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Edwin Charles Tubb I Posseduti Edizioni Della Vigna La Botte Piccola n. 6 www.edizionidellavigna.it

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Edwin Charles Tubb

I Posseduti

Edizioni Della Vigna

La Botte Piccola n. 6

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Per la presente edizione,©2009 Edizioni Della Vigna di Petruzzelli Luigi - Arese (MI).

È vietata la riproduzione, anche parziale, senza il consensoscritto dell’editore.

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ISBN 978-88-6276-021-8

Printed by arrangements with the author’s agent, PHILIPHARBOTTLE of Cosmos Literary Agency

THE POSSESSED copyright © 2005 by E. C. TubbWHEN HE DIED copyright © 1956 by E. C. Tubb for AuthenticScience FictionJ IS FOR JEANNE copyright © 1965 by E. C. Tubb for New WorldsScience FictionLEGAL EAGLE copyright © 1956 by E. C. Tubb for AuthenticScience FictionEVANE copyright © 1973 by E. C. Tubb for New Writings in SF #22

Traduzione dall’inglese di Luigi Petruzzelli, copyright ©2009

Il signor Tubb, suppongo? e Bibliografia di Edwin Charles Tubbcopyright ©2009 Riccardo Gramantieri

Cover image by Ron Turner, courtesy by Philip Harbottle,copyright ©1999 Ron Turner’s Estate

Illustrazioni interne ©2009 Roberto Martinelli

L’immagine usata come separatore tra i paragrafi è ©iStockphoto.com/JamieFarrant

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Indice

Il signor Tubb, suppongo?di Riccardo Gramantieri ..............................................vii

I Posseduti ........................................................... 15I - Terrore nella notte ................................................. 19II - L’aculeo della morte ............................................ 25III - Con i piedi per terra ........................................... 30IV - Strani pazienti ..................................................... 40V - Squadra di esecuzione ........................................ 49VI - Trattare con cautela ............................................ 59VII - Amici e vicini ..................................................... 67VIII - Agnelli al macello ............................................ 74IX - La paura si mette a fuoco .................................. 82X - I posseduti ............................................................. 95XI - Gli ignari ............................................................ 102XII - Fuoco purificatore ........................................... 110XIII - Siate i benvenuti ............................................. 119XIV - Organizzazione disumana ........................... 129XV - Olocausto .......................................................... 136XVI - Spettatori invisibili ........................................ 145

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Evane .................................................................. 151J come Jeanne .................................................... 165Astuzie d’avvocato........................................... 177Quando morì ..................................................... 203Bibliografia a cura di Riccardo Gramantieri ............. 215

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I. - Terrore nella notte

Si svegliò, il cuore che batteva terrorizzato, il corpoumido di sudore. Era sdraiata nella fitta oscurità soffo-cante della sua stanza, con gli occhi spalancati, le orec-chie intente a captare il sommesso suono alieno, ogninervo e ogni muscolo tesi. Giunse di nuovo... prodottodai lievi, furtivi gesti che mettevano alla prova la suaporta.

Scese in fretta dal letto, inspirando profondamente,lieta d’aver preso la precauzione di incastrare una seg-giola sotto la maniglia. Ora, anche se avevano la chia-ve, non avrebbero potuto raggiungerla. Non potevanoaprire la porta.

Udì un’esclamazione, come sussurrata. La sediascricchiolò sotto lo sforzo: per un attimo angoscioso,pensò che avrebbe ceduto. Poi ci fu il silenzio, mentrein lei si insinuava una sensazione di orrore crescente.Si mosse nervosa nel buio.

Cercò a tentoni l’interruttore della luce. Lo fece scat-tare. Trovò le sigarette e se ne accese una. Inalò profon-damente, quasi con ingordigia, trattenendo il fumo neipolmoni per un istante molto lungo prima di lasciarlofuoriuscire dalle labbra rosse, carnose.

La sigaretta le servì per riprendersi. Ora si era ac-corta che la camicetta bianca era madida di sudore:appiccicata alla pelle. Se la tolse velocemente, ne trovòun’altra grigia, attillata, quindi indossò una giacca. Letremavano le mani mentre, lentamente, si infilava lescarpe.

Era snella e bruna, e i suoi occhi scuri erano ango-sciati. Adesso sapeva di doversene andare subito. Losapeva con assoluta certezza. Le ultime ventiquattr’oreerano un ricordo confuso e sgradevole: un periodo ditempo durante il quale non era certa di nulla, neppuredella propria identità. Ma ora era come se dalla mente

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le fosse stata in parte alzata una cortina di nebbia.C’era qualcosa che proprio non andava, lì a

Kirkbreck. C’era qualcosa che proprio non andava finda quando Mercer, il direttore, era rimasto coinvolto inun incidente e si era ammalato in modo serio poco piùdi una settimana prima.

