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ELLE NEWMARK L'APPRENDISTA DI VENEZIA (The Book of Unholy Mischief, 2009)

Elle Newmark - L'Apprendista Di Venezia

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ELLE NEWMARK

L'APPRENDISTA DI VENEZIA (The Book of Unholy Mischief, 2009)

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1

Il libro dell'empio misfatto Mi chiamo Luciano, soltanto Luciano. Veneziano di nascita,

sono vecchio ormai e legato a ricordi che mi sento obbligato a ripercorrere, passo dopo passo, per chiarirli a me stesso.

C'è qualcosa che ho promesso di non rivelare, ma i tempi sono cambiati da quando l'ho giurato. Nel corso della mia vita sono stato testimone del riaffiorare dell'uomo da secoli di oscurantismo. Illustri pensatori ci hanno dischiuso la mente e insigni artisti ci hanno aperto gli occhi e il cuore. C'è chi la chiama rinascita, e grazie a un'invenzione miracolosa chiamata torchio per la stampa riverbererà a lungo nel futuro. Forse, ora come ora, rimanere in silenzio sarebbe un danno per il progresso della conoscenza. Forse il pendolo ha oscillato per un intero arco ed è giunto il momento che io parli. Se procedo con cautela... Ebbene, chi ha orecchie per intendere intenda.

La macchinazione ebbe luogo a Venezia ai tempi della mia giovinezza, mentre ero apprendista del capocuoco del doge. Sospettai subito che stesse per compiersi un empio misfatto quando il doge invitò a cena a palazzo un rozzo contadino. Nel solco della tradizione consacrata dal tempo dei domestici di ogni dove, mi appostai per spiare dietro la porta di servizio appena dischiusa della sala da pranzo e rimasi di stucco nel vederli insieme: il doge, sommo magistrato della Serenissima Repubblica di Venezia, affabile e ingioiellato, sedeva insieme all'ospite, un contadino disorientato dalle mani callose, con le unghie sporche di terra, i capelli sudici frettolosamente inumiditi e allontanati dal viso in segno di rispetto.

Il pasto iniziò con un brodo leggero di zampetto di vitello servito in scodelle poco profonde e di porcellana così fine da apparire traslucida alla luce delle candele. Il contadino abbozzò un sorriso impacciato alla cameriera e mormorò: « Grazie, signora ». La sua voce stridula era in netto contrasto con il contegno sottomesso.

Lei sbuffo di fronte a tanta ignoranza - che assurdità

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ringraziare una cameriera -, si inchinò al doge e prese congedo. Uscita sul pianerottolo, borbottò: « Spero che quello stupido contadino si goda il pasto gratis. Il doge non ha in mente niente di buono ». Si strinse nelle spalle e scese in cucina a prendere la portata successiva, ma avrebbe potuto tranquillamente farne a meno.

Il contadino guardò fisso la scodella di minestra con la stessa attenzione con cui un circasso analizza le foglie di té. Venendo anch'io dal suo mondo, gli lessi nel pensiero: di sicuro, lì a palazzo, non si doveva trangugiare la minestra dalla scodella come nella sua cucina dal pavimento di terra. Come avrebbe dovuto comportarsi?

Non appena il doge scelse un grosso cucchiaio da una schiera di posate d'argento filigranato poste accanto al suo piatto, il contadino lo imitò. Il misero ospite tentò di farsi scivolare silenziosamente in bocca la minestra dal bordo del cucchiaio, come faceva il doge, ma gli spazi vuoti tra i denti guasti produssero un rumore sibilante. Il volto ispido si imporporò e l'uomo depose il cucchiaio in segno di sconfitta.

Il doge non diede segno di essersene accorto. Sorrise — un riflesso d'oro scintillò dai molari - e riempì generosamente un calice d'argento con la sua riserva privata di Valpolicella, un vino rosso scuro dal bouquet fiorito e un retrogusto dolceamaro. Con un cortese cenno del capo disse: « Prego, signore » e offrì il calice al morigerato commensale.

Il pover'uomo sorrise timoroso e avvolse il calice con le mani carnose. Fece del suo meglio per bere il vino lentamente, senza rumore, e il tentativo impacciato di mostrarsi raffinato fece sì che il liquido gli saturasse i sensi. Non avvezzo a gusti tanto compositi, scolò il vino e concluse con un sonoro schiocco delle labbra. Ebbro di piacere posò attentamente il calice vuoto sulla tovaglia di pizzo e si voltò per ringraziare il doge, però... Ostrega!

Il sorriso dell'uomo si trasformò in una smorfia. Si afferrò la gola mentre aggrottava la fronte a mò di radice di zenzero. Annaspò e si dibatté, mentre la confusione e lo sbalordimento traboccavano dal suo sguardo. Cadde di lato dalla seduta ricamata e con un tonfo inelegante ruzzolò a testa in giù sul tappeto turco. Aveva lo sguardo vitreo dei morti.

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Il doge, un vecchio fragile e malato, si asciugò delicatamente gli angoli della bocca con un tovagliolo di lino e sollevò dalla sedia la sua real persona. Riacquistò l'equilibrio tenendosi al bordo della tavola con la mano chiazzati dalle macchie epatiche, si chinò sul cadavere e si infilò una mano nelle pieghe della veste per estrarre una fiala di liquido ambrato. Aprì a forza la bocca del morto, rovesciò la fiala su un paio di labbra che stavano diventando blu e vi introdusse goccia a goccia il suo elisir.

Con un grugnito di disgusto, ficcò un dito nella bocca maleodorante e spinse la lingua per essere certo che il liquido colasse nella gola del morto. Svuotata la fiala, il doge fece un gesto tipico di chi ha portato a termine un compito di poca importanza ma sgradevole. Estrasse il fazzoletto profumato di limone che teneva sempre infilato nella manica, si pulì le mani e se lo portò al naso. Inalò a fondo, evidentemente sollevato dal fatto di poter, infine, neutralizzare il fetore del contadino.

Ammantato dai suoi ingombranti broccati e con il fazzoletto fermamente premuto sul naso, tornò a sedersi e osservò il cadavere con sguardo critico, gli occhi ridotti a due fessure. Senza pensare, sistemò il rosso copricapo malizioso, e la punta smussata si erse come un dito puntato verso Dio.

2

Il libro degli inizi Il contadino era stato invitato come ospite, io, invece, un

orfano di strada, avevo avuto accesso a palazzo grazie alla gentilezza del mio maestro. Devo tutto a lui e a chi mi ha insegnato. Se nessuno insegnasse, l'umanità sarebbe ancora seduta in una caverna fredda, buia, umida, a spidocchiarsi e a chiedersi come aveva fatto il nonno ad accendere il suo fuoco leggendario.

Non so se avevo quattordici o quindici anni quando incontrai il mio maestro, ma come facevo a sapere la mia vera età? Non conosco la mia data di nascita, e adesso poco importa. L'omicidio del contadino avvenne molto tempo fa, nell'anno del Signore 1498, l'anno in cui il capocuoco mi vide rubare una

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melagrana da un banchetto di frutta a Rialto e mi salvò dalla sordida vita di strada.

Ricordo bene quella melagrana: la rossa buccia coriacea, la pesantezza carnosa nella mia mano, che preannunciava grappoli di frutti color rubino dal dolce sapore vinoso. Quando la presi dal cumulo, immaginai la soddisfazione nello sgranocchiarla, l'aroma penetrante che avrebbe esalato, i succhi che mi avrebbero velato i denti per scorrere fino al mento. Ah, il frutto biblico con la sua toccante cuspide ombelicale, prelibatezza degli dei e cibo per i morti. La strinsi al petto e corsi.

Ma il capocuoco si mise in mezzo e mi tirò per un orecchio, dicendo: « Non si fa così, ragazzo ». Prese la mia melagrana — io la vedevo già mia — e la restituì al venditore. La mia delusione fu acuita dalla rabbia, ma prima che potessi reagire il capocuoco disse: « Ti darò da mangiare nella cucina del palazzo. Prima però ti devi lavare ».

Ostrega. Per mangiare nel palazzo del doge avrei lavato tutti gli orfani infestati dai pidocchi, tutti i lebbrosi in suppurazione e tutte le prostitute malate, in ogni calle veneziana devastata dalla povertà. « Sì, signore » bofonchiai.

« Andiamo. » Mi tenne saldamente per l'orecchio e attraversammo Rialto. Passammo davanti a un fornaio cui rubavo spesso il pane e l'uomo emise un brontolio compiaciuto, persuaso, non c'è dubbio, che stessi finalmente per essere punito. Passammo davanti al pescivendolo cui poco tempo prima avevo sottratto una trota affumicata e l'uomo sollevò il coltello per la desquamazione mostrandomi il filo maligno. Ci inoltrammo fra torme di clienti che mi lanciavano un'occhiata, facendo poi un cenno al capocuoco, quasi volessero dire: Bene. Hai preso uno di quei mascalzoni.

Passammo davanti ad alcuni miei compari sciatti e imbrattati, che ci osservarono dagli angoli oscuri con occhi sospettosi. Che a scortarmi per strada fosse un uomo benvestito poteva essere un'ottima cosa, tanto quanto pessima. Magari un'anima caritatevole mi stava portando a consumare un bel pasto caldo e gratuito, oppure ero destinato a essere vittima di qualche crudele abuso riservato ai ragazzi come me,

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di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza. Ammiccai agli amici per lasciar loro intendere che m'era capitato un colpo di fortuna, ma più che fiducioso ero affamato.

In un cortile sul retro del palazzo mi svestii e mi lavai con un ruvido sapone alla lisciva in una tinozza piena d'acqua fredda. Mentre ero lì seduto, tutto tremante, il capocuoco mi insaponò i capelli arruffati e mi rasò la testa. « Nella mia cucina non c'è posto per i pidocchi » disse.

« Come volete, signore. » Rammentai che aveva promesso di darmi da mangiare.

Ricordo un momento di panico quando, mentre sedevo nudo e rasato nella tinozza, lui mi toccò la voglia scura sulla fronte. Ne seguì il contorno con eccessiva amorevolezza e la sua mano si attardò sul mio viso un istante di troppo. Essendomi già imbattuto in uomini che godevano della compagnia intima dei ragazzi - ed essendo già sgusciato più di una volta dalle loro mani sudaticce - ritrassi la testa bruscamente, spaventato, ma pronto a mostrarmi combattivo. Lo scrutai in volto, cercando una traccia dello sguardo rapace che avevo imparato a riconoscere per strada; macché: era un viso aperto dagli occhi intelligenti, mansueto come quello di una mucca.

Il capocuoco levò la mano e assunse un tono pratico. « Sfrega» disse. « Dietro le orecchie e tra le dita dei piedi. » Bruciò i miei vestiti lì nel cortile e spense le ceneri dicendo: « Bah. Sudiciume ». Mi diede un paio di pantaloni di lana puliti e una camicia di ruvido cotone bianco. Mentre mi accompagnava dentro, la sensazione degli abiti puliti sul corpo appena lavato mi diede brividi di piacere.

In piena attività, la cucina del palazzo odorava di timo e d'alloro e aveva tre camini così grandi da poter accogliere un uomo adulto in piedi. Il capocuoco mi ordinò di sedermi in un angolo, su uno sgabello di legno a tre zampe, e mi diede una fetta di formaggio giallo e una di pane fresco, con la crosta spessa dalla consistenza gommosa. Era un bel pezzo che non mangiavo formaggio senza macchie o muffa o i bordi sbocconcellati dai denti di un ratto. Sedevo sullo sgabello con la testa rasata china sul cibo che stavo ingurgitando. Marco diceva sempre: « Se ti capita un pasto gratis, mangia in fretta prima che te lo portino via ». Mi riempii la bocca; avevo le

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guance gonfie come meloni tanto da far fatica a masticare. Ciononostante, le rimpinzai ancora di più.

Il capocuoco mi toccò una spalla. « Piano, ragazzo » disse. « Ogni cosa a suo tempo. »

Mentre mi ingozzavo, esaminai la cucina. Magari avrei trovato qualcosa da rubare, uscendo: un boccone succulento da portare agli amici Marco e Domingo, un cucchiaio da infilare sotto la camicia e vendere per qualche spicciolo, o forse un frutto prelibato da scambiare per una fetta di carne. Ma l'accurata coreografia di una cucina ben orchestrata catturò la mia attenzione. Un corpo composto da una decina di cuochi in giacca bianca immacolata si muoveva per la stanza con grazia e determinazione. La cucina ronzava come un alveare in piena attività: pulita, odorosa e ben illuminata dalla luce del giorno che si riversava dalle alte finestre ai lati dello stanzone. I sottocuochi si affaccendavano intorno ai taglieri di legno pesantemente segnati, su cui erano state accatastate le verdure e posate le scodelle di ceramica dove la carne era stata messa a marinare in qualche liquido acre.

Il fornaio, che, come avrei saputo in seguito, tutti chiamavano Enrico la Chiacchiera, lavorava un impasto costellato di uva passa tra sbuffi di farina, quasi fosse uno stregone della gastronomia avvolto da una nube magica. Enrico impastava accanto a un forno a cupola di mattoni e quel giorno estrasse con la lunga pala di legno una lustra pagnotta dorata dal profumo intenso e così inebriante che dovetti soffocare un gemito.

Ovviamente c'era anche Giuseppe — quell'ubriacone meschino, zotico, dalle spalle curve — che spazzando ghignò al mio indirizzo. Lo avevo conosciuto a Rialto; suo fratello era un pescivendolo tenuto in alta considerazione per l'ottima qualità dei suoi prodotti. Lo ignorai come facevo a Rialto, perché ancora non mi rendevo conto dell'amaro risentimento che suscitava in lui la mia presenza in cucina.

Rivolsi l'attenzione a un camino dove file di gallinelle selvatiche luccicanti giravano pigramente sui girarrosti. Benché mi fossi riempito per bene lo stomaco, mi venne l'acquolina in bocca alla vista di tanta carne, spalmata di spezie, che rosolava grondante di grasso. La visione seducente

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del pollame che arrostiva e l'aroma del pane che cuoceva si mescolarono all'affettare dei coltelli, al ribollire delle pentole e allo sfrigolare delle padelle. Una scorpacciata sensoriale che sconfinava nell'erotico.

In un altro camino una pentola di ferro sospesa sul fuoco esalava volute di vapore e mi chiesi quale capolavoro dell'arte culinaria vi stesse sobbollendo. Immaginai una densa zuppa di fagioli bianchi, uno stufato di coniglio alla santoreggia o verdure fresche che si rivoltolavano in un brodo di pollo gorgogliante, piatti di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai assaggiato.

Al capo opposto della cucina una scala stretta e ripida portava alla camerata dove avrei dormito io, anche se allora, seduto sullo sgabello a divorare freneticamente pane e formaggio, non me lo sarei mai sognato. Ero convinto che il capocuoco fosse un uomo gentile che di tanto in tanto sfamava gli orfani e aspettavo di essere rispedito da un momento all'altro per la mia strada.

Mentre risucchiavo i rimasugli di formaggio che mi erano rimasti tra i denti notai un serbatoio di pietra per l'acqua accanto alla porta sul retro. Prima che si esaurisse la mia permanenza in quella cucina, avrei portato a quel serbatoio centinaia di secchie sciaguattanti. La porta di legno adiacente dava sul cortile dove avevo fatto il bagno e da lì si usciva nella città carnivora. Mi parve davvero strano che a separare il regno dell'abbondanza di quella cucina dal mio mondo di penuria vi fosse una semplice porta.

Dall'altro lato del serbatoio c'era una seconda porta — chiusa quel giorno - che, come sarei venuto a sapere, si apriva sul famigerato orto del capocuoco, un assembramento di piante bizzarre che impaurivano gli altri cuochi e contribuivano alla fama di eccentricità del mio maestro.

La modesta scrivania del capocuoco guardava la cucina in tutta la sua lunghezza, consentendogli di sorvegliare il suo dominio con un solo sguardo. Nei giorni venturi l'avrei osservato a quella scrivania, intento a stilare menu e pianificare banchetti. Da quell'artista che era, esperto e originale, consultava di rado le ricette nella libreria stracolma che aveva alle spalle. I libri erano impolverati per la mancanza

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d'uso, ma il mio maestro, un custode della conoscenza, amava collezionarli. Quel giorno, in piedi accanto alla scrivania con le mani sui fianchi, controllava la cucina e salutava ad alta voce le cameriere e le donne delle pulizie che andavano e venivano da una porta di servizio a battente.

« Buongiorno, Belinda » disse, e una ragazza scarmigliata che trascinava un secchio di acqua saponata gli sorrise. « Come stai, Teresa? » e una cameriera dai capelli grigi, con il viso flaccido, logora come un gomito, si strinse nelle spalle e si allontanò strascicando i piedi.

Mentre osservavo la sfilata delle donne in uniforme che entravano e uscivano dalla porta con stracci e vassoi, la monotona processione fu interrotta dal favoloso ingresso del maggiordomo. Fece un'incursione con la testa rovesciata all'indietro in un gesto imperioso, il mento prominente sporto in avanti, tenendo aperta con una mano morbida la sontuosa veste di raso mentre con l'altra faceva ondeggiare puntigliosamente un ventaglio di seta. Portava pantofole ornate di perle dalla punta arricciata. Ah, quelle scarpe funeste!

La presenza teatrale del maggiordomo mi ammaliò, ma i cuochi, avvezzi alla sua spettacolarità, non gli prestarono attenzione. Soltanto uno di loro, Dante, smise di far saltare le melanzane e abbozzò un ghigno sardonico, ma senza troppa convinzione. Avrei presto scoperto che il maggiordomo compariva in cucina quasi quotidianamente e che i cuochi non si lasciavano impressionare dal suo fascino. Quel giorno indossava una deliziosa veste blu pavone a ricami color salmone, bordata da una treccia d'oro. Quando mi passò davanti, fui avvolto da un profumo intenso di lillà. Il maggiordomo rivolse una domanda al capocuoco con voce chioccia — qualcosa a proposito della salsa o della minestra del giorno, non ricordo: ero troppo abbagliato dalla sua immagine - poi strinse le labbra e si sventolò ascoltando la risposta. « Come desiderate » cinguettò e fece un'uscita imponente, con un certo sdegno, come se volesse punirci per la nostra mediocrità.

Sparito il maggiordomo, il capocuoco rivolse a me le sue attenzioni. Raccolsi le ultime briciole dalla camicia sperando di essere invisibile e potermi attardare in quel porto sicuro, ma

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quando vide che avevo finito di mangiare, mi portò una cosa marrone, grande e grossa che chiamò patata. Non avevo mai visto quel vegetale esotico del Nuovo Mondo, ma la sua solidità e il suo odore di terra mi piacquero immediatamente. Mi porse un utensile per pelarla, mi mostrò come usarlo e mi disse di mettermi al lavoro.

Andò così. Pelai, spazzai, mi liberai delle immondizie, trasportai l'acqua (una quantità impressionante d'acqua), accatastai la legna, attizzai i fuochi e sfregai pesanti tegami, tutto in cambio dei pasti e di un giaciglio di paglia nella camerata dei domestici. Mi ci vollero parecchi giorni perché mi capacitassi del fatto miracoloso che il capocuoco, di nome Amato Ferrerò, mi avesse preso come apprendista.

Giuseppe, lo spazzino malcontento, si rese conto della mia buona sorte prima di me. Come apprendista ero un gradino più in alto di lui e quel disgraziato di un ubriacone non lo poteva sopportare. Ogni volta che mi passava accanto, sussurrava: « Bastardo » o mi lanciava il malocchio, puntando l'indice e il mignolo nella mia direzione. Alle spalle del capocuoco mi faceva inciampare nella scopa, sparpagliava la legna che avevo impilato con cura, buttava gli scarti delle verdure nei miei piatti puliti e riportava le immondizie in cucina per farmi sembrare neghittoso.

Io lo ignoravo. Per la prima volta dagli anni della mia infanzia mangiavo tre pasti al giorno e dormivo al chiuso tutte le notti. Sarei diventato un cuoco, ma non avrebbe fatto alcuna differenza se il mio maestro fosse stato un ciabattino o un pescatore. Mi sfamava e si era offerto di insegnarmi un mestiere: era più di quanto mi aspettassi dalla vita. Sedotto dal lusso e timoroso di offendere, non osai lamentarmi di Giuseppe né indagare sulle motivazioni del capocuoco. Eseguivo i suoi ordini, mangiavo il suo cibo ed ero grato per quello che avevo.

Tuttavia, Marco mi mancava, e lottavo con il senso di colpa per la fortuna inspiegabile che aveva favorito me ed escluso lui. All'inizio speravo che in cucina ci fosse lavoro per tutti e due, ma non ci volle molto a capire che mi ero assicurato l'unico ruolo a disposizione. Mi riscattavo rubando alla prima occasione buona un po' di cibo per lui. Al mattino presto, prima che arrivassero i cuochi, radunavo gli avanzi della cui

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scomparsa nessuno si sarebbe accorto, li avvolgevo nella tela cerata e li nascondevo dietro il serbatoio fino a tarda sera, quando portavo fuori le immondizie. Qualche volta Marco aspettava fuori del cortile, ansioso e affamato, e quando non c'era, lasciavo il pacchetto dietro un secchio dell'immondizia. Il mattino dopo era scomparso.

Ne davo qualche pezzetto anche al mio fedele gatto Bernardo, che si era fatto grasso e lustro da quando avevo soccorso il micetto morto di fame che era. Marco me lo portò dopo la mia prima settimana in cucina, dicendomi: « Ecco quello scocciatore del tuo gatto. Non penserai che gli dia da mangiare». Spesso Bernardo spariva alla maniera misteriosa dei gatti, ma tornava sempre a mangiare nel cortile sul retro e a dormire sotto il mio braccio nella camerata. Per amor mio, il capocuoco Ferrerò lo tollerò.

In quei primi giorni mi illudevo che mi avesse scelto perché pensava fossi eccezionale, perché aveva intravisto i segni di una mente sveglia oppure apprezzato la destrezza delle mie dita svelte di borseggiatore. Oggi, a distanza di tanti anni, so che mi scelse più che altro per la sua fede nell'umana capacità di trascendere una sorte avversa, per il desiderio di un figlio maschio e il bisogno di avere un erede, soprattutto il bisogno di avere un erede.

Il momento scelto dal capocuoco non era stato frutto di un capriccio. In quei giorni, una diceria teneva in fermento Venezia come una stuzzicante brezza marina venuta da est. Tutti, dai domestici all'aristocrazia, mormoravano di un vecchio libro bizantino che si diceva contenesse le formule degli antichi maghi. Correva voce che il libro, andato perduto nei tempi passati, secondo il pensiero più diffuso, fosse, in realtà, nascosto a Venezia da qualche parte. Avrei capito in seguito che era stato il senso di urgenza creato dalla diceria ad aver spronato il capocuoco a prendersi un apprendista.

Quelle voci ammaliavano tutti. Mi ricordo una conversazione, udita per caso all'inizio del mio apprendistato, che mi catapultò in una ridda di fantasie sull'oggetto dei miei desideri, la mia bella Francesca. Un pomeriggio, Enrico confabulava accanto al forno con Dante, l'addetto alle verdure. Tenevano la testa china l'una verso l'altra a un'angolatura tesa

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e le braccia serrate sul petto. Enrico bisbigliava a mezza bocca e Dante sembrava incuriosito. Teresa, che, per chiacchiere, equivaleva a Enrico ed era la seconda fonte di notizie del palazzo, si teneva a portata d'orecchio.

Sempre attento agli sviluppi della situazione, mi affaccendai con la legna nelle vicinanze per poter ascoltare la loro conversazione. Avendo vissuto di espedienti per strada, origliare mi pareva naturale quanto respirare e altrettanto necessario.

« Nel libro potrebbe esserci una formula per trasformare il piombo in oro» disse Enrico.

« Bah. » Dante parve leggermente deluso. « L'alchimia è una leggenda. Comunque, quelli che vogliono il libro sono già ricchi. No, c'entra senz'altro la manipolazione della gente. Formule per controllare la mente o far struggere i cuori. »

« Far struggere i cuori? Parli del filtro d'amore? Bah. Cosa se ne fanno? »

Dante alzò un dito con fare autorevole. « Un uomo confida i suoi segreti più intimi alla donna che lo stordisce di desiderio. » Annuì con l'aria di saperla lunga. « Non c'è spia migliore di una seduttrice. Un uomo innamorato è in condizione di svantaggio. »

Enrico ci pensò su, poi disse: « È vero. Chi è infatuato è vulnerabile. Ma deve esserci ben altro che una pozione d'amore. Altrimenti perché il vecchio doge vorrebbe il libro? Magari c'è una formula per prolungare la vita ».

« Per sempre? » « Chi lo sa. » Dio mio. L'idea di un filtro d'amore da dividere con Francesca

mi lasciò stordito e confuso. Ero convinto che, di tutti i segreti spettacolari attribuiti al libro di cui si favoleggiava, il filtro d'amore fosse sicuramente il più prezioso.

Ciascuno era persuaso che il libro contenesse ciò che desiderava di più. L'unica cosa che volevo io era Francesca, ma c'era chi aveva altri desideri. Amore, ricchezza, immortalità: ecco le brame che ci avrebbero condotto a un groviglio di sospetti e catastrofi.

L'intrico dei segreti iniziò con l'omicidio del contadino, che non esitai a riferire al capocuoco. Sapeva che spiavo il doge e

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approvava. Riteneva che per me fosse istruttivo osservare chi si comporta con nobiltà e rispetta le regole della buona educazione, soprattutto a tavola. Diceva sempre: « Dimmi come mangi e ti dirò chi sei».

Per lui la preparazione dei pasti era uno strumento con cui illuminare i misteri della vita. Me lo vedo ancora mentre monta le chiare d'uovo in una terrina di rame poggiata sull'incavo del gomito. Canterellava al ritmo dei battiti metallici fino a che la brodaglia viscosa non si tramutava in un monticello di neve. « Vedi » diceva agitando la frusta come se fosse una bacchetta magica, « è un sortilegio! » Mi puntava addosso la frusta. « Non dimenticare mai, Luciano: gli animali si nutrono, gli uomini pranzano. » Spalmava la meringa su una carta pergamena imburrata, dicendo: « Ecco perché consideriamo raffinati i buongustai ».

Grazie alle istruzioni del capocuoco Ferrerò, cominciai a farmi un'idea del valore della raffinatezza. A prescindere da qualsiasi altra considerazione, pareva che accordasse a un uomo il potere di attrarre un certo tipo di donna, come la moglie beneducata del maestro, Rosa. Le donne mi incuriosivano, ma non ero mai stato insieme a nessuna di loro perché tutte le ragazze di strada chiedevano soldi anche per il più piccolo favore. Marco era curioso quanto me, ma fingeva di non curarsene. Amareggiato per essere stato abbandonato dalla madre, che aveva tenuto con sé la sorella gemella, diceva spesso: « Bah, le donne! Un male necessario! »

Io non pensavo che le donne fossero un male, ma soltanto che fossero inaccessibili. La mia amatissima Francesca viveva in un convento, isolata dal mondo e intoccabile, e tuttavia mi aggrappavo alla speranza. Era stata relegata in convento dalle circostanze, ma a giudicare dalla curiosità sfacciata di cui dava mostra a Rialto e dalla noncuranza con cui lasciava che ciocche dei suoi biondi capelli sfuggissero al velo, avrei giurato che non prendesse molto sul serio il noviziato. E, in effetti, ben presto avrei scoperto che sotto l'abito era succosa come una prugna e impudente come il peccato. Il mio giovanile ottimismo mi faceva credere che avrebbe lasciato il convento per sposarmi se le avessi offerto una vita signorile.

Trasformarmi da monello di strada a potenziale marito

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avrebbe richiesto tempo. L'astuzia e il fegato necessari a vivere per strada erano inveterati in me. Li rivelava il mio passo furtivo, il mio modo rozzo di parlare, il mio sguardo circospetto. Ansioso di diventare un gentiluomo perché Francesca si accorgesse di me, osservavo di soppiatto la vita che si svolgeva a palazzo e catalogavo le mie scoperte. Nella mezza giornata di libertà settimanale dal lavoro intrattenevo Marco e Domingo mimando i personaggi di alto lignaggio. Mi asciugavo gli angoli della bocca con un fazzoletto immaginario e mi pavoneggiavo sui ponti tirando indietro le spalle e sporgendo il mento. Con un inchino affettato, dicevo a Domingo: « Vi chiedo licenza, mio signore». Agitavo la mano all'indirizzo di Marco con le parole: «Portami la gondola, ragazzo». Per loro era un gioco; per me erano prove della mia futura vita di gentiluomo e capocuoco.

Prima, però, dovevo seguire il mio apprendistato con piena soddisfazione del capocuoco Ferrerò. Dopo aver visto il doge versare il liquido ambrato nella gola del morto, scesi di corsa per le scale di servizio, due gradini alla volta, ansioso di informare dell'omicidio il capocuoco. Con mia grande sorpresa, non rimase senza fiato, non sobbalzò, non strabuzzò nemmeno gli occhi. Sospirò e sedette a un tavolo coperto di farina, e senza badarci premette i gomiti su un monticello di impasto.

« Sei sicuro, Luciano? L'uomo era veramente morto? » « Sì, Maestro. » « Ci sono altri stati che possono essere scambiati per la

morte. » « Maestro, è stato avvelenato. Gli ho visto gli occhi. Era

morto stecchito. » « Oh, Dio. » Il capocuoco si mise la testa tra le mani. « È cominciata. »

3

Il libro di Luciano I ricordi generano altri ricordi e richiamare alla mente quei

primi giorni trascorsi insieme al capocuoco mi riporta sempre a un periodo ancora più lontano nel tempo, un'epoca in cui si

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aprivano grandi possibilità; oggi il tempo mi sembra un cono in cui le opportunità si vanno riducendo. Il ricordo più lontano è quello di una faccia larga, nera come un tizzo di carbone, incorniciata da anelli d'oro che pendevano dai lobi allungati. Le cornee erano ingiallite, ma i denti erano di un bianco abbagliante. Aveva i denti larghi, l'ossatura robusta che sporgeva dalla pelle nera e consunta delle nocche e dei gomiti, le protuberanze ruvide di una donna di fatica.

Canterina non era il suo vero nome nubiano, ma le ragazze l'avevano ribattezzata così per come cantava le tristi canzoni africane mentre lavorava. La Canterina mandava avanti la casa. Preparava i pasti, sfregava i pavimenti e bolliva la biancheria macchiata. Di notte si metteva un turbante azzurro vivo e un grembiale pulito per servire il vino agli uomini nel piano nobile, dove questi bevevano ridendo insieme alle ragazze. Rassettava le camere da letto dopo l'uso, svuotava l'acqua torbida nei lavabi e ne versava di limpida nelle brocche. A mezzogiorno, quando si svegliavano, la Canterina portava alle ragazze té fumante di rosa selvatica. Molto più di buonora faceva colazione insieme a me in cucina: té bollente per lei, latte caldo e pane spalmato di miele per me.

Non so quanto avessi quando la suora mi portò al bordello, ma la Canterina diceva che un uomo grande e grosso m'avrebbe tenuto in una mano. La imploravo spesso di raccontarmi la storia e me la vedo ancora davanti mentre piega alacremente le lenzuola e la declama per me: «Avevi le gambe piegate come una ranocchia, piangevi come un gattino e agitavi le braccine come un cieco». Arrivata a quel punto, lasciava andare un'esclamazione di impazienza e scuoteva la testa. « Pelle e ossa. Patetico. Un altro fardello in questa vita dura. »

A volte si interrompeva, posava il lenzuolo piegato per metà e le si ammorbidiva la voce. Diceva: « Non potevo rimandarti indietro». Raddrizzava la schiena e sbuffava a buon diritto spianando le pieghe del lenzuolo. « Comunque la strega non ti avrebbe mai ripreso. » Strega. Di tanto in tanto la Canterina arrotava la r- strrrrega - arricciando con disprezzo l'arco del carnoso labbro superiore. Chiudeva di scatto il lenzuolo e proseguiva. « Aveva una faccia da strega, piccola e tirata come

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il suo cuore. Disse: "Speravamo fosse una femmina per allevarla nella virtù. Ma è un maschio, bah". La strega ti scaricò tra le mie braccia togliendosi la polvere dalle mani. Fece: 'Prima o poi finiscono tutti qui, allora eccotelo'. E si fa chiamare Sorella della Carità. Strrrrega. » La Canterina sbuffava un'ultima volta e si allontanava con la biancheria, oscillando l'alto deretano al ritmo di una lugubre ballata nubiana.

La Canterina aveva una lingua tagliente, ma quando una delle ragazze diede alla luce un neonato e lo lasciò a dimenarsi nudo sul tavolo della cucina, lei lo fasciò con un morbido asciugamano e canticchiò mentre lui succhiava una cocca del suo grembiale inzuppata di latte. Quando si accorse che guardavo, sorrise e disse: «Adesso è nostro». Lo chiamò Bernardo, chissà perché, e ne fu invaghita durante l'unica settimana in cui visse. Quando lo trovò morto nel cassetto che gli serviva da culla, i suoi lamenti fecero accorrere le ragazze in cucina. La madre, una giovane ottusa, tolse il neonato dalle braccia della Canterina e scrollò il corpicino. Visto che non reagiva, lo lasciò andare nel secchio delle immondizie e tornò al lavoro. La Canterina si sfasciò il turbante per ammantarvi il piccoletto: non dimenticherò mai quanto apparisse abbattuta e vulnerabile quando uscì a capo scoperto dalla porta sul retro, stringendosi al petto il fagotto avvolto nel suo sudario.

Quando fui abbastanza grande da avvicinare una sedia alla credenza e arrivare a prendere il barattolo dei dolciumi che teneva su un ripiano alto, la Canterina iniziò a sbattermi fuori casa ogni giorno dopo colazione, come si fa con gli animali da compagnia. « Non prendertela con le ragazze. Loro dicono: 'Prendine uno e ne avrai venti' e questo non è un orfanotrofio » disse. Mi spinse gentilmente fuori dalla porta posteriore dicendo: « Meno ti vedono, meglio è. In ogni caso, devi imparare a cavartela da solo ». Mi toccò la voglia sulla fronte e ne tracciò il contorno irregolare con la punta di un dito. La voglia occupa un quarto della fronte sopra l'occhio sinistro ed è ancor oggi di un bel nocciola scuro. « La pelle scura, anche quel pezzetto lì, è indice di dispiaceri. È meglio che tu lo sappia » mormorò.

La prima volta che mi sbatté fuori mi rannicchiai davanti

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alla porta di servizio e frignai per tutta la mattina. Quando mi venne fame, frugai nel secchio di immondizie del bordello e trovai qualche buon avanzo avvolto nella tela cerata, appena sufficiente ad acquietarmi lo stomaco. Mangiai, e mi raggomitolai attorno al secchio per schiacciare un pisolino. La Canterina me lo lasciò fare, giorno dopo giorno, sincerandosi sempre che, infilato nel secchio delle immondizie, vi fosse un cartoccio con il pasto.

Passato non molto, cominciai ad allontanarmi. Vagai per le strade in cerchi sempre più ampi, incuriosito dal mondo. In quelle strade brulicanti di gatti e di orfani non ero il più piccolo ed ero più fortunato di tanti perché, calata l'oscurità, mentre le ragazze erano occupate con i clienti, la Canterina mi faceva entrare e dormire nel suo letto.

Mi promise una torta di ciliegie per il mio compleanno, una data che aveva scelto a caso e che di solito festeggiava cuocendo nel forno qualcosa di speciale. Ricordo che egoisticamente ci rimasi male quando mi accorsi che, in occasione di quel compleanno, era troppo debole per alzarsi dal letto e cuocere la mia torta. Poco tempo dopo, tornai a casa una sera e lei se n'era andata. Un'altra donna con le dita carnose e il fiato rancido mi scacciò. Quella notte dormii fuori della porta di servizio del bordello. Ricordo che più d'ogni altra cosa mi mancava l'odore della Canterina, una calda mistura di infornate, di panni appena stirati e femminilità, un miscuglio che avrei ritrovato incontrando Francesca. Il giorno seguente non c'erano vivande avvolte nella tela cerata.

Crebbi nelle strade tra una folla di mercanti d'ogni genere e di marinai provenienti da tutti i paesi. Venezia è sempre stata un porto dall'andirivieni febbrile, e mai lo fu come a quei tempi. Era un punto di smistamento delle merci del mondo. L'Estremo Oriente forniva rotoli di broccato di seta; i mercanti egiziani vendevano pezzi di allume per tingere la lana e i commercianti musulmani portavano tinture di un viola brillante ricavate dal lichene e dagli insetti. A Rialto si potevano comprare solidi strumenti di ferro tedeschi, cuoio lavorato spagnolo e lussuose pellicce russe. C'era un flusso di merci da ogni parte del mondo: spezie, schiavi, rubini, tappeti, avorio... Nella piccola Venezia, che galleggiava inverosimilmente su una cuspide

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dell'Adriatico, erano in mostra tutti i tesori del mondo e ogni cosa aveva un prezzo.

Amavo oziare nella zona del porto e sognavo di imbarcarmi clandestinamente sulle navi più grandi. Le osservavo prendere silenziose il mare con le vele gonfie per il vento favorevole, e gli scafi pieni di merci da negoziare in posti lontani. Mi vedevo nella stiva, nascosto comodamente tra i morbidi sacchi di lana fiorentina e cullato nel sonno dalle onde. Vivendo all'aperto, non sapevo quanto disagio provassi per gli spazi bui e chiusi.

I miei sogni erano scolpiti dalle raffiche taglienti del vento di mare e dall'odore pungente dell'aria salmastra, dai gabbiani che battevano le ali e dai robusti marinai che cantavano arrampicati sul sartiame, dall'acqua che schiaffeggiava gli scafi delle navi e dai carri trainati da cavalli impazienti che calpestavano l'acciottolato. Fu in quel tempo e in quel luogo di illimitate possibilità che incontrai Marco. Aveva un anno o due più di me, una differenza notevole per un bambino. Mi aggrappai al mio mentore straccione e imitai i suoi modi sicuri, fatti di millanterie e inganni. Il capocuoco diventò il mio maestro, ma fu Marco la mia prima guida.

Mi spiegò come urtare una donna intenta a saggiare i meloni per immergere le mie agili dita nel suo borsellino. Mi insegnò a far scivolare la manina nella tasca di un gentiluomo sfiorando appena il tessuto, ad afferrare una moneta tra due dita ed estrarla, il tutto passandogli accanto. Eravamo una buona squadra e ci mettevamo all'opera nelle bancarelle delle derrate alimentari: uno dei due distraeva il venditore mentre l'altro se la svignava con una pagnotta o un trancio di formaggio. Marco mi insegnò tutto questo e altro ancora, ma soprattutto mi spiegò che quando vedevi le Cappe Nere te ne dovevi andare qualunque fosse il bottino da sacrificare. Le Cappe Nere erano la polizia segreta del Consiglio dei Dieci.

La loro esistenza non era affatto un segreto — percorrevano Venezia di buon passo con le caratteristiche mantelle corte che nascondevano i pugnali - ma nessuno parlava apertamente della crudeltà cui ricorrevano con noncuranza e del loro vasto potere in quanto scagnozzi dell'onnipotente Consiglio dei Dieci. Il doge in persona rispondeva al Consiglio e tutti sapevano che, quando le Cappe Nere bussavano alla tua porta, quei dieci

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uomini spietati avevano una questione sgradevole da risolvere con te. Lo sciocco cadeva in ginocchio e implorava pietà. La persona di buon senso fuggiva dalla porta di servizio e si imbarcava sulla prima nave in partenza da Venezia.

Paradossalmente fu proprio una Cappa Nera a far avere a me e a Marco un colpo di fortuna. Avevamo preso un pezzo di formaggio dal barile di un bottegaio, un giochetto dall'esito incerto, e il successo ci aveva reso avidi. Una volta avevamo assaggiato un pezzo di pane alle olive verdi: era stata l'esperienza epicurea della nostra vita. Sfortunatamente il pane alle olive è lungo e poco maneggevole, impossibile da nascondere sotto gli abiti, e difficile da manovrare mentre corri a perdifiato tra la folla di Rialto. Conoscevamo però un fornaio orbo e il suo difetto ci dava un vantaggio, così decidemmo di tentare la sorte e rubare un pane alle olive da mangiare con il formaggio.

Incedetti impettito sul lato dell'occhio buono del fornaio, valutando esplicitamente il suo pane. Esaminai le pagnotte con un sogghigno insolente, ispezionando con occhio critico mercanzie che non avrei mai potuto comprare. Mentre il fornaio mi teneva addosso l'occhio buono, Marco arrivò di soppiatto dalla parte di quello cieco, sgraffignò un pane alle olive e scappo'. Il fornaio doveva aver udito qualcosa, forse il fruscio delle pagnotte smosse o un cliente che aveva tirato il fiato. Si voltò all'ultimo istante e vide Marco farsi largo tra la folla con il pane alle olive sotto il braccio. « Ladro! » gridò.

Gli altri clienti alzarono lo sguardo, ma noi sfrecciammo loro intorno, rapidi e agili. Ridemmo sguaiati pregustando il nostro banchetto e, incautamente, andammo a sbattere in un'alta Cappa Nera con le braccia spalancate. Era comparsa dal nulla, come succedeva sempre. Restammo pietrificati.

Il suo viso era una mescolanza a tinte forti di angoli acuti: fronte prominente, fossetta sul mento e labbra sottili. Marco, tra i due quello capace di pensare in fretta, gli offrì il nostro prezioso pane alle olive. Io carpii il formaggio dalla tasca sudicia e offrii anche quello, ma l'omone si mise a ridere. « Piccoli bastardi sfacciati. » Ci afferrò per la nuca, ci trascinò fino al banchetto del fornaio e lanciò uno sguardo al bottegaio orbo. Disse:

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« Generoso da parte tua regalare del pane a questi due. Sei un uomo caritatevole, vero? »

Capita l'antifona e sentendosi offeso, il fornaio indurì l'occhio buono, dicendo: « Sì, signore, dono sempre ai poveri ». Ci scoccò un'occhiata gelida con cui ci trasmise la sua voglia di ucciderci. Incredibile che ci riuscisse, con un occhio solo. Serrò le labbra e aggiunse: « Godetevela, ragazzi ».

La Cappa Nera ci teneva ancora per la nuca. « Ringraziate il signore, ingrati. »

Bofonchiammo nervosamente un grazie. Il fornaio, ansioso di sbarazzarsi di tutti noi, disse: « Signore, permettetemi di offrirvi una torta appena sfornata. Sentite, è ancora calda». Tenne sollevato il suo amato dolce. « Prendetela. Per favore. »

La Cappa Nera se ne uscì con una risata nervosa che pareva un latrato. Mollò la presa sulla nuca e ci diede uno scappellotto dicendo: « Fuori di qui». Corremmo impacciati, tenendo stretto il nostro pasto e guardandoci di sfuggita alle spalle per essere certi che nessuno ci seguisse. Continuammo a correre fino a che non arrivammo a un tranquillo vicolo cieco disseminato di spazzatura, dove sedemmo contro un muro fuligginoso, ansando e tremando.

Guardai Marco per avere la conferma che eravamo davvero usciti indenni da una scaramuccia con una Cappa Nera. Sul suo viso scarno, striato di sudiciume, prese forma un sorriso esitante. « Ce l'abbiamo fatta» disse.

Benché fosse difficile capirlo sotto quella sporcizia, Marco aveva le lentiggini e i capelli rossi. Ogni volta che il sole gli accendeva un alone rugginoso attorno alla testa, come quel giorno, la faccia, emaciata per la fame, aveva un che di angelico e di scaltro al tempo stesso.

Quella volta ci riempimmo la pancia ma, nonostante la collaudata abilità e l'occasionale colpo di fortuna, erano troppi i giorni in cui pativamo la fame. Venditori e clienti si guardavano dai ragazzi come noi. La maggior parte dei bottegai ci scacciava a vista. Una volta ci avvicinammo di soppiatto alle spalle di una cicciona che sostava davanti a una bancarella di frutta, ma la donna tese le braccia e ci afferrò per i capelli senza toglierci un'annusata alle nettarine bianche. «

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Non oggi, ragazzi » disse, e ci diede una spinta che ci mandò a gambe all'aria.

Certi giorni frugavamo nei cumuli di immondizie contendendo agli altri monelli i resti di qualcosa che fosse anche vagamente commestibile. Ebbi la mia prima lite con Marco in uno di quei giorni di magra. Setacciando un cumulo di spazzatura, trovai una figliata di gattini, tutti morti tranne uno. Cullai in mano il piccolo sopravvissuto, che puntò verso di me il musetto e miagolò. Mi venne in mente la descrizione che aveva fatto la Canterina di me neonato e provai un inaspettato impeto d'affetto. Lo tirai fuori dalla spazzatura e, ignorando lo sguardo di disprezzo lanciatomi da Marco, me lo misi in tasca.

Quel giorno mi arrischiai a sgraffignare un secchio intero di latte dal chiosco di un lattaio. Fu un furto maldestro, tant'è che mi lasciai dietro una scia di latte che chiunque avrebbe potuto rintracciare. Il lattaio mi inseguì, ma era riluttante a lasciare il chiosco incustodito per troppo tempo. Quando rinunciò all'inseguimento, il secchio era ancora pieno per metà. Trovai un posticino tranquillo dietro una chiesa fatiscente e mi accovacciai per inzuppare un angolo della camicia nel latte e indurre il micetto ancora sdentato a succhiare. Marco era furioso. « Dai del latte fresco a un gatto? » Aveva sgranato gli occhi, incredulo. « Dammi quella seccatura, testa di cavolo. Non ci metto niente a sbarazzarmene. »

« Non toccarlo! » Misi il gattino dietro la schiena. Il viso di Marco si atteggiò a un ghigno pericoloso, allora dissi: « Prenditi metà del latte, è quello che ti spetta. Cosa faccio della mia metà non sono affari tuoi ». Marco fece schioccare la mandibola, ma cedette.

Per due giorni sfamai diligentemente il gattino, goccia dopo goccia, finché il latte non inacidì e lo scolai io. Mentre osservavo la cosuccia inerme che si nutriva, qualcosa dentro di me si intenerì, ma non troppo. Chi vive per strada deve stare attento a non intenerirsi. Chiamai il gattino Bernardo, come il neonato che aveva perduto la Canterina, e gli sussurrai tutti i miei segreti, tutte le tenerezze di cui non osavo far partecipe Marco.

Dopo qualche settimana, Marco si stufò di darmi dello sciocco e si accontentò di tirar su con il naso in segno di

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disgusto ogni volta che mi toglievo di bocca un pezzetto di pesce masticato e lo facevo leccare a Bernardo sulla punta delle dita. Un mattino Bernardo scomparve per andare a cercar cibo per conto suo e Marco disse: « Che liberazione ». Con suo grosso disappunto, e mio grande sollievo, quella notte ci trovò e così fece da allora in poi. Tutti i gatti sanno ritrovare la strada di casa, ma Bernardo era particolarmente dotato in quel campo.

Era diventato un gatto fulvo pelle e ossa, cacciava all'alba e al crepuscolo, l'ora decisiva per i felini, ma calato il buio mi trovava sempre, e mi faceva le fusa sfregandosi contro la gamba. Me lo stringevo al petto e il lato tenero che si era appena risvegliato in me rispondeva per lo stretto necessario. Accettava qualsiasi boccone avessi tenuto in serbo per lui, poi lasciava che lo coccolassi e gli bisbigliassi amorevolmente nell'orecchiuzza appuntita. Dormiva accoccolato sotto il mio braccio e il suo calore palpitante contro il mio corpo mi confortava. Ignoravo le occhiate gelide e i commenti caustici di Marco. Dopo tutto, il poveraccio dormiva solo.

Io e Marco non parlavamo mai di cose tanto stupide come l'amore per gli animali. Limitavamo la nostra conversazione a tramare imbrogli e alle smargiassate. La cosa più intima che gli confessai fu il mio desiderio di imbarcarmi come clandestino e far vela per la Nubia. Non avevo la più pallida idea di dove fosse, ma ripensando alle dolci mattine trascorse con la Canterina e alle sue canzoni sentimentali, pensavo che valesse la pena trovarla. L'imbarco da clandestino era sempre stato una delle mie fantasie preferite fino al giorno in cui Domingo, il ragazzo taciturno, brufoloso, che veniva dal porto di Cadice, non me ne descrisse in dettaglio il destino spaventoso.

4

Il libro dei sogni Domingo stava sempre con le braccia conserte e le mani

infilate sotto le ascelle. Per la timidezza parlava guardandosi i piedi e più che parlare borbottava e si stringeva nelle spalle.

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Un pomeriggio, io, Marco e Domingo trovammo in un cumulo di rifiuti un sacchetto di castagne appena rosicchiate e ce le dividemmo contenti, passeggiando sul molo e ammirando le navi. Accennai al mio progetto di imbarcarmi come clandestino e Domingo infilò ancor di più le mani sotto le ascelle. « Bah » commentò. Io e Marco lo guardammo.

«Avevo nove anni, forse dieci quando mi nascosi in un galeone spagnolo. Faceva rotta per Costantinopoli con una sosta a Venezia. Al secondo giorno di navigazione un marinaio mi trovò nascosto in una gomena arrotolata. Mi tirò fuori e i marinai mi spintonarono » bofonchiò. Poi alzò una spalla. « Ridevano. Pensai che fosse un gioco. Poi uno di loro mi colpì. » Lanciò uno sguardo bieco al porto. « Mi obbligarono a trasportare i buglioli e mi diedero da mangiare i rifiuti. Tirai gomene fino a farmi sanguinare le mani e sfregai il ponte con acqua marina arrossata dalle ferite e dalle vesciche. C'era chi mi prendeva a calci ogni volta che mi vedeva. Non so perché lo facessero, ma imparai a muovermi in fretta. »

Gli occhi spenti di Domingo si animarono e il suo viso, di solito placido e inespressivo, si contorse in un impeto di rabbia. « C'era un gabbiere... un animale peloso dai denti guasti che... che... » Inghiottì a fatica e si morse un labbro. « Una notte mi sorprese sporto sulla fiancata in preda ai conati di vomito per le onde e... » Domingo strizzò gli occhi. «Mi tenne piegato e mi strappò i pantaloni... lo fece proprio lì! Proprio lì! »

Sul suo volto la vivacità si spense d'improvviso come si era accesa e la voce riprese la solita cantilena. « Non ricordo come fu il resto della traversata, ma quando ormeggiammo a Venezia mi buttarono fuori dalla nave. » Diede un calcio a terra. « Venezia non è peggio di Cadice. Posso rubare portamonete anche qui. »

Io e Marco ci scambiammo un'occhiata, poi Marco gli diede un colpetto amichevole. « Sono contento che tu sia qui, Domingo. Quando quella puttana di mia madre è scomparsa, avevo... quanti anni avevo, cinque? Senza di te sarei morto di fame. »

Marco dava sempre della puttana a sua madre. Lo era, è chiaro, ma non lo infastidiva il suo mestiere. Gli bruciava il fatto che l'avesse abbandonato e si fosse tenuta la sorella

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gemella, Rufina. Si era tenuta la bambina perché, per strada, quel po' po' di capelli rossi avrebbero alzato il prezzo. Marco non le aveva più viste, ma pensava che se avesse trovato Rufina avrebbe potuto salvarla da una vita degradante. « Quella puttana fetente mi ha dato per morto e di Rufina ha fatto una zoccola, ma gliela farò vedere io. Non sono morto e mi riprenderò Rufina. Vedrai. » Marco faceva fatica a sfamare se stesso, figuriamoci una sorella, ma ciò non gli impediva di sognare. Si accostava regolarmente alle prostitute rosse di capelli con uno speranzoso: « Rufina? » e spesso si beccava un ceffone per averle importunate.

Non parlavamo mai del fatto che le prostitute di strada non vivessero a lungo. Che da quell'ultimo giorno Marco non avesse visto né la madre, né Rufina era di pessimo auspicio. Erano passati dieci anni e lo sapevano tutti che le prostitute morivano come mosche di malattia, di fame, di maltrattamenti, alcol e disperazione. A Venezia erano pochissime le puttane vecchie; c'erano soltanto prostitute giovani e prostitute morte. Lo sapevamo bene, ma nessuno lo ammetteva in presenza di Marco.

Quando la madre lo aveva lasciato in lacrime sul molo e si era allontanata con Rufina, era stato Domingo a sedersi accanto a lui e a dargli una crosta di pane. « Quel giorno davi uno spettacolo pietoso. Piangevi, tremavi, ti lamentavi: "Rufina! Rufina!' » disse.

« Io non piangevo. » « Bah. Hai singhiozzato fino a cavarti gli occhi. E quando

Rufina si è dovuta staccare da te, siete volati l'uno nelle braccia dell'altra e vi siete tenuti così stretti che vostra madre ha faticato a separarvi. Mentre la trascinava via, Rufina strillava: "Marco! Marco!' Facevate pena tutti e due. »

A Marco tremò un labbro. « Avevamo solo cinque anni » borbottò.

« Lo so. È per quello che ti ho dato da mangiare. » Domingo gli aveva insegnato a campare per strada, come in

seguito Marco avrebbe fatto con me. Quando Domingo aveva più o meno dodici anni, nel porto tutti conoscevano la sua faccia cupa e brufolosa, e un pescivendolo gli permise di pulirgli il banco in cambio delle teste dei pesci e di un po' di

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pane. Domingo svolgeva con precisione i suoi compiti e il pescivendolo, a cui piaceva il suo modo di fare tranquillo, lo prese come apprendista.

Per Domingo fu una svolta, ma il fratello del pescivendolo, Giuseppe, lo stesso rottame umano che spazzava la cucina del doge e odiava chiunque avesse un briciolo di fortuna, si incollerì. Giuseppe puzzava sempre di vino e di sudore; era pigro, sciatto e malevolo. Aveva i capelli striati di grigio e camminava un po' curvo. Ormai aveva perduto qualsiasi occasione e lo sapeva.

Era uno di quegli uomini tristi, così storditi dal bere da aver rinunciato a vivere, che si accontentano di restare a guardare e dar la colpa al mondo. Era patetico, ma troppo astioso perché ispirasse solidarietà. Si gloriava dei propri insuccessi come se gli concedessero l'autorizzazione a comportarsi con ogni possibile subdolo mezzo. La sua vita era l'esatto contrario della filosofia della responsabilità individuale professata dal capocuoco.

Questi lo tollerava per amore del pescivendolo, un uomo rispettabile da cui spesso comprava il pescato della giornata. Giuseppe aveva una faccia da rettile con gli occhi a fessura e un naso a uncino devastato dai capillari rotti; il fratello aveva più l'aria di un anfibio, un simpatico ranocchio. Il pescivendolo era un uomo pacifico, ma non riuscì a tenere a freno l'acrimonia di Giuseppe nei confronti dell'apprendistato di Domingo. Senza farsene accorgere dal fratello, Giuseppe dava spesso un calcio negli stinchi a Domingo, oppure gli torceva il naso. Lo chiamava bastardo.

Una volta Marco domandò: « Perché Giuseppe ti odia tanto?» Domingo si strinse nelle spalle e distolse lo sguardo. « È fatto

così. » L'unico argomento capace di rendere ciarliero Domingo era il

Nuovo Mondo. Amava ripetere le storie che aveva udito nel porto di Cadice. « Il Nuovo Mondo è popolato da uomini d'oro che indossano solo penne nei capelli. Vivono una vita comoda in una terra verde e rigogliosa. I manghi maturi cadono ai loro piedi e i pesci usciti dall'acqua gli saltano in braccio.» Sospirò. « Ve l'immaginate come sarebbe dondolarsi per giorni interi su un'amaca a fare uno spuntino a base di datteri? » Fissò il mare

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con sguardo sognante. Marco fece uno sforzo e, per solleticare l'immaginazione,

inserì qualche abbellimento. Disse: « Nel Nuovo Mondo le donne ballano nude e hanno tre seni». Domingo lo guardò con scetticismo, Marco però proseguì: « Le spiagge sono disseminate di pepite d'oro e le foreste sono popolate da creature soprannaturali che esaudiscono i desideri ».

Domingo si guardò i piedi e rise silenziosamente. Marco insistette: « È vero. Anch'io ho parlato con i marinai ».

Conoscendo Marco, sapevo che non era vero. Voleva indurmi a diventare un uomo di mare e imbarcarmi insieme a lui per il Nuovo Mondo, e parlava spesso di portarci Rufina per cominciare una nuova vita. Il povero Marco non aveva alcun bisogno di mettere a dura prova la sua inventiva per allettarmi. Mi ero già perso nella fantasticheria di un'esistenza beata oltre l'orizzonte. Pensavo di potermi lasciare alle spalle gli inizi ignominiosi e creare nel Nuovo Mondo una vita perfetta insieme a Francesca. I miei sogni contemplavano sempre la sua presenza.

La prima volta che la notai, a Rialto, pensai che fosse sola. Poi la folla si mosse e vidi la sua massiccia Madre Superiora davanti al banchetto di un venditore di spezie, intenta a selezionare i grani di pepe con il naso che si muoveva a scatti come quello di un coniglio, l'espressione risoluta e pronta a dar battaglia sul prezzo. Francesca attendeva nelle vicinanze, dondolando il cesto della spesa e sorridendo ai passanti. Quel dolce sorriso mi afferrò, mi avvinse e non mi lasciò più. Aveva tutti i denti ed erano bianchi, bianchissimi, e il suo viso era pulito e illuminato dal sole.

Un cagnolino ispido le annusò l'orlo della veste e lei si inginocchiò per coccolarlo. La udii parlargli in tono amorevole e il cane le strofinò il muso tra le braccia. Lei si guardò intorno per assicurarsi che la Madre Superiora non la stesse osservando e, svelta, prese una salsiccia dal cesto e la diede al cane. Quello la trangugiò avidamente e la guardò con evidente adorazione. Lei rise e la sua risata mi fece pensare a un campo di fiori selvatici.

Francesca si tolse un quadrato di pizzo dalla manica per pulirsi il grasso della salsiccia dalle dita e io pensai di sfuggita

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che non avevo mai visto una suora con un fazzoletto dalla trina tanto fine. Il pensiero si dissolse alla vista della Madre Superiora che si levava alle sue spalle.

La sovrastava gridando: « Non hai niente di meglio da fare che toccare un animale randagio? Ragazza mia, sei senza speranza, c'è da giurarci. Senza speranza ».

La luce si spense sul viso di Francesca. Si mise alle spalle dell'anziana donna, ma si voltò a guardare il cagnolino e alzò gli occhi al cielo. Gli disse addio con le dita mobili come farfalle.

Ero esterrefatto. Senza più parole. Pensai che con un lavoro degno avrei potuto salvarla da quella zotica e dalla sua tetra vita di prigioniera. Avrei potuto sposarla, comprarle un cane e portarla nel Nuovo Mondo.

Oh, ma ci sarebbe voluto tanto, tanto tempo per diventare un marinaio esperto. A giudicare dai marinai che vedevamo al porto, io e Marco avremmo dovuto diventare uomini dalla voce roca, con i peli ispidi sulla faccia e i muscoli delle braccia gonfi per assicurarci un lavoro su una buona nave. Poi ci sarebbero serviti due, magari tre anni di esperienza per intraprendere la pericolosa traversata fino al Nuovo Mondo. Ci eravamo accorti che sopra il labbro superiore stava crescendo una leggera peluria, che le nostre braccia allampanate davano segno di star assumendo una forma e che sui nostri corpi stavano spuntando peli sottili, ma la malnutrizione ci faceva sembrare esili e più piccoli di quanto probabilmente fossimo. Una volta, in un attimo di scoramento, Marco disse: « Lo sai, testa di cavolo, che forse avremo più di vent'anni quando arriveremo nel Nuovo Mondo? »

« Ostrega » feci, « Già mezzi morti. » Diede un'occhiata agli straccioni che popolavano le strade e

aggiunse: « Non c'è nessuna ragione per restare qui ».

« Direi di no. » « È qualcosa per cui vale la pena vivere. » « Direi di sì. » Le visioni del Nuovo Mondo, che comprendevano Marco e

Rufina, i gemelli allegramente riuniti, io e Francesca, gli amanti felici, ci aiutarono a tirare avanti nelle lunghe giornate trascorse a cercare cibo per strada e nelle notti passate

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raggomitolati negli androni. Di tanto in tanto cercavamo di guadagnare denaro in modo onesto, ma nel momento in cui avevamo lenito il vuoto allo stomaco, ci restava giusto quel po' di luce per portar via un secchio di interiora andate a male per conto di un macellaio o per spazzare i rimasugli avvizziti dal banco di un droghiere. Talvolta ci pagavano con qualche spicciolo, talaltra non ci davano nulla e non riuscivamo a sfuggire alla nostra precaria esistenza. Eravamo sudici, macilenti e miserandi, niente a che fare con i vigorosi uomini di mare che vedevamo arrampicarsi sul sartiame delle navi migliori. Nessuno dei due aveva voglia di dirlo - per non rafforzare la sensazione -, ma il nostro sogno diventava ogni giorno più improbabile.

Un mattino rubacchiammo un salame storto e rinsecchito da un carretto di salsicce spagnole e sedemmo nell'ingresso di una chiesa a goderci il banchetto. La carne ci metteva sempre di buon umore. « Sai, testa di cavolo, potremmo restare a Venezia e chiedere quella ricompensa » disse Marco.

« La ricompensa per il libro? » Mi pulii le mani unte sui pantaloni.

« Perché no? » « Sei una rapa. » Gli diedi una gomitata nelle costole. « Non

sappiamo nemmeno leggere. » « Bah. Sappiamo tenere gli occhi e le orecchie aperti meglio

di chiunque.» Marco si appoggiò allo stipite della porta e incrociò le gambe. « Potrei comprare un vestito nuovo a Rufina. Ehi, potrei comprarle una casa. È una bella idea, non trovi? »

Avevamo sentito parlare del libro a ogni angolo di strada. Udivamo i bottegai chiacchierarne con i clienti, i domestici far pettegolezzi negli androni e le prostitute bisbigliarne al buio. Una volta vedemmo un uomo nudo che usciva scortato da una bisca tenendosi le parti intime e implorando che gli ridessero i pantaloni. L'uomo che lo tirava per un braccio disse: «Te li prendiamo noi tutti i tuoi pantaloni, e anche la casa».

« Mi procurerò il denaro » piagnucolò l'uomo nudo. «Ah!» Il suo aguzzino lo scrutò con disprezzo. «Per pagare

quello che ci devi, dovrai chiedere la ricompensa per quel libro. »

La leggenda del libro era riemersa quando un marinaio

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turco, sbarcato giusto in tempo per agitare le acque, si era vantato di qua e di là per il porto. Lo vedemmo una notte fuori da una taverna, mentre si rivolgeva a un gruppo di marinai e di malviventi. Era alto e scuro di carnagione, con i baffoni e una testa arruffata di capelli neri. Era a petto nudo e portava una larga cintura di cuoio per tener su i pantaloni a sbuffo. « L'ha portato qui un mio antenato » disse il turco. « Era tra quelli che trafugarono le ossa di san Marco per portarle a Venezia da Alessandria. » Si diede una manata sul petto. « Il mio antenato! » Assunse il tono di voce di chi la sa lunga. « Le ossa e il libro furono nascosti in un carico di carne di maiale. Carne di maiale, no? I musulmani non avrebbero mai frugato là in mezzo. Le ossa e il libro arrivarono insieme. »

A riprova del suo racconto il turco indicò il Leone di Venezia, la creatura dorata e alata che tiene sotto una zampa un libro aperto sopra le porte della basilica di San Marco, dove furono inumate le ossa del santo. Il marinaio turco domandò: « Perché il leone legge un libro? » Strabuzzò gli occhi come se scrutasse la folla in cerca di una risposta. Spalancò le braccia e gridò: « È un indizio, naturalmente! »

Imbarcatosi il turco, la chiacchiera sul libro trasmigrò inevitabilmente dalle bettole dei marinai alle botteghe di Rialto. La diceria fece un balzo laterale dai mercanti alla classe dei domestici e, passando per le porte di servizio, scivolò nelle case della nobiltà. Infine, cadde ai piedi del doge, che ordinò immediatamente il dissotterramento delle ossa di san Marco e la perquisizione del sepolcro.

Non fu trovato alcun libro, ma dato che nessun'altra città più di Venezia aveva intrattenuto traffici con Alessandria, il doge, come chiunque altro, rimase dell'idea che il libro leggendario si trovasse davvero in qualche nascondiglio nella nostra Serenissima Repubblica. Il doge offrì una piccola fortuna a chiunque glielo avesse portato e i banditori percorsero le strade suonando i campanelli e annunciando la munifica ricompensa. Si propagarono le storie; crebbero le brame.

Per noi, i più infimi degli infimi, il libro e la ricompensa erano materia di chiacchiere oziose. Non sapevamo leggere e non saremmo stati in grado di distinguere le Scritture dalla lista del droghiere. Era inverosimile che io e Marco ci mettessimo

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alla ricerca del libro, soprattutto perché eravamo già impegnati a sopravvivere da un giorno all'altro. Però, cianciare del libro e fantasticare sul Nuovo Mondo era un'occasione di svago. Una sera, dopo una cena a base di bucce d'arancia e code di pesce, sedemmo con i piedi nudi a penzoloni in un canale tranquillo e ci scambiammo fantasticherie sulla nostra futura vita di uomini abbienti.

« Quando avrò il denaro della ricompensa, comprerò un palazzo grandioso nel Nuovo Mondo e Rufina sarà una signora rispettabile. I miei domestici le faranno indossare abiti di seta e a me una veste rossa, come un senatore. Avrò una stalla enorme con tanti cavalli, una cantina piena di vino pregiato e una dispensa zeppa di molte più cibarie di quante riesca a mangiarne » disse Marco.

« Quando arriverò nel Nuovo Mondo manderò a prendere una nubiana perché canti per me. Cantano bene, sai. Non sarà una serva. Farà colazione insieme a me e Francesca e avrà una stanza tutta sua. Un giorno tornerò a Venezia e darò un borsellino pieno d'oro alle Sorelle della Carità perché mi dicano chi sono i miei genitori » ribattei io.

Marco si irrigidì. « Genitori? Bah. Che testa di cavolo. » « Ecco, non dico tua madre... » « La puttana. » « Ma non vorresti ritrovare tuo padre? » « Perché dovrei? » La rabbia nel suo sguardo mi fece

sobbalzare. « Mio padre se n'è infischiato di me. Anche il tuo. » « Hai ragione. » L'improvvisa veemenza di Marco mi

spaventò. « Non me ne importa. » « Non abbiamo bisogno dei genitori. » « Giusto. » « Non abbiamo bisogno di nessuno. » « Io ho bisogno di te, Marco. » Me lo lasciai uscire di bocca e

trattenni il fiato. Era importante che facessi attenzione al mio lato tenero. E se fossi stato frainteso?

Marco si rilassò e mi squadrò studiandomi con i suoi lunghi occhi scuri. « Questo è vero » disse. « Te lo dico io cosa faremo; diventeremo fratelli. »

Ostrega. Una cosa enorme come un fratello non me l'ero mai sognata.

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« D'accordo. Sputa nella mano » disse lui. Sputammo tutti e due e ci scambiammo una stretta

scivolosa. « Io sono il più vecchio e questo significa che tu fai quello che dico io. Bene? »

Fissai il fratello maggiore. « Bene. » « Genitori. Bah. » « Bah. » Il canale si arrossò al tramonto, poi si infittì di un nero

lucente. Ci appoggiammo ai gomiti e demmo calci nell'acqua creando vaghi disegni. Quella sera, seduto accanto al fratello più grande, provai qualcosa di simile a un senso di pace, ma a turbare la mia contentezza c'erano alcune domande che non osavo porre ad alta voce: mia madre mi aveva consolato baciandomi le dita dei piedi come avevo visto fare ad altre madri con i loro bambini? Mio padre mi aveva tenuto in braccio con quella tenerezza impacciata che avevo visto negli altri padri? Gli ero stato sottratto o erano stati loro a cedermi? La mia nascita aveva causato la morte di mia madre, o era viva e mi stava cercando? Mia madre era bella o brutta? Mio padre era un uomo affascinante o un tipo rozzo? Avrebbero voluto che avessi una vita migliore di quella che erano in grado di darmi, o era gente superstiziosa che si era spaventata alla vista della mia voglia scura sulla fronte?

Il mio lato tenero si allargò insidioso e non si decideva a chiudersi. Mi preoccupò. Se non stavo attento, se consentivo a me stesso di provare troppe sensazioni, il dolore che era sempre in agguato avrebbe cominciato a farsi sentire. Non ero un duro come Marco. A me importava. Mi importava molto.

5

Il libro degli eredi Il capocuoco Ferrerò era seduto al tavolo infarinato con i

gomiti nell'impasto e io, che lo tenevo d'occhio, implorai una risposta. « Perché il doge ha ammazzato il contadino? » Giunsi le mani in atto di preghiera e le feci dondolare sotto il mento. «Vi prego, Maestro. Che cos'è cominciato? »

Il capocuoco sospirò, poi si alzò in piedi e mi passò accanto

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sfiorandomi e agitando il cucchiaio di legno, scettro della sua monarchia culinaria. « Non sono cose di cui si debba preoccupare un giovincello. »

Giovincello? La mia infanzia era finita con la morte della Canterina. Qualcuno dirà che ho avuto una breve infanzia infelice, ma l'infanzia felice viene sopravvalutata. Io ho avuto un'infanzia utile. E adesso, ostrega, adesso che mi stavano spuntando i peluzzi sul labbro superiore, seguii il capocuoco per tutta la cucina, molestandolo come una zanzara. « Il contadino era un criminale? È stato un esperimento? Il liquido ambrato era un antidoto? Una pozione? »

Il capocuoco Ferrerò alzò le mani. « Madonna! Luciano, abbi pietà. » L'esclamazione mi zittì. Si raddrizzò la berretta da cuoco e disse, in tono conciliante: « Che ne dici di una lezione di cucina? » Il suo solo scopo era distrarmi, ma lui faceva tutto nel più gentile dei modi. Per un apprendista, una lezione di cucina impartita dal capocuoco era una grande occasione.

Il diritto di salire di grado nella gerarchia della cucina un apprendista deve guadagnarselo, e a me non era ancora permesso apprendere i segreti del mestiere. I cuochi mi voltavano le spalle o mi cacciavano quando arrivava il momento di scegliere le erbe per uno stufato o aggiungere a una salsa l'innaffiata di vino decisiva. Quelli erano segreti serbati con cura e si imparavano soltanto dopo l'apposito apprendistato e dopo essere saliti di rango, passo dopo passo. In quella cucina, solo quell'ubriacone di Giuseppe aveva un grado inferiore al mio perché non dava segni di poter migliorare.

Io ero disposto, anzi impaziente di lavorare sodo perché mi servivano la statura e la rispettabilità di un artigiano per conquistare Francesca. Inoltre, ero grato al capocuoco per avermi tolto dalla strada. Non volevo deluderlo. E l'attività culinaria mi stava cominciando a piacere. Trasformare un pezzo di carne sanguinolenta in un piatto prelibato pareva un'arte allettante. Strappare alla terra le piante crude e farne appetitose miscele era il segno di un'alchimia affascinante. Cominciai a capire che nella cottura dei cibi c'era più di quanto sembrasse a un primo sguardo.

Iniziai con i lavori più umili. Restavo a lungo in cucina dopo

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che tutti gli altri se n'erano andati e lavavo le pentole in una vasca così grande da dovermi mettere in piedi su uno sgabello e stare attento a non cadere nell'acqua insaponata. Sistemavo le pentole pulite in una rastrelliera di legno e arrancavo avanti e indietro, trascinando secchi di acqua calda per sciacquarle. Dopo aver spazzato gli scarti delle verdure e il sale versato - gli avanzi che quello sbadato di Giuseppe non aveva raccolto — sgombravo i tavoli da lavoro, strofinavo i taglieri, bruciavo zucchero e aceto per disperdere gli odori e, infine, controllavo il lento sobbollire notturno delle marmitte. Se il fuoco era troppo vivace, il brodo rischiava di traboccare, ma se si fosse spento, il brodo sarebbe inacidito. Diventai bravissimo a trovare il grado perfetto di ebollizione e a rincalzare il fuoco perché si mantenesse acceso.

Il mio compito più arduo consisteva nel far sì che, durante la notte, in cucina non restasse acqua ferma. Una delle eccentricità del capocuoco era l'orrore per l'acqua stagnante: nessuno capiva perché, ma la regola era applicata con il massimo rigore. Ogni notte dovevo togliere il tappo in fondo al serbatoio e far scolare l'acqua in un mastello, che veniva usato solo per innaffiare l'orto, mai per bere o cucinare. Il capocuoco insisteva addirittura che, dopo averli svuotati, asciugassi i secchi d'acqua con gli stracci puliti e li lasciassi seccare accanto al fuoco. Pareva inutile, ma era una regola imprescindibile. Sbrigate le faccende serali, ero l'ultimo a crollare nel letto e il primo a tornare nella cucina vuota prima dell'alba.

Ma una lezione di cucina! « Grazie, Maestro » dissi. Chinai il capo smorzando l'entusiasmo, ma rimanevo dell'opinione che con le moine avrei strappato qualche informazione sul doge e il contadino. A quei tempi avevo una stima esagerata delle mie opinioni.

« Bene, cominciamo » fece lui. Rovistò in un cesto e scelse una grossa cipolla dorata dalla buccia integra. « La cipolla » spiegò, « è la regina delle verdure. Conferisce fascino e colore alle vivande e la sua fragranza, mentre caramella nel tegame, è una promessa di delizie. »

« Sì. Delizie. Mi fa venire in mente l'aria deliziata che aveva quel contadino con il suo bicchiere di vino. Voglio dire, fintanto

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che non è morto. » Il capocuoco prese una mannaietta. « Se ne hai il tempo,

maneggia la cipolla con rispetto. Osserva la buccia brunita. » Alzò la cipolla e la girò lentamente. « Ha il colore rarefatto dello sherry invecchiato quando la luce filtra dal vetro. »

Annuii e tentai di rimanere in rispettoso silenzio, ma... « Quel colore mi fa venire in mente il liquido che il doge ha versato nella gola del contadino.»

Il capocuoco chiuse gli occhi per un istante. Poi introdusse con cautela la punta del coltello sotto lo strato esterno della buccia. « Quando peli una cipolla, non asportare la polpa sotto la buccia. Prenditi il tempo di liberare solo la pellicola. Le cipolle vecchie si sbucciano con facilità, ma le giovani sanno essere testarde, sai? » Il capocuoco mi lanciò uno sguardo penetrante che finsi di non capire. Levò soltanto la buccia e la tenne sul palmo della mano. « Guarda la buccia, Luciano. Osservane la delicatezza, il colore e il disegno, simile a schegge traslucide di rame e d'oro. »

« Oro! Ecco un buon motivo per ammazzare qualcuno. » Era come se quelle parole imprudenti mi fossero scappate di bocca prima che riuscissi a fermarle. « Capisco punire un ladro. Ma perché versare da bere nella gola di un morto? »

Il capocuoco alzò gli occhi al cielo. Senza guardarmi spinse la pellicola cartacea in un mucchietto a margine del tagliere e, quando mi mossi per raccoglierlo, mi fermò la mano. « Lascia lì le bucce, Luciano. Danno ispirazione. »

« Ispirazione. » Annuii lentamente e, imbarazzato ma insistente, chiesi: «Mi domando che cosa avrà ispirato il doge... »

« Guarda la cipolla nuda, Luciano. Si è appena spogliata e nessuno l'ha mai vista, a parte te. Il suo colore è il bianco immacolato con qualche sfumatura di verde erba. Tienila in mano con delicatezza. Fai il primo taglio perfettamente al centro e guarda che cosa hai portato alla luce. » Divise la cipolla per mostrarmene il disegno concentrico e sorrise. «Aprila al cuore e ammira la perfezione con cui gli strati si annidano l'uno dentro l'altro. » Riflette sulla struttura della cipolla e mormorò: « Ci fu un maestro greco di nome Euclide che fece alcune osservazioni interessanti sulla geometria dei

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cerchi... » Dalla mia espressione doveva aver capito quanto fossi confuso e aggiunse: «Adesso non ha importanza ».

Prese la cipolla e assunse un tono brusco. « Inala l'aroma, l'anima, ma prendi tempo. L'arte culinaria, come l'arte di vivere, va assaporata per il gusto di farlo. » Mosse la cipolla sotto il proprio naso e inalò a fondo. « Poco importa se il piatto che prepariamo sarà mangiato in pochi minuti; l'atto della creazione è tutto. »

Appoggiò mezza cipolla sulla parte piatta e l'affettò per la larghezza avvicinando l'orecchio al tagliere. «Ascolta com'è croccante ogni fetta, Luciano. Odi la musica della freschezza. »

I vapori esalati dalla cipolla mi fecero piangere e le lacrime pungenti fecero prendere un'altra piega alla mia curiosità. Domandai: « Perché le cipolle fanno piangere? »

Il capocuoco Ferrerò fece spallucce mentre una lacrima gli scivolava lungo una guancia. « È come chiedersi perché si piange in presenza della grande arte, o della nascita di un bambino. Sono lacrime di timore reverenziale, Luciano. Lasciale scorrere. »

Mi asciugai gli occhi, ma al capocuoco si rigò il viso di lacrime senza che lui facesse nulla per fermarle. Quando tirò su i pezzettini di cipolla da mettere nella marmitta, una lacrima gli sgocciolò dal mento. Il suo timore reverenziale avrebbe insaporito la minestra.

«Ma il doge... » « Basta! » Il capocuoco sbatté il coltello sul tagliere e si voltò

verso di me con le sopracciglia inarcate. « Lascia stare, Luciano. Ogni cosa a suo tempo, e per te il momento non è ancora arrivato. La lezione è finita. Torna al lavoro e non una parola di più. »

Indietreggiai e feci un gesto con la punta delle dita all'altezza delle labbra come se stessi girando la chiave nella toppa. Stupido. Mi ero dimenticato che bastava un nonnulla per essere rispedito in strada. Afferrai la scopa e mi impegnai a spazzare in un angolo le piume d'oca che avrei infilato nei sacchi per le cameriere. L'oca, da parte sua, stava già rosolando delicatamente allo spiedo e io avevo in mente di pescare il collo e il ventriglio dalla marmitta il mattino seguente, quando sarebbero stati teneri e gustosi: un vero

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banchetto per Marco e Domingo. La sonora esternazione del capocuoco non era da lui. Mi

guardai intorno per cogliere le reazioni dei cuochi, ma poiché nessuno sembrava accorgersi di me, immaginai di essere temporaneamente diventato persona non grata. Solo Giuseppe intercettò il mio sguardo per scoccarmi una delle sue occhiate velenose. L'incredibile fortuna grazie a cui da monello di strada ero diventato apprendista del capocuoco mi aveva reso oggetto del suo odio sordo e implacabile.

La mia giovane mente iperattiva saltava da Giuseppe al capocuoco al doge al contadino morto e ritorno. Compressi manciate di piume d'oca nei sacchi di tela ruvida, preparandole per le cameriere che avrebbero selezionato quelle soffici e adatte a confezionare i cuscini. Tutto preso dai miei pensieri, lasciai che troppe piume mi passassero sopra la testa e finissero nel camino, dove lampeggiarono e si spensero con uno sfrigolio. Mentre le piume mi volavano intorno in un morbido turbine, architettai un piano per scoprire che cosa sapesse il capocuoco sulla morte del contadino.

Sapevo dove viveva. Di tanto in tanto la domenica, il suo unico giorno di riposo in cui faceva mandare avanti la cucina da Pellegrino, mi portava a messa insieme alla famiglia nella chiesa di San Vincenzo, e mi conduceva a casa sua per il pranzo domenicale. L'ora di noia assoluta da trascorrere in chiesa era un prezzo che pagavo volentieri per essere ammesso nella famiglia del capocuoco. Mi facevo il bagno con cura e indossavo abiti puliti in previsione del giorno in cui mi sarei seduto nelle panche accanto alle persone di buona famiglia, invece che restarmene in piedi in fondo alla chiesa insieme ai mendicanti.

La messa mi annoiava, ma mi consolava che anche il capocuoco sembrasse poco interessato. All'offertorio lasciava vagare lo sguardo, durante il sermone si esaminava le unghie, sospirava ogni volta che doveva inginocchiarsi e, mentre il coro intonava un sonoro canto gregoriano, fissava il vuoto e batteva con impazienza il piede sull'inginocchiatoio imbottito. Una volta indagai sul suo stato d'animo durante la messa. « È una questione di forma. E meglio non attirare l'attenzione delle persone sbagliate. »

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Era eccitante sedersi al tavolo da pranzo dopo la messa e mangiare da un piatto di porcellana con una forchetta d'argento come un membro qualsiasi di una famiglia rispettabile. Quei pasti furono una rivelazione. La famiglia parlava di un mondo a me completamente estraneo: scuola, chiesa, sarte, parenti e vicini. Ascoltavo e parlavo solo quando mi rivolgevano la parola, ed evitavo di guardare troppo a lungo le giovani figlie.

Non capivo perché il capocuoco mi portasse a casa sua la domenica. Perché non il sottocuoco Pellegrino, oppure Enrico, magari Dante, o un altro membro anziano del personale? Non feci domande, però, casomai interrogare la buona sorte avesse il potere di vanificarla. Stavo a capo chino e sguazzavo nel piacere di quel senso di appartenenza. Mi ammantavo di quel calore familiare preso a prestito e fingevo di essere l'unico figlio maschio della famiglia.

Il capocuoco era pazzo d'amore per i suoi. La moglie Rosa era la sua ancora, la figlia maggiore, Elena, una bambina di dieci anni dai capelli chiari, era il suo orgoglio; le gemelle di otto anni, Adriana e Amalia, l'una immagine speculare dell'altra, le considerava un portento, e la piccola Natalia Sofia, di cinque anni, con la sua massa appariscente di riccioli scuri e un carattere dolce quanto il suo viso, era la minuscola imperatrice della sua gioia.

