantellare la «pace incompiuta
del 1919» attraverso i piani Dawes e Young,
che riducevano l’insostenibile peso delle
riparazioni che erano state imposte alla
Germania nel 191923. La recente ri-tradu-
zione italiana di Le conseguenze economiche
della pace, seguita dalla decisione di questa
prestigiosa rivista di ospitare un forum per
discutere le sue ripercussioni di lunga du-
rata, dimostrano chiaramente che questo
notevole libro continua a provocare vivaci
discussioni e dibattiti ottanta anni dopo che
il giovane economista britannico, irritato,
abbandonò Parigi per prendere la penna in
mano e lanciare la sua crociata.
19 M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.) The Treaty of Versailles, cit.; cfr. soprattutto S. Marks, Smoke and Mirrors. In Smoke-Filled Rooms and the Galerie des Glaces, pp. 337-370.20 M. Macmillan, Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo, Milano, Mondadori, 2006 [London, 2001].21 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, cit., p. 456.22 D. Andelman, Shattered Peace. Versailles 1919 and the Price We Pay Today, Hoboken, Wiley, 2008.23 P.O. Cohrs, The Unfinished Peace after World War I. America, Britain and the Stabilisation of Europe, 1919-1932, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, p. 46.
183
La critica di Keynes alle risoluzioni della
pace di Versailles contenuta nel suo cele-
bre Le conseguenze economiche della pace
non esercitò solamente, sin dalla sua pub-
blicazione nel 1919, un’ineguagliabile in-
fluenza sulle percezioni e valutazioni con-
temporanee del trattato di Versailles e dei
suoi limiti. Essa continua ad avere ancora
oggi un influsso notevole – e polarizzante
– sulle interpretazioni di Versailles e della
storia internazionale del periodo tra le due
guerre da parte degli studiosi.
L’opera di Keynes, le interpretazioni precedenti e le recenti rivalutazioni del trattato di VersaillesGli studi revisionisti più vecchi, che rie-
cheggiavano le critiche fondamentali di
Keynes, hanno perso negli ultimi anni la
loro predominante influenza nel dibattito
pubblico ed accademico su Versailles. Tut-
tavia alcune delle argomentazioni centrali
di Keynes si riflettono ancora in modo rile-
vante su questi dibattiti, specialmente le sue
tesi secondo cui: i vincitori del 1918 impo-
sero alla Germania una «pace cartaginese»;
trascurarono, altro loro errore fondamen-
tale, le esigenze nuove ed essenzialmente
economiche per realizzare la pace dopo la
Grande guerra; si preoccuparono, erronea-
mente, soprattutto di «frontiere e naziona-
lità», dell’«equilibrio di potere» e del «futuro
indebolimento di un nemico pericoloso».
Secondo quella che resta un’influente in-
terpretazione revisionista, il trattato di pace
e soprattutto le clausole relative alle ripara-
zioni che i vincitori imposero alla potenza
sconfitta erano destinate a corrodere la sta-
bilità tedesca e, di conseguenza, a minare
in ultima istanza quello che doveva essere
un «perno centrale» dell’ordine politico ed
economico dell’Europa postbellica1. Così
alcuni studiosi, seguendo l’analisi di Key-
nes, hanno persino collocato Versailles nel-
l’immediata preistoria della seconda guerra
mondiale, asserendo che il trattato piantò i
semi delle perturbazioni economiche del
periodo tra le due guerre, della successiva
ascesa del nazionalsocialismo in Germania
e, alla fine, di un’altra conflagrazione mon-
diale2.
1 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Treves, 1920 [London, 1919], e ora Milano, Adelphi 2007, cui si riferiscono i numeri di pagina, pp. 17 ss., p. 33. Per una visione d’insieme della ricerca sulla pace di Versailles cfr. M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.), The Treaty of Versailles. A Reas-sessment after 75 Years, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 4-10.2 Cfr. l’ancora stimolante A.J.P. Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale, Bari, Laterza, 1961 [Lon-don, 1961] e la sua riconsiderazione in G. Martel (ed.), The Origins of the Second World War Reconsidered, Boston, Allen & Unwin, 1986.
Patrick O. Cohrs
Le conseguenze di Le conseguenze economiche della pace di Keynes.
Nuove ed originali prospettive della storia internazionale del primo dopoguerra
184
Studi più recenti hanno avanzato un’in-
terpretazione degli accordi di Versailles
diversa e più favorevole, rivedendo così il
revisionismo keynesiano. Essi hanno sot-
tolineato i problemi e gli ostacoli scorag-
gianti con cui si scontrarono i negoziatori
della pace del 1919. Ed hanno sostenuto che
l’assetto forgiato da questi negoziatori equi-
valse al miglior compromesso possibile che
si potesse raggiungere nelle condizioni date
del primo dopoguerra – un compromesso
che si sarebbe dovuto rafforzare per impe-
dire i tentativi tedeschi di minare l’ordine
di Versailles3. In questo contesto bisogna
anche rilevare che una valutazione persino
più critica di Le conseguenze economiche
della pace – la critica «realista» – conserva
una considerevole influenza nei recenti di-
battiti. A lungo, secondo il principale argo-
mento «realista» i giudizi di Keynes ebbero,
in effetti, conseguenze molto dannose e,
fondamentalmente, incoraggiarono perico-
lose pressioni per la revisione del sistema di
Versailles. Secondo queste interpretazioni,
alla fine questo ostacolò ciò che sarebbe
stato necessario per stabilizzare l’Europa:
la creazione di un efficace sistema di equi-
librio tra le potenze garantito dalla Francia
e dalla Gran Bretagna, che avrebbero con-
tenuto le ambizioni revisioniste della Ger-
mania invece di rivitalizzare – come aveva
proposto Keynes – la potenza sconfitta4.
Verso una nuova storia internazionale del primo dopoguerra? Le nuove interpretazioni e la durevole influenza delle tesi di KeynesI contributi più significativi, tra quelli re-
centi, alla conoscenza del più ampio con-
testo della pace di Versailles e del periodo
immediatamente successivo hanno mo-
strato un rinnovato interesse per l’analisi
di Keynes ed hanno polemizzato con essa
in modo più costruttivo. Esaminando cri-
ticamente le sue conclusioni, questi con-
tributi le hanno infatti sotto certi aspetti
confermate. Fondamentalmente, però, essi
sono anche andati oltre i parametri keyne-
siani, offrendo nuove e diverse interpreta-
zioni non solo della conferenza di pace di
Parigi, ma anche dei processi di più lungo
periodo della storia internazionale europea
e transatlantica nell’epoca delle due guerre
mondiali. I nuovi studi si sono incentrati,
da diversi punti di vista, sulla rivalutazione
delle possibilità di rafforzare o di riformare
profondamente l’originario sistema di Ver-
sailles e di fare passi in avanti, tra il 1919 ed
il 1933, verso un regime di pace non più eu-
ropeo ma essenzialmente euro-atlantico5.
Le recenti rielaborazioni hanno prestato
particolare attenzione a tre problemi car-
dinali della costruzione della pace dopo il
primo conflitto mondiale, tre problemi che
3 Si vedano in particolare i contributi contenuti in M. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.), The Treaty of Versailles, cit.; A. Sharp, The Versailles Settlement, London-Basingstoke, Macmillan, 1991; M. Macmillan, Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo, Milano, Mondadori, 2006 [London, 2001].4 Cfr. S.A. Schuker, The End of French Predominance in Europe, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1976; S. Marks, The Illusion of Peace, New York, St. Martin, 1976; W. Keylor, The Twentieth-Century World and Beyond, Oxford, Oxford University Press, 2005.5 Cfr. Z.S. Steiner, The Lights that Failed. European International History, 1919-1933, Oxford, Oxford Uni-versity Press, 2005, pp. 15 ss., 182-255, 387-456, e P.O. Cohrs, The Unfinished Peace after World War I, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 46-67, 79-200, 287 ss., 477-571.
185
già Keynes aveva sottolineato nel 1919.
