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IL CARCINOMA MAMMARIO IN ETÀ GIOVANILE Dr.ssa Serena Di Cosimo per Associazione per la Lotta Tumori nell’Età Giovanile Roma, 22-Dicembre-2002

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IL CARCINOMA MAMMARIO IN ETÀ GIOVANILE

Dr.ssa Serena Di Cosimo

per

Associazione per la Lotta Tumori nell’Età Giovanile

Roma, 22-Dicembre-2002

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Epidemiologia e caratteristiche biologiche

Il 2% delle donne affette da tumore maligno della mammella ha meno di 35

anni. L’incidenza di carcinoma mammario è pari a 0.1 per 100000 donne di età inferiore

a 20 anni, ma aumenta progressivamente fino a 24.8 per 100000 donne di età compresa

tra 30 e 34 anni. Il carcinoma mammario in giovane età presenta bassi gradi di

differenziazione, alti indici di proliferazione e diffusa invasione vascolare (Goldhirsch,

2001). Queste caratteristiche rendono il carcinoma mammario in giovane età una

malattia ad alta aggressività biologica (Walzer, 1996). L’osservazione epidemiologica

fornita dall’Istituto Europeo di Oncologia di Milano suggerisce che le donne giovani

affette da tumore mammario presentano alla diagnosi una malattia già diffusa ai

linfonodi ascellari e caratterizzata da un’alta espressione di Ki67, indice di

proliferazione cellulare, e una bassa espressione dei recettori ormonali per gli estrogeni

e i progestinici (Colleoni, 2002). I dati forniti da International Breast Cancer Study

Group rivelano che le donne più giovani di 35 anni presentano una sopravvivenza libera

da malattia e una sopravvivenza globale a 10 anni inferiore rispetto alle donne di età più

avanzata (35% versus 47%, e 49% versus 62%, rispettivamente). Questi risultati

vengono confermati anche dal National Cancer Institute, dal Finish Cancer Registry, dal

data base del Southest Oncology Group e da un recente studio danese (Goldhirsch,

2001). I dati del Dipartimento di Chirurgica dell’Università di Vienna sembrerebbero

dimostrare, inoltre, che la giovane età è un fattore prognostico negativo indipendente.

Le pazienti di età inferiore a 35 anni hanno, infatti, una sopravvivenza globale e libera

da malattia minore e un rischio relativo di recidiva dopo intervento chirurgico per

tumore alla mammella agli stadi iniziali maggiore rispetto alle donne più anziane, a

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prescindere dall’espressione dei fattori prognostici noti (dimensioni del tumore

primitivo asportato, grado di differenziazione del tumore, stato linfonodale ed

espressione dei recettori ormonali) (Dubsky , 2002). Alle considerazioni sulla biologia e

sulla storia naturale della malattia, vanno affiancate questioni specifiche per la giovane

età delle donne affette da tumore mammario prima dei 35 anni, quali gli effetti

collaterali acuti e tardivi della terapia (chemio, radio e/o ormonoterapia), la gravidanza

durante o dopo il trattamento, le ripercussioni della diagnosi e delle cure sulla vita di

coppia, sulle relazioni familiari e sui rapporti professionali.

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Ormonoterapia e carcinoma mammario in età giovanile: stato dell’arte

Gli estrogeni sono promotori, e forse iniziatori, di buona parte dei tumori

mammari, e il blocco della loro sintesi rappresenta un logico obiettivo nel trattamento

ormonale del carcinoma mammario. La sintesi degli estrogeni avviene nelle ovaie nelle

donne in premenopausa, ma si verifica anche nel tessuto adiposo, muscolare, nella cute,

nelle cellule stromali del tessuto mammario e, fatto di estrema importanza, nel tessuto

neoplastico. L’ovariectomia continua ad essere considerata una valida opzione

terapeutica per il carcinoma mammario sia in fase adiuvante, che metastatica. Tuttavia,

nei Paesi Occidentali, la preferenza è in genere data a trattamenti ormonali

farmacologici, che impiegano da soli, o in associazione, farmaci diversi come gli

antiestrogeni, gli analoghi delle gonadotropine e gli inibitori delle aromatasi.

Antiestrogeni- L’introduzione nella pratica clinica dei farmaci antiestrogeni

rappresenta uno sviluppo farmacologico recente. Il tamoxifene è un inibitore

competitivo del legame dell’estradiolo al recettore. Il complesso estradiolo-recettore

fisiologicamente controlla l’espressione dei geni regolati dagli estrogeni e, in definitiva,

la crescita cellulare. Il tamoxifene riduce la stimolazione autocrina della crescita

tumorale e la produzione locale di fattori di crescita, esplicando un’azione citostatica e,

a dosi maggiori, un’azione citocida. Le proprietà antiestrogeniche del tamoxifene lo

rendono farmaco di scelta sia nel trattamento del carcinoma mammario operato, in

terapia adiuvante, che in quello avanzato, con intento palliativo. Nel primo caso, il

tamoxifene, assunto per 5 anni alla dose di 20 mg al giorno per os, riduce il rischio

annuale di ricaduta di malattia e di morte del 47% e del 26%, rispettivamente (Early

Breast Cancer Trialist’s Collaborative Group, 1998). Nel secondo caso, la percentuale di

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risposta obiettiva varia dal 30% al 40% e la durata mediana della risposta è compresa tra

12 e 18 mesi. Tuttavia, il tamoxifene presenta anche azioni simili a quelle degli

estrogeni ed esplica un effetto di tipo estrogenico sull’apparato genitale femminile, sulle

ossa, sui vasi venosi, sulla retina e sul profilo lipidico. Ricercatori americani hanno

dimostrato che le donne giovani in terapia con tamoxifene per più di 2 anni hanno livelli

basali estrogenici superiori a quelli fisiologici e suggeriscono che sia gli effetti

estrogenici del tamoxifene che i meccanismi di resistenza alla sua azione antitumorale

sono mediati dall’aumento sierico di estrone ed estradiolo (Lum, 1997). Nelle donne in

premenopausa, infatti, il tamoxifene sembrerebbe agire direttamente sull’asse

ipotalamo-ipofisi-gonadi. L’azione anti-estrogenica del tamoxifene impedirebbe il feed-

back negativo operato dagli estrogeni sull’ipotalamo e sull’ipofisi anteriore e si

tradurrebbe in un’aumentata secrezione di gonadotropine e, quindi, in un’aumentata

produzione ovarica di estrogeni. Il blocco ipotalamo-ipofisario del meccanismo di

controllo della produzione degli ormoni sessuali femminili sarebbe responsabile degli

alti livelli sierici di estrone ed estradiolo, a fronte di livelli FSH e LH non soppressi, e

anzi inalterati, e della caduta dei livelli di prolattina (Tajima, 1986). L’iperestrinismo

sarebbe responsabile dell’aumentata incidenza di patologia ovarica di tipo cistico, e

dell’oligo-amenorrea che ne consegue, nelle donne in età premenopausale ed in

trattamento con tamoxifene. L’incidenza di cisti ovariche tra le donne operate per

carcinoma mammario è pari all’80% e all’8.3% nei gruppi con e senza tamoxifene (p=