Lei non sapeva di che si trattasse. Non riusciva adefinirlo. Tutto ciò che sapeva era che il carattere dichiunque fosse impegnato al Centro di Ricerche Spazialiaveva subito un sottile cambiamento negli ultimi gior-ni. E si trattava di un cambiamento in peggio.

Nell’aria si respirava la malvagità. Lo sentiva. Intor-no a lei stavano delle forze maligne, che la opprimeva-no da ogni lato. Doveva uscire. Adesso. Stanotte. Primache le accadesse qualcosa di ancor più orribile. Primache fosse troppo tardi.

«Eva...»Una voce smorzata pronunciò il suo nome e lei si

alzò di scatto, tremando. Aveva creduto che chi avevaprovato ad aprire la porta in modo tanto furtivo se nefosse andato, chiunque fosse.

«Eva...»«Chi è?»«Non mi conosci, Eva?» La voce la derideva. Con len-

tezza, si sentì trascinare attraverso la stanza, contro lapropria volontà. Stette accanto alla porta, tremandoancora. «Sono Glenn. Mi conosci, vecchia mia.»

«Il dottor Glenn?»Egli era cambiato più di chiunque altro al Centro.«Certo...» La voce si abbassò fino a un suadente

mormorio, che le fece venire la pelle d’oca. «Adesso per-ché non apri la porta e mi fai entrare...»

«No!» Il diniego fu istintivo, e le esplose dalla golatesa. Ne uscì qualcosa di molto simile a un grido. Lapressione alla porta si fece impaziente.

«Sei proprio una sciocca, Eva.» Glenn sembrava irri-

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tato. «Apri la porta, da brava ragazza. Voglio parlarti,»proseguì.

«Alle tre di notte?»«Sì.»«Di che?»«Di te, intanto. Puoi non rendertene conto, ma sei

una giovane molto malata.»Le gambe di Eva ricominciarono a tremare. L’intero

corpo si scosse. Non era in grado di controllarsi. Ma lesfuggì un «Non ho niente che non va.»

«Oh, invece sì, Eva.» La voce di Glenn era gentile epersuasiva. «Sono dottore in medicina, ricordatelo. Nonin altre discipline scientifiche, come te o gli altri. Dovreisaperlo. Hai proprio qualcosa che non va, Eva. Ti com-porti in modo strano da giorni... fin da quell’incidentecon l’ogiva. E poi, ieri, ricordi?, ti sei fatta un taglio allamano nel laboratorio...»

«Non era nulla. Un graffio.»«... ma ti ho praticato un’iniezione di penicillina, tanto

per stare tranquilli. Meglio andare sul sicuro piuttostoche doversene pentire più tardi, no? Ma tieni presenteche purtroppo ti sei rivelata allergica alla penicillina.Te lo ricordi?»

Eva se ne ricordava, ma non con chiarezza. Ram-mentava il taglio, e come Glenn aveva insistito per l’inie-zione. Rammentava quella strana, strisciante confusionementale che ne era seguita. Era una cosa che, in tuttala sua vita, prima non aveva mai provato.

Non era allergica alla penicillina. Era una menzo-gna. In passato le avevano praticato iniezioni abbastanzaspesso, ma nessuna come questa! Ricordava la paurache le traspirava come sudore.

Una paura gelida, irrazionale, che si era accresciutain sintonia con la sua confusione mentale. Un timoreistintivo. Ma non per questo meno reale.

Era il terrore di un animale braccato dal crudele

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predatore che si aggira nella notte. Un terrore checresceva, e cresceva. Si era impossessato di lei. Epoi...?

Non riusciva a ricordare tutto quel che era successoin seguito. Intere ore si confondevano in un vortice daincubo di voci e volti dagli occhi malvagi e di un terribi-le, incessante, onnipresente senso di terrore.

Si ricordava di aver lottato contro Glenn, di averlorespinto. Ricordava di essersi precipitata nel corri-doio, verso la sua stanza; qualcuno l’aveva insegui-ta. Non dovevano prenderla. Ricordava di aver sbat-tuto la porta e di averla chiusa a chiave, ansimandonella fretta. Ricordava di aver incastrato la sedia sot-to la maniglia...

«Ti ricordi tutto adesso, eh?» Glenn era ancora là.Ancora sull’altro lato della porta. «E sicuramente ades-so ti renderai conto di quanto ti sia comportata stupi-damente.»

La voce era gentile. Discuteva con Eva come si facon una bambina.

«Sembri spaventata. Spaventata da uomini che co-nosci e con cui lavori in questo Centro da quasi dueanni. Due anni! Questa faccenda è insensata, irrazio-nale! Perché improvvisamente dovresti avere tutta que-sta paura? Gli uomini che sembri temere non sono cam-biati. Negli ultimi giorni non gli sono spuntate due te-ste, né si sono ammalati di satiriasi. Sono tutti scien-ziati, intelligenti e responsabili, come sono sempre sta-ti. Sono tuoi amici, Eva. Sono tutti degli inoffensivi im-piegati del Ministero della Ricerca, proprio come te. Sonotutti pubblici dipendenti...»