Esse hanno riaffermato la centralità della
questione tedesca durante e dopo Versail-
les, arricchendo di nuove prospettive l’ar-
gomentazione di Keynes secondo cui se
i vincitori e i vinti non avessero trovato
nuovi modi per impostare questa insoluta
questione, l’insufficiente pace del 1919 non
solo avrebbe eroso le fondamenta politiche
ed economiche della giovane repubblica te-
desca, ma avrebbe minato anche la stabilità
europea e del sistema capitalistico occiden-
tale in quanto tale6.
Le analisi recenti hanno anche nuovamente
enfatizzato un più fondamentale requisito
della pace che Keynes aveva già indivi-
duato: l’inedita necessità di creare – dopo
la sconfitta di Wilson nella «battaglia del
trattato» con il Senato americano – nuove
strade di cooperazione con gli Stati Uniti al
fine di «risistemare» i sistemi finanziari «del
Vecchio e del Nuovo mondo»7. Occorre sot-
tolineare, però, che, con un occhio puntato
su questo problema chiave, le nuove inter-
pretazioni hanno ampliato il fuoco di Key-
nes sulle dimensioni «economiche» della
realizzazione della pace nel primo dopo-
guerra. Esse hanno mostrato che il compito
fondamentale che gli strateghi dovettero af-
frontare dopo il 1918 fu quello di costruire
un nuovo sistema economico e politico in-
ternazionale, un sistema che doveva anche
prevedere una nuova struttura in grado
di gestire la questione cardinale della si-
curezza. Ed hanno sottolineato – anche se
partendo da premesse diverse – che, sotto
tutti questi aspetti, l’ordine internazionale
del dopo-Versailles non poteva più essere
eurocentrico se doveva inaugurare una sta-
bilità più duratura: doveva diventare un si-
stema di pace transatlantico, comprendente
la nuova potenza egemone degli Stati Uniti8.
In definitiva, la più recente ricerca ha com-
plessivamente confermato l’esattezza della
previsione di Keynes secondo cui il pro-
blema delle riparazioni sarebbe emerso
come la calamità più ostica e gravida di
conseguenze del dopoguerra. Esso infatti
finì per gettare un’ombra sull’Europa e sulle
relazioni tra le potenze europee e gli Stati
Uniti. Come è stato mostrato da diverse an-
golazioni europee e dalla prospettiva ame-
ricana, l’enigma delle riparazioni si collo-
cava in effetti al cuore della crisi postbellica
dei primi anni Venti, e la sua «soluzione»
era un presupposto fondamentale per la
pacificazione dell’Europa9. Gli studi recenti
hanno anche confermato che Keynes aveva
giustamente concluso che l’inestricabilità
del problema delle riparazioni derivava da
due questioni fondamentali che questo po-
neva. Da un lato, si trattava del problema di
chi avrebbe alla fine pagato i costi ed i som-
movimenti provocati dalla Grande guerra
e gli sforzi necessari per la ricostruzione.
Dall’altro, la controversia sulle riparazioni
6 Keynes ha anche messo in evidenza che i negoziatori, a Versailles, non riuscirono a venire a patti con la Russia bolscevica. Cfr. J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., pp. 229.7 Ivi, pp. 17, 33, 188.8 Cfr. Z.S. Steiner, The Lights that Failed, cit., pp. 182-255, 387-456; P.O. Cohrs, The Unfinished Peace, cit., pp. 79-200, 287 ss., 477-571.9 Cfr., per esempio, Z.S. Steiner, The Lights that Failed, cit., pp. 182 ss.; P.O. Cohrs, The Unfinished Peace, cit., pp. 79 ss., e, per un significativo approccio precedente, M. Trachtenberg, Reparation in World Politics: France and European Economic Diplomacy, 1916-1923, New York, Columbia University Press, 1980.
186
era indissolubilmente legata alla questione
di chi avrebbe finalmente controllato la
maggior parte delle risorse chiave che tutti
gli stati consideravano indispensabili per
garantire la propria sicurezza: i vincitori
europei – soprattutto la Francia e la Gran
Bretagna –, una Germania rivitalizzata, o il
nuovo «creditore mondiale», gli Stati Uniti?10
Seguendo le orme di Keynes, le analisi re-
centi hanno sottolineato che, dal principio
alla fine, sia il conflitto sulle riparazioni che
tutti i tentativi di risolverlo avevano avuto
chiaramente una dimensione transatlan-
tica. Esse hanno anche messo in evidenza
come, sin dall’inizio, esistesse un legame di
fatto tra le riparazioni che Francia e Gran
Bretagna pretendevano dalla Germania ed
i debiti di guerra contratti con gli Stati Uniti
da quelle due potenze. E, quantunque le
successive amministrazioni repubblicane
di Washington continuassero a negare tale
legame – soprattutto per far fallire la forma-
zione di una coalizione tra i debitori euro-
pei –, tale nesso restò la sfida fondamentale
per tutti i politici ed i finanzieri che cerca-
rono di risolvere il problema delle ripara-
zioni dopo le originali proposte di Keynes
del 1919. Essenzialmente, come è stato
messo in evidenza di recente, se le princi-
pali figure chiamate a prendere le decisioni
avessero voluto erigere nuove fondamenta
per la pace, avrebbero dovuto superare
il circolo vizioso transatlantico che era
emerso nei primi anni Venti e che provocò
alla fine la grave crisi della Ruhr del 1923:
un circolo vizioso secondo cui il creditore
americano premeva su Gran Bretagna e
Francia (i suoi debitori europei) affinché ri-
pagassero interamente i debiti contratti du-
rante la guerra, e Gran Bretagna e Francia,
di conseguenza, facevano pressioni sulla
Germania di Weimar affinché pagasse con-
sistenti riparazioni in modo tale che le due
potenze potessero soddisfare le richieste di
Washington.
È ormai risaputo, e poco sorprende, che la
critica avanzata da Keynes in Le conseguenze
economiche della pace – di cui apparve una
traduzione tedesca qualche mese dopo la
sua edizione originale – divenne in Germa-
nia un popolare punto di riferimento per le
prime richieste di revisione e per la propa-
ganda11. Tuttavia, come hanno mostrato gli
studi più recenti, le preoccupazioni centrali
di Keynes furono successivamente fatte
proprie anche dai protagonisti della politica
di revisione pacifica filo-occidentale della
repubblica di Weimar, soprattutto dall’abile
ministro degli Esteri Gustav Stresemann.
Contrariamente alle interpretazioni prece-
denti che presentavano la sua politica come
quella che aveva preparato il terreno al suc-
cessivo attacco di Hitler all’ordine di Ver-
sailles, i nuovi studi hanno sostenuto che
Stresemann cercò fondamentalmente di
integrare la Germania in un nuovo e più le-
gittimo sistema di pace euro-atlantico. Essi
hanno sottolineato che, nel cercare di coo-
perare con la Gran Bretagna, la Francia e,
soprattutto, con gli Stati Uniti, egli sviluppò
10 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit. Cfr. anche N. Ferguson, La verità taciuta. La Prima guerra mondiale: il più grande errore della storia moderna, Milano, Corbaccio, 2002 [London, 1998], pp. 511-556.11 Cfr. King’s College Archive Center (Cambridge), Keynes Papers [d’ora in poi semplicemente Keynes Pa-pers], Ec 2/1/65-6, Paul Warburg a Keynes, dicembre 1919.
187
proprio quegli interessi economici «intrec-
ciati» già evocati da Keynes nel 1919. Essi,
però, hanno anche mostrato che Streseman
non solo perseguì un approccio nuovo e
più cooperativo alla questione delle ripara-
zioni, ma riconobbe anche la necessità di
nuovi dispositivi di sicurezza e di norme
internazionali fondamentali che potessero
rendere più forte un accordo economico e
politico tra i vincitori ed i vinti della Grande
guerra12.