0.001), rispettivamente; l’incidenza di oligo-amenorrea è del 50% rispetto al 16.7%

nelle donne che non assumono il farmaco (p= 0.0651) (Cohen, 1999). L’incidenza di

amenorrea indotta da tamoxifene è compresa tra il 16% ed il 38%. Il dato è variabile

perché le pazienti giovani in trattamento ormonoterapico spesso hanno già ricevuto un

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trattamento chemioterapico castrante o assumono altri farmaci capaci di bloccare l’asse

ipotalamo-ipofisi-gonadi, come gli analoghi delle gonadrotropine (Swain, 1996). Il trial

condotto da Fisher sull’efficacia del tamoxifen nel prevenire il cancro della mammella

ha arruolato un totale di 13388 donne sane ed ad alto rischio, di cui 344 di età compresa

tra i 35 e i 39 anni (185 nel braccio placebo e 159 nel braccio tamoxifene) (Fisher,

1998). Il tamoxifene riduce l’incidenza di carcinoma mammario invasivo del 44% nelle

donne di età inferiore o uguale a 49 anni. L’impatto del tamoxifene sul ciclo mestruale

di questo sottogruppo non è noto, in ogni caso l’incidenza di secchezza vaginale e di

vampate di calore è maggiore nel gruppo trattato rispetto al controllo (29% versus 13%

e 45.7% versus 28.7%, rispettivamente). Il tamoxifene aumenta il rischio di carcinoma

invasivo dell’endometrio di 2.53 volte rispetto al placebo. Tuttavia, l’aumentata

incidenza di carcinoma invasivo dell’endometrio si verifica soprattutto nelle donne di

età superiore a 50 anni, mentre le donne più giovani hanno un rischio relativo basso e

pari solo a 1.21. Lo studio del Royal Mardsen Hospital ha dimostrato che il tamoxifene

aumenta lo spessore dell’endometrio nelle donne in menopausa e con bassi livelli di

estradiolo, mentre esercita un’azione opposta nelle donne mestruate con alti livelli di

estradiolo. Le donne giovani che iniziano l’assunzione di tamoxifene quando sono

ancora mestruate e che sviluppano amenorrea iatrogena in corso di terapia

rappresentano un particolare gruppo a rischio di carcinoma dell’endometrio e

necessitano, pertanto, di particolare sorveglianza (Chang, 1998). I dati preliminari di

Fisher non mostrano alcuna riduzione significativa di fratture ossee e di accidenti

cardiovascolari, mentre evidenziano un aumento di trombosi venose e di cataratta nelle

donne trattate con tamoxifene. I risultati fin qui riportati si riferiscono ad un follow up

medio di 3 anni e mezzo (Fisher, 1998). La prescrizione del tamoxifene nelle donne

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asintomatiche e ad alto rischio di sviluppare un carcinoma mammario sarà possibile

nella pratica clinica corrente solo dopo un periodo di osservazione più lungo.

Analoghi dell’ormone di rilascio delle gonadotropine- Gli analoghi o agonisti

dell’LHRH (LHRHa) sono stati introdotti nella terapia del carcinoma mammario in

donne in premenopausa alla fine degli anni ottanta (Williams, 1986). L’LHRH

(luteinizing hormone-releasing hormone) è l’ormone ipotalamico responsabile del

rilascio degli ormoni follicolostimolante (FSH) e luteinizzante (LH) da parte

dell’ipofisi. Gli LHRHa hanno un effetto bifasico sull’ipofisi. Inizialmente stimolano la

secrezione di FSH e LH. Tuttavia, con somministrazione a lungo termine, le cellule

divengono insensibili all’azione degli LHRHa. Ne consegue una inibizione reversibile

della secrezione di FSH e LH e una caduta delle ormoni sessuali circolanti a livelli

simili a quelli prodotti dalla castrazione irreversibile ottenuta con la chirurga o la

radioterapia. Questa castrazione medica è ritenuta responsabile dell’azione

antitumorale nei tumori ormonodipendenti. I livelli sierici di 17 beta-estradiolo e

progesterone precipitano entro la terza o quarta settimana dall’inizio della terapia,

mentre i livelli di LH e FSH restano ai limiti inferiore della norma (Brambilla, 1992). Il

trattamento del carcinoma mammario metastatico con LHRHa produce una percentuale

di risposte obiettive variabile dal 32% al 44.9%, una durata mediana della risposta

compresa tra 44 e 69 settimane e una sopravvivenza mediana di 141-148 settimane. Gli

effetti collaterali di maggiore riscontro sono rappresentati dalle vampate di calore (82-

75.9%), dalla perdita della libido (47.4%) e dalla pigmentazione cutanea (45%)

(Blamey, 1992; Brambilla, 1992). Studi endocrinologici hanno dimostrato che la

cosomministrazione di un LHRHa sopprime completamente gli effetti del tamoxifene

sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, determinando una caduta dei livelli di estrogeni

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circolanti pari a quelli dello stato menopausale (Robertson, 1989). Questa evidenza è

stata la premessa per studi clinici di associazione LHRHa e tamoxifene nel trattamento

delle pazienti giovani affette da carcinoma mammario metastatico endocrino-

responsivo. Una recente metanalisi, realizzata su un totale di 506 pazienti, in

premenopausa affette da tumore mammario metastatico ha dimostrato che

l’associazione dell’LHRHa e tamoxifene è più efficace del trattamento con il solo

analogo. La percentuale di risposte obiettive è risultata del 30% e 39% nei bracci

LHRHa e LHRHa plus tamoxifene, rispettivamente. Il guadagno in sopravvivenza è

risultato evidente dalla riduzione del rischio di morte del 22% nelle pazienti trattate con

la associazione dei due farmaci. La sopravvivenza mediana nei due gruppi è risultata di

2.5 e 2.9 anni nel gruppo LHRHa e LHRHa e tamoxifene, rispettivamente (95% CI

0.63-0.96; p= 0.02) (Klijn, 2001). La metanalisi ha omesso la valutazione della

tollerabilità dell’associazione rispetto alla sola terapia con uno dei due farmaci.

Tuttavia, il profilo di tossicità indotta dal regime LHRH e tamoxifene sembrerebbe

sovrapponibile a quella del solo LHRHa da solo (Jonat, 1995). I risultati della

metanalisi fanno dell’associazione LHRHa e tamoxifene la prima scelta terapeutica

per il trattamento del carcinoma mammario metastatico alle ossa e ai tessuti molli

in donne in premenopausa. Diversi studi clinici stanno valutando la combinazione

degli LHRHa con i nuovi farmaci anti-aromatasici, formestane e vorozolo, nelle

pazienti in progressione di malattia dopo la prima linea ormonale. I risultati preliminari

dimostrano la possibilità di ottenere risposte obiettive e durature nel 67-89% delle

pazienti pre-trattate con malattia metastatica, a fronte di una tollerabilità migliore

rispetto alla associazione LHRHa e tamoxifene. I dati, tuttavia, sono ancora troppo

acerbi per una valutazione definitiva dell’efficacia di questa nuova associazione e,

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attualmente, la combinazione LHRHa e inibitore dell’aromatasi trova indicazioni

limitate nella pratica clinica corrente.