La frase fu accompagnata da una lieve risata sprez-zante.

«... ecco perché i tuoi timori sono assurdi, Eva. Chidiamine potrebbe aver motivo di temere un pubblicodipendente britannico? Adesso... perché non apri la

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porta da brava bambina, eh? Fammi entrare. Non staibene. Posso aiutarti. Darti qualcosa...»

«No!»«Ma perché no?»«Cosa mi daresti? Altra penicillina?» disse Eva a scat-

ti; quindi cadde il silenzio. Un lungo silenzio, che indi-cava che l’uomo all’esterno stava pensando attentamen-te, scegliendo le parole con cautela.

«Credo che tu sia pazza, Eva,» affermò infine. «Nonc’è nient’altro che possa giustificare il tuo comporta-mento. Non ho mai visto un’allergia alla penicillina...»

«Non ho nessuna allergia, e tu lo sai!»Ancora silenzio. Un silenzio prolungato.Eva attendeva una risposta. Non ne giunse nessu-

na. Poi ascoltò alla porta, sforzandosi di percepire il piùdebole suono.

Udì quelli che avrebbero potuto essere un sospirosmorzato e il rumore strascicato di passi che si allonta-navano; così inspirò profondamente, sollevata, e poi,espirando altrettanto profondamente prima di ripren-der fiato, cercò di ossigenare il sangue per scaricare unpo’ di tensione.

Lanciò un’occhiata al suo orologio. Le tre e dieci,ormai avrebbe dovuto essere saporitamente addormen-tata. Ma sapeva che non avrebbe più potuto dormire inquella stanza. Per una volta la sedia aveva retto, maavrebbe potuto non resistere una seconda, e lei nonosava essere colta di sorpresa.

E allora... che fare?Doveva andarsene da Kirkbreck. L’avrebbe fatto ora.

Non importava se la gente l’avesse presa per una pazzaisterica. Non importava se avesse perso il lavoro. Nonimportava se la Sicurezza l’avesse eliminata dalla listadel personale gradito al Centro di Ricerche Spaziali o sei dirigenti del pubblico impiego l’avessero completamenteannientata. Doveva andarsene!

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Stava accadendo qualcosa al di fuori della suacomprensione, che la terrorizzava. Doveva fuggire dalCentro, nel mondo esterno, prima di essere nuovamen-te preda di una paura incontrollabile.

La sua sanità mentale, ne era convinta, dipendevadalla fuga.

Così, ancora una volta, ascoltò alla porta... e nonudì nulla. Nessuno scalpiccio irrequieto. Nessun respi-ro. Nulla.

Per quanto fosse in grado di stabilire, il corridoioall’esterno era vuoto. Lentamente, tolse la seggiola, chele era servita come cuneo, e aprì la porta.

Si tenne pronta a chiuderla precipitosamente al pri-mo segno di pericolo, ma non accadde nulla. La lucedella camera si riversava nel corridoio davanti a lei, perricadere brillante dritto sulla parete opposta. L’ansia diEva tornò: il corridoio era immerso nell’oscurità, ma disolito, persino di notte, era vividamente illuminato.Qualcuno aveva spento le luci. Perché?

Era un’altra domanda senza risposta. Non stette aperderci tempo. Non riusciva più a resistere all’impulsodi andarsene. Uscì in fretta nel corridoio, e lo percorsequasi di corsa. Giunta a un incrocio a ‘T’, svoltò a de-stra.

E proprio dietro l’angolo, con un sorriso crudele sulviso scarno, Glenn la stava aspettando!

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II. L’aculeo della morte

Eva si girò di scatto... e fuggì. Glenn era un nemico.Tornò correndo dalla strada da cui era venuta. Cor-

se alla cieca, come in un incubo, i tacchi che ticchetta-vano sul pavimento di pietra, il respiro che le uscivaquasi in un singulto.

Mentre correva, poteva udire il suono di altri piedifrettolosi dietro di lei, e seppe che il dottore la stavainseguendo. La sua voce riecheggiò intorno a lei.

«Eva... fermati! Non ti farò del male!»Eva continuò a correre.«Non essere sciocca!» La voce di Glenn salì e si incri-

nò nell’impazienza. «Qual è il problema? Di che diami-ne hai paura? Fermati!»

Ma Eva non obbediva.Corse oltre la porta spalancata della sua stanza,

proseguendo lungo il corridoio fino a un altro incrocio a‘T’. Poteva uscire dall’edificio da entrambe la parti.

Esitò leggermente prima di lanciarsi oltre l’angolo asinistra. Ci sarebbe stato qualcun altro a tenderle unagguato? Quando udì che Glenn stava arrivando in fret-ta, non esitò più. Si tuffò nell’oscurità e il cuore le balzòin petto dal sollievo nell’accorgersi che nessuno si frap-poneva per fermarla.