Deplorandola o sottolineandone gli effetti
positivi, la ricerca recente ha altresì messo
nuovamente e chiaramente in risalto l’in-
fluenza dell’analisi di Keynes non solo sul-
l’atteggiamento britannico nei confronti di
Versailles nel primo dopoguerra, ma anche
su quello americano13. In Gran Bretagna
l’argomentazione di Keynes secondo cui la
pacificazione dell’Europa avrebbe richiesto
una totale revisione della «pace cartagi-
nese» ed una nuova «obbedienza verso do-
veri economici» trovò molti sostenitori tra i
liberali internazionalisti nel Labour Party e
nei gruppi di pressione come la Union for
Democratic Control (Udc), ma anche tra i
finanzieri della City di Londra. Ed essa si
appellava a – e faceva pressione su – quei
protagonisti della politica estera britannica
che avrebbero voluto ridefinire l’ordine
postbellico: Lloyd George ed i suoi limitati
ed alla fine inutili tentativi di porre rimedio
ad alcune delle conseguenze di Versailles
nei primi anni Venti; il primo premier la-
bourista britannico, Ramsay Mac Donald,
e le sue successive aspirazioni a forgiare
con la Germania una nuova sistemazione
delle riparazioni ed un sistema di pace che
andasse oltre Versailles alla conferenza di
Londra del 1924; ed infine il ministro degli
Esteri conservatore Austen Chamberlain
ed il suo tentativo di rafforzare il patto di
sicurezza di Locarno del 1925 e di integrare
Francia e Germania in un nuovo concerto
europeo14.
Le conseguenze economiche della pace ebbe
un impatto altrettanto notevole negli Stati
Uniti. Qui i giudizi di Keynes influenza-
rono – o fondamentalmente confermarono
– le opinioni sulle carenze di Versailles dei
politici e dei finanzieri più influenti del pe-
riodo successivo alla presidenza di Wilson.
Anche se stimolarono la ricerca di nuove
soluzioni americane alla crisi postbellica
dell’Europa, essi ebbero un effetto meno
immediato sul contemporaneo riorienta-
mento delle politiche degli Usa verso l’Eu-
ropa, tanto nella sfera critica dei debiti di
guerra e delle riparazioni quanto nella più
ampia sfera di ciò che tutti quelli investiti
di responsabilità decisionali consideravano
indispensabile: una riforma completa o an-
12 La principale opera innovativa su questo punto è P. Krüger, Die Außenpolitik der Republik von Weimar, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 19932. Cfr. anche J. Wright, Gustav Stresemann, Oxford, Oxford University Press, 2002.13 Cfr., ad esempio, Keynes Papers, EC 2/1/7, 2/2/76, Austen Chamberlain a Keynes, 15 dicembre 1919 e Paul Warburg a Keynes, 17 gennaio 1920. L’opera di riferimento rimane R. Skidelsky, John Maynard Key-nes, 1883-1946. Economist, Philosopher, Statesman, London, Pan, 2003, pp. 217-336.14 Cfr. J.M. Keynes, A revision of the Treaty, London, Macmillan, 1922 [tr. it.: Roma, 1922], pp. 70 ss., 167 ss.; Id., Udc Policy Statement, London, 1919. Cfr. M.G. Fry, British Revisionism, in M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.) The Treaty of Versailles, cit., pp. 565-601; P.O. Cohrs, The Unfinished Peace after World War I, cit., pp. 70-1, 90 ss., 201 ss.
188
che una revisione del sistema di Versailles,
che consegnasse alla storia tutti i tentativi
francesi e di altri europei di far rinascere
una politica di equilibrio delle potenze15.
L’influente segretario al Commercio e poi
presidente repubblicano degli Usa Her-
bert Hoover richiamò chiaramente Keynes
quando esortò le potenze europee a con-
centrarsi sui problemi economici e sulla
priorità di ricostruire un’Europa devastata
dalla guerra, Germania compresa, piuttosto
che impegnarsi in conflitti di politica di po-
tenza sulle riparazioni. Secondo Hoover, i
conflitti dell’Europa postbellica erano una
conseguenza di ciò che egli considerava il
tentativo della Francia, perseguito sotto il
suo premier Poincaré, di provocare la disin-
tegrazione della Germania e di affermare
un’egemonia sull'Europa continentale16.
Più significativamente, l’illustre segretario
di stato statunitense degli anni Venti, Char-
les E. Hughes, sviluppò in diversi modi un
approccio alla stabilizzazione dell’Europa
basato su premesse americane ma indiret-
tamente seguì anche le raccomandazioni
di Keynes del 1919. In breve, come ha sot-
tolineato la recente ricerca, fu Hughes che,
dopo la svolta della crisi della Ruhr, aprì la
strada alla «depoliticizzazione» della que-
stione delle riparazioni attraverso quello
che divenne noto come il piano Dawes e
che preparò così il terreno alla prima ricon-
ciliazione conclusa tra i vincitori e i vinti
della Grande guerra: il cruciale accordo di
Londra sulle riparazioni del 1924. Hughes,
non diversamente da Keynes, sosteneva
che il problema delle riparazioni dovesse
essere sottratto alla sfera dell’antagonistica
politica di potenza ed affrontato attraverso
commissioni transnazionali di esperti fi-
nanziari, sulle cui raccomandazioni i poli-
tici avrebbero poi potuto costruire17.
Volgendosi ai problemi fondamentali della
pacificazione dell’Europa individuati dalla
critica di Keynes a Versailles, la ricerca re-
cente ha tentato di gettare nuova luce sui
più significativi progressi verso una pace
più tollerabile e legittima all’indomani
della prima guerra mondiale. Secondo
un’interpretazione un notevole passo
avanti, particolarmente verso la ricostru-
zione dell’Europa occidentale, fu com-
piuto tra il 1919 e la fine degli anni Venti,
ma si verificò sostanzialmente nel quadro
del sistema di Versailles18. Al contrario, un
altro studio – attraverso un’analisi siste-
matica – ha avanzato un’altra prospettiva
interpretativa. Esso ha sottolineato che un
nuovo fondamento per la stabilizzazione
dell’Europa e per la rivitalizzazione e
reintegrazione internazionale di una Ger-
mania repubblicana non fu creato sulle
premesse di Versailles. Questo fu piuttosto
il risultato di un embrionale processo di
trasformazione che cominciò a mettere in
pratica i criteri indicati da Keynes per l’or-
15 Cfr. Ivi, pp. 79 ss., 296 ss.16 Hoover memorandum, Paris, July 1919, Hoover Papers, box 164; Hoover Presidential Library, West Branch, Iowa; Hoover a Hughes, 24 April 1922, US National Archives, Maryland, RG 59/800.51/316.17 Cfr. C.E. Hughes, New Haven Speech, 29 dicembre 1922, in United States Department of State, Papers relating to the Foreign Relations of the United States 1922, Washington, Us Government Printing Office, 1922, vol. II, pp. 199-202.18 Cfr. Z.S. Steiner, The Lights that Failed, cit., pp. 223 ss.
189
dine postbellico e che, a metà degli anni
Venti, portò alla formazione di un primo
sistema di pace transatlantica le cui co-
lonne portanti erano l’accordo di Londra
sulle riparazioni del 1924 ed il patto di Lo-
carno del 1925. Secondo questa interpreta-
zione, le nuove politiche di stabilizzazione
britannica ed americana, ridefinite dopo la
crisi della Ruhr, si rivelarono cruciali per
dare inizio al processo di trasformazione
pacifica che aveva portato a questi accordi.
Mentre però fornivano nuovi meccanismi
per affrontare i due problemi principali,
i nuovi accordi internazionali che esse
produssero al di là dei criteri di Versailles
non avevano ancora composto il problema
delle riparazioni né risolto la questione te-
desca del periodo tra le due guerre19.
I limiti dei tentativi di affrontare le conseguenze economiche e politiche della paceL’originaria analisi di Keynes conserva la
sua pertinenza soprattutto nell’attuale di-
battito accademico relativo al perché, alla
fine, si rivelò impossibile affrontare le con-
seguenze economiche – e politiche – della
pace di Versailles. In questo quadro i re-
centi studi hanno ridefinito il centro d’in-
teresse della ricerca, chiedendosi il perché
gli accordi della metà degli anni Venti e la
riforma dell'assetto di Versailles cui essi
diedero avvio non poterono trasformarsi
in un più solido sistema di sicurezza, in un
accordo politico ed in una stabilizzazione
economica.