Il ruolo degli LHRHa nella terapia adiuvante del carcinoma mammario agli

stadi precoci è stato e continua ad essere oggetto di numerose valutazioni cliniche.

Cinque studi prospettici hanno studiato l’efficacia di LHRHa nella terapia adiuvante

delle donne operate per carcinoma mammario allo stadio precoce. I risultati sono ancora

parziali. Rutqvist e collaboratori hanno randomizzato 2631 pazienti a: tamoxifene per 2

anni, LHRHa per 26 mesi, LHRHa plus tamoxifene e controllo. Dopo un periodo di

osservazione pari a 4.3 anni, risulta che il braccio trattato con analogo presenta un

incidenza di recidive minore e statisticamente significativa (p= 0.001) rispetto al braccio

con il solo tamoxifene. Tuttavia, la sopravvivenza globale nei due gruppi sembrerebbe

sovrapponibile. I dati riguardanti l’associazione di LHRHa e tamoxifene non sono stati

ancora pubblicati (Rutqvist, 1999). Il lavoro di Boccardo, della Scuola di Genova, ha

comparato la chemioterapia secondo lo schema CMF per 6 cicli alla terapia ormonale

con tamoxifene ed ablazione ovarica (chirurgica, attinica, o ottenuta con LHRHa). Lo

studio ha arruolato 244 partecipanti dei 300 previsti e ha riportato dati di sopravvivenza

libera da malattia e globale completamente sovrapponibili (Boccardo, 2000).

L’esperienza italiana è stata comunque inficiata dal basso numero di pazienti studiate e

dalla mancata stratificazione rispetto allo stato menopausale dopo la chemioterapia. E’

infatti plausibile che le donne trattate con CMF ed in amenorrea iatrogena abbiano una

prognosi migliore rispetto alle donne trattate con lo stesso schema chemioterapico, ma

ancora mestruate, come brillantemente dimostrato dallo studio che Jackesz ha condotto

su 1045 pazienti (Jackesz, 1999).

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Il dibattito sulla superiorità in terapia adiuvante della chemioterapia e, in

particolare dei regimi contenenti antracicline, è stato recentemente alimentato da due

trials clinici che hanno paragonato FAC x 6 cicli a tamoxifene e ablazione ovarica e

FAC x 6 cicli da solo a FAC x 6 cicli seguito da ormonoterapia. Nel primo caso, la

sopravvivenza libera da malattia sembra essere migliore nel gruppo ormonotrattato

rispetto al gruppo chemiotrattato (Roche, 1996). Questo dato necessita, tuttavia, di

ulteriori conferme, dal momento che lo studio di Roche è stato criticato perché non

bilanciato rispetto ai fattori prognostici noti. L’analisi multivariata, realizzata in

considerazione dello stato linfonodale, non ha infatti dimostrato nessuna differenza

statisticamente significativa tra i due gruppi in termini di sopravvivenza libera da

malattia. L’aggiunta di ablazione ovarica alla chemioterapia non sembra conferire un

beneficio in termini di sopravvivenza globale, ma solo in termini di sopravvivenza

libera da malattia (Davidson, 1999). Comunque, i dati di questo studio, molto ben

disegnato, sono ancora troppo prematuri per considerazioni definitive.

Le evidenze fin qui riportate suggeriscono che l’associazione LHRHa e

tamoxifene conferisce un beneficio in termini di sopravvivenza libera da malattia in

donne in premenopausa chemiotrattate, ma necessita di ulteriori valutazioni per

diventare una valida alternativa ai regimi chemioterapici standard in determinati

sottogruppi di pazienti.

Inibitori delle aromatasi- Gli agenti antiaromatasi interferiscono con l’enzima

aromatasi, responsabile del passaggio finale della sintesi periferica degli estrogeni a

partire dall’androstenedione e dal testosterone. Dopo la menopausa, la sintesi

estrogenica avviene prevalentemente a livello periferico. Gli inibitori della aromatasi

perciò trovano indicazione proprio in postmenopausa o in donne in pre-menopausa

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sottoposte a castrazione. Nella pratica clinica corrente l’associazione di un inibitore

dell’aromatasi con un LHRHa viene utilizzata nel trattamento delle donne in

premenopausa in progressione dopo tamoxifene e LHRHa.

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Effetti collaterali del trattamento ormonale nelle donne giovani affette da

tumore mammario

Azione del tamoxifene sull’epitelio vaginale- Le donne in pre-menopausa

trattate con tamoxifene mostrano un indice cariopicnotico, misura del rapporto tra

cellule dello strato superficiale ed intermedio, suggestivo per un’azione antiestrogenica

del farmaco (Tajima, 1979). L’effetto antiestrogenico del tamoxifene sull’epitelio

vaginale si traduce in atrofia della mucosa, con conseguente secchezza vaginale e

dispareunia. Il trattamento della secchezza vaginale con l’applicazione locale di

estrogeni è sconsigliato nelle donne operate o in trattamento per carcinoma mammario,

dal momento che gli ormoni sessuali passano la mucosa ed entrano in circolo (Mattson,

1983). Recentemente è stato suggerito l’utilizzo di anelli di 17-beta-estradiolo a rilascio

lento, la cui applicazione locale, sembrerebbe scongiurare un assorbimento sistemico.

Tuttavia la sicurezza di tali sistemi necessita di ulteriori verifiche in studi caso controllo

più ampi, attualmente in corso in Svezia e nel Regno Unito (Gabrielsson, 1995).

Azione del tamoxifene sull’endometrio- L’incidenza di carcinoma

dell’endometrio nelle donne asintomatiche è pari a 1.7/1000 donne/anno. Lo studio di

Curtis e collaboratori ha dimostrato che le donne affette da tumore mammario sono a

maggiore rischio rispetto alla popolazione generale di sviluppare un tumore dell’utero, a

prescindere dall’utilizzo di tamoxifene (Curtis, 1996). Tuttavia, le pazienti operate di

tumore mammario e trattate con tamoxifene mostrano un rischio relativo di sviluppare

una neoplasia endometriale pari a 2.0, rispetto alle donne non trattate, che hanno un

rischio relativo pari a 1.2. L’azione cancerogena del tamoxifene sembrerebbe spiegata

dalla sua azione simil-estrogenica sull’endometrio. Il tamoxifene si comporta come un

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estrogeno quando i livelli “ambientali”di estradiolo endometriale sono bassi, per tale

motivo il rischio di carcinoma dell’utero tamoxifene-indotto sembrerebbe specifico

dell’età postmenopausale e correlato alla dose cumulativa ed alla durata del trattamento

(Ismail, 1994). L’azione del tamoxifene sull’endometrio delle donne in premenopausa

sembrerebbe diversa. Le donne giovani con funzione ovarica preservata presentano,

infatti, a livello endometriale alti livelli di estradiolo che impediscono al tamoxifene di

funzionare come un estrogeno e ne stimolano, al contrario, l’azione antiestrogenica.