Ma il sollievo ebbe vita breve.Udì Glenn che raggiungeva l’angolo dietro di lei, e

cercò di guadagnare un altro po’ di velocità per distan-ziare il dottore... e poi un piede le scivolò. Andò a sbat-tere contro una parete e cadde pesantemente, urlando.Si strappò la gonna; cercò di rialzarsi, e scivolò. Sentìsotto le mani il pavimento reso liscio da qualcosa diviscido.

Olio!Qualcuno aveva cosparso di olio il corridoio e lei ci

era corsa direttamente sopra. Come mezzo per fermare

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un fuggitivo era stato estremamente efficace. La cadutale aveva slogato il ginocchio e le aveva mozzato il respi-ro. Glenn l’aveva quasi raggiunta!

Tentò di nuovo di alzarsi, e cadde di nuovo. Il dolorele colpì il ginocchio. Inveì contro l’olio che aveva reso ilpavimento di pietra scivoloso come vetro.

Gettò un’occhiata frenetica alle spalle: Glenn erasoltanto a pochi metri. Si strappò le scarpe e le lanciòin faccia al dottore.

Lo colpirono con un suono secco, violento. E, men-tre lo colpivano, Eva riuscì a riguadagnare la stazioneeretta. Era quasi riuscita a sfuggire alle mani di Glennche cercavano di afferrarla. La sua gonna si lacerò un’al-tra volta. Cercò di correre, urlò per il dolore al ginoc-chio, e ricadde. Questa volta si trascinò dietro Glenn,continuando a rotolare. Lo colpì con una testata, lomorse, sollevò di scatto il ginocchio; e poi, chissà come,fu di nuovo in piedi, e zoppicando avanzò il più veloce-mente possibile nel tentativo di riguadagnare la sicu-rezza della propria stanza. Qualunque altra cosa erafuori discussione.

Non poteva uscire dall’edificio. Non stanotte, non conun ginocchio ferito.

Dietro di lei, Glenn aveva ripreso l’inseguimento.«Eva! Non essere così sciocca! Cosa speri di guada-

gnarci?»Eva non aveva il tempo e la forza di rispondere, né

aveva fiato da sprecare. Barcollò affannosamente versola propria stanza. La luce risplendette dalla porta aper-ta: ancora pochi passi, un ultimo guizzo e sarebbe sta-ta al sicuro fino al mattino. Una volta dentro, avrebbepuntellato di nuovo la porta, e alla mattina forse avreb-be trovato il modo di mettersi in contatto con il diretto-re Mercer.

Forse la personalità di tutti gli altri al Centro eramisteriosamente cambiata, ma il direttore era una roc-

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cia: non poteva cambiare. Era gravemente malato, cer-to, ma, malato o no, se avesse saputo...

Eva raggiunse l’uscio spalancato della propria stan-za e lo oltrepassò barcollando, poi si arrestò brusca-mente nel riconoscere l’uomo seduto sul letto.

Restò sbigottita per il sollievo, quasi incredula. «Di-rettore! Ma...»

«Ciao, Eva.»Il direttore Mercer si alzò sorridendo. Era un uomo

piccolo, esile, con un’alta fronte a cupola e una cortabarbetta appuntita. Il colorito era giallognolo, e avevadella borse sotto gli occhi, che pur mantenevano il con-sueto luccichio. Aveva sempre ricordato a Eva uno gno-mo bonario.

«... ma credevo che lei fosse ancora gravemente ma-lato in infermeria, signore...» sbottò Eva. «Credevo...»

Il sorriso del direttore Mercer si allargò. «Sei sorpre-sa, Eva?»

Certo che lo era!Aveva visto Mercer per l’ultima volta poco più di una

settimana prima, subito dopo che il direttore era rima-sto coinvolto in un incidente. Al momento era parso, inun modo che aveva del prodigioso, un incidente di lieveentità... ma aveva avuto una grave conseguenza.

L’ogiva di una sonda spaziale rientrata sulla Terra,inviata al Centro affinché fosse esaminata, si era sgan-ciata dalle catene mentre la spostavano verso il com-plesso dei laboratori con una gru, e si era schiantata,con tutti i suoi cento chili, proprio sul luogo in cui ildirettore si era trovato fino a poche frazioni di secondoprima.

Era un’ogiva alquanto speciale e il direttore Mercerstava sovrintendendo personalmente al suo trasferimen-to dal rimorchio che l’aveva condotta a Kirkbreck. Seavesse avuto i riflessi meno pronti, anche solo di poco,se non fosse balzato all’indietro subito mentre le catene

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si sganciavano e l’ogiva cadeva bruscamente, avrebbepotuto restare ucciso sul colpo!

Nonostante ciò, l’ogiva cadendo lo aveva graffiato.Ci era mancato poco. Aveva strappato un po’ di pelledal dorso della mano protesa, aveva fatto uscire un po’di sangue e l’aveva lasciato molto scosso. Ma, tutto con-siderato, era stato davvero fortunato... o almeno cosìtutti avevano pensato fino a poco dopo, quella stessamattina. Poi, senza preavviso, il direttore Mercer si eraaccasciato.