Il capocuoco mi incoraggiava a finire quello che avevo nel piatto — « Mangia, Luciano. Mangia » - ma la signora Ferrerò passava la pasta senza guardarmi. Non era sgarbata, ma la sua freddezza mi suggerì di servirmi porzioni piccole e di tenere la bocca chiusa. Non gliene volevo. Il suo atteggiamento mi era più comprensibile di quello del capocuoco. Che diritto avevo di sedermi alla sua tavola? Pareva che né io né lei lo sapessimo.

L'ultima domenica in cui mi fu permesso pranzare insieme alla famiglia, ci appoggiammo allo schienale, rimpinzati dal buon pasto a base di pollo in salsa al rosmarino. Ci rilassammo con la fontina e l'uva bianca mentre Elena descriveva l'abito della cresima. Sono felice di non aver saputo allora che la conversazione avrebbe messo fine ai miei pasti domenicali con la famiglia. Nel caso, forse avrei versato lacrime nel pollo.

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A Elena si imporporarono le guance mentre ciarlava del suo abito bianco, della morbidezza della seta cinese e della complessità del merletto belga. Il capocuoco ascoltò mentre gli passava sul volto un sorriso malinconico. Elena descrisse l'elaborato monogramma che avrebbe ricamato su una manica del vestito e, al sentirne parlare, al capocuoco si spense il sorriso. Abbassò l'acino che stava per infilarsi in bocca e lo fece rotolare nel piatto. « La mia bella Elena. Oggi la cresima, domani le nozze » disse.

« Sì, papa. » Il rossore di Elena si intensificò. Lui sospirò. « Col tempo, tutte voi cucirete i merletti sull'abito

nuziale e lascerete vostro padre. Ricamerete il monogramma di vostro marito su tovaglie e lenzuola, e il nome dei Ferrerò verrà dimenticato. »

La signora Ferrerò sbatte il tovagliolo sulla tavola. « No, Amato. »

« Mi dispiace, amor mio. Mi pesa. » « È la volontà di Dio. » Il capocuoco mi guardò come se stesse per dire qualcosa,

ma... «Amato. » La voce della signora Ferrerò era prudente e

incolore. « No. » Il capocuoco fissò l'acino d'uva sul piatto. « È un bravo

ragazzo, Rosa. » « Non ho intenzione di starti ad ascoltare. » Si alzò con fredda

dignità. « Camilla » chiamò, « sgombra la tavola. » La vecchia Camilla arrivò a precipizio dalla cucina,

allarmata dal tono brusco della padrona, e si mise ad accatastare i piatti. La signora Ferrerò parlò a denti stretti. «Amato, vorrei parlare con te da sola, per favore. »

Seguendo la moglie nell'atrio, il capocuoco sorrise alle figlie e passò la mano sui riccioli della piccola Natalia. Nel suo stato di agitazione, la signora Ferrerò non chiuse completamente la porta e tutti noi udimmo l'incalzante durezza della sua voce. Camilla sparecchiò più lentamente del solito. Natalia si coprì la bocca con la mano piena di fossette e le bambine si lanciarono l'un l'altra occhiate apprensive. Ascoltammo.

«Amato, ti fai delle illusioni. » « Rosa, cara, dovresti vederlo in cucina. Lavora sodo ed è in

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gamba. » « Non dubito che lo sia. È un ragazzo di strada che è riuscito

a intrufolarsi a palazzo. » « Non è uguale agli altri ragazzi di strada. Possiede una

propensione naturale al miglioramento. Come l'avevo io. » « Basta. Hai pietà di lui e il tuo desiderio di un figlio maschio

ti rende confuso. » « Rosa, stava rubando una melagrana. Non del pane muffito

con cui riempirsi la bocca senza pensare. Una melagrana va sbucciata con cura e mangiata a grano a grano. Richiede tempo. Per mangiare una melagrana ci vuole attenzione. »

« Di che parli? Ha rubato una melagrana perché era a portata di mano. Viene dalla strada. Si accompagna a gente disgustosa. È un ladro e un intrigante e tu lo porti a casa nostra? Lo presenti alle nostre figlie? No! Neanche per sogno. Sarà fonte di guai, Amato, lo sento. »

« Cara, non ti agitare. Ho solo bisogno di un apprendista. » « Ma perché un ladro? E perché si trova in casa nostra? » La

sua voce si fece malinconica. « Amato, ho una brutta sensazione nei suoi riguardi. Perché lui? Perché è qui? Che cosa hai in mente? »

Ci fu una pausa. Poi la voce del capocuoco si fece grave e contrita. « Rosa, amore mio, c'è qualcosa che devo dirti. Molto prima che ti incontrassi c'è stato qualcuno... »

Una mano - non saprò mai se fu quella del capocuoco o di sua moglie — una mano spinse la porta chiudendola con uno scatto e le parole del capocuoco si ridussero a una serie di suoni confusi e indistinti. Fu allora che le parlò dei sospetti che aveva nei miei riguardi? Fu allora che le fece notare la mia voglia? Fu allora che le diede motivo di pensare che potessi costituire una minaccia per la pace familiare? Questo spiegherebbe perché fu l'ultimo pasto che consumai insieme a loro. Quel giorno lei non tornò più a tavola.

Che la signora Ferrerò avesse di me un'opinione così pessima mi rattristò, ma l'interpretazione data dal capocuoco al furto della melagrana mi lasciò commosso e stupefatto. Era un'idea piacevole che qualcuno mi scambiasse per un ragazzo attento, capace di scegliere di rubare una melagrana, per poi selezionare un grano rilucente alla volta, assaporarne il gusto,

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e ripulirsi le labbra con pignoleria. Fantasticai di mangiare così — io che mi ingozzavo più in fretta che potevo - e fui costretto a sorridere. Mi domandai se una persona potesse cambiare fino a quel punto. Era mai possibile che, senza saperlo, avessi un'inclinazione alla raffinatezza? Vi fu un attimo emozionante in cui pensai di poter diventare il ragazzo sensibile, distinto che il capocuoco immaginava io fossi, ma...

L'attimo passò e la squallida verità si impose. Se avessi potuto tenermi la melagrana, le avrei levato la buccia con i denti e mi sarei ingozzato del frutto, sgranocchiando a bocca piena, senza assaporare quasi nulla, immemore del succo che mi avrebbe imbrattato le guance e sarebbe colato dal mento. Avevo fame.

Eppure, le osservazioni del capocuoco a proposito della melagrana mi fecero venire in mente in che modo aveva affettato la cipolla. L'attenzione a ciò che si mangia è davvero in grado di modificare la sensazione del cibo? Adocchiai sulla tavola l'uva bianca e la fontina burrosa e mi chiesi se, concentrandomi, avrei scoperto altri sapori nel grappolo.

Scelsi un acino e lo osservai: aveva un colore simile a quello di una mela verde, con in più una fragile trasparenza e una pallida lucentezza. Lo ruotai tra le dita, lo premetti delicatamente e sentii la superficie soda, rigonfia, cedere sotto i polpastrelli. Prima di appoggiarlo sulla lingua, pronunciai un silenzioso grazie a Dio, poi me lo feci rotolare in bocca posticipando il morso. L'attesa mi rammentò Francesca: quando l'avrei rivista? Pensare a lei me lo fece mordere con forza. Ciononostante mi costrinsi a osservare la resistenza dispettosa offerta dalla buccia. L'acino si spaccò e mi inondò la bocca con una fragranza così delicata da parer quasi un profumo. Chiusi gli occhi e succhiai l'acino esploso, traendo piacere dalla consistenza contrapposta della buccia e della polpa. Masticai lentamente e lasciai che il nettare mi saturasse il palato. Sembrava che non avessi mai mangiato un acino tanto squisito. Guardai il grappolo sulla tavola e meditai di mangiare tutti gli acini a quel modo, uno alla volta, stando attento, ogni chicco un piccolo miracolo di perfezione. A dir la verità, trovavo snervante la prospettiva, tuttavia masticai a lungo l'acino con reverenza ed ebbi la sensazione di star

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mangiando tutti i chicchi d'uva del mondo contemporaneamente. Era solo un acino, ma ebbe il sapore di un inizio.

E tuttavia, la signora Ferrerò aveva ragione. Avevo rubato la melagrana perché era a portata di mano. Se avessi avuto vicino un pezzo di pane muffito, avrei preso quello. Il capocuoco era un uomo generoso per natura che concedeva a chiunque il beneficio del dubbio e, come osservato dalla moglie, il suo desiderio di un figlio maschio forse gli aveva confuso le idee. Come la maggior parte delle donne, lei era più realistica, più concreta. Stendeva sulla famiglia il suo calore materno come una chioccia con la propria covata, ma l'apertura delle sue ali non arrivava a coprire quelli del mio stampo. Amava i suoi familiari; io costituivo una minaccia alla loro innocenza. Sapeva perfettamente che un ragazzo di strada non ha nessuna nobiltà di fronte alla fame e, pur sapendo che quella era la triste realtà dei fatti, non voleva che la mia meschinità corrompesse le figlie.

Malgrado le differenze tra loro, il capocuoco l'amava incondizionatamente e la rispettava. Rispettava tutte le donne. Ricordo cosa disse in proposito un pomeriggio in cui il lavoro in cucina procedeva con lentezza, e il personale era infiacchito da un'inconsueta apatia. Pellegrino ed Enrico poltrivano accanto al forno lamentandosi delle mogli. Ansioso di unirmi a loro -ansioso di comportarmi come uno dei dipendenti regolari -rammentai il cinico ritornello di Marco sulle donne e pensai di farli ridere ripetendolo. Sorrisi con una smorfia, imitando la spacconeria beffarda di Marco e dissi: « Le donne, bah! Un male necessario».

« Come osi! » Il capocuoco si avvicinò a passo di marcia sbraitando:

« Nella mia cucina, nessuno deve mancare di rispetto alle donne ». Pellegrino scappò veloce al suo tagliere ed Enrico si diede da fare con una pala per infornare il pane. A voce più bassa, Amato aggiunse: « Una donna non è cosa su cui scherzare, Luciano. Scegli bene e avrai l'anima gemella».

« Perdonatemi, Maestro » risposi umilmente. « So che avete ragione. » Poi gli parlai di Francesca.

Domandò: « È in convento? »

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« Sì, Maestro, ma non ci vuole stare. » « Come fai a dirlo? » « Lo capisco. » « Oh, Dio. » « Ma io l'amo! » Si fregò il mento. « Lei ti ama? » « Non ancora, ma un giorno forse. » « Oh, Dio. » Si allontanò scuotendo la testa e borbottando tra

sé e sé. « Una suora che ha visto al mercato. Oh, Dio mio. Ragazzi. » Lavoravo in cucina da quasi un mese quando, recatomi a

Rialto a fare la spesa per conto del capocuoco, avevo parlato con Francesca. Prima d'allora l'avevo venerata da lontano molte volte. Mi ero tenuto spesso a distanza - vergognandomi dei miei vestiti stracciati, ma infatuato e in preda allo struggimento - e l'avevo guardata camminare nel sole dietro la Madre Superiora. Le avevo studiato il viso, cosi morbido e soffuso di luce rosata, e ne ero rimasto ammaliato. Sapevo il suo nome perché la vecchia suora la rimproverava spesso: « Francesca, smettila di bighellonare », « Francesca, non sognare a occhi aperti », « Francesca, mi hai sentito? » I continui rimproveri della Madre Superiora avevano il potere di attenuare la luce sul suo viso, ma non di spegnerla. Sul momento sembrava che Francesca avesse imparato la lezione, ma non appena la Superiora volgeva altrove lo sguardo, tornava a illuminarsi e a divorare i suoni e le immagini che aveva intorno.

La Madre Superiora attraversava il mercato ondeggiando nella veste voluminosa dal bianco soggolo inamidato, come una nave quando entra in porto, e Francesca la seguiva a passettini castigati, portando un cesto di vimini e dando un'occhiata di nascosto a tutto e a tutti. Indossava la semplice tonaca marrone delle novizie con una corda legata in vita. Era vestita da suora, ma lo capiva chiunque che non faceva sul serio. Dal velo spostato all'indietro con noncuranza spuntavano i capelli biondo chiaro che lasciavano scoperta la fronte bronzea, e intorno al viso le danzava sempre allegramente qualche ciocca ribelle. Aveva occhi grandi, da antilope.

Occhi come quelli li avevo visti nella scena di caccia di un

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arazzo, in una delle sale aperte al pubblico del palazzo, e il capocuoco mi aveva detto il nome dell'animale. Nella raffigurazione, i cacciatori dai volti impazienti inseguivano a cavallo il grazioso animale. L'antilope sembrava una creatura gentile come il suo nome e non capivo l'entusiasmo dei cacciatori all'idea di ucciderla. L'animale dalla sorte segnata guardava dall'arazzo implorando soccorso e quegli occhi mi turbarono al punto che imparai a camminargli davanti a testa china.

Perso nel ricordo degli occhi da antilope di Francesca, sobbalzai quando una cameriera mi diede dei colpetti sulla spalla. Era venuta a prendere i sacchi con le piume d'oca e, vedendo intorno a me il leggero turbine del piumino che ancora non si era acquietato, fece una smorfia e mi strappò di mano l'ultimo sacco. Borbottò: « Sciupone ».

« Scusatemi. » « Bah. » Raccolse gli altri sacchi e se ne andò impettita. Il suo disprezzo mi riportò in cucina. Pensavo

ossessivamente a Francesca, ma in quello strano, lungo giorno, dopo essere stato testimone di un omicidio e aver pelato una cipolla, la curiosità di conoscere le motivazioni del doge dissolse il pensiero di Francesca, come si erano dissolte le piume d'oca nel fuoco. Ero smanioso di capire il comportamento del doge ed ebbi l'improvvisa rivelazione che il capocuoco avrebbe svelato tutto alla sua dolce metà, la moglie Rosa. Il doge non avvelenava contadini alla sua tavola tutti i giorni e confidai nel fatto che gliene avrebbe parlato. Non dovevo far altro che recarmi a casa sua quella sera e origliare.

Una piuma vagabonda mi pizzicò il naso a mò di avvertimento, ma io la scacciai e predisposi il mio piano.

6

Il libro dei gatti A ben pensarci, mi sorprende che il palazzo ducale, già

venerando alla mia nascita, conservi tuttora la sua eleganza originaria; sulle antiche pietre risplende ancora la patina della giovinezza. E un palazzo massiccio, che occupa un intero lato

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della vasta piazza San Marco, eppure sembra fragile. Un porticato di bianche colonne dai capitelli scolpiti sorregge i piani superiori di marmo rosa, traforati dalle finestre a ogiva in stile bizantino. Ora che sono vecchio, mi capita di trovarmi nella piazza e di stupirmi di fronte all'equilibrio precario di forza e grazia. Ma in quella sera feconda di tanto tempo fa, giovane e divorato dalla curiosità, mi precipitai a casa del capocuoco, cieco di fronte alla magnifica architettura e ignaro di tante altre cose.

Dovetti aspettare che l'ultimo cuoco appendesse il grembiale, mi augurasse buonanotte e uscisse con lo stinco d'agnello avanzato avvolto nella tela cerata. Lo stinco era mio. O, quanto meno, era quello che avevo destinato a Marco e Domingo. Avevo posticipato il momento di rivendicarlo e adesso era sparito. Mi riecheggiò in mente la perenne ammonizione del capocuoco: Fà attenzione, Luciano.

Quando fui certo che nessuno sarebbe tornato mi levai il grembiale e scappai. In piazza San Marco diedi una rapida occhiata alla torre dell'orologio appena costruita e vidi che forse ce l'avrei fatta per un pelo ad ascoltare la conversazione che si sarebbe svolta a cena a casa del capocuoco. L'orologio mostra anche la data, le fasi lunari e la posizione del sole nello zodiaco; l'astrologia è una scienza di cui si servono le classi superiori. Avevo sentito dire che viviamo nell'Era dei Pesci, un'epoca di mistero e in divenire, e che dovranno passare altri cinquecento anni prima di entrare, col nuovo millennio, nell'Era dell'Acquario, l'età apocalittica delle sommosse e delle rivelazioni. Pareva fosse interessante vivere nell'Era dell'Acquario e provavo un vago disappunto al pensiero che non l'avrei vista.

Avanzai a grandi passi lungo il Canal Grande sentendomi alitare in faccia il fiato umido della sera. Dietro il palazzo, svoltai in una strada laterale che portava al Ponte delle Lacrime, un arco marmoreo gettato su un canale per mettere in comunicazione i corridoi segreti del palazzo con le prigioni sotterranee degli inquisitori. Su quel ponte, le Cappe Nere scortavano criminali ed eretici alle buie grotte sott'acqua dove i poveri sventurati giacevano in catene nelle celle oscure, ascoltando lo sciaguattio dei remi delle gondole ogni volta che

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passavano rapide sulla loro testa. Tremanti e affamati, attendevano che certi tangheri dall'aspetto scimmiesco li trascinassero sulla ruota o sulle punte incrostate di sangue della Vergine di Norimberga. Le lacrime dei prigionieri che guardavano il cielo per l'ultima volta avevano dato il nome al ponte. Quella sera il Ponte delle Lacrime era deserto, a parte un gatto stravaccato nell'ombra.

A Venezia ci sono sempre stati troppi gatti. Nei momenti in cui mi lascio andare alle congetture fantasiose, considero i gatti di Venezia un emblema della morte. Tutti conoscono la leggenda delle sette vite, la sfortuna associata ai gatti neri e la loro fama di intimi delle streghe. I gatti e le loro cupe leggende fanno parte della città, tant'è vero che abbiamo costruito le fontane con delle piccole rientranze, simili a minuscole scale, perché i felini salgano a bere con più facilità. I gatti e i pensieri che suscitano sono veneziani fino al midollo e mi domando: tutti quei gatti dovrebbero rammentare agli edonistici veneziani la loro condizione di mortali? Le sette vite dovrebbero farci riflettere sul concetto di resurrezione? Queste creature enigmatiche rimandano in qualche modo all'esistenza della magia?

Mi fermai un attimo sul ponte per osservare il riflesso delle stelle brillare nell'acqua nera del canale; il ponte di marmo bianco pareva sospeso in un cielo notturno al catrame, punteggiato sopra e sotto da capocchie di spillo luccicanti; soltanto ora rifletto sulle minacciose implicazioni di una città che galleggia nel buio. Quella sera attraversai il ponte spinto dall'esuberanza della giovinezza. Le lunghe giornate in cucina mi avevano spento, ma quella sera mi si risvegliò in petto l'antica eccitazione data dal rischio. Scherzando, ammonii un gatto appostato con la frase che le madri rivolgevano ai bambini indisciplinati: «Attento che ti prendono le Cappe Nere». Il gatto sibilò il proprio disappunto. Risi e continuai a correre.

Dai tempi della mia giovinezza, sono tornato spesso a visitare Venezia, non fosse altro che per sorridere dell'ironia, della tenace illusione della sua nobiltà. L'acqua continua a sussurrare storie di morte mentre lambisce i palazzi. Gli uomini avvolti nei mantelli compaiono tuttora dall'oscurità e tornano a dissolversi in essa. Venezia è sempre stata

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l'ambientazione perfetta per i segreti, la seduzione e i pensieri malinconici di un poeta. Contaminata dall'iniquità, Venezia invita alla resa morale non con una giocosa strizzatina d'occhio, ma con il sottinteso di essere, da sempre, sguaiata sotto la maschera regale.

Venezia è una città di illusioni e solo chi è cresciuto nelle sue strade sa farsi largo al buio nei suoi meandri sognanti. Avendola esplorata a fondo quando vivevo per grazia sua, mi trovavo in una posizione di vantaggio. Mi occorsero pochi minuti per scovare l'angusto rio della casa del capocuoco.

Era un edificio alto con il portone azzurro, le finestre ad arco e una loggia di pietra che correva per l'intera lunghezza del piano nobile, il livello mezzano che comprendeva la sala da pranzo, la cucina e il salotto. Come era consuetudine, al piano terra c'erano la lavanderia e la dispensa e l'ultimo piano era occupato dalle camere da letto. Ciascuna di esse si affacciava su un terrazzino con la ringhiera di ferro panciuta che dava sul marciapiede lastricato e sul verde canale. I gradini di pietra scendevano dal portone direttamente in acqua, dove, attraccata a un palo a strisce, si dondolava tranquillamente la sua gondola. Era una casa agiata, degna di un cittadino rispettato quale il capocuoco del doge; esattamente il genere di casa che volevo per Francesca e per me.

Mi fermai nella fitta ombra proiettata dal lungo loggiato del piano nobile e l'eccitazione svanì con l'avanzare del senso di colpa. Fino a quel momento mi ero sempre recato in quella casa come ospite bene accetto. Il capocuoco mi aveva circondato paternamente con un braccio, sfamato, sorriso con dolcezza e accolto in seno alla famiglia. Adesso che mi aggiravo come un criminale, mi sentivo angustiato dalla mia slealtà. Pensai di andarmene, ma ero giovane e ardevo dalla voglia di sapere... qualsiasi cosa. Salii la scala fino al piano nobile e strisciai lungo il pavimento di pietra levigata della loggia, attento a non urtare i vasi di fiori disposti in fila contro il muro, e raggiunsi la finestra vivacemente illuminata della sala da pranzo. Il sangue mi pulsava nelle orecchie.

La mia ignoranza adolescenziale della naturale complessità della vita mi portava a immaginare che il capocuoco e la moglie fossero sistemati come mi avrebbe fatto comodo, tanto

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vicini da farmi origliare a mio agio, ma non abbastanza da accorgersi della mia presenza. Ovviamente, avrebbero cominciato a parlare del doge nel momento in cui mi fossi trovato a portata d'orecchio. Prevedevo che il capocuoco avrebbe raccontato alla moglie l'accaduto, gliene avrebbe spiegato ragioni e conseguenze con chiarezza e in modo dettagliato e avrebbe segnalato la conclusione della storia andando direttamente a letto. Ah!

Diedi una veloce occhiata all'allegra sala da pranzo e la vidi illuminata da almeno una dozzina di spesse candele di cera. Il capocuoco e i familiari sedevano attorno alla lunga tavola di castagno, bagnati dalla luce pastosa delle candele, rilassati e immersi nelle chiacchiere del dopo cena. Ascoltai, appiattito contro il muro. Intorno a me si spanse l'odore dello stufato d'agnello e del pane appena cotto e rammentai di non aver cenato. Mi si contrasse lo stomaco e gli imposi di stare tranquillo.

La signora Ferrerò parlò di un alterco con il macellaio. Non lo nominò mai, e si limitò a chiamarlo il ladro. Disse: « La mia non è immaginazione. Imbroglia anche mia sorella. Quell'uomo fa scorrere il piatto della bilancia come gli pare e aumenta il peso ».

Il capocuoco mormorò qualcosa che esprimeva un vago consenso.

Le figlie parlarono delle maestre e delle compagne di scuola. Non essendo nobili, non avrebbero mai imparato a parlare in greco e in latino come le figlie dell'aristocrazia, per esempio Lucrezia Borgia, la figlia del papa, ma avrebbero appreso a leggere, scrivere e far di conto. Elena disse di voler studiare astrologia, ma il capocuoco obiettò: « Meglio studiare quel giovane maestro polacco, Copernico. Ha una teoria interessante secondo cui la terra ruota attorno al sole, ma voi non pronuncerete il suo nome in pubblico, vero? » Nella stanza calò il silenzio e io sbirciai dentro. Elena guardò il padre con la perplessità nello sguardo e la piccola Natalia appoggiò una guancia sul tavolo sbadigliando. Il capocuoco disse: « Non importa. Parleremo di Copernico quando sarai più grande ».

Ascoltai le banalità della vita quotidiana della famiglia e attesi che il capocuoco accennasse all'omicidio che si era

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consumato a palazzo, ma questi si limitò a mostrarsi solidale con le lamentele della moglie e ad ascoltare i resoconti delle figlie. Dopo un po' mi resi conto che, ovviamente, aspettava di essere solo con la moglie. Quale padre avrebbe parlato di omicidio di fronte alla prole? Le bambine si sarebbero coricate, e allora lui avrebbe raccontato tutto alla consorte.

Infine udii le sedie raschiare il pavimento e Camilla che sparecchiava sbattendo i piatti e facendo tintinnare le forchette. Mi figurai le mani ossute della vecchia domestica che ammucchiavano i piatti, il lungo viso severo, i radi capelli grigi raccolti in una piccola crocchia. Avevo osservato molte volte Camilla mentre sgombrava la tavola. Il senso di colpa si intromise di nuovo. Come potevo spiarli? A parte la Canterina, erano la sola famiglia che avessi mai avuto. Vergogna. Se me la fossi svignata immediatamente, sarebbe stato come se non fossi mai andato lì. Cominciai ad allontanarmi dalla finestra, e fu allora che si misero a cantare.

Le bambine si lanciarono spontaneamente in una interpretazione sonora e impetuosa di Cielo e luna mentre aiutavano Camilla a impilare i piatti su un vassoio. Udii la voce piena e tenorile del capocuoco unirsi al coro e poi sentii quella da soprano della signora Ferrerò. Persino la vecchia Camilla intervenne con la sua voce ansimante. Risero quando qualcuno calò di tono, e la canzone venne ben presto sciupata dalle risate, dalle frecciate benevole e dal rumore di piatti e posate.

Non cantavano mai quando c'ero io. In mia presenza erano sempre educati e composti. In mia

presenza si atteggiavano come si conviene quando c'è un ospite della domenica: un estraneo. Quella sera però, senza di me a inibirli, erano una vera famiglia, con la pancia piena di stufato di agnello, le voci che si accavallavano, loro che ridevano e cantavano...

Ascoltavo al buio, solo e affamato, e capii. Non facevo parte di quella famiglia. Non ero mai stato accettato; mi avevano tollerato. Il dolore provocato dal senso di esclusione mi riempì di risentimento e, a poco a poco, mi caricai della rabbia sufficiente a sigillare il mio lato tenero. Il senso di colpa se ne andò com'era venuto.

Al cessare del canto, la signora Ferrerò mandò le bambine al

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piano di sopra e riuscii a dare un'altra sbirciatina alla finestra. Il capocuoco sedeva solo a tavola e giocherellava con lo stelo del bicchiere riempito per metà di vino. La sua allegria era scomparsa insieme alla famiglia. Fissò malinconico il vino fino a quando la moglie non lo chiamò dalla stanza da letto.

Ai margini del mio campo visivo, vidi le luci della sala da pranzo lampeggiare e morire non appena il capocuoco spense le candele e udii le sue scarpe salire le scale strascicando. Allungai il collo e, inarcando la schiena, mi sporsi dalla balaustra per guardare le finestre della camera da letto. Sulle prime non vidi nulla, ma dopo un istante colsi le vaghe sagome del cuoco e della moglie, proiettate dalla luce delle candele sulle tende di mussola appese alla porta del terrazzino. Montai a cavalcioni della balaustra, mi tenni forte e mi protesi a un'angolatura precaria per vedere meglio.

Il capocuoco si passò le dita tra i capelli e, in preda all'agitazione, batté di taglio una mano sul palmo dell'altra. La signora Ferrerò lo acquietò; gli mise le mani sulle spalle e cominciò a massaggiarlo lentamente. Quando gli sussurrò qualcosa all'orecchio, l'uomo si rilassò, la prese tra le braccia e affondò il viso nei suoi capelli. Parlavano, ma non li udivo. Dovevo arrivare lassù.

Nel lungo loggiato di pietra del piano nobile erano disposte file di vasi di terracotta e recipienti di varie dimensioni, in cui erano stati piantati allegri gerani rossi. Il più grosso era alto quasi tre palmi e pensai che, se vi fossi salito sopra e avessi teso le braccia, sarei riuscito ad arrivare al basamento del terrazzino della loro camera da letto. Salii sul bordo del vaso di terracotta e mi stabilizzai prima di allungarmi verso il pavimento d'ardesia. Allungai la spina dorsale e protesi le dita. Il vaso oscillò sotto i piedi e il cuore accelerò i battiti mentre ondeggiavo per trovare l'equilibrio. Mi raddrizzai e riuscii ad arrivare con le mani alla base di due aste di ferro battuto.

Mentre mi sollevavo, il vaso di fiori traballò sotto le dita dei piedi, si rovesciò, ruzzolò, sbatté sul pavimento e si schiantò ai piedi delle scale sulla strada lastricata. Qualche scheggia schizzò nel canale. Trattenni il fiato e rimasi appeso, dondolando tra i due terrazzi. Serrai le dita attorno alle aste di ferro avvertendo un bruciore ai muscoli delle braccia.

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Il capocuoco si precipitò alla porta del terrazzino. Udii lo scricchiolio di un cardine arrugginito e l'uomo gridò: « Chi è là?»

Ostrega. La signora Ferrerò non sembrava troppo spaventata. «

Probabilmente un gatto ha rovesciato i gerani. » « Dio. Gatti. » « Domani manderò Camilla al banco dei fiori. » Mi dolevano i polsi, le mani avevano cominciato a scivolare e

mi pareva che, per il peso, il corpo si stesse strappando dalle spalle. Ma se mi fossi lasciato cadere avrei fatto troppo rumore e forse m'avrebbero visto scappare. Rimasi appeso.

Il capocuoco restò davanti alla porta aperta e disse risentito: «Venezia. Nient'altro che gatti e peccatori». Me lo immaginai mentre mostrava il pugno alla notte. « Ma stasera c'è un bel venticello. » Lasciò la porta aperta e i passi si allontanarono.

Mi tremarono i muscoli delle braccia mentre mi sollevavo a mani nude, attento a non grugnire e tenendo le labbra serrate. Con uno scatto appoggiai una gamba sul pavimento d'ardesia, e sentendo quel fruscio la signora Ferrerò disse: « Mi sa che adesso il gatto è sul nostro terrazzo ».

Il capocuoco batté le mani e gridò: « Sciò! » La signora rise e la sua risata coprì il rumore che feci issandomi oltre la balaustra. Mi accucciai accanto alla rientranza della porta aperta e appoggiai la testa al muro, mentre il respiro rallentava e la fresca aria notturna rendeva appiccicaticcia la mia faccia sudata.

Il capocuoco e sua moglie si affaccendarono per la stanza preparandosi al sonno. Spensero il lume prima di togliersi la biancheria e si infilarono pudicamente nel letto. Una volta sotto le lenzuola, però, udii mormorii e baci e i sussurri dell'intimità.

Non riuscivo a credere che, fra tutte le notti, avesse scelto sconsideratamente proprio quella per fare l'amore con la moglie come se nulla fosse accaduto. Udii il fruscio delle lenzuola, uno sbadiglio e un cuscino sprimacciato... poi nulla. Che cosa facevano? Resistetti all'impulso di sbattere la testa contro il muro per la frustrazione. Ma, un momento, non si erano ancora augurati la buonanotte. Di sicuro non si

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sarebbero messi a dormire senza quel gesto di cortesia. Il capocuoco bisbigliò qualcosa e, mentre mi sforzavo di

decifrare le sue parole, un gatto rognoso e sfregiato balzò silenziosamente dal terrazzino vicino, saltò a terra dalla balaustra e si mise a passeggiare sul pavimento d'ardesia. Mi saltò in grembo e mi sfregò la coda in faccia. Mi pizzicai il naso per non starnutire e scacciai l'animale arrogante.

Dalla porta arrivò la voce assonnata della signora Ferrerò. «... allora ha avvelenato un contadino. È spregevole, ma non è la prima volta che ammazza qualcuno. Perché stavolta ti preoccupi tanto? »

« Cara, ha cercato di riportare in vita un morto. » Il capocuoco sbuffò con il naso in segno di disgusto. « Prima lo ammazza, poi gli versa qualcosa in gola per resuscitarlo. Follia! Sono sicuro che c'entri quel libro. Tutti quei discorsi assurdi sulle formule per ottenere l'immortalità e sull'alchimia... La gente sta impazzendo. È probabile che un alchimista intrigante abbia abbindolato il doge e l'abbia convinto a comprare una pozione per sconfiggere la morte. Spero soltanto che sia stato abbastanza furbo da andarsene da Venezia prima che il doge la provasse.

Probabilmente il vecchio ha pagato una fortuna per una fiala di piscio di gatto. »

« Una pozione per sconfiggere la morte? È così imbecille? » « Ha il mal francese e non vuole morire. La gente crede a ciò

in cui vuole credere. Ma se per trovare quel libro il doge si mette a uccidere, la popolazione verrà colta dal panico e le dicerie diventeranno ancora più incontrollate. Il doge è perfido di suo, ma immagina se Landucci o Borgia si interessassero alla questione. »

« Bah. » La signora Ferrerò caricò l'esclamazione di disprezzo. « Landucci è un abietto. E Borgia, che si fa chiamare papa, è un'ignominia. Sai che ha più di venti bastardi? Non a caso lo chiamano il padre di Roma. »

Lì accanto, il gatto inarcò la schiena e sputò, ma non a me. Un altro gatto era sceso dalla balaustra: si fissavano l'un l'altro con sprezzo felino. Arretrarono entrambi e rizzarono il pelo. Oh Dio, pensai, uno scontro tra gatti, no!

La signora Ferrerò parlò sbadigliando. « Landucci e Borgia

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sono troppo intelligenti per preoccuparsi di qualche sciocca diceria. Il doge è semplicemente disperato. Può darsi che non viva tanto a lungo da trovare il vaso da notte domattina, figurati il libro. »

Il capocuoco borbottò qualcosa che non riuscii a udire e la voce della moglie assunse un tono consolatorio: « Calmati, Amato. Se pure il doge trovasse il libro, che differenza farebbe? Le formule magiche non esistono. Sarebbe meglio che qualcuno lo scovasse e mettesse fine alle chiacchiere. »

« Non è così semplice. » « Perché sei così sconvolto? L'alchimia, l'immortalità, son

tutte frottole. Per quanto riguarda i filtri d'amore... » Smisi di respirare. La voce della donna si fece civettuola e canzonatoria. « Vieni

qui, amore.» Mormorò qualcosa, le lenzuola frusciarono e la donna rise come una ragazzina. Il cuore mi martellò nel petto, batté dietro le orecchie, pulsò nella punta delle dita. Sapevo che avrei dovuto andarmene, ma... avevano davvero un filtro d'amore?

La donna disse: « Il doge non sa che farsene della nostra pozione, ma io e te... vieni qui, amore ». Udii un altro spostamento tra le lenzuola, un altro bisbiglio e una risatina sommessa. « Le bambine dormono, eh? »

« Ho altre cose per la mente. » « Come sei serio » disse lei, facendo le fusa. « Un sorsetto e ti

sentirai meglio. » Si udirono lenzuola smosse, cassetti aperti, vetro che tintinna contro vetro, liquido versato, poi un odore sconosciuto filtrò sul terrazzino: affumicato e simile al profumo delle noci - mi fece pensare alle caldarroste-, un aroma inconsueto, misterioso, tonificante in un certo senso. Il brontolio provocatorio della signora faceva pensare che stesse gustando un frutto delizioso. « Ce lo concediamo, amore mio? »

Frattanto, i gatti si fronteggiavano con le schiene inarcate. Il capocuoco disse: «Non stasera, Rosa». Vi fu una pausa e

altri spostamenti nel letto. «Amato» chiese, sorpresa, «davvero mi respingi?» Udii il

tintinnio di un bicchiere posato sul comodino. « Mi dispiace » disse il capocuoco. « Non riesco a non pensare

a... non sai tutto, su quel libro. »

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« Che altro c'è da sapere? » Vi fu la pausa di un attimo. « Amato? Di che cosa si tratta? »

In attesa della risposta, mi appiattii contro il muro per stare alla larga dai gatti. Il pelo rizzato sulla schiena li aveva gonfiati raddoppiandone le dimensioni. Scoprirono i bianchi denti appuntiti, uno dei due sputò, l'altro sibilò e infine attaccarono. Non sapevo di che cosa aver più paura, se di riportare ferite nella guerra tra artigli o di farmi scoprire dal capocuoco Ferrerò. Le grida squarciarono la notte, un rumore crudo, da far gelare le ossa, quasi fossero urla di neonati sottoposti a tortura.

Udii qualcuno esclamare dal letto: « Dio, e adesso cosa c'è? » Il capocuoco si precipitò alla porta. Ne avvertii la presenza a pochi passi da me, mentre scrutava nell'oscurità, e mi addossai ancora di più al muro con gli occhi chiusi, come i bambini che pensano di non essere visti se non vedono. Il sudore mi solleticò l'attaccatura dei capelli.

Il capocuoco disse: « Fuori di qui! » Una ciabatta volò dalla camera da letto e colpì uno dei gatti dritto in testa.

Le grida cessarono immediatamente. Aprii un occhio. I gatti erano arretrati e si erano rintanati tra le ombre, da dove si adocchiavano, circospetti e malevoli, prendendo le misure per l'assalto successivo.

« Dio » commentò il capocuoco, « forse dovremmo prendere un cane. »

Vidi un piede scalzo avanzare dalla rientranza della porta e il mio stomaco finì sottosopra. Nello stesso momento, la signora Ferrerò disse: « Torna qui, Amato. Parlami di quel libro ».

L'uomo esitò, poi disse: « Sì, penso che abbiano smesso ». Il piede si ritrasse. Il capocuoco tornò dalla moglie e sulla stanza calò il silenzio. L'acqua lambiva la gondola, i gatti si lanciavano sommessi avvertimenti.

Dopo un minuto, il capocuoco riprese: « Rosa, tu sei il criterio con cui misuro le cose ».

« Come sei drammatico. Di che cosa vuoi parlarmi? » « Quello strano omicidio è significativo. Credo che sia giunto

il momento di parlarti del libro. Ma non dire a nessuno quel che ti dirò; a nessuno. Se dovesse capitare qualche guaio, se

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non dovessi tornare più a casa dal lavoro, devi andare immediatamente da tua sorella. Ma non rimanerci a lungo. Non appena ti è possibile, và da tuo padre ad Aosta. Può nasconderti in montagna. »

«Adesso mi fai paura. Amato, ti prego, di che cosa si tratta? » Come il capocuoco si avvicinò alla moglie, il letto scricchiolò.

Mi accostai un po' di più alla porta e misi sull'orecchio una mano a coppa, sforzandomi di udire. Disse: « Rosa... »

Un gatto si sollevò in aria in verticale, quasi fosse la marionetta di uno stregone, e si slanciò sull'altro. Erano vicinissimi; vidi gli artigli lacerare un occhio giallo. Mi schiacciai nell'angolo tra il muro e la balaustra e mi protessi il viso con un braccio. Seguì una zuffa selvaggia accompagnata da strida demoniache.

Il capocuoco gridò: « Madre di Dio! » e balzò di nuovo dal letto per uscir fuori.

« Amato » lo chiamò la signora Ferrerò, « non andare. Finirai per farti graffiare. »

Arrivò un'altra ciabatta e l'uomo berciò: « Fuori di qui, progenie di Satana! » Poi chiuse con forza le porte del terrazzino.

Gemendo e frignando, un gatto si accasciò come un mucchietto arruffato. Pareva morto e l'altro inarcò la schiena e miagolò in trionfo. Macché, il gatto sconfitto si alzò di nuovo. Tornato dal mondo dei defunti, balzò dal terrazzino e scomparve nella notte. Il vincitore si accoccolò per ripulirsi le zampe e abbassò il pelo.

Mi ero addossato alla balaustra con tanta forza che mi dolevano le costole e in quel momento, con le porte del terrazzino chiuse, non riuscii a sentire che cosa disse il capocuoco alla moglie. Ci fu solo un silenzio grave fino a che non mi giunse attutita l'esclamazione della signora Ferrerò:

« Madonna mia! » Diedi un'altra sbirciatina alla camera da letto e la vidi tra le

braccia del marito, in lacrime.

7

Il libro delle visite

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Il mio maestro parlava raramente di sé. Aveva fama di

essere riservato e per certi versi bizzarro. Tutti si accorgevano di alcune stranezze: cose da nulla in sé e per sé, che tuttavia facevano del capocuoco Ferrerò una persona enigmatica quanto il turco che vendeva incensi a Rialto, appena visibile dietro la cortina di fumo odoroso.

Quando parlava con i cuochi, riusciva a fondere la cortesia a un riserbo che oltrepassava leggermente la distanza del suo ruolo professionale. Lavorava da provetto artiste, serio e silenzioso, ed esaminava le sue creazioni culinarie con palato esigente e sguardo sagace. Quando preparava le sue ricette personali, i piatti speciali di cui non faceva parola con nessuno, dimostrava una tale ossessione per la segretezza da far borbottare ai cuochi che la berretta faceva diventare presuntuosa certa gente. Persino i buffetti paterni che mi dava erano gesti compiuti quasi di nascosto; e si allontanava sempre prima che potessi reagire.

Le sue reazioni non somigliavano a quelle della maggior parte delle persone. Quando il doge dissotterrò le ossa di san Marco per cercare il libro, in cucina il personale esplose per l'indignazione insieme a tutta Venezia, ma il capocuoco non fece commenti. Gli domandai se pensava che fosse stato commesso un sacrilegio e la sua risposta fu stranamente irriguardosa. Disse: « San Marco non ci ha lasciato in eredità le sue ossa. Quelle non sono altro che ossa. Sono un memento che ci fa riflettere, ma restano soltanto ossa».

Aveva anche la fastidiosa abitudine di iniziare una frase provocatoria e smettere di parlare senza concluderla, e la frase aveva sempre come oggetto un'idea nuova e bizzarra o una teoria strampalata. Una volta, guardando Enrico che attizzava il fuoco nel forno, disse: « Sai, c'è chi è convinto che si possa imbrigliare la potenza del fulmine... ma per ora lasciamo stare. Modera la fiamma, eh? »

Qualcuno sosteneva che il capocuoco sapesse preparare pasti capaci di influenzare il comportamento delle persone (il che era vero) e circolavano voci sul suo orto straordinario. Coltivava piante esotiche che nessuno aveva mai visto, né aveva mai sentito nominare, e sapeva servirsene in alcuni

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piatti dalle eleganti gradazioni di sapore. Coltivava velenosi pomi d'amore, verdure dalle radici nodose e rampicanti serpentini da cui pendevano baccelli simili ad artigli. Prima di cogliere le piante diaboliche, i cuochi recitavano sempre una preghiera e si facevano il segno della croce.

Una delle particolarità che contraddistinguevano il capocuoco erano i suoi ospiti. Una volta arrivò in cucina un famoso storico di Padova con una caterva di in folio, e sedette per un'ora in silenzioso convegno con lui. Poi, questi spiegò che gli in folio costituivano un prezioso ricettario dell'Estremo Oriente scritto da un cuoco che aveva accompagnato Marco Polo nei suoi viaggi. La spiegazione fu accolta con disinteresse, forse a causa dell'eccessivo numero di visitatori che si erano avvicendati nel corso degli anni. Solo in seguito mi meravigliai che un semplice cuoco del Tredicesimo secolo avesse imparato a leggere e a scrivere e che una cosa insignificante come un ricettario fosse stata tramandata nei secoli. Quando lo domandai a Enrico, questi rispose: « Non lo so, ma non chiederglielo. Il capocuoco Ferrerò non ama questo genere di domande ». Poi mi fece l'occhiolino.

Un'altra volta fu ospite in cucina un monaco amanuense, rinomato per la sua abilità di traduttore dalle lingue antiche, che si concentrò per ore insieme al capocuoco su una pergamena coperta di segni assai simili, se visti da lontano, a quelli che riempivano i fogli di carta che avevo visto nella sala da musica del doge. In quel caso mi stupì il fatto che il capocuoco fosse tanto erudito da consultarsi con gli studiosi.

Dopo che il monaco se ne fu andato, osservai Amato Ferrerò infilare la pergamena in uno dei suoi libri e non potei tenere a freno la curiosità. Mi accostai alla sua scrivania, mi inchinai con rispetto e domandai dove avesse imparato a leggere e a scrivere. Rimescolò le sue carte senza alzare lo sguardo.

« A scuola » rispose. « Dove, se no? » « Ma perché leggete quei vecchi manoscritti? » « La storia mi interessa. » Cercò di allontanarmi con un gesto

della mano. Mi grattai il collo. « Che cosa c'è di tanto interessante negli

scritti dei morti? » Smise di rimescolare le carte e mi guardò, sorpreso, come se

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la risposta fosse penosamente ovvia. « Luciano » disse calcando l'accento sul tono rassegnato, « se non sappiamo che cosa è successo prima che nascessimo, come facciamo a sapere se stiamo facendo progressi? »

Ostrega, era ovvio. « Non ci avevo mai pensato. » Il capocuoco si spostò in avanti sulla sedia, appoggiò i gomiti

alla scrivania e unì le dita a campanile. « Lascia che ti racconti una storia. C'era un'enorme biblioteca - sai che cos'è una biblioteca? Bene —, la Grande Biblioteca di Alessandria. Un re dell'Egitto impose a tutti i cittadini e agli stranieri in visita di cedere ogni libro o pergamena in loro possesso, per farli copiare e archiviare nella Grande Biblioteca. Alcune copie erano così fedeli che la Biblioteca le consegnò agli ignari proprietari conservando gli originali. Tra l'altro, il re acquistò testi in tutta l'area mediterranea, compresi i manoscritti originali di Eschilo, Sofocle ed Euripide... »

« Chi? » « Uomini sapienti che dissero cose che valeva la pena

ascoltare. Pare che la Grande Biblioteca possedesse fino a un milione tra rotoli di papiro e codici — di storia, scienza, arte, filosofia -, la più grande raccolta della conoscenza umana che sia mai stata riunita in un unico luogo. »

« Sono i libri che studiate voi, Maestro? » « No. » Sorrise con tristezza. « Mentre i sapienti si

procuravano la conoscenza, gli uomini dappoco muovevano guerra e di tanto in tanto andarono perdute alcune parti della Grande Biblioteca. L'assalto finale lo sferrò un generale musulmano che conquistò Alessandria e decise che ogni scritto in linea con il testo del Corano fosse inutile e ogni libro discorde fosse indesiderato. "Perciò" disse, "distruggeteli tutti.'' Si tramanda che i libri furono bruciati per scaldare l'acqua del bagno ai soldati e tale era il loro numero che fornì sei mesi di fuoco. »

« Ma perché, è una cosa... una cosa... » « Ignominiosa? » « Stupida! Soltanto stupida, non è vero? » « Sì, Luciano. Sono felice che tu la pensi così. » Il capocuoco

mi fece cenno di avvicinarmi e abbassò la voce. « Ma il bello è che i custodi della conoscenza non furono sconfitti.

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Escogitarono altri sistemi, più abili, per conservare ogni conoscenza in cui si fossero imbattuti. Entrarono in clandestinità, si travestirono e impararono a trasmettere in codice l'eredità che avevano ricevuto. »

« Che genere di codice? » Il capocuoco si mise comodo sulla sedia e intrecciò le dita sul

petto. «Ne parleremo meglio un'altra volta. Ma, dimmi, che cosa hai imparato? »

« Che bruciare i libri è una cosa terribile. » « Magnifico. Adesso và. Credo che Dante abbia delle

barbabietole da pelare. » Tornò alle sue carte senza aggiungere una parola.

Quel dì non vi furono altri racconti, ma nei giorni seguenti arrivarono molti visitatori singolari: un linguista di Genova, un bibliotecario del Vaticano, un calligrafo veneziano e un prete che si supponeva avesse avuto legami con il frate eretico Savonarola. Una volta un tipografo dalle dita macchiate d'inchiostro portò al capocuoco uno dei nuovi libri appena usciti dalla sua stamperia. Il capocuoco annunciò che era l'ultimo libro di cucina proveniente da Firenze e lo aggiunse alla libreria stracolma.

Per me l'ospite più memorabile non fu uno studioso, ma il fratello del capocuoco, Paolo, che giunse in visita una volta sola, inaspettato, dalla fattoria di Vicenza che apparteneva alla famiglia. La visita di Paolo avvenne pochi giorni dopo il mio fallito tentativo di origliare la conversazione tra il capocuoco e sua moglie. Il mio apprendistato era cominciato da poco e mi sentivo ancora incerto sul mio ruolo in cucina; lavoravo in silenzio, a testa bassa, e mi adoperavo per rendermi invisibile. Fu forse per quella ragione che il capocuoco e suo fratello conversarono alla portata del mio orecchio come se non mi vedessero.

Paolo comparve sulla porta di servizio torcendo un logoro cappello da contadino con le mani nodose e segnate dai calli. Si fermò non appena varcata la soglia e allungò il collo, sbirciando nella stanza nel tentativo di individuare il fratello, poi entrò nella cucina pervasa dal brusio, guardò in alto le finestre e di lato gli uomini in giacca bianca che lo circondavano. Si muoveva impacciato nel suo corpaccione da

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contadino. Attraversò timidamente la stanza lasciando dietro di sé una scia di bisbigli e quel lieve cambiamento nel consueto ronzio della giornata lavorativa fece girare il capocuoco, che stava giudicando la béarnaise di un sottoposto portandosi alle labbra la punta del dito intinta di salsa, con la fronte aggrottata in atteggiamento critico. Alla vista di Paolo, quel cipiglio si spianò. Il capocuoco sorrise e gridò: « Fratello mio! »

A Paolo si illuminò il viso. I fratelli si gettarono l'uno nelle braccia dell'altro e il capocuoco annunciò: « Tutti qui, venite a conoscere mio fratello Paolo ». Il contadino sorrise per la timidezza e si torse il berretto. I cuochi fecero un cenno d'assenso o un sorriso di cortesia e ripresero il lavoro.

Per avere un po' di intimità e conversare a prudente distanza, Ferrerò e suo fratello si sistemarono nel retro cucina. Il capocuoco riempì due bicchieri di vino rosso e i due sedettero a un tavolo vicino al serbatoio, quasi sulla mia strada, mentre io, l'apprendista invisibile, trasportavo secchi d'acqua dentro e fuori dalla porta di servizio. A causa dell'idiosincrasia del capocuoco per l'acqua stagnante, per tutto il giorno non facevo altro che svuotare secchi per metà pieni d'acqua e trasportarne di fresca.

Scambiati i convenevoli d'uso, parlarono della famiglia e della fattoria di Paolo, di un figlio appena nato, dell'indigestione della moglie e di una partita di vino fatto in casa insolitamente amabile. Nel momento in cui la conversazione languì, Paolo mise una mano sulla spalla del fratello e disse: «Amato, non sono venuto a parlarti della fattoria, ma a dirti che nostra madre è morta ».

Il capocuoco aprì appena le labbra, non saprei dire se per la sorpresa o per il desiderio di parlare. Poi si prese la testa tra le mani e i fratelli rimasero seduti in silenzio, con Paolo che fissava il pavimento. Infine il mio maestro disse: « Che riposi in pace ». Si fece il segno della croce e baciò l'unghia del pollice. « Grazie per essere venuto a dirmelo, fratello. »

« Era mio dovere. » « Cercherò di far visita alla sua tomba. » « Bene. » Paolo riprese a tormentare il cappello. Pareva che,

dopo aver relazionato sulla fattoria e riferito le ultime notizie, non avesse altro da dire. Torse il berretto senza pietà e una

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lingua nervosa saettò per inumidire le labbra. Vedendo il fratello a disagio, il capocuoco disse: « Sarai

ansioso di tornare ai tuoi campi. Ma certo. Ho del vitello magnifico. Ne porterai un po' a casa. È così bianco che non crederai ai tuoi occhi».

Fece per alzarsi, ma Paolo gli premette una spalla e il capocuoco tornò a sedersi. « C'è dell'altro. » La punta della lingua guizzò sulle labbra aride.

Il capocuoco si volse verso il fratello con un'espressione in parte perplessa, in parte piena di attesa, come se sapesse cosa stava per sentire. Disse: « Si tratta di Giulietta? »

Paolo lasciò penzolare la testa. « E di tuo figlio. » Drizzai le orecchie. Suo figlio? Il capocuoco Ferrerò aveva

quattro figlie femmine, ma nessun maschio. «Aha. » Il capocuoco annuì. Paolo non lo guardò. « Giulietta morì davvero, ma il bambino

no » disse. « Allora è vero che ho un figlio maschio. » « Mi dispiace, Amato. » Paolo allargò le mani in un gesto di

impotenza. « Sai com'era la mamma. Dopo la morte di papa ha fatto come

ha voluto.» « Mio figlio è vivo. » Il capocuoco lo guardò negli occhi. «

Dimmi tutto. » Paolo si strinse nelle spalle. « Non c'è molto da dire. Un

giorno tornai dai campi e scoprii che nostra madre e il bambino erano spariti. Non riuscii a farla parlare. Ci provai. Ci provai davvero. Mi spiegò che il bimbo era morto e che l'aveva seppellito, ma non ci credetti. Era un bambino sano, forte. Non capivo che cosa era successo e non seppi cosa dirti. »

«Ti credo, Paolo. Ricordo che non riuscisti a guardarmi quando mamma mi disse che erano morti entrambi. Quel giorno non incrociasti il mio sguardo nemmeno una volta. » Il capocuoco scosse la testa. « Ma lei mentì spudoratamente. E visto come aveva trattato Giulietta... sai bene che smisi di andarla a trovare per quella ragione. »

« Lo so. Ma non essere troppo severo con lei. Riponeva grandi speranze in te. » Paolo abbassò la voce. « E credeva sul serio che il bambino fosse maledetto. Sai bene perché. »

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« Sì. Il segno. » Un segno? Mi toccai la fronte. Un segno come il mio? E se...

ma no, che stupidaggine. Con quanta facilità avevo ceduto a un pio desiderio. Le voglie sono piuttosto comuni.

Paolo commentò: « Nemmeno io credo a quell'idiozia, ma lei... »

«Ah, Paolo. » Il capocuoco scrollò il capo. « Nostra madre ha fatto più danno di quanto tu sappia. »

« Capisco. » Paolo strinse la spalla del fratello. « Un uomo ha il diritto di conoscere suo figlio, la sua immortalità. »

Il capocuoco rise con un latrato senza gioia. « Non è vanità, Paolo. Un erede maschio avrebbe cambiato il mio destino. Ci sono delle cose in ballo. Tu non sai. »

Paolo levò la mano dalla spalla del fratello e si mise comodo. Le folte sopracciglia irregolari si sollevarono in un'espressione di sorpresa. « Di che parli? Hai quattro figlie. Dai, Amato. Non sei mica un re, no? »

« Sì, sì. Certo, hai ragione. Perdonami. Non sono in me. » Paolo abbassò le sopracciglia e fece un gesto come per

cancellare quanto aveva appena detto. « Capisco. È un colpo terribile. »

Rimasero seduti un istante ancora, nuovamente consapevoli di non avere più niente in comune. Poi si alzarono e si abbracciarono. Il capocuoco disse: « Quel che è fatto è fatto. Grazie per essere venuto, fratello».

« Di niente. » « Il vitello? » « Devo andare. » Paolo si era rimesso a tormentare il

cappello. « Bene. Và con Dio, Paolo. » «Addio, Amato. Mi dispiace. » Sulle prime ne fui scosso. C'era un'altra donna oltre alla

signora Ferrerò? Un figlio? Non riuscivo a immaginare il mio maestro con nessun'altra che non fosse la sua amatissima Rosa e le figlie, ma l'avevo udito con le mie orecchie.

Dopo che Paolo se ne fu andato, il capocuoco si mise seduto al tavolo con lo sguardo assente, come svuotato; mi si strinse il cuore al pensiero di ciò che aveva perduto. Perdere un figlio per un inganno della propria madre mi sembrava peggio che

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subire una perdita secondo consuetudine, un evento meno naturale della morte, più intimo e doloroso di un'anonima piega del destino. Versai un fiotto d'acqua fresca nel serbatoio e fui sopraffatto da un impeto di sentimentalismo al pensiero della generosità con cui il capocuoco mi aveva tolto dalla strada, della pazienza con cui mi insegnava i compiti da svolgere, dell'amore puro, incondizionato per la sua famiglia di cui dava prova. Meritava di aver conosciuto il figlio e desiderai poterlo consolare. Magari avessi potuto rimpiazzare chi aveva perso. Anch'io avevo un segno e forse somigliava a quello di suo figlio; probabilmente gli ricordavo il bambino perduto. Forse mi considerava...

Poi, lo zampillo melodioso dell'acqua che colava nel serbatoio mi fece venire in mente l'allegria con cui la famiglia aveva cantato in mia assenza e ricordai quale fosse il mio posto nel mondo. Stupido. Non voleva affatto che lo consolassi. Lui era il maestro, io l'apprendista. Se avesse voluto trovare il suo vero figlio, l'avrebbe cercato.

L'idea che potesse farlo davvero mi turbò. Era possibile che lo trovasse? Che età avrebbe avuto? Da dove sarebbe partito? Come l'avrebbe riconosciuto? Paolo aveva accennato a un segno. Che segno? E se l'avesse trovato... Dio, che cosa sarebbe accaduto se l'avesse trovato? La carne della sua stessa carne avrebbe certamente preso il mio posto nell'affetto del capocuoco; che altro avrebbe potuto prendersi? Il mio lavoro? Il mio futuro?

In capo a pochi minuti passai dalla solidarietà per lui all'inquietudine per la mia sorte. Scorsi la mia faccia nell'acqua gelida del serbatoio: occhi spaventati e piega arcigna della bocca, tratti deformati dalle increspature dell'acqua. Brutta. Lanciai un'altra occhiata al capocuoco, che non si era mosso, e mi sentii di nuovo ben disposto nei suoi confronti. La sua sofferenza mi commosse e sentii l'impulso di dire una preghiera. Alzai gli occhi, perché è così che fa la gente, e pensai: Ti prego, fà che trovi suo figlio.

Mentre uscivo a riempire il secchio, rammentai la frase che aveva pronunciato in presenza del fratello, una delle tipiche osservazioni che contribuivano alla sua fama di personaggio misterioso. Aveva detto: « Ci sono delle cose in ballo. Tu non sai

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». Ma io volevo sapere. Volevo sapere tutto. Ero un autentico

figlio di Venezia, nutrito della sua misteriosa bellezza, della sua luce d'acqua, mobile come gli specchi di un mago. Venezia mi aveva sedotto con la sua anatomia femminile, i suoi canali liquidi e il suo labirinto di voluttuose tentazioni. Venezia eccita il desiderio di sapere ciò che è nascosto, muove la cupidigia di penetrare i suoi incantesimi, la brama di conoscere i suoi segreti più riposti.

La visita di Paolo alimentò le fiamme della curiosità che l'omicidio del contadino aveva acceso e quanto avevo origliato sul terrazzo del capocuoco aveva ravvivato. La concupiscenza tutta veneziana di sapere ogni cosa fece avvampare l'incendio che avrebbe finito per consumare tutti noi.

8

Il libro di Amato Quella stessa brama di sapere mi avrebbe spinto, molti, molti

anni dopo, a cercare un colloquio con il mentore del capocuoco Ferrerò, uno chef di nome Meunier. Per tutto il tempo in cui lavorai a palazzo, il mio maestro rimase un enigma e diede ben pochi particolari di sé, niente più che un nome qui o un aneddoto là. Dovetti diventare un uomo fatto per avere l'occasione di convincere Chef Meunier a fornirmi i collegamenti.

L'avevo incontrato diverse volte quando veniva a far visita al mio maestro nella cucina del doge. Era un bon vivant e un amante della buona cucina; giunto in Italia dalla Francia per imparare l'arte culinaria, aveva deciso di fermarsi qui. Chef Meunier era piccolo, robusto e benevolo. Sorridente ed espansivo, arrivava saltellando in cucina, abbracciava il capocuoco Ferrerò e si comportava come se fosse a casa sua assaggiando le salse con la punta del dito, offrendo bonari consigli e prodigandosi in complimenti.

« Magnifique. Solo un poco di panna in più, non? » Camminava saltellando e tutto lo divertiva.

Epperò, la sua rosea faccia rotonda possedeva l'abilità

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camaleontica di produrre un mutamento inquietante. Nei suoi occhi azzurri il calore si prosciugava e il sorriso sapeva raggelarsi e diventare fisso, ma solo per un istante. Il gelo veniva subito sostituito da una risata di cuore o da una pacca sulla schiena e io mi allontanavo pensando immancabilmente che fosse stato il frutto della mia immaginazione o uno scherzo giocato dalla luce. Non lo penso più.

Durante ogni visita, Chef Meunier percorreva la cucina in tutta la sua lunghezza dispensando cenni amichevoli e ciarlando: «Bon. C'est bon. Délicieux ». Quando tutti si erano rilassati e si erano scordati della sua presenza, i due chef si mettevano seduti con qualche bicchiere di vino rosso, magari un piatto di mandorle, e parlavano a bassa voce.

Molto tempo dopo gli eventi narrati in queste memorie, tornai a Venezia, e Chef Meunier mi narrò la storia del mio maestro. Invecchiando, il socievole francese era diventato un vecchietto curvo, raggrinzito come una noce. Sulle prime non volle ricevermi. Disse: « Perché pretendi che un vecchio rammenti episodi tanto dolorosi? » Si era fermato, ingobbito e tremante, sulla soglia di casa sua. La giornata era rigida e appesantita da nubi sospese in basso sull'orizzonte e cariche di pioggia. Continuò a scuotere la testa e a tentare di chiudermi la porta in faccia. Misi un piede dentro e implorai; gli rammentai che entrambi avevamo voluto bene al capocuoco Ferrerò.

Cedette, lasciò andare un lungo, lento sospiro e mi portò in una stanzetta ammobiliata da uno scrittoio e da due poltrone consunte poste l'una di fronte all'altra davanti a una finestra a riquadri. Tra le poltrone c'era un tavolino da té traballante su cui era poggiato un lume spento; c'erano libri ovunque: manoscritti, codici miniati e persino qualche esemplare a stampa. Alcuni parevano intonsi, ma perlopiù erano logori e in cattivo stato. Erano allineati lungo le pareti, accatastati in torri precarie, sparpagliati sullo scrittoio e impilati al di sotto. C'era poco da meravigliarsi che la casa fosse così ordinaria e la mobilia tanto scarsa; era evidente che Chef Meunier aveva speso in libri ogni soldo risparmiato. Sullo scrittoio c'erano persino rotoli di papiro, oggetti ammuffiti che avevano il colore del té.

Chef Meunier fece portare del vin brûle e sedette in una delle

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poltrone rivestite di un tessuto logoro che un tempo doveva essere stato verde; con impazienza mi fece cenno di sedermi nell'altra. Si buttò sulle spalle uno scialle di lana lavorato a maglia e si adagiò in grembo una coperta pesante, assumendo un aspetto striminzito nei suoi involucri cenciosi. La voce era invecchiata, si era fatta tremula e stridente. Continuava a schiarirsi rumorosamente la gola. La moglie era morta da anni e lui aveva preso l'aria di un anziano eremita trasandato. La domestica, una vecchia che strascicava i piedi, portò una caraffa coperta di vin brûlé e riempi due tazze. Non appena se ne fu andata, Meunier si tirò la coperta sulla minuscola pancia e cominciò.

« Amato Ferrerò nacque a Vicenza; ne hai sentito parlare, non? La storia della sua nascita sembra il tipico racconto tramandato di padre in figlio. Un mattino la madre, ormai in procinto di partorire, si allontanò dal lavoro nei campi prima del solito. Quando il marito e il figlio ancora piccolo rientrarono per il pasto di mezzogiorno, trovarono pane e salame sulla tavola e la donna a letto che allattava il neonato. Disse: 'Si chiama Amato'.»

Udii un picchiettio sulla finestra e vidi le prime gocce di pioggia schizzare il vetro.

« Quando Amato ebbe undici anni il padre morì di apoplessia. » Chef Meunier si accigliò. «A quell'uomo piaceva troppo il vino » borbottò tra sé e sé come rammentando qualcosa di spiacevole. « La tradizione voleva che, con la sua dipartita, la piccola fattoria andasse al primogenito, Paolo. Fu così che la madre di Amato mandò il secondogenito a servizio nella Taverna di San Giorgio. La conosci, no? » Si portò la tazza di vino alle labbra e sbirciò da sopra l'orlo.

« La conosco, monsieur. » A dire il vero, la conoscevano tutti. La Taverna di San Giorgio si erge tuttora sul Canal Grande accanto a un massiccio edificio in pietra, il Fondaco dei Tedeschi, un magazzino usato dai mercanti provenienti dalla Germania. A quei tempi, in Italia, quasi tutto ciò che aveva attinenza con la Germania era sinonimo di barbarie e i veneziani erano lieti di aver accuratamente segregato i commercianti tedeschi, così da risparmiarsi la sofferenza di frequentarli, nonché di assistere allo spettacolo delle

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sconvenienti usanze teutoniche. Tali distinzioni sociali, come spiegò Chef Meunier, erano

ignote alla madre di Amato. Disse: « Quando comunicò al figlio che gli aveva procurato quell'umile lavoro, la povera donna non stava nella pelle per la gioia. Amato mi raccontò che danzava per la cucina cantando: 'Venezia! Stai per andare a Venezia!' Disse che la madre aveva fatto un gran sorriso mettendo in mostra i sei denti che le restavano ».

Appena il vecchio ridacchiò, colsi una lieve traccia del giovane chef che veniva a trovarci in cucina. Poi sospirò. «Amato era ancora un bambino. Non voleva andarsene di casa. Mi raccontò che mentre la madre ballava in cucina, lui teneva lo sguardo basso perché lei non vedesse le lacrime. »

La pioggia tamburellò più forte sulla finestra e nella stanza la luce scemò, ma il vecchio parve non accorgersene.

« Ad Amato piaceva il pane casereccio della madre, gli piaceva raccogliere le castagne in autunno e gli piaceva l'odore delle mele e del vino fatto in casa che filtrava dalla cantina. Gli piaceva persino dormire d'inverno con le mucche e le capre per non gelare; mi disse che il crepitio del fieno e l'odore intenso, penetrante, degli animali lo facevano sentire al sicuro. Perché avrebbe dovuto desiderare di lasciare tutto questo per trasferirsi in una grande città piena di uomini sinistri in cappa nera? »

Chef Meunier alzò una mano nodosa. «Mais oui, persino nella piccola Vicenza era nota l'esistenza del Consiglio dei Dieci e delle Cappe Nere. Il bambino disse alla madre: 'Posso dormire nel fienile. Posso mangiare di meno'. Ah, pauvre enfant. »

Sorseggiò il vino durante una pausa malinconica, mentre la pioggia tempestava la finestra; quando riprese a parlare, nella stanza la luce si era fatta grigia e tetra. « Quella coriacea donnetta di campagna nutriva ambizioni per il figlio più sveglio. Indicò il suo tugurio e la tela di sacco che fungeva da porta e disse: "Tu puoi avere di più, Amato. Procurati una vita migliore." Il bambino tentò di discutere, ma lei gli cacciò un dito sulla fronte. Disse: "Tu hai cervello. Procurati una vita migliore." » Chef Meunier sporse il labbro inferiore e annuì. « Sapeva che Venezia era il posto adatto per un ragazzo sveglio. »

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Amato capì in fretta che cos'era la taverna e quanto i veneziani disprezzassero i tedeschi. Il suo lavoro gli offrì molte occasioni per parlare con i fornitori della città, che gli comunicarono il loro sdegno con espressioni sarcastiche. Chef Meunier raccontò: « Una volta un macellaio che li riforniva di zampetti e stinchi di maiale scaricò in cortile la merce sanguinolenta, ammiccò ad Amato e disse: "Che Dio benedica gli unni. Mi pagano per la mia robaccia." » Ridacchiò allegro. « La storia è vera. »

Ne ero sicuro. Avevo udito spesso i bottegai veneziani scambiarsi motti raccapriccianti sui frequentatori della taverna e sulle loro oscene abitudini: commensali che grugnivano con il mento imbrattato di sugna mentre rosicchiavano pezzi di carne; dolciastre birre schiumose tracannate da tazze ricavate da zampe di cervo, ancora coperte dai peli sopra lo zoccolo fesso; camere da letto fetide e rumorose delle flatulenze dovute alle enormi quantità di cavolo consumato a ogni pasto; e la sozza abitudine tedesca di farsi un bagno all'anno, particolarmente disgustosa per gli schizzinosi veneziani, abituati a immergersi in acqua anche due volte a settimana.

Chef Meunier si aggiustò lo scialle. «I cuochi della Taverna di San Giorgio erano soprattutto tedeschi, sai, gente addestrata ad affumicare la carne di maiale e a marinare il cavolo. Ah! Eresia culinaria! » Sorrisi, ma parve che non se ne fosse accorto. « Ci lavorava anche qualche veneziano. Naturellement, non erano contenti, ma il lavoro è lavoro, no? »

Mi sedetti sul bordo della poltrona e annuii con vigore, pronto a raccontare quanto fossi stato riconoscente di trasportare acqua e legna in cambio di vitto e alloggio, ma il vecchio si voltò verso la finestra ed esclamò: «Mon Dieu! Gli angeli piangono! » Pioveva a dirotto e udii in lontananza il rombo del tuono.

Chef Meunier sorseggiò il vino e si asciugò le labbra con lo scialle.

« Alla taverna c'era un tizio, un sottocuoco dal viso appuntito addetto alle minestre, che si sentiva particolarmente superiore. Non ricordo il suo nome. Manteneva un silenzio altezzoso e si rifiutava di mangiare insieme ai colleghi

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tedeschi. Sulla sua mensola personale teneva una bottiglia di Chianti e un calice di vetro di Murano, sottratto senza dubbio al suo precedente datore di lavoro. Nella tasca del grembiale aveva addirittura una forchetta. » Il vecchio chef scosse la testa sbalordito. « Ti rendi conto? Una forchetta. »

Chef Meunier lisciò la coperta che teneva in grembo, stupito all'idea che un addetto alle minestre in una cucina di seconda categoria possedesse un utensile tanto costoso. « Oui, mentre i tedeschi strappavano la carne con i denti e la trangugiavano insieme alla birra, quel tizio sorseggiava il Chianti dal calice e brandiva la forchetta con il mignolo in fuori, così. » Il vecchio sollevò il vino e piegò il mignolo con effeminatezza.

« Quel tizio si rifiutava di dire una parola che non fosse in italiano. Fingeva di non capire neppure un semplice ja o nein e consigliò ad Amato di comportarsi nello stesso modo. "Amato, sei ancora abbastanza giovane per sfuggire ai barbari gli disse.

« E Amato gli diede ascolto. Mais oui. Con il tempo, persino in Amato - ricorda, era ancora un bambino, un contadinotto, il figlio di un servo abbrutito dal vino —, oui, persino in Amato crebbe tanta veneziana arroganza da fargli guardare dall'alto in basso i clienti che serviva. Teneva gli occhi aperti giorno e notte in attesa della buona occasione per "sfuggire ai barbari." Era quello che voleva: trovare qualcosa di meglio. » Il vecchio guardò fuori della finestra, incapace di distogliere lo sguardo dalle grigie cortine di pioggia che sferzavano la sua casa.

Domandai: « Come ci riuscì, monsieur? » «Quoi?» Parve sorpreso, come se si fosse scordato della mia

presenza. «Ah, oui. Una sera un commerciante tedesco portò alla taverna un nobile veneziano. Il veneziano era vestito in modo impeccabile, con un farsetto di raso e un ampio mantello di velluto. Amato disse che aveva il colore del vino di Bordeaux. Me lo vedo, quell'uomo agghindato di tutto punto che arriccia il naso non appena entra nella taverna: il posto puzzava sempre di sudore e di birra. »

Il dito nodoso si alzò in modo così repentino che sussultai. «Amato capì che cosa c'era in ballo. Era un ragazzo perspicace. Sua madre aveva ragione a questo proposito. » Il vecchio chef mi dimenò davanti il dito deforme. « Sapeva che il veneziano era venuto, suo malgrado, a concludere un affare. Certo che lo

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sapeva. » La mano deturpata sparì sotto lo scialle e il rumore della

pioggia si intensificò mentre il tuono rombava in lontananza. « Amato osservò i due uomini negoziare davanti a due zoccoli

cavi di cervo maschio traboccanti di schiuma. Disse che il tedesco aveva proposto un brindisi e bevuto la sua birra, mentre il veneziano aveva solo accostato le labbra. Perché mai uno dovrebbe bere la birra quando può avere il vino, eh? Birra. Mon Dieu. »

Mi accorsi che Chef Meunier era facile a distrarsi. La vecchiaia e la perdita di troppe persone care avevano avuto la meglio su di lui rendendolo cogitabondo. « Che cosa fece il mio maestro, monsieur? »

« Cosa? Ah. Amato corse in cucina e arraffò il Chianti e il calice dell'addetto alle minestre. Era un temerario. Audacieux. » Chef Meunier fece un breve cenno di approvazione alla temerarietà del mio maestro. « Seduto a tavola, il veneziano aveva l'aria torva e spenta. Bè, chi non l'avrebbe avuta? L'uomo fissava il grasso rappreso su una zampa di porco. Ah! Amato dispose il vino e il calice davanti a lui, gli fece un cenno solidale e si ritirò. Oui. Nient'altro.

« Quell'uomo era Ercole d'Este, e io » il dito scattò, « ero il suo chef. Uscendo dalla taverna, il duca chiamò Amato da parte. Domandò: 'Sai cucinare?' Amato rispose: Sì, signore. » Chef Meunier sorrise con un breve cenno del capo. «Oui. Disse proprio così, senza esitazione. Sì, signore. » Schiaffeggiò il bracciolo della poltrona e rise così sonoramente che si mise a tossire. Sembrava che stesse per soffocare. Mi alzai e gli battei la schiena. Prese fiato, alzò lo sguardo su di me e sorrise. Disse: « Quel ragazzo non sapeva cucinare niente. Rien! Ma diventò il mio apprendista».

Tornai a sedermi nella poltrona e mi meravigliai al pensiero che gesti tanto insignificanti - un bicchiere di vino con cui mitigare il gusto oleoso di uno zampetto di maiale, o addirittura il furto di una melagrana - potessero far imboccare strade inimmaginabili. Scaldai le mani sulla tazza di vino e ne inalai i vapori profumati.

Chef Meunier prese un fazzoletto dal tavolino da té per soffiarsi rumorosamente il naso e poi si terse il viso. « Era uno

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dei palazzi più belli di Venezia. Oui. A Casa d'Este, Amato scoprì il mondo del privilegio. » Il vecchio si strinse lo scialle sulle spalle con un gesto che aveva qualcosa di orgoglioso.

« Ricordo bene la casa, sempre immersa nel silenzio. Conversazioni a bassa voce davanti a dolci e tisane, abiti di seta fruscianti nelle sale. In ogni stanza c'era una vaschetta di rose fresche e la sera la luce delle candele faceva brillare l'argenteria e accendeva piccole scintille nel cristallo. Era un piacere essere convocati nella sala da pranzo per ricevere un complimento. Vraiment. In quella casa c'era solo il meglio. »

Per breve tempo la pioggia diminuì consentendomi di udire la voce rauca del vecchio, che si era abbassata e intenerita non appena si era abbandonato ai ricordi. « Per Amato era tutto nuovo. Complètement nouveau. Credo che il ragazzo si sentisse così confuso e sommerso dai lussi che la grande casa e tutto ciò che comprendeva deve essergli sembrata un'unica, sublime entità. In quella casa udì i bisbigli di uomini importanti mescolarsi alle corde dell'arpa di famiglia. Mais bien sûr, in quella casa persino i bambini amavano la musica. Amato vide scorrere pomeriggi indolenti e ascoltò le smancerie delle jeunes filles en fleur. Ah, quelle ragazze... le stanze traboccavano del profumo delle gardenie che si mettevano in seno.

« La sontuosa famiglia trascorreva le giornate indulgendo all'ozio e passava le notti ondeggiando nei letti dagli alti baldacchini. Le cameriere profumavano i cuscini con la lavanda appena colta e intiepidivano le lenzuola con i mattoni riscaldati e avvolti nella lana fiorentina. Ah, la Casa d'Este... » Chinò il capo e ciangottò tra sé e se i propri ricordi.

Ascoltai la pioggia tamburellare sul tetto e immaginai il mio maestro, giovane campagnolo nella Casa d'Este, guardare come un allocco l'eccesso di prodigalità, desiderando far parte di quel mondo. Poi le imposte sbatterono e la pioggia si intensificò, martellando la finestra, che si fece opaca, mentre la stanza si rabbuiava. Il vecchio proseguì. « La domenica, che era il suo giorno libero, Amato si alzava molto prima dell'alba e andava a Vicenza sul carro di un lattaio. Tornava dopo cena sul carretto di un fruttivendolo. Faceva un viaggio di sei ore all'andata e sei al ritorno per passare un'ora o due alla fattoria.

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» Avvicinò le sopracciglia nello sforzo di ricordare. « Era un

bravo ragazzo. Voleva andare a trovare la madre, ma io capii cosa stava succedendo. Oui. Era inevitabile. Amato cominciò a far caso all'odore sgradevole che aleggiava nella cucina della madre, alla rozzezza del suo vino e al formaggio andato a male, troppo prezioso, però, perché si potesse buttarlo via. » Fece un lento cenno di assenso.

«Avendo osservato le cameriere di Casa d'Este distendere le lenzuola asciugate dal sole sui letti di piume rivestiti di maglina, gli fece male vedere i pagliericci infestati dalle pulci addossati alle pareti del tugurio dove viveva la sua famiglia. Avrebbe dato del denaro alla madre, se ne avesse avuto, ma come sai, gli apprendisti non ricevono paga. »

«Vero. Ricordo che una volta... » « Una domenica Amato tornò sconvolto da Vicenza, très

vexé. Il ragazzo aveva redarguito la madre per la sua meschina abitudine di prendere a calci i polli che le entravano in casa. Oui, e perché scatarrava sputando nel camino. Passò una settimana intera in preda al senso di colpa. La domenica seguente le chiese scusa, ma lei se lo tolse dai piedi. La vita del figlio aveva preso esattamente la piega che lei aveva sperato. Lui però si sentiva a disagio quando andava a trovarla. Cominciò a non tornare a casa per due, tre settimane di seguito. A lei non importava; voleva che il figlio imparasse. »

Il vecchio chef si sporse e la sua voce si fece circospetta e confidenziale. «Amato imparò che, pur essendo nato servo, poteva accedere ai privilegi, al pari di me, chef rinomato. Avrebbe potuto abitare in una casa di proprietà, prendere una signora in moglie, far studiare la prole e trasmettere un mestiere rispettabile a suo figlio. » Sorrise e annuì, con l'aria del vecchio pago di sé. « Oui, trasmettere è ciò che da significato alla vita, eh? »

« Sì, monsieur, la trasmissione è tutto. » Si appoggiò allo schienale della comoda poltrona e parve

soddisfatto. « Per Amato, il mestiere rappresentava la fuga dai barbari. Naturellement, si gettò nel lavoro. Diventò un addetto alle salse all'età di diciotto anni. Considerevole, non? »

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« Veramente, monsieur. » « Oui. Ero orgoglioso di quel ragazzo. Ma a diciannove anni

conobbe Giulietta. » Chef Meunier si versò un'altra tazza di vino con la mano

tremante. Se la passò sotto il naso, la tracannò e si accoccolò nello scialle. « Giulietta arrivò a Casa d'Este come servetta. Aveva quindici anni: une enfant. Aveva una carnagione luminosa e occhi nocciola limpidi e innocenti. Charmante. La prima volta che Amato la vide, il suo viso si aprì come un fiore e lasciò cadere il ramaiolo. Fu uno di quei momenti in cui il tempo si ferma e quando riparte nulla è più come prima. Un coup.

« Giulietta era très petite. Fianchi snelli. Una volta udii Amato domandarsi ad alta voce se sarebbe riuscito a circondarle la vita con le mani. » Il vecchio se ne uscì con un grugnito offeso. « Nella mia cucina non c'era posto per quei discorsi, ma lui era vittima del suo fascino. Diceva sempre che la luce sui capelli neri della ragazza lo faceva pensare al riflesso della luna sul Canal Grande. C'est ridicule, eh? »

Pensai a Francesca. « Non per un uomo innamorato, monsieur. »

«Bah. Erano due bambini. » Chef Meunier emise un suono di impazienza con la faringe. « Un giorno Amato fece impazzire la salsa mentre flirtava con Giulietta... nella mia cucina! Intolérable! Mi ero accorto che i progetti di Amato erano cambiati. Voleva la ragazza più di quanto desiderasse diventare uno chef. Ma far impazzire una salsa? Mon Dieu, era troppo.

« Quel giorno persi le staffe. Sbattei il mestolo sulla pentola di salsa raggrumata, così. » Schiaffeggiò due volte il bracciolo della poltrona. «Urlai: :"Non! Non!' Te lo dico io, il comportamento di quei due violava la santità della mia cucina. Ma quella non era la cosa peggiore. Non. Ad Amato importava meno della mia ira di quanto lo preoccupasse l'impressione che la scena avrebbe prodotto su Giulietta. »

Il vecchio fece un pesante sospiro e scrollò le spalle avvolte dalla lana. « Un uomo è impotente di fronte all'amore, soprattutto se è giovane, eh? »

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« Oh sì. » « La relazione passò dagli amoreggiamenti diurni a una notte

— ah, deve essere stata una notte memorabile -, la notte in cui Amato imparò che, oui, poteva circondarle la vita con le mani. Dopo di che fu senza speranza; diventò ossessione. Tutto il resto — le salse, i sogni della madre, le sue ambizioni - ogni cosa evaporò al calore della loro passione. » Chef Meunier scosse la testa e sorseggiò il vino.

Guardò la pioggia battente e tenne gli occhi socchiusi come per vedere l'episodio che voleva richiamare alla mente. « Un mattino Amato mi chiese un colloquio. Quando vidi il suo viso illuminato da una luce interiore, capii cos'era in ballo. Oui, Amato voleva sposare Giulietta. »

« Gli avevate parlato del libro? » « Non ancora. » Scosse la testa. « Ma non avrei dovuto

aspettare tanto. Avrei dovuto parlargliene prima che il matrimonio interferisse con i progetti che avevo in mente per lui, prima che rendesse le cose très difficiles a entrambi. "Amato, hai ancora molto da imparare. Beaucoup" gli dissi.