Nonostante il dato sia ancora prematuro, sembrerebbe che il tamoxifene non abbia

effetti collaterali sull’endometrio delle donne in premenopausa (Cheng, 1997; Chang,

1998). Tuttavia, le donne che iniziano il trattamento con tamoxifene in età

premenopausale e vanno in contro ad amenorrea iatrogena, se presentano bassi livelli di

estradiolo sierico, sono a maggiore rischio di carcinoma dell’endometrio (Chang, 1998).

Azione del tamoxifene sull’ovaio- Gli effetti del tamoxifene sull’ovaio sono

stati decritti per la prima volta nel 1971, quando Klopper e Hall dimostrarono la

capacità del farmaco di indurre l’ovulazione in pazienti non fertili a causa di cicli

anovulatori. Come il clomifene citrato, il tamoxifene induce l’aumento dei livelli sierici

di estradiolo e progesterone. A differenza del clomifene, il tamoxifene non induce un

aumento dei livelli sierici di FSH e LH. Gli studi clinici realizzati su donne in

premenopausa trattate con tamoxifene sono scarsi. La recente pubblicazione di Mourits

dimostra che l’81% delle donne in premenopausa, e regolarmente mestruale, trattate con

tamoxifene sviluppa una patologia ovarica di tipo cistico. Le cisti ovariche indotte da

tamoxifene decorrono in modo asintomatico e raramente richiedono l’intervento

chirurgico (Mourits, 1999). Le donne in premenopausa trattate con tamoxifene

presentano irregolarità del ciclo mestruale, oligoamenorrea e amenorrea, in percentuale

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variabile, fino al 50% (Sunderland, 1991). Le pazienti che assumono tamoxifene, anche

se amenorroiche, devono essere correttamente informate sul rischio correlato ad una

eventuale gravidanza. Il tamoxifene, infatti, è teratogenico dal momento che funziona

come un anti-estrogeno nel corso dello sviluppo fetale (Tewari, 1989).

Effetti del tamoxifene sulla sfera psico-sessuale- Il calo della libido, la

frequenza dell’attività sessuale e la capacità di raggiungere l’orgasmo sono stati valutati

in numerosi studi clinici controllati. Il tamoxifene non sembrerebbe influenzare la sfera

psicosessuale delle donne affette da tumore mammario, in postmenopausa e di età

superiore ai 50 anni (Ganz, 1998).

Meno ricerche focalizzano l’attenzione sulle pazienti premenopausali e in

giovane età. E’ stato valutato che il 77% delle donne operate per carcinoma della

mammella è sessualmente attivo dopo l’atto chirurgico (baseline). Il 10% delle donne

sessualmente inattive al baseline, lo diventa due anni dopo. Il recente studio di Berglund

riporta una maggiore percentuale di disfunzioni sessuali- riduzione nel numero dei

rapporti sessuali, paura del rapporto del rapporto, anorgasmia- nelle donne

premenopausali chemiotrattate, rispetto a quelle non-chemiotrattate. L’aggiunta di

ormonoterapia alla chemioterapia, non sembra peggiorare tali ripercussioni sulla sfera

sessuale. Tra le pazienti in solo ormonoterapia, l’incidenza di effetti avversi sulla

attività sessuale è maggiore per l’LHRHa da solo (15%), rispetto alla combinazione

LHRHa e tamoxifene (10%). Il tamoxifene da solo non sembra produrre effetti

collaterali negativi sulla sfera sessuale. La secchezza vaginale non sembra influenzare

l’attività sessuale, al contrario, pesantemente compromessa dall’amenorrea iatrogena.

Le alterazioni sessuali non cambiano se l’amenorrea iatrogena è indotta dalla

chemioterapia o dal blocco estrogenico totale. Le disfunzioni sessuali prodotte dagli

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analoghi del LHRH sono, tuttavia, reversibili e si risolvono dopo tre anni

dall’interruzione del trattamento (Berglund, 2001).

Effetti del tamoxifene sul metabolismo osseo- Le donne in postmenopausa, in

seguito alla deprivazione estrogenica, sono ad alto rischio di osteoporosi. Il tamoxifene

esercita a livello scheletrico un effetto estrogeno-simile, determinando una riduzione del

riassorbimento osseo. La densità minerale ossea (BMD) della colonna vertebrale delle

donne in postmenopausa, e operate per carcinoma della mammella, cambia in funzione

della assunzione o meno di ormonoterapia. Le donne in trattamento con tamoxifene per

5 anni mostrano una BMD significativamente superiore rispetto alle coetanee che non

assumono il farmaco (Resch, 1998). Tuttavia, il tamoxifene sembra essere meno

efficace, inattivo, o dannoso, a livello osseo se la produzione endogena di estrogeni è

fisiologica. La BMD delle donne in premenopausa in terapia con tamoxifene risulta,

infatti, inferiore rispetto alle coetanee che assumono placebo. La perdita media annuale

di BMD a livello della colonna vertebrale nelle donne regolarmente mestruate e sotto

tamoxifene è pari all’1.44%, rispetto allo 0.24% delle donne nel braccio placebo. Questi

risultati globalmente considerati indicano un’azione bivalente e opposta del tamoxifene:

pro-osteoporotica nelle donne in premenopausa ed anti-osteoporotica nelle donne in

postmenopausa (Powels, 1996).

Effetti psicologici del tamoxifene- L’evidenza che la terapia ormonale

sostitutiva ha effetti positivi sull’umore delle donne in postmenopausa e che il

tamoxifene ha un’attività antiestrogenica, ha fatto ipotizzare in passato un effetto

negativo del tamoxifene sulla sfera psicologica e comportamentale (Halbreich, 1997).

Patricia Ganz ha elegantemente smentito la relazione tamoxifene e depressione,

studiando le oltre undicimila donne arruolate nello studio di Fisher sul tamoxifene

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somministrato a scopo precauzionale. Le donne entrate nello studio dovevano

compilare, prima della somministrazione del farmaco, il questionario validato dalla

comunità scientifica internazionale per la raccolta dei sintomi correlati alla depressione

(Center for Epidemiological Studies-Depression questionnaire). Il test veniva ripetuto

ad intervalli regolari di 6 mesi, per tutti i 5 anni del trattamento. L’analisi dei risultati

dimostra che il trattamento con tamoxifene non influenza in alcun modo la categoria di

rischio depressivo di appartenenza, testato con il primo questionario. Non esiste,

pertanto, alcuna associazione, scientificamente dimostrata, tra depressione e tamoxifene

e tamoxifene e depressione (Day, 2001).