In breve, come hanno mostrato queste
nuove analisi, l’appello di Keynes per la
creazione di un sistema economico mon-
diale liberale dopo la Grande guerra, per
una ripartizione transatlantica degli oneri
e per una cooperazione nella ricostruzione
dell’Europa fu tenuto solo parzialmente
in considerazione dai politici e finanzieri
chiamati a vigilare sul regime del piano
Dawes e che alla fine lo sostituirono con il
piano Young del 192920. Il regime del piano
Dawes generò quello che rimase un ciclo
asimmetrico di stabilizzazione finanziaria:
la Germania continuava a dipendere dal ca-
pitale statunitense per pagare le riparazioni
alla Francia ed alla Gran Bretagna, che a
loro volta continuavano a dipendere dalle
riparazioni per far fronte ai debiti verso gli
Stati Uniti. Come Keynes, i principali finan-
zieri del periodo tra le due guerre, in par-
ticolare il partner della J.P. Morgan Tho-
mas W. Lamont, riconobbero la necessità
di un accordo sulle riparazioni e sui debiti
di guerra più globale e «permanente»21. Gli
studi recenti hanno posto una rinnovata en-
fasi su ciò che già Keynes anticipò nel 1919
quando sottolineava la necessità di ricali-
brare il sistema finanziario «del Vecchio e
del Nuovo mondo» – cioè che gli Stati Uniti
erano l’unica potenza che avesse i mezzi
per realizzare questi sforzi. Più fondamen-
talmente, si può anzi confermare che la
cooperazione dell’America era e restò in-
dispensabile per rimaneggiare il sistema di
Versailles e per rendere più stabile il nuovo
sistema di Londra e Locarno – prima che
19 Cfr. P.O. Cohrs, The Unfinished Peace, cit., pp. 129-295.20 Cfr. J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., pp. 17 ss., 33.21 Cfr. T. Lamont, The Final Reparations Settlement, «Foreign Affairs», 8, 1930.
190
esso venisse colpito dalla crisi economica
mondiale dei primi anni Trenta22.
Alla fine, però, i governi americani degli
anni Venti fecero proprio l’assunto per cui
gli Stati Uniti non avrebbero pagato i costi
finanziari richiesti per affrontare le conse-
guenze di una guerra che le potenze euro-
pee avevano provocato. Anche il disperato
tentativo dell’amministrazione Hoover di
evitare un totale collasso del regime delle
riparazioni attraverso l’Hoover Moratorium
del 1931 non fu un’iniziativa di riforma
radicale del tipo immaginato da Keynes.
Washington si rifiutava ancora di rinun-
ciare a o anche di limitare le sue richieste
di debito nei confronti di Gran Bretagna e
Francia, e quest’ultima insisteva ancora per
ottenere le riparazioni. Nel 1932, non solo il
regime del piano Young, ma anche la Ger-
mania di Weimar ed il giovane ordine di
pace euratlantico della fine degli anni Venti
erano quasi disintegrati.
In conclusione, sembra opportuno sotto-
lineare che le tesi fondamentali di Le con-
seguenze economiche della pace di Keynes
non hanno solamente esercitato una pos-
sente influenza su generazioni di studiosi e
di analisti che hanno cercato di affrontare e
comprendere la pace di Versailles e le sue
ripercussioni nel XX secolo. Esse hanno in
effetti riacquistato importanza in anni re-
centi, stimolando la ricerca di nuove inter-
pretazioni degli sforzi europei ed americani
per ricostruire un ordine internazionale e
per creare una cornice ad un sistema di
pace più durevole e legittimo all’indomani
del 1918. In definitiva, dunque, i giudizi di
Keynes non hanno perso il loro potere di
stimolare il dibattito e di provocare polemi-
che. Essi continueranno a sollecitare tutti
coloro che cercano di valutare – e rivalu-
tare – l’eredità e le lezioni di Versailles e
della storia internazionale del primo dopo-
guerra.
22 J.M. Keynes, Le conseguenze, cit., pp. 188 ss. Cfr. le diverse interpretazioni proposte da Z.S. Steiner, The Lights that Failed, cit., pp. 387-493, e P.O. Cohrs, The Unfinished Peace, cit., pp. 287 ss. Cfr., inoltre, B. Kent, The Spoils of War. The Politics, Economics and Diplomacy of Reparations 1918-1932, Oxford, Clarendon, 1989.
1 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Treves, 1920 [London, 1919], e ora Milano, Adelphi, 2007.
Sally Marks
Le conseguenze politiche di Maynard Keynes
Ogni rassegna essenziale delle polemiche
più influenti del Novecento includerebbe
senza dubbio Le conseguenze economiche
della pace1. Scritto in due mesi e pubblicato
il 12 dicembre 1919, un mese prima che
entrasse in vigore il trattato di Versailles, il
libro per quasi cinquant’anni ha condizio-
nato significativamente la storia del trattato
e l’approccio degli storici ad esso. Ed in
realtà li condiziona ancora. L’ultima tratta-
191
zione delle riparazioni, che lamenta «il peso
schiacciante di un sistema di riparazioni
opprimente», è in gran parte ispirata diret-
tamente da Keynes2. Si sarebbe portati a
credere che la penetrante analisi di Étienne
Mantoux, l’inestimabile raccolta documen-
taria di Philip Burnett, i tre minuziosi vo-
lumi di Étienne Weill-Raynal, le rivelazioni
sull’accordo del 1921 di Gaston Furst e le ri-
cerche condotte da diversi studiosi negli ar-
chivi, che furono aperti negli anni Sessanta
e Settanta, non meritino di essere letti3.
Poiché la gran parte di questi studiosi del
tardo Novecento è giunta alla conclusione
che Keynes semplicemente si sbagliò nel
sostenere che il peso delle riparazioni
avrebbe schiacciato la Germania e con-
dotto alla miseria di massa, ci si deve al-
lora chiedere perché l’influenza di questo
libro è stata così duratura. I vecchi miti
sono duri a morire. E questo in particolare
venne rafforzato dalla prolungata pro-
paganda anglo-tedesca. Keynes scriveva
estremamente bene ed in modo persua-
sivo. Inoltre egli scriveva di questioni eco-
nomiche, che solo in pochi, quindi, erano
in grado di capire. Poiché la maggioranza
sapeva di non comprenderle, accettò la pa-
rola dell’esperto. Per due decenni non eb-
bero scelta perché i documenti non erano
accessibili agli studiosi. Keynes realizzò un
autentico Blitzkrieg fatto di statistiche che
nessuno era in grado di confutare, sebbene
in diversi casi si trattasse di stime conte-
state da altri esperti alla conferenza di pace.
L’analisi era resa difficile dalla mancata
distinzione, da parte di Keynes, tra marchi
di carta e marchi-oro o tra i debiti degli
Alleati nei confronti degli investitori pri-
vati americani e quelli, dopo l’aprile 1917,
verso il governo degli Stati Uniti. Egli sem-
plificò molto ed omise di più, costruendo
un modello relativamente comprensibile.
E fino ad un certo punto, ma solo fino ad
esso, Le conseguenze economiche della
pace sembrò una profezia che si autorea-
lizza. Keynes diceva che la Germania non
era in grado di pagare e la Germania non
pagò. Ma il mancato pagamento non dice
nulla della capacità tedesca di effettuarlo.
Poiché la soluzione ideale di Keynes era
quella che avrebbe garantito il totale domi-
nio tedesco sul continente europeo – pro-
prio la situazione per evitare la quale era
stata combattuta la guerra – ci si deve chie-
dere perché egli fosse così ardentemente
schierato. Dato che la gran parte dei suoi
biografi ha assunto come valida la sua ana-
lisi, in pochi hanno indagato questo pro-
blema. Si possono solamente avanzare delle
ipotesi plausibili. Egli era stato educato ad
essere magnanimo ed osteggiò duramente
la guerra totale condotta dal primo ministro
David Lloyd George allo scopo di vincere
invece di raggiungere la pace negoziata so-
stenuta da Keynes. Nel dicembre 1917 egli
scrisse ad un amico: «Lavoro per un go-
verno che disprezzo e per fini che ritengo
2 D.A. Andelman, A Shattered Peace, Hoboken, Wiley & Sons, 2008. Il capitolo 9½, Setting Up a Global Eco-nomy, cui si fa riferimento, è reperibile anche su http://www.ashatteredpeace.com/chapter9.html.3 É. Mantoux, La paix calomniée ou les conséquences économiques de M. Keynes, Paris, Gallimard, 1946; P.M. Burnett, Reparation at the Paris Peace Conference from the standpoint of the American delegation, New York, Columbia University Press, 1940; É. Weill-Raynal, Les réparations allemandes et la France, 3 voll., Paris, Nouvelles Éditions latines, 1947; G.A. Furst, De Versailles aux experts, Paris, Berger-Levrault, 1927.