« "Un uomo può imparare da sposato quanto da scapolo'' ribatté. Bah. Feci una faccia così. » Chef Meunier piegò la testa dì lato e aggrottò le ciglia con fare scettico. « Gli dissi: 'Dobbiamo parlare. Vieni a casa mia, stasera?' Amato era infastidito, ma disse che sarebbe venuto. »

Chef Meunier spaziò con lo sguardo sulla stanza ingombra di libri. « Quella sera ci mettemmo seduti proprio qui, io e Amato. Gli deve essere sembrato strano vedermi così serio. Ah, oui, in cucina interpretavo la parte dell'allegro folletto, correndo da una postazione all'altra. Tutti mi giudicavano gioviale, très clément e magari anche comico. Oui, lo so. »

Mi ricordai i sussulti della sua minuscola pancia ogni volta che rideva: un allegro folletto per davvero.

« Quella sera Amato mi vide così. » Si piegò di nuovo e storse il viso; tra le sopracciglia apparve un solco profondo che denotava preoccupazione e attorno alla bocca si formarono le parentesi. « Gli dissi: "Amato, ho un lascito e mi serve un uomo saggio e morale come successore.'' »

« Cosa? » Drizzai la schiena. « Gli avete detto... di noi?

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Semplicemente così? » Sporse il labbro inferiore. « Non tutto insieme. Sai bene come

si procede.» Mi appoggiai allo schienale. « Sì, so come si procede. »

L'alternanza di intensità della pioggia mi fece pensare al mio viaggio complicato, alle svolte inaspettate del destino che mi avevano portato a vivere una vita di ombre e segreti.

Chef Meunier sorrise. « Amato era très confuso. "Anche se il vostro ricettario è pregevole'', dubito che abbiate bisogno di un santo come erede disse. Ah! Non sapeva nulla, absolument rien. Mi servii di un acino d'uva fresca e uno d'uva passa per spiegargli in che modo la conoscenza potesse essere alterata. »

Ricordai il giorno in cui avevo passeggiato sotto il sole insieme al mio maestro che aveva portato con sé un grappolo d'uva e una manciata di uva passa. Dissi: « Mi ha iniziato con lo stesso metodo, monsieur».

Si strinse nelle spalle. « È la regola. » Il suo viso invecchiato assunse un'espressione vaga. « Spiegai ad Amato che tra noi c'è chi si dedica all'accumulo della conoscenza e diventa maestro. Voleva saperne di più, ma, ovviamente, prima doveva accettare. »

Annuii. «A me è andata nello stesso modo. » « Per forza. Smettila di interrompermi. Non ti basta

costringermi a ricordare che cosa è successo al mio amatissimo apprendista? » Tirò su con il naso. « Dissi ad Amato che se avesse accettato la mia offerta, tale scelta avrebbe avuto la priorità su tutto il resto: la moglie, i figli, il paese. Domandò: "Anche su Dio'', monsieur? » Il vecchio chef rovesciò la testa all'indietro e rise. « Gli risposi che Dio sarebbe stato l'argomento di un'altra conversazione. »

« Proprio così » interloquii, « Dio è l'argomento di molte altre conversazioni. »

Sbuffò. « Glielo dissi chiaro e tondo; doveva rinunciare a Giulietta. Ah, sacrebleu! Sembrava che gli avessi chiesto di privarsi delle braccia, di strapparsi il cuore, di mettere la testa sul ceppo. 'Io l'amo' disse. »

Chef Meunier aveva l'aria stanca e non avrei saputo dire se fosse per lo sforzo di rammentare o per i ricordi. La luce nella stanza era diventata così fioca che nel buio il suo viso si era

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ridotto a una serie di piani e ombre. Accesi il lume sul tavolino da te e mi versai un'altra tazza di vino. Non era più bollente, ma tornai a sistemarmi sulla poltrona, confortato dalla calda pozza di luce che ci racchiudeva. Il vento e la pioggia flagellarono la finestra e fecero sbattere le persiane contro i muri della casa, ma Chef Meunier, perso nei suoi ricordi, parve non accorgersene.

« Gli spiegai quel che bastava perché potesse prendere una decisione. Poi se ne andò. Mi disse in seguito che aveva camminato tutta notte nelle strade buie a capo chino e con le mani intrecciate dietro la schiena. Aveva ascoltato l'eco dei suoi passi sul selciato, pensando e ripensando. Oui, credo che l'abbiamo fatto tutti.

« Il giorno dopo non si presentò al lavoro. Quando ci riparlammo mi disse di sentirsi onorato dalla mia offerta, ma di ritenerla ingiusta. »

Chef Meunier alzò una mano per bloccare quanto, per la sorpresa, stavo per replicare. « Oui, ingiusta. Amato era sulla soglia di una vita soddisfacente insieme a Giulietta e si sentiva preso in un'imboscata. Come ho detto, non capiva niente. » Il vecchio chiuse gli occhi e mormorò in francese. Quando li riaprì aveva l'aria triste. « Alla fine Amato si convinse che avrebbe potuto avere tutto. Non rinunciò a lei; le chiese di aspettare. Sot! Non me lo disse, se non quando era troppo tardi. Aspettò un anno intero prima di parlarmene. Allora la tragedia era un fait accompli e non fu più possibile intervenire.

«A mia insaputa, aveva dato appuntamento a Giulietta in un campo appartato. Disse che si erano seduti su una panchina mano nella mano e lei gli aveva domandato perché non fosse andato al lavoro. Lui prese coraggio e le disse che le nozze dovevano attendere. Lei ritrasse la mano e domandò: "Quanto?''

« Amato temeva che se lei lo avesse lasciato in quel momento non sarebbe stato capace di vederla andare via. Ma lei non se ne andò. Pianse, implorò, si infuriò e si batté il petto con i pugnetti. Lo accusò di avere un'altra donna. Ci furono altre lacrime, altre accuse, poi, all'improvviso, lei capitolò. Me la immagino mentre raddrizza le spallucce da bambina e dice: "Va bene, aspetterò". Amato non sospettava che Giulietta fosse

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scaltra. Molte donne lo sono, sai. » « Sì. » Francesca. Ancora lei. « Oui. Giulietta era intenzionata ad aspettare fino a quando

non fosse rimasta incinta, cosa che non tardò a succedere. Quando, però, andò da lui - con la vita allargata e l'abito

nuziale già cucito -, rimase di sasso nell'apprendere che Amato non l'avrebbe comunque sposata. » L'anziano chef si tirò lo scialle mentre la pioggia sferzava il tetto. « Fosse venuto da me allora... ah, io mi illudo. Il danno era fatto.

« I familiari di Giulietta, gente devota, la cacciarono di casa. C'era da aspettarselo. In attesa del parto, Amato la portò alla fattoria della madre. La andava a trovare tutte le settimane - benché, all'epoca, fossi convinto che facesse visita alla madre - e ogni volta Giulietta si lamentava con lui. La madre non voleva che la gravidanza di Giulietta intralciasse le ambizioni del figlio. Le due donne provavano risentimento l'una per l'altra e Amato si sentiva messo in mezzo. »

« È una condizione che andrebbe stretta a qualsiasi uomo. » «Amato cercò di rassicurare Giulietta. La portò a fare lunghe

passeggiate nei campi odorosi di erba tagliata. Si nascosero tra il caprifoglio dove fecero l'amore e restarono l'uno tra le braccia dell'altra ad ascoltare i grilli. È doloroso ripensarci adesso. »

Il fragore del tuono lo zitti e io mi sforzai di immaginare il mio maestro da giovane, caduto in estasi in una macchia di caprifogli. Lo avevo conosciuto quando era un uomo di mezza età con una famiglia rispettabile. Ma tutti sono stati giovani.

Chef Meunier si spostò sulla poltrona come se gli dolessero le ossa. Temevo che il disagio lo inducesse a concludere il racconto e mi offrii di andargli a prendere altro vin brûlé, magari un cuscino, ma disse: « È solo la vecchiaia. Non è importante ».

«Amato si precipitava tutte le settimane alla fattoria della madre, ansioso di posare le mani sul ventre di Giulietta per sentire la vita muoversi al suo interno. Nell'imminenza del parto, lui irrompeva nella piccola baracca aspettando di udire i vagiti di un neonato, ma trovava solo Giulietta che si muoveva pesantemente, la madre che a labbra serrate si dava da fare intorno al fuoco e, ovviamente, il fratello Paolo che teneva

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d'occhio le due donne. « Un giorno, quando la data prevista per il parto era bell'e che

trascorsa, al suo arrivo Amato trovò solo Paolo e la madre. Mi raccontò che quest'ultima gli aveva riportato la notizia con un volto di pietra, mentre Paolo guardava altrove giocherellando con le dita. Giulietta dai fianchi stretti era morta nel dare alla luce un figlio e il bambino, un maschietto, era deceduto a sua volta. La madre sostenne che Giulietta non aveva il fisico per partorire e che il bimbo era maledetto. »

« Maledetto? » «Mon Dieu, non dimenticherò mai l'espressione che aveva

quel giorno quando tornò a Venezia. Pallido. Distrutto. Choqué. Amato si lasciò cadere sulla poltrona come se gli avessero dato un pugno nel petto. Si sedette là, a gambe divaricate e lo sguardo fisso, troppo stordito per piangere. Lo avrebbe fatto in seguito. Quello fu il giorno in cui, finalmente, mi disse che cosa aveva combinato, raccontandomi tutto fin dal principio. »

Per molto tempo avevo avuto il sospetto che quella presunta maledizione fosse una delle ragioni per cui il mio maestro mi aveva tolto dalla strada, ma volevo una conferma. « Qual era la maledizione del bambino, monsieur?»

« Una voglia scura sulla fronte. » Chef Meunier indicò la mia testa con un gesto distratto. « Penso che fosse molto simile alla tua. Sono piuttosto comuni. Ma la madre di Amato pensò che Giulietta avesse il malocchio. Contadini, vero? »

« Una voglia come la mia? » « Non ho idea se fosse come la tua. Era una voglia. Un tratto

decisamente non bello, ma di sicuro non una maledizione. » Annuii. Avevo pensato di rado al fatto che la mia voglia fosse

bella o brutta. Quasi tutti hanno un tratto che li contraddistingue, e il mio era una voglia. Ero cresciuto senza specchi e sapevo che era marrone scuro soltanto perché me lo aveva detto la Canterina. Un monello di strada non si sofferma a pensare se il suo viso è bello o no, ma talvolta mi ero chiesto se il mio segno fosse una maledizione. Ovviamente mi ero posto la domanda da giovane, prima di liberarmi delle superstizioni.

«Amato disse che Giulietta aveva una tomba ordinaria, un monticello ben definito di terra appena scavata, con una semplice croce di legno e un mazzolino di margherite di campo.

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Ma la tomba del bambino era rudimentale, nient'altro che un fazzoletto di terra appena grattata, e non recava alcun segno. Si erano inginocchiati davanti alla tomba di Giulietta e la madre aveva biascicato meccanicamente una preghiera. Amato domandò: "Non preghiamo per mio figlio?'' 'Il bambino era maledetto. È già all'inferno' borbottò lei. Alors, c'est fini. Amato non andò mai più a trovare la madre.

« Ogni anno onorò il giorno in cui era morta Giulietta ed era nato il bambino buttandosi in ginocchio e implorando il perdono. Naturellement, più cose imparava da me, più si domandava a chi o a che cosa stesse rivolgendo una supplica. »

« So come funziona. » « Lo sappiamo tutti, ma Amato aveva bisogno di essere

assolto dall'egoismo con cui era rimasto attaccato a Giulietta. Mais bien sûr. Non è per questo che la gente ha bisogno degli dei? Perché esaudiscano i desideri, diano fiducia, offrano consolazione, distribuiscano premi e punizioni? Ci deve essere per forza qualcuno che regge le fila, non? E Amato pregò. Tenne conto di quanti anni avrebbe avuto il figlio e si ritrovò a scrutare la fronte dei bambini di quell'età. Per sua stessa ammissione, si sentiva uno sciocco a comportarsi così, ma non poteva farne a meno.

« Qualche anno dopo diventò sottocuoco e sposò Rosa, una giovane gentildonna di Aosta. Aveva gli occhi scuri e fieri, una tigre, quella lì. Le piemontesi sono durables; penso che siano i rigidi inverni di quelle montagne. Oui. Rosa aveva una mascella che denotava fermezza e un carattere che prometteva fedeltà. Stavano bene insieme e adoravano le figlie. »

« Sì, è vero. » In alto scoppiò un tuono e un fulmine lampeggiò alla finestra

facendoci sobbalzare. Chef Meunier esclamò: «Quelle pluie torrentielle! Spero che la donna abbia messo fuori la tinozza». Aveva in comune con il mio maestro la stessa ossessione per l'acqua fresca. Si avvolse nello scialle e osservò la pioggia cadere a scrosci sulla finestra. Non c'era bisogno che dicesse altro; eravamo giunti a quel punto della storia in cui avevo una parte anch'io. Nel momento in cui era diventato capocuoco del doge, Amato Ferrerò aveva raggiunto tutti gli obiettivi che si

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era prefisso e la sua fuga era terminata. Gli mancava solo una cosa.

Non aveva ancora quarant'anni quando mi sorprese a pizzicare una melagrana e mi trascinò di peso in una vasca di acqua fredda, ansioso di sfregarmi il viso per capire se, lavandola, la chiazza, marrone scuro sulla mia fronte sarebbe scomparsa.

9

Il libro dei desideri Conclusa la zuffa felina sul terrazzo del capocuoco, mi

precipitai a palazzo per portare a termine le mie incombenze serali. Lavai i piatti in uno stato febbrile, schizzando a terra l'acqua saponata e armeggiando con un bicchiere da vino che afferrai al volo prima che si schiantasse sul pavimento di pietra. Madido di sudore, rincalzai il fuoco sotto le marmitte, poi spazzai il pavimento con la furia di una tempesta marina, il tutto borbottando tra me e me.

La signora Ferrerò aveva parlato di un filtro d'amore e io l'avevo annusato: affumicato e insolito, un aroma simile a quello delle caldarroste, ma liquido. L'avevo udita mentre lo versava e lo offriva al marito. Il sangue mi ribolliva per l'eccitazione, come capita solo da giovani quando le cose, più che comprenderle, si sentono. I lumi che oscillavano fuori delle finestre emanavano una luce tremolante e davano alla cucina un'atmosfera da sogno che si adattava alla perfezione alla disposizione del mio animo in quella notte sconcertante di rivelazioni. Quando Bernardo uscì da sotto la scrivania del capocuoco, sollevai la scopa a mò di spada del vincitore e annunciai: « Il capocuoco sa preparare un filtro d'amore! »

Marco mi canzonava per la mia abitudine di parlare con Bernardo, ma a palazzo avevo visto il doge conversare a lungo e apertamente con i suoi gatti. Li chiamava con i nomi delle pietre preziose e li apostrofava così: « Mio Smeraldo, mio Zaffiro, mio Rubino ». Li persuadeva a mangiare bocconcini prelibati e dispendiosi, li vezzeggiava e canticchiava per loro. Appoggiava sovente le labbra

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raggrinzite a un orecchio vellutato al quale bisbigliava come un amante infatuato. Guardando il doge, capii che i gatti rappresentano il pubblico perfetto: non ridono di te, non ti contraddicono mai, non hai nessun bisogno di far colpo su di loro e non divulgheranno i tuoi segreti. « Pensaci, Bernardo... Francesca tra le mie braccia» dissi. Cinsi l'aria e, come un pagliaccio, mi baciai il bicipite.

Lo stomaco borbottò e mi ricordai che non avevo cenato. Squarciai mezza pagnotta del pane alle olive di Enrico, scodellai un bel po' di brodo di manzo in un piatto fondo e mi sistemai nel camino. Dopo aver inzuppato il pane nella scodella, rammentai il giorno in cui avevo mangiato con estrema attenzione un solo acino d'uva alla tavola del capocuoco e lo strano piacere che mi aveva procurato. Il profumo del brodo gustoso e del pane fresco mi fece venire l'acquolina in bocca, ma fermai la mano che stavo portando alle labbra e mi costrinsi a guardare il pane. Era saturo di succhi appetitosi e screziato dalla cipolla caramellata. Lo passai sotto il naso e lasciai che mi sfiorasse le labbra. La vicinanza del pane alla bocca era un tormento, ma mi piaceva l'idea che quel modo di mangiare, controllato e attento, facesse di me una persona migliore. Era quello che volevo.

Mordicchiai la crosta inzuppata di brodo e il sapore stuzzicante mi solleticò la lingua. Masticai lentamente, chiusi gli occhi e mi feci scivolare in gola il pane ammorbidito. Lo sentii atterrare nello stomaco, caldo e soddisfacente, e tentai di prestare la medesima attenzione al morso successivo, ma i brani della conversazione che avevo origliato sul terrazzino del capocuoco mi distrassero.

La mente divagò. La riportai alla cena, ma tornò ad allontanarsi. Era inutile. Rinunciai allo sforzo meditativo ed esaminai la situazione insieme a Bernardo.

« Il doge cerca il libro perché pensa di poter sconfiggere la morte. È una stupidaggine, non c'è che dire. Ma il filtro d'amore esiste davvero. La domanda è: il filtro d'amore viene dal libro segreto? Se il maestro sa qualcosa del libro, può trovarsi in pericolo » dissi. Consumai la cena a morsi e sorsate con assoluta sbadataggine, ma in fondo alla scodella lasciai un avanzo di brodo per Bernardo. Gli carezzai la schiena mentre

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ripuliva il piatto. « Non possiamo permettere che il doge abbia dei sospetti sul capocuoco. Tutti pensano che sia rimbambito, ma non è vero. Sta facendo la recita per via di quello che è capitato al doge Faliero. »

Il Consiglio dei Dieci eleggeva sempre dogi anziani e deboli. Non tollerava opposizioni al proprio potere e a un doge non chiedeva altro che comparire in pubblico senza parlare a vanvera. Ai dogi non era neppure consentito di aprire la propria corrispondenza.

Di tanto in tanto capitava che il Consiglio prendesse un granchio; il doge Faliero era stato uno dei loro errori più marchiani. Mi era successo spesso di attraversare la Sala dei Dogi e vedere il suo ritratto. Alla mia richiesta di spiegazioni, il capocuoco rispose: « Quel tizio era troppo ambizioso. Complottò per rovesciare il Consiglio e farsi proclamare principe di Venezia, ma fu scoperto e decapitato ». Storse la bocca in una smorfia di disgusto. « Misero in mostra il suo corpo in piazza San Marco con la testa tra le ginocchia. Fu un avvertimento ai futuri dogi. E ha funzionato. Nessun doge ci ha mai più riprovato e l'episodio risale a oltre cent'anni fa. »

Il nostro, invece, sembrava il tipico doge, un uomo molto anziano e un po' stordito, almeno all'apparenza. Avendo avuto varie occasioni per osservarlo quando era da solo, sapevo che dietro la pretesa senilità si celava una mente subdola. Il Consiglio dei Dieci parlava di lui come del vecchio idiota; erano così certi della sua inettitudine da non aver mai speso un momento a guardare oltre le mani malferme e il mento tremulo (perfettamente saldo quando l'uomo cenava solo). Non si erano mai presi la briga di guardarlo negli occhi perché, se l'avessero fatto, avrebbero visto una furbizia che smentiva ogni altro atteggiamento. Me lo figuravo sgusciare dalla pelle avvizzita come un serpente, emergere rinato e vorace, scivolare silenziosamente in mezzo a noi e colpire senza preavviso.

Riempito lo stomaco, fui colto da un'ondata di stanchezza. Mi appoggiai al camino e mi lasciai cullare dal calore del fuoco e dalla luce palpitante, che mi fecero pensare con tenerezza a Francesca. Chiusi le palpebre e vidi il volto amato in cui

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spiccavano i grandi occhi da antilope. Le sopracciglia si arcuavano come ali di cigno e le cornee bianche, quasi azzurrognole, contrastavano in modo incredibile con la pelle color caramello. Sarei poi venuto a sapere che la trisavola era stata rapita dai mercanti di schiavi in Turchia, portata a Venezia e venduta a un mercante tedesco. A Venezia non era un'eccezione. Dagli antenati più recenti di Francesca, tedeschi e italiani, era scaturito un misto di ghiaccio nordico e calore mediterraneo.

Il labbro superiore di Francesca disegnava quella curva sensuale che induce i gelosi mariti musulmani a velare il volto delle loro mogli. La recondita bellezza levantina contrastava con i capelli teutonici biondo platino, incredibilmente chiari nel loro accostamento alla pelle olivastra e al guizzo di passionalità bizantina che lampeggiava negli occhi scuri. Le narici avevano esattamente la forma di due lacrime.

Mi allungai nel camino e ricordai la prima volta che le avevo parlato, circa una settimana prima, mentre facevo la spesa a Rialto per conto del capocuoco. L'avevo già osservata molte volte quando vivevo per strada, ma non avevo mai osato mostrarmi nei miei sudici stracci infestati di pulci. Da quando, però, il capocuoco mi aveva lavato e vestito, e i capelli erano ricresciuti, ritenevo che i miei abiti e le mie maniere denotassero un giovane perbene con un futuro rispettabile e decisi di avvicinarla. Da più di un anno l'adoravo da lontano e desideravo disperatamente che quegli occhi da antilope si voltassero dalla mia parte, cosi un giorno colsi l'occasione nella via dei fruttivendoli.

La Madre Superiora aveva fatto cadere di botto un grosso melone nel cesto di Francesca, che la ragazza aveva lasciato andare per il peso eccessivo. L'anziana suora si era piantata con i pugni sui fianchi larghi mentre Francesca tentava disordinatamente di recuperare le rape cadute e le mele che sfuggivano da ogni parte. Raccolsi il pesante melone che era rotolato ai miei piedi, per un ovvio intervento divino, e lo rimisi nel cesto abbassando la testa con reverenza.

Il profumo di sapone nei suoi capelli e la fragranza del pane appena cotto che era rimasta impigliata nel suo abito di lana accesero il ricordo della Canterina, e quell'aromatica presenza

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mi stordì. Notai una balza di pizzo infilata nella manica e per un istante mi chiesi come si fosse procurata quell'oggetto dispendioso. Poco importava; i nostri sguardi si incrociarono e io sbarrai gli occhi. Lei mormorò: « Grazie » con una voce intonata sulla nota più bassa del liuto, e la mia fronte si imperlò di sudore all'attaccatura dei capelli. Volevo farla sorridere - un sorriso su quel volto sarebbe stato come una grazia ricevuta — e mi sforzai di farmi venire in mente un'osservazione brillante. Ma, sopraffatto dal suo profumo e intimidito dalla sua vicinanza, rimasi muto. Recuperai l'ultima mela e la porsi. Avevo la lingua tumefatta e la bocca riarsa. Quando prese la mela, le sue dita sfiorarono le mie. La mia mano fu percorsa da una scossa che bruciò lungo il braccio, infiammò il collo e fini ad ardere dietro gli occhi. Sentii anche un fremito imbarazzante all'inguine che, oltre a rendermi muto, mi pietrificò. Disse ancora: «Grazie».

Volevo replicare: « Cosa da nulla », o: « II piacere è mio ». Volevo sembrare disinvolto e beneducato, inchinarmi come un cicisbeo e dire: «Al vostro servizio, mia signora ». Ma ero confuso dal suo tocco e perso nel suo profumo.

Dissi: «Amo le vostre narici», poi serrai la bocca inorridito. Francesca rise e la Madre Superiora smise di ispezionare la

lattuga per guardarmi di traverso. Quell'orso di suora afferrò Francesca per un braccio e la trascinò in mezzo alla folla. La vidi andarsene, sapendo che probabilmente mi aveva giudicato uno sprovveduto. In effetti, mi sentii stupido e ottuso e per tutta la giornata disprezzai me stesso.

Seduto tutto solo nel camino, l'eccitazione provata dall'aver origliato sul terrazzino del capocuoco scemò e la mortificazione subita dall'incontro con Francesca tornò ad assalirmi dolorosamente. Il ricordo della mia umiliazione cancellò ogni pensiero che riguardasse il doge e i libri segreti, e persino la prospettiva di un filtro d'amore. Che cosa avrei potuto ricavarne se con tutta probabilità Francesca non mi avrebbe mai più guardato? Mi trascinai per la scala di servizio che portava alla camerata dei domestici e in punta di piedi passai davanti a file di persone che russavano.

Raggomitolato nel pagliericcio, mi abbracciai le ginocchia contro il petto e sentii il viso irrigidirsi, mentre una lacrima

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calda scivolava dall'angolo interno dell'occhio, colava sul dorso del naso per poi scorrere lungo la guancia opposta. L'euforia che avevo provato quella sera per il filtro d'amore del capocuoco si dissolse al ricordo pungente di quello smacco. Mi ero presentato a Francesca come un tonto, e solo un miracolo mi avrebbe redento.

Il mattino seguente il capocuoco Ferrerò entrò in cucina con

l'aria affaccendata e senza il solito sorriso. Tutti aspettavano il suo caloroso buongiorno pronunciato ad alta voce, che però non arrivò. Qualche cuoco lo salutò, ma lui rispose con un cenno assente. Sbatté su un tavolo tre pacchi avvolti nella tela cerata e scartò un magnifico taglio di vitello di qualità eccellente, un mucchietto di triglie appena pescate e un cumulo di granseole che si contorcevano ancora, il tutto acquistato a Rialto prima dell'alba. Non fece commenti sulla bianchezza promettente del vitello o sulla notevole lucentezza degli occhi delle triglie. Si mise in testa la berretta senza il consueto grugnito di soddisfazione e aprì l'armadietto delle spezie senza la rituale annusata alla cannella.

La mansione principale della giornata consisteva nel preparare la cena per un ospite speciale proveniente da Roma: Lorenz Behaim, astrologo e alchimista del papa, uno degli uomini più eruditi d'Europa. Sarebbe stato un pasto elaborato e i preparativi iniziarono di buonora. Lo chef ordinò a un cuoco di recidere piante di lavanda e boccioli di calendula nel misterioso orto della cucina. Gli altri cuochi si scambiarono occhiate preoccupate e il prescelto cercò di guadagnare tempo sulla porta dell'orto finché il capocuoco non gli lanciò uno sguardo minaccioso. Prima di fare un passo all'esterno, lo sventurato si segnò, fece un respiro profondo e serrò la mano a pugno dietro la schiena per proteggersi dal malocchio.

Quel giorno il capocuoco fu più esigente del solito. Ordinò a Enrico di preparare una certa quantità di morbido impasto per il pane dicendogli: « Ricorda, meglio impastare con le mani calde».

A Enrico montò l'indignazione per l'inutile commento. « Pellegrino » disse il capocuoco, « taglia il vitello a fette sottili

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perpendicolarmente alle fibre. » Pellegrino sbuffo a bassa voce: « Che altro? » Il capocuoco ordinò all'addetto al pesce di mettere le

granseole nella vasca di cuoio con l'acqua salata. Diede dei buffetti ai crostacei che si stavano dimenando e disse: « Saranno più dolci se si godono le ultime ore della loro vita».

« Ovvio » borbottò l'addetto al pesce. « Con chi crede di parlare? »

Assegnati i compiti, il capocuoco si tolse una catena dal collo e sganciò una chiavetta d'ottone. Si avvicinò a una fila di padelle di rame da sauté appese a una rastrelliera di ferro. Dietro una padella scintillante era celato un piccolo armadietto di quercia, che il capocuoco aprì con la chiave d'ottone. Con un gesto ora rapidissimo, tolse qualcosa, lo nascose nella tasca dei calzoni e richiuse l'armadietto. Si girò, vide che lo guardavo e si schiarì la gola. « Hai dato le dimissioni da apprendista, Luciano? »

« No, Maestro. » « Sei un santo, allora, che aspetta un segno da parte di Dio? » « No, Maestro. » Afferrai due secchi di legno e corsi in cortile.

L'acqua fredda zampillò nel secchio mentre ripassavo l'immagine del capocuoco che ritirava qualcosa dal suo armadietto privato: ma che cos'era? Mi sembrava d'aver visto un bagliore verde come quello del vetro usato per le bottiglie di vino. O forse era un verde grigiastro, simile a quello di un'erba seccata. L'apparizione era stata così fugace. Chiusi gli occhi per catturare di nuovo l'immagine, ma non vidi altro che la mano del capocuoco infilarsi nella tasca.

Trascinai i secchi d'acqua in cucina appena in tempo per udire il capocuoco annunciare che si sarebbe occupato in prima persona della salsa per il vitello. « E instabile e non può essere rimestata da troppe mani. È sensibile alla disarmonia. » I cuochi avevano già preso nota dell'umore dello chef e si limitarono ad annuire. Ma quando si mise a versare con il mestolo il brodo in una casseruola, a stappare il vino e assemblare gli ingredienti con l'intensità del virtuoso, l'addetto alle salse alzò un sopracciglio. Eccolo di nuovo, l'artiste altezzoso di cui nessuno osava disturbare il lavoro solitario.

Quella sera toccò a me portare nella sala da pranzo un

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vassoio carico di piatti di porcellana, di piatti da portata d'oro massiccio, di calici di cristallo e di posateria d'argento. Le cameriere esperte nell'arte di sistemare la tavola vi avrebbero steso tovaglie di pizzo chiacchierino su cui avrebbero deposto un largo vaso di gigli bianchi. I valletti avrebbero abbassato con le carrucole un massiccio lampadario perché le cameriere potessero accendere le sue cento candele.

Mi venne il fiatone mentre salivo a fatica la scala a chiocciola con il pesante vassoio. Aprii la porta di servizio con la schiena, trascinai il vassoio nell'opulenta sala da pranzo e lo posai su un buffet di marmo. Il doge era al centro della stanza con due delle sue guardie dal collo taurino. Aveva parlato a bassa voce - tutti loro avevano in volto un'espressione cupa — ma quando entrai, ansando e sbuffando, si interruppe bruscamente. I tre uomini osservarono in silenzio mentre scaricavo il vassoio. Impiegai parecchio tempo, maneggiando ciascun pezzo con cura, nella speranza che il doge continuasse a parlare in mia presenza. Ma prima che finissi, fece un gesto nella mia direzione con l'anziana mano coperta di vene e disse: «Và fuori». Mi inchinai e uscii dalla stanza. Chiusa la porta, ma non del tutto, mi accucciai per sbirciare dalla serratura.

« Stasera voglio che siate pronti tutti e due, laggiù » disse, e indicò in fondo alla stanza. « Dietro il ritratto della Brutta duchessa. »

I due uomini fecero vagare lo sguardo per tutta la lunghezza della sala da pranzo, ma la mia visuale era limitata, perciò lasciai perdere il buco della serratura e spinsi leggermente la porta, aprendola quel tanto che mi consentisse di vedere in fondo alla stanza. Alla parete era appeso un ritratto alto quattro braccia della duchessa del Tirolo, una nobildonna dagli occhi azzurri. Il naso bitorzoluto, le guance cascanti e gli occhi ravvicinati avevano procurato alla povera donna il popolare appellativo di Brutta duchessa. L'artista, nel coraggioso tentativo di distrarre l'attenzione dal disgraziato viso, aveva cercato di ammorbidire e nascondere in parte la sua modella tra vortici di raso rosa, chili di perle e un'acconciatura svettante. Evidentemente era un pittore abile, ma nemmeno il talento può arrivare a tanto.

Si avvicinarono al quadro e capii come avrebbero fatto i due

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uomini a nascondervisi quando il doge diede uno strattone alla cornice dorata e il dipinto si aprì girando su cardini invisibili. Si affacciava su un corridoio buio, senz'altro una delle tante gallerie segrete che portavano al Ponte delle Lacrime e, traversato quello, alle prigioni sotterranee.

Il doge fece vedere alle guardie come infilarsi alle spalle di un pannello, posto dietro l'occhio azzurro della nobildonna. Nel corridoio vi erano gradini di legno sufficientemente alti da consentire agli occhi di un uomo di portarsi alla stessa altezza di quelli del ritratto. Il doge rimise il pannello al suo posto e mi accorsi che l'occhio ingannevole era un capolavoro di trompe l'œil. Il doge voltò le spalle al dipinto e disse alle guardie che quella sera avrebbero dovuto tener d'occhio la tavola da pranzo in attesa del suo segnale. « Quando faccio così » disse, e piegò l'indice facendo pigramente segno di avvicinarsi, «venite a prenderlo. »

Una delle guardie domandò: «Ai Piombi, mio signore?» Parlava del piano superiore delle prigioni, collocato direttamente sotto il tetto a lastre di piombo, che rendeva le celle roventi in estate e gelide d'inverno. I Piombi erano riservati ai prigionieri di rango, che le occupavano mentre riflettevano sulle alternative a loro disposizione. Benché scomodi e spartani, i Piombi erano infinitamente migliori dei Pozzi, un complesso di grotte dove regnava il buio pesto, infestate dai ratti, chiuse da porte basse e sprangate, e dotate di camere speciali in cui esseri subumani torturavano i prigionieri. C'erano notti in cui si intravedevano alcuni figuri uscire da una cateratta trasportando a remi un sacco pesante per poi dirigersi in mare aperto, dove nessuno avrebbe udito il tonfo.

Il doge riflette un attimo e disse: « Non ho tempo per le finezze. Portatelo direttamente ai Pozzi ».

Le guardie si scambiarono una rapida occhiata e quello che aveva posto la domanda sui Piombi si schiarì la voce e disse: « Con tutto il rispetto, mio signore, si dice che Herr Behaim sia amico intimo di Sua Santità ».

L'impudenza dell'uomo mi sorprese. Pensai che l'astrologo tedesco dovesse essere davvero potente per dare a una guardia il coraggio di contestare il doge. Questi strizzò gli occhi

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catarrosi assumendo quello sguardo scaltro che in pochissimi avevano occasione di vedere. Si avvicinò alle guardie e il tono della sua voce si abbassò fino a diventare un sussurro da cospiratore. Pregai che la pesante porta di servizio non cigolasse quando l'aprii un po' di più per udirlo.

« Si sta tramando contro la Serenissima Repubblica. Dobbiamo proteggerla, anche da Roma » disse.

I due scherani erano tipici rappresentanti del piccolo drappello di guardie private del doge. Giovani rozzi, incolti, inclini a menar le mani e a pavoneggiarsi nelle uniformi inamidate. Col tempo avrebbero lasciato l'impiego e sposato una brava ragazza per diventare panettieri, fabbri o fruttivendoli. Non avevano nulla in comune con le Cappe Nere, accuratamente selezionate, che lavoravano insieme agli inquisitoti ed erano ben addestrate a condurre brutali interrogatori e spietate esecuzioni. Molti eretici messi di fronte all'autodafé, guardando in basso dal rogo, avevano visto un'impassibile Cappa Nera accendere la pira.

La polizia segreta del Consiglio era composta da assassini che indossavano a vita un mantello nero, ma la guardia del doge comprendeva un manipolo di giovani ribaldi e inetti che non restavano mai a lungo in servizio. Ecco perché i due ragazzi ignoranti della sala da pranzo, pensando che il doge li avesse messi a parte di una confidenza, diedero prova all'unisono di stizza mostrandosi lusingati della fiducia loro accordata e indignati nel loro amor di patria.

Il doge chinò il capo con l'aria del saggio deluso e si strinse nelle spalle come se non spettasse a lui decidere. « Spero che Herr Behaim parli con me da onesto cristiano durante una cena tra persone civili, ma se così non sarà, dovremo compiere il nostro dovere. Per Venezia. »

Le guardie bofonchiarono: «Per Venezia». Fecero un rigido inchino e scomparvero dietro il ritratto della Brutta duchessa. Con il fruscio del legno che scorre sulla tela, uno degli occhi azzurri della nobildonna diventò marrone.

Mi precipitai in cucina facendo gli ultimi quattro gradini con un salto e spalancai la porta. Tutti i cuochi si voltarono a guardarmi. Dante alzò le sopracciglia con aria interrogativa ed Enrico posò la pala per infornare il pane. Giuseppe, appoggiato

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con indolenza alla scopa, mi guardò in cagnesco mentre bisbigliando facevo rapporto al capocuoco.

Questi mi guardò appena e non interruppe i preparativi. Aggiunse altro vino nella padella, sbatté la miscela e disse: « Stanno tramando contro Venezia, eh? » Sorrise e immerse la punta del dito nella salsa, se lo portò alla lingua e chiuse gli occhi per saggiare il retrogusto. Quando li riaprì, domandò: « Sei ancora qui? »

« Maestro » rimarcai, « il doge ha intenzione di rapire l'astrologo del papa.»

Il capocuoco pizzicò qualche grano di sale da un piatto, lo sparpagliò nella salsa e tornò a batterla. « Sei bravissimo a spiare, e questo può tornare utile, ma non fare il seccatore. »

«Maestro... » « Porta altra legna. Devo preparare la cena. »

10

Il libro del nepente Il capocuoco aveva ragione, naturalmente. Sapevo spiare

perché per gran parte della mia giovane vita non avevo fatto altro, e non per imparare le buone maniere, come nel suo caso, ma per sopravvivere. Io e Marco avevamo spiato i bottegai di Rialto, aspettando il momento in cui uno di loro avrebbe voltato le spalle tanto a lungo da permetterci di arraffare la sua mercé e scappare. Mentre cercavamo Rufina in campo San Cassiano, spiavamo le prostitute che puzzavano di vino e di muschio, affascinati dagli accoppiamenti rapidi, rozzi, che vedevamo nelle buie calli. Una volta restammo a guardare una donna addossata al muro con le gonne raccolte all'altezza della vita e le gambe strette attorno a un uomo che, grugnendo, le palpava i seni e sbatteva sconciamente contro i suoi fianchi. Lei strizzò gli occhi alla luce dei lampioni e contò gli spiccioli alle spalle dell'uomo.

Spiavamo le vecchie che pagavano le sardine con le mani tremanti, sperando che sfuggisse loro una monetina. Appostati fuori delle case da gioco, guardavamo i nobili uscire incespicando, alla ricerca di un uomo troppo ubriaco da

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avvertire le nostre dita nel suo borsellino di velluto. Spiavamo i figli benvestiti delle case principesche, meravigliati nel vederli andarsene a zonzo, spensierati e sicuri di sé, come se il mondo fosse un luogo sicuro, quasi che a ogni passo non vi fossero pericoli e catastrofi in agguato. C'era da giurarci che non avessero mai avuto fame e non conoscessero il mal di denti, perché sorridevano per un nonnulla. Ci chiedevamo perché Dio avesse accordato loro i privilegi che noi non avevamo. Per quanto mi riguardava, ero convinto, come aveva predetto la Canterina, che la voglia sulla fronte avesse segnato il mio destino. Ma non capivo cosa non andasse in Marco.

Entrato nei ranghi del personale del palazzo, spiavo i cuochi per impadronirmi del cibo sprecato che avrei avvolto in un fagotto e portato a Marco e a Domingo. Spiavo gli altri domestici, il capocuoco e la sua famiglia, il doge; in effetti, tutti i giorni della mia vita erano tenuti insieme da un filo incerto di sorveglianze e calcoli. Spiare era diventato il mio modo di stare al mondo e di imparare. Spiando, mi ero mantenuto in vita, e non vedevo alcuna ragione per rinunciarvi.

I miei compiti di apprendista mi fornivano occasioni eccellenti per spiare durante le cene di Stato. Correvo su e giù per la scala a chiocciola portando allegramente ogni nuova pietanza e andandomene con i piatti sporchi dell'ultima. Consegnavo alle cameriere in attesa nel pianerottolo i piatti da portata ricolmi e le zuppiere fumanti, e mentre le donne entravano e uscivano con i vassoi guardavo di sfuggita la sala da pranzo. Le cameriere lasciavano la porta socchiusa per sapere quando servire altro vino o portare la pietanza successiva. L'esigua apertura bastava a far arrivare fin sul pianerottolo le voci del doge e dei suoi ospiti. Tra una portata e l'altra, mi attardavo sul posto insieme alle cameriere, tendendo l'orecchio alle conversazioni del doge.

La sera della cena in onore dell'astrologo del papa, osservai dalla fessura della porta di servizio il doge ed Herr Behaim entrare dal sontuoso portone a due battenti all'estremità opposta della sala. L'occhio marrone della Brutta duchessa, abitualmente azzurro, li seguì mentre si avvicinavano alla tavola e si accomodavano. Herr Behaim apprezzò gli elaborati arredi bizantini, le pareti rivestite di seta e il soffitto ad arco, e

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notai che parlava in italiano con accento tedesco. Il doge sedette di fronte al ritratto della Brutta duchessa, Behaim alla sua destra, la mano che forse avrebbe dato il funesto segnale.

Il pasto iniziò con formaggio di Asiago rotolato in un misto di erbe e pan grattato, grigliato quel tanto da far acquisire una sfumatura dorata all'impanatura. Era un piatto difficile poiché andava cotto fino al punto di fusione: bastava un secondo di troppo per far uscire il formaggio dal suo rivestimento croccante e rovinare la presentazione. Bisognava portarlo in tavola ancora sfrigolante prima che si raffreddasse e si rapprendesse. Il formaggio era accompagnato da una bottiglia di Fojaneghe rosso servito freddo, un vino corposo proveniente dalle cantine del doge, adatto agli antipasti.

Il doge tagliò la crosta delicata e immerse il coltello nel formaggio morbido e caldo. Herr Behaim sollevò la forchetta e ammirò il riflesso scintillante della luce delle candele sull'argento. « Questo attrezzo incantevole che avete inventato voi italiani, ditemi ancora come lo chiamate. »

« Forchetta. » « Ma certo! Perché non riesco a ricordare questa breve

parola bizzarra? Mi dicono che stia diventando una mania alla corte di Francia. »

« I francesi? Dubito che sappiano adoperarla. » « Siate clemente, mio signore. Venezia fissa lo stile; gli altri

non possono far altro che adeguarsi. » Il doge sorrise, si piazzò in bocca una forchettata e chiuse gli

occhi, mentre, incrostato di erbe e saporoso di burro, il formaggio gli si spalmava sulla lingua. Prima che mi precipitassi a prendere la portata seguente, lo udii fare le fusa.

Come primo piatto, il capocuoco aveva scelto di servire una vivanda che chiamava gnocchi, una sorta di fagottini di patate. Era un piatto insolito, visto che le patate erano una rarità del Nuovo Mondo, perlopiù sconosciuta. Gli gnocchi erano conditi con semplice burro rosolato e salvia e una spolverata di parmigiano appena grattugiato. Era una presentazione alla buona, senza guarnizioni, accompagnata da un vino bianco da tavola senza particolare distinzione.

Mi venne l'acquolina in bocca quando portai gli gnocchi in sala da pranzo. In cucina avevo assaggiato un fagottino e mi

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erano piaciuti il sapore terroso e la resistenza che aveva offerto quando vi avevo affondato i denti. Il burro e la salvia mi avevano rivestito la bocca e il sapore era rimasto anche quando lo avevo ingoiato. Mi piaceva la sensazione che dava nello stomaco, solida e nutriente, e non vedevo Fora di imparare a farli.

Quando la cameriera dispose sulla tavola i due piatti di gnocchi disadorni, il doge inarcò al suo indirizzo una delle bianche sopracciglia.

« Fagottini? » Si voltò verso l'ospite. « Mi scuso per la grossolanità di questo cibo. Lo rimanderò indietro immediatamente. »

Behaim gli mise una mano sul braccio. «Vi prego, mio signore. La reputazione del vostro chef è ben nota. Sono certo che i fagottini siano deliziosi. »

Un sorriso imbarazzato si fece strada sul viso del doge. « I fagottini mi piacciono; lo ammetto. » Ridacchiò sotto i baffi. « Sotto gli abiti del nobile, abbiamo lo stomaco del contadino, no?»

Si scambiarono un sorriso, meno cortese e più autentico di prima, e si buttarono a pesce sugli gnocchi. Udii borbottii di piacere appena accennati mentre i denti affondavano nei bocconi di pasta di patate al burro. « Perfetti. E, come sospettavo, nient'affatto banali » mormorò Behaim.

« Sì, sì, al dente e, sì... diversi » disse il doge a bocca piena. Mentre mangiavano il cibo dei contadini, la conversazione

educata cessò. Udii una masticazione rumorosa e il tintinnio sbrigativo dell'argento sulla porcellana. Innaffiarono il cibo con il vino senza pretese ed entrambi raccolsero i resti del burro e del formaggio insieme agli ultimi gnocchi. Il cameratismo sostituì i modi cerimoniosi e la benevolenza si sedette a tavola come un terzo commensale.

Il doge si appoggiò allo schienale e intrecciò le dita sulla pancia. « Dunque, abbiamo mangiato insieme i fagottini. Non ne parlerò a nessuno, se non volete. »

« Un segreto che sarò felice di mantenere se posso contare su un altro invito. »

Udita la parola « segreto », mi avvicinai alla porta

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sforzandomi di cogliere ogni sillaba. « Se si desidera conoscere il segreto di un amico bisogna

offrirgli una buona ragione perché lo sveli » disse il doge. « Il mio signore sa come vanno le cose di questo mondo. » Sul pianerottolo, una delle cameriere mi diede uno

scappellotto e bisbigliò: « Sarebbe più facile ascoltare la conversazione se ti sedessi a tavola con il doge. Dobbiamo preparare un posto anche per te? O, magari, ci faresti l'onore di portar su la prossima pietanza? » Con un balzo scesi le scale, inseguito dallo schioccare delle lingue.

Quando tornai con il pesce, la cameriera prese in fretta i piatti e aprì la porta con un fianco. Entrò in sala da pranzo proprio mentre il doge si sporgeva verso l'ospite come se volesse parlargli in confidenza, ma vedendo la cameriera tornò ad appoggiarsi allo schienale asciugandosi le labbra con un tovagliolo.

Dopo la semplicità degli gnocchi, la pietanza di pesce era sbalorditiva. Pellegrino aveva impiegato l'intera giornata a preparare le due triglie. Aveva tolto parzialmente le teste ed estratto le interiora dei pesci da quelle piccole aperture, lasciando intatti i corpi. Poi li aveva massaggiati per ammorbidirne le carni e le spine, che aveva prelevato diligentemente senza lacerare la pelle. Aveva mescolato la carne di triglia con le granseole a tocchetti, la mollica di pane ammorbidita nella panna, gli scalogni finemente tritati, un nonnulla d'aglio, timo, noce moscata e burro, e aveva riempito di nuovo attentamente le pelli. Pellegrino aveva risistemato le teste nella posizione naturale e a colpetti leggeri aveva fatto riprendere ai pesci la loro forma. Aveva contornato di verdure ed erbe le triglie ripiene sigillando il tutto nella pergamena, in modo che, cuocendo a vapore, si impregnassero del proprio aroma.

Sul piatto sembravano due semplici triglie al forno contornate dalle fette di limone. La cameriera dispose un piatto davanti a ciascuno dei due uomini e il doge domandò: « Un'altra pietanza alla buona? » Ma non appena il primo taglio rivelò l'inaspettato miscuglio al loro interno, rise forte.

Herr Behaim commentò: « Il vostro chef ha il senso dell'umorismo ». Diede un morso, se lo tenne in bocca e lo fece

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rotolare sulla lingua. Il suo viso si soffuse di piacere. «Mein Gott im Himmel, non so che cosa sto mangiando, ma mi avvicina a Dio. »

Il doge masticò pensieroso. « Granchio? » « Forse, ma non solo. L'apparenza inganna. » « Come nella vita » disse il doge. « Ben detto, mio signore. Non ci credereste se sapeste le

ridicolaggini che la gente s'aspetta da me solo perché sono l'astrologo del papa. Pretendono che io possegga conoscenze occulte d'ogni genere. Tentativi a vuoto di menti limitate; si imbrogliano da soli. »

Il doge si sporse verso il suo ospite. «Amico mio, abbiamo mangiato insieme i fagottini. Non vorrete farmi credere che la vostra conoscenza si limiti all'astrologia? »

« Rimedi erboristici. » Behaim si strinse nelle spalle. « E mi diletto di alchimia, non è un segreto per nessuno. »

« Tutti gli uomini hanno qualche segreto. » Il doge sorrise. « Mio signore, soltanto il mio confessore conosce i miei

segreti. Penso che persino lui si annoi. » « Impossibile. » Il doge gli andò più vicino. « Tutti sanno che

siete l'uomo più erudito d'Europa. » « Lusinghiero, ma assurdo. Come ha riconosciuto il mio

signore, spesso le cose non sono come sembrano. » Behaim alzò il bicchiere di vino e bevve un sorso di Tocai freddo al punto giusto, selezionato dal capocuoco per evidenziare ogni sfumatura del complicato ripieno delle triglie. Behaim lo annusò, lo sorseggiò e lo tenne un istante sulla lingua prima di inghiottirlo. «Ah, il vostro chef è un artista. »

Il doge assaggiò il vino e annuì. « È vero. Il Tocai si accorda al mistero del cibo. Ammetto di essere disorientato. » Scolò il bicchiere e fece schioccare le labbra.

«Tutti gli enigmi dovrebbero essere altrettanto deliziosi.» Behaim masticò un boccone di triglia a occhi chiusi. « Sembra di ascoltare un coro. »

« Mmm. » Il doge si appoggiò allo schienale. Alzò la mano destra e vidi che raddrizzava un dito. Guardai di sfuggita il ritratto della Brutta duchessa e vidi l'occhio marrone socchiudersi nell'attesa. Invece di dare il segnale, il doge si limitò a convocare una cameriera perché gli riempisse il

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bicchiere di vino. L'altra cameriera mi diede uno scappellotto. « Dobbiamo

implorarti a ogni portata? » Mentre scendevo le scale a balzi, sibilò: « Sei troppo ficcanaso, finirai male ».

Il capocuoco Ferrerò si era occupato personalmente del piatto forte. Le costolette di tenero vitello erano state immerse nelle uova sbattute e nella farina insaporita, cotte a fuoco abbastanza vivace e servite con una salsa scura. La presentazione era completata da una spruzzata di foglie di lavanda e petali di calendula verde e oro, come un mattino di primavera - e servita con una fetta di pane crostoso, al posto delle abituali cipolle glassate.

« Vitello » disse Behaim, « che lusso. C'è da chiedersi quanti piccoli vengano strappati alle loro madri per permetterci di mangiare bene. »

« Questo è il lusso. Ingeriamo l'innocenza dell'infanzia. » Behaim rigirò la forchetta nella morbida salsa. « Questa salsa

è insolitamente scura. Assorbe la luce. » L'assaggiò. «Mein Gott, che sapore è?»

Il doge diede un morso e masticò lentamente. « Confesso che mi è nuova. L'inventiva del mio chef non ha limiti. »

Tenni la porta socchiusa con la punta della scarpa e li guardai mangiare il vitello da latte, così tenero da potersi tagliare con la forchetta. Mordicchiarono i petali di calendula e inzupparono soffici pezzi di pane nella salsa scura. Tenevo d'occhio l'indice del doge in attesa del gesto che avrebbe fatto uscire allo scoperto le guardie; l'occhio marrone osservò con altrettanta attenzione, senza il minimo battito di ciglia. Gli uomini alzarono i bicchieri e brindarono all'innocenza con un Recioto deciso, invecchiato nelle botti.

« Questa salsa è magnifica. Credo che piacerebbe a Sua Santità » dichiarò Behaim.

Il doge si sporse di lato e gli diede una gomitata nelle costole. « Se Borgia ama la varietà nei cibi quanto nelle donne, temo che una sola salsa, anche se meravigliosa, non basti. Ma cercheremo di andargli incontro... » Si girò sulla sedia e alzò la mano. Pensai: Ci siamo! Invece, si limitò a chiamare la cameriera. « Donna » ordinò, « vammi a prendere la ricetta della salsa per l'ospite. »

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Lei si precipitò sul pianerottolo e mi diede un altro scappellotto. « Hai sentito » disse in tono che non ammetteva repliche, « và a prendere la ricetta. »

Trovai il capocuoco che sistemava i biscotti su un piatto da dessert, ma prima che potessi parlare domandò: « Stanno mangiando la salsa del vitello? »

« Sì. Ripuliscono i piatti con il pane. » « Bene, bene. » Sembrava nervoso; c'era quasi da pensare che

stesse servendo il Consiglio dei Dieci. « Tieni gli occhi aperti e raccontami cosa succede » disse.

« Maestro, il doge vuole la ricetta della salsa per Sua Santità. »

« La salsa? Sei ammattito? » Scosse energicamente la testa. « Sarò lieto di preparare la salsa nepente per Sua Santità, ma non posso divulgare la ricetta. Se tutti sapessero cucinare come Amato Ferrerò, che valore avrei? »

Comunicai la risposta alla cameriera che la riferì al doge. Saputo che il capocuoco si era rifiutato di renderlo edotto della sua ricetta, il doge batte un pugno sulla tavola. « Che insolenza! » ruggì. Behaim lo tenne di nuovo a freno mettendogli diplomaticamente una mano sul braccio.

« Il vostro chef ha ragione. Un artista deve proteggere i segreti del suo mestiere. Forse gli permetterete di venire a Roma a preparare in prima persona il piatto per Sua Santità. »

« Certamente. Ma... di che cosa stavamo parlando? » Behaim si appoggiò allo schienale, sorseggiò il Recioto e

corrugò la fronte. « Salsa nepente. Strano nome. Credo che Nepente fosse un dio greco... il dio del sonno? No, quello era Morfeo. Nepente era il dio della memoria, o della dimenticanza? » Con un gesto indicò che era inutile. « Non riesco a ricordare. »

Il doge fissò con aria assente il ritratto della Brutta duchessa e disse: « Che cosa volete che ne sappia degli dei greci? Siete voi lo studioso». Sbatté rapidamente le ciglia, si guardò intorno e sospirò. « Strano. Non mi ero mai accorto che la Brutta duchessa avesse un occhio marrone. » Si accasciò sulla sedia. « Forse ho bevuto troppo vino. »

Behaim diede un'occhiata al ritratto e scosse la testa. « Non

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so di che colore siano gli occhi della nobildonna. Non sono mai stato propenso a guardare troppo a lungo nessuno dei suoi ritratti. »

« Comprensibile. » Il pasto si concluse con vino aromatizzato e un piatto di

biscotti oblunghi, la cui estremità era stata immersa in un'altra salsa scura e rappresa.

Il doge spiegò: « Li chiamiamo ossa di morto ». Ne sollevò uno e lo ruotò dalla parte glassata per esaminarlo. « Ma non ne avevo mai visti con questa... che cos'è? »

« Il vostro chef è un artista dotato di senso dell'umorismo. Serve ossa di morto vestite a lutto. »

Il doge sollevò il vino aromatizzato. « Mangeremo le ossa di morto e brinderemo alla vita. »

Behaim brindò, scelse un biscotto e ne addentò un pezzetto. Il suo viso si trasformò in quello di un santo in estasi. « Mmm. La glassa di questo biscotto è erotica quanto era divina la salsa del vitello. Suscita il desiderio smodato di averne altri. » Si leccò le briciole sulle labbra.

Il doge diede un morso alla punta scura di un biscotto, lo masticò e borbottò: « Fa pensare alla giovinezza». Lo inghiottì. « Strabiliante. Anche quando il sapore è svanito, il piacere resta, simile a un pizzicore nel cervello. Delizioso quanto il sesso. »

« Mmm. Irresistibile quanto il peccato. » Masticando in silenzio, svuotarono il piatto. Stavolta le

cameriere origliarono attentamente quanto me e nessuna di loro mi allungò un ceffone. La più anziana borbottò: « Sesso e peccato. Bah. Porci ».

Behaim fini il vino aromatizzato e si appoggiò allo schienale. « Dunque, mio signore, abbiamo mangiato morte e innocenza e siamo contenti. Ciò che non si può fare nella vita si è compiuto alla vostra tavola. » Spinse indietro la sedia e si alzò. « Vi ringrazio per la cena memorabile. I miei rispetti al vostro chef. »

Il doge rimase seduto con lo sguardo fisso sulla Brutta duchessa. « Ho la sensazione di star dimenticando qualcosa. Le pietanze, il vino e la vecchiaia giocano questi scherzi, eh? » La mano si alzò per l'ennesima volta, ma solo per sfregare gli occhi. Scosse la testa come se volesse liberarla, poi si alzò e

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abbracciò l'astrologo. « Porgete i miei omaggi a Sua Santità. » Ridacchiò. « Borgia, quel mascalzone. » Uscirono dalla stanza ridendo come due vecchi amici.

L'occhio marrone della Brutta duchessa li seguì fino alla porta a due battenti. Battè le ciglia, spaziò nella sala vuota, rimase fisso per un istante, poi, con il leggero fruscio del legno che scivola sulla tela, diventò azzurro e immobile.

Aiutai le cameriere a sgombrare la tavola e mi precipitai in cucina, dove scaricai i piatti sporchi nella vasca insaponata senza sfregarli. Il capocuoco parve non accorgersene; mi fece cenno di avvicinarmi a lui con un gesto ansioso. «Allora» domandò, « ha arrestato l'astrologo? »

« No, Maestro. Proprio nel momento in cui pensavo che l'avrebbe fatto hanno cominciato a comportarsi come se fossero amici. »

Il viso del capocuoco si rilassò. Si sedette su uno sgabello e disse: «Bene».

« Maestro, è stato piuttosto strano. Cosa gli avete dato da mangiare? »

Guardò a terra per un istante, poi guardò me. « Il cibo ha potere, Luciano. Ogni piatto opera la propria magia, una sorta di alchimia che cambia il corpo e la mente. »

Mi mise una mano sulla spalla. « Considera l'effetto del formaggio fuso. Morbido, caldo, confortante, così facile da mangiare che quasi non c'è bisogno di masticarlo. Spinge un uomo a rilassarsi. Poi sono arrivati i fagottini. Un piatto alla buona, ordinario, atto a ispirare fiducia, a risvegliare il senso della comune umanità e il godimento delle cose semplici. I fagottini alimentano il cameratismo. »

« Si sono messi d'accordo di mantenere segreto il loro amore per i fagottini » dissi.

« Sì? » Il capocuoco sorrise. « Poi la straordinaria triglia di Pellegrino li ha fatti riflettere su quanto sia folle giudicare dalle apparenze. Il doge s'aspettava che Behaim sapesse qualcosa basandosi sulla sua reputazione, ma il pesce lo ha indotto a mettere in dubbio le sue ipotesi. »

« Cosa s'aspettava che sapesse? » Respinse la domanda con un gesto della mano. « La cosa

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importante è che, se si fosse sbagliato, avrebbe fatto la figura dello sciocco. »

Mentalmente mi diedi uno scappellotto. Stupido. ''Il libro''. Il doge s'aspettava che Behaim sapesse qualcosa del libro.

Il capocuoco continuò. « Il vitello è lampante. Nessuno può mangiarlo senza pensare all'innocenza. L'ho servito con il pane al posto delle cipolle, perché il pane è più umano. Gli animali scavano le cipolle dalla terra e le mangiano crude. Solo gli esseri umani si mettono a coltivare il grano. Ciò si traduce nel fare piani per il futuro, macinare il grano per ricavarne la farina, aggiungere la magia della lievitazione e cuocere con attenzione nel forno. Il pane rammenta a un uomo che è un essere civilizzato. » Ridacchiò. « Inoltre, aiuta a mangiare tutta la salsa. Non volevo che se la perdessero. »

« Hanno ripulito i piatti. » « Nel momento in cui arriva il dessert, la fame è stata saziata

e il commensale, soddisfatto, si mette comodamente a riflettere sulla condizione umana. Mangiare le ossa di morto induce a pensare all'immortalità. Una salsa nera, soave e misteriosa, consiglia di affrontare l'ignoto e amarlo. Non c'è più nulla da temere. Presi insieme, gli elementi della cena concorrevano a liberare il doge dei suoi sospetti e a lasciarlo soddisfatto. »

« Ingegnoso, Maestro. » « Bene, allora che cosa hai imparato? » « Che il cibo può manipolare il cuore e la mente degli uomini.

» « Benissimo. Adesso finisci quei piatti. » Il capocuoco però aveva tralasciato la spiegazione

dell'apprezzatissima salsa nepente, apice del pasto e punto di svolta nell'atteggiamento del doge. Domandai: « E la salsa del vitello, Maestro? »

« Cosa vuoi sapere? » « Quei due, dopo aver mangiato la salsa... » « Basta così. » Il capocuoco si sistemò la berretta in modo che

gli calzasse bene sulla fronte, un segnale che non prometteva mai niente di buono. « Non si possono imparare i segreti del maestro senza prima aver sbrigato le faccende. Lava i piatti. E la prossima volta, sfregali prima come ti ho insegnato. »

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Ostrega. Ero impressionato dall'abilità del capocuoco, ma era

evidente che non avrebbe rivelato i suoi segreti con facilità. Dovevo guadagnarmi la sua fiducia e quella sera decisi di dedicarmi in prima persona all'arte culinaria. Avrei compiuto un gesto grandioso. Quali difficoltà avrei incontrato? Mettendo insieme soltanto ingredienti di buon sapore, il risultato avrebbe avuto per forza un buon sapore. Pareva banale come il buon senso. Avrei creato qualcosa di così delizioso, originale, straordinario, che il capocuoco sarebbe stato raggiante d'orgoglio, mi avrebbe detto che ero un virtuoso dell'arte culinaria e promosso seduta stante. Regolato il fuoco sotto le marmitte perché sobbollissero tutta notte, accesi il forno di Enrico e concepii la mia strategia.

La carne era fuori questione perché non conoscevo i segreti per condirla e arrostirla. Le verdure erano quasi altrettanto difficili perché necessitavano di fini preparativi a me ignoti. Partii da uno spicchio di brie perché mi parve una base ricca ed elegante che avrebbe avuto bisogno di poche guarnizioni. Ne tagliai una larga fetta che liberai dallo strato esterno, lasciando solo il cuore voluttuoso che disposi in una terrina pulita. Avevo notato che i piatti migliori erano a base di vino, perciò aggiunsi una buona quantità di rosato perché il formaggio assumesse la consistenza adatta a mescolarlo ad altri ingredienti. Mentre sbattevo, osservai il bianco immacolato assumere una tonalità rosa torbido e l'odore intenso del vino soverchiò la fragranza lattea del formaggio. Il cambiamento di colore e di aroma era inatteso, ma arrivai alla conclusione che non fosse un colpo fatale al progetto.

Una volta il capocuoco aveva detto che i pilastri dell'arte culinaria erano il burro e l'aglio, pertanto montai una noce di burro ammorbidito e schiacciai un grosso spicchio d'aglio. Sbattei fino a ottenere un composto uniforme, lo assaggiai con la punta del dito e non mi parve tanto male. Il suo sapore accettabile, però, non era all'altezza di un gesto eclatante. Mi misi davanti al forno e pensai che cosa avrebbe potuto elevare il preparato da semplice formaggio dal sapore insolito a

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qualcosa che facesse alzare le sopracciglia al capocuoco per la sorpresa e l'apprezzamento.

Il forno mi fece venire in mente quanto spesso Enrico millantasse che i suoi pani dolci e i suoi pasticcini primeggiavano. Una volta aveva sentenziato: « Il pasto è una scusa per arrivare al dessert». Non ero sicuro che fosse vero, ma mi ero accorto che i commensali accoglievano il dolce con un sorriso, anche se erano già pieni. I pasticcini incontravano sempre il favore della gente, dunque versai nel mio miscuglio una stria dorata di miele.

Quando il composto fu ben mescolato, assunse un aspetto grazioso, liscio e spesso, succulento alla vista, come un budino o una crema pasticcera. Avevo persino fatto l'abitudine al colore di carne cruda che gli aveva conferito il vino, e pensai che la preparazione potesse funzionare, ma quando l'assaggiai aveva assunto un gusto stonato, sgradevole. Qualcosa era andato storto, era squilibrato, assolutamente errato, ma che cosa?

Mi ricordai che Pellegrino aggiungeva l'uva passa al frumento cotto nel latte e zuccherato, commentando: « Il budino migliora con la frutta». In preda alla disperazione, buttai una manciata di uva passa e mescolai. Adesso il composto aveva perso la consistenza setosa e le uvette parevano quasi piccoli scarafaggi morti, ma speravo che la magia della cottura gonfiasse le uvette, addensasse la pastella e mescolasse i gusti. Versai il tutto in una teglia e la infilai nel forno caldo.

La cucina si riempì all'istante di odore d'aglio, una cosa positiva, di solito, ma non per un dessert, come compresi improvvisamente. Però, presi separatamente, il miele e l'aglio erano due ottimi ingredienti e forse ero incappato in una splendida combinazione. Vidi una serie di bolle formarsi ai bordi della teglia e la mistura si butterò di pozzette di burro in ebollizione. Poi le uvette si ingrossarono, rivestite da una pellicola di formaggio che le fece sembrare croste bianche. Quel pastrocchio luccicava sotto uno strato untuoso e aveva una somiglianza nauseante con il vomito.

Non ebbi il coraggio di assaggiarlo. Raschiata la teglia, lo versai in un piatto e lo offrii a Bernardo, ma dopo un'annusata

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questi mi guardò con gli occhi a fessura e se ne andò in silenzio con la coda dritta. Andai a dormire perplesso, ma non sconfitto.

11

Il libro di Landucci

Non insistetti oltre a far domande sul doge per paura di

essere ributtato in strada; essere poveri a Venezia è particolarmente penoso. Essere poveri a Venezia significa patire privazioni in mezzo a una ricchezza sconcertante; significa frugare nell'immondizia di una città che scoppia di prelibatezze importate da ogni parte del mondo; significa tremare dal freddo all'ombra di palazzi di marmo che tolgono il fiato per la loro opulenza.

Soltanto per una settimana all'anno tutti i veneziani si sentono accuditi e privi di preoccupazioni. A metà della primavera, Venezia celebra la Festa della Sensa, lo sposalizio simbolico del doge con il mare. Durante la Sensa, i padri della città distribuiscono cibo e bevande a sufficienza affinché tutti i veneziani si divertano per otto giorni senza inibizioni. Durante la Sensa, il mare, da cui Venezia dipende per la sua prosperità, diventa la sposa simbolica del doge, in uno spettacolo abbagliante che non ha eguali nelle festività cittadine.

Noi — orfani, ubriachi, prostitute, pazzi e tutti gli altri reietti della società veneziana - ne parlavamo eccitati con diverse settimane d'anticipo. Sedevamo sui moli o nei campi affollati in gruppi vivaci, vantandoci del numero di magoni di pollo che avremmo divorato, della quantità di formaggio di cui ci saremmo ingozzati e dei litri di vino che avremmo scolato. Giuravamo di rimpinzarci, cantare e ballare fino a cadere svenuti. Uomini in rovina, sdentati, malnutriti e puzzolenti nei loro stracci infestati dai pidocchi promettevano di mandare in estasi ogni donna in vista, che fosse di nobile o modesta condizione. Le donne, altrettanto sudicie e oscene, ridacchiavano scioccamente come ragazze vezzeggiate.

Il gran giorno spuntava con una processione di barche, adorne di ghirlande di rose appese a mò di festoni e gremite di

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senatori con i mantelli scarlatti. I cittadini si affollavano in piazza San Marco dove brigavano per ottenere un posto favorevole da cui osservare il doge, lo sposo risplendente con le vesti dorate, che usciva dal palazzo ducale e saliva a bordo del Bucintoro, fiammeggiante di stendardi cremisi che sventolavano dai suoi alberi. Il Bucintoro guidava la flottiglia fuori della laguna; il sole lampeggiava sui remi mentre un coro di duecento uomini cantava sulla riva e tutte le campane di tutte le chiese rintoccavano a distesa.

Nel vedere il doge in piedi, che intonava il suo giuramento sulla prua del Bucintoro, la città era percorsa da uno stordimento contagioso. Il doge alzava le braccia e annunciava: « Mare, noi ti sposiamo ». Poi scagliava una vera nuziale nell'Adriatico. La folla esultava e la flottiglia sciamava attorno al Bucintoro. Suonavano le trombe, i cannoni sparavano in segno di saluto e il popolo alzava la voce in una cacofonia giubilante.

Le gondole aristocratiche adorne di blasoni si scontravano con le imbarcazioni gremite di cortigiane che lanciavano baci denudandosi i morbidi seni. I campi prendevano vita grazie agli acrobati, ai richiami per gli uccelli, ai maghi, ai giocolieri, ai danzatori, ai cantori e ai musici che strimpellavano liuti a forma di pera o battevano i tamburelli. Calate le tenebre, il cielo notturno si arrossava di innumerevoli falò e una processione illuminata dalle torce si snodava per le vie come un fiume infuocato.

Il primo giorno era sempre gioioso, poi tutto diventava eccessivo ed eccessivamente lungo. Chi aveva una casa vi proseguiva i festeggiamenti a modo suo. Noi che vivevamo per strada mantenevamo le promesse: ci ingozzavamo e ci davamo ai bagordi fino a farci venire la nausea e oltre. Con il passar dei giorni, la gente cedeva sotto il peso del troppo vino da quattro soldi, del poco sonno, e sotto il fardello dell'inesorabile baldoria. Per l'eccitazione e per la ressa, le persone svenivano, vomitavano, litigavano e venivano colte da crisi isteriche. Chissà perché, da un anno all'altro i più dimenticavano questo lato della festa, ma non io. Mi ritrovavo istupidito dall'eccesso. Era una massa congestionata, impazzita, di uomini e donne e bambini e cavalli e cani e asini e gatti e polli (sì, polli), un

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clamore insaziabile, chiassoso, ebbro che durava con fragore otto lunghi giorni e lunghe notti lasciandomi annichilito e stupefatto.

Credevo che la mia prima Sensa a palazzo sarebbe stata diversa. Negli anni passati, avevo visto distinti senatori scomparire nel palazzo insieme alle loro raffinate signore, ed ero certo che i festeggiamenti di costoro fossero più moderati e ricercati del disordine che impazzava nelle strade. Fantasticavo di servire a un ricevimento elegante offerto dal doge alla sua corte, nobildonne e gentiluomini dall'aspetto regale che si sarebbero divertiti con grazia e decoro. Non mi sarebbe più successo di camminare nelle pozzanghere di urina o di scivolare in mezzo al vomito, non ci sarebbero state scene di mogli gelose che strappano i capelli ad altre donne, non avrei più visto ubriachi rissosi cadere nei canali, o miserevoli neonati piangere nelle ceste mentre le madri bevevano e danzavano, brille e immemori.

Non vedevo l'ora di prender parte a una serata di cibo raffinato e musica lieve che non turbasse la mia sensibilità. Avevo in mente di avvolgere nella tela cerata due pacchetti con gli avanzi migliori, legarli con un fiocco e donarli il giorno dopo a Marco e a Domingo. Non m'importava che Marco prendesse tutto senza ringraziare. Sarebbe stata un'esibizione della mia munificenza, una dimostrazione della benevolenza che avevo acquisito stando vicino alle persone di alto lignaggio. Non avevo bisogno dei suoi ringraziamenti.

Domingo, al contrario, era sempre grato. Una volta mi ringraziò con troppa esuberanza e troppo a lungo per una crosta secca di parmigiano. Lo interruppi. « Niente » dissi, indicando il formaggio con un gesto noncurante.

Replicò: « Non è soltanto per il formaggio ». Mi mise una mano esitante sul braccio e la ritrasse rapidamente. Guardò a terra e parlò in quel suo modo tranquillo. « Sei un buon amico, Luciano. » I foruncoli luccicarono per il rossore.

«Bah. Cosa da nulla» borbottai. Ma lo sapevamo entrambi che l'amicizia contava molto per dei ragazzi come noi.

Quando spuntò il mattino della Sensa, fui sorpreso nel constatare che in cucina non c'era la solita attività frenetica. Tutto procedeva con indolenza. Domandai al capocuoco

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quando sai ebbero iniziati i preparativi per il banchetto, ma questi rispose: « Guarda e impara ». Sorrise e si allontanò.

Il primo assaggio della realtà lo ebbi dopo la cerimonia nella laguna. Il nostro fragile, vecchio doge crollò nel momento in cui le porte del palazzo si chiusero alle sue spalle, e dovette essere trasportato nelle sue stanze da due guardie robuste. Il vecchio era fiaccato dallo sforzo e dalla calura e la sua corte non si presentò. Il capocuoco scrollò il capo e sentenziò: « Questa ridicolaggine diventa più sfibrante ogni anno che passa. Prima o poi avremo un altro morto stecchito ».

« Un altro? » « L'ultimo doge. Alla sua prima Sensa - il 'suo giorno', lo

chiamava - mangiò troppo melone mentre era seduto a capo scoperto in giardino sotto il sole cocente. Il vecchio diventò rosso come un ravanello, schiumò dalla bocca e morì all'istante di apoplessia. » Il capocuoco si strinse nelle spalle. « Non è previsto che siano particolarmente intelligenti né che durino a lungo.»

Il nostro doge, però, fu più prudente del suo predecessore. Si ritirò semplicemente nelle sue stanze per riprendersi senza troppo clamore dall'adempimento del solo, fondamentale obbligo che Venezia pretendeva rispettasse. Quella sera ordinò una zuppa fredda che consumò sorretto dai cuscini nel suo alto letto a baldacchino.

Ero deluso per l'assenza della corte del doge, ma se non altro, quella sera, il Consiglio dei Dieci e i senatori avrebbero cenato a palazzo e non vedevo l'ora di dare per la prima volta una bella occhiata a quella congrega di uomini potenti. Ne avevo visto soltanto uno prima d'allora, Maffeo Landucci, che aveva l'inusitata abitudine di comparire in cucina senza preavviso.

Una volta il signor Landucci era arrivato mentre il capocuoco consultava un cartaio e un calligrafo a proposito dei menu di un banchetto. Landucci entrò in cucina e sostò sulla porta di servizio, arricciando il naso e tergendosi la fronte con una sciarpa di seta grigia. Aveva l'aria dell'uomo in buona salute e ricco da sempre. In attesa del capocuoco guardò fisso Giuseppe, che spazzava gli avanzi della colazione, e tra i due passò uno sguardo senza alcun significato: dopo tutto, erano due soggetti da contemplare, a modo loro.

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Il capocuoco si alzò per accoglierlo, ma con la sciarpa di seta Landucci gli fece cenno di sedersi e attese nel vano della porta. Quando il capocuoco ebbe terminato, Landucci si presentò educatamente al cartaio e gli pose domande tecniche sui procedimenti che adottava. Poi si informò sui nomi e l'ubicazione dei migliori calligrafi di Venezia. Ascoltò attentamente, con la testa dritta e un sorriso cortese e appena abbozzato stampato sul viso. Ringraziò gli artigiani e se ne andò con la stessa disinvoltura con cui era arrivato.

Il capocuoco rimase inspiegabilmente irritato per il resto della giornata. Si spostò per la cucina con gran fracasso, irascibile e scontento di tutto e di tutti. All'epoca attribuii quell'umore all'eccesso di intrusi nella sua cucina. Adesso so che comprendeva sin troppo bene le domande di Landucci.

Maffeo Landucci comparve una seconda volta mentre il capocuoco chiacchierava davanti a un bicchiere di vino con un libraio esperto di antichi volumi. Aveva manifestato interesse per un antico libro copiato a mano, proveniente dal Nordafrica, che si diceva contenesse ricette raccolte da uno dei cuochi al seguito di Scipione nella campagna militare contro Cartagine. Benché gli originali fossero perduti da tempo, il libraio riteneva di sapere dove fosse possibile trovare una delle pochissime copie ancora esistenti. Gli uomini discutevano dei costi, quando apparve Landucci. Questi si presentò e tempestò il libraio di domande sui libri rari. Quando se ne andò, il capocuoco era nuovamente di umor nero.

Domandai a Enrico come mai Ferrerò fosse sempre di cattivo umore dopo le visite di Landucci. Enrico, irretito dai pettegolezzi, brillò, letteralmente, di fronte alla prospettiva di raccontare una storia succulenta. « Il capocuoco disprezza quell'uomo » disse. « Non sai niente di Landucci e di suo figlio? Pensavo lo sapessero tutti. »

« Io no. » « Oh oh. » Enrico si fregò le mani. Aveva la faccia color

mattone per il calore del forno e gli scintillavano gli occhi. « C'erano due bambini di otto anni che giocavano all'impiccato e uno di loro rimase ucciso. Il bambino morto era il figlio di Landucci. »

« Pover'uomo! »

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« Bah. Vorrai dire poveri bambini. Landucci tagliò il fegato all'altro e lo fece cucinare e servire al padre. Dicono che gli spiegò che cosa stesse mangiando quando l'uomo inghiottiva l'ultimo boccone. All'altro vennero i conati, ma Landucci lo pugnalò al cuore prima che potesse vomitare. Disse che meritava di morire da cannibale. »

« Non ci credo. » Enrico si gonfiò come una delle sue pagnotte lievitate. « Le

mie fonti sono inoppugnabili. In ogni modo, la storia è ben nota. » Offeso, scomparve dietro una montagna di impasto.

Quella sera portai nella sala da pranzo solo un vassoio di piatti e posate per tre coperti. Pareva che, mentre Venezia girava vorticosamente in una frenesia surriscaldata, il doge avrebbe sorseggiato la sua zuppa di pomi d'amore sotto il baldacchino del suo letto e a palazzo sarebbero giunti solo tre consiglieri, per consumare un pasto giudizioso a base della medesima zuppa, pollo freddo e melone ghiacciato.

Mi sentii imbrogliato. Le porte a due battenti della sala da pranzo si aprirono ed

entrò Landucci. Vederlo attraversare a grandi passi il tappeto turco, mentre i miei pensieri erano rivolti alla storia raccapricciante raccontatami da Enrico, mi provocò un brivido di orrore, eppure non c'era nulla di ripugnante in lui. Aveva in tutto e per tutto l'aspetto del distinto gentiluomo. Il suo viso somigliava a un pezzo di legno e la bocca era sottile come una scheggia, tuttavia aveva una bellezza dura, spigolosa. Gli occhi, di un colore imprecisato, un attimo volgevano all'azzurro, poi al verde e infine prendevano la tonalità del grigio. Era alto ed elegante, e si muoveva con nobile grazia. L'incarnato pallido era quello della persona che conduce un'esistenza viziata al chiuso. Soltanto una sottile vena azzurra, che pulsava lentamente su una tempia, tradiva il sangue caldo sotto la pelle.

Doveva essere un vanesio. Aveva capelli e barba corti e rifiniti con precisione, l'abbigliamento alla moda, le unghie curate e l'abitudine di scacciare bruscoli di polvere con la sciarpa di seta. Brandiva la sciarpa per dare enfasi alle parole e se la portava al naso ogni volta che si avvicinava un domestico. I suoi abiti avevano ambigue sfumature di grigio;

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colori spenti, elusivi, che si armonizzavano con gli occhi. Poi entrò il signor Castelli, un uomo grosso, tarchiato, serio e

capace. Tirò fuori la sedia con una sola, abile mossa, sedette eretto e si schiarì la voce, pronto a mettersi all'opera. Dopo di lui arrivò il signor Riccardi, noto affettuosamente come Vecchio Riccardi, che avanzò con un bastone da passeggio strascicando i piedi e sorridendo affabile. Il suo viso era così raggrinzito da sembrare la cera sgocciolata di una candela, ma il sorriso gli increspava piacevolmente gli occhi. Domandai alla cameriera dove fossero gli altri membri del Consiglio e lei rispose: « Sono a casa, stupido, come tutti gli anni. Non so perché, ma quest'anno Landucci ha indetto una riunione ».

I festeggiamenti che avevo immaginato negli anni passati, quando in massa i senatori e le loro signore entravano solennemente a palazzo, avvenivano soltanto nella mia mente. La verità era che le persone altolocate vi si rifugiavano soltanto per evitare di farsi largo tra la folla turbolenta della piazza. Se ne andavano con discrezione dalle porte di servizio e si avviavano verso casa lungo stradine e stretti rii, indisturbati dalla ressa. Era possibile che sostassero per educazione il tempo di bere un bicchiere di vino, ma non c'era mai stato un convito con la musica e le signore incipriate che bisbigliano dietro i ventagli cinesi. E quella sera ci sarebbe stata soltanto una banale riunione d'affari davanti a un pasto altrettanto banale.

Avevo indossato un grembiale pulito, mi ero lavato il viso e pettinato i capelli, nella speranza che la chiassosa baldoria delle strade non interferisse con i festeggiamenti ufficiali del palazzo. Adesso, però, nel vedere i tre bofonchiare un saluto e accomodarsi nelle sedie dallo schienale dritto, la festa che si svolgeva per strada mi sembrò gaia e invitante.

Gli uomini erano vestiti in modo impeccabile con abiti estivi di seta, il grigio per Landucci e le tonalità fredde delle gemme per gli altri due, gli azzurri e i verdi del mare. Essendo uomini importanti, indossavano il cappello. Il robusto signor Castelli ne portava uno circolare e piatto a tesa rotonda, simile a un dolce rovesciato su un piatto. Il Vecchio Riccardi si era adattato una tela bianca trasparente, che aveva avvolto attorno alla testa in modo che ricadesse con eleganti pieghe e

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gli riparasse dal sole la nuca rugosa. Landucci indossava un cappello assai di moda, di seta grigia inamidata con la tesa ben proporzionata. Malgrado gli abiti eleganti e la musica che giungeva dalla strada, però, la tavola era smorta. Gli uomini sedevano distanti l'uno dall'altro alla lunga tavola, come per fare spazio all'alone di potere che circondava ciascuno di loro. Tutti e tre avevano la barba, una caratteristica che fa sembrare saggi alcuni uomini, ma nel loro caso incuteva soltanto soggezione.

Servimmo per prima la zuppa di pomi d'amore. Era opinione comune che i pomi d'amore, chiamati talvolta pomidori, fossero velenosi, ma il capocuoco li coltivava nel suo orto e conosceva il segreto per renderli innocui. Li utilizzavamo per la zuppa e in un certo numero di salse piccanti che accrescevano enormemente la sua reputazione. Landucci sorseggiò inclinando di lato il cucchiaio rotondo, come si conviene. Il Vecchio Riccardi trangugiò e sbavò nella barba bianca. Il signor Castelli pareva avesse poco appetito.