Fallowfield, sempre con l’utilizzo di questionari validati, ha studiato il ruolo del

tamoxifene come agente ansiogeno nella popolazione di donne sane, ma con anamnesi

familiare postitiva per carcinoma mammario, e, pertanto, in trattamento sperimentale a

scopo precauzionale. La ricerca, realizzata su 488 donne, durante i 5 anni di trattamento,

ha dimostrato una variabilità individuale, e in funzione del tempo, rispetto al

cambiamento dell’umore, allo stato d’ansia e alle abitudini sessuali, ma assolutamente

non correlata al trattamento o meno con tamoxifene (Fallowfield, 2001).

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Incidenza dell’amenorrea indotta da chemioterapia

La stima del beneficio atteso dalla chemioterapia adiuvante in pazienti con

carcinoma mammario è riportata in Tabella 1. Il vantaggio in termini di sopravvivenza è

significativo in tutti i gruppi di età e sembra essere maggiore nelle pazienti più giovani.

Se l’entità del beneficio è nota, meno chiare risultano alcune delle sequele della

chemioterapia. Tra queste l’incidenza del danno alla funzione ovarica e le conseguenze

che ne derivano sulla capacità di procreare, sui rischi della menopausa e sulla sfera

psicologica. La menopausa precoce è indotta dalla chemioterapia in percentuale

compresa tra il 53% e l’89% (Del Mastro, 1997). La variabilità del dato è dovuta alla

mancanza di una definizione unanime di amenorrea e oligo-amenorrea indotte da

chemioterapia, dalla disomogeneità delle pazienti studiate, rispetto alla classe di età, e

dalla diversa durata del follow-up. Alcuni studi, infatti, procedono da una definizione

squisitamente clinica, altri rimandano a definizione endocrinologica, basata sui livelli

degli ormoni sessuali sierici. Goldhirsh riporta un’incidenza di amenorrea permanente

nell’8% delle donne di età inferiore a 35 anni e nel 59% nelle donne di età superiore a

35 anni, trattate con CMF, schema classico di Bonadonna et al, introdotto alla fine degli

anni settanta. Bines, invece, registra, sempre con lo stesso schema terapeutico, una

percentuale maggiore e pari al 40% nelle donne di età inferiore ai 40 anni e al 76% nelle

donne più anziane (Bines, 1996). Entrambi gli autori, insieme a Bianco, concordano sul

dato che il rischio di danno ovarico nelle donne in premenopausa aumenta con il

numero dei cicli di CMF (Bianco, 1991), infatti la somministrazione di un unico ciclo di

CMF causa amenorrea solo nel 31% delle pazienti trattate (Goldhirsch, 1990) e con

l’aumentare dell’età. E’ stato recentemente dimostrato che sia lo schema CMF che lo

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schema FEC portano il rischio di menopausa da meno del 5% a più del 40% nelle

donne di età inferiore a 40 anni e dal 20% al 100% nelle donne ≥ 50 anni (Rosche,

2000). L’impatto dei due regimi terapeutici sulla funzione ovarica sembrerebbe essere

lo stesso, in considerazione della somiglianza dei due schemi e dalla stessa dose

cumulativa di chemioterapia. Dati in letteratura suggeriscono che l’incidenza di

menopausa è più bassa per le monochemioterapie (es. 26% di amenorrea per il

Melphalan) (Rubens, 1983) e per la combinazione doxorubicina e ciclofosfamide (34%

per lo schema AC) (Cobleigh, 1998). Hortobagyi ha osservato l’interruzione del ciclo

mestruale nell’80% delle pazienti in età pre-menopausale trattate con schemi

chemioterapici contenenti antraciclina. Tuttavia, aggiunge che nessuna delle pazienti di

età inferiore ai 30 anni sperimenta anormalità del ciclo mestruale e che, al di sotto dei

40 anni, l’amenorrea è reversibile nel 50% dei casi (Hortobagyi ,1986).

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Tabella 1 Beneficio assoluto della chemioterapia adiuvante a 10 anni

CON CHEMIOTERAPIA SENZA CHEMIOTERAPIA BENEFICIO ASSOLUTO

Sopravvivenza libera da malattia

Età < 50 anni

Linfonodi positivi

Linfonodi negativi

Età > 50 anni

Linfonodi positivi

Linfonodi negativi

68.3%

47.6%

65.6%

43.4%

58.0%

32.2%

59.9%

39.0%

10.3%

15.4%

5.7%

5.4%

Sopravvivenza globale

Età < 50 anni

Linfonodi positivi

Linfonodi negativi

Età 50-69 anni

Linfonodi positivi

Linfonodi negativi

77.6%

53.8%

71.2%

48.6%

71.9%

41.4%

64.8%

46.3%

5.7%

12.4%

6.4%

2.3%

(modificata da Early Breast Cancer Trialist Group, 1998)

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Significato prognostico dell’amenorrea indotta da chemioterapia

L’impatto dell’amenorrea indotta da chemioterapia sulla sopravvivenza libera da

malattia e sulla sopravvivenza globale è stato oggetto di numerose valutazioni. Lo

studio italiano condotto presso l’Università di Genova su 147 giovani donne affette da

tumore mammario operato in trattamento chemioterapico con CMF, non ha dimostrato

alcun vantaggio in termini di sopravvivenza per il 70% delle donne con amenorrea

indotta da chemioterapia (Toma, 1992).

Al contrario, lo studio americano realizzato su 1196 riporta una sopravvivenza

libera da malattia statisticamente più lunga per le donne con amenorrea iatrogena o,

comunque, con interruzione, seppure temporanea, del ciclo mestruale. Il vantaggio

sembrerebbe essere maggiore per le pazienti con stato linfonodale positivo e, quindi, a

prognosi peggiore (Pagani, 1998). Questi dati confermano i risultati ottenuti su

casistiche più piccole da Bianco (221 pazienti) (Bianco, 1991), Reyno (95 pazienti)

(Reyno, 1992) e da Poikonen (126 pazienti). Quest’ultimo riporta anche una migliore

sopravvivenza globale a 5 anni (OS) nelle pazienti con amenorrea iatrogena e con

tumore endocrino-responsivo, tuttavia tale vantaggio viene perso nell’analisi

multivariata, che tiene conto anche degli altri fattori prognostici noti (Poikonen, 2000).

Nonostante la frammentarietà dei dati, pochi pazienti per troppi studi, e la bassa

incidenza di tumore mammario con recettori ormonali positivi nelle donne giovani,

sulle orme di Goldhirsch, possiamo concludere che sia nelle pazienti giovani che in

quelle meno giovani, ma comunque in età pre-menopausale e affette da tumore

endocrino-responsivo, la persistenza del ciclo mestruale espone ad un maggior rischio

di recidiva di malattia. In donne ad alto rischio la castrazione chimica può essere un

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effetto desiderabile dal momento che può contribuire ad aumentare il beneficio assoluto

del trattamento (Aebi, 2000). Al contrario, l’amenorrea non sembra essere un fattore

protettivo nei confronti delle pazienti giovani, affette da tumore con recettori ormonali

negativi.