Questa era l’ultima volta che Eva lo aveva visto. Selo ricordava così: privo di conoscenza, il volto livido, ilrespiro irregolare. Sembrava che lo shock dell’inciden-te gli avesse fatto venire un colpo apoplettico.

Quello era anche il parere di Glenn, così il direttoreera stato trasportato nell’infermeria del Centro. Là, Evaaveva saputo nei giorni che erano seguiti, Mercer si stavariprendendo bene. Ma non si sarebbe mai aspettata unaripresa così rapida e completa quanto questa!

«Grazie a Dio,» mormorò. E poi...Fronteggiò Mercer. Attaccò con urgenza: «Signore,

c’è qualcosa che devo dirle. Io...» Parlava in fretta, ma ildirettore fu altrettanto rapido nell’interromperla.

«Devo dirle qualcosa, Eva. E chiederle qualcosa.»La sua voce era calma e seria. Voleva davvero sapere.«Perché sei fuggita, Eva? Cos’è accaduto per renderti

tanto sospettosa? Ci hai creato un bel po’ di problemi.»Lei lo guardò a bocca aperta. «Problemi?» gli fece eco.«Beh, sì. Barricarti in questa stanza, e poi scappare

così.» Mercer scosse il capo con aria stupita. «Non rie-sco a capire perché la prima iniezione che ti ha pratica-to Glenn non ha preso il controllo completo del tuo id.Con tutti gli altri ha funzionato.»

«Cosa...» Eva indietreggiò per lo shock rendendosiconto di quel che stava dicendo Mercer. «Lei vuol direche...»

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«Certo.» Il direttore sbirciò alle spalle di Eva. «Tuttobene, Glenn. Non occorre indugiare oltre.»

Eva si era scordata del dottore. All’improvviso cercòdi voltarsi, di resistere, ma le mani dell’altro si chiuserosul suo corpo e la trattennero inerme. Mercer prese dallatasca una piccola custodia per strumenti ricoperta dipelle, la aprì e ne estrasse una siringa ipodermica.

«Non ti farà nessun male,» le disse amabile. «Questavolta è una dose doppia, e ti renderà davvero una dinoi!»

Eva urlò e lottò, senza risultato. Gli occhi di Merceravevano perduto il luccichio abituale. Erano avidi.

Il morso dell’ipodermica fu come la puntura diun’ape.

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III. Con i piedi per terra

Il motore della Bentley Continental grigio-argentod’epoca ronzava sommesso mentre la lunga vettura, ri-bassata e slanciata, divorava i chilometri. Era il suonoregolare, autocompiaciuto di un meccanismo tenuto allaperfezione.

Il conducente sedeva a proprio agio dietro il volante,le mani muscolose, esperte, appoggiate con salda deli-catezza al bordo esterno. Sul bel viso scarno gli occhiblu-grigi stavano sempre all’erta, mentre vagavano senzaposa per la strada davanti.

L’automobile viaggiava rapida. La lancetta del tachi-metro stava nella parte alta del quadrante: era rimastaintorno a quella posizione fin da Glasgow, eppure nonaveva mai oltrepassato i limiti di una guida sicura. Neltraffico confuso e pressante della maggior città scozze-se, o su una strada poco frequentata delle Highlandscome questa, Martin Slade non era uomo da rischiarevite innocenti solo perché era alla guida di una macchi-na potente.

«Una vista meravigliosa.» Alan Conroy, capo artico-lista del Daily Dispatch, spostò la sua mole nel sedileaccanto a Slade elogiando i dintorni con lo sguardo.Avevano attraversato la contea di Ross e Cromarty e sistavano dirigendo in Caithness. L’aroma caldo dell’eri-ca e del ginestrone inondati dal sole entrava dai fine-strini aperti dell’auto e, tutto intorno, l’aspra bellezzadelle Highlands Scozzesi si estendeva fino all’orizzonteimmerso in una nebbia di porpora.

Conroy fiutò l’aria come un buongustaio, gonfiandol’ampio petto. Espirò lentamente, con un profondo so-spiro soddisfatto.

«Meraviglioso, vero?» domandò. «Questo è vivere! Cheterra! E che aria! Confrontala con quella zuppa che dob-biamo respirare a Londra! Sai...» proseguì, «... un gior-

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no qualche astuto scozzese inscatolerà questa roba e lavenderà come prodotto originale, assolutamente auten-tico. E scommetto anche che ci farà una fortuna.»

Una delle nere sopracciglia luciferine di Slade si inar-cò come per una modesta sorpresa.

«Ci stiamo commuovendo, eh? Non sapevo che tufossi un amante della natura, Scoop.»