Prevedibilmente, il pomo d'amore spostò la conversazione sull'arte dell'avvelenamento e Castelli raccontò la sua vendetta preferita. Una volta aveva avvelenato un vescovo, un rivale politico; aveva fatto comprimere il suo corpo nella bara di un bambino e l'aveva messo in mostra nella chiesa. Ridacchiò per la propria arguzia e disse: « Ovviamente la vendetta più deliziosa è quella perpetrata da Landucci. Quella faccenda con il fegato del bambino». Castelli rise, all'inizio con un'oscena risatina chioccia, poi più forte, con la testa rovesciata all'indietro, la bocca spalancata e la lingua fuori.

« Quella non fu vendetta. » Landucci fece schioccare con un colpo secco la sciarpa di seta grigia e il rossore gli salì sul collo. La vena sulla tempia pulsò. « Fu giustizia. »

A Castelli si spense immediatamente il sorriso. « Scusa, Landucci, volevo solo... »

« Amavo mio figlio. » Il pallore di Landucci si mutò in un color prugna e sul collo si gonfiò un'altra vena. « Giustizia, Castelli. Un'offesa così atroce alla mia persona non esigeva nulla di meno. »

« Ma certo » disse Castelli in tono spavaldo. « Giustizia divina. Come no. »

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Il Vecchio Riccardi sospirò. « Da quando simili argomenti sono diventati appropriati per una conversazione a tavola? »

Gli uomini sedettero in silenzio mentre le cameriere servivano il pollo freddo nei piatti di vetro chiaro: medaglioni ovali di carne bianca contornati da semplici ortaggi ed erbe aromatiche fresche, per dare l'idea di un assolato prato estivo. La guarnizione di sottili fette di limone e rondelle di cetriolo fini come carta dava all'insieme una nota croccante e purificatrice. Qualcosa che raffreddasse l'atmosfera sembrava appropriato alla circostanza, ma la portata non riuscì ad attenuare il colorito spaventoso assunto dal viso di Landucci.

Una cameriera si piegò sulla sua spalla per riempirgli il bicchiere. Evidentemente qualcuno le aveva raccontato la storia del duplice omicidio perché, trovandosi così vicina all'assassino, si mise a tremare. Il vino traboccò dal bicchiere e si versò sulla tavola. Agitata, lei ritrasse troppo in fretta la caraffa e altro vino spruzzò sul piatto di Landucci, sul torace e sul grembo dell'uomo. Terrorizzata, la donna posò la caraffa, prese un tovagliolo e tentò di asciugare il vino sul davanti dell'abito, profondendosi in scuse appena sussurrate. Asciugando, si teneva salda con una mano sulla tavola.

Landucci si appoggiò allo schienale, sorpreso. Guardò la veste macchiata e il pollo che galleggiava nel vino e mormorò: « Cialtrona maldestra». Afferrò una forchetta serrandola nel pugno e le assestò una crudele stoccata nel dorso della mano. Premette con forza conficcando fino in fondo i rebbi. La lasciò andare, estrasse un fazzoletto bordato di pizzo dalla veste e si asciugò le bolle di saliva dagli angoli della bocca.

La donna rimase immobile con la bocca spalancata, senza emettere alcun suono. Fissò l'impugnatura della forchetta ancora vibrante per il colpo, mentre il sangue si allargava attorno ai rebbi confitti nella sua mano. Boccheggiò una volta e, molto lentamente, si accasciò al suolo fissando incredula la propria mano.

Anch'io la fissai e mi sentii il sapore della bile in bocca. Il Vecchio Riccardi sospirò di nuovo. « Landucci, per amor di

Dio, stasera hai intenzione di guastarmi l'appetito? » Castelli fece girare nel piatto un medaglione di pollo e non

disse nulla.

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Landucci fece un cenno di umiltà con il capo. « Scusate, signori. Una deprecabile caduta di stile. Vi chiedo perdono. » Indicò la cameriera stesa sul pavimento e disse: «Qualcuno la porti via. E procuratemi un'altra forchetta».

Le due cameriere sul pianerottolo non fiatarono e i loro volti non tradirono alcuna emozione. Una di loro prese una forchetta pulita dal vassoio di servizio e la portò a Landucci prima di far alzare da terra la donna che stava venendo meno.

L'orrore sul viso della cameriera ferita si immobilizzò come su una scultura di cera fino a che la poveretta non arrivò alla porta di servizio. Allora il suo corpo fu preso dalle convulsioni e infine dagli occhi le sgorgarono le lacrime. Ma quando le sfuggì un singhiozzo, l'altra cameriera le chiuse la bocca con la mano e la portò via. Mentre camminava, l'impugnatura della forchetta ballonzolava in modo grottesco lasciando una scia di sangue sulle scale di pietra.

Landucci mise da parte il pollo inzuppato nel vino e sulla tavola calò una calma tesa. L'altra cameriera avrebbe dovuto precipitarsi a rassettare, ma io e lei rimanemmo sul pianerottolo, momentaneamente immobilizzati alla vista della donna sanguinante che scendeva incespicando le scale. In quel momento di stasi, i canti della piazza si levarono in un allegro crescendo e soffrii di nostalgia per i miei vecchi amici. La cameriera mi diede uno scappellotto sulla nuca, segno che toccava proseguire con la cena, ed entrò in fretta nella sala da pranzo per portar via il piatto di Landucci.

Salii le scale con il vassoio del melone, stordito dall'emozione violenta, e lo consegnai alla cameriera che lo prese senza guardarmi. Aveva un'espressione neutra e mi chiesi se avesse assistito così spesso a episodi simili da non provare più sorpresa, o se avesse tanto buon senso da non far vedere che si era accorta di alcunché.

Ciascuna fetta di melone era stata condita con qualche goccia di aceto di Modena, per mettere in evidenza l'amabilità del frutto, e guarnita con le foglie di menta fresca. Furono servite su piatti di alabastro dello stesso bianco incorporeo, a volute, dei cirri. Guardai le attente preparazioni sui piatti e pensai che, se in quel momento avessi dovuto mettermi qualcosa in bocca, la gola si sarebbe chiusa per protesta.

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Il Vecchio Riccardi si asciugò la fronte e disse: « Ho caldo. Parliamo dei nostri affari e andiamocene a casa». Infilzò il melone e se lo portò alla bocca con mano tremolante. Masticò con gran cura, come un uomo a cui dolgono i denti. « Sono troppo vecchio per perdere tempo » disse a bocca piena. « Preferirei non morire a questa tavola, eh? »

Castelli si sentì soffocare. Tossì, bevve un po' di vino e tossì di nuovo. Gli si arrossò il viso e gli lacrimarono gli occhi.

Il Vecchio Riccardi domandò: « Tutto bene? » Sentendosi mancare l'aria, questi assentì. « Sto benissimo. »

Tossì ancora, prese fiato e disse: «Non è detto che tu debba morire, Riccardi ». Si interruppe per schiarirsi la gola e bere un sorso di vino. « Magari il doge troverà il libro con la formula per l'eterna giovinezza. Che ne dici, Riccardi? Ti piacerebbe tornare giovane? »

« Non ci tengo. » Il Vecchio Riccardi si asciugò il viso madido con un tovagliolo.

Landucci, che aveva ripreso il colore abituale, commentò: « Eterna giovinezza, bah ».

Castelli per la seconda volta diede prova della sua abilità nel far morire il sorriso in un istante. « Naturalmente stavo scherzando. Lo so che è una sciocchezza. »

Il Vecchio Riccardi alzò un dito deformato dall'artrite. « Ne sei certo? Se la medicina può scacciare la malattia, non potrebbe esserci un farmaco definitivo che scaccia la morte? E che dire dell'altra formula... alchemica? »

« Andiamo, Riccardi. » Castelli gli sorrise con indulgenza. Il Vecchio Riccardi proseguì imperturbato. « Il mio gioielliere

afferma che il bronzo deriva da una formula. Il fatto che non conosciamo la formula per ottenere l'oro non significa che non ne esista una. » Il Vecchio Riccardi lasciò errare lo sguardo sulla tavola, con gli occhi smorti che si erano fatti maliziosi e divertili. « Immagina se il doge riuscisse a produrre abbastanza oro da comprare le Cappe Nere e liberarsi di noi. Eh? Eh? »

« Bah. » Landucci buttò il tovagliolo sulla tavola. « Se mai in quel libro c'è qualcosa di prezioso, sono i Vangeli con cui screditare Roma. È probabilmente non sono tutti in un libro solo. Potrebbero esserci molti volumi e di sicuro ne esistono diverse copie. Se riuscissimo a mettere le mani anche su una

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sola copia, potremmo usarla per controllare Borgia. Oppure » le sopracciglia si alzarono di scatto come se avesse appena avuto un'idea brillante, « ne potremmo far riprodurre molte copie in una delle nuove stamperie. Potremmo farle leggere ad alta voce a ogni angolo di strada. »

« Una rivolta popolare contro Roma? » La voce del Vecchio Riccardi era calma e tranquilla. « Che altro, Maffeo? »

Landucci si strinse nelle spalle. « Potremmo indebolire Borgia e prenderci i Territori Pontifici. Allora la Francia cercherebbe un'alleanza con noi invece che con Roma. Potremmo spodestare Roma e fare di Venezia un impero. »

« Saresti tu l'imperatore, Maffeo? » domandò il Vecchio Riccardi.

« Perché no? » Il Vecchio Riccardi rigirò nel piatto l'ultima fetta di melone. «

Se Borgia trova quei Vangeli, li distruggerà. » « Ecco perché dobbiamo trovarli prima noi. » Landucci si

sporse. « Voglio raddoppiare la ricompensa offerta dal doge. » « Sì » assentì il Vecchio Riccardi. « Si può fare. Il doge, però,

potrebbe triplicare la sua. Quando finirà? » Fu allora che mi accorsi di Castelli, impegnato a

giocherellare con la barba a testa bassa, come se sul piatto di alabastro si stesse svolgendo uno spettacolo appassionante.

Il Vecchio Riccardi disse: « Sputa il rospo, Maffeo. Che altro vuoi? »

A Landucci lampeggiarono gli occhi come fossero d'argento vivo. « L'informazione è stata protetta per molto tempo e devono essere in tanti a saperne qualcosa. Propongo di mandare le Cappe Nere a visitare tutti i monasteri di Venezia e del Veneto e portarci gli amanuensi. Propongo che si rechino anche nelle università e nelle biblioteche. Che ci portino gli storici, i biblisti, i librai, i traduttori, i cartai, i calligrafi, gli illustratori, i bibliotecari, gli antiquari, i rilegatori, gli incisori, gli stampatori... Castelli, ti viene in mente qualcos'altro? »

« No. » Castelli proseguì nello studio dell'alabastro. Il Vecchio Riccardi si accarezzò la barba bianca. « Che cosa

faremo con tutte queste persone, non appena saranno in mano nostra? »

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« Le interrogheremo, ovviamente. » « E t'aspetti che parlino senza colpo ferire di volumi che da

secoli vengono protetti con tanta cura? » Landucci si mise a torcere la sciarpa di seta alle due

estremità. « È probabile che serva loro un incentivo. » Dal collo gli stava risalendo la vampata color prugna.

Il Vecchio Riccardi sorrise. « La ricompensa? » Landucci si alzò e cominciò a camminare lentamente intorno

alla tavola. Reggeva un capo della sciarpa con ciascuna mano e la torceva camminando. « Offriremo senz'altro una ricompensa. Ma entrambi sappiamo bene che una campagna, se vuole avere successo, deve persuadere chi è meno incline a farsi dominare dall'avidità » disse. La vena sulla tempia riprese a pulsare.

«Ah. Dunque parli della tortura e dell'omicidio. » Il Vecchio Riccardi ciondolava il capo in segno d'assenso. « La tortura e l'omicidio delle nostre menti migliori. Li ammazzeresti tutti, Maffeo? A che cosa ci porterebbe? Ti domando ancora, quando finirà? »

« Quando avrò modo di esercitare il potere su Borgia. » Castelli cercò di intervenire. « Riccardi, sii ragionevole.

Dobbiamo battere Borgia sul tempo, se vogliamo che Venezia smetta di essere alla mercé di Roma. »

Landucci aveva fatto il giro della tavola e ora si trovava proprio alle spalle del vecchio. « Il potere non è fatto per chi ha troppi scrupoli, Riccardi. »

«Perché stasera mi hai invitato qui, Maffeo? Sapevi che non avrei mai dato il mio consenso. »

« Per rispetto, signor Riccardi. Per concederti la possibilità di darlo. »

« Capisco. » Il Vecchio Riccardi guardò Castelli, che a quel punto aveva intrapreso lo studio della posateria. «Tutti gli altri lo hanno già dato, dunque? »

« Temo di sì. » Castelli mormorò: « Ti prego, Riccardi ». « No. » Quando Landucci fece scivolare la seta grigia attorno al collo

di Riccardi, il vecchio chiuse gli occhi, ma li spalancò nel momento in cui la seta fu serrata con uno strattone.

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Nell'attorcigliarla con violenza, per poi stringerla, Landucci storse la bocca. Al Vecchio Riccardi sporsero gli occhi, si aprì la bocca, il corpo diede una sgroppata, poi un'altra, e infine, grazie a Dio, si accasciò. Landucci abbassò delicatamente la fronte del vecchio sull'ultima fetta di melone.

Fece scivolare la sciarpa di seta da sotto il corpo dell'uomo e sospirò. « Peccato » disse, « il Vecchio Riccardi ha avuto un colpo di calore. Ma ha vissuto una lunga vita. Era giunto il suo momento, eh?» Non essendo pervenuta alcuna risposta, guardò Castelli e parlò più lentamente. « Ho detto, era giunto il suo momento, eh, Castelli? »

Castelli si staccò dalla contemplazione degli oggetti sulla tavola. « Sì » confermò, « era giunto il suo momento. »

Landucci tornò al suo posto e tracannò il vino senza prendersi e la briga di sedersi. « Per sostituire Riccardi, farò eleggere in Consiglio un senatore più disposto a collaborare. Rispetteremo il periodo di lutto secondo le convenienze e offriremo il posto vacante in senato insieme al doppio della ricompensa promessa dal doge. Frattanto, invieremo le Cappe Nere come previsto. »

Landucci fece venire i valletti e, non appena questi aprirono le porte, Castelli si alzò e se ne andò senza una parola. Landucci si rivolse ai valletti che erano rimasti a fissare le forme flaccide del Vecchio Riccardi con la guancia appoggiata sul melone. Disse: « Il signor Riccardi ha avuto un colpo di calore, che riposi in pace. Rimuovete il corpo e informate il doge ». Si infilò la sciarpa nella veste macchiata di vino e uscì.

A volte i ricordi ci imbrogliano e so di non aver udito per davvero lo scalpiccio degli zoccoli caprini quando Landucci uscì. Se fossi un sognatore, o un poeta, descriverei il battito di una coda pelosa, l'odore di zolfo e l'accenno di un corno sotto il cappello. Eppure Landucci, un assassino a sangue freddo, amava davvero suo figlio. Quando Castelli aveva accennato alla morte del bambino, il viso di Landucci aveva espresso i segni evidenti del dolore di un padre. L'assassino provava sentimenti d'amore. Allora mi domandai come fosse possibile che in uno stesso cuore trovassero posto l'amore di Dio e la malvagità di Satana. Adesso penso che Dio e Satana non

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c'entrino affatto. Dopo che i valletti ebbero portato via il Vecchio Riccardi,

aiutai le cameriere a sgombrare la tavola e ascoltai la festa che impazzava per strada. I miei cari compatrioti, così pieni di vita — i miei compaesani, con i loro amichevoli pidocchi, i denti scuri, e l'onesta terra nera sotto le unghie-, in quel momento mi parvero persone serie e decorose.

Invece di precipitarmi in mezzo a loro, corsi in cucina per raccontare al capocuoco l'omicidio del Vecchio Riccardi. Con mia grande delusione, scoprii che se n'era già andato e che Pellegrino avrebbe tenuto le redini della cucina per tutta la settimana della Sensa.

Non ero dell'umore giusto per festeggiare e mi ritirai nella camerata dei domestici, dove non feci altro che pensare e ripensare agli avvenimenti della sera. Erano tante le domande che mi venivano in mente su ciò che avevo udito. E a proposito dei Vangeli segreti con cui screditare Roma, bè, avevo già sentito quella parola — Vangelo — ma non avevo idea del suo significato.

12

Il libro degli scritti proibiti

Patii per tutta la settimana della Sensa, logorato da giorni

caotici e notti inquiete, disturbato dalla baraonda delle strade, dalla musica dissonante, da grida ebbre, risate sgraziate e urla improvvise. Mi rigirai sul giaciglio in un sonno incompleto, torturato da sogni popolati di donne trafitte da forchette e uomini strangolati. Per fortuna sul lavoro non si presentarono impegni inusuali; per tutto il tempo in cui il doge e gli altri aristocratici restarono segregati a causa della Sensa, isolati dalla frenesia delle strade, in tranquilla attesa che l'allegria seguisse il suo corso, il palazzo rimase quieto. Pellegrino mandò avanti la cucina senza problemi e io assolsi i miei doveri nello stordimento causato dalla mancanza di sonno.

Il mattino dell'ottavo giorno, la città era devastata dai festeggiamenti e io scesi barcollando in cucina, sfinito, come sempre mi accadeva dopo ogni celebrazione della Sensa. Mi

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ardevano le budella e, a causa dell'insonnia, avevo una sensazione di sabbia negli occhi. Mi sentivo solo, in compagnia dell'orrore di cui ero stato testimone, e mi struggevo per il desiderio di confidarmi con qualcuno. Quando il capocuoco arrivò e si sedette alla scrivania, lo raggiunsi incespicando e sbottai: « Landucci ha ucciso il Vecchio Riccardi e sta cercando il libro ».

Il capocuoco si raddrizzò la berretta e mi guardò a lungo, serrando la mascella, che poi rilassò. « Lo so. Lo sanno tutti » disse.

« Oh... io pensavo che... » « Pellegrino » chiamò, « portami un grappolo e dell'uva passa.

» Pellegrino portò la frutta e il capocuoco disse: «Andiamo a fare una passeggiata, Luciano ».

« Una passeggiata? » «Andiamo. » Abbandonò l'alto cappello sulla scrivania,

intascò l'uva passa e si avviò a grandi passi nel retro della cucina facendo ondeggiare il grappolo. Lo seguii ubbidiente.

Attraversammo il cortile e ci immettemmo nella città sconvolta. Il capocuoco si schermò gli occhi e scrutò in basso un canale lustro nella luce del mattino, poi, spostando lo sguardo verso l'alto, osservò una voluta gotica che si innalzava nel cielo ceruleo. Si infilò un chicco d'uva in bocca e disse: « Bella giornata, eh? »

« Sì, Maestro. » « Un po' d'uva? » Ne staccò un piccolo graspo e me lo porse. « Grazie. » Prendemmo la direzione per Rialto, ci incamminammo sui

ponti di pietra e lungo le calli lastricate e disseminate dei resti della Sensa. Gli spazzini spingevano nei canali i vetri rotti, i festoni e il cibo marcescente. L'acqua inghiottì l'immondizia e l'aggiunse alla melma in decomposizione che le tempeste invernali avrebbero spinto in mare. Venezia sembrava capace di digerire quantità illimitate di putredine.

Il capocuoco si fermò di fronte a una chiesetta e indicò una vetrata istoriata. « Quel vetro lo fanno proprio qui a Venezia. »

Non capivo a che gioco stessimo giocando. Feci un cenno d'assenso.

« Sai come si fabbrica il vetro, Luciano? »

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Avevo visto i soffiatori veneziani con i lunghi tubi premuti sulle labbra. Gonfiavano una bolla duttile di vetro fuso che pendeva all'altra estremità, tremolante e malleabile, la staccavano e, prima che raffreddasse, le davano la forma di una ciotola o di un vaso. Non conoscevo né i procedimenti né le tecniche che adottavano. Risposi: « Non tanto ».

« Il vetro è composto da due parti di cenere di legno e una parte di sabbia, scaldate al punto di fusione. » Sorrise. « Combina la sabbia, il fuoco e l'ingegnosità umana e otterrai questo. » Con un gesto indicò la magnifica finestra che fiammeggiava al sole del mattino come un deposito segreto di pietre preziose. « Incredibile, eh? »

« Sì, Maestro. » Il capocuoco additò i santi di vetro vestiti di abiti zaffiro e

ametista. « Aggiungi il cobalto e avrai il blu, il manganese per il porpora e il rame per il rosso. »

« Sì. » Ero disorientato. Gesticolò verso la finestra. « Santi e vergini; non permettono

altro. Quanto talento sprecato. » Abbassò la voce. « In Francia ci sono delle pitture in un'antica caverna, sbalorditive. Con qualche pennellata e un po' di colore, mostrano la bellezza e il terrore della natura... le linee sono così fluide che t'aspetti debbano muoversi da un momento all'altro. Quelle pitture segnano la nascita dell'arte, ma sono in pochissimi a conoscerle... » Si guardò intorno e si schiarì la voce. « Basta. È un discorso che faremo un'altra volta. » Continuò a camminare, spostando di lato con un calcio una bottiglia di vino vuota qui, un fico mezzo mangiato là, e io mi affrettai a seguirlo. « Dunque, la sabbia diventa vetro, aggiungi un minerale e si colora. Diresti che è alchimia? » Mi offrì altra uva.

La presi pensando: Ahhh, ecco che cos'è. « È l'alchimia il segreto contenuto nel libro? »

« Vorresti che lo fosse? » «Cosa? No. Voglio dire... non m'importa.» Mangiai un chicco

d'uva e rammentai che il Vecchio Riccardi aveva parlato di una formula con cui fare il bronzo e si era chiesto: « Perché non l'oro? » Domandai: « L'alchimia è possibile? »

« Molti uomini d'ingegno si dilettano di alchimia. » « Intendete dire... »

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« Che cosa sai del libro, Luciano? » Il capocuoco si fermò e mi si pose di fronte.

Mi grattai il collo per guadagnare tempo mentre il cervello ronzava in cerca della risposta giusta. Avrei voluto chiedere: E tu cosa ne sai?, invece dissi: « Il doge e Landucci lo vogliono per ragioni diverse, ma sembra che nessuno sappia esattamente cosa contiene. Ho sentito parlare di alchimia e di un elisir per ottenere l'immortalità... »

Il capocuoco rovesciò la testa all'indietro e rise così di cuore che gli vidi la forma a ferro di cavallo dell'arcata superiore. « Un elisir. Sono completamente fuori strada. Che altro? »

Tenni un tono di voce incolore. « Un filtro d'amore? » « Bah. » Merda! Stava mentendo. Imposi alla mia faccia di assumere

un'espressione neutra. « Maestro, io credo che alcuni conoscano davvero i filtri d'amore. E a me, per esempio, ne servirebbe uno. »

Alzò un sopracciglio. « Davvero? » La neutralità della mia espressione si dissolse e la mia voce

assunse un tono incalzante. «Vi ho parlato di Francesca. È in convento e ho fatto la figura dell'imbecille davanti a lei. Adesso mi serve un miracolo per conquistarla. »

« Dio, Luciano. È una suora. Non essere sciocco. » Sentii una pressione dietro gli occhi e sbattei rapidamente le

ciglia. «Vi prego, Maestro. Non mettetemi in ridicolo. Io ho sete e lei è come l'acqua salata. Più la vedo e più la voglio. Soffro per lei. È la luce della mia vita. »

Il capocuoco aspirò tra i denti e prese in considerazione le mie parole. « Mi dispiace che tu soffra, ma ti sbagli. La luce della tua vita è dentro di te.»

« Cosa? » « Basta. » Mi fissò con severità. « Il libro. Che altro hai sentito

dire? » Decisi di ripetere le parole a cui Landucci aveva attribuito

tanta importanza. « Ho sentito parlare di Vangeli segreti. » « Benissimo. » Annuì. « Che cosa hai saputo? » « Niente. Soltanto che Landucci vuole usarli contro Roma. » « E lo chiameresti niente? » Il capocuoco si passò una mano

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tra i capelli. « Sei ammattito? » « Maestro, che cos'è un Vangelo? » La bocca gli si aprì leggermente. « Ma certo. Cosa puoi

saperne tu dei Vangeli? » Trasalii per il risalto, sia pure accennato, che aveva dato a

quel « tu ». Cosa puoi saperne tu? Chiunque al mondo sa cosa sono i Vangeli, ma non Luciano, lo stupido. Sporsi il mento per dimostrare la mia indignazione, ma il capocuoco non ci badò.

Disse: « Ti parlerò dei Vangeli, ma non devi andare in giro a ripetere quello che ti dico. Potresti metterti seriamente nei guai. Posso fidarmi della tua discrezione? »

« Sì. » La circospezione era da tempo il mio stile di vita. « Sono bravo a tenere i segreti. »

« D'accordo. Una volta mi hai domandato perché fossi interessato agli scritti degli autori defunti. Col tempo, ti insegnerò a leggere e comincerai a capire. Per il momento, ti dirò soltanto che alcuni di quegli scritti sono Vangeli: racconti della vita di Gesù. Naturalmente sai chi era Gesù. »

« Sì, Maestro. Lo sanno tutti che Gesù è Dio. » « Bah. Gesù insegnava. » Non ero versato in teologia, ma suonava come

un'affermazione eretica. « Non è Dio? »

Il capocuoco sospirò. « Parlano di trino e uno oppure di uno e trino, dipende da chi lo chiedi. » Alzò gli occhi al cielo. « Che fandonia. Dio avrebbe fatto torturare e uccidere il proprio figlio, che non sarebbe altri che lui stesso, allo scopo di perdonare peccati non ancora commessi. Non ha senso. Se un Dio compassionevole desiderava perdonare, perché non ha perdonato e basta? Te lo dico io perché: non è abbastanza teatrale. Niente sangue, niente pathos, è noioso. Ma l'idea del sacrificio umano per emendare il peccato è presa a prestito dal paganesimo. È primitiva e commovente. E da sempre una delle storie migliori. »

Mi erano state scaricate addosso troppe informazioni e troppo in fretta. Dissi: « Non la capisco questa faccenda dell'uno e trino».

« È naturale che tu non la capisca. Non la capisce nessuno. La Chiesa sostiene che accontentarsi di non capire è una virtù. Le

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domande sono una seccatura. » Mi grattai la testa. « Luciano. Fà attenzione. » Il capocuoco spiccò un acino dal

grappolo e lo sollevò. « Questo è un chicco d'uva. Liscio all'esterno, succoso all'interno. »

« Sì. » Con l'altra mano, estrasse un'uvetta passa dalla tasca e

l'accostò all'acino. « Un'uvetta passa, eh? Secca e raggrinzita. » « Sì. » « Come la sabbia si trasforma in vetro, così un acino si

raggrinzisce e diventa uva passa. » « Sì. Una specie di magia. » « No. » Il capocuoco mi diede uno sguardo di avvertimento. « È

un processo naturale. Prendi una manciata di sabbia, un acino o un Vangelo, aggiungi o elimina qualcosa, sottoponilo all'usura del tempo o all'intervento umano, e il cambiamento sarà inevitabile. » Mangiò l'acino e il chicco d'uva passa e parve compiaciuto di sé.

Domandai: « I Vangeli sono stati cambiati? » « Sì. » Il capocuoco si tolse un frammento di uvetta dai denti. «

La gente si è azzuffata per i Vangeli; li hanno copiati e ricopiati, tradotti e travisati. Madre di Dio, non mi stupirei se li avessero appallottolati e si fossero messi a dare dei calci alla palla per gioco. »

Pensai che tutte quelle manomissioni li avessero resi privi di valore. « Come si fa a sapere in che cosa credere? »

«Appunto! » Il capocuoco alzò con severità un dito e gli occhi gli fiammeggiarono come i santi di vetro. « Analizza sempre le cose in cui credi. I cristiani affermano che Gesù è Dio, come se fosse un'idea originale, ma i pagani hanno disseminato per ogni dove dei per metà umani. » Spostò la mascella come se qualcuno l'avesse colpito. « Personalmente, credo che inventare divinità a propria immagine sia pura arroganza.

« E la faccenda della madre vergine? Ah! Tutti gli dei pagani hanno avuto una madre vergine. E poi, me lo dici tu perché una vergine sarebbe meglio di una madre naturale, come la mia Rosa? » Tirò su col naso. « Come se le donne fossero contaminate dagli uomini. È oltraggioso. Ma Gesù la sapeva

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lunga. Alcune donne erano tra i suoi discepoli più stretti. Dio è dentro ciascuno di noi. »

« Davvero? » Ostrega, se Dio era dentro di me, avevo qualche speranza. Dissi: « L'idea mi piace. Perché deve restare segreta? »

« Il potere. » Il capocuoco Ferrerò mi si mise di fronte. «Adesso arriviamo al nocciolo della questione. Sediamoci. » Si diresse al canale e liberò il gradino di pietra di un ponte da un ammasso aggrovigliato di festoni. Vi si accomodò e mi fece cenno di sedermi accanto a lui, cosa che feci con una certa inquietudine: aveva un'aria torva e pensosa.

Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e disse: «Voglio raccontarti una storia. Più di mille anni fa, un uomo di nome Ireneo condannò come eretici la maggior parte degli scritti su Gesù, e quei testi diventarono clandestini. Scelse i quattro Vangeli che gli piacevano di più e dedicò la vita a edificare una Chiesa attorno a essi. La chiamò Chiesa cattolica».

« I Vangeli proibiti si sono conservati? » Cominciavo a capire. « Si trovano nel libro? »

«Alcuni si sono conservati, altri sono andati perduti, altri ancora, a quanto riteniamo, sono nascosti e non sono ancora stati scoperti. Li chiamiamo Vangeli gnostici - gnosi vuoi dire 'conoscenza', capito? — e ciò che importa è il messaggio che trasmettono. Dicono che tra noi e Dio non c'è bisogno di una Chiesa. » Il capocuoco mi guardò intensamente negli occhi. « Dio è dentro di te. »

« Dentro di me? » « Dentro di te, dentro di me, dentro tutti noi. Accettati,

Luciano. Sei meglio di quanto credi. » « Ma, se i Vangeli sono stati cambiati, perché dovremmo

credere ai Vangeli gnostici e non agli altri? » « Se hai intenzione di credere a ciò che è stato scritto in un

libro, usa la testa. » Il capocuoco indicò la mia fronte e alzò le sopracciglia. « I Vangeli gnostici, e persino tre dei Vangeli ufficiali, affermano che Gesù, come tutti noi, era un uomo e portava Dio dentro di sé. Gesù voleva che guardassimo dentro di noi per scorgere quella parte. Il suo messaggio non parlava di un regno là fuori, ma dell'illuminazione qui dentro. » Amato Ferrerò si appoggiò il palmo della mano sul petto. « Quel

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messaggio è ripetuto in molti testi, non così la faccenda del figlio di Dio. Allora, se usi il cervello, capirai che è molto più sensato credere in qualcosa che viene ripetuto e convalidato che non nel contrario. »

«Sì, ma... Ireneo è morto.» Il capocuoco mi aveva dato il permesso di pensare con la mia testa e all'improvviso ero pieno di domande. « Allora, se i Vangeli gnostici hanno un senso, perché sono tuttora segreti? »

« Ireneo sarà anche morto, ma la Chiesa no. L'idea che occorrano i preti affinché intercedano per noi conviene a una Chiesa che detiene il potere assoluto. Infatti, gli inizi della Chiesa di Roma furono il risultato di una mossa politica. Quando Costantino, il primo imperatore cristiano, spostò la corte da Roma a Costantinopoli, lasciò un amministratore al suo posto. Quello era il papa. »

« Un amministratore romano? » « Sì. L'imperatore intendeva mantenere il controllo su Roma.

» Il capocuoco strinse la mano a pugno e la serrò con tanta forza che gli tremò il braccio. « Fu un controllo ferreo che portò a secoli di oscurantismo intellettuale in cui gli uomini che osarono pensare liberamente lo fecero a loro rischio e pericolo. La Chiesa farà qualsiasi cosa per mantenere il controllo. Per tenersi stretto il suo potere, ha persino ingaggiato guerre sanguinose sotto le insegne della religione. »

« Ostrega. » «La storia è istruttiva, ma la storia della Chiesa... bè... » Il

capocuoco ebbe un leggero cedimento. « Quando saprai più cose... e succederà, perché io te le insegnerò... cerca di non farti venire il sangue marcio. »

Annuii. « Ci proverò, Maestro. » « Capisci adesso? I Vangeli gnostici hanno un'importanza

politica perché il loro messaggio indebolisce la Chiesa. Uomini pericolosi si interessano a quei Vangeli e tu non dovresti immischiarti in cose che non capisci. Per Landucci e per Borgia è una questione di politica e di potere. Per il doge è una faccenda personale, ma è comunque rischioso intralciarlo. »

« Come fate a sapere tutto questo, Maestro? » Mi fece uno strano sorriso. « Chi insegna ha la responsabilità

di capire bene come stanno le cose. »

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« Chi insegna? » « Ricorda, le Chiese sono un'invenzione umana. » Non potei fare a meno di pensare a tutte le persone

rispettabili che ogni domenica correvano a messa e cadevano in ginocchio. « Ma la gente crede davvero » dissi.

« Sì. La fede cieca permette alle Chiese di manipolare le persone. » Il capocuoco mi afferrò una spalla e la strinse. Sembrava arrabbiato e i suoi occhi mi inchiodarono sul posto. « Non credere mai ciecamente, Luciano. Mai! »

Ero affascinato dalla passione del capocuoco, ma anche un po' spaventato. « Sì, Maestro. »

Lasciò andare la mia spalla e per un po' restammo seduti a guardare il canale. Infine mormorò: «Povero Gesù. Era un buon ebreo e predicò una condotta di vita onesta. Qualcuno dovrebbe provarci un giorno o l'altro ».

« Gesù era ebreo? » Annuì. « Fu un ebreo devoto per tutta la vita. Non aveva

intenzione di creare una nuova religione. Ubbidì alla legge giudaica e predicò solo agli ebrei. Non disse a nessuno di portare il suo messaggio ai greci pagani, ma Paolo fece di testa sua. Fu così che i miti greci si mischiarono alla dottrina cristiana. Che pasticcio. Equivale ad aggiungere la spezia sbagliata a una pentola di minestra. Il sapore cambia, e non sempre in meglio, vero?»

Pensai agli ebrei veneziani che avevo visto a Rialto, persone misteriose in abiti scuri, gente che viveva in disparte, ammassai a nel proprio ghetto isolato e a cui era proibito uscire quando calava il buio: e quelle restrizioni erano state imposte dai cristiani? Mi domandai quali altre idee la storia avesse travisato. « Che altro c'è nel libro? »

«Scienza, arte, filosofia, storia, veterinaria... » Il capocuoco alzò una mano e descrisse dei cerchi in aria come se l'elenco fosse troppo lungo per poterlo enumerare. « Persino qualche ricetta di cucina. »

« Ostrega. Deve essere grosso. » Fece un cenno d'assenso. « Un maestro di nome Socrate disse

che la conoscenza è l'origine del bene, mentre l'ignoranza è l'origine del male. » Sbuffò con tristezza. « Hanno ucciso anche lui. La gente detesta che sia messo in discussione ciò in cui

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crede. Ma, fidati, in questa vita c'è ben altro da sapere che la dottrina della Chiesa. Le potenzialità umane sono... bè... forse

Gesù non fu l'unico capace di compiere miracoli. Magari tutti noi potremmo. »

Sogghignai. «Adesso state scherzando. » Abbozzò uno strano sorriso. « Gli esseri umani dispongono di

potenzialità che non sfruttano. Ma accettano con facilità di essere comandati, perché non si fidano di se stessi. Ecco perché la Chiesa li chiama gregge. Impara a fidarti di te stesso, Luciano. »

Capii per la prima volta che accettare una verità senza esaminarla non era un atto virtuoso e mi venne voglia di porre una domanda che, fino a quel momento, mi era sembrata vagamente blasfema. « Se non dobbiamo pensare, perché Dio ci ha dato il cervello? »

Il capocuoco sorrise. « Benissimo, Luciano. » Si alzò e tolse la polvere dai calzoni. « Sapevo che avresti capito. »

Fu una consolazione vedere il maestro di buon umore. Forse a palazzo la situazione non era così tremenda. Forse gli omicidi e le macchinazioni non erano niente più che le manovre di individui desiderosi di conservare il potere. Forse il vero potere risiedeva nella conoscenza occulta del capocuoco.

Sentendosi rassicurata, la mia pancia vuota ebbe il sopravvento sull'interesse per la storia; desiderai qualcosa di più sostanzioso di qualche acino d'uva. Ci trovavamo a Rialto e le ruote di formaggio, gli stai di mele e le ceste di pesce acuirono la fame. Sperai che il capocuoco comprasse qualcosa per fare colazione.

Quando si fermò al banco del fornaio tedesco, il mio stomaco fece le fusa. Benché i tedeschi fossero denigrati per le maniere rozze e il cibo unto, quando si trattava del pane erano loro i maestri, e lo erano sempre stati. Per poco non gemetti alla vista delle lucenti pagnotte di segale imbevute di miele, di una treccia di pane all'uovo cosparsa di mandorle tostate e di un filoncino alla santoreggia con la crosta brunita screziata d'aneto. L'aroma mi fece sgorgare a fiotti la saliva che si accumulò sotto la lingua.

Il capocuoco acquistò un pandolce alla cannella, poi ci recammo al banco del fruttivendolo dove comprò due mele

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rosso sangue. Consumammo la colazione in un campo tranquillo, seduti su una panchina pubblica all'ombra di una chiesa vicina. Prima di spezzare il pane, il capocuoco domandò: « Quanto sai sull'arte di fare il pane, Luciano? »

« Ne so un po'. » Al momento sapevo soltanto che il suo profumo mi stava facendo impazzire.

« Il pane è una delle maggiori prodezze dell'alchimia umana. Farina, acqua, lievito, un pizzico di sale, la tecnica giusta ed ecco il pane. »

« Capisco, Maestro. Se qualcosa viene alterato, diventa qualcos'altro. Lo mangiamo? »

Con mio grande sollievo, spezzò la pagnotta e me ne porse metà. Masticando, osservammo un gruppo di donne anziane vestite di nero che si trascinavano a stento in chiesa per la messa del mattino. Una di loro assestò con malignità un calcio a un ubriaco che era venuto meno all'entrata della chiesa, vittima della Sensa. « Ubriacone » disse lanciandogli il malocchio e si affrettò a entrare. Il capocuoco commentò: « Non si può sfuggire alla Chiesa. Vive nell'animo delle persone ».

Con la bocca piena e le briciole di pane sulle labbra, per educazione feci un cenno d'assenso. Per quel giorno ne avevo abbastanza di sentire discorsi sulla Chiesa; ero molto più interessato al fatto che tra il capocuoco e me si fosse creato un nuovo legame basato sulla fiducia. « Grazie per avermi confidato l'esistenza di quei Vangeli. Mi sento privilegiato, Maestro » dissi.

« E che cosa hai imparato? » « Che i Vangeli sono importanti e che vale la pena

conservarli. » « E? » « Che ho Dio dentro di me? » « Bene. » Il capocuoco diede un morso al suo pane e masticò

pensieroso. Quando inghiottì, il pomo d'Adamo gli andò su e giù. « Ciò che ti ho detto è oggetto di controversie e parlarne potrebbe essere pericoloso. Perciò, tieni la bocca chiusa, eh? » disse infine.

« Sì, Maestro. » « Puoi rifiutarti di saperne di più, se vuoi. » Io che mi rifiutavo di saperne di più? Poco probabile. Con

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circospezione, domandai: « Maestro, l'avete voi il libro? » Storse la bocca come se gli avessi posto un difficile problema

filosofico. « Non è così semplice. » « Non lo è? » Staccò con un morso un boccone di pane e masticò

lentamente. « Diciamo che condivido certe informazioni con altre

persone. » « Potreste essere in pericolo. » « Dipende. » « Da cosa? » « Forse da te. » « Bene. Allora non c'è nessun pericolo. Non vi tradirei mai. » « È la mia speranza. » Mi mise una mano sulla spalla e

strinse. « Tu sei la mia speranza, Luciano. » Pensai alle figlie: Elena, il suo orgoglio, le gemelle, il suo

portento, Natalia, la sua gioia. E sarei stato io la sua speranza? Come se fossi il figlio maschio? « Maestro » dissi, « sono onorato. »

« Bene. » Allontanò la mano. « Dovresti esserlo. » Mi offri una delle mele e domandò: « Conosci la storia di Adamo ed Eva? »

« Quella sulle prime persone? » Presi la mela e la strofinai sulla manica.

Il capocuoco annuì. « Racconta che Eva fu creata da una costola di Adamo. »

« Che strana idea. » Non mi venne in mente una sola donna, tra quelle che conoscevo, che l'avrebbe apprezzata. Addentai la mela con uno scrocchio.

Il capocuoco diede un morso alla sua e la tenne davanti a sé per valutarne la polpa bianca. Disse: « La storia di Adamo ed Eva non dovrebbe essere presa alla lettera ».

« No? » Sgranocchiai felice. « No. » Il capocuoco mi guardò mangiare e disse: « Quel

racconto è una parabola, come le storie di Gesù ». Mangiai la mela pensando: Ostrega, il capocuoco sì che sa

scegliere. « Le costole sono qui, sopra il cuore. » Mi diede dei colpetti

leggeri sulla sinistra del petto. « Alcuni dei miei scritti

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affermano che la nascita di Eva dalla regione cardiaca di Adamo è una metafora del risveglio spirituale. E che il risveglio spirituale segna l'inizio dell'umanità. »

« È una storia più bella. » Ormai ero al torsolo e, per via dell'abitudine contratta da tempo, cominciai a mangiarlo.

« Sì, è una storia più bella. Ma una persona può scegliere di accettare o no la propria spiritualità. Infatti, c'è anche una storia che parla di un albero da frutto, l'albero della conoscenza. »

Annuii inghiottendo tutto il torsolo, semi compresi. «Adamo scelse di non mangiare da quell'albero, ma Eva, il

suo lato spirituale, lo convinse ad assaggiare il frutto della conoscenza. Capisci? La conoscenza, Luciano: è così che risvegliarono la pienezza della loro umanità. » Mi guardò mentre ripulivo la bocca dal succo di mela con il dorso della mano e aggiunse: « Il frutto che mangiarono era una mela ».

« Una mela? » La mia mano si fermò davanti alla bocca. In grembo avevo le briciole del pane, ma della mela non restava nulla. Sentivo il suo peso sullo stomaco e stava già diventando parte di me. Se mai mi ero chiesto quanto la fame di sapere mi legasse al capocuoco, in quel momento ebbi la risposta. Avevo mangiato tutta la mela e non avevo modo di tornare sui miei passi.

Quella notte, mentre tutti dormivano, sgattaiolai in cucina per tentare ancora una volta di preparare un piatto con cui far colpo sul mio maestro; volevo sapesse che la sua fiducia in me non era mal riposta. Accesi il forno, rammentando a me stesso che in un dolce non c'è posto per l'aglio e che il burro diventa uno strato di olio galleggiante in cima al formaggio. Mi sentivo ottimista ed eccitato; questa volta avrei fatto le cose come si deve.

Presi il brie (tuttora persuaso che come base sarebbe stato delizioso) , vi aggiunsi una cucchiaiata di miele per addolcirlo e il quantitativo di panna densa sufficiente a renderlo liquido e montarlo. Dal giorno della mia ultima impresa avevo notato che il vino si usa principalmente nelle salse e negli stufati e, in un momento di cieca ispirazione, aggiunsi, invece, una spruzzata di liquore all'amaretto che, speravo, gli avrebbe dato un sapore penetrante senza cambiare il colore burroso del

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formaggio. Al posto delle uvette, che avevano preso l'aspetto degli scarafaggi, gettai una manciata di mandorle tritate che, nella mia immaginazione, avrebbero procurato al piatto una consistenza croccante e si sarebbero accordate al liquore.

Sbattei il tutto ottenendo una pastella uniforme e la versai in una teglia, con il proposito di tagliarne fette rettangolari non appena il composto si fosse raffreddato. Speranzoso, feci scivolare la teglia nel forno. Vidi che anche questa volta sui bordi si creavano delle bolle e osservai soddisfatto che, al posto dell'insopportabile odore d'aglio, nell'aria si diffondeva un vago aroma di mandorle. Le bolle si trasformarono in una schiuma che danzò sulla superficie. L'interpretai come un segno di coesione dell'impasto. Una volta sfornata, la mia creazione sarebbe stata una crema soda con un sottofondo di mandorle e un'insolita consistenza croccante. Le porzioni rettangolari avrebbero costituito una presentazione inconsueta: né formaggio, né budino, né crema pasticcera, ma qualcosa di completamente nuovo ed eccezionale.

La schiuma gorgogliante decrebbe in una superficie delicatamente irregolare e, mi accorsi con orrore, la maledetta butteratura ricomparve con l'olio che colava nei minuscoli crateri. Le mandorle completarono la frantumazione della struttura cremosa e diedero al tutto l'aspetto di un coagulo rudimentale.

Malgrado l'apparenza, l'aroma e la fragranza promettevano bene. Se soltanto quel miscuglio ibrido fosse rimasto unito, si sarebbe potuto tagliare a quadretti e servire su un piatto con qualche guarnizione attraente, magari fragole e foglie di menta per dargli un po' di colore. Tirai fuori la teglia e la fissai mentre si raffreddava, desiderando in tutti i modi che la crema stesse su, che si rimettesse in sesto, che fosse salda. Non appena la teglia si fu raffreddata al punto da poterla toccare, immersi il cucchiaio nel composto e lo sollevai gocciolante e rivestito da qualcosa che aveva la consistenza del siero. Il sapore non era male, infatti ripulii il cucchiaio leccandolo e provai piacere per il modo in cui il dolce e l'amaro delle mandorle si equilibravano, ma non potevo presentare quel piatto al capocuoco. Era una sorta di zuppa dolce che sapeva di formaggio, in cui qualcuno avesse per errore lasciato cadere

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delle mandorle. Perché il formaggio si scomponeva? Perché non si era rappreso come un dolce o una crema pasticcera?

Scoraggiato, non tentai nemmeno di suscitare l'interesse di Bernardo per il mio recente disastro. Lo gettai nel secchio dell'immondizia, ma mi accorsi che il miele, attaccatosi al fondo della teglia, mi avrebbe costretto a grattare e sfregare con una spazzola dura, e andai a letto arrabbiato. Questa volta, il mio piatto prometteva bene. Aveva un buon sapore; c'ero andato vicino. Dovevo trovare il modo di riuscire a farlo rapprendere.

13

Il libro di Marco

Il mattino del giorno dopo spuntò fresco e limpido e il

capocuoco decise di mandarmi a Rialto a comprare pere e gorgonzola. Si trattava di un esame culinario e io ero pronto. Mi ero recato diverse volte a fare la spesa con lui e mi aveva insegnato a giudicare le pere dall'aroma, dal colore e al tatto. Bisognava comprarle nel momento della perfetta maturazione, prive di chiazze verdi e di ammaccature. Dovevano essere sode, ma non dure, e avere un buon profumo, pronte per essere mangiate il giorno stesso, ma troppo mature l'indomani. Il formaggio doveva essere dolce, non piccante, perché sarebbe stato servito insieme alle pere come dessert. Il grado di maturazione del gorgonzola è più clemente rispetto a quello delle pere. Già screziato da una muffa acre, il gorgonzola dura parecchio, ma i formaggi ammuffiti hanno anch'essi un limite. Ai tempi in cui vivevo per strada scovai un gorgonzola pieno di vermi che spuntavano dalle sue friabili grotte azzurre.

Il capocuoco Ferrerò mi consegnò una manciata di spiccioli con cui comprare due dozzine di pere e due chili di formaggio. Fu una dimostrazione di fiducia nella mia onestà e nelle mie capacità di scegliere con avvedutezza e di negoziare. Lasciai cadere le monetine nella tasca, afferrai un cesto della spesa e saltellai per tutta la lunghezza della cucina. Accanto alla porta sul retro prelevai un finocchio per Domingo e attraversai in fretta il cortile. Ero ansioso di arrivare a Rialto e dare

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un'occhiata alla mia bella Francesca. Rialto è sempre stato il grande mercato di Venezia, il suo

cuore commerciale pulsante. I moli del Canal Grande sono perennemente affollati di navi e le banchine gremite di facchini. Amavo stare a guardare l'animazione delle compravendite — di spezie e di oro, di olio e di smeraldi, di tigri e di legno di cedro; il ronzio costante delle contrattazioni e dei baratti, la molteplicità delle lingue, il movimento delle mani e dei piedi con cui le persone comunicavano tra loro.

E i colori! La maggior parte delle persone che gremiva Rialto era straniera, o analfabeta come me, e gli artigiani appendevano insegne multicolori dal linguaggio pittorico: un grappolo di acini color porpora per il vinaio, bottiglie verdi per il farmacista, un unicorno dorato per l'orafo, il disegno a brevi pennellate di una testa di giumenta per il sellaio... il mercato sembrava un libro illustrato che avesse preso vita.

Oltre alle botteghe degli artigiani, il grande mercato di Rialto si suddivideva in un labirinto di vicoletti in cui erano allineati i banchi delle derrate alimentari. Nel rione dei beccai, la macellazione avveniva sul posto e il sangue si seccava al sole tra mucchi di interiora che brulicavano di mosche iridescenti. Era la zona che mi piaceva di meno. Provavo una leggera nausea nel sentir muggire gli animali spaventati e vedere i macellai con le mani e gli abiti insozzati di sangue. Talvolta avevano addirittura i capelli arruffati dai grumi scuri del sangue rappreso. Puah. Mi faceva quasi passare la voglia di mangiar carne. Quasi. Il mio maestro la trasformava in creazioni appetitose che non avevano alcuna somiglianza con gli animali destinati al macello.

Gli altri banchi erano più allegri. Vicino al porto, i venditori di pesce sorvegliavano i tavoli su cui erano ammucchiati le cozze nere e il pesce argenteo della Bretagna che luccicava tra il ghiaccio. In dicembre venivano trasportati dalle Alpi grandi blocchi di ghiaccio imballati nella paglia, che si immagazzinavano sotto terra nelle ghiacciaie dalle spesse mura, dove era facile conservarli per un anno o più. Il pescivendolo di Domingo non era mai spilorcio con il ghiaccio e per questo il suo pescato rimaneva fresco e gli procurava alcuni tra i clienti più facoltosi di Venezia, quali il capocuoco

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del doge. Mentre correvo davanti ai pesciaioli, Domingo mi salutò e mi

diede una voce: « Ehi, Luciano. Ciao, eh? » Toccò il pescivendolo con il gomito: « Quello è Luciano, il mio amico ».

Quel giorno avevo troppa fretta per fermarmi. Gli gettai il finocchio e gridai: « Mangialo con la trota ».

Dal pollivendolo le oche schiamazzavano e starnazzavano e rifeci loro il verso agitando le braccia e starnazzando a mia volta. Le zampe di pollo (eccellenti per la zuppa) erano appese a mazzi e le anatre con le gambe legate emettevano grida rauche nelle gabbie di ramoscelli. Talvolta vi gettavo dentro briciole di pane stantio. Al venditore faceva piacere: più grasse le anatre, più grassi i profitti.

Persino gli angusti canali attorno a Rialto pullulavano di botteghe galleggianti: su una piccola chiatta era accatastata alla rinfusa l'uva bianca, su una barca vi erano cumuli di arance e limette e un'altra imbarcazione sbandava sotto una montagna di meloni. Le oltrepassai trotterellando, ubriacato da tutti i colori e gli odori del mondo conosciuto: piramidi di arance sanguigne dalla Grecia, fagiolini sottili dal Marocco, ciliegie maturate al sole dalla Provenza, cavoli bianchi giganti dalla Germania, datteri neri e polposi da Costantinopoli e lucenti melanzane purpuree dall'Olanda. Percorsi in fretta il labirinto alimentare, la mia vecchia casa, e ricacciai indietro la voglia di pizzicare qualcosa non appena un venditore avesse voltato la schiena. Non avevo più bisogno di rubare il cibo, ma le abitudini legate alla sopravvivenza sono dure a morire.

Passai davanti a un banco che offriva pere raccolte quel mattino sulla terraferma; erano ancora calde di sole, le loro foglie vive e carnose. Presi nota del posto per tornarvi dopo aver visto Francesca.

Un noto venditore di formaggi stazionava nel suo banco dietro un barile di caciotte. Apostrofava i passanti: « Venite, signori. Sentite che profumo, il mio parmigiano; è stagionato alla perfezione. Guardate che bellissimo manchego, appena arrivato dalla Spagna. Assaggiatelo. Ve ne innamorerete». Ma la grande ruota di gorgonzola dolce soverchiava qualsiasi altro odore. Sarei tornato a prenderlo dopo aver comprato le pere.

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Prima, però, avrei trovato Francesca. A quell'ora del mattino l'avevo vista spesso nella via delle

olive e presi una scorciatoia che passava per la buia strada fumosa degli scrivani. Gli scrivani, che offrivano i loro servigi agli analfabeti, erano uomini anziani dall'aria solenne che sedevano su sedie dallo schienale dritto con la tavola scrittoio appoggiata sui braccioli. Molti avevano la barba lunga e il volto incorniciato da riccioli fanciulleschi. Certi portavano uno zucchetto sulla nuca, alcuni si erano legati alla fronte il filatterio e pochi altri indossavano scialli sfrangiati e avevano un amuleto al collo. Ma a me sembrava che si somigliassero tutti. Gli scrivani erano ebrei. Essendo loro proibita la proprietà, si erano dati al commercio, al prestito e agli studi. Tra gli scrivani c'erano alcuni degli uomini più dotti di Venezia.

Avevano disposto davanti a sé gli attrezzi del mestiere: il rasoio per ripulire la pergamena grezza, la pietra pomice per levigarla, un lungo righello stretto e un dente di cinghiale per lucidare il prodotto finito. Su ciascuna tavola scrittoio vi erano le corna di bue con i diversi inchiostri colorati in cui immergevano le penne d'oca adeguatamente invecchiate, e tutti gli scrivani tenevano ai piedi un bacile di carboni ardenti per asciugare l'inchiostro. Erano quei bracieri a rendere l'aria densa e fumosa e a costringermi a trattenere il fiato quando correvo a zigzag attorno ai loro isolotti di cultura.

Ai tempi in cui vivevo per strada, mi avvicinavo di rado agli scrivani. Mi servivo della loro via come scorciatoia o come nascondiglio. L'aria fuligginosa mi grattava la gola e non c'era niente da rubare se non, di tanto in tanto, un frammento di foglia d'oro che, se maneggiato con cura, poteva essere scambiato con un pezzo di pane, ma che, assai più spesso, finiva per disintegrarsi nel mio pugno sudato. Avevo percorso quasi tutta la strada degli scrivani, quando una figura mi corse incontro a tutta velocità. La sagoma e l'andatura avevano qualcosa di familiare, poi riconobbi i capelli rossi: Marco. Aveva rubato qualcosa e correva in cerca di un riparo, come avevamo fatto tante volte insieme. Ci vedemmo nello stesso momento e istintivamente mi infilai di corsa al suo fianco in un vicolo cieco che pullulava di immondizie e di ratti.

Ci accovacciammo accanto a un cumulo di spazzatura e

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Marco mi squadrò ansimando. Emise un sordo sibilo di disprezzo. « Ogni volta che ti vedo sei sempre più rammollito. » Estrasse una carota dalla camicia sporca e, divorandola, mi ignorò. Il collo era segnato da anelli di sudiciume, le ciocche rossastre e unte gli stavano ritte in testa e sul braccio aveva una ferita aperta in suppurazione. Gli occhi erano cerchiati di rosso e stillavano una sostanza appiccicosa. Vederlo così mi fece sentire in colpa e provai una certa vergogna per i miei abiti puliti.

Quel mattino, con l'idea di vedere Francesca, avevo preso soltanto un finocchio per Domingo, sapendo che sarei passato davanti al suo banco. Non avevo previsto di imbattermi in Marco. Appoggiai la schiena e, a mò di protezione, lasciai cadere una mano sulla tasca appesantita dagli spiccioli del capocuoco. Una mosca mi ronzò in faccia, ma non la schiacciai per paura che il movimento repentino facesse tintinnare le monetine mettendo Marco sull'avviso. Gli avanzi erano perfetti, ma il denaro lo sarebbe stato molto di più.

Marco finì di mangiare la carota e frugò nel cumulo di rifiuti. Domandò: « Mi hai portato da mangiare? »

« Mi dispiace, oggi non ho niente, ma stasera ti metto fuori qualcosa. »

Dall'immondizia tirò fuori il fondo di una pagnotta, tolse il rivestimento di terra e muffa con un gesto della mano e lo addentò, ma era troppo duro. « Merda. » Gettò contro il muro il tozzo di pane che, nel colpire i mattoni, emise un suono sordo come quello che avrebbe prodotto un sasso. Marco si voltò verso di me e si rianimò. « Ehi, ieri sera mi è sembrato di vedere Rufina. C'era una ragazza, più o meno dell'età giusta, con i capelli rossi come i miei, davanti al bordello dove lavorava mia madre. È entrata con un marinaio, prima che potessi parlarle. Ci torno stasera. » Si tirò su i calzoni sformati. « Perché non sei in cucina? » Prese in considerazione il cesto della spesa, poi: « Stai andando a Rialto, non è così? Vai a fare la spesa per il capocuoco. Hai dei soldi? »

Mi uscì una breve risata incredula simile a un latrato e sperai che un pizzico di verità rendesse credibile la storia. Acquattati l'uno vicino all'altro com'eravamo, aveva il viso

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accanto al mio, e mi costrinsi ad assumere un'aria annoiata. « Soldi? Ti sembro il re di Spagna? Sto andando nella via delle olive a cercare Francesca. »

« Non ti credo. A cosa serve il cesto? » «A far finta di fare la spesa. Non posso starle intorno,

guardarla e basta. » « Una suora. » Scosse la testa. « Perdi tempo. » « Che ne sai? » Balzai in piedi e con disprezzo feci schioccare

il pollice contro gli incisivi. Udii troppo tardi il suono metallico delle monete che avevo in tasca.

Marco la fissò. « Hai dei soldi. » « Devo comprare le pere per il capocuoco. » Arretrai di un

passo. Sporse il mento in direzione del palazzo. « Stai diventando

come loro. » « I soldi non posso darteli, Marco. » Ostrega, odiai le parole

che stavo pronunciando. Facevo tre bei pasti al giorno e dormivo ogni notte al caldo e all'asciutto, mentre il povero Marco continuava a non avere niente. Volli offrirgli qualcosa, una cosa qualsiasi, per alleviare il mio senso di colpa e distoglierlo dal denaro. Tornai ad accovacciarmi, mi avvicinai a lui e abbassai la voce. « Senti, i soldi non posso proprio darteli e, mi dispiace, oggi non ho niente da mangiare, ma ti svelerò un segreto. »

Marco si imbronciò. « I segreti non si mangiano. » « So qualcosa del libro. » Marco fece un gesto con la mano imbrattata come per

accantonare l'idea, ma nei suoi occhi lampeggiò un barlume di interesse. «Fammi sapere come si fa ad avere la ricompensa. Non mi interessa altro di quel libro » disse.

« Il libro vale più della ricompensa. Il doge uccide la gente per trovarlo e » feci una pausa d'effetto, « lo vuole Landucci. »

« Landucci? Sta morendo di mal francese anche lui? » « La formula per l'immortalità non esiste, Marco. » « Merda. Quello lo so. Perché Landucci lo vuole? » Non avrei mai ripetuto ciò che mi aveva confidato il

capocuoco, ma in ogni caso Marco non avrebbe provato nessun interesse per i Vangeli. Sapevo cosa voleva sentirsi dire. «Avevi ragione, fratello ne. Il Vecchio Riccardi ha detto che

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forse è possibile fabbricare l'oro. » Mi alzai, mi appoggiai al muro e incrociai le braccia con indifferenza, sperando di aver l'aria dell'uomo esperto del mondo. Io e Marco non avremmo mai messo le mani su quella ricompensa, ma non potendo ingrassargli lo stomaco, avrei potuto almeno alimentare le sue fantasie.

Marco balzò in piedi e si mise a camminare avanti e indietro per il vicolo, prendendo a calci i rifiuti, stringendo e aprendo le mani. « Lo sapevo! L'unica cosa che importa a questo mondo è l'oro. » Mi si mise di fronte e sussultai alla vista dei suoi occhi accesi per l'eccitazione. Disse: « Dobbiamo procurarcelo ».

« Il libro? Noi? » Avrei dovuto aspettarmelo, ma era assurdo. « Marco, non sappiamo nemmeno leggere. »

« Tu vivi a palazzo. Puoi sapere quello che sanno loro. Non appena trovano il libro, lo rubiamo. » Fece il gesto di togliersi la polvere dalle mani. « Facile. »

Ostrega. « Marco, questa è gente pericolosa. Landucci ha mandato le Cappe Nere a cercare il libro. Sono pronte a torturare chiunque, chiunque. E lo vorresti rubare a quella gente? »

« Vale la pena rischiare. » Per poco Marco non vibrava di eccitazione.

« No. Non vale la pena. Senti, non sono sicuro che il libro contenga il segreto dell'alchimia. Il Vecchio Riccardi ha detto soltanto che è possibile. Ma è troppo pericoloso... »

« Egoista! » Marco avvicinò il suo viso al mio e io trattenni il fiato per difendermi dal suo fetore. « Non rischi niente a portarmi gli avanzi. Ma quando si tratta di una cosa importante, quando hai qualcosa da perdere, sei un vigliacco. Me ne sono presi tanti di rischi per addestrarti, per tenerti in vita. »

«Lo so, ma... » « Niente ma. Sei uno di noi, non uno di loro. » Marco spinse di

nuovo il mento verso il palazzo. «Avanti, Luciano. Con te là dentro, abbiamo una possibilità. »

« Ma il capocuoco... » « Merda al capocuoco. Ti fa fare lo schiavo. » « No. »

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« Sei uno sciocco. Non ti promuoverà mai. Perché dovrebbe? Che cosa ti ha insegnato, a lavare i piatti e a portare la legna?

Perché non ti passa di grado? Che cosa tiene in quell'armadietto segreto di cui mi hai parlato? Come l'ha fatta la salsa magica?

È un tipo strano il tuo capocuoco. La gente parla, lo sai. Potrebbe essere uno stregone. »

« Oh, Marco. » «Allora perché tutta quella segretezza? Scommetto che il suo

armadietto ha parecchie cose da raccontare. Scommetto che ci tiene pozioni magiche di tutti i generi. »

« Marco, tu sei pazzo. » Ma aveva toccato qualche nervo scoperto. Per prima cosa, lavavo ancora i piatti e trasportavo ancora la legna. Nell'unica lezione di cucina che mi avevano impartito mi era stato insegnato ad affettare una cipolla. Inutile. Sbrigavo le faccende con cura e puntiglio, ma il capocuoco non aveva neppure accennato a una promozione. I Vangeli erano interessanti, ma non avevano niente a che spartire con me. In secondo luogo, il capocuoco aveva davvero un armadietto segreto e si era rifiutato di spiegare la ricetta della salsa nepente. Terzo, ed era la cosa per me più dolorosa, di cui Marco non sapeva nulla, mi aveva mentito nascondendomi di possedere un filtro d'amore. Quando Marco aveva parlato di pozioni, mi ero ricordato di aver udito la signora Ferrerò versare una bevanda in camera da letto, ridacchiando e facendo la civetta, e mi era tornato in mente quell'odore intenso, penetrante. Pozioni magiche? Per quello teneva l'armadietto chiuso a chiave?

Mi venne un dubbio: il capocuoco cercava di distrarmi parlandomi della lettura e degli scritti segreti per non essere costretto a concedermi una promozione?

Marco abbozzò quel suo sorriso scaltro con i denti scuri e e on un tonfo si lasciò cadere di nuovo a terra. « Credi quello che vuoi sul tuo capocuoco.» Si sdraiò addossato al muro e intrecciò le dita dietro la nuca. « Ma se vuoi tirar fuori quella suora dal convento, ti serve una bella mano. C'è chi dice che nel libro ci sia un filtro d'amore. Lo sappiamo tutti e due che senza un filtro d'amore o un gruzzolo d'oro non ti prenderà mai in considerazione. Scommetto che un cardinale le ha già messo

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gli occhi addosso. » Marco sapeva dove colpire. Riconobbe l'incertezza nel mio sguardo e afferrò al volo

l'occasione. « Potremmo essere ricchi, Luciano. Tu potresti avere Francesca. Potremmo andarcene tutti nel Nuovo Mondo. Dimmi in che modo la nostra felicità danneggerebbe il tuo capocuoco. In che modo? »

Si accorse che ero sempre più confuso e ne approfittò. « Ma così come stanno le cose, con lei in un convento e tu impaurito... » Si strinse nelle spalle.

« Chi l'ha detto che sono impaurito? » « Sei stato tu a dirlo. Non vuoi rischiare. Nemmeno per

Francesca e per il Nuovo Mondo. Sei una grossa delusione, Luciano. Non pensavo che fossi così vigliacco. » Marco si tormentò il braccio malato di scabbia.

D'un tratto gli enigmi sui Vangeli segreti parvero del tutto irrilevanti. Che cosa c'entravo io con le manovre di preti e politici? In che modo la mia felicità avrebbe danneggiato il capocuoco? Perché non aveva accennato a una promozione? Eppure... «Marco, dobbiamo pensarci bene. Tanto per cominciare, non sappiamo leggere. »

Marco assunse il tono di chi vuoi convincere con le blandizie. « Che cosa ti è successo, testa di cavolo? Noi siamo intelligenti. Possiamo imparare a leggere. Possiamo fare tutto quello che ci viene in mente. »

Aveva ragione. Prima non eravamo mai arretrati di fronte a nulla. Forse era vero che stavo diventando un rammollito. Avevo promesso che non avrei mai tradito il capocuoco, ma il filtro d'amore non aveva niente a che vedere con i Vangeli segreti. Non fui tanto sorpreso quando mi scappò di bocca: « Credo che potrei tenere gli occhi aperti ».

« Adesso riconosco il mio fratellino. » Marco sorrise e balzò in piedi. Quando premetti con forza la mano sulla tasca piena di soldi, lui rise di me. « Non ti preoccupare. Perché portar via qualche spicciolo al fratellino che mi aiuterà ad avere la formula per fabbricare l'oro? Và a fare le tue commissioni da schiavo fedele. Ciao, Luciano. » Mi salutò, ed era sparito.

Indugiai nel fetido vicolo mordendomi il labbro inferiore e cercando di capire il senso di quanto era accaduto. Nel

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momento in cui sbucai dalla strada degli scrivani, Marco era scomparso tra le colonne di fumo che si accavallavano l'una sull'altra.

Ero rimasto troppo a lungo in sua compagnia e non avevo più il tempo di andare a cercare Francesca nella via delle olive. Il sole era alto e mi consolai al pensiero che Francesca faceva le compere al mattino e probabilmente era già tornata in convento. Immaginai il suo pizzo chiacchierino, le dita agili che maneggiavano filo e aghi: fortunati quegli aghi! Immersi le mani nelle tasche e, ripercorrendo a ritroso la via che portava ai banchi della frutta e del formaggio, borbottai una sfilza di maledizioni.

Scelsi con cura le pere, esaminandole a una a una con gli occhi e il naso e un tocco delicato. Selezionai soltanto le più grosse e scartai quella con un leggero difetto che il venditore cercava di nascondere nel palmo. Mi congratulai con me stesso per la mia perspicacia sapendo che avrei fatto una buona impressione sul maestro. E a me la cosa importava, perché non ero affatto uno schiavo e avrei ottenuto una promozione.

Mercanteggiai con il venditore di formaggi e lo osservai da vicino mentre tagliava una larga fetta di gorgonzola. Quando la pesò, mi accostai alla bilancia in modo che non mi imbrogliasse. Con fare scontroso, incartò il formaggio e me lo mise nel cesto. Il formaggio era maturo, le pere perfette e nella tasca tintinnava qualche spicciolo.

Dovevo essere contento, invece tornai a palazzo rimuginando sulle parole insidiose di Marco. Uno schiavo? Bah, che ne sapeva lui? Avrei ottenuto la mia promozione e, se nel frattempo avessi imparato qualcosa di alchimia, bene, l'avrei condiviso con lui. Fintanto che non avessi tradito il capocuoco, non ci sarebbero stati problemi. Non sarebbe stato difficile tenere Marco alla larga da lui; non veniva mai in cucina perché invidiava il mio lavoro e lo irritava vedermi lì. Marco voleva sempre che fossi io ad andare da lui. Marco non mi avrebbe mai messo nei guai con il capocuoco. Marco era... era lì?

C'era, era in cortile, proprio accanto alla porta della cucina, con una bella faccia tosta, e aspettava me. Si mise in mezzo dicendo: « Sembra che stasera ci sia un festino ». Si massaggiò il

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ventre cavo; udii i brontolii di quell'unica carota che veniva digerita. « O mangiate così tutte le sere? »

« Smettila. Tò, prendi una pera. » « Una sola? Tu mangi tre volte al giorno. » « Ostrega. Va bene. Prendine due. » Marco tolse due pere rosee dal cesto. « Non dovresti essere qui » dissi. « Perché no? Sei in debito con me. Ti sono avanzati dei

soldi?» Aveva lo sguardo di tutti i ragazzi di strada, un misto di

paura e provocazione che si rovesciava da due occhi infossati, affamati; rammentai la terribile sensazione che si accompagnava a quello sguardo. « Nella tasca» dissi, « sono rimasti degli spiccioli. Prendili e vattene. » Lo sentii frugare tra le monete, sapendo che il capocuoco si sarebbe infuriato. Avrebbe pensato che ero stato così stupido da pagare il prezzo intero.

Marco strinse le monete nel pugno sudicio. « Sapevo di poter contare su di te, Luciano. Non sei così rammollito. Io e te ci impadroniremo del libro. »

«Marco... » « Torno domani. »

14

Il libro dei sospetti Entrai in cucina come un ladro che torni sui suoi passi

intenzionato a mollare il bottino invece di prelevarlo. Rapido e silenzioso, scartai pere e gorgonzola su un tavolo laterale, sperando di portar dentro la legna prima che il capocuoco si accorgesse del mio ritorno. Non appena avesse contato le pere, avrei ostentato lo sguardo innocente di cui ero esperto sostenendo di aver lasciato sul tavolo due dozzine di pere e una manciata di spiccioli. Mi sarei grattato la testa e mi sarei chiesto ad alta voce che cosa mai fosse successo. Forse avrei accennato a Giuseppe facendo l'occhiolino. Come mi voltai per svignarmela, però, mi trovai di fronte il capocuoco Ferrerò.

Aveva la testa piegata con fare scettico e additò le pere con

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l'indice puntato. Il dito vibrò a tempo con il conteggio: « Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque... » Arrivò a ventidue. « Non ti avevo detto di comprare ventiquattro pere, Luciano? So che non sai leggere, ma te l'ho insegnato io a contare. »

« Le altre pere non erano belle, Maestro. Ammaccate. Brutte. »

«A Rialto, dove arrivano montagne di frutta da ogni angolo del mondo, hai trovato solo ventidue pere? »

« Sì, Maestro. » « Mmm. Dov'è il mio resto? » « Non c'è resto, Maestro. » « Capisco. Improvvisamente le pere sono diventate molto

care. » Annuii. « Carissime. » Il capocuoco mi soppesò con sguardo filosofico per quella che

parve un'eternità. Disse: « Là fuori hai degli amici che hanno fame, Luciano? »

« No! Volevo dire... » Sentii affiorare il sudore sotto le braccia. Non potevo mentirgli. Avrei subito il castigo. « Sì, Maestro. Ho degli amici affamati. Ho regalato due pere e i pochi spiccioli rimasti. »

« Non era roba tua. » «Lo so e farò ammenda. Domani ruberò due pere per

rimpiazzare quelle che ho regalato. » « Lascia perdere. » «Ho dovuto. Se aveste visto la sua faccia... avete mai avuto

fame, Maestro? » «A dir la verità, sì, ho avuto fame. Non per molto, ma me lo

ricordo. Va bene. Le pere sono diventate care e siamo stati fortunati a procurarci quelle poche di buona qualità ancora in vendita, eh? » Mi arruffo i capelli e passò la mano sulla mia voglia. « Sei di buon cuore, Luciano. E hai detto la verità. Vale più delle pere. Adesso porta dentro la legna. »

« Cosa? » « Sei sordo? » « Nient'altro? Tutto qui? » « Cosa vuoi? Una medaglia per la tua gentilezza? Mettiti al

lavoro. » Mi allontanai sbalordito. La facilità con cui il capocuoco

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Ferrerò mi aveva perdonato era il riflesso di una mente troppo evoluta perché la mia, sospettosa, addestrata alla vita di strada, potesse comprendere. Nel mio mondo si dava dello sciocco ai tipi come lui, ma io sapevo che non lo era. il fatto è che non ero in grado di apprezzare la portata della sua bontà.

Marco, invece, era facile da capire. Sarebbe stato furioso se avesse mai sospettato che l'avevo imbrogliato, e non gliene sarebbe importato nulla che l'avessi fatto per amore del prossimo. Perché avrebbe dovuto? Nessuno più di lui aveva bisogno della carità degli altri.

La facilità con cui mi identificai con Marco piuttosto che con il capocuoco fece sì che, mentre caricavo un secchio di legna da ardere, le sue parole corrosive avessero effetto su di me. Borbottai tra me e me: « Io non sono uno schiavo ». Ma allora perché non facevo altro che pelare patate e trasportare immondizie? Lavoravo per il capocuoco da quasi tre mesi, la durata consueta di un apprendistato. Avevo imparato a eseguire gli incarichi assegnati con precisione e affidabilità. Perché il capocuoco non aveva accennato a una promozione? Marco aveva ragione anche a proposito della segretezza. Che cosa c'era nell'armadietto e perché era chiuso a chiave e nascosto dietro le padelle di rame?

Ero divorato dall'insinuazione di Marco secondo cui sarei sempre stato uno schiavo e perdevo un po' di fiducia ogni volta che trasportavo un massacrante carico di legna. Accatastai la legna da ardere in mucchi ordinati accanto a ciascun camino, facendo combaciare i tronchi spaccati come in un gioco d'incastro. A lungo andare, il movimento ripetuto acquietò i miei pensieri e colsi il vago sentore di una corrente sotterranea che serpeggiava per la cucina, un mormorio che riempiva gli spazi tra i consueti rumori di una giornata lavorativa come le altre, fiutando l'odore inequivocabile di un pettegolezzo che andava montando, presi la scopa e mi piazzai in modo da ascoltare meglio. Spazzai polvere inesistente vicino ai piedi di Enrico, che fingeva di aiutare Pellegrino a mescolare frumento bollito nel latte. Avrebbe costituito la base di uno sformato, denso e nutriente, composto di latte di mandorle, chiare d'uovo e zafferano. Lo sformato sarebbe stato servito insieme alle bistecche di carne di cervo messe a marinare nel

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Borgogna, un vino dal carattere forte. Non lontano, la canuta Teresa era in ascolto, fingendo di lucidare l'argenteria.

Mescolando, Enrico sussurrò: « Non soltanto le segrete. Lo hanno ammazzato ».

« Sei sicuro? » « Bah. Quello che si contorceva nel sacco non era mica un

gatto. » « L'hai visto? » « L'ha visto Eduardo. Hanno trascinato un grosso sacco

bitorzoluto fuori della cateratta e hanno remato fino al mare aperto. Al ritorno» alzò un sopracciglio, «il sacco non c'era più. »

« Le Cappe Nere? » Dante lo disse quasi in un sussurro. « Quando ci sono di mezzo le Cappe Nere, nessuno vede

niente. Quelli erano gli uomini del doge. » « Sei sicuro che fosse... » « Sì, l'alchimista spagnolo. Tutti ne parlano. Nessuno l'ha

visto e il suo banco è chiuso con un catenaccio. » « Deve aver venduto al doge una pozione che non ha

funzionato. » « Magari un afrodisiaco. » «Al doge? Ah! Persino un alchimista spagnolo ha dei limiti. »

Enrico si avvicinò a Pellegrino. « Ho sentito dire che è per via della pozione che avrebbe dovuto riportare in vita i morti. Te lo ricordi quel contadino? » Fece l'occhiolino.

Non avevo sentito il capocuoco avvicinarsi. Afferrò Enrico per un braccio e lo fece girare con tanta forza che lasciò cadere il cucchiaio, schizzando il latte per tutto il pavimento e sulle proprie scarpe. Aveva uno sguardo duro. « Quando vorrò dei pettegolezzi in cucina, ingaggerò le amichette delle mie figlie. »

Teresa scomparve, Pellegrino asciugò il latte versato con uno straccio ed Enrico alzò i palmi inchinandosi e indietreggiando verso il tavolo infarinato. « Perdonatemi, Maestro. »

Anch'io principiai a chieder scusa al capocuoco, ma questi tagliò corto dicendo: « Torna al lavoro ».

Quel giorno fui lieto di assolvere al compito solitario e silenzioso di sbucciare le patate. Mi misi seduto su uno sgabello di legno a tre gambe con un cesto di polverose patate marrone sulla coscia sinistra e una terrina vuota e pulita sulla destra.

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Togliere la buccia ruvida, estirpare le parti scure e arrivare alla polpa bianca, liscia, ebbe un effetto calmante. Non appena le prime bucce caddero a terra tra le mie gambe, considerai ciascuna di esse un indizio, convincendomi che, quando ne avessi avute a sufficienza, una qualche verità sarebbe emersa, nuda come una patata sbucciata. Quattro bucce per i Vangeli, tre per gli omicidi, due per le formule e le pozioni, una per l'armadietto chiuso a chiave.

Il mucchio delle scorze crebbe compatto tra le mie gambe e le bianche patate si ammonticchiarono come una scultura nella terrina, ma nonostante fissassi più volte un nuovo ordine agli indizi, questi si ostinarono a rimanere separati. Maledette patate. Maledetto Marco. Maledetto il capocuoco e i suoi segreti. L'indignazione montò al ritmo delle bucce sporche delle patate e guardai il capocuoco con diffidenza. Aveva intenzione di promuovermi un giorno o l'altro? Avrebbe condiviso con me il suo filtro d'amore? Tutte le sue chiacchiere sui Vangeli segreti erano soltanto un modo per distrarmi? E che cosa nascondeva nell'armadietto?

Era impegnato a preparare la salsa per il cervo e aveva annunciato che non desiderava essere disturbato. Oltrepassò l'armadio delle spezie di cui si servivano i cuochi e si avvicinò al suo armadietto. Tolse la padella da sauté di rame e aprì lo sportellino di quercia con la chiave d'ottone. Con un gesto rapidissimo e gli stessi modi furtivi dell'ultima volta, prese qualcosa, se lo fece scivolare in tasca e richiuse immediatamente lo stipo.

In quell'istante l'armadietto chiuso incarnò tutte le mie domande sul capocuoco Ferrerò e sul mio futuro nella sua cucina. Mi rimisi a sbucciare: un colpo, due, tre e la bianca patata cominciò a emergere dal suo rivestimento marrone. Mi accorsi che le strisce di cui era composta la buccia pelata combaciavano l'una con l'altra e che tutte insieme concorrevano a ricoprire per intero la patata. Un colpo alla volta e, infine, la vedevi tutta. Però, ostrega, io non vedevo niente.

Marco aveva ragione. Eravamo sempre riusciti a fare quello che ci eravamo proposti e quel giorno maturai il proponimento di trovare le risposte alle mie domande. Marco mi aveva

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insegnato a borseggiare, a rubare dai banchi, ad aprire le serrature con un filo di ferro. La notte che facemmo irruzione nella bottega di un importatore di lana fiorentina per rubare le coperte, disse: « Non c'è neanche bisogno di guardare. Bastano un tocco leggero e un buon orecchio ». Quell'inverno, per la prima volta, dormii per strada al caldo. Ero abituato a fidarmi di Marco, ma aveva insinuato che il capocuoco mi stava ingannando e che, forse, era addirittura uno stregone. Un'affermazione ridicola. O no? L'armadietto era misterioso, ma chi pratica la magia nera conserva occhi di serpente seccati, zampe di corvo, nasi disseccati di uomini impiccati, interiora di ratto legate con i peli e cordoni ombelicali raggrinziti di bambini nati morti. Il capocuoco non avrebbe mai tenuto niente di tanto disgustoso nella sua cucina immacolata. O sì?

La salsa nepente era senz'altro discutibile, così come lo era l'abitudine del capocuoco di parlare di argomenti oscuri che non avevano nulla a che spartire con la sua professione. E, ovviamente, c'era la faccenda spinosa del filtro d'amore. Lo teneva nell'armadietto? Ostrega, e se la pozione fosse sempre stata in cucina, sotto il mio naso?

Bene. Aiutati che Dio t'aiuta. Era tempo che mi occupassi della questione. Diedi una sbirciata alla serratura dell'armadietto e seppi che avrebbe ceduto al mio fil di ferro.

Quella notte mi alzai dal pagliericcio e, scalzo e in punta di

piedi, scesi dalla scala dei domestici con il filo in mano. Dalle finestre della cucina sbrodolava una luce acquosa che proiettava sulle pareti ombre in movimento. Mi avvicinai allo stipo del capocuoco pensando: Solo un'occhiatina.

Ma le ombre che si spostavano nella notte mi innervosirono. Decisi di allenarmi alla missione sbirciando il grande armadio delle spezie. Aprire quell'anta non aveva il sapore di una trasgressione; rimaneva aperta tutto il giorno per i cuochi. Intrufolandomi lì dentro avrei soltanto visto un po' meglio ciò che chiunque altro vedeva ogni giorno. A dire il vero, mi venne in mente che probabilmente avrebbero già dovuto darmi qualche spiegazione sull'armadio delle spezie. Il pensiero

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contribuì a farmi sentire indignato e a fornirmi una giustificazione.