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Carcinoma mammario e gravidanza

Il carcinoma mammario è associato alla gravidanza quando insorge durante la

gestazione o entro un anno dall’espletamento del parto. Il carcinoma mammario

associato alla gravidanza è un evento raro (1:3000 gravidanze) ed rappresenta una

percentuale variabile dallo 0.2% al 3.8% di tutti i tumori maligni della mammella. L’età

mediana delle donne colpite è di 33 anni, (range: 23- 47 anni) (Pavlidis, 2002). Il

carcinoma mammario associato alla gravidanza viene diagnosticato in fasi più avanzate,

dal momento che durante la gestazione non possono essere eseguite le indagini

diagnostiche -Rx mammografia- atte alla diagnosi precoce delle lesioni non palpabili.

Per tale motivo, le donne intenzionate a concepire, dovrebbero precauzionalmente

sottoporsi allo screening mammografico ed ad una visita senologica.

Diagnosi e trattamento durante la gravidanza e l’allattamento- Il riscontro di

una massa palpabile durante la gravidanza necessita di un immediato esame ecografico

e, se indicato, di un accertamento citologico tramite ago-aspirato. Il sanguinamento dal

capezzolo è un evento fisiologico durante il terzo trimestre e il primo periodo della

lattazione, ma smette di esserlo dopo due mesi dal parto. I dati della letteratura

internazionale riportano un ingiustificato atteggiamento attendistico da parte sia delle

pazienti che dei medici curanti (Petrek, 1990). La giovane età della paziente non deve

scoraggiare gli approfondimenti diagnostici, dal momento che il tumore mammario in

gravidanza è stato descritto a partire dai 16 anni (Gallenberg, 1989). Le caratteriste

biologiche e la storia naturale del carcinoma mammario correlato alla gravidanza non

sono peculiari. Le donne gravide affette da carcinoma della mammella hanno la stessa

prognosi delle altre donne. Nonostante siano stati registrati casi di metastasi placentari,

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non esiste alcuna evidenza che il cancro possa trasmettersi al feto. L’interruzione della

gravidanza, suggerita agli inizi degli anni 60, non è attualmente indicata, dal momento

che non si accompagna ad un miglioramento della sopravvivenza della madre, ma anzi

ad una riduzione. Tuttavia, l’inizio della chemioterapia e della radioterapia è

controindicato al primo trimestre, perché provoca danni allo sviluppo fetale (ritardo

della crescita, ritardo mentale, pre-termine). Il rischio per la madre di procrastinare

l’inizio del trattamento non è noto, così come gli effetti tardivi sul feto della

chemioterapia e della radioterapia dopo il primo trimestre. Pertanto, non esistono linee

guida sul trattamento delle gravide affette da tumore mammario. Le donne devono

essere correttamente informate e psicologicamente supportate per valutare ed

intraprendere un trattamento sempre “personalizzato”.

La gravidanza dopo il carcinoma mammario- La recente pubblicazione di

Gelber dimostra elegantemente che la gravidanza dopo il cancro riduce il rischio di

morte (risk ratio=0.44; P= 0.04) esercitando un effetto protettivo (Gelber, 2001).

L’Autore ha analizzato e confrontato donne trattate allo stesso modo, nello stesso

periodo di tempo e nelle stesse strutture. Il suo dato conferma con maggiore rigore

scientifico i risultati di due precedenti studi, uno realizzato in Svezia e l’altro in

Danimarca, di confronto tra le donne curate per carcinoma mammario, e poi diventate

madri, rispetto alla popolazione intera di donne malate di carcinoma mammario. Il

rischio relativo di morte per le pazienti diventate madri rispetto alle altre risulta pari a

0.48 e 0.55, nello studio svedese e danese, rispettivamente. A questi due studi caso-

controllo si aggiunge l’esperienza finlandese di Sankila, che giustifica la migliore

prognosi delle mamme con la teoria del “healthy mother effect”: solo le donne che si

sentono bene riescono a portare a termine la gravidanza, le altre no (Sankila, 1994). A

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questa ipotesi, che spiegherebbe la migliore prognosi delle donne diventate madri come

un inevitabile bias, se ne contrappongono altre, che chiamano in causa gli equilibri

ormonali instauratisi prima, durante e dopo il parto.

Nonostante molti oncologi sconsiglino la gravidanza prima dei due anni dal

completamento della chemioterapia (periodo in cui è maggiore il rischio di ricaduta

loco-regionale), diversi studi non sembrano indicare eventi avversi o riduzione di

sopravvivenza per le donne che concepiscono prima di questo intervallo (Hindle, in

stampa). Il decorso della gravidanza dopo il cancro può presentare delle difficoltà. Lo

studio americano di Velentgas riporta un’incidenza di aborto spontaneo del 24% e del

18%, nelle donne con storia di tumore alla mammella e nelle coetanee sane,

rispettivamente (Velentgas, 1999).

Allattamento e carcinoma della mammella- Le donne sottoposte a chirurgia

conservativa raramente osservano delle modifiche a carico del seno operato durante la

gestazione. La percentuale di pazienti in grado di allattare dal seno operato è pari al

30%, circa. Nessuna delle donne sottoposte a quadrantectomia centrale e quindi a

incisione circumareolare riesce ad allattare (Higgins, 1994). Le donne che assumono

tamoxifene o sono in trattamento chemioterapico non devono allattare (Helewa, 2002).

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La preservazione della fertilità pre-chemioterapia

La chemioterapia danneggia l’ovaio, accelera la deplezione fisiologica di oociti e

causa la menopausa precoce nella maggioranza delle donne trattate per carcinoma

mammario. La criopreservazione del tessuto ovarico ha lo stesso obiettivo della

criopreservazione dello sperma, ovvero garantire ai pazienti più giovani la fertilità

anche dopo il trattamento antineoplastico (Aubard, 2001). Il follicolo primordiale è la

prima forma di follicolo ovarico e consiste di un oocita circondato da un unico strato di

cellule della pregranulosa. Questi follicoli si trovano nella corteccia ovarica e

progressivamente entrano nella fase successiva di sviluppo sotto stimoli ancora

scarsamente conosciuti. Soltanto qualcuno di questi follicoli si trasformerà in follicolo

di Graaf, capace di ovulare. Solo i follicoli primordiali riescono a sopravvivere al

congelamento e, per garantire la fecondazione, è necessaria la loro maturazione dopo lo

scongelamento (Salha, 2001). Ad oggi, questa maturazione non si è mai verificata

nell’uomo e gravidanze a termine sono state ottenute solo su modelli animali. Perciò la

raccolta e la conservazione di tessuto corticale ovarico di donne giovani prima del

trattamento chemioterapico viene realizzata in molti centri, ma sempre all’interno di

protocolli di ricerca sperimentale. Al contrario, la criopreservazione degli embrioni è

una procedura routinaria nelle unità di fecondazione assistita. Ipoteticamente le pazienti

potrebbero recarsi in queste unità prima dell’inizio del trattamento e iniziare la

chemioterapia dopo la criopreservazione degli embrioni. Ma, a parte le considerazioni

di carattere bio-etico legate alla manipolazione degli embrioni, la stimolazione

ormonale per ottenere la cosiddetta “superovulazione” è controindicata nelle pazienti

affette da tumore alla mammella, non è scevra da spiacevoli effetti collaterali e richiede

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almeno due mesi, tempo irrinunciabile per l’avvio della paziente al trattamento

chemioterapico (Donnez, 2000).