192
criminali»4. Sebbene non fosse completa-
mente un pacifista, Keynes era profonda-
mente contrario alla guerra. I suoi amici del
circolo di Bloomsbury lo punzecchiavano
continuamente per la sua collaborazione,
di cui si sentiva in colpa, con il ministero
del Tesoro durante la guerra. Keynes era
brillante e lo sapeva, era anche arrogante
e totalmente intollerante verso chi criticava
le sue idee. Egli conveniva col suo amico di
Bloomsbury, Lytton Strachey, sul fatto che
«non è bello fingere di non essere un indi-
viduo eccezionale»5. Ma un altro dei blooms-
berries, Leonard Woolf, osservava «una
certa vena di ostinazione intellettuale e di
arroganza che spesso lo portavano a giudizi
sorprendentemente errati e contradditori»6.
Il fatto che egli passò la guerra a Whitehall
e non sul fronte occidentale può essere im-
portante, così come lo è il suo disprezzo per
i politici e per le questioni politiche.
Keynes condivideva la diffusa ostilità bri-
tannica verso la Francia, alleata per quindici
anni e nemica per cinquecento. I negoziati
finanziari del tempo di guerra approfondi-
rono la sua avversione. Indubbiamente egli
fraintendeva sia la figura di Georges Cle-
menceau che la sua collocazione nel pano-
rama politico francese. Il suo vivo interesse
per il consulente tedesco per le riparazioni
Carl Melchior ne fu probabilmente una
causa così come, probabilmente, lo furono
anche due istitutrici tedesche durante l’in-
fanzia. In ogni caso, Keynes temeva il caos,
la rivoluzione ed il sovvertimento dell’in-
tero ordine sociale, comprese le classi pri-
vilegiate britanniche, cui egli apparteneva.
Nulla di tutto ciò avvenne, né si verificò
quella fame di massa che lui ed i leader po-
litici di Weimar avevano predetto.
Nel valutare la polemica di Keynes s’in-
contrano due immediate difficoltà. Bisogna
sapere esattamente ciò che egli conosceva.
Gli storici, giustamente, rabbrividiscono
di fronte a frasi come «avrebbe dovuto sa-
pere...», tuttavia è difficile provare quello
che sembra ovvio. Keynes era il più alto
rappresentante del ministero del Tesoro a
Parigi ed il più illustre nel piccolo gruppo
di britannici incaricati di discutere la que-
stione delle riparazioni e che lavorarono al
fianco dei loro omologhi americani. Sem-
bra inconcepibile che egli possa esser stato
ignaro di alcune questioni largamente note,
ma manca spesso la prova. L’altro pro-
blema deriva dalla tattica di Lloyd George,
che creava soluzioni di breve periodo che
producevano problemi a lungo termine.
Per risolvere le difficoltà politiche egli no-
minò Lord Cunliffe ed il primo ministro
australiano Billy Hughes membri di una
commissione britannica sulle riparazioni
che presentò delle cifre astronomiche, e
successivamente designò questa avida
coppia e Lord Sumner alla commissione
sulle riparazioni della conferenza di pace,
dove essi non furono presi seriamente, co-
stituendo invece un ostacolo all’intesa. Lo
stesso Lloyd George caratterizzò tutte le
dichiarazioni pubbliche relative alle ripa-
4 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, vol. 1, Speranze tradite, 1883-1920, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 [London, 1983], p. 414. 5 D. Gadd, The Loving Friends. A Portrait of Bloomsbury, New York-London, Harcourt-Brace-Jovanovich, 1974, p. 114.6 Ivi, p. 19.
193
razioni con il riferimento alla capacità di
pagamento tedesca e richiese una somma
moderata, come facevano gli esperti alleati;
tuttavia la sua tattica negoziale tendeva
ad un’estrema sinuosità. Come risultato,
si diede risalto ad alcune accuse di Key-
nes mentre in effetti i Quattro Grandi della
conferenza di pace ed i tecnici su cui essi
facevano affidamento erano preoccupati
che la stima delle riparazioni apparisse
grande, non che lo fosse. Dato che i tede-
schi compresero questo, è probabile che lo
abbia compreso anche Keynes. Visto che le
attese popolari erano enormi in tutti gli stati
europei vincitori, il problema era quello di
adattare le realtà economiche con le neces-
sità politiche. Non essendosi presentata an-
cora alcuna soluzione, il trattato rimandò la
fissazione di una somma precisa, una solu-
zione questa soddisfacente sia per i politici
Alleati che per la repubblica di Weimar, i
cui leader concordavano sul fatto che l’am-
montare successivo sarebbe stato proba-
bilmente più basso e, comunque, volevano
rimandare il più possibile la stima.
Keynes asserì che «un esame scientifico
della capacità della Germania di pagare fu
escluso fin dall’inizio dei lavori»7. In effetti
una sottocommissione dedicata a tale que-
stione si riunì trentadue volte in più di due
mesi senza raggiungere risultati (a causa
di Lord Cunliffe), dopo di che un sottoco-
mitato speciale, composto da tre persone
– comprendente il consigliere di Keynes ed
il suo omologo americano –, stimò rapida-
mente in 40-60 miliardi di marchi-oro per
trent’anni la capacità tedesca, stima condi-
visa anche da Keynes, sebbene per il suo
termine più basso8.
Keynes dichiarò anche che l’esistenza di
cartamoneta tedesca in Belgio era la prova
che gli avidi belgi traevano profitto dalla
guerra. Dal momento che lo stesso pro-
blema si manifestò altrove, che egli era
molto interessato ai problemi finanziari
belgi e che accettò l’invito a pranzo del mi-
nistro degli Esteri belga, durante il quale
venne sicuramente sollevato l’argomento,
è inconcepibile che egli non sapesse che
i belgi erano stati costretti ad acquistare i
marchi ad un tasso di cambio sfavorevole.
Keynes s’indignò sempre di più per il
fatto che Lloyd George chiedesse i costi
della guerra, adempiendo una promessa
elettorale. Non aggiunse che il presidente
Woodrow Wilson rifiutò categoricamente
questo. Keynes, come molti da allora, cri-
ticò l’inclusione delle pensioni e delle
indennità di separazione, senza notare
che, poiché l’ammontare totale delle ri-
parazioni si sarebbe basato sulle capacità
di pagamento della Germania, la loro in-
clusione avrebbe riguardato unicamente
la suddivisione degli introiti, come la sua
controparte americana disse ai Quattro
Grandi. Egli menzionava appena i danni
alle miniere di carbone francesi ma non
aggiungeva che, durante le trattative per
l’armistizio, la Germania allagò tutte le mi-
niere nella zona occupata, facendo perdere
7 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 125.8 Ci volevano quattro marchi-oro per un dollaro e venti per una sterlina. Il piano di pagamenti di Londra, del 1921, imponeva il pagamento di 50 miliardi di marchi-oro sotto l’apparenza volutamente ingannevole di 132 miliardi di marchi-oro.
194
alla Francia la metà della sua produzione
di carbone, e che si pensava che il lungo,
costoso e pericoloso ripristino avrebbe ri-
chiesto dieci anni.
In modo più sorprendente, le stime di Key-
nes della riparazione dovuta per i danni
civili contemplavano solamente la devasta-
zione dei campi di battaglia. La sua accusa
secondo cui, in Belgio, i combattimenti
avevano interessato un’area abbastanza
limitata è corretta ma la sua conclusione
– che, cioè, «fra tutti i belligeranti, ad ec-
cezione degli Stati Uniti, il Belgio è quello
che ha fatto relativamente meno sacrifici»9
– non lo è. Egli omise del tutto il fattore spo-
liazione. Per tutta la durata della guerra e
soprattutto verso la fine, la Germania s’im-
pegnò in una guerra economica di lungo
termine; di qui le miniere francesi allagate.