Inserii il filo nella serratura e premetti l'orecchio contro la porta per udire gli scatti attutiti. Quando l'anta, alta e stretta, si aprì, fui assalito da una selva di odori. Prima una miscela dolce di cannella e chiodi di garofano con un sottofondo terroso di origano e timo, poi una zaffata resinosa di rosmarino e la forza impetuosa del basilico. La potente mistura mi stordì e rimasi immobile, lasciando che mi avviluppasse. Rimasi abbacinato anche dal fatto che molte di quelle spezie erano giunte da remote parti del mondo. Si trattava di beni preziosi trasportati per i deserti, le montagne e gli oceani, troppo costosi per qualsiasi cucina, a parte le più ricche.

Strabuzzai gli occhi alla vista di un tozzo vaso rotondo pieno di grani di pepe nero, dal diametro così ampio che per sollevarlo avrei dovuto usare tutte e due le mani, una fortuna in pepe. Una manciata di grani costava quanto la paga settimanale di un uomo comune e avevo udito spesso l'espressione « caro come il pepe». Talvolta i mercanti gonfiavano i profitti mescolandovi pepe falso fabbricato con olio e argilla. Sollevai a forza il coperchio di legno e feci scorrere le dita tra i grani, come un avaro che trovi diletto a tastare il suo oro. Alcuni erano spezzati e l'odore intenso mi fece pizzicare il naso. Quella non era argilla, ma un patrimonio in un barattolo.

Sopra il contenitore del pepe notai una scatola d'argento finemente incisa secondo un disegno di fiori e uccelli. Forzai la serratura che cedette immediatamente, sollevai il coperchio e fissai in preda alla meraviglia una riserva di ducati e monetine di rame che luccicarono nella tenue luce. La scatola d'argento conteneva il denaro contante per le piccole compere. Il capocuoco faceva gli acquisti importanti a credito del doge, ma avevo visto spesso il maggiordomo lasciar andare con noncuranza un borsellino sulla scrivania di Amato Ferrerò. Il capocuoco svuotava sempre il denaro in quella scatola senza neppure contarlo, e non avevo mai supposto che ve ne fosse tanto. Ogni volta che consegnava a me o a Pellegrino le monete con cui uscire a far provviste, centesimi e ducati provenivano da quella scatola. Prelevava il necessario e vi gettava dentro il

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resto senza annotare le somme. E pensare che a me sembrava una fortuna, quando non erano che spiccioli di cui non valeva la pena tener conto.

Prima d'allora non avevo mai toccato un ducato d'oro. Ne presi uno e provai un timore reverenziale nel sentirne il peso sul palmo. Era pesante, liscio e finemente inciso. Tutte le monete erano magnifiche e non soltanto per il loro valore. Era affascinante guardare l'oro e il rame, illuminati dalla pallida luce della luna, brillare come le bucce di cipolla del capocuoco trasmutate in metallo. Per un istante balenò la tentazione... No, rammentai poi a me stesso, il mio intendimento non è rubare. Il capocuoco aveva detto che ero migliore di quanto pensassi, che avevo Dio dentro di me. Risistemai il ducato e chiusi la scatola.

Appagato, mi ritrassi, chiusi di nuovo a chiave l'anta dell'armadio e guardai di traverso la padella da sauté di rame che nascondeva l'armadietto del capocuoco. Ebbi un attimo di esitazione. Curioso com'ero, era strano che fossi così lento a procedere. Feci vagare lo sguardo nella cucina per vedere se avessi dimenticato di sbrigare qualche faccenda. Sbirciai la marmitta per essere certo che sobbollisse alla giusta temperatura, poi presi la scopa in cerca della foglia di lattuga che mi fosse sfuggita, di una lisca di pesce dispersa, di un grano di sale. Mi concentrai sul pavimento... però, non si sa come, nella visione periferica continuavo a vedere la padella da sauté di rame.

Chinatomi per spazzare sotto un tagliere, notai uno scarafaggio che avanzava lentamente tra le scabrosità del pavimento di pietra. Lo sollevai dicendogli: « Mi dispiace, signor Scarafaggio, il capocuoco non vuole insetti nella sua cucina». Lo portai in cortile e lo liberai. Mentre lo guardavo allontanarsi arrancando, mi ricordai di aver sentito raccontare che le streghe calabresi facevano uno stufato di insetti schiacciati da spalmare sulla porta d'ingresso di un nemico. Si diceva che fosse una maledizione potente senza antidoto e che i calabresi ispezionassero sempre la porta prima di entrare in casa.

Pensare all'occulto richiamò alla mia mente le storie che si raccontavano sulle streghe circasse, che preparavano un

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intruglio di purea di lingue di cane, occhi di pesce e intestini di capra, per poi ingerirlo lanciando una maledizione. Disgustoso. Il capocuoco non aveva sicuramente nulla a che fare con empietà tanto oscene. Forse praticava una forma di innocua magia bianca. Forse...

Sbrighiamocela in fretta! Consapevole che le ombre frementi e i miei nervi tesi

stimolavano l'immaginazione, andai in fretta all'armadietto e sganciai svelto la padella da sauté . L'eccitazione me la fece scivolare dalle mani, e la padella cadde sul pavimento di pietra con un clangore squillante. Mi guardai intorno per essere certo che il rumore non avesse messo sull'avviso qualcuno, poi introdussi il filo nella serratura. Il sudore sulle mani lo rese scivoloso all'istante e, imprecando, mi asciugai i palmi sui calzoni di lana. Mi forzai a fare un respiro profondo e mi rimisi all'opera. Tenevo le labbra serrate per la concentrazione. I cilindri si allinearono e, scricchiolando, la porticina si aprì di un dito, quasi per dispetto. Udii qualcuno inspirare rumorosamente e, prima che mi rendessi conto di essere stato io a produrre quel suono, sentii salirmi il panico. Afferrai la maniglia con le dita tremanti.

Allora non conoscevo la storia del vaso di Pandora, né sapevo che la curiosità può scatenare catastrofi e che ci sono porte da non aprire mai. Se pure l'avessi saputo, però, dubito che sarei indietreggiato. Senza tenere in nessun conto la prudenza, con la saggezza di là da venire e la curiosità che mi consumava, aprii lo sportello.

Che sollievo! Tre scaffali pieni di comuni bottiglie e barattoli di vetro, gli stessi che contenevano erbe e spezie nell'armadio dei cuochi. Magnificamente ordinari. C'era anche un paio di sacchetti di stoffa come quelli usati per conservare il sonnifero in polvere e i sali. Tutti gli oggetti erano disposti in file ordinate, ed etichettati con precisione come nel negozio di un qualsiasi speziale. Aprii qualche barattolo e annusai il contenuto: odori di erbe che facevano pensare a una provvista culinaria. Dopo tutto, il gran segreto del capocuoco non era che un innocente armadietto di spezie, un luogo in cui conservare ingredienti troppo rari o costosi perché i cuochi potessero usarli a volontà, nel caso improbabile che sapessero come

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servirsene. I barattoli di vetro verde pieni di erbe seccate fecero

scaturire il ricordo di un ingrediente verdastro che il capocuoco aveva prelevato per preparare la salsa nepente. Aprii una bottiglia e presi nota dell'aroma lussureggiante. Levai una foglia e ne morsi un pezzettino sul margine. Il sapore era inconsueto, ma non sgradevole. Aveva un retrogusto erboso; era senz'altro una pianta aromatica. Tutto ciò che conteneva l'armadietto pareva altrettanto poco eccitante. Niente frammenti di unghie, ciocche di capelli, resti putrefatti, pozioni affumicate dall'odore di caldarroste e niente libri. L'armadietto non serbava altro che i sementai poi a me stesso, il mio intendimento non è rubare. Il capocuoco aveva detto che ero migliore di quanto pensassi, che avevo Dio dentro di me. Risistemai il ducato e chiusi la scatola.

Appagato, mi ritrassi, chiusi di nuovo a chiave l'anta dell'armadio e guardai di traverso la padella da sauté di rame che nascondeva l'armadietto del capocuoco. Ebbi un attimo di esitazione. Curioso com'ero, era strano che fossi così lento a procedere. Feci vagare lo sguardo nella cucina per vedere se avessi dimenticato di sbrigare qualche faccenda. Sbirciai la marmitta per essere certo che sobbollisse alla giusta temperatura, poi presi la scopa in cerca della foglia di lattuga che mi fosse sfuggita, di una lisca di pesce dispersa, di un grano di sale. Mi concentrai sul pavimento... però, non si sa come, nella visione periferica continuavo a vedere la padella da sauté di rame.

Chinatomi per spazzare sotto un tagliere, notai uno scarafaggio che avanzava lentamente tra le scabrosità del pavimento di pietra. Lo sollevai dicendogli: « Mi dispiace, signor Scarafaggio, il capocuoco non vuole insetti nella sua cucina». Lo portai in cortile e lo liberai. Mentre lo guardavo allontanarsi arrancando, mi ricordai di aver sentito raccontare che le streghe calabresi facevano uno stufato di insetti schiacciati da spalmare sulla porta d'ingresso di un nemico. Si diceva che fosse una maledizione potente senza antidoto e che i calabresi ispezionassero sempre la porta prima di entrare in casa.

Pensare all'occulto richiamò alla mia mente le storie che si

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raccontavano sulle streghe circasse, che preparavano un intruglio di purea di lingue di cane, occhi di pesce e intestini di capra, per poi ingerirlo lanciando una maledizione. Disgustoso. Il capocuoco non aveva sicuramente nulla a che fare con empietà tanto oscene. Forse praticava una forma di innocua magia bianca. Forse...

Sbrighiamocela in fretta! Consapevole che le ombre frementi e i miei nervi tesi

stimolavano l'immaginazione, andai in fretta all'armadietto e sganciai svelto la padella da sauté . L'eccitazione me la fece scivolare dalle mani, e la padella cadde sul pavimento di pietra con un clangore squillante. Mi guardai intorno per essere certo che il rumore non avesse messo sull'avviso qualcuno, poi introdussi il filo nella serratura. Il sudore sulle mani lo rese scivoloso all'istante e, imprecando, mi asciugai i palmi sui calzoni di lana. Mi forzai a fare un respiro profondo e mi rimisi all'opera. Tenevo le labbra serrate per la concentrazione. I cilindri si allinearono e, scricchiolando, la porticina si aprì di un dito, quasi per dispetto. Udii qualcuno inspirare rumorosamente e, prima che mi rendessi conto di essere stato io a produrre quel suono, sentii salirmi il panico. Afferrai la maniglia con le dita tremanti.

Allora non conoscevo la storia del vaso di Pandora, né sapevo che la curiosità può scatenare catastrofi e che ci sono porte da non aprire mai. Se pure l'avessi saputo, però, dubito che sarei indietreggiato. Senza tenere in nessun conto la prudenza, con la saggezza di là da venire e la curiosità che mi consumava, aprii lo sportello.

Che sollievo! Tre scaffali pieni di comuni bottiglie e barattoli di vetro, gli stessi che contenevano erbe e spezie nell'armadio dei cuochi. Magnificamente ordinari. C'era anche un paio di sacchetti di stoffa come quelli usati per conservare il sonnifero in polvere e i sali. Tutti gli oggetti erano disposti in file ordinate, ed etichettati con precisione come nel negozio di un qualsiasi speziale. Aprii qualche barattolo e annusai il contenuto: odori di erbe che facevano pensare a una provvista culinaria. Dopo tutto, il gran segreto del capocuoco non era che un innocente armadietto di spezie, un luogo in cui conservare ingredienti troppo rari o costosi perché i cuochi potessero

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usarli a volontà, nel caso improbabile che sapessero come servirsene.

I barattoli di vetro verde pieni di erbe seccate fecero scaturire il ricordo di un ingrediente verdastro che il capocuoco aveva prelevato per preparare la salsa nepente. Aprii una bottiglia e presi nota dell'aroma lussureggiante. Levai una foglia e ne morsi un pezzettino sul margine. Il sapore era inconsueto, ma non sgradevole. Aveva un retrogusto erboso; era senz'altro una pianta aromatica. Tutto ciò che conteneva l'armadietto pareva altrettanto poco eccitante. Niente frammenti di unghie, ciocche di capelli, resti putrefatti, pozioni affumicate dall'odore di caldarroste e niente libri. L'armadietto non serbava altro che i segreti di un grande chef, gli ingredienti della sua reputazione. Lasciai andare un sospiro di sollievo, con la certezza che anch'io avrei imparato a usarli non appena fossi stato pronto, come diceva il maestro.

Accostai lo sportello, ma esitai prima di chiuderlo a chiave. Se quelle erbe e quelle spezie erano cosi rare da dover essere tenute sotto chiave, utilizzabili solo da un maestro, il solo conoscerle forse avrebbe fatto colpo sul capocuoco. Dopo tutto, provava rispetto per la conoscenza. Se avessi imparato i nomi di qualcuna delle sue preziose erbe, forse ne sarebbe rimasto colpito tanto da promuovermi. A ben pensarci, Francesca non avrebbe atteso per sempre.

Immaginai di lasciarmi sfuggire il nome di un'erba insolita durante una conversazione. Il capocuoco avrebbe sorriso dicendo: « Bravo, Luciano. Mi accorgo che fai attenzione quando vai a Rialto ». Forse quell'astuzia avrebbe garantito a me la promozione e chiuso definitivamente la bocca a Marco.

Ovviamente, non ero in grado di leggere le etichette. Studiai le parole e cominciai a vederle come disegni, linee e sinuosità, punti e croci, come se fossero quadretti. Le potevo copiare. Se avessi riprodotto fedelmente linee e forme, avrei potuto farmele leggere da qualcuno.

Andai alla scrivania del capocuoco e presi una penna d'oca e una pergamena, ma lasciai stare la bottiglia dell'inchiostro per paura di versarlo. Seduto nel focolare, con Bernardo acciambellato ai miei piedi, fabbricai dell'inchiostro nero impastando cenere e acqua. Illuminato dal tenue bagliore delle

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braci sotto le marmitte, copiai diligentemente la forma delle lettere di alcune bottiglie e di un sacchetto. Scrissi a tratti irregolari e macchiai il foglio e, quando l'inchiostro grezzo e la mia mano pesante smussarono la penna d'oca, mi interruppi per affilarne la punta con un coltello per la pelatura delle patate. A un certo punto sbavai sulla pergamena perché, senza accorgermene, avevo lavorato tenendo fuori la lingua da un angolo della bocca. Asciugai con la manica, ma la saliva aveva imbrattato due intere parole, quasi mezz'ora di fatica. Poco importava. Come aveva detto Marco, ero in grado di fare tutto quello che mi proponevo. Affilai la penna d'oca e tornai al lavoro.

Che per scrivere fosse necessaria una tale sgobbata mi sorprese e provai un moto di gratitudine al pensiero di essere rimasto analfabeta. Il risultato dei miei sforzi, però, era notevole. « Guarda, Bernardo » dissi. Sollevai la pergamena per ammirare il prodotto finito: una lista maldestra, confusa, di parole scarabocchiate in modo primitivo. La mia opera.

Rimisi la penna e le bottiglie dove le avevo trovate e chiusi l'armadietto. Poi salii furtivo le scale che conducevano alla camerata dei domestici e occultai le parole rubate sotto il cuscino. In attesa di dormire, riflettei sulle mosse successive e mi resi conto di non conoscere nessuno che sapesse leggere quelle parole al posto mio. Scivolando nel sonno, ebbi una visione semicosciente della graziosa scatola d'argento e della sua provvista segreta di ducati e centesimi. Poco prima di addormentarmi, mi dissi che il denaro non apparteneva al capocuoco, ma al doge, che era solo un fondo per le piccole spese e nessuno avrebbe sentito la mancanza della modesta somma che avrei corrisposto per le prestazioni di uno scrivano.

15

Il libro delle erbe

Il mattino dopo scesi in cucina di buonora, con il filo di ferro

in mano. Aprii l'armadio delle spezie e, prima di sbrigare le faccende mattutine, presi un solo ducato dalla scatola

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d'argento. All'arrivo del capocuoco, lo accolsi alla porta. « Buongiorno, Maestro. Bella giornata, eh? Vado al mercato anche oggi? »

« Sì. » Indossò la berretta. « Ci sono andato all'alba, ma le pesche non erano ancora arrivate dall'entroterra. »

« Troverò le pesche migliori di tutta Rialto. » « Cerchi di rimediare alla perdita delle pere, Luciano? » Annuii. « Voglio fare un buon lavoro, Maestro. » E dicevo sul

serio. « Ecco. » Scomparve nell'armadio delle spezie e ne uscì un

attimo dopo con una manciata di spiccioli che lasciò cadere nella tasca della mia giacca. « Portami venti pesche dorate come il tramonto, grosse come un pugno e profumate come il paradiso » disse.

« Sì, Maestro. E posso prendere un'arancia per il mio amico Domingo? » Avevo saputo che le fette d'arancia purificano piacevolmente il palato dopo un pasto a base di pesce. Il capocuoco mi lanciò un'arancia che infilai nell'altra tasca. Riflettei se prendere o no un'arancia per Marco, ma... Mi aveva fatto dubitare del capocuoco. Niente arance per lui.

Salii di soppiatto al piano di sopra per prendere le parole rubate. Passai accanto a Bernardo e gli dissi: «Va tutto benissimo. Ho un piano per far colpo sul capocuoco e tra non molto saremo addetti alle verdure». Avrei comprato le pesche del capocuoco, ma prima ci sarebbe stata una deviazione. Recuperai la pergamena e mi diressi verso la strada degli scrivani.

Passai davanti al banco del pescivendolo e diedi l'arancia a Domingo. Come sempre effuse una gratitudine imbarazzante. Evitai a fatica che mi abbracciasse. All'imbocco della via degli scrivani, tastai il ducato che avevo in tasca e mi chiesi con quale criterio si sceglie un lettore. Alcuni erano più istruiti di altri? Ci si poteva fidare di uno qualsiasi? Avanzai con lentezza e cautela nella strada oscura e studiai i loro volti. Era la prima volta che li guardavo da vicino e li esaminavo singolarmente. Quando vivevo per strada, avevo l'abitudine di passar loro davanti correndo mentre sfuggivo a un bottegaio infuriato.

Certi scrivani sedevano davanti a un banco improvvisato,

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altri si erano limitati a collocare una sedia per strada e ad appoggiare una tavola scrittoio sui braccioli. Non tutti erano vecchi come avevo sempre supposto. Ce n'erano alcuni giovani che dovevano avere qualche anno più di Marco. Il fumo esalato dal carbone dei bracieri tingeva loro di grigio i capelli e la carnagione, e l'atteggiamento meditabondo, la testa china sul lavoro, faceva credere che fossero piegati dagli anni. La posa da eruditi assunta dagli scrivani e l'atmosfera dai suoni attutiti della strada erano contagiose; tutt'intorno a me la gente parlava a sussurri come in una chiesa. Divenni consapevole del suono del mio respiro.

Certe strade di Venezia riescono a giocare scherzi sonori. Quando alcuni edifici alti, sghembi, si inclinano sull'acciottolato di un vicolo curvo, si produce una magia acustica. Il suono penetra solo a ciascun imbocco mentre al centro il vicolo rimane silenzioso, isolato da antichi spettri e strati di storia. Le strade adiacenti risuonavano dei commerci del mondo, ma la via degli scrivani conservava la sua pace; era così quieta che si udiva il fruscio della carta, lo stridio delle penne d'oca e il raschio della pietra pomice sulla pergamena.

Uno degli scrivani sedeva inattivo senza nulla sullo scrittoio. Mi osservò mentre mi avvicinavo e questo lo rese, a sua volta, avvicinabile. Posai l'elenco sconclusionato sulla sua tavola e domandai: «Sapete leggere queste parole e dirmene il significato?»

Mi esaminò alzando e abbassando lo sguardo e alzandolo di nuovo. Anch'io lo valutai. Era anziano; la sua pelle simile alla carta di riso era davvero grigia, e la barba disordinata, bianca e rada. La caligine lattea delle cataratte ricopriva gli occhi un tempo azzurri. Mi chiesi se fosse ancora in grado di vedere e compresi che la vista difettosa doveva essere la ragione della sua inattività. Dai suoi abiti trasudava l'odore muffito della vecchiaia e la mano sinistra, nodosa e attraversata da vene grosse come corde, gli tremava in grembo. La voce era velata e incrinata come uno specchio antico. Replicò: « Puoi pagare? »

Presi il ducato dalla tasca e lo tenni in mano. Avevo notato che gli altri frequentatori della via pagavano in centesimi; ducati d'oro se ne vedevano di rado e la maggior parte degli scrivani era abituata a prenderseli. Gli occhi velati di muco

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luccicarono alla vista dell'oro, ma prima che allungasse una mano per intascarlo, lo tenni stretto e dissi: « Prima leggete».

« Come faccio a sapere che mi pagherai dopo aver letto? » La domanda era sensata. Piazzai il ducato sulla tavola

scrittoio, ma senza togliere la mano dissi: « Lo lascio qui, ma prima di toccarlo, leggete ». Annuì e io alzai la mano. Mi parve di vedergli in faccia un'aria divertita.

Disse: «Vediamo un po' che cos'hai». Il vecchio ebreo portò la testa così vicina allo scrittoio che la barba sfiorò la pergamena. Lesse la prima parola: « Cacao ». Alzò lo sguardo. L'aria divertita, se mai c'era stata, era scomparsa. « E un baccello che hanno trovato nel Nuovo Mondo. Ho sentito dire che se ne ricava un preparato delizioso, talvolta una bevanda. » Si strinse nelle spalle ossute. « In Europa ne esiste soltanto una piccola quantità e la possiede il re di Spagna. » Visto che non replicavo, si curvò sulla pergamena ed esaminò le altre voci dell'elenco. Prese fiato e domandò: « Dove hai trovato queste parole? »

La domanda mi fece sentire con le spalle al muro e, colto dal panico, dissi: « Vi pago per leggere, non per interrogarmi ».

Mi fissò ancora per un attimo, poi lesse la parola successiva: « Caffè. È un chicco e viene dall'Arabia. Ne ricavano una bevanda che da agli uomini un'energia e una capacità di resistenza innaturali». Attese una reazione. Non essendocene stata alcuna, proseguì. « Giusquiamo. Una semplice erba. C'è chi dice che impedisca l'invecchiamento, ma è una frottola. Se ne fa un buon té. » Il dito rintracciò la parola seguente: « Valeriana. Un'altra erba, dall'effetto moderatamente rilassante ».

Piegato su di lui per sbirciare i miei scarabocchi, mi accorsi che l'ultima parola l'avevo copiata dalla bottiglia che ritenevo il capocuoco avesse utilizzato per la salsa nepente. « Moderatamente rilassante? Tutto qui? » sbottai.

Alzò lo sguardo infastidito. « È quello che ho detto, non ti pare? » Un sopracciglio ispido si alzò di sghembo. « Ovviamente, se presa in eccesso... » Dondolò la testa da una parte all'altra.

« Che succede se se ne prende troppa? » « Suppongo che si ripercuota sull'umore o faccia venir sonno.

Come faccio a saperlo? Sono uno scrivano, non un erborista.

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Vuoi che ti legga le parole, sì o no? » Tornò a chinarsi sulla pergamena e il dito tremante indicò le due parole seguenti. « Crisantemo e ginseng. Il primo è un fiore che cresce in Cina e con cui si fa il té. Anche il ginseng proviene dalla Cina, ma non conosco il suo utilizzo specifico. Penso che serva per aromatizzare. » Poi, borbottando: « O forse quello è lo zenzero ».

Rimase così a lungo con la testa incollata alla parola successiva che cominciai a chiedermi se si fosse addormentato. O se fosse morto. « Proseguite. »

Alzò lo sguardo battendo le palpebre e mi accorsi che il tremore della mano si era fatto più pronunciato. Lo incalzai: «Allora, che cos'è? »

Scosse la testa. «Amaranto o amanita. E scritto male e l'inchiostro ha sbavato. »

« Cosa sono? » « Non essere impaziente. » Si accarezzò la barba diradata. «

Queste parole le ho viste nei testi greci. Penso che qui il termine sia amaranto. È un cereale. Nella Grecia antica la foglia di amaranto simboleggiava l'immortalità, ma credo che sia estinto. Di amaranto non ce n'è più da... chissà da quanto. Ah! Che te ne pare? Il simbolo dell'immortalità è scomparso. Ah! »

« Sì, davvero divertente. » Ma non sorridevo. « Magari la parola è amanita, un fungo velenoso. Ma non

saprei dire. La scrittura è spaventosa » osservò l'ebreo. Il suo commento mi infastidì in modo inaspettato. « Non ho

chiesto la vostra opinione sulla scrittura. » « Va bene, va bene. » Fece un gesto irritato. « L'ultima parola,

dunque. Questo è interessante. Gli altri termini si riferiscono a sostanze di uso culinario, ma qui c'è scritto oppio. »

Avevo sentito parlare dell'oppio come di un medicamento per alleviare il dolore. Veniva venduto nelle botteghe degli speziali e il suo costo era proibitivo. Domandai: « Ne siete certo? »

« È quello che ho detto, non ti pare? » Pensai che l'oppio avesse un impiego culinario di cui non ero

al corrente. Domandai: « Che effetto ha? » « È contro il dolore, ma... » Abbozzò un sorriso. « L'oppio fa

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sognare, ragazzo. Quando lo ingerisci, i sogni che fai sono così sublimi che sei spinto a ritirarti in te stesso, e continui a farlo anche contro la tua volontà. » Agitò la mano fremente. « Non fa niente se non lo sai. »

« Ci si può cucinare? » « Cucinare con l'oppio? Questa è un'idea nuova. » Tornò ad

accarezzarsi la barba e sorridendo mise in mostra denti piccoli, consumati, dello stesso colore del formaggio invecchiato. « In fondo, perché no? Ah! Immagino che si possa mescolare un po' d'oppio alla minestra. Stimolerebbe sogni piacevoli anche se venisse ingerito durante un pasto. Minestra d'oppio. Ah!» Prese il ducato d'oro. « Nient'altro? »

« Perché tanta fretta? » Volevo saperne di più sull'oppio. « Non vedo clienti in fila. »

«Marmocchio insolente. » Intascò il ducato e mi sventolò la pergamena sotto il naso. « Ti ho reso il servigio che mi hai chiesto. Adesso vattene. »

Ecco quanto. Si trattava semplicemente di esemplari botanici rari e costosi che si utilizzavano per certi preparati, o per fare il té e il pane. E l'oppio, oltre ad alleviare il dolore, induceva sogni piacevoli. Si poteva mettere nella minestra e... e... avere sogni tanto sublimi da desiderare di consumarne ancora?

D'improvviso capii in che modo il capocuoco utilizzasse l'oppio. Tutti dicevano che la sua minestra di fagioli fosse sublime e quando l'assaggiavano ne volevano sempre un altro piatto. La polvere d'oppio doveva essere il suo ingrediente segreto. La minestra di fagioli faceva parte del menu del giorno: l'interpretai come il segno che Dio era dalla mia parte.

Era perfettamente logico. Il capocuoco manteneva segreti i suoi ingredienti favolosi a garanzia della propria reputazione. L'aveva detto: che valore avrebbe avuto la sua arte se chiunque fosse stato in grado di cucinare bene come lui? Armato delle mie nuove conoscenze, per festeggiare decisi di dare una sbirciata a Francesca. Mi diressi alla strada delle olive.

Come avevo sperato era lì, e aspettava dietro la colossale Madre Superiora, impegnata a far abbassare il prezzo al venditore di olive siciliane. Francesca approfittò dell'occasione

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per « guardare come un allocco », tanto per usare l'espressione della Superiora. Aveva le guance arrossate in modo incantevole e gli occhi si spostavano inquieti sulla folla. Il respiro eccitato le faceva sollevare i piccoli seni sotto l'abito marrone e, a quella vista, anche il mio respiro accelerò.

Francesca aveva l'aspetto inconfondibile della ragazza che si trova in convento per mancanza di altre opportunità. Le ragazze avevano tre scelte: il matrimonio, il convento o la strada. Una ragazza senza dote poteva scordarsi del matrimonio, e così, pur con riluttanza, molte fanciulle si ritrovavano a lavorare per Dio o per il diavolo. Mi accorsi dell'avidità con cui osservava la gente e dell'animazione sul suo volto di fronte alla vivace confusione del mercato, e mi chiesi come facesse a sopportare l'esistenza silenziosa in bianco e nero che si svolgeva dietro le alte mura di pietra del convento. Non ero mai stato in un convento, ma immaginai le notti solitarie trascorse nella cella e i giorni tediosi, passati a salmodiare in ginocchio un rosario ripetitivo o a leggere dal breviario.

Leggere. Il proposito di farmi aiutare a leggere la « lista della spesa »

mi arrivò in testa già bell'e fatto, ma il coraggio vero e proprio di avvicinarla fu più difficile da trovare. Ripiegai sull'antica saggezza di strada che mi aveva insegnato ad agguantare una rapa e scappare. Le mie gambe si diressero verso di lei senza il consenso del cervello. Con mia grande sorpresa, sorrise e disse: « Il ragazzo del melone. Sei venuto a lodare le mie narici? »

Merda, se lo ricordava. « Quel giorno non ero io » dissi. Alzò un sopracciglio. « Pensi di essere il primo ragazzo che

ammutolisce di fronte a me? » «Mmm... » « Non ti preoccupare. È stato tenero da parte tua. » «Ah. Ecco, ho qui... lavoro in una cucina, sapete, e ho la lista

della spesa, ma faccio fatica a leggerla. » Gliela porsi, ma non ricordo se le chiesi espressamente di leggerla. Ricordo soltanto la fragranza del suo alito, simile a una mela verde, la violenta emozione che provai quando i suoi occhi incontrarono i miei e la corrente magnetica che mi attirava verso di lei. Ricordo il

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ventaglio delle ciglia, quando abbassò gli occhi per leggere, e ricordo la semitrasparenza delle unghie, il rosa pallido del letto ungueale e il nitido margine bianco, quando indicò ciascuna parola. E, naturalmente, ricordo il suo profumo seducente. Avvertii un odore di sapone e di forno e, al di sotto, un muschio fiorito, misterioso ed eccitante. Il suo profumo evocò un paesaggio di sogno in cui vi era tutto ciò che desideravo.

Francesca non leggeva bene come lo scrivano. Compitò: « Ca-ca-o » e: « Caffè », mi sorrise e con noncuranza alzò una spalla. « Mi dispiace, non so cosa sono. »

« Va bene. » Mi avvicinai di poco. « Giusquiamo. Serve a fare un té, ma è troppo amaro, se vuoi

che te lo dica. » Lesse con facilità la parola seguente. « Valeriana. » Allora ridacchiò.

« Che cos'ha di divertente la valeriana? » «La valeriana non ha nulla di divertente, ma... » Accennò con

la testa alla Madre Superiora e alzò gli occhi al cielo. « Non capisco. » « La valeriana somiglia a un vino amabile. La Superiora la

sgraffigna tutto il giorno dalla dispensa per quietarsi. La rende smemorata e, a sera, ha dimenticato tutto quello che l'ha contrariata durante la giornata. La valeriana è cara, ma nessuno si lamenta della spesa perché rende più sopportabile la vita con la Superiora. »

Il crisantemo e il ginseng si dimostrarono difficili da pronunciare, il che mi permise di avvicinarmi e reggere un margine della pergamena come se anch'io cercassi di decifrare le parole. Mossi la mano in modo che le nostre dita si toccassero e, con mia grande sorpresa, lei non si allontanò. Per un istante mi illusi che provasse piacere al tatto, ma quando la sbirciai con la coda dell'occhio, vidi che non se n'era neppure accorta. Per la concentrazione aveva strizzato gli occhi. Lesse ad alta voce: « Amaranto » poi: « No, non può essere. Forse è amanita. Mmm... » Si picchiettò il mento con un dito.

« Cosa c'è che non va? » « Penso che ci sia un errore. L'amaranto è un cereale, ma ho

sentito dire che non viene coltivato da, oh, non lo so... da tanto

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tempo. E l'amanita è un fungo velenoso; è impossibile che tu debba comprarlo. »

«Mmm... » Mi picchiettai anch'io il mento con un dito. « Probabilmente è un errore. »

Francesca lesse l'ultima parola e scosse la testa. « Questo è strano. Mi sembra che la parola sia oppio, ma nessuno la scriverebbe sulla lista della spesa di un cuoco. » Si accostò a me, con i magnifici occhi accesi di malizia, e il suo profumo mi fece girare la testa. Sussurrò: « L'hai mai provato? »

Era così vicina, intrigante, inebriante. Mi sentii arrossire. « No. Più o meno. Insomma, ecco, è solo l'ingrediente di una minestra. »

« Una minestra? » Fece un passo indietro e mi considerò con freddezza. « Ti prendi gioco di me? »

« No! Io mai... » Oh, Dio, cosa avevo fatto? La voce della Madre Superiora si fece sentire in mezzo alla

folla. « Quanto, per le olive all'aglio? Siete pazzo? Mi state già derubando con quelle all'olio! » Si voltò verso Francesca strabuzzando gli occhi in modo davvero ridicolo, e gridando: « Roba da non credere, la sfacciataggine di questo ladro! » Arrabbiata com'era, parve che non mi avesse neppure notato.

Non appena la suora si volse, dissi: « La minestra era solo uno scherzo ». Non avevo alcuna intenzione di dilungarmi in spiegazioni sulla capacità del capocuoco di manipolare la gente con il cibo. « Non mi prenderei mai gioco di voi. »

« Mmm. » Dopo un attimo disse: « Sai che sei strano? » «Ecco, io... » « Non importa. » Mi restituì la pergamena. « Mi piacciono le

stranezze. » Diede un'occhiata all'anziana suora alle sue spalle e disse: « La Superiora sostiene che anch'io sono strana, soltanto perché non voglio diventare come lei. Guardala». Francesca fece un gesto in direzione della monaca dal viso rubizzo, impegnata a litigare con il venditore di olive ormai messo alle strette. « Sa strappare i prezzi migliori e dice che dovrei ascoltare e imparare. Ma come faccio a preoccuparmi del prezzo delle olive, quando c'è così tanto da vedere? Basta guardare questa meravigliosa città. Gironzoli di qua e di là da solo? »

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«Sì, direi di sì. » « Deve essere divertente. » Non mi parve opportuno far notare che cercare cibo tra i

rifiuti e dormire negli androni non era stato particolarmente divertente.

« Sei fortunato. » Fece un ampio gesto indicando il mercato e il suo viso divenne euforico. « Guardati intorno. Guarda quel turbante rosso. Hai mai visto un colore così vivace? E guarda là, quel nero che ha intorno al collo una filza di perle azzurre. Non è bellissimo? La Superiora dice che viene da un posto chiamato Africa. Ah, basta il nome... » Chiuse gli occhi e le narici che sembravano due lacrime si allargarono. « Senti l'odore? E l'odore della vita. Mi fa venir voglia di gridare e ballare. Se fossi un ragazzo, troverei lavoro in mare e viaggerei in tutto il mondo. »

Pensai che non avevo mai conosciuto qualcuno meno adatto a prendere i voti. « Perché siete in convento? » domandai.

Francesca si tirò indietro il velo come se fosse una splendida criniera. Il suo gesto denotò una certa freddezza e temetti di averla offesa. « Perché lavori in una cucina? » chiese.

« Scusatemi » dissi, « mi chiedevo soltanto... » « Prendiamo quello che possiamo avere, non ti pare? »

Giocherellò con la corda legata alla vita. « I miei genitori sono morti tanto tempo fa. Sai com'è. Potevo scegliere tra fare la suora e diventare una cortigiana. Una cortigiana di rango ha bisogno di un protettore. Io non conoscevo nessuno che mi facesse da guida e una ragazza sola sulla strada fa una brutta fine. In convento, se non altro, posso prendermi un vescovo, forse addirittura un cardinale. Ehi, cosa c'è che non va? Ti ho chiuso la bocca, eh? »

Proprio in quel momento la voce della Superiora raggiunse un picco altissimo e fui grato di poter rinviare la risposta. Francesca era parsa stranamente disinvolta alla prospettiva di diventare una cortigiana. Stava solo recitando la parte della ragazza esperta del mondo? Il mio tesoro dal visetto fresco non poteva non avere riserve sulla prostituzione. Giusto, no?

La suora corpulenta strillò: « Come osate levare la camicia a una povera donna? »

Il venditore di olive sembrava sfinito. «Sorella, rivolgetevi

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altrove e vedete un po' se riuscite a trovare un bottegaio più deferente. »

Nel momento in cui la Superiora aveva ripreso un tono più civile, io avevo riacquistato una padronanza di me sufficiente a mettere insieme una risposta: «Avete fatto la scelta giusta».

Si strinse nelle spalle. « Vedremo. » Ebbi la certezza che stesse fingendo più indifferenza di

quanta ne provasse in realtà. Pesando le parole, dissi: « E se incontraste un uomo che chiedesse la vostra mano senza pretendere la dote? Lascereste il convento per sposarlo? »

« Dov'è un uomo che valga prendere per marito disposto a sposarmi senza dote? Non voglio diventare una pescivendola. » Rise. « Lo sai che sei proprio strano? A proposito, per chi stai facendo la spesa? Sei un apprendista? »

« Un apprendista. Questa si che è buona. » Era la giornata delle esagerazioni, dunque gonfiai il petto e dichiarai: « Sono un cuoco addetto alle verdure nella cucina del doge ». Dal momento che avevo riacquistato fiducia nel capocuoco, non mi parve del tutto una bugia, quanto una verità prematura.

« Come lavoro non deve essere male. » « È un bellissimo lavoro. Diventerò uno chef. » Esaltato dalla

posizione che da solo mi ero attribuito, mi avvicinai e allungai un mignolo fino a sfiorarle la mano. Lei agganciò il suo mignolo al mio e un calore delizioso salì lungo la mia mano per invadermi il corpo. Le stavo accanto, legato a lei dalla punta di un dito e paralizzato dall'amore. Abbassai lo sguardo per il desiderio di vedere le nostre dita intrecciate e notai la balza di pizzo che usciva dalla manica. « Le suore tengono sempre un fazzoletto di pizzo nella manica? » domandai.

« Oh, parli di quello? » Estrasse il pizzo e me lo porse perché lo ammirassi. « L'ho fatto io. » Il sole filtrò nel lavoro traforato e proiettò un'ombra chiazzata sul suo viso. « Mi piace il pizzo chiacchierino. Almeno ho qualcosa da fare nella mia cella, e adoro le cose belle. » Contemplò il merletto diafano e il suo volto si aprì in un sorriso sognante. « Ho imparato la tecnica da una belga, sorella Ninette. È morta l'anno scorso, ma mi ha lasciato i suoi fuselli e il convento mi compra il filo di seta fine perché i miei lavori spuntano prezzi esorbitanti tra le signore facoltose. Proprio il mese scorso ho terminato una mantiglia

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per una signora della corte spagnola. » Si erse con un certo orgoglio e tese l'intreccio. « Questo è il mio ultimo lavoro. Vedi? Libellule. » Guardai da vicino e vidi il profilo di una fragile ala dalle venature sottilissime.

« E bellissimo. » « Grazie. » Lo ammirò ancora per un istante e se lo infilò di

nuovo nella manica. « Impazzisco senza i miei merletti. » La Superiora concluse la contrattazione con un ultimo sbuffo

disgustato e, mentre il bottegaio incartava la mercé salmastra, tornò a lanciare un'occhiata alle sue spalle nella nostra direzione. Ero ebbro del tocco di Francesca, frastornato dal suo profumo e incoraggiato dalla sua buona disposizione nei miei confronti. Lo strillo della Superiora - « Sporcaccione! » - mi lacerò. Si rivoltò contro di me come un derviscio impazzito, friggendo con il viso rubizzo, tra un turbinio di vesti e uno sbatacchiare di grani del rosario. « Come osi toccarla? » Mi spinse di lato con una mano paffuta, afferrò le olive e tirò via Francesca dicendo: «. Passerà un bel po' di tempo prima che ti riporti al mercato ». Mentre l'anziana donna trascinava il mio amore tra la folla, Francesca si guardò alle spalle e ammiccò verso di me.

Comprai le pesche in uno stato di stordimento. Tutto il mondo sembrava dorato come il tramonto e profumava come il paradiso; faticai a distinguere una pesca dall'altra, ma mi concentrai a forza e scelsi bene. Francesca pensava che fossi già un addetto alle verdure e non potevo commettere un errore che ritardasse la mia promozione. Attraversai Rialto vittima del suo incantesimo e l'orgia di colori e rumori non mi toccò. Ero in una bolla di malia. Nulla si intromise nel mio stato di estasi fino a che non arrivai al cortile della cucina.

Marco era lì, come aveva promesso, appoggiato al muro con le braccia incrociate e l'aria impudente. Posai le pesche ed estrassi dalla tasca la pergamena raggrinzita e imbrattata. La sollevai all'altezza del suo viso. « Guarda. Ieri notte ho aperto l'armadietto privato del capocuoco e ho copiato queste parole dalle bottiglie che vi ho trovato. Oggi me le sono fatte leggere da uno scrivano. Non c'è niente, Marco. Sono soltanto erbe che il capocuoco utilizza per le ricette delle grandi occasioni. Sei contento? » Raccolsi il

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cesto delle pesche. « Più tardi ti lascio qualcosa da mangiare, ma adesso devo tornare al lavoro. » Mentre gli passavo davanti, la sua mano fece un rapido movimento e mi agguantò per un braccio. Dissi: « Toglimi le mani di dosso, testa di rapa».

« Testa di rapa? Oh, perdonatemi, signor testa di cavolo. » Marco indietreggiò con le mani alzate. « Magari io non faccio un bel bagno una volta a settimana come certa gente, ma ti ho insegnato tutto quello che sai. Potresti almeno parlare in modo educato. » La bocca era atteggiata a un ghigno, ma aveva lo sguardo ferito.

« Senti, Marco, non ho voglia di fare le cose di nascosto alle spalle del capocuoco. Sono cambiato. Non sono più un ladro. Diventerò una persona migliore. »

« Bah. Nessuno cambia. » « Eh? » Si sbagliava e volevo che lo sapesse. Volevo sapesse

che c'era del buono in me. « Ieri notte avrei potuto rubare un sacco di soldi e non l'ho fatto. Nell'armadio delle spezie c'è una scatola d'argento piena di centesimi e ducati. È il denaro per le piccole spese e non viene neppure contato, ma non ho preso niente. Ecco, un ducato per lo scrivano, ma niente per me. Il capocuoco mi farà diventare un addetto alle verdure. Guadagnerò denaro onestamente. Vedrai. »

« Bah. » Marco trascinò un tacco sul selciato. « Un addetto alle verdure. » Fece il broncio e si grattò il ventre cavo. « Non cambia niente, testa di cavolo. Io voglio quel libro. »

« Tò » dissi, « tieni una pesca. » La prese, mantenendo un silenzio astioso. « Promesso: se sento parlare di alchimia, te lo farò sapere. » « Sarà meglio. » Marco si cacciò in tasca la pesca e si

allontanò a passo dinoccolato. In cucina, scartai le pesche, le disposi su un piatto ovale con

la parte rosea rivolta verso l'alto e le presentai al capocuoco. Le ispezionò come un gioielliere quando esamina i diamanti. Ne girò una, l'annusò e sorrise. « Ben fatto » disse, « continua così e presto cucinerai. »

« Grazie, Maestro! » Presto, sì, ma quanto? Decisi fosse meglio far immediatamente colpo su di lui con le mie nuove conoscenze culinarie. Ora che sapevo i nomi di quelle erbe rare, mi sentivo molto vicino alla promozione.

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Presi la scopa e spazzando per la cucina mi avvicinai al capocuoco che stava aggiustando di sale una marmitta della sua sublime minestra di fagioli. Mescolò con costanza, girando e rigirando, finché i fagioli non si sfaldarono addensando la minestra. Quando la mistura raggiunse la giusta consistenza, aggiunse una manciata di spinaci freschi e ricominciò a mescolare. Rimestò fino a ottenere un composto ben miscelato, poi vi sbriciolò salvia secca e una macinata di pepe bianco. Immerse la punta del mignolo nella minestra e si toccò la lingua. Si fece rotolare in bocca l'assaggio e aggrottò le sopracciglia. « Non ci siamo » mormorò.

Feci un passo in avanti come per mettermi al centro della scena e mi schiarii la voce. In quell'attimo d'orgoglio, in cui mi sentivo già tronfio per l'eccitazione di diventare un addetto alle verdure, mi sporsi verso il capocuoco perché nessun altro udisse l'ingrediente segreto e sussurrai: « Forse ci vuole un po' di valeriana».

Il capocuoco si voltò e raddrizzò la berretta. « Che cosa hai detto? »

Stupido! La valeriana era per la salsa. Che errore madornale. Mi guardai intorno per essere sicuro che nessuno fosse in ascolto e dissi: «Volevo dire oppio. Forse nella minestra ci vuole un pizzico d'oppio in più ».

Il viso del capocuoco si contorse in una smorfia di rabbia così intensa che, involontariamente, feci un passo indietro. Domandò: « Dove hai imparato queste parole? »

Non riuscii a pensare abbastanza in fretta. « Me le ha dette Giuseppe, forse? »

« No, non è stato lui. » Mi afferrò per un braccio. « Dimmelo, Luciano. » La cucina precipitò in un silenzio palpabile.

Balbettai. « Non me lo ricordo. » Mi lasciò il braccio e si sistemò di nuovo la berretta. Mi feci

forza. Avanzò di un passo e istintivamente feci un salto indietro portandomi un braccio davanti al viso per difendermi. Aspettai il colpo a occhi serrati, ma non arrivò. Quando aprii un occhio, vidi il capocuoco tastare la chiave d'ottone che portava al collo. Lanciò uno sguardo al suo armadietto privato e disse: « È inaccettabile».

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« Maestro, io... » « Silenzio! » Mi girò intorno con le mani intrecciate dietro la

schiena. Non alzò la voce e non fece minacce, eppure trasudava intimidazione. « Non mangerai per il resto della giornata » disse. Continuò a girarmi intorno e non osai muovermi. « Questa sera serviamo pollo arrosto. In cortile c'è una cassa con venti polli da uccidere, spennare e pulire. Farai tutto da solo. Poi ti metterai a quattro zampe e sfregherai il sudiciume. »

Tutto il personale rimase esterrefatto. In cucina nessuno aveva mai assistito a un accesso d'ira di quella portata. Ci fissarono fino a quando il capocuoco non agitò una mano dicendo: « Tornate al lavoro. Tutti quanti ».

Potevo sopportare una giornata senza mangiare, ma l'idea che fosse il mio maestro, il mio benefattore, il mio salvatore a farmi patire la fame fu un colpo che mi lasciò tramortito. E venti polli da uccidere, spennare, bruciacchiare e pulire? Ostrega, quella era la più ripugnante, la più ignobile di tutte le mansioni. Avrei dovuto davvero torcere il collo agli animali mentre si dibattevano opponendosi alla propria sorte, tagliar loro la testa ed estrarre a manciate le interiora viscide e puzzolenti, per poi appenderli per le zampe a sgocciolare? Al termine del lavoro, sarei stato coperto di sangue rappreso, ne avrei ricavato il viso imbrattato, gli abiti macchiati e le dita piene di coaguli. Poi mi sarebbe toccato bruciacchiare le penne: puah! Il solo pensiero del fetore nauseabondo mi chiuse la gola. Era un lavoro rivoltante, disgustoso, dall'inizio alla fine.

Assai peggiore sarebbe stata l'umiliazione di mettersi carponi a sfregare l'acciottolato. Di solito, per ripulire il sudiciume, il capocuoco chiamava una donna di fatica. La pulizia del selciato, non appena terminata l'operazione immonda, avrebbe aggiunto il danno alla beffa. Le mie parole magiche, oppio e valeriana, mi avevano ulteriormente allontanato dalla promozione. Ero stato retrocesso al ruolo di donna di fatica e il capocuoco era più arrabbiato con me di quanto fosse mai stato.

Uccisi, spennai e pulii il primo pollo e ne appesi per le zampe il corpo decapitato. Il sangue scorse lungo le mie braccia, mi schizzò in viso, mi inzuppò gli abiti e formò delle pozze a terra.

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Il tanfo era nauseante. Avevo già ammazzato i polli, ma quel giorno, la rabbia inaspettata del capocuoco e l'effetto contrario ottenuto dal mio piano ingegnoso mi misero lo stomaco sotto sopra e mi fecero salire in gola la bile. Mi vennero i conati di vomito e corsi a rigettare la colazione nel secchio dell'immondizia. Tornai boccheggiando, mi ripulii la bocca con la mano insanguinata e mi accinsi di nuovo a svolgere l'incombenza ributtante.

Altri diciannove? Soltanto perché avevo pronunciato due parole? Non volevo altro che una promozione e, in nome di Dio, che cosa c'era di sbagliato nel mio desiderio? La rabbia mi gonfiò la gola al punto che dovetti sputare. Digrignai i denti e appesi quei polli spaventosi per le zampe. La massa delle viscere calde pulsava e qualche cuore continuava a battere; d'improvviso odiai la cucina e tutti quelli che l'abitavano. Nello stato di confusione in cui mi trovavo, i ricordi della vita di strada, dell'esistenza elementare trascorsa insieme a Marco e a Domingo, mi assalirono purgati di tutte le privazioni, come se vi fossero stati soltanto spasso e cameratismo. In quel momento di sconcerto, pensai che, dopo tutto, Marco aveva avuto una buona idea. Avrei approfittato del posto che occupavo a palazzo per carpire informazioni sui segreti alchemici o per trovare il modo di pretendere la ricompensa. Come minimo, avrei messo le mani sul filtro d'amore. L'odore repellente delle penne bruciacchiate mi fece tornare i conati di vomito, ma non c'era più nulla da rimettere. « Sono stato uno sciocco » borbottai.

Pulito l'ultimo pollo, selezionate le interiora e sciacquate le parti che sarebbero finite nella marmitta, mi misi a quattro zampe con secchio d'acqua, spugne, stracci e spazzole. Eseguii di malavoglia il lavoro infamante: prima raccogliere il sangue con le spugne, poi cambiare l'acqua, poi lavare il selciato, poi riempire il secchio di acqua pulita e sfregare tra i ciottoli con una spazzola insaponata, poi sciacquare e lavare con lo straccio. Lavorai a testa china, e le mie lacrime gocciolarono nella schiuma.

Sapevo dove dormiva Marco. Sapevo inoltre che mi sarei riconquistato la sua benevolenza e gli avrei strappato un consiglio con una coscia di pollo arrosto, bella e polposa.

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Il libro dei ladri

Bernardo mi guardò ripulire il sangue dei polli. « Sembra che

Marco avesse ragione. Il capocuoco non vuole che impari e se ne pentirà. Troverò il modo di procurarmi quel filtro d'amore. Poi ce ne andremo » commentai. Mi spogliai rimanendo con le sole brache indosso (Marco mi avrebbe canzonato senza pietà se avesse saputo che sotto i calzoni portavo le brache) e pompai acqua fredda per risciacquarmi la testa e le spalle. Mentre lo facevo, provai un rinnovato risentimento per i tanti, inutili, secchi d'acqua che trasportavo ogni giorno - senza lamentele - per soddisfare l'irragionevole mania del capocuoco per l'acqua fresca. Mi sfregai con il sapone alla lisciva fino a scorticarmi e mi sciacquai accuratamente, ma pareva che il fetore del sangue di pollo trasudasse dai pori anche dopo aver indossato gli abiti puliti. L'odore infamante dell'umiliazione era indelebile.

A Marco non avrei parlato dei polli. Non avrei sopportato il suo sguardo trionfante e compiaciuto. Gli avrei detto quel tanto per spiegare il cambiamento del mio stato d'animo e tirargli fuori un consiglio. Paradossalmente, era stato proprio Marco a dirmi che solo gli sciocchi dicono tutta la verità. Sosteneva che le bugie potevano far pendere il piatto della bilancia in un mondo ingiusto e che era nostro diritto crearci qualche vantaggio a compensazione del destino avaro toccatoci in sorte. Secondo lui era giusto che mentissimo.

Quella notte, attesi impaziente che gli altri domestici si addormentassero nella camerata. L'incontro con Marco mi procurava timore e trepidazione al tempo stesso, e per distraimi, fantasticai su Francesca. Abbracciai Bernardo e pensai ai seni di lei simili a mele verdi, alla sensazione setosa della punta delle sue dita, al modo in cui quegli occhi straordinari divoravano il flusso della vita che si svolgeva al mercato. Carezzai Bernardo dicendo: «So che potrei farla felice». Bernardo fece le fusa. « Odia il convento; lo vede anche un cieco. Se avessi quel filtro d'amore, fuggirebbe con me e

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saremmo felici. » Bernardo si accoccolò meglio contro il mio petto. « Io voglio solo il filtro d'amore. Può tenerseli i suoi libri antichi. Anche se mi ha tradito, io non lo tradirò. » Sentii gli occhi riempirsi di lacrime e questo mi fece infuriare. « Gliela farò vedere. Io non lo tradirò. Me ne andrò da qui e non dirò una parola di quei libri. Mai. Saprà di aver perso una brava persona e ne sarà dispiaciuto. » Mi tremarono le labbra, ma non piansi.

Quando la luna fece capolino dall'alta finestra, pescai da sotto la coperta la coscia di pollo che avevo rubato e me la infilai nella cinta. Oh, Dio, quell'aroma. Era stata arrostita e dorata alla perfezione, croccante all'esterno e succosa all'interno, con un'incrostazione di sale grosso e timo tritato. Mi fece venire l'acquolina in bocca e il mio stomaco ululò, ma resistetti. Mi serviva il parere di Marco più di quanto avessi bisogno di cenare. Scesi di corsa le scale con le scarpe sotto il braccio e uscii dalla porta sul retro calzando una scarpa alla volta mentre saltellavo sull'altro piede.

Quel giorno Landucci aveva annunciato l'entità della ricompensa che avrebbe concesso in cambio di qualche informazione sul libro e, benché l'ora fosse tarda, se ne parlava ancora. Passai davanti alla gente di strada che, per l'eccitazione, si era assembrata in gruppi. Nelle case modeste, dove gli operai di solito erano già addormentati, ardevano i lumi, e agli angoli delle strade le prostitute si consultavano mentre i potenziali clienti passavano loro accanto. Anche il numero delle gondole nei canali era più elevato del solito; un viavai di gente in cerca di una risposta ad alcune domande scottanti: perché è stato offerto un seggio al senato e una piccola fortuna in cambio di un libro? Quali segreti poteva mai contenere e dove era nascosto? Landucci aveva annunciato che vi erano scritti segreti di Stato che bisognava tenere nascosti a Genova e a Roma, ma nessuno ci aveva creduto neppure per un attimo.

Filai per le vie buie fino alla chiesa di San Domenico. Come avevo sperato, Marco dormiva ancora nella nicchia del portone d'ingresso a due battenti. L'architrave di pietra in stile gotico lo proteggeva dal vento e dalla pioggia e al mattino si trovava già lungo il percorso delle persone pie che la devozione

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rendeva inclini a un atto di carità. Una volta una donna anziana gli aveva regalato una pagnotta intera appena sfornata. In un'altra occasione una ragazza con un neonato in braccio gli aveva riempito la mano di spiccioli e gli aveva baciato la guancia sporca. Era una postazione concupita che Marco aveva difeso più di una volta al prezzo di un naso sanguinante o di un labbro gonfio.

Mi inginocchiai accanto alle coperte ammonticchiate, ed estratta la coscia di pollo dalla cinta, la feci passare sotto il naso del dormiente. Gli occhi erano ancora chiusi, ma la mano schizzò fuori delle coperte come la lingua di una lucertola e mi agguantò il polso. Quando mi riconobbe, si sorresse su un gomito, tirò la coscia verso la bocca e strappò il primo morso quando ancora la tenevo in mano. Masticando me la levò e se la tenne vicina al petto, come un animale che sorveglia la preda.

Trangugiò tutta la carne, rosicchiò fino all'osso e, prima che uno dei due parlasse, staccò con un morso la cartilagine. Quando cominciò a spezzare l'osso con i denti per arrivare al midollo, dissi: « Il capocuoco non ha intenzione di promuovermi ».

« Lo so. » Succhiò il midollo e leccò l'osso dall'interno. «Avevi ragione. In quella cucina succedono cose bizzarre.

Possiede ricette ambigue che cambiano l'umore delle persone. » Marco si pulì le labbra unte con il lato esterno del polso. « La

salsa? » « Sì. La salsa nepente, e una minestra di fagioli bianchi che ti

fa mangiare come un maiale. La gente non ne ha mai abbastanza e credo che l'ingrediente segreto sia l'oppio. Ma avresti dovuto vedere la faccia del capocuoco quando ho pronunciato quel nome. Ostrega, quanto s'è arrabbiato. »

« Oppio? Interessante. » Marco tirò fuori una scheggia d'osso per ripulirsi i denti. «Allora, cosa vuoi da me? »

« Ho cercato di imparare qualcosa per conto mio e... » Guardai in basso e borbottai: « Non gli è andato a genio ».

« Te l'avevo detto! » Marco puntò verso di me la scheggia d'osso.

« Nessuno ti aiuta senza volere niente in cambio. A lui serve solo uno schiavo. » Marco fece a pezzi l'osso denudato e lo

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succhiò per estrarne ogni minima traccia di sapore. Mi strinsi le ginocchia al petto. « Ho pronunciato i nomi di un

paio di ingredienti segreti ed è diventato matto. Pazzo! » « Non vuole che tu sappia le cose importanti. Ma va bene. Se

usa la magia e le droghe, possiamo ricattarlo, e farci dire quello che sa sul libro. »

« E sul filtro d'amore. » Marco depose i resti sgretolati dell'osso. Commentò: « Il filtro

d'amore. Certo. Ci impadroniremo anche del tuo filtro d'amore».

« Hai sentito parlare del seggio al senato? » « Tutti ne hanno sentito parlare. » Marco sbuffò. « Il segreto

del libro è la formula per fabbricare l'oro. Per forza. » Decisi di affrontare l'altro argomento che mi tormentava.

« Nell'armadietto c'era qualcosa che si chiama amaranto, ma lo scrivano ha detto che non si coltiva più. Non credo di aver copiato male. Come fa il capocuoco ad avere un cereale che non si coltiva più? »

« Bella domanda. » Marco si grattò pigramente la testa infestata dai parassiti. « Devi rubare un po' di quella roba dall'armadietto » disse.

« Rubare dall'armadietto? Non so... » « Solo un pochino. Non se ne accorgeranno nemmeno. E

anche un po' di denaro. » « Non voglio rubare il suo denaro. » « Il denaro non è suo, testa di cavolo, ma del doge. » Fece

spallucce. « Quello che basta per pagare l'abissina. L'hai detto tu che

nessuno si accorgerebbe della mancanza di una moneta o due. Dobbiamo sapere cos'ha il tuo capocuoco se vogliamo decidere su che basi contrattare. »

Ostrega. L'abissina? La cosa si stava facendo complicata. Dopo un attimo, però, acconsentii: « Va bene ».

Il giorno seguente fu un tormento di incertezza e attesa. Sbrigai le faccende a capo chino, lottando contro l'idea di Marco, e il capocuoco scambiò il mio comportamento sottomesso per la prova che avessi tratto una lezione dall'umiliazione del giorno prima. Cercai di intercettare il suo sguardo, sperando nell'abbozzo di un sorriso, in un lieve

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accenno di perdono. La rabbia si era placata e un gesto di gentilezza qualsiasi mi avrebbe fatto abbandonare il piano di Marco. Volevo soltanto avere l'opportunità di parlargli e chiedere perché mi avesse trattato con tanta durezza. Durante tutto quel lungo giorno, invece, il capocuoco si rivolse a me chiamandomi «apprendista» o «ragazzo». Mi mandò a destra e a manca per la cucina con cenni noncuranti e senza incrociare mai il mio sguardo. La sua freddezza mi fece arrabbiare di nuovo. Peggio ancora, mi ferì, e confermò la mia convinzione che Marco avesse visto giusto e che dovessi sbrigarmela da solo.

Dopo che tutti si furono ritirati per la notte, mi trovai di fronte al momento della decisione. Giocherellai con il filo di ferro nella tasca e guardai lo stipetto del capocuoco. Ancora una volta rimandai l'azione, ben sapendo che in questo caso si sarebbe trattato di un furto puro e semplice. Attesi lentamente ai miei obblighi serali con insolita diligenza e il gesto imminente restò sospeso a mezz'aria come l'odore del sangue di pollo. Terminata l'ultima faccenda, rimasi al centro della stanza cercando un altro lavoro da sbrigare, ma la cucina, pulita e ordinata, non aveva bisogno di ulteriori attenzioni.

Tolsi la padella da sauté di rame, l'appoggiai sul pavimento e, trovandomi di fronte l'armadietto, lo fissai. Avrei voluto girarmi e andare a dormire. Aprendo quella porta, avrei imboccato una strada che non comprendeva il capocuoco. Il respiro accelerò e mi trastullai con il fil di ferro. Avvertii una sgradevole palpitazione al petto. Rubando, avrei tradito il capocuoco; la cosa non si poteva chiamare in altro modo. Ma non mi aveva forse fatto capire senza mezzi termini che sarei stato per sempre uno schiavo? Non mi aveva forse costretto a uccidere ed eviscerare venti polli, imponendomi il lavoro di una donna di fatica, soltanto perché conoscevo il nome di due dei suoi ingredienti segreti? Poteva esserci un modo più esplicito per comunicarmi che non aveva nessuna intenzione di promuovermi?

La nota serratura si aprì con facilità. Trassi un respiro profondo e aprii portando allo scoperto i ripiani con le bottiglie e i barattoli ordinatamente allineati. Non appena feci per prendere il primo barattolo, una voce bloccò la mia mano a

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mezz'aria. Alle mie spalle, il capocuoco domandò: « Perché, Luciano? »

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Il libro della crescita Probabilmente l'espressione « colto in flagrante » cominciò a

essere usata quando un assassino fu sorpreso con le mani ancora lorde del sangue della vittima. Comunque, fui sorpreso con le mani e il viso flagranti, e non perché fossero insanguinati, ma perché erano rossi di vergogna e paura.

« Posso spiegare » frignai, senza avere la minima idea di come poterlo fare.

Il capocuoco aveva la voce stanca. « Per favore, non mentire, Luciano. Che cosa stai facendo? Sei ammattito? Perché rovisti tra le cose che non capisci? »

« Io voglio capire. » « Rubando? Ho intenzione di insegnarti qualcosa di

importante e tu ti comporti così? » « Voi non insegnate quello che mi serve. E quando cerco di

imparare per conto mio, mi fate ammazzare i polli. » « Ah, i polli. » « Soltanto perché conosco i nomi di qualche spezia segreta? » « Non sono spezie segrete e non sei stato punito perché sai i

loro nomi. Ti ho inflitto una punizione per il modo in cui sei venuto a saperli. Hai aperto il mio armadietto. Suppongo che tu abbia copiato le parole e te le sia fatte leggere, eh? »

Sapere di essere così trasparente mi rese incerto. « Volevo conoscere le vostre ricette magiche. Pensavo che aveste deciso di non promuovermi. »

« Ricette magiche. » Fece un sorriso triste. « Sai bene che non è vero... »

«Ma... » « Un maestro non ha bisogno della magia. Ciò che sembra

magia è conoscenza. Ricordi la cena in onore di Herr Behaim? Quello era talento, Luciano, non magia. »

La cena me la ricordavo, come no. Ricordavo anche i suoi modi evasivi a proposito della salsa nepente. « Il fatto che il

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cibo abbia potere e voi siate dotato di talento non significa che la magia non esista. »

Il sorriso sparì dal suo volto. « Dio, tu mi metti alla prova. » Mentre chiudeva a chiave l'armadietto, la mia mente si guardò intorno alla ricerca di un posto in cui dormire quella notte. Sperai che Marco mi permettesse di dividere con lui l'androne della chiesa.

« Mi dispiace, Maestro. Me ne devo andare? » « Dio, non lo so. » « Avevo intenzione di migliorarmi, ma ho creduto che aveste

rinunciato a me. » « Io? Sei tu ad aver rinunciato. » « No. Pensavo di dovermi arrangiare da solo. » « È questa la ragione che ti ha spinto a farlo? » « Non lo so. » D'un tratto non lo sapevo. Lo sguardo ferito del

capocuoco fece sembrare la mia azione uno sbaglio madornale, un enorme malinteso. « Non so cosa sto facendo qui. Vi prego, datemi un'altra opportunità. Non darò più retta a Marco!”

« Marco? È stato qualcun altro ad avere l'idea? » « No. » Non avrei messo in mezzo Marco. Ero stato io ad

andarlo a cercare. Raddrizzai le spalle. « No, Maestro. È partita da me. Ho sbagliato e mi dispiace. »

« Stai proteggendo qualcuno? » « No. Non c'è nessun altro. » Respirai profondamente e mi feci

forza per affrontare da uomo il castigo. « Fate di me quello che volete. Me lo merito. Ma, per favore, sappiate che sono davvero dispiaciuto. » Sentii gli occhi inumidirsi e, per asciugare una lacrima, finsi di grattarmi il naso.

« Se non altro, sei disposto ad assumertene la responsabilità. »

« Sì, è tutta opera mia. » « Per un uomo è importante assumersi la responsabilità. » « Me la prendo. Ma ho agito stupidamente e non lo farò mai

più. Siete come un padre per me. » « Oh, Dio. » Il capocuoco aveva l'aria stanca. « Ci devo pensare

» disse. « Và a dormire. »

« Intendete dire al piano di sopra? » « Devo svegliare il maggiordomo e farti preparare la stanza

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degli ospiti? » « Grazie, Maestro. » Indietreggiai inchinandomi. « Mi

dispiace, Maestro. Grazie. Io non... » « Oh, sta zitto e vai a letto. » Ero sinceramente pentito, ma il capocuoco mi aveva chiesto

perché, e una parte di me sentiva che avrei potuto porgli la stessa domanda. Perché tanti segreti? Che scopo aveva la sfilata di ospiti eruditi? Perché teneva l'armadietto chiuso a chiave? E che senso aveva il suo strano orto? L'orto del capocuoco era una fonte costante di bisbigli, di occhi al cielo, e di avvertimenti cifrati a chiunque vi si avventurasse. Perlopiù vi trovavano posto le solite cose - lattuga, cipolle, cavolo e melanzane -, ingredienti ordinari con cui cucinare un pasto buono e onesto. C'erano però le altre piante, quelle che spingevano i cuochi a farsi il segno della croce e a baciarsi i pollici ogni volta che erano costretti a maneggiarle.

Prendete i pomi d'amore, tanto per cominciare. La loro reputazione di piante velenose era ben nota come quella della cicuta, e i cuochi protestarono a viva voce il giorno in cui il capocuoco mise le piantine a dimora. E se le loro radici avessero contaminato le cipolle? E se le loro esalazioni avessero provocato svenimenti o convulsioni? E se l'odore strano, pungente, delle loro foglie avesse attirato spettri senza pace dalle vicine segrete? Occorsero ripetute assicurazioni, l'installazione di un recinto fabbricato con la rete da polli, e il fatto che nulla di catastrofico fosse avvenuto dopo che erano stati piantati, per impedire ai cuochi di sradicare i pomi d'amore alle spalle di Amato Ferrerò. Ciononostante un cuoco se ne andò, a un altro venne un tic all'occhio e cominciò a sgraffignare lo sherry usato per cucinare.

Dopo i pomi d'amore, il capocuoco mise a dimora i fagioli - altra rarità del Nuovo Mondo - e le patate. Una volta tentò di piantare qualcosa che chiamò mais, ma non vi riuscì, e allora comprò, da un suo fornitore segreto, alcuni sacchi della pianta seccata. La triturò in un mortaio di pietra gigante ricavandone farina gialla e grezza che utilizzò per una delle sue specialità esotiche: la polenta.

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Avevo sbirciato dalla porta dell'orto una volta o due, ma non avevo mai avuto bisogno di metterci piede, cosa di cui ero grato. I giardinieri del palazzo estirpavano le erbacce e innaffiavano, e i cuochi coglievano il necessario. Era il capocuoco a occuparsi della sua collezione di stramberie vegetali.

Il giorno dopo essere stato sorpreso dal capocuoco Ferrerò con le mani nel suo armadietto, lavorai per tutta la mattina in un limbo di inquietudine, senza che lui mi rivolgesse la parola, e mi chiesi quale sarebbe stata la mia punizione. Finii il panino del mezzodì sulla soglia dell'orto, cercando di bearmi della mescolanza degli odori della menta e del rosmarino che una brezza alitante dalla porta aperta portava fino a me. In attesa che cadesse la mannaia, però, non riuscii a concentrarmi sul pasto né sull'aria profumata. Il capocuoco sopraggiunse mentre inghiottivo l'ultimo boccone e mi mise una mano sulla spalla. Trasalii pensando: Ci siamo.

« Ti piacerebbe vedere l'orto, Luciano? » L'orto? Ostrega, quello era peggio dei polli. « No, grazie,

Maestro. » Il capocuoco mi prese per un gomito come se non mi avesse

sentito e mi condusse fuori. Camminammo lungo i sentieri di ghiaia meticolosamente tracciati e bordati di ogni sfumatura di verde. La ghiaia scricchiolò sotto le nostre scarpe e, procedendo, il capocuoco nominò le sue bizzarre colture. Giunti ai pomi d'amore — globi d'un rosso sgargiante, alcuni dei quali trasudavano il viscido veleno scarlatto dalle fenditure della buccia — feci attenzione a non lasciarmi sfiorare dalle foglie. Osservai con orrore il capocuoco affondare il viso nel fogliame e inspirare a fondo. Accanto ai pomi d'amore, maligni fagioli si arrampicavano su alte pertiche, ibridi fuori controllo dai viticci arricciati che, simili a dita verdi, si allungavano alla cieca verso i passanti. Mi spostai con molta cautela.

Con un senso di sollievo, seguii il capocuoco nell'aiola delle erbe aromatiche dove crescevano piante familiari dal profumo delicato: timo, aneto, menta, basilico e altre erbe benigne. Mi chiese di individuare quelle che conoscevo e fece una breve dissertazione sul loro utilizzo: l'aneto è buono con il pesce, il timo è di complemento al vitello, la menta si accompagna alla

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frutta e il basilico è perfetto con i pomi d'amore seccati. Colse due grandi foglie di menta con la pagina inferiore color porpora, se ne mise una sulla lingua e mi diede l'altra. Andammo a sistemarci su una panca di pietra curva al centro dell'orto e rimanemmo seduti a succhiare la menta fresca, lui godendosi la brezza, io aspettando il giudizio imminente.

Proseguì la conferenza sulle erbe. Parlò della finezza dell'alloro, delle tante varietà di timo e dell'uso dei fiori commestibili come guarnizioni. Un colibrì volò fischiando e si librò; il capocuoco diventò evasivo e disse: « Sai, c'è chi è convinto che un giorno gli uomini riusciranno a volare ». Alzò una mano per indicare il colibrì che stava bevendo da un fiore rosso e io mi schermai il viso. Non essendo arrivato il colpo, sbirciai tra le dita e vidi il capocuoco che mi fissava. Aveva l'aria di un uomo appena schiaffeggiato. « Non ti colpirei mai, Luciano » disse.

«Ah, lo so. Stavo solo... » Distolse lo sguardo e parlò con pacatezza a un ascoltatore

invisibile tra l'acetosa. « Mio padre picchiava me e mio fratello, e persino mia madre. Beveva, sai. Era un uomo molto triste. Lo odiavo. Per proteggermi, mi ammantai d'odio; serbai con cura l'odio nel mio cuore, e fu un'amara consolazione.

« Un giorno, ero già abbastanza grande e grosso, lo strappai da mia madre che stava piangendo. Lui l'aveva picchiata con un bastone, come se fosse una bestia. Ero un bambino, ma gli urlai: "Che razza di uomo sei? Dovresti vergognarti. » Il capocuoco mi guardò contagiandomi con la sua tristezza. «A quell'epoca mio padre era un uomo macilento, sempre sudicio. Lasciò cadere il bastone e si accasciò su una sedia. Guardò mia madre che frignava a terra, come se si fosse appena accorto della sua presenza, e sai cosa disse? Disse: "Mi vergogno, figlio mio. Mi vergogno.

« Non dimenticherò mai l'attimo in cui mio padre ammise la propria infamia. Mi aiutò a capire che c'è libertà nel perdono. Diventiamo persone migliori se sappiamo perdonare.» Il capocuoco mi guardò. « Per questa ragione ho deciso di perdonarti per quello che hai fatto ieri notte. Sapevi di aver sbagliato e te ne sei assunto la responsabilità. Ti sei guadagnato un'altra i occasione. »

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« Grazie, Maestro. » Allora mi meravigliai che mi perdonasse con tanta facilità. Oggi penso sapesse che avrei tenuto fede al suo mandato per il resto della vita.

« Mio padre morì poco dopo quell'episodio. Se fosse vissuto più a lungo, avrebbe potuto redimersi. » Doveva aver visto la mia espressione dubbiosa, perché aggiunse: «Nessuno è irredimibile».

« Giuseppe... » « Nessuno, Luciano. Disgraziatamente, alcuni muoiono prima

di aver raggiunto quel traguardo. Naturalmente, c'è chi è convinto che si viva più di una vita... ma questo è l'argomento di un'altra conversazione.» Proseguì con il tono neutro di un insegnante. «Al principio volevo soltanto essere diverso da lui. Migliore. Pensavo mi bastasse ottenere il successo nella professione e la rispettabilità sociale. Fu allora che incontrai Chef Meunier. Te lo ricordi, eh? »

« Sì, Maestro. » « Dio benedica il suo animo allegro. Da lui ho imparato che un

uomo si misura non soltanto dai risultati ottenuti, ma anche dall'impegno che profonde nel conseguirli, dalla sua volontà di far bene, dalla tenacia dei suoi sforzi. In te vedo quella volontà, Luciano. » Si alzò in piedi con tanta deliberazione che fece alzare anche me. « C'è qualcosa che devo dirti, Luciano, e lo dirò senza giri di parole. Ci ho pensato a lungo e ho preso una decisione. Credo che gli errori da te commessi di tanto in tanto siano dovuti alla tua giovane età e ai tuoi inizi sfortunati. Credo che in te vi sia il potenziale per diventare un'ottima persona e io voglio aiutarti. Desidero nominarti mio pupillo, erede della mia conoscenza. »

Sconvolto dalla franchezza della sua dichiarazione, mi chiesi come mai fossi stato punito quando mi ero adoperato per far colpo su di lui, e fossi stato perdonato quando avevo rubato. Non capii, ma pareva che, a conti fatti, il mio futuro con il capocuoco fosse assicurato. Ero il suo pupillo. Avevo la possibilità di migliorarmi. Il capocuoco mi avrebbe aiutato a superare me stesso. Esultante, volevo sentire l'effetto della parola sulle mie labbra. Dissi: « Sono onorato di essere il vostro pupillo ».

« Bene. D'ora in poi m'aspetto di più da te. »

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Avevo molti quesiti da porre su come dovesse comportarsi un pupillo. Mi rendevo conto che era una posizione migliore di quella di un apprendista, ma volevo sapere quali fossero i miei nuovi doveri e le mie nuove prerogative. « Mi insegnerete a cucinare? » domandai.

« Certamente. » « Volete dirmi che cosa fa rapprendere la crema pasticcera? » « La crema pasticcera? Le uova, perché? » « È uno di quei fenomeni che sembrano opera di magia. Al

principio è liquida e la cottura la fa diventare solida. Le uova? Che strano. »

« Non è un mistero. Non ti sei mai accorto che le uova si rassodano non appena cotte? Si legano agli altri ingredienti, altrimenti li combinano. »

Mi diedi uno schiaffo in fronte. « Ma certo! » « La crema pasticcera. A volte sei proprio strano, Luciano. » « Mai come l'orto. Volete dirmi qualcosa su queste piante? » Il capocuoco sorrise. « L'orto ha lo scopo di meravigliare.

Chiunque sa cuocere una normale pentola di riso. Uno chef diventa famoso quando ha un talento fuori dal comune. E l'orto è proprio questo: non ha nulla di magico, è soltanto insolito.

« I primi semi dei pomi d'amore sono giunti dal Nuovo Mondo. Non sono velenosi, ma l'Europa non si è ancora messa al passo. Per il momento, sembra che soltanto io possieda il segreto di trasformarli in manicaretti salubri. La gente li mangia strabiliata e la mia reputazione aumenta. » Rise e indicò un fazzoletto di terra dissodata dove non cresceva nulla. « Quando è stagione, ci pianterò l'igname. Avrai modo di assaggiare piatti magnifici. »

« Igname? » Volevo parlare dei pupilli. Mi chiedevo se a un pupillo fosse consentito imparare la formula del filtro d'amore.

« L'igname è una varietà di patate e proviene anch'esso dal Nuovo Mondo. Lungo e smilzo, con la polpa gialla, dolce come il miele. » Unì le dita a bocciolo di rosa e ne baciò la punta. « Coltivo anche le patate bianche e ne tengo una riserva nella cantina sotterranea. Abbi pazienza, Luciano. In cantina vedrai cose più interessanti dei pomi d'amore e dei fagioli. »

Quello che vedevo io era che mi sarebbe toccato dissertare di cucina prima di poter affrontare l'argomento del filtro d'amore.

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« Come fanno queste strane cose ad arrivare a Venezia dal Nuovo Mondo, Maestro? »

« Come fa qualsiasi merce ad arrivare a Venezia? Legata sul dorso dei cammelli, dei cavalli e degli elefanti, imballata nelle stive delle navi, ammucchiata nei carri e nei carretti, legata alla schiena degli uomini. » Descrisse cerchi in aria come per dire: Che importanza ha sapere come fanno le merci ad arrivare qui, fintanto che giungono?

« Ma nel Nuovo Mondo ci sono stati in pochi. » « Lo credi davvero? » Gli brillarono gli occhi di una luce

diabolica. « Gli uomini pensavano che la terra fosse piatta, eppure Colombo, navigando, ha superato l'orizzonte e ci ha dimostrato che la terra è rotonda. »

« Maestro, certe persone sono state bruciate con l'accusa di eresia per aver detto che la terra è rotonda. »

« Bè, non ne parlerei con un inquisitore. Fatto sta che la terra è rotonda e lo è sempre stata. Allora, perché presumere che Colombo sia stato il primo a scoprirlo? Gli astronomi musulmani dissero secoli fa che la terra era rotonda. E i vichinghi ne hanno solcato i mari in lungo e in largo molto prima di Colombo. »

« I vichinghi? » « Gli esploratori e gli avventurieri ci hanno portato ben più di

quello che vedi nell'orto, e persino di ciò che puoi trovare nei banchi nascosti di Rialto. Ci hanno portato idee e opinioni divergenti sul mondo e sulla gente che lo abita. Nelle foreste dell'Africa ci sono minuscoli uomini dalla pelle nera che da migliaia di anni vivono con nient'altro che la terra sotto i piedi. In Estremo Oriente, alcuni millenni prima della nascita di Gesù sono fiorite civiltà raffinate. Nel Nuovo Mondo i regni sono sorti e caduti per secoli prima dell'arrivo degli spagnoli. I viaggiatori che hanno preceduto e seguito Marco Polo hanno importato ed esportato merci e conoscenza in un flusso ininterrotto. La conoscenza è la materia prima più preziosa. La conoscenza è il primo passo verso la saggezza. »

Il capocuoco spalancò le braccia come per racchiudere il suo orto. « Quello che vedi qui è nulla. Da secoli, si aggiungono scritti e formule scientifiche all'insieme delle conoscenze umane. »

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« Formule? Parlate dell'alchimia? » « Una formula è soltanto una ricetta, Luciano. Non lasciarti

incantare dalla parola. Devi sapere che alcuni di noi si sono incaricati di raccogliere, registrare e proteggere tutte le conoscenze che hanno il privilegio di poter imparare. Conserviamo le idee sulle quali vale la pena riflettere, anche se sono scomode, e soprattutto se sono minacciate. Manteniamo accesa la fiamma del libero pensiero. Siamo i Guardiani. »

« Guardiani. » Valutai i pomi d'amore con occhi nuovi. Il capocuoco mi arruffò i capelli. « Il mondo è più antico e più

grande di quanto tu sappia e siamo tutti eredi delle meraviglie che ha accumulato. Esistono cose che nemmeno ti immagini. C'è una vasta terra nei mari del Sud dove roditori giganti stanno in posizione eretta su due zampe e trasportano i neonati nelle tasche. Mi piacerebbe vederli. » Sorrise. « I Guardiani credono che non dovremmo sbarazzarci con troppa disinvoltura della nostra eredità. Possiamo guardare più lontano se ci ergiamo sulle spalle di chi ci ha preceduto. Le civiltà si edificano sulle ossa dei morti. »

« E a proposito di Dio? » « Dio? » Il capocuoco chiuse gli occhi e si sfregò la tempia

come se fosse stato colpito da un improvviso dolore lancinante. « La parola viene usata come giustificazione di alcuni dei comportamenti più efferati dell'umanità. Dio è l'argomento di un'altra conversazione. Per il momento parliamo dei grandi maestri e della conoscenza che ci hanno trasmesso. »

La cosa in sé aveva l'aria di essere così grandiosa che la mia voce uscì in un sussurro: « E volete condividere con me le vostre conoscenze? »

« Tutto a suo tempo. Hai molto da imparare prima di essere pronto per i segreti codificati tra il brodo di pollo e l'arrosto d'agnello. »

Brodo di pollo? Arrosto d'agnello? Bah. Volevo che mi parlasse delle grandi idee, dei segreti importanti: alchimia, roditori giganti e filtri d'amore. « Però, Maestro... » obiettai.

« Partiamo dalla base, Luciano. Quando cominciarono, i Guardiani ebbero bisogno di un travestimento. Ci serviva un sistema con cui raccogliere e preservare l'insieme delle conoscenze, senza diventare un bersaglio riconoscibile come la

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Grande Biblioteca di Alessandria. A qualcuno venne l'idea che diventassimo cuochi. Chi fa caso ai domestici, eh? »

« Verissimo. » Rammentai che il capocuoco aveva chiacchierato in mia presenza con il fratello come se non mi avessero visto andare avanti e indietro proprio di fronte a loro.