Sollevò appena il piede dal pedale dell’acceleratore espostò il volante con tocco abile. Gli pneumatici si la-mentarono brevemente mentre la grossa auto affronta-va la curva a tutta velocità. «In effetti,» aggiunse, «nonsapevo neppure che tu fossi sveglio.»

«Che? E perdermi tutto questo? Solo perché me nesono stato qui seduto senza fiatare...» Conroy protestòcalorosamente. «Stavo pensando all’articolo che devoscrivere.»

Slade sorrise.«Pensi sempre con gli occhi chiusi?»«Spesso,» dichiarò fiaccamente il giornalista.«E russi?»Non giunse risposta. Era stato un lungo viaggio da

Glasgow, lo avevano iniziato alle prime luci dell’alba.Più avanti si trovava l’incarico che il direttore di Conroygli aveva affidato: un’intervista col direttore del CentroRicerche Spaziali di Kirkbreck, quindici chilometri aovest di Thurso, e un giro guidato allo stesso Centro.

Era un incarico di routine: un po’ fuori dall’ambitousuale del giornalista, ma niente che non fosse in gra-do di affrontare. Si sarebbe trattato, ne era sicuro, diuna monotona e anche un po’ noiosa raccolta di dati ecifre riguardanti il Programma di Ricerche GeofisicheBritanniche, da scrivere a scopo divulgativo.

Certo nulla di cui entusiasmarsi, pensò Conroy. E,cullato dal movimento uniforme dell’auto e dal tenueronzio del motore, presto si appisolò.

Dei due il più interessato era Slade. Lui era quello

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che raccoglieva notizie e informazioni soprattutto pergusto personale. E quando, nello sbrigare altre faccen-de, si era visto a Glasgow con Conroy per un bicchieri-no, era venuto a conoscenza dell’incarico e si era offer-to di seguirlo. Il giornalista aveva ben accolto la suacompagnia in quel che, per lui, era un lavoro di routine.

Né per Slade erano state d’ostacolo le procedure disicurezza. Molte volte in passato, sia in Gran Bretagnasia all’estero, si era rivelato un fedele suddito della Co-rona.

Adesso Conroy si sollevò sul sedile e dallo scompar-to per i guanti tirò fuori delle carte stradali. Le studiòintento, controllò il paesaggio circostante, buttò un’oc-chiata al contachilometri e osservò una bussola che siera tolto di tasca. Poi eseguì alcuni rapidi calcoli sulretro di una vecchia busta, contrasse le labbra e siaccigliò.

«Va bene, Magellano,» disse Slade. «Dove siamo?»Conroy si grattò il capo. «A tre chilometri dal centro

dello stretto di Pentland Firth?» buttò lì, non troppoconvinto.

Slade rise. «Proprio no, disse.» «Ormai quasi ci siamo.»«A Kirkbreck?»Slade annuì.Conroy guardò fisso fuori dal finestrino. «È facile

perdersi, qua in giro.»Era solo una constatazione.Ora la strada che percorrevano si immetteva in un’al-

tra che li avrebbe condotti tra colline torreggianti dacui dei torrentelli luccicavano sgorgando fuori dall’eri-ca. A parte una linea telefonica e la stessa strada chepercorrevano, l’intera area sembrava rude, primitiva,non sfiorata dalla civiltà. Bastava poca fantasia perimmaginare i robusti membri di un clan di un’epocapassata correre sull’erica in una delle loro scorribande,con i kilt e i plaid che ondeggiavano al vento.

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«Ancora solo un chilometro,» disse Slade, «e dovrem-mo vedere il Kyle di Kirkbreck...»

«È una baia, no? Una specie di insenatura...»«Un’insenatura lunga e stretta,» concordò Slade. «Il

Centro di Ricerche Spaziali dà su di essa.»«Si godono un bel panorama,» osservò Conroy.Ma non era così.Il Kyle di Kirkbreck era un luogo brullo e desolato.

Qualche uccello marino strideva solitario su rocce te-tre, spoglie, crollate. Il mare urlava nello schiantarsisotto alte scogliere.

Ma se il Kyle era cupo, il Centro di Ricerche Spazialilo era ancor di più. Non avevano compiuto nessuno sfor-zo per camuffare l’evidenza grigia e desolata della soli-da struttura squadrata di calcestruzzo. Sembrava piùun carcere che un centro di ricerche governativo e,mentre la Bentley vi si avvicinava, Slade lo disse.

Conroy scrollò le spalle.«Lo hanno costruito in fretta,» li scusò. «E, in un cer-

to senso, è un carcere. L’unica differenza è che è statoprogettato per tenere la gente fuori anziché dentro. Cistanno facendo un lavoro alquanto importante, sai.»

Slade lo sapeva... e poteva capire perché Kirkbreckera così isolata. Qui venivano inviate le ogive delle sondeche erano state lanciate oltre l’atmosfera terrestre, nel-lo spazio. Le ogive contenevano dei recipienti che rac-coglievano campioni del vuoto quasi assoluto degli stratipiù alti; i gas rarefatti della ionosfera, e anche oltre. Ilvento solare. Qui, al Centro, si collaudava anche la re-sistenza al calore delle leghe che costituivano le ogive.