Il Belgio era stato spolpato, come fu ampia-
mente documentato dai tecnici dell’esercito
americano. Intere industrie, compresa l’in-
dustria tessile della Francia settentrionale,
del Belgio e della Polonia finirono in Ger-
mania, lasciando solamente quattro mura e
blocchi di cemento, essendo svaniti anche
i soffitti di rame. Le foreste non esistevano
più. Gli americani, nel viaggio verso Spa
per una commissione per l’armistizio, fu-
rono testimoni dei trasferimenti su vasta
scala di quasi tutto il bestiame, degli attrezzi
agricoli e delle sementa. Le rotaie furono
sradicate dalla linea dell’armistizio verso
est, mentre il materiale rotabile e le loco-
motive finirono in Germania. Pressappoco
lo stesso accadde in Polonia. Keynes deri-
deva la clausola del trattato che assegnava
bestiame al Belgio, ma il totale chiesto per
sei stati Alleati era in realtà minore delle
perdite del solo Belgio.
Nell’aprile del 1919 Keynes propose, meno
cautamente che nel suo libro, che la mano-
dopera tedesca eliminasse i danni. Come
quello francese, il consiglio dei ministri
belga, che era appena riuscito a ridurre il
tasso nazionale di disoccupazione al 75%,
rifiutò che gli odiati occupanti tedeschi (che
avevano spogliato la nazione, rifiutato il
cibo ai suoi abitanti e preteso lavoro servile)
fossero pagati e nutriti per lavorare mentre
i belgi, disoccupati ed affamati, sarebbero
rimasti a guardare. La non considerazione
dei fattori politici, nazionalistici e psicologici
da parte di Keynes è sorprendente. Egli si
lamentava della preoccupazione dei Quat-
tro Grandi per i confini, non comprendendo
che l’autorità governativa, reprimendo l’il-
legalità e i saccheggi e prevenendo quel
bolscevismo che egli temeva, era indispen-
sabile per la distribuzione del cibo. Keynes
sperava che i debiti interalleati venissero
cancellati a spese degli americani anche se,
come affermava Wilson, non c’era alcuna
possibilità che il Congresso acconsentisse.
Egli era profondamente interessato, come
altri da allora, alla ricostruzione economica
tedesca, quantunque questa economia fosse
integra mentre quelle dei paesi vincitori sul
continente non lo erano, e qualcuno doveva
pagare per la loro ricostruzione. Ed in defi-
nitiva è quello che fecero i vincitori.
Anche in un senso più profondo la noncu-
ranza di Keynes per le questioni politiche
ebbe un effetto notevole sulle circostanze
prevalenti al momento in cui pubblicò Le
conseguenze economiche della pace. È, in-
9 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 108.
195
fatti, il suo impatto politico che conferisce
al libro la sua autentica importanza e ne
spiega i durevoli effetti. Keynes ignorava
completamente la sconfitta militare della
Germania in una lunga ed aspra guerra. In
fondo egli voleva la pace negoziata senza
vittoria che aveva caldeggiato nel 1917.
La sua critica di fondo al trattato di Ver-
sailles è che esso rappresentava una pace
del vincitore, anche se relativamente mo-
derata (e, di fatto, il trattato più mite della
risistemazione del 1919-20). Questo aspetto
del libro di Keynes sembrava giustificare,
e sicuramente rafforzò, la reazione tede-
sca al trattato, come pure gli atteggiamenti
anglo americani, e contribuì, pertanto, a dar
forma al decennio postbellico.
Uno degli aspetti insoliti della prima guerra
mondiale fu che essa venne combattuta
quasi interamente sul territorio dei vinci-
tori: questi furono devastati, la Germania
no. Quando l’esercito tedesco era sul punto
di dissolversi, Berlino chiese un armistizio,
nella speranza di riprendere i combatti-
menti dopo averlo riorganizzato. Le condi-
zioni di resa poste da Wilson lo impedirono,
tuttavia il termine «armistizio» rimase, a
suggerire un cessate il fuoco ma non una
disfatta. Gli Alleati occuparono la parte più
occidentale della Renania ma, per il resto,
invece di mettersi a scrivere la pace del
vincitore sotto l’impressione che il verdetto
militare fosse evidente, non fecero nulla
per ricordare al popolo tedesco la sconfitta.
Intanto per i tedeschi iniziava quello che
Ernst Troeltsch definì «il paese dei sogni
del periodo dell’armistizio»10, in cui molti
di loro si convinsero presto del fatto che la
guerra era finita con un pareggio e non con
la resa tedesca. La pace giusta che Wilson
aveva promesso avrebbe perciò signifi-
cato: nessuna perdita di territorio eccetto
l’eventualità di qualche regione di confine
in favore della Polonia, l’acquisizione del-
l’Austria e, forse, di altre aree e nessun ca-
rico finanziario. Questa confortante visione
avrebbe significato il dominio tedesco sul
continente. I termini del trattato di Versail-
les piovvero così come un enorme choc.
La maggioranza dei tedeschi, così come i
loro politici, lo ritenne profondamente in-
giusto. La reazione tedesca al trattato e la
sua lunga durata possono aver contribuito
più del trattato stesso a spaccare l’Europa
postbellica.
Keynes contribuì molto a rafforzare questa
reazione tedesca. In realtà egli diceva quello
che i tedeschi volevano sentire. Egli ignorò
il verdetto militare, omise o minimizzò co-
stantemente i danni e dichiarò che il trat-
tato era profondamente ingiusto. La sua
visione acuì un risentimento già ardente e,
agli occhi dei tedeschi, costituì una prova.
Quando Keynes lamentava che fosse ingiu-
sto obbligare la Germania a consegnare il
materiale rotabile, omettendo che la mag-
gior parte di esso apparteneva ai vincitori,
i tedeschi concordavano con lui. Quando
egli protestava per il fatto che la Germania
venisse obbligata a concedere agli Alleati,
senza reciprocità, il trattamento della na-
zione più favorita per cinque anni – senza
10 Cfr. K. Schwabe, Germany’s Peace Aims and the Domestic and International Constraints, e F. Klein, Between Compiègne and Versailles, entrambi in M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.), The Treaty of Versailles. A Reassessment after 75 Years, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, rispettivamente pp. 42 e 205.
196
spiegare che lo scopo era quello di evitare,
in stati devastati, un’invasione di prodotti
industriali tedeschi che avrebbe soffocato
la rinascita delle loro economie –, i tede-
schi chiamavano in causa l’ingiustizia. E
la propaganda tedesca trasse il massimo
profitto da brani come questo: «La politica
di ridurre la Germania in servitù per una
generazione, di degradare la vita di milioni
di esseri umani e di privare un’intera na-
zione della felicità dovrebbe essere odiosa
e ripugnante»11, proprio mentre, nel 1925-
26, una fiorente Germania si avvicinava
all’egemonia economica. La lista effettiva
delle riparazioni del 1921 per cinquanta
miliardi di marchi-oro rientrava nelle ca-
pacità di pagamento della Germania, ma,
grazie agli errori degli Alleati sul finire del
1918 ed al libro di Keynes dell’anno suc-
cessivo, era politicamente impraticabile
nel contesto di Weimar.
Il best-seller polemico di Keynes ebbe un
certo ruolo nella definitiva bocciatura del
trattato di Versailles da parte del senato
americano e, ancor di più, nell’inclina-
zione anglo-americana alla sua graduale
revisione, che, a loro volta, alimentarono
la tenace determinazione verso quella che
un ufficiale tedesco definì «la continuazione
della guerra con altri mezzi»12.
Negli anni Venti, accanitamente, conferenza
dopo conferenza, la repubblica di Weimar
contrastò le riparazioni con ogni mezzo a
sua disposizione, compresa la distruzione
della sua propria moneta, ignorando com-
pletamente il fatto che il Secondo Reich
aveva progettato di imporre condizioni
molto più rigide agli Alleati se avesse vinto.
Questa campagna, incoraggiata dalla Gran
Bretagna e talvolta dagli Stati Uniti, era an-
cora in corso quando Adolf Hitler ottenne
il suo trionfo elettorale del 1930. È impos-
sibile stabilire quanto Keynes abbia contri-
buito a questo trionfo, tuttavia egli fornì cer-
tamente un bel po’ di benzina al bruciante
risentimento verso il trattato di Versailles
cui Hitler diede così tanto risalto.