Ferrerò proseguì. « I cuochi sono annoverati tra i pochissimi domestici che hanno motivo di tenere documenti scritti. Possiamo raccogliere i testi di autori stranieri senza che nessuno se ne interessi. Dopo tutto, sono soltanto ricette, eh? » Ridacchiò. «Al principio eravamo semplici cuochi. In seguito fu deciso che diventassimo chef perché la strada è lunga e impervia e concede a un uomo il tempo di riflettere sull'impegno che intende dedicare. Le nostre ricette sono codici e con questo metodo preserviamo conoscenze che viceversa andrebbero perdute o distrutte. Prima che tu raggiunga il rango di Maestro, dovrai trascorrere anni a studiare e a prepararti. »

« Come una novizia? » « Una suora? Ah. Sei ancora innamorato della ragazza del

convento? » « Sì, Maestro. Voglio sposarla. » « C'è tempo per il matrimonio. » « Ma se ne impiego troppo, sposerà qualcun altro. Morirei se

capitasse. » « Non moriresti, ma capisco i tuoi sentimenti. Una volta

amavo una ragazza... stanne certo, non moriresti. » « Però avrei voglia di morire. » « Luciano, il matrimonio è una bellissima cosa, e al momento

opportuno ti sposerai. Per ora cerca di capire che ti sto offrendo un nobile scopo per cui vivere. »

« Perché proprio io? » «A parte il fatto che vedo in te certe potenzialità? » Mi

allontanò i capelli dalla fronte e passò un pollice sulla voglia. « Ho le mie ragioni. » Si morse appena il labbro. « Sai qualcosa sui tuoi genitori, Luciano? »

« Niente. » « Già. Non è importante. » « Maestro, mi scegliete pur sapendo che sono un ladro? » « Se tu volessi, potresti essere di gran lunga migliore, e io

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penso che tu lo voglia. » Il capocuoco aveva più fiducia in me di quanta ne avessi io.

Era vero che avevo intenzione di migliorare per diventare un bravo addetto alle verdure e un buon marito, ma sarei mai stato all'altezza di un simile compito? « Non lo so... »

« Esiti. È un bene. Significa che prendi la cosa sul serio. Anch'io esitai, perché volevo una strada più facile. Inoltre, temevo che in me vi fosse una somiglianza con mio padre che non sarei stato in grado di superare. Padri e figli; una faccenda complicata. »

« Io non so neppure chi sia mio padre. Magari era un criminale. »

« Non importa. Ciascuno di noi è unico e la crescita non è un traguardo, ma un processo. Sviluppa la parte migliore di te. Ogni volta che riusciamo nell'intento, l'umanità progredisce. Va bene? »

Aveva dipinto un quadro solenne e semplice al tempo stesso. Confermai: « Va bene ».

Riattraversammo l'orto in silenzio e io mi sforzai di incastrare Francesca nel futuro complicato che mi aveva prospettato il capocuoco. Ero ancora alle prese con il problema quando giungemmo alla botola della cantina sotterranea. Il capocuoco la sollevò per farmi entrare. Un certo numero di scalini di legno consunto scendevano perdendosi nel buio pesto; mi parve di guardare in un pozzo senza fondo e mi trattenni. Dal sottosuolo si levò aria fresca che odorava di chiuso.

Il capocuoco scese nell'oscurità dicendo: «Adesso vedrai qualcosa di interessante ».

«Vi credo » dissi. « Non ho bisogno di vedere. Possiamo tornare in cucina.»

Si voltò per metà e mi guardò perplesso, con le gambe già inghiottite dalle tenebre. « Cosa c'è che non va? »

« Le cantine non mi piacciono. » « Bah. Qui sotto ci sono soltanto scorte di cibo. Ecco, tienti

forte. » Allungò una mano verso di me e un misto di fiducia in lui e paura di far la figura del codardo mi spinse a prenderla. Lo seguii per gli scalini che portavano alla buia cantina; avevo i palmi viscidi e il respiro si fece più pesante a ogni passo.

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La cantina aveva un odore stantio e inconsueto. Riconobbi ben poco del contenuto dei sacchi, dei barili e delle casse accatastati e impilati contro le pareti rozzamente sbozzate. Dal soffitto pendevano salsicce e collane di aglio e di cipolle. Le spingemmo di lato camminando chini e il capocuoco indicò i suoi tesori. « Chicchi di caffè, mais, zucchero di canna, zafferano, funghi secchi... »

« Si tratta del fungo chiamato amanita? » Nella cavernosa cantina il viso del capocuoco era diventato

un chiaroscuro indistinto di angoli e piani, ma mi accorsi che aveva alzato obliquamente un sopracciglio al mio indirizzo. « Come probabilmente sai, le amanite sono funghi velenosi. No, non sono amanite. »

Proseguì con l'inventario. «Noccioline, cacao... ah, il cacao. Qui abbiamo qualcosa che si avvicina alla magia. Da alle salse un'intensità soprannaturale e, unendolo allo zucchero, si ottiene un preparato eccitante quanto il vino. » Diede dei buffetti al sacco di cacao; gli fece le feste come se stesse viziando l'animaletto di casa. « In quel sacco laggiù c'è l'amaranto. E raro e difficile da trovare, ma vale la pena andarne alla ricerca. Da al pane un buon sapore di noci. »

Tutti erano persuasi che l'amaranto fosse estinto, ma evidentemente il capocuoco disponeva di canali segreti per procurarselo. Prima che potessi chiedergli dove l'aveva comprato, un'oppressione terribile cominciò a stringermi il petto, e i pensieri si fecero confusi. Mi venne la pelle d'oca ed ebbi voglia di mettermi a correre. « Non mi piacciono i posti piccoli e bui. » Avevo il respiro corto e accelerato. Boccheggiai: « Ce ne andiamo? »

« Hai soltanto paura di rimanere chiuso qui dentro e, forse, anche del buio. » Il capocuoco lo disse in modo distaccato. « Alla base di tutto c'è la paura della morte, il terrore dell'ignoto. Un'ansia ingiustificata di qualche catastrofe improvvisa, inaspettata. Non ti preoccupare, non stai morendo. »

« La morte? » Un peso invisibile mi compresse il petto come una morsa.

Il capocuoco spiegò: « La maggior parte delle persone ha paura della morte. Ecco perché amano mangiare piatti che danno loro l'illusione di ingannarla. Pomi d'amore, ossa dei

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morti, tutto ciò che è scuro ». « Devo uscire di qui, Maestro. » Avevo le vertigini. Cominciai

a sudare e a tremare. «A me sembra davvero di star morendo. » « No. Sei stato soltanto colto dal panico perché ti trovi al

chiuso in un ambiente buio. Non è disonorevole aver paura del buio. Molti lo temono. Un maestro di nome Platone avvertì di guardarsi soltanto da chi ha paura della luce. »

« Cosa? » Il ritmo del battito cardiaco era aumentato in modo allarmante, gli occhi lacrimavano e la visione si era sfocata.

Mi parve che la voce del capocuoco giungesse da lontano. « Luciano, fà attenzione. Qui, in questo momento, non c'è nessun pericolo. Fà un respiro profondo. »

« Non riesco. » « Fà un bel respiro e ce ne andiamo. » « Non riesco. » « Guardami. » Mi tenne il viso tra le mani e i suoi occhi mi

fecero ritrovare l'equilibrio. Benché il cuore battesse ancora all'impazzata, riuscii a fare un respiro normale. Poi il capocuoco mi circondò con un braccio e uscimmo insieme. Al sicuro, fuori della cantina, sedetti a terra fino a quando il cuore non rallentò. Mi asciugai il sudore dal viso e domandai: « Come facevate a sapere che ci sarei riuscito? »

« Volevo soltanto che ci provassi. È importante restare calmi di fronte alla paura; potresti aver bisogno di saperlo fare. Se scaviamo a fondo in noi stessi, troviamo una forza inattesa. Voglio che impari a farlo. È così che si cresce. »

« Si, Maestro. » «Allora, che cosa hai imparato? » « Che dentro di me c'è una forza che non ho ancora messo

alla prova. » « Bene. » Per la seconda volta nella mia vita sentii il bisogno di

pregare. Alzai gli occhi al cielo, perché è così che si fa, e pensai: Ti prego, fammi crescere.

18

Il libro di Borgia

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Un mattino il maggiordomo entrò dalla porta di servizio e arrivò silenzioso alla scrivania del capocuoco con le labbra arricciate, reggendo la veste turchese sopra le caviglie ricoperte di seta. L'incantevole personaggio profumato al lillà enunciò in fretta la propria ambasciata, agitando il ventaglio per allontanare il calore della cucina e tergendosi la base della gola con un ritaglio di pizzo. « Il doge è stato convocato a Roma. Voi lo accompagnerete e preparerete la salsa nepente per Sua Santità » cinguettò.

« Ne sono onorato. » Il capocuoco si profuse in un inchino elaborato, forse troppo. « Mi serve l'aiuto del mio apprendista. »

Il maggiordomo fece un gesto con la mano morbida e trillò: « Come desiderate ». Piroettò sulle pantofole ornate di perle e a rapidi passettini ripercorse con fare altezzoso il cammino che conduceva alla porta di servizio.

« Maestro? » Ero rimasto immobile con in mano lo strofinaccio bagnato che mi sgocciolava sulle scarpe. « Io? A Roma? »

Il capocuoco mi fece cenno di avvicinarmi e parlò a bassa voce: « C'è da giurarci che Borgia abbia ben altre ragioni che non la mia salsa per invitare il doge alla sua tavola ». Si diede dei colpetti su un lato del naso.

« Cucinare per il papa è comunque un onore, non vi pare, Maestro? »

Il capocuoco sorrise. «È giunto il tempo di iniziare la tua istruzione, Luciano. Devi vedere Roma. »

Per tutto il giorno prestai un'attenzione estrema a ogni

boccone lasciato nei piatti. Raccolsi attentamente gli avanzi, serbai tutte le ossa cui era rimasto attaccato un frammento di carne; riunii una montagna di croste di pane e rovistai alla ricerca di quelle di formaggio sparse qua e là. Non appena riuniti, i diversi elementi avevano l'aspetto di un mucchio di immondizie, così ci buttai dentro rape e carote, verdure a poco prezzo di cui abbondavamo. Non sapevo quanto tempo avrei trascorso a Roma e volevo lasciare a Marco e a Domingo un pacchetto il più voluminoso possibile.

Quella sera, quando portai fuori i rifiuti, Marco era lì, in

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attesa. Si illuminò quando vide la tela cerata rigonfia di cibo che mi pendeva da una spalla. « Che roba è? » Afferrò l'involto, ci sbirciò dentro e fece la faccia lunga. « Sono quasi tutte ossa. »

« Ci sono anche rape e formaggio. Danne un po' a Domingo e salutalo da parte mia. »

« Come mai questo banchetto? Se stai cercando di scusarti per esserti fatto beccare senza aver preso niente da quell'armadietto, non funziona. Ancora non capisco come mai tu sia stato così maldestro. Come ladro eri bravissimo. Se vuoi davvero scusarti, riprovaci. »

« Non ho niente di cui scusarmi e non ho intenzione di riprovarci. Vado a Roma e non so per quanto starò via. » Indicai la tela cerata. « Deve durare per un po'. »

Gli occhi di Marco diventarono due fessure. « Perché a Roma? »

« Il capocuoco deve cucinare per il papa. » Sogghignò. « Perché ha bisogno di te? » « Sono il suo apprendista, » « Bah. » Marco si cacciò la tela cerata sotto il braccio. « Sono

certo che a Roma mangerai bene. » Si voltò per andarsene. « Prendo le mie ossa e mi tolgo dai piedi. »

« Marco, non fare così. » Si girò a guardarmi. « Così come? Non devo fare l'affamato? » «Marco... » « Buon viaggio, Luciano. » Ed era sparito. Le grandi città d'Italia sono come le diverse varietà di fiori di

un giardino. Venezia è un'esplosione di azalee rosa dai margini bruniti; è un'orgia di bellezza. I palazzi di marmo sprofondano lentamente, e ogni inverno il mare inonda la città all'altezza delle caviglie, mentre i suoi abitanti fornicano e se la spassano nel suo cuore d'acqua. Bacco dileggia la Grande Mietitrice e musici immemori suonano appassionatamente in piazza San Marco mentre una puttana ormai vizza si passa la lingua lasciva sulle labbra imbellettate.

Avendo visto Venezia, pensavo di sapere che cosa fosse la depravazione, ma non ero preparato alla fulva opulenza bifronte di Roma, la Venere Pigliamosche, una bellezza esotica con la passione della carne. Essendo molto più antica di

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Venezia, Roma aveva avuto più secoli per perfezionare l'arte della doppiezza. Il resto d'Italia cantava canzoni popolari, ma Roma salmodiava con il basso antico dell'autorità morale artefatta. L'immagine inattaccabile della pia Roma oscurava le lotte di potere all'ultimo sangue che suppuravano sotto le cupole dorate e i paramenti ricamati. Se Venezia era una meretrice, Roma era un'assassina.

Sono giunto alla conclusione che all'illusoria santità di Roma contribuisca lo scirocco che spira per due terzi dell'anno. È un vento meridionale caldo e umido che ammassa in cielo basse nuvole grigie. Fa fiorire la muffa in luoghi segreti, diffonde macchie squamose di umidità sulle mura di pietra e gli abitanti, a cui sembra di avere la testa e il naso imbottiti di cotone, non riescono a sentire l'odore della corruzione sotto l'incenso.

L'odore, come sempre evocativo, è il modo migliore per descrivere la differenza tra la cucina di Roma e la nostra. A Venezia il capocuoco Ferrerò metteva a seccare sui travetti rami di erbe aromatiche, che permeavano l'aria di un sentore dell'orto, e le brezze marine portavano da un capo all'altro della stanza aromi che facevano venire l'acquolina in bocca.

A Roma la cucina era sotto terra e non tirava aria fresca per alleggerire gli odori che vi si erano accumulati. Al posto delle erbe, lo chef di Borgia aveva appeso al soffitto prosciutti spagnoli dal profumo acre e coperti da una muffa verderame, e in un angolo della stanza male illuminata un leopardo imbronciato era confinato in una gabbia, dove rosicchiava un trancio di carne cruda. Nel ruggito basso, da far gelare il sangue, e negli occhi gialli e spenti non c'era più traccia della creatura vigorosa di un tempo. Quel suo andirivieni demente nella gabbia angusta mi depresse e solleticò la mia claustrofobia. Borgia soddisfaceva spesso il suo gusto per gli animali esotici, ma in quella cucina spossata il leopardo attirava scarsa attenzione. Tra il fetore del leopardo e la carne, la cucina di Borgia puzzava di selvatico e di morte.

Tutto a Roma, compreso il cibo, raggiungeva eccessi inimmaginabili altrove. Durante il nostro secondo giorno nella Città Eterna, accompagnai il capocuoco al mercato. Rimasi a bocca aperta come un campagnolo alla vista di una mousse di

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anatra e di un pâté d'oca scolpiti sulla carcassa di un cigno; il cigno era guarnito di piume di quaglia e appollaiato su un nido di uova di struzzo, cinque uccelli seducenti uccisi e depredati per farne un centrotavola. Studiai la testina di un vitello in gelatina con un garofano in bocca, un occhio azzurro immobile e l'altro chiuso: la morte, il buffone, che ammiccano. Contemplai un prosciutto color sangue annacquato, sottile come un'ostia, che era stato disposto intorno ad alcune fette di cocomero color carne. In un altro banco, un bottegaio si ergeva orgoglioso su uno staio di tartufi, grossi come mele e neri come il peccato, grumi bitorzoluti con un muschio carnale, scovati dai maiali nel suolo argilloso del Périgord. Restai senza fiato nel vedere la carne fresca di zebra di cui tanto si favoleggiava, le grosse fette sanguinolente sparpagliate sulla pelle a strisce dell'animale in un'esibizione che aveva un che di osceno. La carne di zebra mi fece venire in mente il leopardo di Borgia.

Non vedevo l'ora di dare un'occhiata al ricco spagnolo che si era comprato il titolo di papa Alessandro VI, ma il capocuoco mi disse di tenere la testa china e la bocca chiusa. Disperavo ormai di vedere il grand'uomo, quando lo chef castigliano di Borgia, infastidito dalla nostra presenza in cucina, insistette che io mi rendessi utile. Disse: « Cosa ci fa qui il ragazzo? È tra i piedi».

Il capocuoco annuì e schioccò le dita. « Luciano » ordinò, « aiuta le cameriere. »

Svelto liberai una cameriera dal vassoio predisposto per un pasto ufficiale e la seguii in sala da pranzo. Le cameriere romane, donnette scialbe dall'espressione tesa, erano ancora più intimorite delle nostre a Venezia. In realtà non ne fui sorpreso; dopo tutto lavoravano per uno degli uomini più potenti e spietati del mondo.

Quel giorno Borgia avrebbe desinato con Herr Lorenz Behaim; con fare nervoso la cameriera controllò due volte il vassoio prima di portarlo in sala da pranzo. Com'era mia abitudine, indugiai dietro la porta di servizio per ascoltare e osservare.

E finalmente entrò! Le porte che davano all'esterno si spalancarono e Rodrigo Borgia entrò di botto nella sala come un vigoroso stallone. Salutò Herr Behaim con voce tonante e

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piena di energia. Grosso e muscoloso, entrò nella sala con passo battagliero, il mento con la fossetta proteso, gli abiti da cavallerizzo ancora indosso, il frustino in mano, gli stivali infangati che risuonavano sul pavimento di marmo e ogni dito inanellato d'oro e di pietre preziose. Entrò quale immagine della virilità, l'uomo che ama le donne e i cavalli, scuro di carnagione, la corporatura possente, le mani tozze e il naso deciso con le narici dilatate per accogliere la vita. Un uomo irsuto con i ciuffi di peli sul dorso delle mani, l'ombra perenne della barba sul viso e una massa di capelli ribelli docilmente grigi solo sulle tempie. Le sopracciglia folte sovrastavano due occhi vivaci, curiosi, intelligenti, occhi marrone accesi che all'improvviso sapevano diventare penetranti. Gli passò in un lampo un sorriso abbagliante, dai denti bianchi: un pirata. Entrò, ridendo con disinvoltura, e perché no? Era ricco e potente e riempì di sé la sala come un toro alla carica.

Herr Behaim si alzò e abbassò la testa. « Vostra Santità. » « Siedi, Lorenz. » Borgia si sedette a cavalcioni di una sedia e

alzò una mano in direzione della porta di servizio. La cameriera si precipitò all'istante con un vassoio di pane e olive e una caraffa di sherry spagnolo. Borgia preferiva il cibo e le bevande della sua terra natale. « Dimmi, Lorenz, come posso servirmi di questo vecchio che viene da Venezia? » esordì. Congedò la cameriera, versò due bicchieri di sherry e ne porse uno all'astrologo.

Behaim accettò lo sherry con un cenno di cortesia. « Vostra Santità, il doge crede, o vuole credere, che il libro contenga la formula dell'eterna giovinezza. » Sorrise.

Borgia posò lo sherry e mugghiò: « Ma è meraviglioso! » Rise con la bocca spalancata e la testa buttata all'indietro. Si diede una pacca sul ginocchio e domandò: « Sa qualcosa dei Vangeli gnostici: »

« Credo che ne abbia sentito parlare. Ma è così ossessionato dalla propria mortalità che non comprende quanto siano importanti. È anche convinto che esista un solo libro. Non v'è dubbio che ce ne siano diverse copie e che un numero significativo di persone ne sappia qualcosa. Eppure, il doge è tormentato dall'esistenza di un solo libro che conterrebbe la formula dell'immortalità. »

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« Magnifico. » Borgia sembrò sbalordito e deliziato. « Come dobbiamo procedere? »

Behaim si mise comodo sulla sedia e si passò lo sherry sotto il naso. « Condannate il libro per blasfemia. Dite al popolo che è protetto dagli eretici e dai satanisti. Poi offrite una ricompensa che il doge non potrà uguagliare. Ciò attirerà l'attenzione. »

« Non so. » Borgia fece girare lo sherry. « Posso condannare tutto quello che voglio, ma il popolo è più difficile da controllare di quanto fosse in passato. Gli agitatori fiorentini sobillano le persone, mettono loro in testa delle idee, le rendono curiose. Non è più come ai vecchi tempi. Se la ricompensa è troppo alta, qualcuno potrebbe davvero trovare i maledetti Vangeli e servirsene contro di me. »

Behaim sedette sull'orlo della sedia e abbassò la voce. « Vostra Santità, sono il vostro astrologo e vi assicuro che lo smascheramento è un pericolo remoto. Siamo nell'Era dei Pesci, l'epoca dei segreti. È improbabile che al pubblico vengano rese note rivelazioni significative prima dell'Era dell'Acquario. Per il momento, sta a noi usare e controllare i segreti. »

« Quando entreremo nell'Era dell'Acquario? » « Non prima di cinquecento anni, Vostra Santità. Nel nuovo

millennio. » « Perfetto. » Borgia si appoggiò allo schienale della sedia e

rise. Quel pomeriggio Rodrigo Borgia si affacciò al balcone e

accusò il famigerato libro di eresia e arti magiche. Alzò le braccia robuste nel gesto della benedizione e annunciò: « Chiunque ci dia notizie che conducano al ritrovamento e alla distruzione di questo infame libro verrà ricompensato con la porpora cardinalizia e tutte le proprietà, i privilegi e gli emolumenti che la posizione comporta ».

La folla esultò e applaudì eccitata tra le risate incredule. Chiunque poteva diventare cardinale e, in fondo, perché no? Borgia aveva già concesso la mitria cardinalizia ad alcuni suoi bastardi prima che compissero i tredici anni. Anche lui amava i suoi figli.

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Per preparare la salsa nepente il mio maestro pretese

l'isolamento; lo chef di Borgia, un castigliano altezzoso che si sentiva oltraggiato per essere stato sostituito nella sua cucina, trattò il capocuoco Ferrerò come un seccatore che non valeva la pena prendere in considerazione. Accondiscese ad assaggiare la salsa e con fare plateale la sputò sciacquandosi la bocca con il vino. Fece un gesto eloquente di disgusto e lasciò la cucina.

Quella sera mi trattenni, pronto e vigile, dietro la porta di servizio socchiusa della sala da pranzo. Udii i complimenti di prammatica seguiti dall'inevitabile schiocco delle labbra e dagli encomi per la cena. Il doge aveva lo sguardo limpido ed era presente al meglio, senza alcun tremolio nelle mani né fremito nel mento. Quando fu servita la minestra, introdusse l'argomento che stava a cuore a entrambi. « Vostra Santità ha offerto una ricompensa generosa per interrompere il diffondersi dell'eresia. Il libro potrebbe essere vostro in capo a una settimana. »

Borgia grugnì: « La gente è sciocca. È meglio tenere il libro al di fuori della loro portata ».

Il doge descrisse un otto con il cucchiaio nella minestra. « Immagino che abbiate compiuto indagini in tutta Italia. »

« Sì. » Borgia trangugiò la minestra. « Abbiamo interrogato Savonarola per settimane prima di impiccarlo. L'inquisitore lo ha interrogato con tanta solerzia che abbiamo dovuto affrettarne l'impiccagione, o sarebbe spirato durante gli interrogatori. Purtroppo però » Borgia si strinse nelle spalle, « non ha detto nulla. » Prese la scodella e ingurgitò quel che restava della minestra.

Il doge sospirò. « Temo che anch'io non approderò a nulla. Il mio stesso Consiglio ha offerto di più e ora, ovviamente, nessuno potrà competere con la vostra ricompensa. »

« La ricompensa serve solo a sviare l'attenzione. Chi sa qualcosa di vitale importanza, non cederà l'informazione in cambio di soldi. È gente che sente di aver abbracciato una missione. Bah. » Borgia passò un dito nella scodella e leccò le ultime gocce della minestra di fagioli. « Soltanto la mia persona e il vostro Consiglio dei Dieci possiedono le risorse necessarie a

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trattare con quel genere di fanatici. Procediamo con metodo. Se riusciamo a far parlare un sovversivo, avremo una pista da seguire. Basta che uno di loro crolli e arriveremo a capo di questa... questa cospirazione del libro. »

« Quando parlate di risorse, alludete alle Cappe Nere? » « E ai miei mercenari svizzeri. » Il doge carezzò lo stelo del suo calice di vino. « Ho una

proposta da fare a Vostra Santità. » « Parlate. » « Sappiamo entrambi che con molta probabilità il libro si

trova a Venezia e potrei venirne in possesso per primo. Con il dovuto rispetto, anch'io dispongo di alcune risorse private. Sé trovassi il libro, sarei disposto ad aiutarvi a distruggere ogni fastidiosa eresia. »

« In cambio di che cosa? » Borgia sorrise da quel pirata che era.

« Un patto tra gentiluomini. Ci accordiamo per condividerlo, chiunque di noi lo trovi. »

Borgia parve divertito. « Se fossi io a trovarlo per primo, perché dovrei condividerlo? »

Il doge si inclinò e abbassò la voce. « Posso fornirvi le informazioni riservate con cui fare di Venezia l'ultimo membro dei Territori Pontina. Quello che mi interessa di quel libro è attinente alla mia salute. Il resto è vostro. »

Borgia scrollò il capo come se non riuscisse a credere alla propria buona sorte. Alzò il bicchiere di vino. « Bevo alla vostra salute. »

Il doge toccò il bicchiere di Borgia con il proprio e bevvero. Quando le cameriere servirono il vitello alla salsa nepente,

Borgia esclamò: «Ah, ecco. Ora vedremo se il vostro chef merita le lodi sperticate che gli ha tributato Herr Behaim ».

Gli uomini mangiarono di gusto ma dopo aver lodato la pietanza ed essersi mostrati concordi sulla sua piacevole varietà di sfumature, diventarono assenti. Iniziarono le frasi senza terminarle, deviarono la conversazione su argomenti marginali e si concessero lunghi silenzi poco socievoli, ciascuno perso nelle proprie confuse fantasticherie. Solo nel momento in cui fu sollevato l'argomento delle buone maniere a tavola, i due conversero su una comune passione: la loro

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superiorità sui francesi. Avendo inventato la forchetta, la crema della società italiana guardava con sprezzo gli individui volgari che immergevano ancora le dita negli intingoli. « L'ultima volta che ho pranzato in Francia, re Carlo si è acquattato sul piatto come una gargolla » chiocciò Borgia.

Il doge rise sotto i baffi. « Tra una portata e l'altra, il conte Dubois si gratta le parti intime. »

« Lo so. » Borgia mosse su e giù la testa irsuta. « E ho dovuto chiedere a sua moglie di smetterla di annusare il mio piatto come un cane randagio. »

Il doge rischiò di soffocare dalle risate e il vino gli schizzò fuori dal naso. Prese fiato e disse: « Bisogna dirgli tutto: 'Vi prego, monsieur, non mettetevi lo stuzzicadenti nel colletto come se foste un uccello che trasporta un rametto nel nido' ». Si asciugò una macchia di salsa sul mento con il dorso della mano.

Borgia si diede una pacca sul ginocchio e ruggì: « 'Dopo esservi soffiata il naso, madame, non guardate nel fazzoletto come se vi fossero state depositate delle perle, ve ne prego' ». Si spostò sulla sedia per lasciar uscire un peto e spalancò gli occhi fingendo imbarazzo. « Minestra di fagioli, eh? » Scoppiò in una sonora risata.

Risero fino alle lacrime. Diedero colpi sulla tavola e recitarono a squarciagola una litania sulle consuetudini di quegli zotici dei francesi - la cucina spaventosa, i gusti squallidi nel vestire, le perversioni sessuali - ma non pronunciarono una sola parola sul libro.

Non m'aspettavo di vedere un altro veneziano a Roma e il

giorno dopo, quando arrivai sul pianerottolo di servizio per aiutare la cameriera a sgombrare, rimasi di stucco nel vedere Maffeo Landucci seduto sulla stessa sedia che il doge aveva occupato la sera prima. Il pranzo era terminato, ma gli uomini erano ancora immersi nella conversazione.

« Voi siete in vantaggio, Landucci. Probabilmente il libro si trova a Venezia e so che state facendo setacciare la città e le campagne dalle Cappe Nere » disse Borgia.

« Sappiamo bene che devono essercene numerose copie

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sparse qua e là. » Landucci estrasse dalla manica la sciarpa di seta grigia e con un colpetto eliminò un granello di polvere sulla tavola. « Vostra Santità ha controllato nella Biblioteca Vaticana? »

« Non siate ridicolo. » Landucci si strinse nelle spalle. « Il primo libro ci porterà agli

altri. Ma Vostra Santità sarà un temibile avversario ovunque lo si rinvenga. »

Borgia si sedette contro lo schienale e incrociò le gambe muscolose. « Ci potete contare. »

« È verissimo che, se le mie Cappe Nere lo scovassero per prime, sarei in una posizione privilegiata, ma il vantaggio potrebbe essere reciproco. »

« Cominciate a interessarmi. » Borgia teneva una postura rilassata, ma lo sguardo era fermo e penetrante.

Landucci posò i gomiti sul tavolo. « Se trovassi il primo libro, farei mostra di donarvelo. Dell'oggetto potreste fare ciò che vorreste, ma mi presentereste alle persone giuste, nel modo giusto. Non mi dilungherò sull'argomento. Sono più giovane di voi. Appoggiatemi come vostro successore. Procuratemi le relazioni appropriate. Dopo di che» si strinse nelle spalle, « quando per Vostra Santità giungesse il momento di chiedere la ricompensa eterna, potrei assicurarmi il papato con la promessa di fare di Venezia uno dei Territori Pontifici. Metterò in comune il libro in cambio del vostro sostegno nel Collegio dei Cardinali. »

« E se vivessi più a lungo di voi? » « In quel caso non avreste perso nulla. » Borgia si appoggiò allo schienale e soppesò Landucci con un

misto di disprezzo e rispetto. «Naturalmente non cerchereste mai di affrettare la mia dipartita dal regno terreno. »

« Vostra Santità, mi serve il vostro appoggio incondizionato. » Landucci afferrò il bicchiere di vino e lo alzò. « Bevo perché viviate sano e a lungo. »

I due predatori bevvero senza distogliere l'uno lo sguardo dall'altro. Dopo che Landucci se ne fu andato, Borgia sedette solo, curvo sul piatto vuoto. A un'ora più tarda udii le cameriere commentare lo strano fatto che il papa avesse trascorso un pomeriggio intero nei sotterranei della Biblioteca

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Vaticana. La nostra ultima sera a Roma, io e il mio maestro

passeggiammo lungo il Tevere. Il capocuoco Ferrerò giustificò la nostra assenza dalla cucina dicendo: «Non voglio andarmene da Roma senza aver reso omaggio alle sue splendide vedute». Lo chef castigliano lo allontanò con un gesto come si fa con un insetto fastidioso. A me parve un espediente: al mio maestro interessava la cucina, non l'architettura.

Come sospettavo, prestò poca attenzione alle fontane in cui l'acqua sgorgava e zampillava da gagliardi cherubini, o alle cattedrali riccamente ornate come torte nuziali. Ci aprimmo a stento un varco nell'incredibile viavai romano, nel formicaio brulicante degli abitanti. Roma ha la vivacità caratteristica dell'Italia e quel senso di allegra confusione. Le massaie litigavano con i venditori, i giovanotti si pavoneggiavano davanti alle belle ragazze, i bambini strillavano e sfrecciavano tra le gambe degli adulti. Una signora benvestita uscì da una bottega per controllare alla luce del sole la qualità di una pezza di stoffa, agitando un dito a mò di avvertimento all'indirizzo del negoziante. Un uomo che vendeva cocomeri gridò ai passanti: « Si mangia, si beve e ci si lava la faccia! » Vedemmo i ciabattini lavorare il cuoio e udimmo gli uomini cantare, le donne chiacchierare, il fabbro far risuonare il metallo sul metallo...

Borgia, o qualcosa che suggerisse la sua persona, compariva ovunque. Lo stemma gentilizio della sua famiglia, un toro furioso dorato in campo scarlatto, era appeso sui portali delle chiese, ai balconi e alle finestre dei negozi. Il vessillo papale sventolava alla brezza e sbatteva contro le mura di pietra grigia. Le ancelle di Borgia, suore che parevano barilotti, passeggiavano a coppie, e i suoi mercenari svizzeri incedevano tronfi nelle uniformi inamidate, con le sciabole che sbattevano sui fianchi.

Scorgemmo in ogni strada l'armata clericale di Borgia. Prima di tutto vedemmo un battesimo: un prete con la cotta di pizzo era seguito dai chierichetti con le ali d'angelo attaccate alle spalle e dai giovani genitori che tenevano in braccio un neonato urlante, da poco mondo dal peccato originale. Pochi attimi dopo, incontrammo un funerale: cavalli baldanzosi,

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addobbati di piume nere e ornamenti d'argento, trainavano un carretto accompagnato da un seguito di parenti in lacrime e, ovviamente, dal prete. Gli onnipresenti sacerdoti, i soldati spirituali di Borgia, scortavano il fedele dalla culla alla tomba.

Giunti al Tevere, sedemmo su un pendio erboso. Il capocuoco abbracciò le ginocchia e fissò il fiume. Disse: « Volevo parlarti, Luciano ».

«Anch'io volevo parlarvi, Maestro. Sapevate che Landucci è qui? »

Parve sorpreso, poi irritato. « Dio. Dovevo aspettarmelo. » « Oggi ha avuto un incontro con Borgia. Vuole cedere il libro

in cambio dell'appoggio del papa nel Collegio dei Cardinali. Vorrebbe essere il prossimo pontefice, ma al Consiglio ha detto di voler rovesciare Borgia. Sta facendo il doppio gioco. »

Il capocuoco scrollò la testa con tristezza. «Ti rendi conto che si azzuffano l'uno con l'altro come i topi per il formaggio? Nelle mani di uomini come questi, la civiltà andrà distrutta come è accaduto ad Atlantide. »

« Che cos'è Atlantide? » « Un'altra volta. » Mi mise una mano sulla spalla. « Ben fatto,

Luciano. Sei un pupillo prezioso. » Pareva soddisfatto del mio rapporto e decisi fosse il

momento adatto per affrontare l'argomento della promozione. « Maestro, il vostro mentore vi promosse dopo essersi confidato con voi? »

« Sì. » « Con tutto il rispetto, Maestro » portai le mani giunte al

mento, « come vostro pupillo, vi prego di promuovermi. » Assunse uno sguardo pensoso. « Hai ragione. » Non ero sicuro di aver sentito bene. « Quando torneremo a Venezia, sarai un cuoco addetto alle

verdure. Dante ti insegnerà» disse. Pensavo che avremmo discusso e afferrai a fatica l'idea che,

finalmente, ero davvero in procinto di conquistare una posizione. Mi immaginai cuocere a vapore gli spinaci e riempire i carciofi, e fui travolto dall'emozione. « Grazie, Maestro, mille grazie » dissi, non appena ci riuscii. La promozione tanto attesa mi era stata concessa, cosi, con semplicità.

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« Quando ti sei assunto la responsabilità di aver forzato il mio armadietto senza incolpare nessun altro, ho capito che eri un uomo. Oggi hai dimostrato di saper comprendere i maneggi con cui questi criminali si assicurano il potere. Sì, sei pronto. Diventerai un cuoco addetto alle verdure. »

« Vi ringrazio umilmente, Maestro. » Inspirai profondamente e in quel momento anche l'aria peccaminosa di Roma ebbe un sapore dolce. Mi sentivo potente, con la sensazione che stesse cominciando per davvero la vita che avevo sognato, e domandai: « Maestro, se conosceste un filtro d'amore che mi aiutasse a conquistare Francesca, me lo dareste? »

Il capocuoco schiacciò una zanzara molesta. « I filtri d'amore non esistono, Luciano. »

Merda! Perché continuava a mentire sull'argomento? « Ci sono cose più serie di cui dovremmo parlare. Se stai per

fare progressi in cucina, è necessario che tu li faccia anche in altri settori. Dimmi, che cosa pensi di Borgia? »

« Borgia è potente » risposi. « Potente, eh? È una parola che non rende l'idea. Borgia

esercita più potere di qualsiasi altro capo di Stato europeo. I re sono incoronati dal papa, e da questi detronizzati. I suoi mercenari svizzeri sono un esercito temibile, composto da migliaia di uomini. Ai suoi cardinali e vescovi vengono assegnate enormi tenute e ingenti risorse finanziarie. Sì, possiede ricchezza e forza militare, ma cosa pensi che sia a conferire a Borgia il potere che detiene? »

« Ha i soldi e l'esercito, che altro gli serve? » « Il popolo, Luciano. » Il capocuoco storse la mascella in un

modo che lo fece sembrare arrabbiato. « La Chiesa può perdere terre e denaro, ma i fedeli combatteranno sempre per farglieli riavere. Milioni di persone offrono come pegno a Roma la loro ubbidienza assoluta. Credono di aver bisogno della Chiesa per la propria salvezza e la Chiesa vuole che le cose restino così. »

« Capisco, Maestro. » « Bene. » Mi toccò il petto con delicatezza. « Ricorda, non

guardare in alto, guarda dentro. Lo ha detto Gesù. Lao-tse e Buddha dissero la stessa cosa. »

« Chi? » « Buddha e Lao-tse insegnarono molto tempo prima di Gesù.

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Ce ne sono stati tanti come loro — Epitteto, Zoroastro, Confucio, Aristotele - e portavano tutti i sandali. » Il capocuoco fissò il fiume e il suo sguardo si perse. « È una cosa curiosa, ma quando vedi un paio di sandali, il filosofo non può essere lontano. » Battè le palpebre e i suoi occhi misero di nuovo a fuoco. « I più saggi tra i maestri ci hanno detto di fare attenzione e di ridestarci. Intendevano suggerire che ci risvegliassimo alla divinità che è in ciascuno di noi. Immagina cosa accadrebbe se la gente facesse propria l'idea di non aver bisogno dei preti, ma soltanto di chi insegna. »

« Ne siete certo, Maestro? » «Assolutamente sì. E questo il compito dei Guardiani:

insegnare. Non ci limitiamo a raccogliere le conoscenze e a vegliare su di esse, le trasmettiamo. La domanda che devi porti è se sei disposto non solo a imparare, ma anche a insegnare. È una grave responsabilità. Alcuni nostri insegnamenti sono d'impaccio a uomini come Borgia e Landucci. »

« Forse il modo migliore di insegnare sarebbe rendere pubblici tutti i testi. »

« Non ancora. I Guardiani sono troppo pochi e i nostri mezzi troppo limitati. Ho voluto che tu venissi a Roma perché capissi qual è il potere schierato contro di noi. La nostra arma è la conoscenza. Nelle nostre file c'è chi sta cercando il modo di servirsi del nuovo procedimento di stampa per far circolare gli scritti proibiti, ma dobbiamo farlo con la massima segretezza fino a quando la marea della conoscenza sarà troppo impetuosa perché possa essere arrestata. Forse un giorno riusciremo a stampare i libri in meno tempo di quanto occorra per bruciarli, ma ora la stampa è troppo lenta, troppo pericolosa. Le persone sanno diventare sgradevoli quando sentono minacciato ciò a cui tengono di più, e questi uomini tengono moltissimo al proprio potere. Sei pronto a opporti a loro? »

Ostrega. Fino a quel momento non mi ero reso conto che avrei contrastato Borgia e Landucci, ma la passione del capocuoco era contagiosa. « Sì, Maestro, sono pronto. »

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Il libro delle cose invisibili Tornammo a Venezia dopo cinque giorni sfibranti passati su

un carro, sobbalzando sulle strade segnate dai solchi. In certi tratti la via era così impervia che, per evitare di riportare qualche ferita per i violenti sballottamenti, dovemmo scendere dal carro e metterci a camminare. L'attesa mi aveva fatto sopportare il viaggio d'andata ma, se il capocuoco non avesse narrato le sue storie, il ritorno sarebbe stato soltanto disagevole. Ferrerò parlò di scritti e di miniature recuperati in luoghi lontani come Babilonia e rinnovò l'imperativo di acquisire conoscenze ogni volta che se ne fosse presentata l'occasione.

I cavalli entrarono nella corte principale del palazzo a tarda sera e io smontai, esausto e riconoscente per essere tornato a casa. M'aspettavo che il capocuoco proseguisse per raggiungere la famiglia, invece scese dopo di me, togliendosi la polvere dai vestiti e borbottando di voler vedere in che modo Pellegrino avesse trattato la sua cucina.

Ci dirigemmo verso il cortile posteriore; lo seguii nella cucina disabitata. Acceso un lume, Ferrerò percorse la lunga stanza, facendo cenni di approvazione nel vedere i taglieri puliti e ispezionando il pavimento ben spazzato. Controllò che le marmitte sobbollissero al punto giusto e, tornato sui suoi passi, sbirciò nel serbatoio. « Madre mia! Non hanno cambiato l'acqua » gridò.

Fu allora che notai i secchi. Invece di trovarsi capovolti accanto al caminetto, stavano ritti dietro il serbatoio, ciascuno di essi parzialmente pieno di acqua fetida; unica macchia nella cucina altrimenti immacolata.

« Mettiti al lavoro, Luciano. » Il capocuoco indicò i secchi oltraggiosi e io li prelevai mentre lui toglieva il tappo del serbatoio, che usci con un risucchio. Il mio maestro osservò l'acqua scolare nel trogolo con un'espressione di disgusto. Trasportai fuori i secchi e buttai l'acqua stagnante sull'acciottolato. Come sempre, l'acqua mi sembrò perfettamente utilizzabile e brontolai tra me e me per l'irragionevole fissazione del capocuoco. Non vedevo l'ora di stendermi sul pagliericcio.

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Trovai il capocuoco in cucina, intento ad accatastare la legna nel caminetto che disponeva del braccio regolabile più robusto, indicò una larga pentola rotonda di ferro dicendo: « Riempila di acqua fresca mentre aumento la fiamma. Non c'è modo di sapere per quanto tempo l'acqua abbia ristagnato. Dobbiamo sbollentare i secchi ». Si muoveva con una certa pesantezza nelle braccia, aveva i lineamenti tirati e l'aria smunta, e sugli abiti gli si era incrostata la polvere del viaggio. Pareva stanco quanto me. « Maestro, posso farlo domattina? » domandai.

« No. » Con un piede spinse verso di me la pentola di ferro. Uscii borbottando e, mentre l'acqua fredda zampillava nella

pentola, sbadigliai. Essendo piena fino all'orlo, era troppo pesante da sollevare prendendola per il manico, e la trasportai tenendola tra le braccia e barcollando sotto il peso. il capocuoco mi aiutò ad appenderla al braccio regolabile dicendo: « Non possiamo correre rischi ».

« Che rischi? » Ansavo per la fatica. « A parte il fatto che i ratti potrebbero essersela bevuta a

sorsi? » « Ah. » Il capocuoco attizzò il fuoco e il fondo della pentola fu

lambito dalla punta azzurra delle fiamme. « Hai mai sentito parlare di Ruggero Bacone? » domandò.

« No, Maestro. » Grugnì. « Ma certo che non ne hai sentito parlare. Nessuno si

ricorda del Doctor Mirabilis. » « Dottore che? » «Doctor Mirabilis. Era in possesso di conoscenze proibite, un

mago fuori dagli schemi. » « Che cosa c'entra con il fatto di sbollentare i secchi? » Il capocuoco si sedette nel camino. « Ti racconterò una storia

» disse. Ostrega. Dopo cinque giorni passati sul carro aveva ancora

voglia di raccontare una storia? Adesso? Ma le sue storie erano sempre interessanti. Mi sedetti accanto a lui e ascoltai.

« Bacone nacque quasi trecento anni fa in Inghilterra. Essendo un frate francescano non gli era permesso pubblicare nessuno scritto senza l'approvazione della Chiesa. Naturalmente qualsiasi studio che elevasse la scienza al di

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sopra della teologia era proibito; a Bacone, uno scienziato brillante, fu impedito non soltanto di pubblicare, ma anche di insegnare. »

« Un insegnante che non ha potuto insegnare? » « Sì, una farsa. » Il capocuoco apri le mani e piegò la testa

come per dire: Cosa si può fare? « Bacone, però, aveva un alleato. A quei tempi sul trono papale sedeva un intellettuale francese -papa Clemente IV — che superò le restrizioni facendo scrivere a Bacone le proprie scoperte sotto forma di lettere al pontefice. Bacone spedì a papa Clemente trattati di logica, matematica, fisica e filosofia. I documenti giunsero a Roma, ma non furono mai pubblicati. Alla morte di papa Clemente, Bacone fu arrestato. »

Era una storia sulla falsariga di quelle che avevo udito negli ultimi cinque giorni; il tema era sempre lo stesso: la conoscenza era messa a tacere.

«Accusarono Bacone di stregoneria e lo segregarono per dieci anni in una cella di isolamento. Alcuni pensarono che avesse accolto di buon grado la sua sorte per continuare indisturbato le proprie ricerche, ma a un confidente rivelò di esservi andato spontaneamente perché gli avevano mostrato gli strumenti di tortura di cui si sarebbero serviti se avesse opposto resistenza. Era un uomo pratico. Aveva in mente di scrivere un'enciclopedia di tutto il sapere; tuttavia, ne comparvero solo alcuni frammenti e, dopo la sua morte, il nome di Bacone fu dimenticato in fretta.»

«Allora come fate a sapere... » « Bacone sarà anche stato isolato in una cella, ma doveva pur

mangiare. Una delle pochissime persone che rimasero in contatto con lui durante quegli anni produttivi fu il suo cuoco che, come avrai indovinato, era un Guardiano.

« Gli scritti preservati dal coraggioso chef sono sbalorditivi, Luciano. Ruggero Bacone calcolò la posizione e le dimensioni dei corpi celesti. Predisse la creazione di macchine volanti e di navi alimentate a vapore. Spiegò il processo di fabbricazione della polvere da sparo prima che Marco Polo la portasse dalla Cina. Studiò l'ottica, progettò strumenti per scrutare i cieli e ne disegnò altri per guardare in un bicchiere d'acqua. »

« Che cosa c'è da vedere in un bicchiere d'acqua? »

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« Bacone sosteneva l'esistenza di creature infinitesimali, organismi minuti, troppo piccoli perché si possano vedere e toccare, che si moltiplicherebbero nell'acqua stagnante. Questi demoni invisibili possono entrare nel corpo dalla bocca e far ammalare le persone. Trasportano epidemie e pestilenza e possono addirittura causare la morte. Ecco perché uso sempre acqua fresca. »

Guardai i secchi d'acqua e vi immaginai creature minuscole che si contorcevano di gioia maligna, si dimenavano sul fondo e risalivano strisciando le pareti, trasudando i loro umori ributtanti. Il solo pensarci mi fece star male e mi venne il mal di stomaco.

« Ma » proseguì il capocuoco, « gli scritti di Bacone affermano che la bollitura dell'acqua uccide le creature e rende i recipienti netti e sicuri. »

Continuò a parlare, aggiungendo particolari alle idee e alle teorie mirabili tratteggiate da quel genio, finché non udimmo un gorgoglio nella pentola e vedemmo levarsi le prime volute di fumo.

Mentre facevamo sobbollire i secchi, provai un palpabile senso di sollievo. Mi figurai le piccole, vili creature scomparire nel vapore, e per la prima volta rovesciai i secchi con la sensazione di aver compiuto un'impresa utile, piuttosto che sentirmi irritato per aver eseguito un compito vano. « Domani, sbollenta il serbatoio prima di riempirlo » disse il capocuoco.

« Sì, Maestro. » L'avrei fatto con gioia. « E adesso buonanotte. » Uscì dalla porta sul retro strascicando i piedi e io sedetti nel

camino, sorpreso dalla vastità delle sue conoscenze. Un giorno o l'altro, uomini saggi avrebbero studiato gli scritti di Ruggero Bacone e costruito le macchine volanti, le navi alimentate dal vapore, i congegni con cui misurare i cieli e gli strumenti con cui far brillare la luce sugli esseri infetti che si dimenano nell'acqua. Si sarebbero giovati della genialità di Bacone grazie al suo chef, un Guardiano, e avrebbero utilizzato quelle conoscenze per rifare il mondo. Mi sentii umile quando mi resi conio che anch'io avrei potuto far parte di quella onorevole società.

I Guardiani erano... fantastici. Tutti loro erano maestri

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strabilianti. Desiderai trovare un modo adatto a cominciare il mio

addestramento e dimostrare al Maestro che ne ero degno. Armato delle conoscenze acquisite durante i miei fallimenti e sapendo che l'ingrediente magico era l'uovo, decisi di sperimentare una ricetta che simboleggiasse i Guardiani.

Avrei creato un piatto dall'aspetto ordinario, una cosa semplice a cui nessuno avrebbe rivolto più di un'occhiata. Un piatto ingannevole, che sembrasse più innocente di quanto in realtà non fosse, e bianco come la giacca di un cuoco. Sarebbe parso disadorno, ma liquefacendosi in bocca avrebbe rivelato una consistenza e un gusto stupefacenti. Tra l'aspetto e il sapore doveva esserci una contraddizione netta. Soprattutto, avrebbe dovuto essere tanto delizioso da far impressione sul capocuoco che, forse, l'avrebbe incluso nel suo ricettario.

Incluso nel suo ricettario? Forse mi ero lasciato trasportare un po' troppo, però...

L'eccitazione mi rinfrancò e vagai per la cucina alla ricerca dei miei ingredienti. Per prima cosa, ovviamente, scodellai il brie. In un'altra terrina separai quattro uova e montai le chiare fino a renderle dense e spumeggianti. Bevvi i tuorli per non correre il rischio che scurissero il formaggio. Grattai lo zucchero di canna delle Indie perché era più dolce del miele e ne sarebbe servito di meno, il che a sua volta avrebbe ridotto le possibilità che bruciasse. L'amaretto si era dimostrato ottimo per creare un sottofondo inaspettato e lo versai allegramente, bevendone un sorso per congratularmi con me stesso. Aggiunsi la quantità di panna sufficiente a diluire il formaggio, la battei e ottenni una pastella densa, bianco-cremosa a cui incorporai le chiare montate a neve. Leccai il cucchiaio di legno e lo trovai più gustoso di quanto sembrasse. Perfetto.

Era il momento di mimetizzare il mio piatto. Non avrei usato una teglia quadrata e non l'avrei suddiviso a fette rettangolari tanto per annunciare: « Guardate! Qui c'è qualcosa di diverso! » Non avrebbe richiamato l'attenzione su di sé. Imburrai e infarinai una tortiera bassa e rotonda, come avevo visto fare a Enrico con i dolci più complessi, e versai la mia creazione. Rincalzai il fuoco nel forno a mattoni fino a ottenere una fiamma bassa e

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costante e posai la teglia su una grata alta. La tenni attentamente d'occhio, girando la mia creazione a distanza di qualche minuto perché cuocesse in modo uniforme. Le chiare d'uovo la fecero davvero gonfiare e rapprendere. Niente bolle né butterature. Nell'istante in cui acquisì una vaga doratura ai bordi, la tolsi dal forno. Quando ebbe riposato e si fu raffreddata, la rovesciai su un piatto da formaggio di terracotta e feci un passo indietro per ammirare il mio capolavoro.

Come avevo sperato, sembrava una semplice ruota di formaggio. Nessuno avrebbe indovinato che il formaggio, pastoso e poco digeribile, fosse stato alleggerito dalla meringa, e che dietro quel travestimento, bianco e innocente, si celassero lo zucchero delle Indie e l'amaretto. Lo coprii con uno strofinaccio pulito e lo lasciai sulla scrivania del capocuoco.

Il mattino dopo guardai il capocuoco sollevare lo strofinaccio

e aggrottare la fronte. « Chi ha lasciato il formaggio sulla mia scrivania? » I cuochi si strinsero nelle spalle e mi intromisi: « Non è formaggio, Maestro. Non volete assaggiarlo? »

Il capocuoco mi guardò con diffidenza, poi tagliò una fetta. Mi accorsi che era sorpreso dalla facilità con cui il coltello vi era penetrato e dalla mancata resistenza offerta dal « formaggio ». Si portò la fetta al naso chiedendosi: « Mandorle? » Ne staccò un morso e non appena la fragile crosta bianca cedette e l'interno cremoso, succulento e fragrante gli riempì la bocca, il suo viso si schiarì. « Che cosa... che cos'è, Luciano? »

Mi avvicinai e abbassai la voce. « Sembra ordinario, ma non lo è. Come i Guardiani. »

Il capocuoco staccò un altro morso e chiuse gli occhi masticando. « L'hai cucinato tu? »

« Sì, Maestro. » Ero così impaziente per il suo verdetto che mi sorpresi a spostare il peso da un piede all'altro. «Vi piace? »

Il capocuoco masticò lentamente e annuì. « È molto raffinalo, Luciano. Credo che valga la pena... conservare la ricetta. »

« Grazie, Maestro. » Volevo dire a tutti che avevo creato una nuova ricetta ingegnosa e spiegarne il significato; poi mi resi conto che non avrei mai potuto farlo. Fu il primo indizio di che

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cosa significasse essere un Guardiano. « Più tardi mi spiegherai il tuo metodo e lo trascriverò. Mi è

rimasto giusto lo spazio per annotare la tua ricetta» disse. Ci scambiammo uno sguardo e capii di averlo compiaciuto. « Come dobbiamo chiamare la tua sontuosa creazione? » domandò.

« Non lo so, Maestro. » Non mi ero spinto fino a quel punto. « Un nome semplice, direi. » Mangiò un altro boccone e

sorrise. « Che ne dici di 'torta al formaggio'? » « Sì, Maestro. » In un cantuccio della mente avevo sperato

che attribuisse al mio primo successo culinario una denominazione più grandiosa, quale La magnifica torta al formaggio di Luciano, ma convenni di malavoglia che avrebbe annullato lo scopo.

Quel pomeriggio il capocuoco riunì il personale della cucina e, come un re che conferisce un cavalierato, annunciò: « Sono trascorsi tre mesi e Luciano ha completato il suo apprendistato. Adesso è un cuoco addetto alle verdure ». Mi adattò una morbida berretta bianca. Dava la stessa sensazione di una corona e impartii immediatamente al cappello un'inclinazione impudente. Non potrei dire che sorrisi; direi piuttosto che la gioia mi trasformò il volto. Sentii gli occhi incresparsi, le orecchie spingersi all'indietro, le guance tirare e il respiro passare su denti e gengive usciti allo scoperto. Doveva essere stato un sorriso davvero smodato perché il capocuoco mi raddrizzò la berretta e disse con calma: « Moderazione, Luciano ».

I cuochi fecero un cenno con il capo e ripresero il lavoro: passare da apprendista a addetto alle verdure era un avanzamento già previsto. Teresa posò lo scopettone per lanciarmi un bacio ed Enrico mi fece un sorriso gentile, ma non appena il capocuoco si scostò, Giuseppe mi puntò addosso la mano con l'indice e il mignolo alzati. Lo ignorai e mi sistemai accanto a Dante nella postazione delle verdure.

Quella sera stessa feci l'ingenuo tentativo di placarlo. Lo attesi nel cortile posteriore e quando uscì sorrisi e aprii i palmi dicendo: « Giuseppe, che cosa ti ho fatto? Avanti, non possiamo essere amici? » Avrei dovuto fermarmi a quel punto, invece, preso dall'entusiasmo, non mi accorsi che il suo viso si andava rabbuiando. « Vivi e lascia vivere, no? »

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Giuseppe mosse contro di me e si avvicinò al punto che gli vidi i pori untuosi della faccia. Timoroso di muovermi, lasciai scorrere lo sguardo avanti e indietro nella speranza di vedere qualcuno uscire dalla cucina, qualcuno che potesse impedire a un pazzo ubriacone di spezzare il collo a un ragazzo e buttarlo in un canale. Sibilò: « Bastardo! » La parola ingiuriosa mi inzaccherò le guance di sputo e il suo alito pestilenziale mi fece sussultare.

«Tu e Domingo mi fate venire il voltastomaco. Non avete un padre, non avete un nome, non siete niente. Ma quello scemo di mio fratello e quello scemo del capocuoco vi trattano come figli. » I suoni sibilanti produssero una nuova raffica di sputi che mi fecero battere le palpebre. « E adesso saresti un addetto alle verdure? Che cos'hai di speciale tu, eh? » Giuseppe mi afferrò il naso tra le nocche, lo torse con forza e lo tenne. Strinsi i denti per non singhiozzare. Lo strinse per un minuto spremendolo mentre cercavo di liberarmi, e lo lasciò andare come se si stesse scrollando di dosso qualcosa di nauseabondo. Se ne andò impettito borbottando: « Sta attento, bastardo, Giuseppe ti tiene d'occhio».

20

Il libro di Francesca

« Ti sono mancato? » Incredibilmente, Marco parve felice di

vedermi, anche se non l'avrebbe mai ammesso. « Com'era Roma? »

« Corrotta. » « Ti sarai sentito a casa. » « Peggio di Venezia. » « Non è possibile. » Sedevamo sulla riva di un canale, un rio tranquillo che

portava a Rialto. Sbrigate le commissioni per il capocuoco, avevo portato a Marco un pezzo di torta al formaggio. Provai piacere per le lodi che profuse alla mia creazione, ma non gli dissi che era opera mia. La mia sorte, sempre più baciata dalla fortuna, mi faceva sentire in colpa se paragonata al suo destino disgraziato. Non gli dissi neppure che avevo ottenuto

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la promozione a cuoco addetto alle verdure; provava già abbastanza invidia.

Parlò con la bocca piena di torta al formaggio. « Ascolta, testa di cavolo, ho parlato con certa gente di quello che c'è nell'armadietto del capocuoco. Hai presente quel cereale che dicono non si coltivi più? Bè, si coltiva eccome e lo puoi comprare proprio qui a Venezia, se hai abbastanza soldi e sai dove cercarlo. »

« Parli dell'amaranto? Sei una rapa. » «Sì, l'amaranto. E indovina a che cosa serve? » «A fare il pane. » « Te lo vuoi far credere lui. Lo chiamano la pianta

dell'immortalità è magico. » « Marco, è una cosa ridicola. » Mi sentii in imbarazzo, però,

perché mi venne in mente la risata dello scrivano all'idea che la pianta dell'immortalità fosse estinta e, inoltre, avevo visto un sacco di amaranto nella cantina sotterranea del capocuoco. Marco aveva ragione a proposito della reperibilità del cereale. Bisognava che lo distraessi. « Indovina cosa c'è nella cucina di Borgia. »

« Non cambiare argomento. » Mi lanciò uno sguardo sprezzante. « Senti, ho parlato con un mucchio di persone e ti dico che gli antichi greci conoscevano il modo di usare l'amaranto per prolungare la vita. » Mi assestò una stoccata malevola. « Scommetto che lo conosce anche il tuo capocuoco. »

Dio. « Marco, ti capita di vedere in giro qualche greco immortale? »

Alzò le sopracciglia. « Come farei a saperlo se anche lo vedessi? Comunque, non è tutto. L'oppio non è un ingrediente per le minestre, testa di cavolo, è un potente analgesico. Si compra dallo speziale, ma c'è chi lo usa per il proprio piacere, poi non riesce a smettere di prenderlo e finisce per morirne. L'oppio non è un ingrediente da tenere in cucina. »

Maledizione. Avevo sempre ammirato Marco per l'intraprendenza, per la capacità di scoprire le cose, combinarle e utilizzarle a proprio vantaggio. Adesso però si stava servendo della propria ingegnosità per portare alla luce i segreti del capocuoco e la cosa mi spaventò. Dissi: « Non sai di che cosa parli ».

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Marco si appoggiò sui gomiti. « Pensala come ti pare, ma quell'essere meschino del tuo capocuoco ha in ballo qualcosa e io voglio sapere che cos'è. »

«Marco... » « Apri gli occhi! Penso che il tuo capocuoco sappia qualcosa

del libro e finirà per farsi catturare. Le Cappe Nere sono dappertutto. » Si passò una mano di taglio sulla gola. « Noi, invece, siamo invisibili. Non siamo nessuno. Se trovassimo il libro, potremmo squagliarcela. Faremmo un favore al tuo capocuoco. Se compra l'oppio, non è innocente. »

Mi si torse lo stomaco. A quanto pareva, Francesca pensava che l'oppio nella minestra fosse una battuta e il capocuoco non spiegava a cosa gli servisse. Se l'oppio non aveva impieghi in cucina, perché lo teneva? Era possibile che i Guardiani si proponessero un obiettivo più sinistro di quanto mi aveva detto il capocuoco? Si stava preparando a farmi partecipe di un disegno abietto? Non sapevo che utilizzo facesse dell'oppio, ma non potevo permettere che Marco capisse quanto ero confuso. Dissi:

« Le Cappe Nere non sono interessate al capocuoco e non dovresti esserlo neanche tu».

« Sotutto, eh? » Si rivolse a me inclinando la testa. « Sotutto sa bene che cosa interessa alle Cappe Nere. Ascoltami bene, signor Sotutto. Mi procurerò quel libro, con o senza di te. » Si fece passare la mano sotto il mento.

« Marco, non so cosa abbiano in mente le Cappe Nere, ma la parola che ho copiato non era 'amaranto'. Era 'amanita', un fungo. E il capocuoco tiene l'oppio per i dolori. Soffre di emicrania. »

« Non ci casco. Cerchi ancora di proteggere il tuo capocuoco, eh, schiavo? »

« Schiavo? » Ostrega, doveva per forza pungolarmi a quel modo? « Per tua informazione, sono stato promosso cuoco addetto alle verdure. » Me ne pentii immediatamente, ma era troppo tardi.

Si tormentò una crosta sul braccio. « Quando avevi intenzione di dirmelo? Pensavo che fossimo soci. »

« Marco, non abbiamo nessun motivo per metterci in società. Il capocuoco non sa niente di alchimia e io non so niente di

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niente. » Evitai il suo sguardo. «Sei impossibile, testa di rapa. Lascia perdere, eh? »

Allontanandosi, disse forte: « Non finisce qui, Luciano. Sei ancora in debito con me ».

Non stavo nella pelle per il desiderio di comunicare la mia

promozione a Francesca e mi diressi verso la strada delle olive. Addetto alle verdure. Non poteva che restarne impressionata. Volevo vederla spalancare gli occhi e illuminarsi in volto con quel sorriso seducente. Poi me ne rammentai: le avevo mentito, dicendole che ero già un cuoco addetto alle verdure.

Mi arrestai davanti a un negozio di tappeti, cercando di improvvisare un pretesto per parlare con lei. Udii provenire dall'interno il ticchettio dell'abaco con cui il mercante calcolava il prezzo di una pedana per una donna, che gli stava accanto carezzandone il bordo dal disegno elaborato. Il negoziante si intratteneva ogni giorno con le donne, che volevano sentirlo parlare dei suoi tappeti. Di che cosa voleva sentir parlare, Francesca?

Della vita. Bloccata in un convento, e avida di particolari del mondo,

avrebbe divorato i pettegolezzi sul libro: il doge alla ricerca dell'immortalità, le imboscate delle Cappe Nere per conto di Landucci. Avrei potuto raccontarle il mio viaggio a Roma dove avevo visto Borgia in persona e un leopardo nella sua cucina. Avrei intessuto storie per sorprenderla e sbalordirla. Filai per la strada delle olive guardando in ogni dove, scrutando i clienti di ogni banco, ma non c'era. Forse quel giorno stava facendo la spesa altrove. Mi feci largo a gomitate tra i banchi dei pescivendoli, dove la luce del mattino faceva brillare le sardine come monete d'argento. Mi aprii a forza un varco nella confusione dei banchi delle verdure e dei carretti della frutta, dove l'aria profumava come un frutteto permeato di sale. Le folle che si muovevano in massa a Rialto riunivano in uno stesso luogo greci, tedeschi, turchi, africani, arabi e orientali, un condensato di tutta Venezia... ma non v'era traccia di Francesca. Dopo aver corso avanti e indietro nel dedalo delle calli, mi ritrovai ancora una volta nella strada delle olive.

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Venezia, l'imbrogliona, mi aveva giocato uno dei suoi tiri. Mi trascinai su un molo sconquassato e sedetti a guardare

un gondoliere: la maglietta a strisce rosse era lucente contro il cielo azzurro e la gondola fendeva le verdi acque che increspandosi solleticavano la prua. Le campane della chiesa chiamarono a raccolta per le preghiere di metà mattina e mi resi conto di che ora fosse. Balzai in piedi e attraversai in fretta la strada dei panettieri dove individuai la corpulenta Madre Superiora che la percorreva, sudata e infastidita, seguita da una novizia sconosciuta dal viso terreo che portava una cesta colma di pani e panini. Probabilmente Francesca era ancora in punizione per essersi mostrata troppo amichevole nei miei confronti.

Avevo terminato le commissioni e volevo sapere dove vivesse. Decisi di seguirle a casa.

Il convento era un palazzo dalle finestre a ogiva. Si ergeva alle spalle di un canale tranquillo, nascosto da un arcigno muro di pietra coperto da una cascata di gelsomini, una profusione di foglie verde scuro e di minuscoli fiori a raggiera, bianchi come il velo di una sposa. Probabilmente era stato costruito come seconda residenza di un mercante turco e le stanzette dell'harem erano state convertite senza difficoltà in celle per le suore. Le sale più grandi, progettate in origine per il piacere, erano ideali per servire da stanze comuni e da cappelle.

La Madre Superiora salì al cancello di ferro battuto; mentre girava nella serratura una chiave massiccia, tra gli arabeschi del metallo scorsi Francesca. Era inginocchiata in giardino e stava estirpando le erbacce con aria annoiata. Alzò lo sguardo quando sentì aprire il cancello, e mi vide, mentre la salutavo alle spalle della Superiora. Nel momento in cui il cancello stava per chiudersi, le indicai una porticina laterale di legno e, prima che tornasse al lavoro, pensai di aver colto un cenno quasi impercettibile. Non ne ero del tutto sicuro, ma...

Non potevo correre il rischio di non vederla, di non poterle parlare da solo. Mi sedetti per terra sotto un ammasso di gelsomini pendenti e mi appoggiai al muro antico. Me la figurai uscire alla chetichella dalla porta laterale e l'attesa mi provocò un brivido di piacere. Temendo di essere scoperti, avremmo bisbigliato con le teste vicine in una deliziosa collusione.

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Il tempo passò e calò l'eccitazione. Il capocuoco sapeva che i miei amici vivevano per strada e, fintanto che avessi terminato il lavoro della giornata, mi avrebbe concesso un po' di tempo supplementare. Essendo un cuoco, avevo diritto a un pizzico di libertà in più di quand'ero apprendista.

Mi appoggiai comodamente al muro allungando le gambe e mi misi a strappare i fiori bianchi. Il caldo umido, il dolce sciabordio dell'acqua e il profumo intenso del gelsomino, combinandosi, mi fecero scivolare come una ninnananna in un sonno leggero.

Quando la campana del convento batté il mezzogiorno destandomi di colpo, mi ritrovai circondato da una manciata di fiorellini bianchi e, alzato lo sguardo, vidi il sole a perpendicolo sopra di me. Mancavo dalla cucina da più di un'ora e l'ansia mi rese inquieto. Andai alla porta di legno e sbirciai nella piccola apertura rettangolare intagliata ad altezza d'occhio. Non v'era traccia di Francesca.

Dovevo restare, rischiando di suscitare le ire del capocuoco, o andarmene e non vedere Francesca? Prigioniero della speranza, andai avanti e indietro allestendo un racconto degli ostacoli che avevo incontrato durante il disbrigo delle faccende: file interminabili al mercato, una processione ecclesiastica che aveva bloccato la strada, vecchi amici che mi avevano fermato per salutarmi. In capo a un minuto, grazie a Dio, cigolando la porticina si aprì quel tanto da incorniciare il suo viso, amabile come l'alba. Sussurrò: « Abbiamo due ore di siesta. Io non riesco a dormire e faccio il mio pizzo, ma detesto il silenzio ». Lanciò una rapida occhiata sopra la spalla. « Fà presto, non posso farmi sorprendere. »

Il vederla mi rese all'istante uno stupido. « Hai rischiato per me?»

Rise, e fu un suono argentino, simile al tintinnio dei campanellini. « Pensavo che avessi qualcosa di importante da dirmi. »

La sua aria divertita e distaccata avrebbe messo sul chi vive un uomo razionale, ma... « Oh, ce l'ho. Molto importante. »

«Allora? » Si bagnò le labbra con una lingua rosa da gattino. Ostrega, quella lingua mi turbava. « Tutti cercano un libro

che contiene una formula per fabbricare l'oro. »

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« Alchimia? Bah. » Far colpo su di lei non era facile come avevo sperato.

Incalzai: « Non basta, c'è chi dice che nel libro vi sia la formula per l'eterna giovinezza ».

Il suo viso si fece immobile, e poi rise di nuovo. « Che sciocchezza. »

« No. Sono stato a Roma. So di cosa parlo. » « Roma? » Finalmente si era incuriosita. « Cosa sai? » « Tutti vogliono il libro. Sono state offerte delle ricompense. » « Non ne ho sentito parlare. » Si imbronciò. « Qui sembra di

vivere in una tomba. » « Il doge e il Consiglio dei Dieci hanno offerto una ricompensa

e persino Borgia l'ha promessa. Soldi, un seggio al senato, addirittura la porpora cardinalizia. »

« Sono grosse ricompense. » Adesso mi prendeva in considerazione. « Che altro sai? »

Il suo interesse mi rese incauto. « Dicono che il libro contenda, i segreti dell'alchimia e dell'immortalità. Sono impegnato in prima persona nella sua ricerca. Ho già qualche indizio. » Raddrizzai le spalle. « Se lo trovassi, potrei tirarti fuori dal convento. Ti andrebbe? »

« Sì, ma... che cosa vuoi da me? » « Voglio farti felice. Non ti piacerebbe essere ricca? E non

invecchiare mai? » Sentii un vago senso di disagio per essermi spinto così in là.

Storse la bocca. «Adesso sì che ti stai prendendo gioco di me. È crudele da parte tua, lo sai? Non hai niente di meglio da lare? » Si aggiustò il velo. « Perché inventi queste storie? » Il tono era piagnucoloso, ma c'era la speranza nei suoi occhi e l'esitazione nella sua voce. Voleva crederci.

« Io non invento niente. Non avrebbero offerto quelle ricompense se in quel libro non ci fosse qualcosa di straordinario. » Aveva il respiro corto... oppure ero io ad averlo? « In giro si parla davvero di alchimia e di immortalità. Non è piacevole pensare di poter avere tutto l'oro che si desidera? E se fossi immortale... »

« Non ci sarebbe l'inferno. » Le scintillarono gli occhi. « Non ci sarebbe l'inferno? » Non mi era venuto in mente. Aprì un po' di più la porta e si avvicinò quel tanto da farmi

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sentire il suo fiato di mela verde e l'odore di sapone nei capelli. « Perché sei venuto a raccontarmelo? »

«Ti ho guardata. Sei così bella... vorrei portarti nel Nuovo Mondo. »

Le si illuminò il viso. « Il Nuovo Mondo? Ne ho sentito parlare. » La bella bocca si sollevò in un sorriso complice. « Sarebbe eccitante. »

Poi fece un passo indietro e mi squadrò, non come aveva fatto lo scrivano, ma con attenzione, con lentezza, prendendo deliberatamente nota di ogni particolare. Il suo sguardo si soffermò sulla mia voglia, sulle spalle e sui fianchi, esaminando, valutando, soppesando, giudicando... Fu atroce. Infine, scosse lentamente il capo. « No » disse, « non ti credo. » Tornò a darsi un'occhiata alle spalle. « Devo andare. »

Cercò di chiudere la porta, ma la tenni aperta con un piede e mi sporsi dentro. Dissi: « Non è un'invenzione. Potresti venire via con me. Pensaci ».

Fece balenare un sorrisetto perfido. « Parlare non costa nulla. Fammi vedere qualcosa. » Poi mi spinse fuori e chiuse la porta.

Farle vedere qualcosa? Arretrai affascinato e speranzoso. Se mi fossi impadronito del filtro d'amore, allora sì che le avrei fatto vedere qualcosa. Tornai al lavoro inciampando nei ciottoli della pavimentazione e andando a sbattere contro i passanti, ebbro all'idea delle possibilità che mi si presentavano.

Quando entrai in cucina, il capocuoco mi apostrofò: « Ce ne hai messo di tempo ».

« Sono andato a trovare qualcuno. Un amico. » Piegò la testa e mi guardò con sospetto. « Sei rosso. » Mi tolse

un gelsomino dalla spalla. « Sei stato al convento. Con lei. » « Ma... sì. Dovevo vederla. Non potevo non farlo. » Si mise una mano sul viso e per un attimo distolse lo

sguardo. Poi disse: « Sono stato giovane anch'io e ho amato qualcuno con la tua stessa intensità, ma, Luciano... ».

« Lo so. Lo so. Non la vedrò più durante l'orario di lavoro. » « Ah, Luciano. Perché una suora? » « Cambierò questa situazione. » « Dio. C'è Dante che aspetta. Sono sicuro che ti farà sapere

cosa pensa dei cuochi pigri. Adesso và. »

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Dante diede sfogo a una sequela di commenti caustici sull'inutilità di sprecar tempo con i ragazzi incompetenti e immeritevoli, e mi scaricò davanti una montagna di cipolle con l'avvertimento di « fare in fretta e farlo bene, altrimenti... » Ci mettemmo ad affettare a ritmo sincronizzato.

Tac, tac, tac. Fammi vedere qualcosa. Va bene. Tac, tac, tac. Le avrei fatto vedere qualcosa. La domenica entrai nella chiesa di San Vincenzo lavato,

pettinato e deciso a fare una buona impressione. Disdegnai di rannicchiarmi in fondo insieme ai monelli e ai mendicanti. Ero un cuoco. Percorsi con spavalderia la navata centrale, sentendomi un nano accanto alle colonne romaniche e agli archi gotici, ma procedetti a petto in fuori e a testa alta. Sedetti in una panca centrale, ben visibile dal capocuoco e dalla sua famiglia. La matrona benvestita che era già seduta nella panca mi guardò dall'alto in basso, si alzò irrigidita e si sistemò in un altro sedile. Ne incolpai la voglia. Avevo scordato che senza la giacca da cuoco e la berretta ero solo uno dei tanti orfani.

In piedi, seduto, in ginocchio, in piedi, in ginocchio... mi sembrava di essere una marionetta. Era possibile che Dio si interessasse fino a quel punto della mia postura? E perché il prete enunciava con voce monotona i suoi incantesimi in una lingua che nessuno capiva? Ma, mi dissi, è così che fanno le persone rispettabili. Eppure, durante l'ora di prigionia, pregai soltanto di essere liberato. Quando finalmente il prete uscì di scena e i fedeli inginocchiati si alzarono in piedi, mi slanciai nella navata centrale per intercettare la famiglia del capocuoco.

Amato Ferrerò stava aiutando la moglie ad alzarsi e la donna, nel vedermi, lanciò al marito uno sguardo interrogativo, come per domandare: Ancora lui? Il capocuoco disse: « Mia cara, porta fuori le bambine, ti raggiungo tra un attimo ».

« Ma certo » disse lei a denti stretti. Ritta nella navata, fece cenno alle figlie di alzarsi dalla

panca. Sfilarono davanti al padre che carezzò ogni visino bordato dal velo di pizzo. La signora Ferrerò indugiò il tempo necessario a darmi un'occhiata che mi abbrustolì le sopracciglia, ma promisi a me stesso che col tempo l'avrei

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conquistata. Non appena io e Francesca fossimo stati sposati, la signora Ferrerò mi avrebbe considerato un uomo tutto famiglia, si sarebbe dimenticata che ero stato un ladro e addolcita nei miei confronti. Forse il Nuovo Mondo poteva attendere. Forse avrei potuto lavorare per il capocuoco e, se io e Francesca avessimo avuto una figlia, magari l'avremmo chiamata Rosa. Forse, come diceva il capocuoco, a tempo debito tutto sarebbe andato a buon fine, ma non quel giorno. Quel giorno la signora mi guardò torva con un'intensità che avrebbe bruciacchiato le penne a un pollo, e spinse lontano le figlie con un'andatura rapida e irriverente.

Guardingo, feci due passi verso il capocuoco e intrecciai le mani sul petto come un penitente. « Maestro, sono venuto a chiedervi umilmente di concedermi la stessa felicità di cui godete nella vostra famiglia. Sapete che amo disperatamente Francesca. Sapete che è in convento. Ho bisogno del vostro aiuto, Maestro. Credo che nei vostri scritti segreti vi sia una pozione e vi prego, in nome dell'amore, di farmene partecipe. Se perdo lei, morirò. »

Il capocuoco alzò gli occhi sulla scena celeste dipinta nel soffitto della chiesa. Esclamò: «Dio». La testa si abbassò e disse: « Dopo tutto quello che ti ho spiegato, non riesci a pensare ad altro? Questa infatuazione... »

« No, Maestro. » La fermezza della mia voce sorprese anche me. « Non è infatuazione. È amore. Voi avete gli scritti segreti, una moglie, le figlie, la cucina e una posizione nella società. Io ho un gatto e un sogno. Non è equo. »

«Adesso vuole giustizia. Chi te l'ha detto che la vita è equa? » Per poco non singhiozzai. « Non c'è niente di sbagliato in

quello che voglio. » « Lo so che non c'è niente di sbagliato. » Sospirò. « Ma non

esistono pozioni che facciano ottenere quello che vuoi tu. » « Sono convinto che il filtro d'amore esista. » Il capocuoco si ravviò i capelli. « Probabilmente hai sentito

parlare di un afrodisiaco e pensi che sia un filtro d'amore. Sì, gli afrodisiaci esistono, ma nessun afrodisiaco farà innamorare di te Francesca. »

Credetti che mi stesse imbrogliando con le parole. « Chiamatelo come volete. »

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Gli ultimi fedeli se ne erano andati ed eravamo rimasti soli nella chiesa cavernosa. Il capocuoco mi fissò per un attimo, e poi disse: « Comprendo la tua ossessione. La comprendo fin troppo bene. Non puoi proprio lasciarla andare, eh? »

« No, Maestro. » « Capisco. Ma, Luciano, nessun filtro d'amore la farà

innamorare di te.» «Allora, che male c'è a darmelo? » « Sono certo che ne rimarrai deluso. Immagino, però, che

rimarresti deluso qualsiasi cosa io facessi. » « Vi prego, Maestro. » « Forse il modo migliore per convincerti è far sì che tu lo

capisca da solo.» Il cuore fece un balzo. « Me lo darete? » « Soltanto se prometti di ricordare quello che ti dico: nessuna

pozione farà innamorare qualcuno di te. » « Grazie, Maestro, grazie. » « Va bene » concluse. « Domani notte. »

21

Il libro del frutto proibito La notte seguente mi svincolai da Bernardo senza svegliarlo,

sgusciai fuori dal giaciglio e scesi in cucina in punta di piedi. Il capocuoco era addormentato sulla scrivania e lo scrollai dolcemente per una spalla. « Maestro, è ora. »

Sbadigliò e si stirò, tolse assonnato la chiave dalla catena che portava al collo e strascicando i piedi si avviò all'armadietto per prendere l'artefice dei miei sogni. M'aspettavo che mettesse insieme una serie di ingredienti segreti e rimasi un po' male quando tornò con una bottiglietta di liquido nero e un bottoncino marrone raggrinzito, non più grande di un'unghia. Sembrava un pezzetto di fungo secco.

Li dispose sul tagliere e diede dei colpetti alla bottiglia. « Caffè » disse, « dall'Arabia. I turchi chiamano 'frutto della lussuria' i chicchi del caffè. » Si grattò la nuca e tornò a sbadigliare. « Ma io non

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sono convinto che sia opera del caffè. » Sollevò la bottiglia e ne fissammo entrambi la torbidità. « Tosta i chicchi e frantumali in un mortaio, poi versa acqua bollente sulla polvere e lascia riposare. Questo l'ho preparato a casa. » Stappò la bottiglia e le mie nari furono invase dall'odore affumicato che somigliava alle caldarroste. Era proprio quello che avevo sentito sul balcone della sua camera da letto. Finalmente!

Riempi una tazza di caffè nero, denso, e vi lasciò cadere il bottoncino raggrinzito. « Lasciamo che si ammorbidisca mentre facciamo lo sciroppo. Il caffè è amaro e la sostanza che abbiamo aggiunto lo rende ancora più amaro. »

« E un fungo secco? È l'amanita? » « Oh, smettila. È peyote e proviene dal Nuovo Mondo. Deriva

da una pianta chiamata 'cactus sacramentale' e i suoi effetti sono simili a quelli prodotti dal vino. Se preso in eccesso, fa star male. Lo usiamo con parsimonia. »

Il capocuoco mescolò acqua e zucchero di canna in un tegame; fece bollire fino a ottenere uno sciroppo e lo versò nel caffè. Spappolò il peyote ammorbidito con una forchetta, mescolò, versò in una caraffa e intappò. Mi porse la caraffa dicendo: « Scuoti prima di bere e, per favore, solo un sorsetto ».

« Tutto qui? » Non riuscivo a crederci. « Che t'aspettavi, un soufflé? » Presi la caraffa e la esaminai. I frammenti del peyote

schiacciato si stavano ancora depositando e vagavano per la nera miscela di caffè come una polvere magica.

Il capocuoco disse: « Non voglio farti credere a un imbroglio, Luciano. Bisogna che te lo dica chiaro e tondo. Tu sei convinto che questa bevanda faccia innamorare, lo so. Non è vero ».

« Ma è un filtro d'amore. » « No, è una mistura di droghe. Proverai sensazioni strane,

ma sono fasulle e transitorie. Cerca di capire che l'amore è la maturazione dell'onestà reciproca, delle verità profonde che le persone sanno dirsi l'una all'altra. Viene col tempo. Questa droga non farà innamorare nessuno. Se ne prendi troppa, potrebbe addirittura darti un'indisposizione. Una piccola quantità può avere l'effetto di un afrodisiaco, ma soltanto sulle persone che già provano desiderio l'una per l'altra. Non crea

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nulla; intensifica le sensazioni già esistenti. » Pensai: Filtro d'amore o afrodisiaco... bah, soltanto parole.