Slade era pienamente conscio dell’importanza dellericerche spaziali. Sapeva che ogni grande potenza eraansiosa di far di tutto per non perdere terreno in que-sto campo vitale. I russi con i loro Sputnik erano stati iprimi, poi gli americani con i programmi Pioneer eApollo. Per molti anni il Regno Unito era rimasto indie-

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tro, accontentandosi di svolgere un ruolo marginalenell’ESA, finché il successo dei cinesi e di altre nazioniaveva mostrato che restare indietro era pericoloso. Ades-so proprio tutti erano determinati a scoprire quanto pos-sibile sulle condizioni che esistevano oltre l’atmosferaterrestre, e a sfruttare la nuova frontiera con satelliti esonde.

Il valore scientifico di tali informazioni era incalco-labile. Di conseguenza, era ovvio il motivo per cuiKirkbreck fosse stato costruito in tutta fretta in un luo-go tanto isolato. Il Centro era di importanza vitale perla nuova tecnologia.

Tutti questi pensieri attraversarono la mente diSlade, che poi fece fermare la Bentley innanzi alle enor-mi porte. Ridusse il regime del motore e azionò i freni.Guardò Conroy. «Beh, eccoci.»

«Senza comitato di ricevimento?» Il giornalista ag-grottò le sopracciglia. «Bel modo di trattare la Stampa.»

«Forse nessuno si è preso il disturbo di informarliche stavamo arrivando.»

Conroy si mosse con impazienza. «Ma certo che sonostati avvisati. Cavoli, Slade, il mio direttore sta facendocarte false per questa visita da un mucchio di tempo.Sai bene quanto me che non puoi fare un salto in unposto del genere senza mandare un sacco di avvisi suchi sei, che fai, che aspetto hai e che vuoi. Dovevanosapere che sarei arrivato e, dopo il tuo nulla osta di sicu-rezza a Glasgow, avrebbero dovuto sapere anche di te.»

Si chinò e premette il clacson. «Vediamo di svegliarli!»Il clacson era potente. L’eco risuonò per le rocce de-

solate che circondavano il Centro e rimbalzò sulle pa-reti di calcestruzzo. Gli uccelli marini si diedero a unafuga turbolenta, disordinata. Il suono morì mentreConroy levava la mano. Ma le porte restarono chiuse,l’edificio silenzioso.

«Strano.» Slade era pensieroso. Sarebbe stato dav-

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vero impossibile per chiunque non udire il suono delclacson. Qualcuno avrebbe dovuto rispondere.

Conroy bofonchiò e uscì dall’auto. Slade ne seguìl’esempio. Insieme si avvicinarono all’edificio.

«Che posto tetro.» Slade gettò un’occhiata alle paretiintonacate grossolanamente e alle finestre munite disbarre. Si arrestò di fronte alla porta massiccia, trovòun bottone e lo premette. Attese. Dopo qualche istante,lo spinse di nuovo, questa volta tenendolo pigiato colpollice.

«Cosa vuole?»Nella porta si era aperto un pannello. Un volto li

fissava dal buio all’interno. Conroy si spinse in avanti.«Mi chiamo Alan Conroy,» disse, «e sono un giornali-

sta del Daily Dispatch. Ho un appuntamento con il di-rettore Mercer.»

«Il direttore è occupato. Non può ricevere nessuno.»L’uomo fece per chiudere il pannello. Conroy lo bloccò

con la mano, impedendogli di chiuderlo. «Ehi... aspettisolo un minuto!» attaccò minaccioso.

«Sono atteso,» disse. Era irritato. «Il mio appunta-mento con il direttore è allo scopo di ottenere un’inter-vista per il mio giornale, ed è stato predisposto settima-ne fa. Ha la completa approvazione del Ministero. Disicuro non mi sono fatto tutto il viaggio da Londra soloper sentirmi dire di tornarmene a casa! Insisto per ve-dere il direttore Mercer!»

«Mi dispiace, ma il direttore è occupato.» L’uomo aldi là della porta cercò di costringere il pannello a chiu-dersi schiacciando la mano di Conroy. Fu a questo puntoche intervenne Slade.

«Mi ascolti...»La sua voce era gelida.«Lei informerà il direttore che ha dei visitatori auto-

rizzati ufficialmente,» gli intimò teso. «Gli dirà che, ameno che non ci riceva, rivolgeremo una viva protesta

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alle più alte autorità. E glielo andrà a dire subito!»Parlò in modo perentorio, con un tono che non tolle-

rava disobbedienza. L’uomo che li stava fissando esitò,poi prese una decisione. «Lo riferirò al direttore,» li infor-mò. Chiuse il pannello.

Conroy fissò Slade. «Che ne pensi?»«Molto strano... ma forse c’è una spiegazione perfet-

tamente ragionevole.» Slade alzò lo sguardo verso l’edi-ficio. «Forse il direttore ce ne fornirà una.»