Keynes, che ammetteva raramente gli er-
rori, alla fine si rese conto di questo. L’il-
lustre giornalista (e poi storica) britannica
Elizabeth Wiskemann ricordò che, nella pri-
mavera del 1936, dopo la rimilitarizzazione
della Renania, «incontrai Maynard Keynes
durante una qualche riunione a Londra.
“Vorrei che non avesse mai scritto quel li-
bro”, mi sorpresi a dire (riferendomi a Le
conseguenze economiche, che i tedeschi non
smettevano mai di citare) e dopo avrei voluto
che la terra m’inghiottisse. Ma lui, semplice-
mente e gentilmente, rispose: “Anch’io”»13.
11 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 180.12 K.-H. Harbeck (ed.), Das Kabinett Cuno, Akten der Reichskanzlei, Boppard am Rhein, Harald Boldt, 1968, p. 192.13 E. Wiskemann, The Europe I Saw, London, Collins, 1968, p. 53.
197
Quando viene pubblicata l’edizione fran-
cese dell’opera di Keynes1, il pubblico
francese vi scorge innanzitutto una conte-
stazione dei lavori della conferenza di Pa-
rigi e del trattato di Versailles, che l’analisi
dell’economista britannico descrive come
un atto nazionalista d’ispirazione francese.
Tuttavia, Keynes non si limita ad esprimere
una critica nei confronti di quest’ultimo, ma
avanza un progetto di portata europea. Le
due visioni – guerra economica perpetua
da un lato, unità economica europea dal-
l’altro – sono diametralmente contrapposte,
e il futuro sembra dare ragione a Keynes.
Non il futuro del 1951, del 1957 o del 1992,
bensì quello che si prospetta alla metà de-
gli anni Venti quando – sotto l’influenza del
briandismo e dei movimenti europeisti, ma
anche del fallimento dell’occupazione della
Ruhr – il governo francese adotta delle ini-
ziative che si traducono nei primi tentativi
di organizzazione economica dell’Europa.
Possiamo dunque considerare Keynes
come un precursore del progetto europeo o,
per lo meno, di un progetto europeo? Senza
dubbio, ma si tratta di definire la natura di
tale progetto, ed è quanto ci proponiamo di
fare nelle pagine seguenti.
Le analisi di Keynes partono da una con-
statazione basilare, a cui egli attribuisce un
ruolo fondante nel processo di unificazione
europea, e cioè che l’interdipendenza eco-
nomica delle diverse componenti dell’Eu-
ropa istituisce una reciproca solidarietà2.
Per certi versi, la dimostrazione proposta
da Keynes esprime una reductio ad ab-
surdum: le contrapposizioni economiche
generate dalla guerra e la costituzione di
blocchi economici antagonisti, che negano
l’interdipendenza, hanno gettato alcuni
paesi europei nella carestia, evidenziando
in negativo e in tutta la sua violenza la realtà
dell’interdipendenza. Rendere perenne un
tale sistema in tempi di pace equivale a pro-
lungare ed aggravare la miseria. Pertanto,
occorre riorganizzare il continente tenendo
conto dei dati di fatto.
Siccome la dimostrazione di Keynes mira
in primo luogo a correggere la situazione
imposta alla Germania, è attorno a questo
paese che egli organizza la propria argo-
mentazione. L’indebolimento di una com-
ponente essenziale dell’economia europea
non può che indebolire quest’ultima nel
suo insieme. Allo scopo di dimostrare gli
effetti nocivi dei diversi aspetti del trattato
di Versailles, l’analisi di Keynes si articola
a vari livelli, focalizzandosi da un lato sul
Eric Bussière
Le conseguenze economiche della pace, ovvero le ambiguità di un progetto per l’Europa
1 Edita nel novembre del 1919 e destinata «principalmente a lettori inglesi (e americani)», l’opera viene pubblicata dalla «Nouvelle Revue Française» nel marzo del 1920. Com’è noto, suscita la risposta di uno dei principali collaboratori di Georges Clemenceau, André Tardieu, che nel 1921 pubblica per i tipi di Payot un libro dal titolo La Paix. I riferimenti alle pagine, inseriti tra parentesi subito dopo le citazioni, sono tratti da J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007.2 Il termine «solidarietà» è usato a p. 231.
198
peso delle coercizioni esercitate complessi-
vamente sull’economia tedesca, e dall’altro
sulle probabili conseguenze delle modifi-
cazioni delle frontiere, analizzate secondo
una logica territoriale. Tale analisi viene
svolta in riferimento al ritorno dell’Alsazia-
Lorena alla Francia – indicando i rischi che
esso comporta per gli scambi minerari di
ferro e carbone e per la siderurgia nel ver-
sante occidentale del continente europeo
– e in riferimento al caso della Slesia (pp.
87 ss.). Di fatto, la solidarietà s’impone agli
europei a prescindere dalla natura delle
relazioni politiche esistenti tra le varie na-
zioni: il rifiuto di tenerne conto equivale ad
una condanna per ognuna di esse e, soprat-
tutto, per l’Europa nel suo insieme. Questa
visione – confermata dalla realtà degli anni
Venti e degli anni Cinquanta – è al centro
dei progetti europei degli anni Venti e, in
maniera simbolica, della dichiarazione
Schuman che altro non è che una procla-
mazione – trent’anni dopo Keynes – delle
interdipendenze economiche in Europa.
La vita economica dell’Europa è quella di
una «delicata e complessa organizzazione»
(p. 17) che rischia di essere distrutta dalla
guerra. Quest’ultima è dunque contro na-
tura e viene assimilata ad un conflitto con-
tro sé stesso, ad un conflitto in seno alla fa-
miglia, ad una guerra civile. L’Europa del-
l’immediato dopoguerra offre lo spettacolo
delle «paurose convulsioni di una civiltà
morente» (p. 18).
Di fatto, il discorso di Keynes si inserisce
in una prospettiva abbastanza diffusa alla
fine del conflitto. Affrontandone la dimen-
sione economica, egli alimenta il dibattito
sulla questione del declino dell’Europa.
Con Le conseguenze economiche della pace
Keynes si pone in linea con Spengler3 e con
Demangeon4, che a loro volta avevano dato
nuova linfa a delle analisi emerse a cavallo
tra Otto e Novecento. Come numerosi con-
temporanei, Keynes sa che la dominazione
economica dell’Europa sul mondo non è
che un episodio della storia, di cui gli euro-
pei devono prendere coscienza: «Conside-
riamo naturali, permanenti, sicuri, alcuni
dei più singolari e temporanei nostri van-
taggi recenti» (p. 13). Ma le premesse per
un rivolgimento sono anteriori alla guerra.
Keynes illustra questo dato focalizzando
lo sguardo sui problemi del momento e
punta il dito sull’approvvigionamento di
risorse naturali che, sin dall’inizio del se-
colo, «le popolazioni moltiplicantisi di altri
climi e ambienti» – in primis gli Stati uniti
d’America, la cui capacità di alimentare
l’Europa si va riducendo – rischiano di
disputare alle «civiltà storiche del Vecchio
Mondo» (p. 33). Tale realtà viene accelerata
e rivelata ad opera della guerra, durante la
quale l’«Europa dipendeva interamente dai
rifornimenti alimentari degli Stati Uniti; e
finanziariamente la sua dipendenza era an-
cora più assoluta» (p. 45). All’indomani del
conflitto, l’«Europa, se vuol sopravvivere ai
suoi guai, avrà bisogno di tanta magnani-
mità da parte dell’America, che è bene co-
minci a praticarla lei» (p. 124): l’Europa si è
posta in una relazione di prolungata dipen-
3 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Milano, Longanesi, 1957 [Wien-München, 1918-1922].4 A. Demangeon, Le déclin de l’Europe, Paris, Payot, 1920.
199
denza nei confronti dell’America e ne deve
assumere le conseguenze. Discutendo il
ruolo e il posto dell’Europa nel mondo, sot-
tolineando l’ascesa di altri popoli e di altre
regioni, Keynes contribuisce a far emergere
una visione del mondo di tipo regionalista.
Ma questa rimane poco elaborata e pre-
senta delle serie ambiguità.