Vidi me e Francesca travolti dalla passione. Domandai: « Basta per due? »

« Ce n'è abbastanza per una folla. Un sorsetto sarà più che sufficiente. Adesso buonanotte. » Uscì dalla porta sul retro con passo pesante, borbottando: « Una notte di sonno sprecata per metà, e per una sciocchezza».

Squadrai la caraffa scura. Ce n'era ben più di quanto servisse per una prova, dunque l'agitai vigorosamente, stappai e l'assaggiai. Aveva un sapore dolceamaro, come aveva detto il capocuoco, ma non era sgradevole. Inclinai la testa all'indietro e ne bevvi un bel sorso.

Ebbi immediatamente un attacco di panico e mi parve di aver inghiottito veleno. Volevo credere che fosse un filtro d'amore, ma... era mai possibile che il fungo fosse un'amanita? Perché mai l'avrebbe fatto? Per darmi una lezione? Dovevo cacciarmi le dita in gola e vomitare? No, il capocuoco non avrebbe mai avvelenato nessuno. Mi appoggiai una mano sul petto per calmare il rumore sordo che sentivo lì dentro e mi sforzai di fare respiri profondi. Rimisi il tappo alla caraffa, salii sul tavolo accanto alla porta che dava sul cortile, e spinsi il mio bottino in un recesso sopra l'architrave. Scesi con un salto e sbirciai da varie angolature per accertarmi che il mio tesoro fosse ben nascosto. Stavo allungando il collo per guardare sopra l'architrave quando sentii le labbra intorpidirsi lentamente. Il petto si soffuse di calore mentre le gambe erano percorse da ondate di freddo. Udii un suono che somigliava a una forte vibrazione e mi guardai intorno, ma apparentemente proveniva da sotto la pelle.

Mi vennero le vertigini. La stanza ondeggiò, il calore si spostò dal petto allo stomaco trasformandosi in acidità. La nausea mi colpì come una mazzata e mi piegai in due gemendo. Chiusi gli occhi e nella mia testa il mondo cominciò a girare. Pensai: Ostrega, mi ha avvelenato sul serio. Poi i pensieri si fecero confusi. Provai a rigettare nella speranza che il fluido nero, velenoso, fuoriuscisse dalla mia bocca. Ci riprovai, ma non venne su nulla. Mi stesi gemendo sul pavimento di pietra. Non so per quanto.

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Con la stessa rapidità con la quale era arrivata, la nausea passò e fu sostituita da un'intensa lucidità mentale. Mi raddrizzai, insolitamente vigile e rinvigorito. Le vibrazioni erano sparite e al loro posto udii i passi di una formica che attraversava lentamente il pavimento. Poi il sapore dello sciroppo bollito mi giunse con tanta veemenza che assaporai lo zucchero sulla lingua e deglutii la saliva dolce che mi aveva riempito la bocca. Il sapore si tramutò nel suono di un remo che affondava nell'acqua, poi nelle delicate fragranze fresche del sedano e del timo. Guardai fisso l'ombrella di una carota e la vidi crescere fino a circondarmi come una giungla soffice. Le ombrelle delle carote mi vellicarono il viso.

L'odore del brodo di manzo che stava sobbollendo mi rese famelico, ma quando mi avvicinai alla marmitta, la cucina si capovolse e caddi a sedere. Mi misi a quattro zampe, cadendo ora da una parte ora dall'altra, e infine, bramando il mio letto, strisciai verso la scala dei domestici. Ma la cucina era diventata immensa e la distanza che mi separava dalla scala pareva impossibile da percorrere. Mi guardai mentre strisciavo nel sogno di qualcun altro, qualcuno che si muoveva senza peraltro avanzare di un palmo, infine, senza preavviso, la mia mano sbatté contro il primo gradino. Pensai che la scala si fosse mossa per venirmi incontro.

Mi sollevai sul primo gradino con i gomiti, ma non sentivo più la pietra sotto di me. Guardai in basso per essere sicuro che fosse lì, ma non era più la fredda pietra, bensì qualcosa di caldo e vivo, rosa, grigio tortora e ambra, e ronzava in un rimescolio di colori, quasi stesse respirando. Mi sentii sprofondare nel rovi, diventare tutt'uno con l'ambra. Non ho idea di quanto tempo trascorsi adagiato su quel gradino. Parvero secondi; parvero giorni.

Ricordo solo che poco dopo ero sdraiato sul mio giaciglio, e guardavo fuori della finestra un fazzoletto di cielo stellato e una luna a buccia di limone. Sentivo che avrei potuto levarmi in aria e volare fuori dalla finestra, ma ero contento di rimanere dov'ero a osservare le stelle. Non so come, ma ero già in mezzo a loro. Doveva essere tardi, ma non avevo sonno. Serpeggiavo in un universo scintillante pieno di meraviglie. Benedissi il capocuoco, era stato così buono con me, e Marco,

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pur con la sua personalità contorta, anche lui era stato buono con me, e Domingo, silenzioso e riconoscente, era quasi un altro fratello. Mi sentii persino solidale con Giuseppe, l'ubriacone disgraziato e dolente. Provai amore per il mio giaciglio, oh, e per Bernardo, e per tutti i domestici che russavano nella camerata, e per tutti i domestici di Venezia. Amavo la vita e tutti coloro che la vivevano. Un angoletto della mia mente rimbambita dalla droga si rallegrò: Dio mio, amo tutti! Non può che essere un filtro d'amore.

Da un angolo della finestra mi fissò un'immagine indistinta di Francesca. Mi lanciò il suo sorriso dolce-perfido e nei suoi capelli biondi brillarono le stelle. Volevo chiamarla, ma ero senza voce. Sentii la sua miscela di odori e immaginai il banchetto opulento, tropicale, che avrei preparato per la nostra notte di nozze.

Le avrei fatto scivolare tra le labbra ostriche crude. Avremmo diviso fichi maturi e ciliegie turgide, madide di rugiada. Le avrei offerto confetti e lattemiele, arance sanguigne sbucciate e pronte, cuori di carciofo salati. Avrei aperto il guscio di un'aragosta, e piano piano l'avrei sfamata con i bocconcini di tenera polpa. Gli aromi si sarebbero fusi, sovrapposti, dando luogo a piccole esplosioni dentro di noi. Volevo credere che tutto questo fosse possibile.

Immaginai che mi guardasse negli occhi trascinando una foglia di carciofo imburrata tra i denti e succhiandone la parte carnosa. Era buona. Per tutta quella lunga, incantevole notte, cavalcai un'onda di piacere dopo l'altra, sentendo il suo odore, il suo sapore, toccandola...

Mi sentii gemere, e credetti in quel furioso abbraccio.

22

Il libro delle mezze verità Il sole si levò, la città si immerse in un'altra giornata di

commerci e la cucina tornò a vivere come una pastella pepata e spumeggiante... e nel frattempo io giacqui in stato comatoso sul mio pagliericcio. Uno dei domestici della camerata mi avrebbe detto in seguito di aver pensato, al vedermi così

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pallido e immobile, che fossi morto e di essere sceso di corsa a informarne il capocuoco Ferrerò. Questi lo aveva allontanato con un gesto della mano dicendo: « Luciano non è morto, anche se più tardi penserà che avrebbe preferito esserlo ».

Il sole di mezzodì fece entrare obliquamente dall'alta finestra raggi appuntiti come aghi e io aprii di sghembo un occhio. In testa avevo una pepita di dolore che rotolava ogni volta che mi muovevo; gli occhi erano asciutti e infiammati e mi doleva lo stomaco. Mi misi a sedere, stanco e intontito, e mi chiesi cosa facessi a letto a quell'ora.

Poi me lo ricordai. Ostrega. Il mal di testa era un prezzo esiguo da pagare.

Nonostante il fastidio, mi sentivo purificato, sazio e sereno. A parte il mal di testa, ero ancora un po' euforico. Confidai a Bernardo: « Il capocuoco sostiene che un afrodisiaco non è un filtro d'amore, ma sai bene che razza di perfezionista sia. Sono soltanto parole». Ero persuaso che, quando io e Francesca avessimo condiviso il nero elisir magico, saremmo stati legati per sempre.

Seppi d'istinto che il convegno segreto con Francesca doveva avvenire a mezzanotte, quando la gente ottusa e comune dorme ed è più sicuro darsi alle arti magiche. Avrei trovato un posto per dividere insieme la notte e le sue stelle vibranti senza timore di essere disturbati. Con delicatezza avrei cantilenato tenere rassicurazioni durante il malessere iniziale, e poi ci saremmo alzati in volo insieme, fondendoci l'uno nell'altra allo stesso modo in cui mi ero fuso nei colori e nei suoni. Ci saremmo destati abbracciati, avremmo dichiarato solennemente il nostro amore e scambiato tenere promesse.

Scesi in cucina con le gambe tremolanti e mi misi timidamente accanto a Dante, che affettava i porri di cattivo umore. Disse: « Mi onori della tua presenza? » Raccolse una parte dei porri affettati e li tenne sopra una pentola fumante. « Vostra Altezza è pronta a osservare questa preparazione? »

« Mi dispiace. Stavo male. » « Stava male. Bah. » Dante storse la bocca e si guardò alle

spalle, sperando di vedere il capocuoco arrivare a passo di marcia per sgridarmi. Mentre teneva la testa voltata, agguantai una manciata di porri affettati per Domingo e mi

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riempii la tasca. Dal momento che il capocuoco non era venuto a rimbrottarmi, Dante si accigliò e fece schioccare la lingua al mio indirizzo.

Lasciò cadere i porri nell'acqua bollente e aggiunse un tantino di sale, un pizzico di zucchero e uno spruzzo di aceto bianco. « Per accentuare il sapore e preservare il colore » spiegò di malavoglia. Mentre i porri cuocevano, mi ordinò di tagliare i cipollotti a lunghe strisce sottili con cui legare le carote glassate e formare piccoli involti attraenti da adagiare in ciascun piatto. « Fà in modo che le strisce siano abbastanza lunghe da poter fare un fiocco dalle code abbondanti. Niente capi tagliati di netto. Se non è troppo disturbo. »

Tagliai strisce verdi e sottili dai cipollotti, mentre pensavo alla richiesta di Francesca: Fammi vedere qualcosa. Adesso che ero in possesso di un autentico filtro d'amore, avrei potuto mostrarle davvero qualcosa e non stavo nella pelle. La gioia selvaggia della notte precedente fece sembrare banale tutto ciò che avveniva in cucina. Non riuscivo a prendere sul serio i cipollotti a strisce. Come mi avrebbe fatto notare molto tempo dopo Chef Meunier, siamo impotenti nelle grinfie dell'amore.

Cercai di prestare attenzione ai cipollotti, ma il peyote mi aveva lasciato lo stomaco delicato, e avvertivo un formicolio sottopelle. Fosse stato solo quello, l'avrei sopportato, ma il tremore alle mani e i pensieri febbrili che avevano per oggetto Francesca contribuirono a distrarmi ancor di più e mi tagliai un dito.

« Mamma mia, hai versato il sangue sui cipollotti! » Dante mi scansò di lato.

« Scusami, Dante. » « Cosa c'è che non va? » «Te l'ho... te l'ho detto. Sto male. » Mi avvolsi il dito in un

pezzo di stoffa. « Bah. Sei un idiota. Un buono a nulla. Incurabile. » Quando il capocuoco diceva che ero la sua speranza, che

avevo Dio dentro di me e che avrei potuto migliorarmi, ero stimolato a superare me stesso. L'atteggiamento di Dante operò l'alchimia opposta: se pensava che fossi un idiota incurabile, perché tentare di compiacerlo? Strinsi con delicatezza il dito bendato e, quando fece schioccare la lingua

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indignato e gettò via i cipollotti insanguinati, lo ignorai. In quel momento non m'importava nulla di Dante e delle sue verdure guastate. Desideravo soltanto allontanarmi da lui e dalle sue ingiurie. Oggi mi rendo conto della puerilità della mia reazione ma quel giorno, tremante, in preda alla confusione e allo struggimento, desideroso di mostrare qualcosa a Francesca, scelsi di non dare importanza all'irascibile Dante.

Regredii alla teatralità acquisita in strada. Marco mi aveva insegnato a fingermi malato per attirare l'attenzione, mentre si riempiva le tasche con le merci del bottegaio di turno impietositosi per la mia sorte. Se nessuno veniva in mio aiuto, ci spostavamo in un'altra strada e « mi ammalavo » di nuovo.

Mi piegai in due, gemendo e premendo i pugni sullo stomaco. Mi lamentai: « Madonna! »

Dante mi guardò di traverso. « Capocuoco Ferrerò » chiamò, « c'è qualcosa che non va nel ragazzo. Si è tagliato e adesso è inutile, come al solito. »

Con la testa piegata sulle ginocchia, vidi avvicinarsi le scarpe di cuoio cordovano del capocuoco. Si fermò davanti a me. « Stai male, eh? » Abbassò la testa all'altezza del mio orecchio e bisbigliò: «Ti avevo avvisato, sì o no? Probabilmente sono droghe troppo forti per un giovane, ma tu hai insistito, non è vero? »

« Oh, Madonna! » Mi esibii in un sonoro conato di vomito. Il capocuoco sussurrò: « L'hai voluto tu. Adesso fai

penitenza». Le scarpe girarono su se stesse e se ne andò, alzando la voce perché tutti udissero. « Dante ha ragione. In questo stato, sei inutile. Vattene. Torna quando sei in grado di lavorare. »

Attraversai chino la cucina con una mano sulla bocca e le guance gonfie, in una pantomima della persona che cerca di trattenere il vomito. Non appena salite le scale, sbendai il dito e infilai lo straccio macchiato in una tasca e la morbida berretta nell'altra. Mi allontanai dal corridoio che portava alla camerata dei domestici e con uno scalpiccio attutito attraversai la Sala dei Dogi, poi una serie di stanze decorate e vuote, a eccezione di qualche cameriera che qua e là spolverava una sedia dorata o lucidava la cristalleria. Presi una scorciatoia scendendo per una scala che portava

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direttamente in strada e lasciai il palazzo. Era l'ora della siesta e mentre correvo per le calli deserte

udii la musica e i mormorii delle stanze immerse nella semioscurità delle persiane socchiuse. Giunto al convento, mi issai sul muro servendomi dei tralci lignei e contorti del gelsomino come appoggio per i piedi e presa per le mani. Mi lasciai cadere sull'altro lato in mezzo a una siepe e a passettini rapidi attraversai semichino il chiostro e costeggiai il muro del convento.

Osai dare una sbirciata a ogni finestra aperta ed ebbi modo di vedere scene che non ho mai dimenticato. Nella prima stanza, una donna grossa con una sottoveste di cotone bianco si strinse attorno alla vita un tralcio spinoso finché non vi comparvero chiazze di sangue che disegnarono una sorta di cinta del martirio. Sussultò e strinse più forte. Da un'altra finestra vidi una donna ossuta, con i ciuffi di capelli bianchi incollati alla fronte sudata; era inginocchiata sul riso crudo sparpagliato a terra e sui solchi del suo viso scavato scorrevano le lacrime.

Mentre fissavo a bocca aperta, un'oca svoltò l'angolo del chiostro dondolando e si mise a schiamazzare. Il rumore fece voltare la testa alla suora. Mi appiattii a terra, tirai fuori qualche porro dalla tasca e li gettai all'oca. Lo schiamazzo cessò e avanzai strisciando.

Francesca sedeva sulla branda con un cuscino rotondo in grembo. Le dita agili si muovevano su una ragnatela complicata di aghi e filo per creare la libellula di pizzo chiacchierino. Una ciocca le scivolò su un occhio, ma era così immersa nel lavoro che neanche se ne accorse.

Il velo pendeva ordinatamente da un gancio alla parete, ma l'abito giaceva sgualcito a terra. Nelle celle non c'erano sedie né tavoli, soltanto un letto angusto, una cassapanca per gli abiti e un inginocchiatoio. Quali altri compiti attendevano una suora se non dormire e pregare? I capelli biondi scendevano a cascata sulle spalle di Francesca creando morbide onde e mi chiesi se fosse concesso tenerli di una lunghezza tanto generosa, o se fosse un suo vezzo segreto. I capelli erano così lunghi e folti che non doveva essere tanto semplice nasconderli e supposi che simile prodigalità fosse permessa fino a quando

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una novizia non avesse preso definitivamente i voti. A ben pensarci, dal momento che era una reclusa in un luogo tanto austero, qualche concessione al piacere sensuale, autorizzata o no, doveva essere consona alla sua natura.

Guardai i fili dei suoi capelli spostarsi a una dolce folata di vento proveniente dalla finestra aperta, al che, lentamente, mi alzai in piena vista, incorniciato dal riquadro di pietra. Lei avvertì il mio sguardo e posò il cuscino sulla branda. Si alzò e ci trovammo faccia a faccia in silenziosa sorpresa, lei in una sottile sottoveste di cotone adorna di pizzi, io nudo nel mio desiderio. Vederla sola e semisvestita mi fece tremare le ginocchia. Mi ressi all'intelaiatura per avere un sostegno.

Prese l'abito da terra e se lo mise davanti. Strizzò diverse volte gli occhi poi, lentamente, allentò la presa sul tessuto e sorrise titubante. Le labbra si schiusero rivelando amabili denti bianchi che ebbero lo stesso effetto di un abito che scivola da una spalla. Le mie nocche si sbiancarono sull'intelaiatura della finestra. Disse: « Come hai fatto a entrare? »

« Mi sono arrampicato sul muro. » Sperai che non mi si spezzasse la voce. « Devo dirti qualcosa. »

« Ancora a proposito di quel libro? » Annuii. « Ho sperimentato una delle formule. Funziona. » « Oh? » La curiosità le fece abbassare l'abito e compiere un

passo verso la finestra. « Quale formula? » « È sorprendente. È, mmm... » Notai una minuscola

imperlatura di traspirazione luccicare nell'incavo del collo e le parole mi morirono in bocca. Dalla sottoveste si intravedeva l'ombra di un capezzolo e il profilo ondulato del suo corpo. Avevo la gola serrata e pareva che la bocca fosse rivestita di polvere di gesso.

« Allora? » Parve infastidita. « Cosa fa? » Scollai la lingua dal palato. « Fa sentire, ehm...

meravigliosamente bene.» Esitò appena e disse: «Bah». Mi voltò la schiena e si infilò

l'abito ancheggiando per sistemarselo. Per poco non gemetti quando il suo corpo perfetto scomparve sotto la severa veste marrone. Disse: « Faresti meglio ad andartene ».

« No, ascolta. Fa sentire liberi, Francesca, liberi. » « Sai il mio nome? » Mi lanciò un'occhiata legandosi la corda

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in vita. « Sì. E io mi chiamo Luciano. » « Che cosa intendi per sentirsi liberi? » « È un liquido nero, dolce. Ne bevi un sorso e il mondo si

addolcisce e si illumina. Le restrizioni scompaiono. » « Fa pensare al vino. » « È meglio del vino. È un'avventura. Puoi volare. Puoi toccare

le stelle. Vuoi... non provi altro che gioia. » « Perché continui a venire qui? » Si avvicinò un po' di più alla

finestra e si mise le mani sui fianchi per far capire che non scherzava. « Io che c'entro? »

Mi sporsi all'interno. « Voglio farla provare anche a te. » « Perché? » « Perché io... » Dovevo osare? « Perché ti amo. » Un sorriso soffuse il suo volto e poi rise di cuore. Ritornò alla

sua branda con passo lento, si sedette e si appoggiò sui gomiti. « Mi ami. »

« È così. » « Non mi conosci neppure. » « Ti ho osservata, ah, un'infinità di volte. Ti ho vista dar da

mangiare a quel cane randagio. Tu ami la vita. Fai le libellule di pizzo. C'è qualcosa di davvero meraviglioso dentro di te. »

« Tu mi osservi? » « Ogni volta che posso. Voglio portarti via da qui. » Strizzò gli occhi. «A che prezzo? » « Nessun prezzo. Soltanto la speranza che tu possa volermi

bene. » Corrugò la fronte incredula. «Io non... io mai... vuoi senz'altro

qualcosa. » « Solo la tua felicità. » Scosse la testa. « Non so che cos'hai in mente, ma se anche

fossi incuriosita dalla tua pozione - e non è detto che lo sia come faccio a provarla? » Con un gesto indicò le pareti della sua e ella. « Sono prigioniera.»

« Durante l'ora della siesta sei uscita. Puoi uscire a mezzanotte? »

Con una mano sfiorò il cuscino su cui annodava il pizzo e la sua voce si fece sommessa e incerta. « Non sono sicura. Non ci ho mai provato. »

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« Potresti arrampicarti sul muro, come ho fatto io. Oppure potrei tornare questa notte. La berremmo qui, nella tua stana. »

Abbassò la testa giocherellando con gli aghi. Quando alzò lo sguardo, le sue guance si erano imporporate e gli occhi erano accesi. « Sarebbe più prudente infilare sotto le coperte un rigonfiamento e vederti da qualche altra parte. »

« Verresti davvero da me? » « Però non posso andare molto lontano. Devo essere di

ritorno all'alba per le preghiere. » Successo! Un sorriso idiota si allargò sul mio viso tanto che

sentii le orecchie entrarmi a forza nel cuoio capelluto. « So dove andare. » Mi vennero in mente gli scrivani, gli strani ebrei e la loro aria di separatezza, e dissi: « Ci vediamo a mezzanotte nel ghetto».

« Il ghetto? » « Non è lontano e gli ebrei non possono uscire dopo il

tramonto. Sarà deserto. » « Oh, geniale! » Sorrise, e io avvertii un formicolio sotto la

pianta dei piedi. Dissi: «A mezzanotte». Scappai per il chiostro senza sentire la

terra sotto i piedi. Ero così esultante che per poco non dimenticai di fermarmi

al banco del pescivendolo e dare a Domingo quel che restava dei porri affettati. Feci marcia indietro e tornai a Rialto dove svuotai la tasca nelle mani di Domingo. Gli diedi un consiglio: « Stasera friggili nell'olio d'oliva insieme al pesce ».

Domingo guardò distrattamente i porri. Mi fissò con una gratitudine così esagerata che dovetti distogliere lo sguardo. Disse: « Sei un buon amico, Luciano ».

« Sono soltanto porri, Domingo. » « Sai cosa intendo. » Lo sapevo. Nella Sala dei Dogi incontrai il maggiordomo che avanzava

lungo la fila dei ritratti, scegliendo meticolosamente il percorso e sferzando la polvere immaginaria sulle cornici dorate con un fazzoletto al profumo di lillà. Mi piegai in due all'istante e « mi

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ammalai» di nuovo. Cercai di oltrepassarlo trascinandomi a stento, tra borbottii e conati di vomito, ma mi bloccò. Battè la punta arricciata della pantofola e disse: « La cucina è dall'altra parte. Da dove vieni? »

Incapace di inventare una storia così in fretta, mugolai: « Mi sento male». Mi esibii in un magnifico rutto, mi cacciai le mani davanti alla bocca e gonfiai le gote fino a far luccicare la pelle tesa. Il maggiordomo squittì e arretrò con un balzo per evitare che le pantofole imperlate a mano venissero contaminate. « Disgustoso! Fuori di qui! »

Mi allontanai zoppicando. Alle mie spalle, il maggiordomo commentò: « Certi giorni non so proprio come faccio a tirare avanti».

Ero stato dispensato dal lavoro e trascorsi il resto della giornata steso sul giaciglio, emozionato alla prospettiva di quanto stava per accadere. Meno male. Sarebbe stato impossibile concentrarsi sui porri e sui cipollotti alla vigilia del mio rendez-vous con Francesca.

Guardai fisso l'alta finestra e vidi la luce sul davanzale passai e dal bagliore pomeridiano alla luminescenza crepuscolare, e infine all'ombra proiettata dalla luna. Ostrega, quel giorno la terra si muoveva molto piano. Finalmente, i domestici si sparpagliarono esausti per la camerata e io mi tirai le ginocchia al petto ruttando di tanto in tanto, per fare impressione. Nessuno mi infastidì e, poco prima di mezzanotte, me la svignai.

23

Il libro della seduzione

Ho visitato molte città attraversate dai canali che si fanno

chiamare Piccola Venezia, ma è una vuota millanteria. Camminate lungo il Canal Grande in una sera d'estate e vedrete l'acqua aprire un varco scintillante tra duecento palazzi immersi nella luce lunare, sentirete gli effluvi delle antiche pietre di Venezia liberare gli spiriti degli avventurieri e degli amanti scellerati, ascolterete la sua voce ingannevole nel sussurro di una gondola che fende l'acqua come un

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pugnale, entrerete in una calle avvolta nella nebbia e saprete: c'è una sola Venezia e le storie d'amore a lieto fine non sono in armonia con il suo carattere.

Se io e Francesca ci fossimo conosciuti in un'innocente Piccola Venezia, un villaggio grazioso, ben tenuto come Bruges o Colmar, forse sarebbe andata a finire in un altro modo. La Venezia autentica ha un'anima da sciattona e corrompe i suoi abitanti con il peccato e con il dolore. Eravamo condannati ancor prima di cominciare.

Tolsi la mia caraffa magica dal recesso sopra l'architrave e mi precipitai in un dedalo di calli e di rii. Attraversai il ponte che separava il ghetto dal resto di Venezia, oltrepassai in fretta un guardiano addormentato ed entrai nel mondo oscuro dell'Antico Testamento. Le strade erano sprovviste di qualsiasi luogo sacro alla cristianità - niente madonne tragiche né martiri mutilati - e i vicoli erano cosi stretti che le case parevano più alte del normale. Le iscrizioni ebraiche intagliate nei vani delle porte di legno parvero estranee persino a un occhio non allenato come il mio, e le alte mura che accerchiavano il luogo aumentarono il senso di alterità. Pareva non vi fossero angoli retti né linee perpendicolari; le case ammucchiate si incurvavano l'una sull'altra e si inclinavano sulla strada, conservando gli odori mescolati del vino dolce e dei cibi bizzarri. Provai allo stesso tempo una sensazione di esilio e di segregazione.

La Venezia che conoscevo era aperta e lambita dal mare, e il ghetto scuro, stipato, ridestò la mia claustrofobia. Provai un senso di oppressione al petto; il respiro diventò rapido e corto. La nottata si preannunciò più come una prova di volontà che un appuntamento d'amore, almeno finché non arrivai nel campo illuminato dalla luna e la vidi accanto a un antico pozzo aperto. Indossava l'abito marrone da novizia, ma non portava il velo. La luce della luna le bruniva i capelli di una lucentezza argentea. Mi avvicinai a lei con un sorriso sicuro, ma quando alzai la caraffa come un trofeo, mi tremò la mano. La sua voce era altrettanto vacillante. Domandò: « È quella? »

Annuii. « Qui potrebbero vederci. Andiamo in quella calle. » Nella reclusione della stradina buia, provai di nuovo una

fitta di panico. Cercai di calmarmi come mi aveva insegnato il

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capocuoco, ma senza la sua presenza a rendermi stabile, feci fatica a rallentare il respiro. Francesca equivocò. Disse: «Anch'io sono eccitata, Luciano ». Era la prima volta che pronunciava il mio nome e sentirlo detto da lei mi placò. Mi si avvicinò e mi accorsi che aveva il respiro affannato quanto il mio.

Mi accarezzò una guancia. Ostrega. Le sue dita scivolarono lungo la linea della mascella, poi allungò una mano e mi toccò la voglia. Lasciai che ne disegnasse il contorno con la punta di un dito ed ebbi la sensazione che mi stesse catalogando. Disse: « Mi piace questa voglia. Ti da un aspetto diverso. E tu sei diverso. Non somigli a nessuna delle persone che ho incontrato ».

« In che senso? » Le labbra si imbronciarono in segno di disgusto. « Gli uomini

mi lanciano occhiate lascive e le donne mi trattano come una serva. Tu invece... sei diverso. »

Stava dicendo che le piacevo? Avevo paura di crederlo ed ero lieto di avere la pozione d'amore che avrebbe fugato ogni dubbio.

Abbassò la mano e mi sfiorò il petto. Disse: « È la cosa più temeraria che abbia mai fatto. Voglio essere libera, ma ho paura ».

« Ti proteggerò. » Piegò la testa. « Lo farai davvero, non è così? » E nella sua

voce c'era sorpresa. Allora additò la caraffa. « Mi fa paura. » « Non ti farei mai del male. » « No. » Mi guardò negli occhi. « Credo proprio di no. » Avevo le dita intorpidite, ma riuscii a togliere il tappo e

porgerle la caraffa. Quando se la portò alle labbra, rammentai che doveva essere di ritorno prima dell'alba. Le fermai la mano e dissi: « Solo un sorsetto, Francesca».

Mi studiò per un attimo poi - e, non so perché, ricordo il suo gesto come se fosse durato un'eternità — bevve senza mai distogliere lo sguardo dal mio, quasi fossi un'ancora per lei. Mi sentii importante e protettivo. Le presi la caraffa e mi concessi un sorso prudente, più parco di quello che avevo deglutito in cucina. Tappai di nuovo la caraffa, la sistemai sulle pietre del selciato, e ci trovammo l'uno di fronte all'altra nel buio,

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coltivando ciascuno le proprie speranze. Domandò: « Mi porteresti davvero nel Nuovo Mondo? » « Sì. » Saremmo ricchi e avremmo cose bellissime? » « Tutto quello che si può avere nel Nuovo Mondo. » La

guardai, ammaliato dai suoi occhi, dalla curva della sua guancia, dalla miscela dei suoi odori, dal miracolo della sua presenza lì, insieme a me. Le presi il viso tra le mani e mi sporsi per toccarle le labbra con le mie — erano calde e lisce —, lei inclinò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. L'attirai a me e avvertii la pressione di tutta la sua persona, il rigonfio dei seni, l'arco del fondoschiena, e il mio corpo rispose. Aprì appena la bocca e assaggiai nel suo respiro la pozione affumicata. La sua lingua mi sfiorò le labbra e fui afferrato da un bisogno pressante. La schiacciai contro di me, ma lei si staccò. Cominciai a scusarmi mentre si piegava in due abbracciandosi. Gemette: « Cosa mi hai fatto? »

La presi tra le braccia e affondai il viso tra i suoi capelli. « Passerà. »

« Oh, mio Dio. » « Passerà, te lo prometto. » « Oh, Dio. » Poi fui travolto anch'io. Calammo entrambi a terra e ci

appoggiammo a un muro da cui si stava sgretolando l'intonaco. Avevo perso la favella, ma riuscii a tenerla abbracciata e soffrimmo insieme. Dopo non so quanto tempo si rilassò tra le mie braccia. Disse: « Oh. Oh, mio... »

La nausea mi stava passando e osservai: «Te l'avevo detto». « Oh, è tutto di cristallo... » Non appena lo stomaco si placò, feci un goffo tentativo di

vezzeggiarle i capelli, ma lei mi allontanò la mano. Si districò dall'abbraccio e si alzò appoggiandosi al muro con i palmi. Si guardò intorno, come se si fosse persa in un posto meraviglioso, poi spalancò le braccia e si allontanò. «Avevi ragione. Sono libera. »

« Francesca? » « È così... » Si smarrì nel buio esclamando: « Oh, cielo! » Strisciai dietro di lei chiamando con un filo di voce: «

Francesca! » ma scomparve nelle buie ombre del ghetto. Mi

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alzai in fretta, barcollai e caddi con tale forza a faccia avanti che sbattei la testa sulle pietre del selciato.

Mi svegliai a terra, supino e con le gambe divaricate, mentre fissavo una luna striata sospesa tra i tetti in una striscia di cielo notturno. Qualcosa non andava; con me avrebbe dovuto esserci Francesca. Cercai di concentrarmi, ma gli oggetti si spostarono, nuotarono e si fusero in sequenze irreali. I pensieri scomparivano prima che potessi afferrarli.

Ero circondato dall'odore del ghetto e sentii il sapore del pane azzimo tostato, della panna acida e delle erbe amare. Ondeggiando entrai negli androni, andai a sbattervi con la faccia e sempre ondeggiando ne uscii. A un certo punto mi ritrovai accasciato in un ingresso e cercai di ricordare come ci fossi arrivato. Udii la linfa scorrere nel legno e alzato lo sguardo rimasi ipnotizzato a guardare l'iscrizione ebraica intagliata nell'architrave. Mi dibattevo alla mercé di ogni suono, odore e consistenza al tatto, sapendo confusamente che qualcosa non era andato per il verso giusto. Avrei dovuto cullare tra le braccia Francesca, ma dov'era?

La notte trascorse come le immagini scheggiate in uno specchio rotto: la ricerca disperata di Francesca nelle crepe di un muro di mattoni, l'amplificazione dei suoni e degli odori, un volto nella luna che rideva di me, la sensazione deprimente di aver fallito e, tra una cosa e l'altra, le cadute reiterate negli abissi oscuri.

Quando finì, mi ritrovai steso in un campiello con le braccia e le gambe spalancate, mentre guardavo il profilo dei tetti stagliarsi al primo accenno della luce incerta dell'alba. Recuperai dal selciato la caraffa mezza vuota e andai in cerca di Francesca. Incespicai come un ubriaco che porta con sé l'ultima bottiglia della nottata tenendola per il collo.

La trovai rannicchiata nel vano di una porta, semisveglia e tremante per l'aria umida. L'abito marrone era striato di residui gessosi, probabilmente l'intonaco che si era sfaldato dai muri in cui era andata a sbattere. I capelli biondi e setosi le ricadevano scompigliati sugli occhi e quando cercai di scostarglieli dal viso, lo sentii imbrattato di saliva secca. Disse: « Ho sete ».

« Non c'è tempo. » La sollevai. « È quasi l'alba. »

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« Ma io... l'alba? » Si ravviò i capelli e alzò lo sguardo sulla luna spettrale che si profilava nel cielo del primissimo mattino. La vidi allarmata. « L'alba?»

« Dobbiamo andare. Subito. » « L'alba. Oh, Dio. » Uscimmo vacillando dal ghetto nel crepuscolo del mattino,

con la foschia del mare che mulinava ai nostri piedi. Avviandosi verso casa, una prostituta stanca rise quando inciampammo in un ubriaco nascosto dalla nebbia radente il suolo. Il pianto di un neonato veleggiò da una finestra e l'odore del pane appena sfornato si diffuse dalla via dei fornai. Sentivo che per la fretta avevamo entrambi il fiato corto. Ancora un po' inebriati, inciampammo nei ciottoli del selciato e sbandammo nello svoltare gli angoli. Mi accorsi che Francesca parlava tra sé e sé.

« Che cosa hai detto? » Mi guardò e i suoi occhi erano stravolti. «Era davvero una

magia. » « Ehm, non è andata come pensavo. » « Era davvero una magia. Che altro c'è in quel libro? Voglio

saperne di più. » Ostrega. « Hai detto che contiene le formule per fabbricare l'oro e

ottenere l'eterna giovinezza. » « Sono soltanto dicerie. » « Sei stato tu a dire che tutti lo vogliono. » Fece una pausa e

mi guardò. « Lo voglio anch'io, Luciano. Voglio quel libro. » « Cosa? » « Se hai questa pozione, puoi avere le altre. Con quelle

formule, potremmo andare dappertutto. Fare qualsiasi cosa. » «Ma... » « Che cos'è una notte di libertà? Io voglio una vita intera. Tu

no? » Si scostò da me. « Se mi ami, portami quel libro. » «Francesca... » Mi allungai per prenderle un braccio, ma si

tirò indietro bruscamente e mi precedette correndo. Giunta allo mura del convento, si lisciò i capelli con le dita e si liberò della polvere d'intonaco che aveva sull'abito. «Dobbiamo avere quel libro, Luciano. È la nostra sola occasione per vivere una

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vera vita. » Si arrampicò come un ragazzo sul muro ricoperto dal gelsomino proprio nel momento in cui nella cappella del convento suonava la campana.

Sentii il suo addio dall'altro lato del muro. Disse: « Il libro, Luciano ».

24

Il libro delle lacrime

Il mio filtro d'amore aveva suscitato in Francesca

concupiscenze che non ero in grado di soddisfare. Con le mie esagerazioni mi ero messo con le spalle al muro e non sapevo come uscirne. Non avevo idea di dove fosse il libro e, se pure avessi potuto portarglielo, non vi avrebbe trovato che Vangeli e lezioni di storia. Mi avrebbe odiato considerandomi un bugiardo, e a buon diritto.

Il giorno dopo, il capocuoco mi osservò mentre preparavo un carciofo da riempire e mi domandò: « Hai dato la tua 'pozione' a Francesca? »

« Sì. » Tolsi le punte ai carciofi. « Davvero? » Fece un cenno col capo. « E come è andata a

finire? » Estrassi il centro peloso, attento a non rovinare il cuore. «

Non posso dire che mi sia caduta tra le braccia. » « Davvero. E che cosa hai imparato? » Mi strinsi nelle spalle.

« Capisco. Hai bisogno di soffrire ancora per imparare questa lezione. Così sia. » Si era già avviato quando tornò sui propri passi. «A proposito... » Mi porse alcuni spiccioli.

« Sì. » Mi asciugai le mani sul grembiale e presi il denaro. « Che cosa volete che compri, Maestro? » « Quello che vuoi. È la tua paga. » Ostrega. Non avevo mai avuto una paga. « È per me? » « Sei

un cuoco addetto alle verdure o non lo sei? » Depositò i centesimi nella mia mano.

Fissai il denaro. Cinque centesimi! Una cifra modesta come paga settimanale, di questo si poteva star certi, ma non avevo bisogno di comprarmi da mangiare né di pagarmi l'alloggio. Decisi seduta stante che avrei risparmiato fino all'ultimo soldo

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e ogni settimana avrei aumentato il gruzzolo. Avrei accumulato abbastanza denaro da poter sposare Francesca. Se avessi provveduto al cibo e al vestiario e trovato un posto dove vivere, l'avrei tirata fuori da quel convento e lei si sarebbe scordata del libro. Feci scivolare il denaro in tasca. « Grazie, Maestro. »

« Te la sei guadagnata. Adesso non sciupare quel carciofo, eh? »

Passai i giorni a sgusciare piselli e arrostire melanzane, e le notti a contare i soldi. Servendomi delle dita per fare le addizioni, calcolai che, al ritmo di cinque centesimi a settimana, mi sai ebbero servite dodici mani, o dodici settimane per liberare Francesca. Certi giorni pareva un periodo interminabile; certi altri sembrava terribilmente breve. Scucii di lato il giaciglio e nascosi i centesimi nella paglia.

Frattanto il nostro doge malato si dedicava alla propria ricerca dell'eterna giovinezza, mentre Landucci e Borgia facevano le loro manovre di potere. Erano tempi pericolosi. Venezia e il Veneto straripavano di soldati, strade e campagne brulicavano di guardie del doge, di Cappe Nere e dei mercenari svizzeri di Borgia e tutti insieme perquisivano case, negozi, scuole e chiese, facendo prigionieri e seminando il terrore. La smania di ottenere informazioni sul libro aveva creato uno Stato di polizia in cui tutti si professavano ignari, pur scambiandosi sottobanco pettegolezzi e sospetti non appena voltate le spalle. I vicini denunciavano i vicini per salvare se stessi e le segrete erano piene di sventurate persone sospette. Da Roma giunsero aguzzini di provata esperienza e dalla Spagna furono convocati due inquisitori incappucciati di nero, uno dei quali un allievo del famigerato Torquemada. Il Ponte delle Lacrime sostenne una quantità insolita di traffico luttuoso.

Un giorno, per disgrazia toccò a me portar da mangiare nelle segrete. Di solito era compito di Giuseppe recapitare quei pasti, ma il numero dei soldati e degli assassini da sfamare era talmente aumentato che fu necessaria la mia presenza per aiutarlo a portare le sacche con il pane e il formaggio. Avremmo dovuto lasciarle alla guardia dislocata all'ingresso,

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ma quando le consegnammo, ci assalì un grido straziante che proveniva dalle viscere delle segrete. La guardia sogghignò. « I romani hanno mandato la 'culla di Giuda'. Vuoi vederla? »

Giuseppe sorrise a tutta bocca mostrando i denti guasti. « C'è qualcuno sopra? »

« Sembra di sì. » Si avviarono e io dissi: «Aspetto qui ». « No, bastardo. » Giuseppe diede un'occhiata alla guardia. «

Questo qui pensa di essere troppo buono per sporcarsi le mani. » Mi agguantò per la collottola e mi spinse avanti.

Scendemmo per una ripida scala di pietra a chiocciola; l'oscurità si fece più fitta e le grida divennero più forti, poi cessarono di colpo. In fondo, la guardia spalancò una porta bassa e pesante e vidi una donna nuda assicurata con le cinghie a una sedia, che pareva un trono, coperta di punte di ferro. Attorno a lei si muovevano figure indistinte e mi vennero i conati di vomito per il fetore dell'urina e delle feci. Alla donna era caduta la testa sul mento e non vidi il suo volto, ma il corpo tremava tutto. La sola fonte di luce erano le alte candele che tremolavano agli angoli; l'unico suono erano le corse dei ratti. Per impedire alla donna di fuggire, le erano state legate alla sedia gambe e braccia con le cinghie di cuoio. La voce indifferente di una Cappa Nera ordinò: «Svegliatela». Un uomo alto con il cappuccio nero le tirò le spalle contro le punte; grugnì nel premerle nella carne le dita grassocce; la testa della donna si alzò di scatto. Aveva gli occhi spalancati dal terrore; il viso coperto di lividi, gonfio e deformato dall'agonia. Urlò e il sangue gocciolò senza interruzione sotto la sedia.

Giuseppe domandò: « Di che cosa è accusata? » « Lei? Di niente. » La guardia si grattò l'inguine. « Tra qualche

minuto, quando sarà tutta coperta di sangue, porteranno dentro il marito. È lui che vogliono; è un bibliotecario. La donna ne ha ancora per poche ore, ma il marito si sbrigherà a parlare. Nessuno riesce a guardare a lungo senza aprir bocca. È una buona sedia. »

Usciti all'aperto, mi sporsi sul Ponte delle Lacrime e vomitai. Rimasi piegato in due sulla fiancata, boccheggiando, e Giuseppe rise. Disse:

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« Sapevo che non avevi il fegato ». Mentre Venezia si faceva piccola sotto lo sguardo vigile dei

soldati, il personale della cucina era occupato a preparare piatti esotici per il flusso costante degli ospiti stranieri del doge bisognoso di informazioni. Servimmo dotti provenienti dalle università più illustri (carne di maiale e fagottini al burro per quello di Heidelberg; pasta al ragù per il bolognese), un famoso erborista francese (un grasso cassoulet), un celebre bibliotecario siciliano (costolette ripiene di acciughe e olive), uno stregone egiziano dalla pelle scura (kebab marinati), un confidente fiorentino del compianto Savonarola (pesce alla griglia e spinaci), un alchimista inglese (un arrosto di bue) e monaci amanuensi venuti da tutti i principali monasteri (riso e bollito di gallina).

Nel corso delle lunghe cene, le conversazioni assunsero le caratteristiche di un interrogatorio e la Brutta duchessa mostrò sempre un occhio azzurro e uno marrone. Gli ospiti più importanti furono consultati con garbo e salutati con un arrivederci. Nelle calli vi fu, tuttavia, un aumento costante e inesplicato di rapine; correva voce che molti ospiti del doge fossero scomparsi per via dopo aver lasciato Venezia. Gli ospiti di minor riguardo furono semplicemente sorpresi al dessert dalle guardie che, sbucate dalla parete, li accompagnarono sul Ponte delle Lacrime a subire interrogatori più energici.

Non fui l'unico testimone di quei rapimenti. In un palazzo con tanti domestici, circolavano a ruota libera le voci di torture nuove e orribili perpetrate nelle segrete: compressioni, sventramenti, annegamenti, arrostitura dei piedi e scorticamenti a volontà. I torturatori si servirono di ratti, di seghe, di metallo fuso, di strumenti per schiacciare i pollici e di artigli. Talvolta i i acconti venivano riferiti con disgusto, talaltra con paura e in qualche caso, mi dispiace dirlo, con piacere.

Durante quel periodo inquieto e brutale, il capocuoco si presentò al lavoro ogni mattina con gli occhi cerchiati di scuro. Vagava per la cucina massaggiandosi le tempie e talvolta dimenticava di assaggiare una salsa prima che fosse servita. In un'occasione, Pellegrino gli chiese di provare una salsa ai funghi e il capocuoco si limitò a fissare la terrina. Pellegrino gli

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diede un colpetto sulla spalla e il capocuoco sobbalzò. Testò la salsa e annuì, ma per la prima volta da che io mi ricordassi, indossò la berretta con una piega malinconica.

Un giorno sentimmo dire che Giovanni dè Medici aveva dato avvio per conto proprio alle indagini sul libro; Firenze avrebbe conteso le informazioni a Venezia e a Roma e disponeva di segrete proprie. La notizia turbò talmente il capocuoco che non completò il menu per il giorno successivo e si trattenne in cucina fino a tarda sera, curvo sulla scrivania.

Indugiai occupandomi delle marmitte fino a quando tutti i cuochi non se ne furono andati e lo avvicinai: « Maestro » dissi, « quando riparliamo degli scritti segreti? » Speravo in qualche briciolo di conoscenza, una primizia interessante con cui pacificare Francesca fino a quando non avessi avuto abbastanza denaro da liberarla.

Il capocuoco si premette l'indice e il pollice sugli occhi. « Non ora, Luciano. È un momento balordo. Tieni la testa bassa e non agitare le acque per nessuna ragione. Parleremo quando l'oscillazione del pendolo ci riporterà a un periodo più tranquillo. »

Decisi di affrontare un altro argomento delicato. « Maestro, pensate che il doge creda davvero nell'esistenza di una formula per l'eterna giovinezza? »

Il capocuoco rise. « Credevi davvero nell'esistenza di una pozione che facesse innamorare Francesca? La gente crede ciò in cui vuole credere. Le convinzioni sono più forti dei fatti. »

Fu mai pronunciata verità più assoluta? Molti credevano che il libro contenesse ciò che volevano al di sopra di ogni cosa, e tutti desideriamo credere che le persone amate siano come le vogliamo. Il capocuoco vedeva le mie potenzialità più lucidamente di quanto ravvisasse i miei difetti; io vedevo il fascino di Francesca con più lucidità di quanto scorgessi il suo pragmatismo. Eravamo davvero tanto diversi dal doge che intravedeva la possibilità di un ringiovanimento più nitidamente della certezza della propria decadenza?

Mi capita a volte di immaginare il doge nelle sue stanze private, nudo davanti a uno specchio. Avrebbe visto un vecchio raggrinzito con la pelle floscia, giallastra, le guance vizze, la sella del naso che gli stava cedendo per il mal

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francese, le borse carnose drappeggiate sotto gli occhi, e le chiazze marrone che screziavano la sua testa calva. Avrebbe visto il collo floscio e allungato calare in due fosse profonde dietro le clavicole e il petto incavato declinare in una serie di borse flaccide punteggiate da nei e protuberanze slavate. Avrebbe visto la pelle delle braccia pendere come crespo. Il pene non sarebbe stato altro che un verme avvizzito, coperto di afte, e lo scroto allargato e allungato, e tutto questo avrebbe penzolato mestamente tra due gambe affusolate e glabre, deformate dalle vene gonfie. Magari avrebbe pianto.

Si sarebbe allontanato dallo specchio per stendersi sul letto. Avrebbe chiuso gli occhi per vedersi con un aspetto diverso. Con gli occhi della mente avrebbe osservato il volto spianarsi e la mascella rassodarsi e formare un angolo retto. Il naso avrebbe rinnovato un profilo deciso e in testa sarebbe spuntata una folta zazzera di capelli scuri. Avrebbe visto le gambe acquistare una forma grazie ai muscoli sodi, le spalle allargarsi, la pelle ispessirsi, i bicipiti gonfiarsi, il petto allargarsi e i genitali rigenerarsi.

Ah, se soltanto! Si sarebbe sentito di nuovo vivo. I kumquat avrebbero avuto di nuovo un sapore dolce; i lombi delle donne avrebbero ricominciato a stringerlo. Avrebbe ritrovato l'entusiasmo, da tempo perduto, per le sfide e, soprattutto, avrebbe avuto una seconda occasione. È naturale che ci credesse, e non c'è dubbio che lo volesse quanto io volevo Francesca.

La richiesta impossibile di Francesca non era la mia sola

preoccupazione. Da quando ero stato promosso, Giuseppe terminava le sue giornate più ubriaco e belligerante che mai e la sua animosità nei miei confronti si era intensificata. Una notte accadde l'inevitabile: mi trovai solo con lui. Il capocuoco non aveva assunto un altro apprendista, pertanto Giuseppe era stato costretto a farsi carico, oltre alle proprie, della maggior parte delle faccende che avevo sbrigato io. Si occupava di tutte le mie incombenze, tranne sovrintendere alle marmitte. Quello era un compito troppo importante perché venisse affidato a uno come lui ed era il mio ultimo impegno

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della giornata. Mentre regolavo la fiamma sotto le marmitte e attizzavo il

fuoco per la notte, Giuseppe bighellonava accanto alla porta sul retro. Era inusuale che restasse un secondo più del necessario e la sua presenza mi rese nervoso. Si appoggiò allo stipite bevendo lunghe sorsate da un fiasco.

Mi si avvicinò sbandando sulle gambe malferme; doveva aver bevuto tutto il giorno. A scopo difensivo, presi la scopa, ma Giuseppe non perse tempo a dilungarsi in minacce preliminari; me la strappò di mano e mi avvicinò al suo viso tirandomi per lo sparato della giacca bianca. Fiutai il sudore dei vestiti, l'unto dei capelli e il forte odore di alcol del suo respiro. Disse: «Addetto alle verdure, eh? Sei un tipo eccezionale, non è vero? »

Tentai di scostarmi e mi sbatté contro il muro. « Sai quanto ho lavorato senza una promozione, ladro? » Il capocuoco mi aveva detto di tenere la testa bassa e pensai

che la cosa migliore fosse lasciarlo farneticare finché avesse voluto. Avrei potuto difendermi, se fossi stato costretto. « No, signore. »

«Anni. Nessuno aiuta Giuseppe. Bah.» Mi sputò in faccia poi mi strappò la berretta dalla testa e la scagliò lontano. « Che meriti hai per ottenere una promozione? »

Mi asciugai la saliva sul viso. « Non lo so, signore. » Soffocai la voglia di colpirlo.

« Piccolo, sudicio bastardo. Prelevato dalla strada, Dio solo sa perché. Abiti puliti, tre pasti al giorno... adesso una promozione e Giuseppe lavora più sodo che mai. »

« Mi dispiace, signore. » Cercai di respingerlo, ma mi ficcò un ginocchio tra le gambe e lo tenne lì. Non osai muovermi.

«'Ti dispiace.' Non ancora, ma presto ti dispiacerà. Quel pazzo del capocuoco pensa di poter portare un ladro in cucina? È un insulto. La farò vedere anche a lui. Giuseppe ha i suoi sistemi. Giuseppe conosce la gente giusta. »

La pressione tra le gambe era più intimidatoria che dolorosa, ma gli sarebbe bastato spingere verso l'alto. Dissi: « Sì, signore ».

La ragnatela di vene rosse che gli copriva il naso e le guance si imporporò. « Sì signore, no signore. Non mi prendere in giro.

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Ti tengo d'occhio, addetto alle verdure. » Rimasi assolutamente immobile nella speranza che il

silenzio lo frustrasse, ma parve che lo facesse infuriare ancora di più. Arretrò e mi colpì violentemente con il palmo della mano facendomi cadere sul pavimento di pietra. Prima che potessi squagliarmela, mi afferrò per i capelli e mi torse un braccio dietro la schiena. Era più grosso e mi aveva colto alla sprovvista. Con la forza sfrenata dell'ubriaco mi trascinò verso il caminetto. Cercai di colpirlo di piatto con il braccio libero, ma mi attorcigliò i capelli e con uno strattone fece risalire il mio braccio sulla schiena, costringendomi ad avvicinarmi al fuoco. Avvertii il calore sul margine dell'orecchio e pensai che fosse la mia fine, ma mi tirò indietro e mi scagliò contro la parete. Un'ombra di sobrietà doveva avergli rammentato che avrebbe potuto perdete il lavoro e forse qualcosa di più. Mi accasciai a terra con l'orecchio che pulsava e il braccio che pendeva inerte e dolorante al mio fianco. Giuseppe disse: « Con te non ne vale la pena ». Sputò nella mia direzione, ondeggiò tracannando dal fiasco e uscì barcollando dalla porta sul retro.

Mi toccai la chiazza ispida di capelli bruciacchiati vicino all'orecchio. Le punte erano friabili come il fritto misto. L'orecchio era rovente e dolorante e avvertivo fitte di dolore alla guancia per il colpo infertomi da Giuseppe. Ma ricacciai indietro le lacrime. Non gli avrei dato quella soddisfazione. Resistetti all'impulso di prendere la pala da forno di Enrico e seguirlo. Era più grosso, ma potevo sorprenderlo. Gli avrei fracassato quella faccia rozza e non si sarebbe mai accorto del colpo in arrivo. Lo desideravo con tutto me stesso, ma diedi retta al consiglio del capocuoco: Tieni la testa bassa e non agitare le acque per nessuna ragione. Tamponai l'orecchio con acqua fredda e mi congratulai con me stesso per essere riuscito a tenermi a freno.

Se soltanto il capocuoco avesse dato retta al proprio consiglio.

Istigato dai rapporti quotidiani di torture ed esecuzioni, il mio maestro non seppe tenere a freno le proprie ingerenze culinarie. Seppi che aveva in mente qualcosa il mattino che venne al lavoro con il suo passo saltellante di un tempo e la berretta raddrizzata. Avrei voluto dirgli: Rammentate,

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Maestro, non agitate le acque, ma si suppone che un addetto alle verdure non dia consigli a un capocuoco. Ahimè, con il senno di poi, so che avrei dovuto osare.

Ricevemmo l'ordine di preparare una cena per un filosofo dell'Università di Padova, un certo Pietro Pomponazzi, che aveva ottenuto una reputazione controversa avanzando l'idea che dopo la morte l'anima permanesse in uno stato ambiguo in attesa di prendere possesso di un nuovo corpo. La dinamica di tale processo era l'oggetto di molte accanite discussioni che si tenevano a Padova.

Il capocuoco annunciò che avrebbe preparato personalmente la portata principale, un piatto speciale di sua invenzione. Disse che i preparativi richiedevano una concentrazione intensa e che avrebbe avuto bisogno di isolarsi. Si comportava sempre così prima di preparare i pasti più sospetti e il suo modo di fare mi mise a disagio. Sentenziò: « È una cena importante. Il nostro ospite si presenta in società con lo stesso garbo di un salame, ma è una persona che suscita discussioni interessanti. Le sue teorie meritano di essere prese in considerazione ».

Non riuscivo a credere che prendesse sul serio Pomponazzi al punto da voler interferire. Obiettai: « Maestro, quell'uomo sostiene che rinasciamo in continuazione in un corpo nuovo». Aprii i palmi come per dire: State certamente scherzando.

Il capocuoco sorrise. « Pazzo, eh? Ma se ci pensi bene, nascere due volte non è più strano di quanto sia nascere una volta sola, eh? Apri la mente e non avere troppa fretta di liquidare quella teoria. Se non altro, dovrebbe farti riflettere sul nostro scopo. Adesso portami un bel cappone grasso. »

Ordinò a Eduardo di preparare per dessert una semplice crema pasticcera e aggiunse: «Alla guarnizione ci penso io ». Fece una spedizione estemporanea a Rialto e poi riunì gli ingredienti con alacrità ed efficienza. Fece una scorreria nel suo armadietto privato e si infilò in tasca una manciata di un ingrediente non ben identificato. Avevo una brutta sensazione.

Il piatto speciale di quella sera era lo « stufato di cappone al latte di giumenta ». Il capocuoco disossò e affettò il cappone, lo portò al bollore nel brodo di gallina ristretto e vi aggiunse le erbe e le spezie segrete. Abbassò la fiamma prima di

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incorporare il latte di giumenta dal sapore forte, e l'aroma della carne asessuata che cuoceva in umido nella propria salsa ben condita mi fece venire l'acquolina in bocca. I cuochi annusarono curiosi e Pellegrino, escluso dai preparativi, ribollì d'invidia. Scodellato il suo capolavoro in una zuppiera di porcellana a forma di gallo, il capocuoco estrasse dalla tasca una manciata di foglie secche, le sbriciolò sullo stufato fino a farne una polvere sottile e mescolò il tutto.

Per la guarnizione della crema pasticcera, fece bollire due dozzine di rose da cui ottenne una tazza scarsa di marmellata di petali. Anche questa preparazione ricevette una generosa spruzzata delle foglie finemente sminuzzate che teneva in tasca. Mise in ciascuna tazza di crema una cucchiaiata rosa di confettura.

La cena iniziò con un antipasto di mare. Pomponazzi infilzò un anello di calamaretto, sgranocchiò la crosta e lo masticò. Diede un grugnito di approvazione e disse: «Il vostro chef ha un bel tocco. Molto tenero ».

« Sì, il mio chef è un genio, ma sembra che ci sia un genio anche alla mia tavola. »

«A Padova molti non si dichiarerebbero d'accordo con voi. » « Stolti e miopi. Ditemi, se l'anima resta in attesa della

rinascita, questo significa che, in realtà, nessuno muore? » «Ah, siete dedito agli studi sull'anima. » Il filosofo si infervorò

di fronte al suo argomento preferito e in men che non si dica diventò ampolloso. Chiunque avesse tollerato lo stile pedante, avrebbe potuto sostenere che aveva circostanziato in modo credibile la sua teoria poco plausibile.

Ma al doge non interessava dissezionare quella tesi. Voleva conoscere le fonti del filosofo, i libri che aveva letto e dove li aveva letti. Dalla porta socchiusa lo vidi battere con impazienza un dito sulla tavola e m'aspettavo che da un momento all'altro chiamasse le guardie nascoste dietro la Brutta duchessa.

Pomponazzi, però, mangiava con la stessa velocità con la quale parlava. I calamari scomparvero in fretta e una cameriera entrò immediatamente dandosi da fare con la zuppiera a forma di gallo. Annunciò: « Stufato di cappone al latte di giumenta », scodellò porzioni generose in due piatti

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fondi e uscì dalla stanza con un inchino. Gli uomini esaminarono il piatto inconsueto e inalarono il vapore fragrante che alitò loro sul viso.

Pomponazzi esclamò: « Che profumo delizioso! » Il doge si strinse nelle spalle. « Il mio chef è pieno di sorprese.

Ma ditemi della vostra ricerca. È vero che la biblioteca di Padova... »

« Madre mia! » Assaggiato il primo boccone, Pomponazzi parve in preda a un orgasmo culinario.

Il doge guardò nel proprio piatto. « È davvero così buono? » Lo assaggiò e sbatté le ciglia.

La conversazione cessò. Mangiarono con avidità, leccando i cucchiai, succhiandosi le dita e inclinando i piatti per lappare tutta la salsa. Inghiottito l'ultimo boccone, Pomponazzi si appoggiò allo schienale con una mano sul ventre. D'improvviso, apparve sbalordito, e poi turbato. « Vi rendete conto » disse agitando un dito, « che, per il piacere di gustare questo piatto, abbiamo preso parte alla castrazione di un animale orgoglioso? Alla mutilazione di un essere del nostro sesso? »

« Ebbene, io non avevo... » Il doge sembrava sgomento. Ruttò e si portò una mano al petto. Disse: « È un abominio ».

« E il latte di giumenta. » Pomponazzi scosse tristemente la testa. « Immaginate il puledro appena nato, steso a terra ancora umido, che si dibatte per alzarsi sulle zampe tremanti e scopre che abbiamo prosciugato la madre del suo latte. »

Il doge si mise la testa tra le mani. « Povera, piccola creatura. »

I due uomini si accasciarono sulla tavola in un silenzio accorato. Il doge si asciugò gli angoli degli occhi. Pomponazzi aspirò con le narici, poi gli venne il moccio al naso, infine singhiozzò. Il doge rabbrividì e poi pianse a calde lacrime. Piazzarono i gomiti sulla tavola e piansero forte come due bambinoni vestiti in modo troppo elegante. I gemiti riempirono la stanza e le lacrime rigarono le guance incipriate dei due uomini. Io e le cameriere osservammo in silenzio, impressionati, ma quando Pomponazzi porse un fazzoletto al doge perché si soffiasse il naso, tenemmo le mani sulla bocca

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per trattenere le risate. Una delle cameriere impiegò un istante ad atteggiare il viso

ad una i certa compostezza prima di servire la crema pasticcera con marmellata di petali di rosa. Il capocuoco le aveva ordinato di annunciare che per la guarnizione erano state sacrificate due dozzine di rose. Aveva detto: « Sta attenta a usare proprio la parola sacrificare». Annunciò quanto le era stato detto ai due uomini piagnucolanti e uscì dalla stanza con un inchino, contenendo a fatica le risatine, che liberò non appena giunta sul pianerottolo.

Dopo qualche cucchiaiata distratta di marmellata e di crema pasticcera, i due posarono i cucchiai. Il doge pianse con la testa sulle braccia mentre Pomponazzi gli batteva una spalla dicendo. « Lo so, lo so ».

Il doge alzò lo sguardo e sentenziò: «La vita è così triste». Dalla punta del naso gli pendeva una goccia di marmellata di petali di rosa.

Pomponazzi concordò. « Non c'è misericordia. » La crema pasticcera gli orlava la bocca.

Il doge si alzò. « Sono spiacente. Devo ritirarmi. » « Naturalmente. » Gli uomini si abbracciarono. Pomponazzi si soffiò il naso

mentre il doge respirava rumorosamente affondato nel colletto. Si avviarono claudicanti verso la porta, frignando e sostenendosi l'un l'altro: due invalidi azzoppati dalla malinconia. Non appena ebbero oltrepassato di un bel tratto la porta, noi sul pianerottolo demmo libero sfogo alle risate. L'occhio marrone della Brutta duchessa batté la palpebra e udimmo sull'altro lato della parete gli sghignazzi soffocati.

A tarda sera portai un bicchiere di sciroppo di zenzero nella camera da letto del doge, per sedare lo stomaco del vecchio. Il giorno dopo, a un filosofo in preda alla depressione fu consentito di tornare a Padova con gli occhi rossi e gonfi. Il capocuoco sentì dire che l'uomo era rimasto incolume e concluse: « Bene. Quell'uomo sarà anche uno stolto, ma i suoi dibattiti a Padova hanno aperto molte menti. Facciamo quello che possiamo ».

Disgraziatamente, non avrebbe dovuto far nulla.

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25

Il libro di N'bali A ben pensarci, suppongo che gli eventi successivi a quella

cena non furono causati unicamente dall'abitudine del capocuoco di immischiarsi in ciò che non lo riguardava, ma anche dal fatto che ne avessi parlato a Marco. Oggi lo comprendo, ma allora pensai che avremmo riso insieme dello spettacolo offerto dal doge e dal suo ospite erudito, dei loro piagnucolii infantili e delle sbavature sulla crema pasticcera. Non vedevo Marco da più di un mese, avendo evitato sia lui sia Francesca per le richieste impossibili che mi avevano posto, ma pensavo che una storia divertente avrebbe potuto allentare la tensione che si era creata tra lui e me.

Un sabato gli portai i colli di gallina bollita che avevo pescato dalla marmitta — la carne non era molta, ma ben saporita - e mentre succhiava gli ossicini rotondi lo intrattenni raccontandogli la storia di Pomponazzi. « Dovevi vederlo, Marco. Le cameriere ancora ridono. »

Marco posò il collo di gallina. « Piangevano per un cappone? » « Frignavano come bambini. Ululavano come gatti. Si erano

sporcati la faccia di crema e marmellata. » « È una vicenda sospetta. » « È stato divertente. » « No. È come tutto quello che ha a che fare con il capocuoco...

una vicenda sospetta. » Ostrega. Che scocciatura. « Marco, che fine ha fatto il tuo

senso dell'umorismo? Il piatto che hanno mangiato ha cambiato il loro umore. E allora? Il capocuoco possiede erbe che hanno questo potere. »

« Possiede ben altro che qualche semplice erba. Ha l'oppio. » « Per la minestra. » « Bah. » Marco non si lasciava dissuadere tanto facilmente. «

Sta combinando qualcosa. » « Oh Dio. » Non aveva nemmeno abbozzato un sorriso

nell'udire la storia ridicola del doge e del suo ospite piagnucoloso. « il capocuoco usa le ricette per proteggere certe persone. »

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« Certe persone? Sceglie chi proteggere e chi sacrificare? » La domanda mi rese incerto. Molti ospiti del doge finivano

nelle segrete e soltanto di rado un pasto volgeva il corso degli eventi. Il capocuoco voleva che Pomponazzi continuasse a promuovere le sue folli idee, ma in un'altra occasione, dopo che il doge aveva spedito nelle segrete un falsario tristemente noto, borbottò: « Una bella liberazione! »

Dissi: « Il capocuoco sa quello che fa ». «Ah, di questo sono sicuro. Sono sicuro che sa un mucchio ili

cose. » Il tono subdolo di Marco non mi piacque. Dissi: « Lascia

perdere, ti va?» « Mai. » Quella notte ero sdraiato sul mio giaciglio e coccolavo

Bernardo, ascoltando la musica e le voci che provenivano dalla strada. Delimitai i pensieri alla punta delle dita di Francesca sul mio viso e, infine, mi assopii, ma avevo il sonno leggero e inquieto. Alle ore piccole, semisveglio per aver sognato Francesca in sottoveste, mi allungai per toccare Bernardo, ma la mano rasentò soltanto la tela ruvida del giaciglio. A quell'ora le strade erano silenziose e la camerata percorsa dal rumore dei dormienti che russavano. Feci scorrere la mano su e giù sul pagliericcio e poi aprii gli occhi. « Bernardo? » Se n'era andato.

Mi alzai a sedere sfregandomi gli occhi e poi mi infilai i calzoni. Percorsi a piedi scalzi la camerata in tutta la sua lunghezza bisbigliando: « Psssst, Bernardo? » Trovai la porta del dormitorio aperta, ma non era un fatto insolito. Accadeva spesso che l'ultimo domestico che si coricava fosse troppo stanco per chiuderla come si doveva. Sul pianerottolo chiamai a bassa voce: « Bernardo? » Scesi un paio di gradini e lo vidi a metà della scala, raggomitolato come una gigantesca palla di pelliccia. Si voltò per guardarmi e sbatté le ciglia. Dissi: « Cosa c'è? Hai sentito qualcosa? » Bernardo scese silenziosamente le scale e lo seguii.

A metà discesa, udii uno scatto. Il rumore di una porta che si chiude? Di una serratura che si apre? Scesi di soppiatto qualche altro scalino e sbirciai nella cucina oscurata. Il lume appeso all'esterno di una delle finestre cigolò e oscillò al vento, proiettando una luce tenue, intermittente, su una figura che si

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dirigeva verso la porta sul retro. In punta di piedi scesi le scale, attraversai la cucina e gli piombai alle spalle. Gridò e cademmo a terra. Nel momento in cui alzai il pugno per colpire l'intruso, questi esclamò: « Luciano! »

« Marco? » Ostrega, era un bello sfrontato. « Toglimi le mani di dosso, testa di cavolo. » « Che ci fai qui? » « Quello che non hai il coraggio di fare tu. » Marco infilò la

mano nella camicia e tirò fuori un piccolo involto di stoffa. Lo svolse su un tagliere per mostrarmi che cosa aveva rubato dall'armadietto del capocuoco: qualche foglia secca, un fiore accartocciato, un chicco e un baccello. Aveva sparpagliato alcune erbe tritate e un po' di polvere in due pezzi di pergamena che aveva chiuso attorcigliandone le estremità. Non erano altro che erbe e spezie e, per nascondere il mio sollievo, tenni la testa bassa e giocherellai con le foglie secche. Dissi: « Sei una testa di rapa. Che cosa hai intenzione di fare, cucinarti la cena? »

« Le porto dall'abissina. Domani. Scoprirò che cosa sta combinando il tuo capocuoco. E le chiederò se sa dov'è Rufina. » Era patetico con le sue speranze.

« L'abissina? Con che cosa la paghi? » Fece tintinnare la tasca e accennò col capo all'armadio delle

spezie. Aveva prelevato del denaro dalla scatola d'argento di cui gli avevo parlato.

« Oh Dio, Marco... » « Hai detto che non si sarebbero accorti della mancanza di

qualche spicciolo. » Seppi all'istante che non potevo permettergli di andare da

solo dall'abissina. Aveva rubato soltanto un po' di erbe e di spezie ma temevo i suoi voli di fantasia. La gente vede ciò che desidera vedere e ode ciò che desidera udire perché così è la natura umana. Dovevo proteggere il capocuoco.

Se mai avessi voluto chiedere consiglio, non avrei comunque potuto; l'indomani era domenica, giorno di riposo del capocuoco, e avrei dovuto occuparmi di Marco in prima persona. Dissi: « È una sciocchezza, ma l'abissina mi incuriosisce. Verrò con te».

Marco sorrise. « Sapevo che avresti cambiato idea, testa di

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cavolo. Verrò a prenderti al mattino. Tienimi da parte la colazione. » Mi diede un pugno sulla schiena e uscì trotterellando dalla porta sul retro.

Servita la colazione al doge, dissi a Pellegrino che sarei

andato a messa. Incontrai Marco nel cortile posteriore e gli diedi una fetta di pane imbottita di sardine. Lo guardai mentre la trangugiava quasi senza masticare, dopo di che ci facemmo strada per Rialto e ci addentrammo nelle vie nascoste di Venezia. Giunti nella zona dei circassi, una parte pittoresca della città abitata da una popolazione nomade e sempre mutevole, ci fermammo davanti a una taverna e fissammo le tende di sottilissima garza che sventolavano dalle alte finestre ad arco dell'abissina.

Correva voce che N'bali fosse la figlia di una donna abissina e di un marinaio italiano. Il marinaio aveva portato N'bali e la madre a Venezia e le aveva lasciate presso i circassi. L'uomo aveva ripreso il mare e, come accadeva spesso, non era più tornato. Dopo la morte della madre, N'bali restò con i circassi perché, come loro, si opponeva all'assimilazione.

Diversamente da loro, non aveva fama di essere una ladra o una ciarlatana. C'era chi chiamava zingari i circassi perché vivevano isolati ai margini della società, rispondendo soltanto alle proprie leggi. N'bali era un individuo a parte in una popolazione a parte, perché tutti riconoscevano in lei un'adepta, una persona che deteneva autentici poteri soprannaturali. Si diceva che avesse il potere di guarire e di conoscere con un semplice tocco.

Passammo tra la folla rumorosa della taverna circassa, aprendoci un varco tra gli odori del gulasc speziato e del corposo vino ambrato e meravigliandoci per la musica dissonante e lo staccato della lingua. Salire nella stanza spoglia di N'bali, con le sue alte finestre e il profumo gradevole del legno di sandalo, parve un breve viaggio dalla confusione alla calma.

N'bali sedeva a terra con la schiena dritta e le gambe incrociate. Era calva e color miele, con le lunghe membra affusolate e un sentore di tristezza nei movimenti languidi.

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Indossava sandali di corda, collane di legno e osso, bracciali d'oro e campanellini d'oro alle caviglie. Aveva il naso sottile, la bocca scolpita e due occhi pagani. I piccoli seni erano solo marginalmente coperti da una semplice stoffa rossa avvolta attorno al corpo flessuoso e gettata su una spalla. La sua voce era insinuante, carezzevole, e parlava in veneziano con un'inflessione abissina, la sua prima lingua.

Il profumo di sandalo emanava dall'olio con cui si strofinava il corpo nel tentativo di somigliare alla madre, l'autentica abissina purosangue. La tristezza le derivava dall'aver compreso il proprio mingi, termine abissino che indicava la malasorte. Il mingi di N'bali era la commistione, il fatto che il suo sangue puro abissino fosse diluito dal sangue italiano del padre. La madre le aveva insegnato a tenersi lontana dagli influssi degradanti tutt'intorno, per paura che in lei lo spirito abissino s'inaridisse facendola diventare nient'altro che una veneziana.

Non si faceva mai vedere in pubblico e le sole decorazioni della stanza erano i pochi oggetti che le aveva lasciato la madre: una stuoia tessuta, una stoffa giallo vivo buttata su una panchetta sotto la finestra, una pelle di vacca stesa su una parete, una zucca vuota in cui mangiare, una tazza ricavata da un corno levigato di giovenco in cui bere. Su un tavolo basso dalle gambe curve erano disposte alcune figure intagliate in un legno scuro, che esibivano con indecenza, e fin nei minimi particolari, le parti intime.

N'bali aveva due gatti, uno bianco e uno nero, che la fissavano attenti mentre parlava con loro. Certa gente sosteneva che i gatti capissero le sue parole sommesse ed eseguissero i suoi ordini. A nessuno veniva in mente di fare un'affermazione simile a proposito delle mie conversazioni con Bernardo, o dei discorsi zuccherosi pronunciati dal doge ai suoi animaletti, ma le parole assumevano un significato speciale se enunciate da un'adepta.

Tutto ciò che faceva N'bali era diverso. Non si dedicava a nessuna delle pratiche tipiche delle streghe o dei circassi: non abbassava le luci con drappi pesanti, non pronunciava incantesimi, non preparava miscugli né decotti. Quando entrammo nella sua stanza ariosa, ci fece cenno di avanzare,

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dicendo: « Venite, sedete qui con me » come se ci stesse aspettando.

Sedemmo sulla stuoia. Marco mi guardò e disse: « Prima Rufina».

« Certo, Marco. » Domandò: « Sai dirmi come faccio a trovare mia sorella? » N'bali distese la lunga mano e disse: « Mia madre mi insegnò

che la gente non apprezza le cose che non paga ». Marco prese le monete dalla tasca e le piazzò nel palmo

stretto. N'bali le fece scivolare con la mano aperta in una ciotola di legno, dove tintinnarono contro altre monete provenienti da diverse nazioni. Disse: « Questo è denaro rubato ».

Marco rimase a bocca aperta. « No... » « Non sono affari miei. Mia madre mi insegnò che non sono

responsabile delle azioni altrui. » Io e Marco ci lasciammo sfuggire un sospiro. Lui domandò: «

Mia sorella?» N'bali chiuse gli occhi e sul suo viso si dipinse un'espressione

dolorosa. Disse: « Tua sorella è insieme a tua madre ». « Dove? » Lo guardò tristemente e scosse la testa. Marco parve colpito, poi s'infuriò. « Se non lo sai, basta che lo

dici. » « Non lo so. » Colsi l'occasione. «Lo vedi, Marco, è una perdita di tempo. » « No! Ho già pagato. » Marco estrasse il fagotto dalla camicia

e lo aprì di fronte a lei. « Ecco » disse, « le cose che vedi qui dentro sono magiche? »

N'bali si aprì in un gran sorriso bianco, generoso. « Certo che lo sono » rispose. « In questo mondo aromatico tutto è magia. »

« Ma che genere di magia? » Dal modo in cui teneva le spalle capii che era un po' spaventato. « Come si usano? »

« Dicci semplicemente cosa sono » suggerii, « basterà. » Marco mi lanciò uno sguardo di avvertimento. N'bali fece scorrere le dita sulle foglie, sul chicco, sul baccello

e sul fiore seccato, poi disfece i capi attorcigliati dei pacchetti di carta e toccò le polveri granulose che contenevano. Posò le mani aperte sulla stoffa spiegata e chiuse gli occhi. Dopo un

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minuto domandò: « Perché mi chiedete cose che sapete già? » « Noi non le sappiamo. » Marco aggrottò la fronte. « È per

questo che siamo qui. » N'bali mi studiò così a lungo da farmi sentire sulle spine, poi

disse: « Capisco ». Prelevò una foglia e se la fece passare sotto il naso. « Valeriana» sentenziò, « calma i nervi, fa dimenticare i guai. Naturalmente, prendendone troppa, ci si dimentica di tutto da un momento all'altro. »

La salsa nepente. Prelevò l'altra foglia e disse: « Giusquiamo. In piccole

quantità serve a tranquillizzare i bambini troppo vivaci, ma in eccesso fa male al cuore e suscita una profonda malinconia ».

Pomponazzi e il doge che piangono sulla crema pasticcera. Diede con spregio un buffetto al fiore accartocciato. « Ibisco.

C'è chi sostiene che sia un afrodisiaco. » Trattenni il fiato. « Ma è soltanto un fiore. Alcuni se ne servono per fare il té. »

Sbottai: « Sei sicura? » Mi guardò leggermente divertita. « Quanti anni hai?

Quattordici? Quindici? » « Qualcosa del genere. » Inclinò la testa all'indietro e fece calare le palpebre; dal

profondo del suo petto gorgogliò a piena gola un suono chioccio. Disse: « Hai ragione, è un afrodisiaco. Mangia l'ibisco e farai l'amore senza smettere mai ».

Nella pozione del capocuoco non c'era l'ibisco. Mi chiesi se il suo filtro non fosse una ricetta incompleta. Forse era quella la ragione per cui era andata male con Francesca.

N'bali prese il chicco in una mano e il baccello nell'altra. Disse: « Caffè e cacao. Vengono dal Nuovo Mondo. Se ne possono ricavare bevande stimolanti e pasticcini squisiti come il peccato ».

Behaim, che parlando della salsa in cui erano stati inzuppati i biscotti la definisce deliziosa quanto il sesso.

N'bali toccò la polvere con la punta delle dita e il suo viso si rabbuiò.

Marco chiese: « Che cos'è? » « Oppio. Toglie il dolore e regala sogni beati. » Marco incalzò. « Non si usa mai per cucinare, vero? È una

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droga, non è così? » « Certo che è una droga. » N'bali indicò le erbe disposte

davanti a sé. « Sono tutte droghe. » « Lo sapevo. » Marco spinse verso di lei l'altro pacchetto di

carta. « Questo che cos'è? » Lei sospirò. « È stancante. » Bene, pensai, è ansiosa di liberarsi di noi. Marco indicò il denaro nella ciotola di legno. « Ti abbiamo

pagata. » N'bali diede un buffetto all'involto. « È amaranto. » « Lo sapevo! » Marco diede una manata cosi forte al tavolo

degli idoli da farli sobbalzare. N'bali ringhiò. « Come osi? » Sparpagliò le nostre erbe con un

gesto ampio e violento del lungo braccio. Marco si arrabattò per recuperarle, ma tutto scomparve nella stuoia intessuta, a parte il baccello di cacao.

Marco bisbigliò: « Che cosa hai fatto? » N'bali mosse la testa da una parte all'altra, come se stesse

liberando il collo dalle tensioni. « So cosa pensi. Mangia l'amaranto e vivrai per sempre. Mia madre mi raccontò quella leggenda insieme a molte altre: le Porte di Alessandro Magno, la Fontana della giovinezza, le salamandre che vivono nel fuoco e il prete-re, Prete Gianni. » Sogghignò. « Non era nessuno a confronto della celebre regina Eylouka. Mia madre mi disse tutto. Sapeva dell'esistenza del libro ancor prima che a Venezia se ne cominciasse a parlare. »

Mi irrigidii. “ Mia madre mi parlò di molti libri, degli sciocchi e dei bricconi che li cercano. » Indicò Marco con un dito lungo, sottile. « Tu vuoi l'oro. » Poi indicò me. « Tu vuoi l'amore. Pensate che il libro possa soddisfare i vostri desideri. »

Marco balzò in piedi con i pugni serrati sui fianchi. « Cosa sai del libro? »

Mi frapposi tra Marco e N'bali. « Non sa niente. Nessuno lo sa. »

N'bali alzò lo sguardo su di me. « Non mentire. » Con fare indifferente fece un cenno della mano verso di me. « Sai bene che è il tuo maestro a possedere il libro. »

Oh Dio. Il capocuoco non l'aveva mai confessato in modo esplicito, ma io lo sapevo. Lo sapevo da tempo, forse da quando

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eravamo stati a Roma, ma non ero pronto a dichiararlo così, senza mezzi termini, e certo non di fronte a Marco.

Marco mi si rivoltò contro. Mi inchiodò a terra con uno sguardo. Disse: « Lo sapevi ». Non era una domanda; era un'accusa. Ci fissammo.

N'bali osservò: « Non bisognerebbe mai guardare qualcuno negli occhi in quel modo. Alcuni hanno il potere di uccidere con uno sguardo ».

Marco ripete: « Lo sapevi ». Non avevo niente da replicare. N'bali distese le gambe e si alzò con un solo movimento

aggraziato. Allungò una mano e mi toccò la voglia. Sussultai, ma ne disegnò delicatamente il contorno con la punta di due dita. «Mingi, è così che si chiamano le disgrazie che capitano agli uomini. Ci sono segni che le producono immancabilmente: i gemelli, i denti storti e le voglie. »

Un brivido terribile mi corse lungo la spina dorsale e allontanai la testa dalla sua mano.

« Va tutto bene. Il tuo mingi può essere sconfitto da un sacrificio. Qualcuno deve morire, ma non ti preoccupare, qualcuno morirà. Devi solo attendere. Il mio popolo dice che la pazienza fa diventare burro il latte. »

La mia bocca si inaridì, ma N'bali si limitò a sedersi mettendo le mani in grembo con i palmi rivolti verso l'alto. Sedette perfettamente immobile, con la testa rasata e lucente bene equilibrata sul collo che somigliava a uno stelo e gli occhi persi nel vuoto, quale immagine della serenità oltremondana.

Io e Marco indietreggiammo e, giunti alla porta, N'bali alzò la mano dicendo: «Andrà tutto bene. Qualcuno morirà».

Uscimmo dalla porta addossati l'uno all'altro e scendemmo le scale con passo pesante. Giunti in fondo, sibilò: « Lo sapevi ».

« Marco, tu non capisci. » « Capisco che sei un bugiardo. » «Lascia che... » « Gli porterò via quel libro. Non cercare di fermarmi. » «Marco, ascolta... » Mi spinse di lato e scomparve nella folla dei circassi

danzanti.