«Forse,» disse Conroy. Ma non sembrava convinto.Non c’era altro da fare che attendere. Slade fece un

lento giro dell’edificio, con Conroy alle calcagna. Neidintorni, per una certa distanza, il terreno era statolivellato e coperto di calcestruzzo, cosicché il Centrostava nel mezzo di una spianata di roccia artificiale.

Dalla parte che dava sul mare c’era il Kyle diKirkbreck, rocce e dirupi irregolari, e le isole Orcadi auna trentina di chilometri oltre lo stretto di PentlandFirth. A ovest e sud si stagliavano altre rocce scoscese;verso est, un terreno coperto di erica, trapuntato daginestrone dorato e da qualche ciuffo di boscaglia, chesi protendeva fino alla città di Thurso, distante moltichilometri. La strada che avevano percorso per raggiun-gere il Centro spuntava dall’erica come un rocchettopolveroso di nastro bianco; curvava e saliva per rag-giungere le colline, quindi svaniva dalla vista dopo unpaio di chilometri.

Slade si appoggiò al cofano della Bentley.Il sole aveva oltrepassato lo zenit, donando al pome-

riggio la calura dell’estate. «Ho fame,» si lamentò Conroy.«Il mio stomaco crede che mi abbiano tagliato la gola!Spero che Mercer ci stia preparando il pranzo.»

«Probabilmente lo farà,» disse distrattamente Slade.Stava esaminando l’edificio.

Le finestre più basse erano a tre metri da terra, bloc-cate da sbarre ritorte di ferro. Sopra di esse altri due

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livelli di finestre, sempre sbarrate, proseguivano finoalla ringhiera sul tetto.

I piani superiori, suppose Slade, contenevano gli al-loggi; quelli inferiori, laboratori, magazzini e centraleelettrica. Le imponenti doppie porte si aprivano su uncortile. Non era una struttura complicata.

Era stata progettata per l’efficienza e nient’altro,pensava. Era...

E poi si irrigidì un poco, la testa inclinata di lato, losguardo assorto. Conroy iniziò a parlare, ma l’investi-gatore lo zittì con un gesto.

«Cosa...?»«Ascolta!»Eccolo di nuovo, un grido soffocato come se qualcu-

no nell’edificio stesse invocando aiuto. Poi, all’improv-viso, il suono non fu più soffocato.

«Aiutatemi! Per l’amor di Dio... aiutatemi!»Gli occhi di Slade scattarono verso l’alto per un istan-

te incredulo... poi si diresse in avanti.Sul tetto era apparsa una giovane. Con i capelli

castani arruffati dal vento, gli occhi scuri che scintilla-vano in un volto pallido, bianco, si piegò sul parapettogridando verso i due uomini più sotto.

Poi gettò una rapida occhiata dietro di sé, e videqualcosa che accrebbe il suo terrore. Per una frazionedi secondo si rannicchiò, quindi fu oltre la ringhiera,per metà correndo e per metà arrampicandosi sul bor-do del tetto.

«Che diavolo...» Conroy aveva raggiunto in frettaSlade. «Cosa succede?» chiese. Guardò in alto. «Guar-dala! Cadrà se non sta attenta!»

Ora sul tetto erano apparsi degli uomini. Stavanogridando. Le loro voci facevano a gara a sormontarsi inun bombardamento di suoni quasi incomprensibile.Seguirono la giovane. Lei sfuggì loro, tornando sul tet-to. Si sporse dal parapetto e gridò qualcosa a Slade e

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Conroy, ma le parole furono soffocate dal rumore degliinseguitori.

Poi nel baccano si levò una voce più forte di tutte lealtre. «Non essere sciocca, Eva! Vieni via dal bordo... ocadrai!»

La voce parve scagliare la giovane oltre il limite delterrore. Lanciò uno sguardo disperato alle spalle e poi,senza esitare un altro istante, si appese al parapetto.

«È pazza!» urlò Conroy. «Sta per saltare!»Per una frazione di secondo sembrò che lo facesse.

Ma poi il piano della donna divenne chiaro. Era appesaalla ringhiera con le braccia estese per tutta la lunghez-za, col corpo sospeso direttamente su una delle finestresbarrate. Guardò in basso, si dondolò per un istanteangoscioso, quindi lasciò la presa.

Cadde.Era un piano assurdo, disperato. Ma quasi funzio-

nò. Mentre cadeva accanto a esse, la giovane afferrò lesbarre che bloccavano la finestra sotto, sperando distringerle per arrestare la caduta.

Quasi ci riuscì.Le mani afferrarono il metallo, ci si aggrapparono

per un breve istante e poi, quando il suo intero peso legravò sulle braccia, la donna perse la presa.

Allora urlò, un grido acuto. Continuò a urlare pertutta la caduta, fino al calcestruzzo più sotto.

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