L’immagine che l’economista inglese dà
dell’Europa del 1870 è quella di un’Europa
economicamente autonoma rispetto al re-
sto del mondo e i cui equilibri sono essen-
zialmente interni. I decenni che precedono
la guerra sono caratterizzati da un’immer-
sione massiccia dell’economia europea nel
mondo, messa in moto dai flussi migratori,
da quelli di materie prime, dalle reti di tra-
sporto e dai flussi di capitale. Alla vigilia
della grande guerra, il processo è quasi
completato: Keynes evoca una «vita sociale
ed economica, la cui internazionalizza-
zione era in pratica pressoché completa»
(p. 25). Keynes illustra il fenomeno po-
nendosi nell’ottica dell’abitante di Londra
che, se ne ha i mezzi, è inserito nei flussi
internazionali e per il quale si può effetti-
vamente parlare di globalizzazione (p. 25).
I termini del dibattito suscitato dalla de-
scrizione di Keynes non si situano tanto tra
internazionalizzazione e globalizzazione,
ma tra internazionalismo, universalismo e
regionalismo europeo. In realtà, in Keynes
i tre concetti tendono a confondersi: esiste
un’economia internazionale, che però è
centrata sull’Europa e che obbedisce a delle
regole definite in Europa, il cui valore tende
di fatto a diventare universale. Dato che
l’Europa proietta le proprie regole sul resto
del mondo, l’universalismo è il termine che
meglio si confà alla realtà così descritta: da
questo punto di vista c’è una confusione.
Ma Keynes suggerisce che tale situazione è
precaria e che, in parte, è già stata rimessa
in questione dall’ascesa di altre regioni. In
questo modo, Keynes ha già imboccato il
sentiero del regionalismo, quando soprag-
giunge la guerra e divide il destino dell’Eu-
ropa – di cui dimostra l’unità – da quello
del resto del mondo e, in particolare, da
quello dell’America. L’ambiguità emerge
nel momento in cui Keynes disarticola la
sua visione dell’Europa. Di fatto, essa è al
contempo incompleta e squilibrata. Il caso
inglese costituisce il problema principale
ed è al centro del dibattito sull’internazio-
nalizzazione. Descrivendo l’Europa del
1914 dall’abitazione o dall’ufficio di un
londinese, Keynes sembra piazzare l’In-
ghilterra al centro dell’Europa e l’Europa al
centro del sistema economico internazio-
nale. Ma allo stesso tempo, egli sottolinea
che l’«Inghilterra è ancora fuori d’Europa.
[...] L’Europa sta a sé e l’Inghilterra non è
carne della sua carne» (p. 18). Di fatto, l’Eu-
ropa di Keynes corrisponde al continente
– un continente vasto che si estende fino in
Russia – e «fa corpo con sé stessa» (p. 18).
Tuttavia, la descrizione di Keynes è essa
stessa deformata dall’oggetto della sua ana-
lisi. Egli descrive, infatti, un’Europa cen-
trata sulla Germania e organizzata attorno
ad un’economia tedesca che, prima della
guerra, era in piena crescita. Si pongono
dunque varie questioni. Quale forma dare
ad un continente organizzato attorno a Lon-
dra e, al contempo, polarizzato sull’econo-
mia tedesca? E quale posto assegnare alla
Francia, ripetutamente indicata da Keynes
come l’organizzatrice della pace di Versail-
les e dei suoi misfatti?
200
Un progetto europeo ambiguo e contraddittorioLe soluzioni proposte non fanno che con-
fermare le ambiguità della descrizione.
Cos’è questa «unione di libero scambio»
evocata da Keynes e da lui definita – in
maniera molto vaga – come insieme di
«paesi che s’impegn[a]no a non imporre
tariffe protezionistiche di sorta sui pro-
dotti di altri membri dell’unione» (p. 210)?
Collocando l’Inghilterra in questa unione,
Keynes pare scartare l’ipotesi di farne
un’unione doganale. E cosa fare delle sue
relazioni con il mondo esterno e, in parti-
colare, con gli Stati Uniti? Indubbiamente
si tratta di promuovere la ricostituzione di
un’economia aperta su sé stessa e sul resto
del mondo, senza che i suoi rapporti con
quest’ultimo siano chiaramente definiti.
Le incertezze insite nella descrizione del-
l’Europa del 1914 inquinano il progetto per
il dopoguerra. Tali incertezze sono quelle
del collocamento della Gran Bretagna in
quell’Europa che Keynes desidera riorga-
nizzare.Ma Keynes suggerisce anche altri elementi di risposta al problema che si pone. Si tratta di indicare delle istituzioni permanenti (la Società delle Nazioni) come quadro neutrale per i necessari arbitraggi, sostituendo le or-ganizzazioni previste dal trattato, tra cui la commissione delle riparazioni e la commis-sione per il carbone, in considerazione del fatto che tali arbitraggi non devono tenere conto del solo ambito doganale, ma anche della dimensione settoriale.
Quando alla fine della sua opera Keynes si
appella ad un’opinione pubblica e ad una
«nuova generazione» che «non ha parlato
ancora» (p. 233), evidenzia l’incapacità
della classe politica di risolvere i problemi
posti.
In questo modo, l’expertise contrasta chia-
ramente il mandato politico. È a proposito
della questione delle riparazioni che Key-
nes esprime il proprio giudizio più severo,
contrapponendo un «esame scientifico
della capacità della Germania di pagare»
alle «esigenze della politica» e alle «falsità»
(p. 125). In realtà, la soluzione proposta da
Keynes consiste in un tentativo di riconsi-
derare le basi della pace, depoliticizzando
la questione attraverso la Società delle Na-
zioni e sostituendo l’expertise dell’organiz-
zazione internazionale ai classici arbitraggi
tra interessi nazionali ad opera dei politici.
Anche se, ammonisce Keynes, si deve tener
conto che «nelle mani del consumato diplo-
matico europeo la Società può diventare un
impareggiabile strumento ostruzionistico e
ritardatario» (p. 206).
Il modello di governance economica euro-
pea suggerito da Keynes mira dunque ad
allontanare i politici dalle decisioni rela-
tive all’avvenire economico del continente.
La realtà dell’interdipendenza economica
si opporrebbe alle ambizioni nazionaliste
portate avanti dai politici e converrebbe
dunque rimuovere costoro dalle scelte da
fare in questo ambito. Le analisi di Keynes
si inseriscono così nell’ascesa del ruolo de-
gli esperti, iniziata alla fine dell’Ottocento,
catalizzata dalla prima guerra mondiale e
consolidatasi ampiamente nel secondo do-
poguerra, tanto a livello nazionale, quanto
a livello europeo.
Pertanto, il modello proposto da Keynes
si contrappone al modello comunitario,
iniziato dalla dichiarazione Schuman e
rinsaldato nel corso degli anni Cinquanta
201
ad opera degli stessi politici: una dichiara-
zione secondo la quale il ravvicinamento
delle economie deve suscitare il ravvicina-
mento politico.
Ma si contrappone in misura anche mag-
giore agli orientamenti europeisti emersi
sul continente a partire dal 1925. Gli stessi
uomini che, durante la guerra furono dei
fautori del nazionalismo economico, assu-
mono la gestione delle iniziative sviluppate
in seno alla Società delle Nazioni o all’Uf-
ficio internazionale del lavoro e le condu-
cono verso il regionalismo europeo. Per co-
storo la pace economica, la pace sociale e il
ravvicinamento politico sono strettamente
connessi. Gli accordi della siderurgia sono
per l’industria ciò che Locarno è per la si-
curezza europea. Lo schema keynesiano si
contrappone dunque a quello sviluppato
dai continentali, fondato sull’esistenza di
legami tra i diversi campi dell’attività in-
ternazionale. L’Europa in costruzione con-
divide, in larga parte, le stesse aspirazioni
di Keynes, ma segue altri metodi. Essa
diverge nella sua concezione dei legami
tra economia e politica: le stesse forze e le
stesse interdipendenze possono agire nei
due sensi. Nel 1919, l’intellettuale Keynes,
segnato dalle trattative di Parigi, aveva
probabilmente sottostimato la capacità dei
politici di modificare le loro prospettive. Il
suo libro, illuminante rispetto al 1919, non
consente dunque di comprendere le evolu-
zioni successive dell’Europa.