L’utilizzo degli analoghi dell’ormone LHRH ha dato buoni risultati nella

preservazione della funzione ovarica in modelli animali (Posada, 2001). Recentemente

sono stati pubblicati tre lavori realizzati su pazienti giovani in trattamento

chemioterapico per tumore mammario, patologie neoplastiche ginecologiche e linfoma

non Hodgkin. L’esperienza italiana di Recchia e collaboratori ha coinvolto 64 pazienti

in età premenopausale trattate con chemioterapia adiuvante per tumore della mammella

operato e goserelin (3.6 mg, ogni 28 giorni) per un anno. Dopo un follow up mediano di

55 mesi, l’86% delle pazienti presentava cicli di ritorno regolari, l’84% delle pazienti

era libero da malattia ed il 94% delle pazienti era vivo (Recchia, 2002). Tali percentuali

sono ampiamente confermati dagli studi di Blumenfeld e Pereyra Pacheco, che

registrano il ripristino dell’attività ovarica, espressa da cicli mestruali regolari, nella

totalità delle pazienti trattate con LHRH analogo, dopo 6 mesi dall’ultima

somministrazione (Blumenfeld, 2001; Pereyra Pacheco, 2001). Questi risultati, seppure

incoraggianti, necessitano di ulteriori verifiche in studi controllati su più ampia scala.

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1. (Menopausa e conseguente) sindrome menopausale indotta nelle

giovani con chemio o LH-RH agonisti: reversibilità? rimedi?

Il controllo dei sintomi menopausali nelle donne curate per carcinoma della

mammella è particolarmente difficile. L’uso di derivati estrogenici non è

raccomandato in questo gruppo di pazienti, in considerazione del ruolo giocato dagli

ormoni sessuali femminili nella cancerogenesi mammaria. La scuola statunitense di

Patricia Ganz ha a lungo studiato valide alternative al problema. L’organizzazione di

un servizio multidiciplinare e l’istituzione di figure professionali ad hoc per un

approccio olistico alla menopausa precoce è efficace sia in termini di riduzione dei

sintomi che di miglioramento della vita sessuale. Tale successo sembrerebbe essere

spiegato non solo dall’expertise di medici e del personale infermieristico dedito al

problema, ma soprattutto dalla funzione educativa ed informativa di un servizio così

strutturato. I sintomi della menopausa precoce, infatti, sono spesso sottovalutati

perché non presi in debita considerazione e/o taciuti.

La terapia sintomatica della menopausa precoce nelle donne curate per

carcinoma mammario è varia. E’ stato dimostrato che il placebo riduce l’incidenza

di caldane del 25% in 4 settimane. La vitamina E, alla dose giornaliera di 800 UI,

sembrerebbe essere di poco superiore al placebo. In considerazione della preferenza

delle pazienti, maggiore per il placebo, la riduzione nell’incidenza di caldane indotta

dalla vitamina E, nonostante la significatività statistica (P < or = .05), ha un impatto

clinico marginale. Gli studi clinici statunitensi condotti con le compresse di soia da

600 mg (corrispondenti a 50 mg giornalieri di isoflavoni di soia) non sono riusciti a

dimostrare un effetto terapeutico dei fitoestrogeni. Al contrario, i nuovi farmaci ad

azione antidepressiva, come il venlafaxine, sembrerebbero ridurre le caldane del

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60%. La durata ottimale del trattamento e le dosi giornaliere di farmaco sono

oggetto di valutazione in studi clinici ancora in corso. L’uso di farmaci, in voga in

passato, come la clonidina, la metildopa e la belladonna va scoraggiato, in

considerazione della scarsa efficacia e dei severi effetti collaterali associati. La

secchezza vaginale può essere alleviata dall’utilizzo di preparazioni lubrificanti

locali. Nel 1997 sono stati introdotti negli USA i primi sistemi a rilascio locale di

estrogeni, tra cui gli anelli di Estring. Tali dispositivi promettono la stessa efficacia

degli estro-progestinici senza essere gravati dall’assorbimento sistemico. Gli studi

longitudinali sulla applicazione di creme locali e sui dispositivi a lento rilascio sono

ancora in corso e la possibilità di un assorbimento sistemico deve essere comunque

prospettata alla paziente fino a quando non si disporrà dei dati finali.

2. Fertilità in donne dopo menopausa indotta da chemio/ormono terapia

L’età di insorgenza della menopausa nelle donne sane è compresa tra i 50 e i

52 anni. Le donne sottoposte a chemioterapia vanno in menopausa a partire dall’età

di 38 anni. La tabella 1 riporta l’incidenza di amenorrea secondaria ai regimi

chemioterapici maggiormente utilizzati nel trattamento adiuvante delle donne

operate per carcinoma mammario allo stadio precoce. I medici solitamente

consigliano di procrastinare il desiderio di gravidanza fino a 2-5 anni dopo il

trattamento. Tale raccomandazione si basa sull’evidenza che le recidive di malattia

si verificano solitamente entro i primi due anni dal trattamento e che il tamoxifene,

somministrato per 5 anni come terapia adiuvante, ha dimostrato effetti teratogeni

sulla cavia. I dati della Letteratura internazionale dimostrano che una percentuale

variabile dal 7%-11% delle donne curate per carcinoma mammario porta a termine

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1 o più gravidanze; il 70% delle donne diventa madre entro 5 anni dal trattamento

antitumorale.

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3. Uso di derivati di estro progestinici in donne giovani in menopausa

dopo trattamento per K mammella

I modulatori selettivi dei recettori degli estrogeni, correntemente utilizzati

nel trattamento del carcinoma mammario, come il tamoxifene, proteggono

dall’osteoporosi ed esercitano un effetto benefico sul sistema cardiovascolare, ma

aumentano l’incidenza di caldane, soprattutto nei primi anni della menopausa. In

alcuni paesi occidentali, il trattamento dei sintomi vasomotori prevede l’utilizzo dei

progestinici (megestrolo, medrossiprogesterone acetato), ma la sicurezza di tali

composti non è mai stata testata in studi su larga scala e il dubbio che possano

essere potenzialmente dannosi non è mai stato risolto. Gli studi clinici randomizzati

sulla pratica dell’ormonoterapia sostitutiva nelle donne curate per carcinoma

mammario sono attualmente in corso (lo studio più importante si chiama Hormone

Replacement Study After Breast Cancer: Is it Safe? (HABITS), è scandinavo e viene

coordinato dal Dr. Lars Holmberg dell’Università di Uppsala). I dati preliminari di

confronto sembrerebbero comunque escludere un aumento del rischio di ricaduta o

di incidenza di nuove neoplasie nelle pazienti sottoposte a ormonoterapia e

precedentemente curate per carcinoma mammario al primo o al secondo stadio (77

donne) se confrontate con la popolazione sana (222 donne). Il numero esiguo delle

donne arruolate e il breve periodo di follow up impediscono, comunque, conclusioni

definitive. Nuove linee di ricerca studiano l’associazione di Tamoxifene ed

estrogeni coniugati. Tali studi muovono dall’evidenza che il Tamoxifene funziona

come agente antitumorale nelle donne affette da carcinoma mammario avanzato e

che continuano a mestruare. Pertanto, l’associazione di un antiestrogeno con bassi

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livelli di estrogeni coniugati potrebbe esercitare un effetto protettivo antitumorale e

assicurare livelli ormonali capaci di impedire l’insorgenza dei sintomi menopausali.

Gli studi di associazione sono ancora in corso e i dati disponibili sono ancora troppo

preliminari per permettere una applicazione di tale associazione nella pratica clinica

corrente. Il tibolone sembrerebbe una alternativa attraente all’ormonoterapia, ma

deve essere ulteriormente validato. In considerazione della mancanza di dati

convalidati e del rischio relativo di carcinoma della mammella associato all’utilizzo

continuativo di estro/progestinici, la prescrizione dell’ormonoterapia sostitutiva, al

dosaggio minimo e per un breve periodo di tempo, deve essere sempre preceduta

dall’informazione circa gli effetti collaterali ed i benefici ad essa associati e la

decisione di iniziare o meno il trattamento deve essere presa dalla paziente.

4. Gravidanza e rischi (e/o benefici) dopo trattamenti per K mammella

Lo studio di Mulvihill et al ha valutato le gravidanze di 58 donne

precedentemente chemiotrattate e gravide dopo un periodo di tempo medio di 27 mesi

(range, 2 to 104 mesi) dalla fine del trattamento. L’incidenza di anomalie congenite non

sembra essere superiore rispetto alla popolazione generale, tuttavia entro il primo anno

dalla fine del trattamento si registra un aumento dei parti precoci e dei nati sottopeso. La

tabella 2 riassume i dati degli studi che hanno valutato l’esito della gravidanza in

pazienti curate per carcinoma mammario. Il numero di interruzione volontarie della

gravidanza risulta maggiore negli studi più datati e può essere spiegato dalle minori

conoscenze sull’argomento gravidanza e carcinoma mammario rispetto ai giorni nostri.

Danforth ha valutato complessivamente tutti gli studi realizzati sulle donne diventate

madri dopo la diagnosi di carcinoma mammario a partire dal 1965 fino al 1986. Su una

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popolazione totale di 465 donne, la sopravvivenza a 5 anni per gli stadi I e II non è

risultata diversa rispetto a quella delle pazienti non gravide (Tabella 3). Negli studi di

confronto tra gravidanze singole e multiple, è stata evidenziata una tendenza a

sopravvivenze migliori per le gravidanze multiple. E’ bene, comunque, precisare che la

prognosi del carcinoma mammario cambia rispetto al tempo della gestazione. In uno

studio in cui il carcinoma mammario veniva diagnosticato dopo il parto, durante la

gravidanza o l’allattamento, la prognosi a 5 anni è risultata migliore per le donne incinte

dopo la diagnosi (80%), rispetto alle altre (31% e 35%, rispettivamente). Von Schoultz

ha affrontato il problema da un altro punto di vista. L’autore ha studiato l’impatto

prognostico della gravidanza 5 anni prima o dopo la diagnosi di carcinoma mammario.

Lo studio condotto su 2119 donne non ha dimostrato alcuna differenza in termini di

sopravvivenza a 5 anni tra i due gruppi. Tuttavia, l’incidenza di metastasi a distanza è

risultata più bassa nelle donne con gravidanza a termine entro i 5 anni dalla diagnosi.

L’impatto della gravidanza sulla prognosi da carcinoma mammario può essere dedotto

solo da studi retrospettivi, dal momento che non è proponibile uno studio randomizzato

gravidanza post trattamento verso controllo. Pur considerati i limiti di questi studi,

rappresentati dalla selezione della popolazione, dal piccolo numero delle donne

arruolate e dal presupposto che solo le donne che si sentono bene affrontano la

gravidanza, è evidente che la gravidanza esercita un effetto protettivo nelle donne curate

per carcinoma della mammella (Tabella 4). Due ipotesi supportano l’effetto protettivo

della gravidanza. La tesi ormonale sostiene che gli alti livelli di estrogeno prodotti

durante la gestazione esercitano un’azione simile a quella curativa del dietilstilbestrolo,

la prima molecola (un estrogeno) utilizzata nel trattamento del carcinoma mammario

metastatico. L’altra ipotesi vede nelle modificazioni del sistema immunitario indotte

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dalla gravidanza la chiave di volta antitumorale con la riduzione della tolleranza

immunitaria sostenuta dall’abbassamento della risposta cellulo-mediata e l’aumento

della risposta umorale.

5. Effetto protettivo delle gravidanze precoci e plurime

La gravidanza a termine prima dell’età di 20 anni riduce il rischio di cancro

della mammella di circa il 50%, rispetto allo stesso evento verificatosi ad età > 35 anni.

Un numero complessivo elevato di gravidanze sembra associarsi ad una riduzione del

rischio. Al contrario, l’interruzione della gravidanza sembrerebbe aumentare il rischio di

carcinoma mammario. L’allattamento al seno esercita un effetto protettivo

sull’insorgenza di carcinoma mammario, come dimostrato da uno studio osservazionale

su 329 donne di età compresa tra 25 e 54 anni e realizzato agli inizi degli anni ottanta e

come confermato dalla revisione sistematica della letteratura che ha raccolto dati su

50302 donne con carcinoma mammario e 96973 controlli. Il rischio di insorgenza di

tumore della mammella nelle donne che allattano è pari alla metà di quello mostrato

dalle donne che non lo fanno.

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Tabella 1 Amenorrea secondaria da chemioterapia adiuvante nel carcinoma mammario operato

Tabella 2 Risultati della gestazione nelle pazienti con storia di carcinoma mammario

Ribeiro Malamos Dow Sutton

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Tabella 3 e 4 Prognosi delle pazienti con una o più gravidanze a termine dopo il carcinoma alla mammella

Cooper and Butterfield Clark and Ried

Cooper and Butterfield Sankllar Lethaby Mignot Ariel Petrek

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Ringraziamenti

Alle 250 donne malate di carcinoma della mammella assistite ogni anno presso

la Divisione di Oncologia Medica A dell’Istituto Regina Elena di Roma.

Ai colleghi di lavoro: Dr. Gianluigi Ferretti, Dr. ssa Paola Papaldo, Dr. ssa

Alessandra Fabi, Dr. Paolo Carlini, per la contagiosa curiosità intellettuale e scientifica.

Al Prof. Francesco Cognetti, Direttore Scientifico dell’Istituto Regina Elena, per

la promozione ed il coordinamento dei progetti di ricerca sui tumori giovanili e per gli

insegnamenti ricevuti.