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Mi feci strada nella taverna continuando a udire nella mente la voce di N'bali: Qualcuno morirà. I miei pensieri furono interrotti da un pizzicorino alla nuca, la sensazione di essere osservato, e voltandomi vidi Giuseppe che mi guardava fisso da un tavolo d'angolo. Che ci faceva in una taverna circassa? Era uno di quelli che davano degli zingari ai circassi per poi sputare. Mi guardò dritto negli occhi e rammentai che N'bali ci aveva avvertito dell'esistenza di sguardi che uccidono. Mi allontanai, ma era già troppo tardi.

26

Il libro dell'immortalità

Il giorno seguente mi sforzai di capire come poter affrontare

con il capocuoco la questione di N'bali. Balzava agli occhi che fossi preoccupato. Il capocuoco mi sferzò per tutta la mattina con l'ammonizione che pronunciava più spesso: « Fà attenzione ». Ero così distratto che venni colpito ripetutamente da quella frase, come se fosse una mazza. Fui riconoscente quando giunse l'ora del panino di metà mattina. Portai pane e prosciutto in cortile e mi sedetti a mangiare con la schiena appoggiata alla pompa dell'acqua. Non appena ebbi finito di leccare il sale e le briciole dalle dita, il capocuoco uscì e torreggiando sopra di me disse: « Tutto bene? Cosa c'è? La ragazza? »

« No, Maestro. » Mi pulii la bocca con il dorso della mano e borbottai: « È successo qualcosa di nuovo. Temo che ci saranno guai ».

« I guai ci sono sempre. » Si chinò appoggiando le mani sulle ginocchia. « Secondo la mia esperienza, i guai aprono spesso nuove possibilità. »

« Ci sono soldati in tutta Venezia e chiunque è sospettato. Mi dispiace, ma non vedo che possibilità possano aprirsi in una situazione simile. »

« Si presenta l'opportunità di praticare il metodo indiano di preparazione dei menu. »

« I menu? » Ostrega, pensai, il mio maestro ha una sola cosa

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in testa. Il capocuoco si accovacciò accanto a me. « Un maestro

indiano di nome Deviprasad suddivise il cibo in tre tipi: i tuberi, che hanno la qualità dell'inerzia; la carne e le diverse qualità di pepe, che stimolano l'eccitazione; la frutta fresca e le verdure, che sono eterei. Ogni pasto deve creare un equilibrio armonico. Eccedere in una tipologia di cibi significa sbilanciare il pasto. »

Allargai le mani. « Questo cosa c'entra? » « Nei tempi incerti bisogna mantenersi equilibrati come un pasto ben bilanciato; non bisogna essere troppo apatici, eccitati o turbati. Deviprasad insegnò ai suoi apprendisti a essere pazienti e vigilanti. »

«Ma... » « Mi hai sentito? Pazienti e vigilanti; questo significa fare

attenzione. » La pazienza e la vigilanza andavano benissimo, ma lui non

sapeva niente di N'bali. « Maestro » dissi, pensando che la cosa migliore fosse affrontare l'argomento di petto, «sono andato dall'abissina insieme al mio amico Marco. »

Il capocuoco premette pollice e indice sugli occhi. « Perché? » « Sabato notte Marco è entrato in cucina. L'ho sorpreso, ma

aveva già rubato qualche spezia dal vostro armadietto. La domenica voi non c'eravate e lui aveva già deciso di portarle da N'bali con o senza di me. Conosco Marco. Ho pensato che sarei stato capace di tenerlo a bada e volevo proteggervi. »

« Cosa mi stai dicendo? » « Maestro, N'bali gli ha rivelato che voi avete il libro. Come fa

a saperlo?» Il capocuoco si strinse nelle spalle. « È un'adepta. » « Ha detto che qualcuno è destinato a morire. » « Bah. È come dire che il sole sorgerà. » Sembrava che non afferrasse la gravita della situazione. « Mi

preoccupa quello che può fare Marco. » « Marco? » Strizzò gli occhi divertito. « Ci sono in circolazione

minacce più gravi di quella che può rappresentare Marco, no? »

«Ma... » « Senti, apprezzo che tu abbia cercato di proteggermi, ma

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non puoi controllare qualsiasi situazione. » Mi mise una mano sulla spalla. « Devi imparare a rimanere calmo nei momenti di pericolo. Vediamoci in cucina stanotte. A tarda ora, quando lutti dormono. »

Quella sera, scesi furtivamente i gradini a piedi scalzi. La scala era buia e silenziosa e mi fermai a metà strada per il solo motivo che ogni atto clandestino ispira una certa esitazione. Il capocuoco sedeva in cucina davanti alla sua scrivania in un cerchio di luce gialla, come una pozza di burro fuso, e aveva il capo chino su uno dei suoi ricettari. Dissi: « Sono qui».

Alzò lo sguardo. « Eccoti. » Mi ordinò di avvicinarmi e spostò una sedia in modo che ci trovassimo l'uno di fronte all'altro. « Luciano » cominciò, « tu sai che possiedo scritti segreti.

« Sì, Maestro, il libro. » « Ebbene, i libri sono tanti. Tuttavia possiedo un libro di

ricette che serve per trasmettere l'insegnamento. Le ricette sono i codici di una conoscenza che proviene da luoghi e tempi diversi. »

« Sì, Maestro. » « C'è una sola ricetta che può essere fraintesa, ma il suo

messaggio è importante. » « Sì, Maestro. » Fece balenare un mezzo sorriso equivoco. « È un soufflé di

amaranto. C'è chi pensa che l'amaranto sia estinto, ma non lo è, come hai constatato nella cantina sotterranea; è soltanto difficile da trovare e molto costoso. L'amaranto da al soufflé un buon sapore di noci, ma gode di una reputazione esagerata, e la ricetta ha indotto certa gente a parlare di immortalità. »

« L'immortalità non esiste. » Si stava profilando una certa confusione. « Non è così? »

« Non nel senso in cui si intende di solito. » « Che cosa significa? » « Tutti muoiono, ma lasciano qualcosa dietro di sé.

L'immortalità si conquista trasmettendo la conoscenza. » Si sporse talmente verso di me che sedemmo quasi naso contro naso. Notai la presenza di nuove rughe sul suo viso e di un certo gonfiore intorno agli occhi, ma pareva compiaciuto di sé. « Il soufflé insegna quanto sia folle inseguire l'immortalità. La vita è morte. L'attimo sorge e muore. Non esiste nient'altro che

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il presente, ma non si può restare attaccati al presente, si può soltanto viverlo. Un soufflé risveglia la consapevolezza dell'attimo.

Costringe a riconoscere il valore di ciò che è intenso e mutevole nel momento presente » disse.

Mi grattai la testa. « Un soufflé? » Si mise comodo. « Ecco, guarda qui. » Spinse un libro

sbrindellato dall'altra parte della scrivania. La copertina era di pelle di seconda scelta, e il volume era lacero e macchiato perché era stato usato senza nessuna cura. Le pagine erano strappate e rappezzate, e ne sporgevano in modo del tutto casuale alcuni fogli di pergamena. Mentre il capocuoco voltava le pagine, vidi che le annotazioni erano state scritte da molte mani diverse. Le lettere assumevano una moltitudine di strane configurazioni e alcune somigliavano a quelle che avevo visto incise sulle porte del ghetto. Circa a metà del libro, il capocuoco lo girò perché me lo trovassi di fronte. La pagina che indicò era incantevole: la pergamena abbrunita dagli anni, i margini ornati dalla foglia d'oro, la scrittura scorrevole. Piccoli tralci e fiori di fattura squisita ornavano gli angoli della pagina. Disse: « Eccolo: il soufflé di amaranto. Bellissimo, eh? »

Domandai: « Questo è... il libro? » « Sì. » II capocuoco fissò la pagina e assunse un'espressione

vaga. Disse: « Madre di Dio. È sfibrante anche solo pensare all'immortalità». Emise un lungo soffio. «Devi sapere che uno degli scritti proibiti chiama "elisir di immortalità" il risveglio spirituale. Forse tutte le fandonie sugli elisir sono partite da qui. »

« Un momento. Questo sarebbe il famoso libro? » « Cosa c'è di strano? Sapevi che lo possedevo. » « Ma è così malconcio! E si trova proprio qui, in cucina, allo

scoperto? Nella vostra libreria? » « Sì, nascosto sotto gli occhi di tutti. È il modo migliore. È uno

dei vantaggi che offre la professione di capocuoco: i miei libri non interessano nessuno tranne me. Sono tutti alla ricerca di un volume raro e ben fatto, con la copertina di pelle ingrassata e le pagine miniate, un libro conservato con cura e ben nascosto in un monastero. Sarebbe troppo ovvio. No, noi Guardiani assorbiamo le conoscenze con cui veniamo a

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contatto, le cifriamo e le trasmettiamo. Il libro è un manuale di insegnamento. »

« Dunque, questo è il libro. » Ostrega. Si alzò in piedi. « Vieni, Luciano. Adesso imparerai qualcosa.

» Il capocuoco si avviò verso il tavolo di fronte al forno di

Enrico e scelse una frusta. Disse: « Devi capire che per fare un soufflé ci vuole la tecnica ».

« Ma perché facciamo un soufflé? Perché non parliamo dei Vangeli gnostici, di Borgia, di Landucci, di Marco e di N'bali? »

« I Guardiani hanno sempre vissuto rischiando di essere scoperti. Ecco perché è necessario coltivare la pazienza e la vigilanza, e per riuscirvi bisogna essere perfettamente presenti. Allora, facciamo un soufflé. »

Mi grattai di nuovo la testa. « Ecco. Fa attenzione. Il soufflé è magico. Si innalza nella

terrina come una nuvola dorata e possiede una natura effimera. »

« Una cosa? » «Non dura, Luciano... come la vita. È ciò che lo rende

prezioso. » Il capocuoco radunò burro dolce, panna, amaranto, farina,

formaggi, uova, una spezia scura, un pizzico di sale e pepe bianco. Disse: « L'amaranto gli da un sapore gradevole, ma l'antico simbolismo ha ingenerato confusione. Dimentica tutte quelle storie; è solo un cereale raro. Dal sapore amabile. Adesso prepara il fuoco. Molto basso e costante ».

Il capocuoco Ferrerò ruppe le uova con una mano, lasciando cadere i tuorli in una ciotola e gli albumi in un'altra, e poi le accantonò entrambe. Mi diede mortaio e pestello per schiacciare il sale e il pepe. Mentre li frantumavo e li riducevo in polvere, disse: « Molto fine. È l'attenzione ai particolari che fa la differenza».

Grattai i formaggi mentre mescolava in una teglia burro fuso, amaranto e farina che batté fino a farne un impasto, e poi pose la teglia in una griglia lontana dalla fiamma. Aggiunse a poco a poco la panna con una mano, continuando a mescolare con l'altra. Il suo viso era diventato rubizzo per il caldo e

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appariva fradicio di sudore, ma non variò mai il ritmo. Tolse la teglia dal fuoco, vi incorporò metà delle chiare rimescolando, aggiunse la presa di sale e pepe e allungò una mano per prendere la spezia marrone. «Noce moscata» sentenziò. «Deve esserci sempre una spezia. » Ridacchiò.

Aggiunse mescolando i formaggi grattati e accantonò il denso impasto. Aggiustò con un pizzico di sale le chiare d'uovo, pose una scodella inclinata nell'incavo del gomito e cominciò a montare a ritmo rapido e costante. L'avevo già visto farlo e mi piaceva guardare le chiare d'uovo ispessirsi ed espandersi in una nuvola soffice. Amalgamò le chiare d'uovo montate a neve alla miscela di formaggi e versò il miscuglio in uno stampo. Lo fece scivolare nella griglia più alta del forno e disse: « Con delicatezza. Non si è mai troppo delicati ». Si asciugò le mani nel grembiale dicendo: «Adesso aspettiamo ».

Gemetti al pensiero della lunga attesa e il capocuoco sentenziò: « Gran parte della vita è attesa. E utile farlo con garbo ».

« Sì, Maestro. » Feci un cuscino delle mie braccia sistemandole sul tavolo e vi posai la testa. La luce del fuoco, il silenzio, il calore, il profumo che stava prendendo corpo, il fruscio delle pagine voltate, tutto questo mi avviluppò in un senso di pace e mi assopii. Un soufflé impiega un'ora a cuocere, ma quando il capocuoco mi svegliò proclamando: « Finito! » ebbi la sensazione che fossero passati soltanto pochi secondi.

Il soufflé aveva l'aspetto preannunciato dal capocuoco: una nuvola dorata sollevatasi per magia dallo stampo. Strinse con delicatezza tra due asciugamani il recipiente caldo e lo sollevò dalla griglia con tenerezza. Lo posò sul tavolo mantenendolo orizzontale, fece un passo indietro e disse: «Contempla. Un soufflé ». Sembrava un padre orgoglioso.

Ammirammo la crosta brunita, inalammo il profumo intenso e provammo meraviglia di fronte alla sua architettura a cupola. Poi, al centro del soufflé, apparve una fossetta. La fossetta si approfondì in un cratere e tutt'intorno a quest'ultimo cominciarono ad allargarsi le grinze. Dissi: « Maestro, si sta smontando».

« E ovvio che si stia smontando. Pensa soltanto, Luciano, che questo soufflé non si solleverà mai più e tu l'hai visto. Se non

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avessi fatto attenzione, ti saresti perso lo spettacolo. » Scosse la testa. « Secondo una delle dicerie più sciocche che abbia sentito, l'aggiunta dell'amaranto gli impedirebbe di cedere. Come se questa eventualità lo migliorasse. Bah. » Accennò con un gesto grandioso al soufflé che si andava restringendo e disse: « Impermanenza. Mirabile, eh? »

Mi sforzai di giungere a quella comprensione che avrebbe richiesto un'intera vita.

Il capocuoco mi porse un cucchiaio ma, prima che lo immergessimo nel soufflé, disse: « Qui, in questo momento, ci siamo solo noi e il soufflé. Il tempo è sempre il presente; a noi non resta che abitarlo. Pensi di esserne capace? »

« Penso di sì, Maestro. » « Bene. Adesso mangiamo. » Il capocuoco spezzò la crosta

delicata e ne scodellò una porzione per ciascuno di noi. Mi offri un piatto e un sorriso. «Assapora la semplicità friabile del momento, Luciano. »

Il soufflé era leggero e cremoso. Il primo assaggio mi scoppiò in bocca e mi abbandonai al sapore ben amalgamato e alla consistenza setosa; l'amaranto gli donava davvero un sottofondo di noci. Il secondo assaggio mi rivestì la lingua di opulenza e le mie preoccupazioni si fecero da parte. Il capocuoco aveva ragione: abitando fino in fondo il presente, non consentiamo a null'altro di intromettersi. Il soufflé mi fece struggere.

L'ultimo boccone mi scivolò in gola e il capocuoco sorrise. Disse: « Sai, Luciano, a volte penso che tutto quel che si dice sull'alchimia abbia avuto origine anche da questo soufflé ».

« Perché ha il colore dell'oro? » « No. Perché non appena si impara a vivere nel presente, si

possiede tutta la ricchezza che è possibile ottenere. Dobbiamo accogliere ogni momento. »

« Anche quelli brutti? » « Soprattutto quelli brutti. Sono i momenti che ci svelano chi

siamo. » Mentre rassettavo, pensando alla mia lezione, il capocuoco

andò alla scrivania e sfogliò il libro. La costola era rotta; alcune pagine si erano logorate fino a diventare quasi trasparenti, altre invece erano così friabili da crepitare quando venivano

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girate. Il resto era composto da fogli sciolti, spiegazzati, macchiati, lacerati...era evidente che da molti anni il libro era in uno stato di perenne mutamento, sottoposto a revisione e ampliamento costanti. Mi venne spontaneo pensare che doveva essere aumentato considerevolmente nel corso dei secoli mentre passava per innumerevoli mani. Finito di lavare i piatti, sedetti insieme a lui alla scrivania. Domandai: «Che cosa conteneva il libro in origine?»

Si appoggiò allo schienale. « In origine non c'era un libro, soltanto alcune pergamene. Alcuni ritengono che nelle grotte del deserto ve ne siano altre non ancora scoperte. I deserti, che sono caldi e asciutti, conservano gli oggetti piuttosto bene. Certi scritti sostengono che in Egitto vi sono tombe reali in cui si sono preservati antichi re insieme a cumuli d'oro e persino alcuni dei loro schiavi. »

« Ostrega. » « La nostra tradizione cominciò da un briciolo di conoscenza

che qualcuno voleva distruggere e qualcun altro intendeva salvare. Uno studioso scaltro arrotolò una pergamena oggetto di polemiche, la infilò in un orcio di terracotta e lo nascose in una grotta. Altri seguirono il suo esempio, e l'usanza lievitò, come peraltro il corpus delle conoscenze. Con il tempo, certi studiosi pianificarono il loro impegno e concordarono di inserire i concetti nelle ricette, in modo da poter trasmettere le conoscenze travestite da lezioni di cucina. Noi le conserviamo e ne aggiungiamo altre, ogni volta che vengono alla luce nuove idee. Un po' come hai fatto tu, con la tua torta al formaggio. Sarà un'ottima acquisizione e non mi sorprenderebbe se diventasse una delle ricette preferite.

« Naturalmente alcune ricette sono più preziose di altre. Se dovessi scegliere, suppongo che selezionerei quelle che considero le più importanti: i Vangeli gnostici e le lettere di Ruggero Bacone. Ma un gesto simile equivarrebbe a tagliare un carciofo fino al cuore, e sarebbe un peccato perdere tutte quelle foglie carnose, no? »

« È incredibile » osservai, « pensare che tutti questi scritti siano sopravvissuti a secoli di guerre e di cambiamenti politici. »

Il capocuoco sorrise. « Nei periodi di crisi si diventa abili a

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proteggere ciò che si ritiene importante. Ma il nostro primo dovere è conservare la tradizione e proteggere i Guardiani. »

Mi figurai una lunga linea di chef stendersi come un'immagine spettrale alle spalle del mio maestro, con le berrette bianche che andavano sfumando nell'antichità, perdendo i loro contorni e trasformandosi gradatamente in cappucci, turbanti e copricapo biblici. Una stirpe clandestina di chef che erano ben più di quanto il loro ruolo prevedesse, ciascuno dei quali aveva conservato ciò che gli era stato trasmesso, aggiungendo le proprie cognizioni al corpus delle conoscenze. Mi sentii umile al pensiero che sarei diventato erede di quell'antica società. Domandai: « Come funziona, Maestro? Un solo libro che passa di mano in mano per un periodo di tempo tanto lungo... sembra impossibile».

« Un solo libro? Quello si che sarebbe impossibile. E sciocco, non credi? No, ciascun Guardiano possiede il proprio libro e nessuno è identico a un altro, poiché vengono cambiati e accresciuti in continuazione. Come la vita, no? Ciascun Guardiano si prende cura del proprio libro fino al momento in cui tutto non potrà essere svelato in piena sicurezza. Poco importa quanto tempo ci vorrà. Nessun seme vede il proprio fiore. »

Mi si gonfiò in petto un'eccitazione che mi riempì la testa di un tumulto di domande. « I Guardiani si conoscono tra loro? Ce ne sono altri a Venezia? Quanti sono? Si trovano in tutta Europa? Da dove ricavate le vostre conoscenze? Vi incontrate in segreto? »

« Rallenta » ammoni il capocuoco. « Pazienza e vigilanza sono le nostre parole d'ordine. »

« Voi conoscete altri Guardiani? » « Ciascuno di noi conosce il nome di due Guardiani di altri

paesi. Se un libro rischia di essere scoperto, va distrutto. » Si strinse convulsamente le mani all'altezza del cuore. « Madonna, che prospettiva. » Scosse la testa. « Purtroppo è accaduto. Uno chef siciliano entrò in possesso di alcuni diagrammi che spiegavano la costruzione della piramide di Cheope. Stava sperimentando una ricetta elaborata che traducesse in linguaggio cifrato quell'incredibile prodezza di ingegneria - ho sentito dire che si servì di grandi

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quantità di marzapane - ma, non si sa come, fu scoperto. Poiché si riteneva che le piramidi glorificassero gli dei e i rituali pagani, lo chef fu arrestato come eretico. I diagrammi andarono distrutti, ma lui morì con onore senza tradire i Guardiani. »

« Dovreste nascondere il libro, Maestro. » « Sciocchezze. Questo è il posto più sicuro in cui tenerlo.

Landucci e Borgia non hanno nessuna buona ragione per interessarsi a un libro di cucina che cade a pezzi. E si ritengono troppo intelligenti per consultare un'adepta solitaria come N'bali. La lasciano ai contadini superstiziosi. Per quanto riguarda il tuo giovane amico, è improbabile che qualcuno gli creda. Penso che per il momento i Guardiani siano al sicuro. In ogni caso, gli scritti più importanti, come i Vangeli gnostici, sono conservati in una molteplicità di luoghi. Le minacce vanno e vengono, ma noi rimaniamo quieti e aspettiamo. » Il capocuoco chiuse il libro e passò una mano amorevole sulla copertina sudicia. « E allora, che cosa hai imparato? »

« A fare attenzione al momento presente. » « Bene. » Fermò lo sguardo sui miei occhi e disse: « È giunto il

tempo di diventare un uomo, Luciano. Basta giocare con Marco. Quando morirà il doge e le dicerie smetteranno di circolare, dovrai essere pronto a intraprendere un lungo corso di studi».

« Sono pronto. » Il libro mi avrebbe reso degno del capocuoco e di Francesca.

Ripose il libro sullo scaffale e disse: « Per prima cosa imparerai a leggere e a scrivere, in molte lingue. Poi studierai storia, scienza, filosofia». Sorrise. « Ma per chiunque starai imparando l'arte culinaria. »

« Sono tante le cose da imparare. » « Puoi farcela. Sei migliore di quanto tu pensi. Avrai la tua

prima lezione proprio ora. » Prese una pergamena dalla scrivania e scrisse una parola. «Ecco. La vedi? Si legge 'Guardiani'.

Sei capace di memorizzare le lettere e la loro disposizione in modo da riconoscere questa parola? »

Considerai ogni singola lettera e il disegno che creavano insieme. Feci scorrere il dito sotto la parola fermandomi a ogni

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carattere. G- u-a- r-d-i- a-n-i. Mentre il brivido provocatomi dall'improvvisa alfabetizzazione risaliva sibilando la mia schiena, sussurrai: « Ostrega, so leggere».

Il capocuoco accartocciò la pergamena e ne fece una palla dicendo: « Non lasciarti impressionare troppo. Ne hai di strada da fare».

Gettò nel fuoco la pergamena appallottolata. Si annerì e scomparve con un crepitio sibilante, ma vedevo ancora la parola - Guardiani - con gli occhi della mente, la parola che mi avrebbe salvato la vita.

27

Il libro del momento presente

Il capocuoco si passò la mano sul viso stanco. « Per una sola

notte può bastare. Pensa a quello che hai imparato e ne parleremo meglio quando non ci sarà più. » Alzò lo sguardo al soffitto per indicare i piani superiori dove viveva il doge. « Ricorda, Luciano. Ci sono periodi in cui bisogna essere presenti e vigili. Metti in pratica la lezione del soufflé. Sii presente là dove ti trovi, e non vagare altrove con la mente. »

Più facile a dirsi che a farsi, poiché, subito dopo, iniziò il periodo della confusione. Ero a palazzo da quasi sei mesi e l'ossessione del doge si era aggravata di pari passo con la malattia; la ricerca dell'immortalità era arrivata al punto di massima ebollizione. Il doge era ormai in procinto di morire e, in certi ambienti, le chiacchiere sul libro avevano preso il secondo posto dopo le scommesse sulla durata del vecchio. Il capocuoco sentenziò: « Il doge è come una passera nera su un tagliere, che si dimena sperando di salvarsi la vita». In effetti, i ribaldi al suo servizio imperversavano senza controllo nella città mentre le cappe Nere osservavano in silenzio e arrestavano la gente. Frattanto i mercenari svizzeri tenevano d'occhio le Cappe Nere. Tutti spiavano tutti.

Marco e Francesca avevano visto senz'altro le frotte dei soldati e dovevano essersi posti parecchie domande. Fu per quella ragione che non mi allontanai da palazzo e continuai a

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evitarli. Prima di lasciargli gli avanzi, mi assicuravo sbirciando dalla porta sul retro che Marco non fosse lì. Non mi mancava (soprattutto da quando aveva perso il senso dell'umorismo) ma, oh, Francesca. Avevo messo da parte venti centesimi; ancora qualche settimana e ne avrei avuti abbastanza da liberarla.

Fortunatamente, gli eventi che si susseguirono a palazzo mi tennero occupato. A mano a mano che il doge deperiva, udivo Teresa riferire a Enrico ciò che vedeva nelle sue stanze private. Pareva che urinasse negli angoli e si sedesse a terra piangendo. Teresa, controparte femminile di Enrico nello smercio di pettegolezzi, aveva preso a visitare più di frequente la cucina e spesso i due conferivano a bisbigli accanto al forno. Una volta la fermai sulla porta di servizio, mentre stava uscendo, e le domandai quanto restasse da vivere al doge.

« Chi lo sa? » Battè le palpebre eccitata. « Vaga per le stanze nudo e disorientato. Le macchie che lascia nella biancheria da letto ti farebbero venire i conati di vomito. » Assunse un'espressione piena di disgusto. « Non può mancare molto. Almeno è quello che speriamo. » Ammiccò e uscì di fretta per raccogliere altre notizie.

Noi che lavoravamo in cucina ci trovammo a dover preparare i pasti alla sfilza di medici che fecero visita a palazzo. Il primo dottore, giunto dalla scuola di medicina di Padova, somministrò al doge una dose di salsapariglia tre volte al giorno. Quando la terapia si dimostrò inutile, porse le proprie scuse e si trasferì a Milano con la famiglia. Il successivo, un prete romano, medico personale del papa, portò i saluti di Sua Santità e si offrì di somministrare l'estrema unzione. Fu rispedito a Roma senza un grazie.

Poi iniziarono ad arrivare da luoghi remoti: un erborista di Parigi, un medico di Francoforte, un inglese che, con il mercurio, fece diventare blu le piaghe del doge e un vecchio persiano incanutito con una lunga barba bianca, vestito di raso color porpora, che recava incenso e sanguisughe.

Correva voce che il doge avesse contratto il mal francese da una cortigiana inviatagli in dono qualche tempo prima dal sommo magistrato di Genova. Teresa commentò: « Me la ricordo. Una bagascia formosa». Fece l'occhiolino per indicare

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che la donna malata doveva essere stata inviata come scherzo di cattivo gusto o per vendetta politica.

L'argomento della vendetta mi fece venire in mente Giuseppe, che appariva stranamente disinteressato all'impazzare dei pettegolezzi. Era troppo impegnato a odiare me, e da quando ero stato promosso, la sua ostilità era diventata un'ossessione.

Più miglioravo come cuoco addetto alle verdure, più mi disprezzava. Sentivo il suo sguardo malevolo quando affettavo le cipolle, o salavo le melanzane, o mi consultavo con Dante a proposito del cavolo stufato. Ogni volta che mettevo a bollire una pentola, Giuseppe era lì, che attizzava il fuoco e borbottava. Mi gettava il malocchio a ogni occasione e talvolta cambiava strada per sfregarsi contro di me, aggrottando la fronte e dandosi dei colpetti di lato sul naso. Era come una pentola sul punto di traboccare.

Frattanto il doge smise di comparire in pubblico. Era sempre stato una buona forchetta, ma ora i suoi pasti erano magri e scialbi, niente più che brodini chiari o zuppe d'avena serviti nella sua stanza. Lo vedevo spesso, ingobbito e con gli occhi sprofondati nelle orbite, già simile a uno spettro, mentre bazzicava le sale cavernose del palazzo in camicia da notte; la veste bordata di ermellino che si era buttato addosso, ormai sformata sulla sua figura rimpicciolita, lo seguiva come un simbolo dell'eleganza perduta.

Un giorno arrivò a palazzo un dottore cinese e il capocuoco mi ordinò di preparare un assortimento di verdure finemente tritate e saltate a fiamma vivace in una padella concava. Ingredienti e preparativi per quel piatto mi erano sconosciuti: olio di sesamo, funghi neri e mosci, quadratini di una crema bianca e soda, verdure pallide e germogli trasparenti e croccanti da versare nella padella all'ultimo minuto. Il capocuoco scodellò la mistura su un pesce cotto al vapore e sui taglierini sottili di riso immersi in un brodo leggero. Il dottore cinese fornì il condimento, un liquido nero fermentato, e mangiò con due bastoncini d'avorio al posto delle posate. Scandalizzò le cameriere bevendo il brodo direttamente dalla ciotola.

L'imperscrutabile medico curava ogni giorno il doge a porte

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chiuse. L'omino giallo, che indossava una lunga veste di broccato di seta, ispirava un bel po' di chiacchiere tra le cameriere. Parlavano di melodiose salmodie in una lingua tonale e acuta, e di inchini tributati a un idolo dal sorriso compiaciuto. Si facevano innumerevoli ipotesi sul significato di tutto ciò. Di notte, nelle stanze dei domestici galoppava un flusso costante di notizie incontrollate che, di giorno, solleticava chiunque tenendo il personale in uno stato di attesa.

Nessuno sapeva che cosa combinasse il dottore cinese, ma tutti avevano voglia di scoprirlo. Ogni domestico sapeva che il palazzo era perforato da passaggi segreti che portavano sia alle prigioni sotterranee sia alle postazioni delle spie dietro le pareti di certe stanze. Gli ingressi di quei cunicoli, e le stesse finestrelle delle spie, erano ben dissimulati e non c'è dubbio che ci si fosse dimenticati da tempo della presenza di molti di quei passaggi. Io conoscevo soltanto la postazione dietro la Brutta duchessa, ma c'erano domestici ben più informati di me.

Curiosa di sapere quali cure somministrasse il dottore cinese, un giorno Teresa arrivò in cucina tremante e agitata. Si mise accanto alla porta di servizio e sventolò il grembiale finché non intercettò il mio sguardo; accennò con un pollice insistente alla porta che dava nel cortile sul retro. Quando ci incontrammo all'esterno, disse: « Non resisto un altro minuto. Devo sapere che cosa sta facendo quel selvaggio ».

«Ma, Teresa... » « C'è una porta. » « Una porta? » « Nella Sala dei Cavalieri. Hai presente la nicchia nel muro

dove si trova quell'enorme armatura spaventosa? Fa pensare che l'abbia indossata un gigante, eh? » Rabbrividì in modo teatrale.

« Perché mi parli di quella porta, Teresa? » Si lisciò i capelli grigi e crespi e il suo viso sciupato assunse

un'espressione soddisfatta per l'informazione segreta di cui era a conoscenza. « La porta alle spalle della gigantesca armatura conduce a una postazione di spie dietro il letto del doge. È una finestrella nascosta tra le ombre di una pittura murale di fiori

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e frutti. Conosci il trucco che utilizzano con quei dipinti? Come quello della Brutta duchessa? »

« Sì, Teresa. » « Il doge non si è mai accorto di quella finestrella - è fatta

molto bene - e adesso è troppo malridotto per notarla. » « Mi stai dicendo che hai intenzione di... » « Ooooh, non io! Non ci passo. » Si batte i fianchi larghi. « Tu, Luciano, tu sei piccolo e svelto. La prossima volta che

quel selvaggio entra nella sua stanza, io rimango di guardia, e tu ti intrufoli e dai una sbirciata. » Mi sorrise piena di aspettative.

Intrufolarsi per dare una sbirciata? Irresistibile. Il giorno dopo, non appena il dottore cinese entrò nella

camera da letto del doge, una catena di cameriere trasmise il messaggio a Teresa. Qualche minuto dopo, nella Sala dei Cavalieri, Teresa mi batté una guancia dicendo: « Và con Dio ».

Mi infilai dietro l'armatura e tastai la parete di blocchi di pietra per trovarvi traccia della porta. Quando le mie dita rilevarono una leggera protuberanza in una parte di intonaco privo di malta, mi appoggiai con tutto il peso e spinsi con la spalla.

La porta cedette con uno stridio per lo sfregamento della pietra contro la pietra e una folata d'aria fredda e ammuffita mi sfiorò il viso. Sgusciai nell'apertura e mi sentii immediatamente sollevato alla vista di una maniglia di ferro all'interno della porta. Sicuro che sarei riuscito a venirne fuori, chiusi la porta.

Al buio! Fui avviluppato da un'oscurità così assoluta da non vedere la

mano che agitavo freneticamente davanti al viso. Allungai le braccia e arrivai immediatamente a toccare su entrambi i lati le pareti fredde, appena sgrossate.

Intrappolato nelle tenebre! Sulla fronte e sotto le braccia sgorgò il sudore e il cuore mi

batté in gola. Non riuscivo a respirare. In preda alla frenesia afferrai la maniglia di ferro della porta e l'aprii per metà. Sostai nella stretta striscia di luce e inghiottii aria. Quando il cuore rallentò, feci un respiro profondo e mi asciugai il sudore sul viso. Avevo le ascelle fradicie e mi tremavano le mani.

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Pensai: Ostrega, tutti i dottori cinesi del mondo non riuscirebbero a farmi chiudere la porta una seconda volta. Fissai l'ampia schiena di Teresa e mi vidi tornare quatto quatto da lei, imbarazzato e smanceroso, a dover ammettere di non essere in grado di attraversare il cunicolo. Esitai, incapace di tornare sui miei passi o di rientrare. Stupido.

Pensai di chiedere una candela, ma in quel cunicolo, come in qualsiasi altro, vi erano sicuramente delle correnti d'aria, e la fiamma avrebbe potuto spegnersi, lasciandomi in difficoltà. Sbirciai alle mie spalle, sperando di vedere una torcia appesa al muro che aspettasse soltanto di essere accesa. Non c'era nessuna torcia, ma fui felicemente sorpreso nel constatare che la porta socchiusa lasciava passare la luce sufficiente a distinguere le pareti, il pavimento e persino le ombre. Quella luce era più affidabile di una candela e la porta socchiusa rassicurava dell'esistenza di un'agevole via di fuga. Mentre sbirciavo nel cunicolo mal illuminato, mi sentii come un bambino che ha acceso un lume in una stanza buia e ha scoperto che non ci sono mostri in agguato. Mi ricordai del profondo respiro che avevo fatto nella cantina sotterranea e decisi di riprovarci. Feci un passo, poi un altro e tutto andò bene. Dopo poco camminavo a un'andatura normale.

Quasi impercettibilmente, la luce cominciò a scemare e il mio respiro accelerò. Mi fermai, chiusi gli occhi, e rammentai a me stesso che avrei potuto voltarmi e ripercorrere a ritroso il cammino quando avessi voluto. Non c'era nessun pericolo, soltanto la paura del pericolo. Stavo benissimo, in quel momento e in quel luogo. Resi uniforme il respiro, poi aprii gli occhi e mi resi conto che il cunicolo sembrava più luminoso della totale oscurità in cui ci si immerge a occhi chiusi. Proseguii e quando la luce scemò ancora, chiusi di nuovo gli occhi per regolare la visione. Quando li riaprii, tuttavia, le ombre erano sparite: a quel punto le tenebre erano identiche, sia che tenessi gli occhi chiusi sia che li aprissi. Allargai le braccia e le pareti parvero più incombenti di prima. Non bastava l'aria. Mi salì in petto un terrore irrazionale. A voce alta dissi: «Respira». Ma non funzionò. La mia gola assorbì un grido e mi sentii soffocare. Ruotai su me stesso per correre verso la porta.

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Preso dal panico, caddi e la testa rimbalzò sul muro grezzo. Quando mi rialzai, sentii il sangue sgocciolarmi sul viso. Ero disorientato. Da che parte si avanzava e da quale si tornava indietro? Corsi terrorizzato, senza pensare, incespicando e cadendo, rialzandomi e rimettendomi a correre, ansante e in lacrime. Anche quando sentii sotto i piedi un'elevazione simile a una rampa, non fui così coerente da voltarmi e andare nell'altra direzione. Annusai il mio odore, il muschio del terrore animale. Vidi una luce e sbattei le palpebre per cacciare le lacrime dagli occhi. Sì, un puntino di luce! Corsi nella sua direzione e questo si ingrandì. Era una finestrella da spie a forma di grappolo d'uva, il lato posteriore di un altro magnifico trompe l'œil.

Lo raggiunsi e appoggiai la fronte umida appena al di sopra, lasciando che la scarsa luce mi bagnasse il viso. Non so quanto tempo rimasi così, ansante e con un tremito addosso, ma a un certo punto udii il doge mormorare. Quando apposi l'occhio alla finestrella, di fronte a me si aprì la stanza e vidi il letto ducale, dorato e drappeggiato, a pochi passi di distanza dalla mia postazione. Il respiro rallentò e presi atto della sconvolgente scena.

Il dottore cinese era curvo sul doge, che giaceva supino sul letto, nudo come una gallina spennata. Il dottore manipolò uno dei tanti aghi sottili che protrudevano dalle gambe, dal petto e dalle parti intime del doge. Era una visione morbosa e bizzarra e la mia ignoranza la rese affascinante. Sobbalzai quando il dottore fece scivolare un ago nell'inguine del doge, ma questi non si ritrasse per evitare la procedura che aveva tutta l'aria di essere dolorosa. Giaceva sul letto, mormorando frasi incoerenti, come un uomo rinchiuso in un sogno di sconfitta.

II dottore prese un altro ago da un vassoio accanto al letto e puntò ai testicoli del doge.

Non ce la feci più a guardare. Mi accucciai sotto la finestrella, cercando prima di tutto di capire che cosa avessi visto, dopo di che presi nuovamente coscienza del buio cunicolo e paventai il lungo viaggio di ritorno. Rammentai che cosa mi aveva detto il capocuoco nella cantina sotterranea: la paura del buio è paura dell'ignoto, il terrore irrazionale delle disgrazie che potrebbero materializzarsi dal nulla. Infondato.

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Non era il cunicolo a spaventarmi, ma la mia stessa immaginazione; le forze creative che si agitavano dentro di me evocavano demoni e catastrofi in agguato.

Avevo già percorso il cunicolo. Sapevo che non vi si nascondeva nulla e sapevo che le pareti non si sarebbero mosse per schiacciarmi. Era soltanto la mia paura a far sbatacchiare catene immaginarie. Guardai intorno a me la silenziosa oscurità e mormorai: «È soltanto un cunicolo vuoto». Per vincere il terrore bastava mantenere quel pensiero innanzi a tutto, scavare dentro e trovarvi la capacità di rimanere presente e resistere ai voli di fantasia. Dovevo soltanto impedire alla mente di precedere i piedi. « È soltanto un cunicolo vuoto. » Dovevo radicarmi nel presente e non consentire alla mente di fare un balzo avanti, in un futuro terrorizzante, abitato da orchi e disgrazie.

Desiderai che il capocuoco fosse lì, e mi domandasse che cosa avevo imparato. Avrei potuto dirgli che avevo appreso a essere presente là dove mi trovavo e a non andare altrove con la mente.

Feci un respiro profondo e dissi: « È soltanto un cunicolo vuoto ». Il suono della mia voce mi rassicurò. Mi raddrizzai lentamente, feci un profondo respiro e cominciai a camminare. « È soltanto un cunicolo vuoto. »

Continuai a ripetermelo. La voce diventò più potente e la ripetizione mi fornì un ritmo a cui accordare l'andatura. Il cunicolo smise di esistere; c'era soltanto il suono della mia voce e dei piedi che avanzavano, passo dopo passo. Il respiro accelerò solo quando lasciai che la mente si allontanasse dalla frase che mi ero imposto. Non so se il cunicolo fosse lungo o corto, se curvasse o fosse dritto. Camminai in trance, salmodiando le parole consolatrici, rimanendo presente all'attimo di oscurità, assolutamente innocuo.

Dopo un lasso di tempo ignoto, una pallida luce cominciò a delineare le pareti. Mi allietò il pensiero che fossi prossimo all'uscita. Ce l'avevo fatta! Nel momento in cui vidi realmente la striscia di luce proveniente dalla porta semiaperta, tuttavia, la concentrazione si incrinò. Smisi di recitare il mio mantra e corsi verso la luce in modo così insensato che andai a sbattere contro lo spigolo della porta e mi feci uscire il sangue dal naso.

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La spalancai con le mani viscide di sudore. Fui inondato dalla luce e dall'aria e caddi come un corpo morto addosso alle gambe della gigantesca armatura.

Teresa lanciò un gridolino e si avvicinò di corsa per estrarmi dalla nicchia. Tamponò con il grembiale il sangue che mi usciva dal naso, mi asciugò il viso rigato di lacrime e fece schioccare la lingua nel vedere il livido che avevo in testa. Quando mi fui ripreso abbastanza da poter parlare, biascicai un resoconto sconnesso di quanto avevo visto. « Aghi » dissi, « aghi lunghi e sottili nel corpo del doge. Dappertutto. Persino nelle parti intime. »

Ascoltandomi, Teresa spalancò gli occhi. Quando accennai alle parti intime, dimenticò le mie ferite e spiccò il volo come un uccello spaventato che lasci il nido. «Ooooh. » Si premette le guance con le mani e strillò: «Degli aghi laggiù?» Scappò dalla sala e scomparve dietro le alte porte a due battenti, non riuscendo a resistere alla prospettiva di comunicare il nuovo pettegolezzo deliziosamente piccante.

Senza dubbio, Teresa arricchì l'informazione di particolari — lo faceva sempre - e nella tradizione consacrata dal tempo di ogni diceria che si rispetti, questa diventò più salace ogni volta che venne comunicata. In capo a pochi giorni, tutta Venezia riferiva gli atti barbarici compiuti sulla persona del doge: aghi nelle parti intime, sì, ma anche negli occhi, sotto le unghie e spinti in profondità nell'ano. Tutti convennero che, se si era sottoposto a metodi tanto disperati, la fine doveva essere prossima.

Non migliorò le cose il fatto che il doge, confinato a letto, incontinente e furibondo, avvertisse la futilità del tutto e facesse echeggiare in tutto il palazzo i suoi ululati di frustrazione, facendo appello a quel po' di fegato che gli era rimasto, con il rantolo della morte fece un ultimo tentativo. Ordinò ai soldati di perlustrare ogni angolo di erudizione a Venezia e nel Veneto e di portargli tutti i vecchi libri che avessero trovato, fino all'ultimo. I soldati furono ben lieti di cogliere l'occasione di fare scempio dell'élite intellettuale, perché alla fin fine chi si credevano di essere? Il doge giaceva nel suo letto sfarzoso, già sepolto dai tomi polverosi che si accumulavano intorno a lui.

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La cittadinanza nel suo complesso considerò la ricerca del doge poco più degli spasimi di un vecchio stordito e i soldati dai colli taurini che confiscavano i libri nient'altro che un fastidio passeggero, ma tutti desiderarono che la cosa passasse più in fretta. Un giorno, mentre facevo la spesa per il capocuoco, vidi un manipolo dei rissosi soldati del doge capovolgere il banchetto di un venditore di tuberi, soltanto perché avevano facoltà di farlo. Il bottegaio alzò al cielo le mani giunte e le fece oscillare sulle cipolle e sulle carote sparpagliate. « Dio » pregò ad alta voce, « libera il nostro doge dalle sue sofferenze. Presto, eh? »

Quando il fruttivendolo giunse a dargli una mano per riaccatastare le verdure, non parlarono dei vandali, ma della persona che il Consiglio dei Dieci avrebbe eletto alla carica di doge. Il venditore di tuberi disse: « I candidati sono anziani e corrotti come al solito ».

« Sì » confermò il fruttivendolo, « Bandero va a sbattere contro i muri e Clementi ha le mani lorde di sangue. Hai sentito parlare di Ficino? »

« Ficino di Firenze? Sei sicuro? » « Non ti agitare troppo. » il fruttivendolo fece l'occhiolino. « È

tutta apparenza. » Marsilio Ficino, uno studioso protetto da Giovanni dè Medici,

insegnava filosofia platonica, poesia e una teoria che aveva nominato « amore cosmico», sostenendo che reggesse l'ordine nell'universo.

Il venditore di tuberi sentenziò: « Ficino è un uomo virtuoso. È un peccato che non possa essere eletto doge ».

Il Consiglio aveva nominato Ficino come gesto di rispetto nei confronti della potente famiglia dei Medici (e probabilmente intendendo offrirle di partecipare alla ricerca del libro), ma tutti, persino Ficino e il suo mecenate, sapevano che non sarebbe mai stato eletto. Benché fosse vecchio e malato a sufficienza, non era abbastanza stupido né corrotto.

Un giorno, mentre insaporivamo una complessa salsa di pomi d'amore per i tortelloni, il capocuoco osservò con fare casuale: « Sarebbe interessante rimestare una pentola malvagia con un cucchiaio innocente ». Si raddrizzò la berretta e un certo sorrisetto equivoco gli illuminò il viso mentre

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rimestava la pentola. Pensai: Ci risiamo. Il doge non era ancora morto, ma il Consiglio decretò che lo

fosse abbastanza da procedere all'elezione. Il giorno delle votazioni, il capocuoco preparò un menu elaborato per la cena che avrebbe accompagnato la riunione del Consiglio e dedicò in prima persona la propria attenzione a ogni portata. Per tutto il giorno corse da una parte all'altra della cucina, talvolta serio, talaltra con il suo sorrisetto stampato in viso, mescolando di qua, assaggiando di là, impartendo ordini, raddrizzandosi la berretta. Un cosciotto enorme, di animale non identificato, era rimasto a bagno tutta notte in una marinata acre, e al mattino il capocuoco l'infilò nel girarrosto. Lo unse con una marinata scura, salata, borbottando tra sé e sé come un alchimista folle. Guardandolo, ebbi la sgradevole sensazione che il mio maestro fosse da qualche altra parte, ben distante dal momento presente e dal luogo in cui si trovava.

28

Il libro delle bestie

Il Consiglio dei Dieci entrò in fila nella sala da pranzo dalle

porte a due battenti che i valletti in guanti bianchi tenevano aperte. Ah, che aria prospera e solida avevano quegli uomini ben nutriti dalle mani morbide e con gli anelli alle dita! Indossavano sete cinesi, broccati turchi e raffinata lana fiorentina. Alcuni avevano il colletto di pelliccia e pesanti catene d'oro posate sulle spalle, che parevano collocate in modo da bilanciare il peso davanti e dietro.

Portavano tutti il cappello. I più eleganti erano uno a campana con una striscia d'oro e un cuscino di seta Borgogna dalle nappe d'argento. Gli altri indossavano calotte piumate, cuffie di lino, berretti sovradimensionati, turbanti imbottiti, e un aggeggio dal bordo arrotolato con una cresta di gallo che gli faceva da strascico su una spalla. Marciando nella sala da pranzo con i loro favolosi cappelli, parevano un assembramento di funghi velenosi, frutto di fantasia.

La cena iniziò con una semplice insalata di trifoglio condita con olio di oliva, aceto di Modena e una goccia di miele. Il

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trifoglio godeva fama di accrescere un appetito indolente e il capocuoco voleva che quel pranzo importante fosse apprezzato sino in fondo. Quando i piatti con il trifoglio furono disposti davanti a ciascun commensale, il corpulento signor Castelli, che si riteneva un epicureo, si sistemò il berretto azzurro, aggrottò la fronte e spinse il trifoglio sul bordo del piatto. « Erba? » domandò. « Siamo forse conigli? »

Landucci afferrò la forchetta e infilzò il trifoglio. « Non lagnarti della cena. Siamo qui per parlare d'affari. »

Masticando rumorosamente un boccone di trifoglio, il signor Cesi scostò con un colpetto le nappe d'argento del suo cappello e commentò: « È delizioso ». Landucci lo guardò torvo e questi si strinse nelle spalle. « Possiamo goderci la cena. I nostri affari non prenderanno molto tempo. »

Landucci grugnì. « Immagino che importi poco su quale dei due vecchi imbecilli ricada la nostra scelta. Sono altrettanto malleabili. »

Mentre la cameriera sgombrava i piatti dell'insalata, il signor Abruzzi si rivolse alla tavola: « Signori, perché non risparmiamo tempo, e ci limitiamo a mettere i due nomi in un cappello? » Si levò di capo il fez rosso e lo offrì agli altri uomini con un sogghigno malizioso.

« Abruzzi, sei una canaglia! » Il signor Bellarmino diede una pacca sulla tavola con la mano pelosa e rise forte. « Stai insinuando che abbiamo così poco rispetto per la carica del doge da trasformare l'elezione in un gioco? »

Tutti gli uomini risero. Sorrise persino Landucci. Stavano ancora ridendo quando le cameriere entrarono con

la portata successiva. Mentre veniva disposto un piatto davanti a ciascuno degli uomini presenti, questi smisero di ridere per schiarirsi la gola e infine tacquero del tutto. Ciascuno di essi esaminò l'involuta creazione che aveva di fronte.

Le quaglie sono molto piccole — non più di un boccone o due per ciascuna - e un uomo solo può mangiarne parecchie. Infatti, per consuetudine erano servite senza testa e ammucchiate in un enorme piatto da portata sorretto da due

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cameriere. Quella sera, al contrario, ciascun commensale si trovò di fronte un'unica, minuscola quaglia, con la testa intatta e il becco aperto, quasi stesse gorgheggiando, e le alucce spalancate come se fosse atterrata in quel preciso istante nel suo grazioso nido di pasta sfoglia.

Avevo osservato il capocuoco costruire i nidi. Ricavò i cerchi dalla pasta sfoglia premendovi un bicchiere da vino e vi sovrappose anelli di pasta che vi si adattavano alla perfezione. Spennellò le sue creazioni con le uova sbattute all'impazzata e le controllò da vicino mentre cuocevano. Nell'istante in cui si gonfiarono, lucide e dorate, le estrasse dal forno in mezzo a un afflusso di vapore. Seguì attentamente ogni fase mentre i cuochi assemblavano gli altri ingredienti del piatto. Assaggiò il pâté come se stesse meditando, esaminò e annusò ogni ramoscello di timo, poi tagliò a tre quarti le uova di quaglia e le aprì a ventaglio. Per la salsa chiara al brandy, esiliò l'addetto alle salse e mescolò la terrina con spaventosa intensità.

Bellarmino commentò: « Prima l'erba e adesso una quaglia? È uno scherzo? »

« Madonna! » Il signor Castelli aveva assaggiato il nido di pasta sfoglia e la sua salsa. Parlò a bocca piena. « Questa pasta potrebbe fluttuare al vento. E la salsa! Assaggiate la salsa. »

Come gli uomini mangiarono i primi bocconi, una selva di mormorii e borbottii filtrò dalla porta di servizio socchiusa. Qualcuno si interruppe per ammirare l'opera d'arte nel piatto. La quaglia, disossata a eccezione delle ali aperte, era imbottita di grasso pâté d'oca. Ciascun uccellino era adagiato sulle proprie uova, tagliate e aperte a ventaglio tutt'intorno per creare una base smerlata. Il nido di sfoglia leggera come il burro era stato cosparso di una salsa chiara che luccicando pareva rugiada. Sul piatto azzurro cielo erano stati disposti i rametti di timo appena colto, in modo che assomigliassero alla biforcazione del ramo d'albero che sorreggeva il nido; alcune foglie di timo ben scelte scintillavano sotto stille di salsa attentamente collocate.

Castelli leccò il pâté dalla forchetta. « La presentazione è incantevole. Come una poesia. »

Il signor Gamba indicò un'aluccia con la forchetta e disse: « Sembra che stia per spiccare il volo. Mi fa venire in mente i

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miei amatissimi falconi ». « Mi fa pensare alla musica. » Castelli diede un colpetto al

becco aperto. « Hai presente quel piccoletto che è morto cantando, eh? »

« Sì, il capocuoco è abile. » Landucci aggrottò la fronte e pungolò il corpo della sua quaglia. « È riuscito non si sa come a rimuovere tutti gli ossicini, proprio come fa con le triglie. Questo chef disossa qualsiasi cosa. In quella cucina deve avere una catacomba in miniatura. » Premette con un dito la quaglia disossata aggrottando ancor di più la fronte. « Le catacombe non le ho mai capite. Perché tenere le ossa dei morti? »

Il signor Gamba rispose distrattamente mentre masticava. « Una volta un prete mi ha spiegato che conservavano le ossa

perché ricordassimo. » « Ricordassimo che cosa? » II colorito di Landucci si scurì. Gamba si portò una forchettata di quaglia alla bocca. « Non lo

disse. » Masticò a occhi chiusi e mormorò: « Mmm. Uno chef molto abile».

« Non c'è dubbio che lo sia » confermò Landucci. « Ho un mio uomo in cucina che mi racconta cose sospette sul conto di quel capocuoco. »

Aveva un suo uomo in cucina? Una spia? Fui preso da una sensazione di terrore.

Landucci indicò l'elaborata presentazione della quaglia. « Perché si sforza tanto? È soltanto roba da mangiare. »

« È un artiste, Landucci. » Castelli era irritato. « Non potresti goderti la cena? Non abbiamo impegni pressanti. L'hai detto tu stesso: un vecchio rimbambito vale l'altro. Mi piace l'idea di mettere i nomi in un cappello. È un'irriverenza attraente. »

« Sì. » Gamba sorrise. « Impariamo la lezione che ci ha impartito il nostro straordinario chef e per una volta comportiamoci in modo diverso. »

« Davvero. » « Uno stupido vale l'altro. » « Perché no? » La conversazione si interruppe bruscamente quando, a

presentare la portata successiva, apparve il maestro in persona. Una cameriera tenne la porta aperta e il capocuoco Ferrerò, un uomo in missione, entrò a passo di marcia nella

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sala da pranzo con un vassoio contenente un cosciotto enorme di carne arrostita ancora infilzata nello spiedo. Dopo le fantasiose, piccole quaglie, la bestialità del trancio di carne gocciolante, infilzato in uno spiedo di ferro, costituì una nota stridente, così come la presenza dello chef in veste di cameriere. Esordì: « Signori, questo taglio di carne è troppo pesante per le cameriere. Per me sarà un onore servirvelo ».

Brandì un trinciante dal luccichio malvagio, avvolse un asciugamano intorno all'estremità rovente dello spiedo e lo sollevò dal vassoio. Appoggiò con forza la punta dello spiedo in ogni piatto e tagliò larghe fette irregolari di carne che ricaddero in cumuli frastagliati a meno di un dito dal viso di ciascun commensale. Mentre il Consiglio osservava la sbalorditiva presentazione, il capocuoco spiegò: « Ho avuto la buona sorte di trovarmi a Rialto poco dopo l'arrivo di una nave dall'Africa orientale. Ancora ieri l'animale era vivo e ringhioso. Avrebbe dovuto essere recapitato vivo a Sua Santità e macellato nella cucina del Vaticano. Ma è stato commesso uno sbaglio e l'hanno macellato proprio lì, sul molo ».

«Ma cosa... » « Ho avuto la fortuna di acquistare per voi questo taglio »

continuò il capocuoco. « Le altre parti della bestia sono state messe nel ghiaccio per affrontare il viaggio fino a Roma. »

«Ma cosa... » « Carne di leone. So che i gentiluomini come voi si tediano a

mangiare i soliti piatti a base di agnello e vitello. Signori, mi compiaccio di offrirvi il simbolo della nostra Serenissima Repubblica. Chi meglio degli uomini più potenti di Venezia potrebbe cibarsi del re degli animali? »

Rammentai il leopardo nella cucina del Vaticano. Il capocuoco conosceva bene la predilezione di Borgia per la carne esotica. Doveva aver pagato una fortuna per scoprire quando sarebbe arrivato l'animale e anche di più per farlo macellare a Venezia.

Il signor Farelli osservò i pezzi di carne sanguinolenta cadergli nel piatto e si calcò meglio sulla fronte il berretto di lana verde. Disse: « Non penso che... »

« Fortunato il leone di cui si cibano gli esseri umani, poiché, in tal modo, diverrà umano. » Il capocuoco tagliò raggiante. «

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L'ha detto Gesù. » « Davvero? » Farelli lasciò spaziare lo sguardo intorno alla

tavola per avere conferme, ma tutti esibirono il suo stesso sguardo vuoto.

« Ha un gusto simile a quello della carne di manzo, ma è migliore. Ha il sapore del potere. » Il capocuoco si baciò la punta delle dita. « È particolarmente gustoso se innaffiato dal vino rosso e corposo che ho scelto; un'annata rara. Non ve lo perdete. » Le cameriere versarono il vino in grandi coppe, mentre il capocuoco menava fendenti alla carne lasciandola cadere a strisce nell'ultimo piatto. Poi si inchinò alla tavolata dicendo: « Buon appetito » e prese congedo.

Passando rapidamente accanto alle cameriere, mormorò: « Fate scorrere il vino » e scese affaccendato in cucina.

Il signor Gamba giocherellò con il bicchiere di vino e disse: « Contrariamente al solito, la quaglia mi ha riempito. Non credo di voler... »

« Codardo! » Castelli infilzò un pezzo di carne di leone e lo sollevò. Sangue e unto sgocciolarono sulla tovaglia di pizzo. « Lo chef ha detto che sa di manzo. »

« Ma è un leone. » II signor Cesi titillò le nappe e fissò disgustato il suo piatto.

« Bah. Guardatevi. Codardi. » Castelli diede un morso. Gli altri lo osservarono masticare e inghiottire. Castelli guardò Cesi negli occhi e disse: « Eccellente. Tenera, saporosa, piena d'aglio, gradevolmente salata». Trangugiò il vino.

« Benissimo... » II signor Gamba prese la forchetta. « Se è ben condita... »

« Gradevolmente salata. » A uno a uno assaggiarono la carne di leone. La lunga

macerazione l'aveva resa tenera e saporosa. Il Consiglio mangiò con entusiasmo, eccitato dalla propria audacia culinaria. Bevvero il vino robusto, scherzarono del loro atto di barbarie, e bevvero ancora. Le cameriere fecero in modo che i bicchieri fossero pieni fino all'orlo, come le aveva istruite il capocuoco. Alcuni posarono le forchette per reggere la carne con le dita unte; ruggirono prima di lacerarla con i denti. Soltanto Landucci mordicchiò la pietanza con un broncio minaccioso, ma anche lui bevve a profusione. La carne era

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piuttosto salata. Nel momento in cui la pietanza terminò, furono presi da una

sorta di ilarità sfrenata. Si diedero reciprocamente del selvaggio, risero e pretesero altro vino. Il signor Perugini fece allegramente volare il cappello rigido a forma di cupola sulla tavola, dove traballò e finì per fermarsi come se fosse una ciotola rovesciata. Bellarmino si fece portare la pergamena da cui strappò due strisce su cui vergò i nomi dei candidati. Lasciò cadere i ritagli imbrattati d'unto nel cappello e tutti risero. Avevano mangiato un leone. Si sentivano potenti. Erano potenti.

Landucci allungò una mano per estrarre un nome dal cappello, ma... «Aspetta! » Castelli alzò una mano sporca di grasso. « Rendiamo la cosa interessante. Ci nutriamo di bestie feroci. Perché dovremmo indietreggiare di fronte a un vecchio decrepito che borbotta d'amore? » Scrisse il nome di Marsilio Ficino e tenne sollevata la terza striscia di carta per ottenere l'approvazione.

Il signor Cesi rise. « Perché no? Dovremmo forse aver paura di un filosofo piccolo e debole? »

« Non abbiamo paura di nessuno. » « Certo che no. » Dopo l'aggiunta di Ficino, Landucci mise la mano nel cappello

contenente i nomi delle persone designate ed estrasse un ritaglio di carta. Considerato il buon umore chiassoso che regnava a tavola, i consiglieri non registrarono immediatamente il muto dispiacere espresso da Landucci mentre fissava il pezzo di pergamena che teneva in mano. A poco a poco le risate si ridussero a risolini soffocati e incerti. Landucci allungò la mano verso il cappello per estrarre un altro nome, ma il signor Abruzzi disse: «Ah, lascia perdere. Tra un anno sarà morto ».

Landucci si appoggiò allo schienale e fece vagare lo sguardo sui commensali.

« Sì. » Castelli diede una manata sulla tavola e il suo ventre sporgente si mosse a scatti. « Va bene così. Ci nutriamo di bestie feroci. Dovremmo preoccuparci di un vecchio malato? »

« No. » « Ridicolo. »

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« Al doge Ficino. » Bellarmino alzò il bicchiere. Guardai la cameriera che mi stava accanto sul pianerottolo.

Era a bocca aperta e aveva gli occhi spalancati e lo sguardo fisso. Bisbigliai: « Doge Ficino? » Si posò un palmo sulla guancia e sorrise. Non stavo nella pelle per poterlo raccontare al capocuoco.

Landucci si strinse nelle spalle e alzò il bicchiere. « Immagino che potremo sbarazzarcene nel caso si rendesse necessario. »

Il Consiglio fece un brindisi al nuovo doge mentre le cameriere servivano il dolce alla crema di limone.

« Una conclusione spensierata » celebrò Castelli. « Deliziosa » Mi precipitai in cucina gridando che il Consiglio aveva eletto

Marsilio Ficino. Il capocuoco si accasciò su una panca di legno e annuì. « Bene. »

« Vi prego, Maestro, ditemi » feci, porgendogli le mani giunte, « che erbe magiche avete usato per influenzarli? »

« Erbe magiche? Erano ubriachi. » « Non erano ubriachi fino a quel punto. » « Erano rilassati. » Il capocuoco batté sulla panca perché mi

sedessi accanto a lui e mi circondò una spalla con il braccio. Luciano, te l'ho detto, quella che pare magia è abilità. Il leone ha rammentato ai consiglieri ciò che già sanno, che a Venezia non devono temere nessuno. Inoltre, il leone era spaventosamente salato, e questo li ha indotti a bere troppo. Ovviamente, dato lo stupido metodo che hanno adottato, poteva benissimo andare a finire altrimenti. »

«Voi, però, avete dato una possibilità a Ficino. » « Facciamo quello che possiamo. » « Non so, Maestro. Intromettersi nell'elezione mi sembra

pericoloso. Landucci ha detto che ha una spia in cucina. » « Una spia? Quale spia? » « Non lo so. Ha detto soltanto che ha un suo uomo quaggiù. » « Bè, vuol dire che la fortuna è stata dalla nostra parte. » Più tardi la fortuna doveva essersene andata altrove, perché

un Landucci assai più sobrio entrò in cucina per interrogare i cuochi in merito alle proprietà del trifoglio, al metodo usato per disossare la quaglia e all'acquisto della carne di leone. I cuochi risposero prudentemente dicendo: «Sì, signore, una cena ingegnosa. Il nostro capocuoco è un mago ».

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« Un mago? » « È solo un modo di dire, signore. Il nostro capocuoco ha

talento. » Io e il capocuoco osservammo attentamente l'eccesso di

confidenza di cui diede mostra quell'uomo, ma tutti i cuochi si comportarono in modo distaccato e cortese. Cominciavo a dubitare di ciò che avevo udito, quando, avvicinatosi Landucci alla porta di servizio, Giuseppe intercettò il suo sguardo e i due si scambiarono un'occhiata complice. Landucci fece un brusco cenno del capo e se ne andò in fretta. Anche io e il capocuoco ci scambiammo uno sguardo. Qualche minuto dopo, Giuseppe sgusciò fuori dalla porta sul retro. Il capocuoco si picchiettò il naso di lato e mi fece cenno di seguirlo.

Giuseppe attraversò il cortile e svoltò sulla facciata del palazzo. Lì, sotto il portico bizantino, Landucci lo attendeva tra le ombre. Le scarpe di Giuseppe producevano un secco battito sul pavimento di marmo e io tolsi le mie, che lasciai dietro una colonna. Scivolai silenziosamente da un nascondiglio all'altro. Dovevo avvicinarmi più di quanto avrei voluto per udire la loro conversazione sommessa.

La voce di Giuseppe fluttuò nell'aria della sera. «... non si tratta soltanto di talento. Vi avevo parlato dell'armadietto chiuso a chiave e dello strano orto. Non dimenticate che ha tolto dalla strada quel ladro. L'ha persino promosso. »

« Sì, sì, è un tipo bizzarro, ma è soltanto un cuoco. » Landucci sembrava impaziente. « Sai qualcosa che potrebbe interessarmi? »

« Perché stasera siete sceso in cucina, signore? » « Un leone? Quella cena non mi è piaciuta. » « Sì! » Giuseppe si avvicinò a Landucci, agitandogli un dito in

faccia. « Le sue cene esercitano un influsso innaturale sulla gente. »

« Stammi lontano, hai capito? » Landucci si premette la sciarpa sul naso. « Dove vuoi arrivare? »

Giuseppe fece la voce timida. « Qualche settimana fa, il ladruncolo ha rubato qualcosa dall'armadietto privato del capocuoco. Lui e il suo sudicio amico hanno portato il loro bottino dall'abissina. »

« La chiromante? Bah. »

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« La gente le racconta di tutto. Voi mi avete detto di tenere gli occhi e le orecchie aperti e io li ho seguiti. Dopo che sono usciti dalla sua stanza, sono andato a trovarla. » Giuseppe ebbe l'indecenza di compiacersi di sé e io ne fui sconvolto. Pensavo che ci avesse seguito soltanto per assillarmi.

Landucci, però, aveva l'aria infastidita. « E? » « Il capocuoco tiene l'oppio in cucina. » « Un antidolorifico? E allora? Forse soffre di emicrania. » Ma

si raddrizzò un poco. « Nient'altro? » « Le ho chiesto se il capocuoco sapesse qualcosa del libro.

Bum! Ha chiuso la bocca e mi voleva cacciare. » La voce di Giuseppe si fece untuosa e insinuante. « L'avete mai vista? Calva e ossuta, sembra un mucchio di ossicini di pollo. Le ho torto un braccio dietro la schiena per... ehm... convincerla a parlare. Ma lei mi sorrideva. Cocciuta. Le ho messo una mano intorno alla gola; ho stretto quel tanto da farle capire che facevo sul serio. Quando mi è sembrato che ne avesse abbastanza, l'ho lasciata parlare. Quella strega nera tossiva e boccheggiava, ma continuava a sorridere. Ha detto: "Non riuscirete mai a portar via il libro a quello chef. A quello chef! Ce l'ha lui! » Giuseppe sbuffò con cattiveria. «Ho cercato di saperne di più, ma... bah. Ci ha messo poco a morire. »

« È morta? » « Di... persuasione. » Mi venne la nausea. N'bali aveva detto che sarebbe morto

qualcuno. Sapeva che sarebbe toccato a lei? Landucci si accarezzò la barbetta curata e Giuseppe saltellò

nervosamente da un piede all'altro. Infine, Landucci disse: « La parola di una chiromante non vale molto, ma immagino che tu voglia qualcosa in cambio ».

« Giustizia, signore. Certo, se ci fosse una ricompensa... » « Giustizia? » A Landucci scappò una risata sgraziata come

un latrato. «Arresterete il capocuoco? » « Lo farò interrogare. » «Anche il suo ragazzo. Sono in combutta. » « Manderò le Cappe Nere a prenderli. » Diede uno sguardo a

una pattuglia di Cappe Nere in perlustrazione in piazza San Marco.

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Oh, Dio! Riuscii a non mettermi a gridare e a correre via. Ingoiai invece l'amaro boccone e mi costrinsi a rimanere immobile per udire il resto.

« Bene! » Pareva che Giuseppe dovesse levitare da un momento all'altro. «Signore... »

« Sì, sì, se dovesse uscirne qualcosa di buono, ci sarà un lavoro per te nelle segrete. »

« Grazie, signore, ma il seggio al senato... » « Non essere ridicolo. » « Sì, signore. » Giuseppe esibì un sorriso ossequioso tinto di

paura. « Peccato. » Sembrava che Landucci stesse parlando a se

stesso. « Non si trova tanto spesso uno chef così abile. Sarebbe uno spreco se morisse anche lui di persuasione. »

29

Il libro dei fuggitivi

Tornai a precipizio in cucina a piedi scalzi, convinto di avere

già sentito le Cappe Nere che affilavano i coltelli. Aprii di slancio la porta sul retro ansimando, con gli occhi stralunati, senza più fiato. « Landucci... Cappe Nere... stanno arrivando. »

Gli ultimi due cuochi rimasti in cucina, Enrico e Pellegrino, smisero di rassettare le loro postazioni per guardarmi sbalorditi e poi lanciarsi un'occhiata. Il capocuoco fece un balzo verso la libreria, estrasse il ricettario malconcio e disse: «Andiamo ».

« Dove, Maestro? » « Seguimi. » Uscimmo a precipizio dalla porta sul retro. Bernardo avvertì

l'odore della nostra agitazione e con un guizzo ci seguì. I ciottoli irregolari mi ferirono i piedi e mi maledissi per aver perso le scarpe, ma non c'era niente da fare. Quando aprimmo la porta del cortile, vedemmo Giuseppe svoltare l'angolo. I suoi occhi finirono sul libro che il capocuoco teneva sotto il braccio e fece balenare un sogghigno scuro, malevolo.

Girammo i tacchi e tornammo al volo in cucina. Correndo accanto a Enrico e Pellegrino, il capocuoco gridò: « Sta

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arrivando Giuseppe. Fermatelo». Sorrisero. In cucina non c'era cuoco che non avrebbe

accettato di buon grado di strapazzare Giuseppe. Enrico gridò: « Con piacere, Maestro ».

Il capocuoco diede una voce alle sue spalle: « Dietro di lui potrebbe esserci Landucci». Si diresse alla porta di servizio, che non conduceva all'esterno, bensì si arrampicava all'interno del palazzo. La spingemmo e il capocuoco diede una sbirciata alla scala. Si fregò il mento e disse: « D'accordo. Andiamo ».

Mentre salivamo le scale, udimmo Enrico e Pellegrino salutare Giuseppe come se fosse un vecchio amico. « Il maestro se n'è andato. Facciamoci una bevuta, eh? Quando mai Giuseppe ha rifiutato un bicchiere? » Poi giunsero i rumori di una zuffa.

Sapevo che sarebbe stata una questione di minuti prima che Landucci ordinasse alle Cappe Nere di attraversare la piazza ed entrare nel palazzo. Salimmo con la rapidità che consentivano le gambe di un uomo di mezza età qual era il capocuoco, ovverosia non abbastanza in fretta per me. Era trascorso solo qualche istante dal momento in cui eravamo transitati sul pianerottolo che conduceva alle sale principali del palazzo, quando udimmo parlare dietro una porta. Landucci disse: « Lo chef è ancora in cucina, ma il ragazzo potrebbe essere nella camerata. Arrestateli entrambi ». La porta si aprì e udimmo un rumore di stivali sulle scale: le Cappe Nere scesero in cucina mentre noi salivamo. Domandai: « Maestro, dove andiamo? »

Il capocuoco era senza fiato. « Vieni » ansimò, « non fermarti. »

Non ricordo per quante porte passammo, ma rammento di aver pensato che avremmo dovuto aprirne una sola e trovare una via d'uscita dal palazzo. Quando finalmente ci fermammo, io ero senza fiato, ma il povero capocuoco era rosso in viso e boccheggiava. Ci trovavamo di fronte a una porta ad arco con una ghirlanda di fiori dipinta intorno alla maniglia. Il capocuoco ne aprì uno spiraglio, sbirciò dentro, la spalancò e mi fece cenno di precederlo.

Era una camera da letto. Il capocuoco si diresse all'armadio e

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aprì un'anta. Mentre frugavamo tra gli abiti, diedi una scorsa alla stanza. La camera da letto era ben arredata, con un copriletto di morbido raso sul letto singolo e una collezione di gattini di porcellana sul comodino. Una pezza di seta color avorio ricopriva a mò di tenda la testata del letto e l'occorrente per la rasatura era disposto in una fila ordinata accanto a un lavabo bordato di boccioli rosa. Ogni particolare della stanza sembrava attentamente scelto e disposto con precisione. Era il santuario di un uomo solitario.

Il capocuoco spiegò: «A quest'ora il maggiordomo fa la sua passeggiata serale. Abbiamo un po' di tempo ».

Nell'armadio si presentò una fila di abiti ordinatamente appesi: vesti dai ricami elaborati, farsetti di seta, mantelli di velluto e una serie di pantofole a ricami di perle, alcune delle quali con le punte arricciate. Gli abiti esalarono una dolce zaffata di profumo di lillà. Il capocuoco agguantò una camicia bianca con le maniche a sbuffo, un semplice panciotto e un paio di calzoni neri e me li lanciò. Per sé scelse un magnifico farsetto viola dai profili dorati e i calzoni abbinati. Le misure non erano perfette per nessuno dei due, ma lui riuscì ad abbottonarsi il suo abito e il mio non mi cascava addosso. Andavano abbastanza bene. Sopra il bell'abito, il capocuoco indossò un lungo, ampio mantello di lana blu savoia con la fodera di seta cremisi. Si agganciava all'altezza del collo con una fibbia d'oro e gli drappeggiava abbondantemente il corpo, lasciando lo spazio più che sufficiente a nascondere il libro. Come ultimo tocco allo sfarzoso completo, aggiunse un cappello con un'appariscente piuma di struzzo. Quando se lo mise in testa, diventò un altro uomo. A me porse un semplice berretto con un cappuccio verde.

Chiuse l'armadio e spinse i nostri abiti da cuochi sotto il letto, poi vi si sedette sopra e mi ordinò di imitarlo. Ansimava ancora per aver salito di corsa le scale e parlava incespicando. « Questa sera io sono un dignitario in visita e tu il mio paggio. »

« Sì, Maestro, ma sono senza scarpe. » Si accorse per la prima volta che ero a piedi scalzi ed

esclamò: « Dio! » Tornò all'armadio ed estrasse un paio di pantofole di seta verde con le perle rosa ricamate secondo un motivo floreale. « Ecco. Devono andar bene. »

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Me le infilai di malumore. Si sedette accanto a me. «Allora, che cosa è accaduto tra

Giuseppe e Landucci? » « Giuseppe gli ha detto che il libro lo avete voi. » « Come faceva a saperlo? » « Quando sono andato da N'bali, Giuseppe era lì. Dopo che

sono uscito, ha parlato con lei. » « Dio. » « Non sapevo che le avrebbe parlato. Pensavo che fosse lì

soltanto per infastidirmi. » « Dio. » « Maestro, Giuseppe l'ha uccisa. » « Farabutto! » Storse la bocca ed esalò un lungo respiro. « Non

c'è tempo per il rammarico. Dobbiamo andarcene da qui. » Si premette le dita sugli occhi. « Luciano, sai che cosa accadrebbe se fossimo catturati? »

« Penso di sì, Maestro. » « Saremmo uccisi come usa a Venezia: per decapitazione. Ma

prima, passeremmo per le segrete. » Ingoiai a fatica. « Si, Maestro. » « Puoi dileguarti. Lascia subito questa stanza. Torna dai tuoi

amici di strada. Là fuori ce ne sono tanti come te, saresti invisibile. »

Non avevo mai pensato che tornare per strada potesse essere così allettante, ma dissi: « Resto con voi ».

Il capocuoco mi strinse una spalla. « Sapevo di aver fatto la scelta giusta.» Gli si empirono gli occhi di lacrime e distolse lo sguardo. Dopo un attimo disse: « Luciano, se dovessimo finire nelle segrete, ricorda quello che ti dico: morirai comunque, che tu parli o no. Usa la tua rabbia per vincere».

« Vincere che cosa? » « Se non dirai nulla ai tuoi torturatori, morirai vittorioso.

Non avranno niente in mano e tu sarai morto per uno scopo: proteggere i Guardiani. Un uomo non può sperare in una morte migliore. »

Mi si bagnarono le ascelle di sudore. « Spero di essere in grado. »

« Spero che tu non sia costretto a farlo. » Si alzò in piedi. « Tirati su il cappuccio e tieni la testa bassa. Non possiamo

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permettere che i domestici ti riconoscano. » « Maestro? » « Cosa c'è? » « Non andranno a casa vostra? Che accadrà alla vostra

famiglia? » « Mia moglie sa che se non torno all'ora prevista deve

prendere le bambine e andare a casa di sua sorella. Se non riceve mie notizie, fuggiranno ad Aosta. »

« L'avevate già pianificato? » « Ovviamente. » Scendemmo al piano principale del palazzo e il capocuoco

irruppe in una delle sale aperte al pubblico da quel nobiluomo che era. Ostentò un'espressione altezzosa, che gli trasformò il viso, e si picchiettò il labbro come se fosse profondamente immerso nei pensieri. Nessuno lo fermò. Camminai dietro di lui con il cappuccio tirato sulla testa e a capo chino, come sempre l'invisibile servitore.

Un uomo che nascondeva il suo prezioso libro in piena vista non avrebbe fatto mosse furtive per rimpiattarsi negli angoli. Marciò baldanzoso fino all'entrata principale del palazzo e rimase lì, sfrontato come un dente d'oro, battendo con impazienza un piede e agitando un dito in direzione dei valletti che si affrettarono ad aprire le pesanti porte. Entrò a grandi falcate in piazza San Marco mentre lo seguivo a tre passi di distanza, e mi sentii colmo di un segreto piacere quando due Cappe Nere si fecero di lato per lasciarci passare.

Facemmo tranquillamente il giro della piazza fintanto che ci sorresse il coraggio di farlo. Supposi che il capocuoco stesse cercando di farsi venire in mente una destinazione plausibile. Non era abituato a nascondersi per strada e non era disposto a mettere in pericolo gli amici. Dopo che avemmo coperto per tre volte il perimetro della piazza, la gente guardò dalla nostra parte, rendendosi conto, evidentemente, che stavamo girando in cerchio. Percorremmo una strada laterale, attraversammo un ponte e vagammo per calli sempre più strette. In quei vicoli la gente ci guardò strabiliata per via dei nostri elaborati costumi. La magnificenza degli abiti ci aveva fatto comodo per fuggire da palazzo, ma a Venezia i nobili intenzionati a coprire una certa distanza si spostavano a bordo delle gondole private.

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Ci defilammo nel retro di una taverna dove il capocuoco si tolse il mantello blu Savoia e il cappello piumato. Mi levai la mantellina verde e il panciotto, ma mi toccò tenere le sgargianti pantofole a ricami di perle.

Mentre infilavamo gli accessori sfarzosi sotto un cumulo di immondizie, udimmo per caso il locandiere annunciare che un paio di Cappe Nere aveva intenzione di interrogare gli avventori. Sulla taverna calò all'istante il silenzio e ascoltammo. Le Cappe Nere parlarono a bassa voce e questo ebbe un effetto più minaccioso di quello che avrebbero prodotto le grida. Un uomo e un ragazzo - dei malviventi, dissero - avevano rubato al maggiordomo vestiti preziosi. « Pensano di essere furbi ad andarsene a spasso mascherati con abiti eleganti, ma sappiamo esattamente che cosa hanno preso. Il maggiordomo è sconvolto. Anche le guardie del doge fanno la posta a quei due. » Descrisse il cappello con le piume di struzzo, il mantello di velluto blu, la mia mantellina verde e le pantofole con le perle ricamate. La Cappa Nera aggiunse: « Forse i malviventi hanno con sé un libro». L'accenno al libro suscitò una corrente di bisbigli (me li figurai mentre si facevano l'occhiolino), ma per la fretta di negare parlarono tutti contemporaneamente.

« No, signori. » « Non abbiamo visto niente. » « Siamo tutti clienti abituali. » « Ci dispiace. » Il nostro unico vantaggio nei confronti delle Cappe Nere era

l'odio che tutti provavano per loro. Ce la svignammo dalla taverna e attraversammo di corsa un

ponte. Senza il mantello di lana, il libro sotto il braccio del capocuoco, benché malconcio, mi parve una dichiarazione di colpevolezza, ma lui aveva un piano. Disse: « Svoltato l'angolo, c'è una chiesa. In sacrestia scambierò i miei abiti con una tonaca e una cotta; sono larghe abbastanza da nascondere il libro. Prenderemo un abito da chierichetto per te ».

« Geniale, Maestro. » « Paradossale. Andiamo. » Svoltammo l'angolo e ci trovammo faccia a faccia con due

alte Cappe Nere dalle spalle larghe.

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Erano numerose le soluzioni che avrei potuto adottare. Potevo chiamare papa il capocuoco e lamentarmi della scuola, potevo fingere che non fossimo insieme, andare a sbattere goffamente contro le Cappe Nere, presentare le mie scuse e allontanarmi; insomma, avrei potuto fare qualcosa. Invece, tutte le inquietudini della sera conversero in quell'istante lasciandomi pietrificato. Rimasi piantato dov'ero e fissai le Cappe Nere a bocca aperta. Guardarono il libro sotto braccio al capocuoco e poi le mie pantofole con i ricami di perle. Ammiccarono e io mi misi a correre. Il capocuoco bestemmiò e mi corse appresso.

Le Cappe Nere ci inseguirono con i coltelli sguainati. Fuggimmo per le calli più buie e ritorte che conoscevo, ma ogni volta che pensavo di essermeli lasciati alle spalle, all'istante successivo giungevano da poco lontano i rumori delle grida e dei pesanti stivali. Corremmo lungo una calle che sembrava deserta ma, sbucata apparentemente dal nulla, una spada mi passò sulla testa sibilando e andò a sbattere contro una porta di legno mancandomi di un soffio. Girai su me stesso e spinsi il capocuoco nella direzione opposta.

Fossi stato solo, li avrei seminati. Ero più giovane, più piccolo e veloce, non gravato da spade che mi sbattevano contro le cosce. Ma il capocuoco mi rallentava. Il suo respiro si era fatto pesante e rimaneva sempre più indietro. Le Cappe Nere stavano guadagnando terreno ed era solo questione di tempo perché ci prendessero.

Il capocuoco ci aveva fatto uscire dal palazzo con l'audacia e l'astuzia, ma ora, nelle strade in cui avanzava l'oscurità, ci trovavamo nel mio elemento e toccava a me essere scaltro. Conoscevo tutti i migliori nascondigli di Venezia. Gridai: « Maestro, da questa parte». L'avrei portato nella zona dei ladri dove la gente aveva l'abitudine di farsi gli affari propri. Lo condussi in una via di prostitute, dove Marco e io ci eravamo recati spesso in cerca di Rufina, sapendo che le ragazze avrebbero trattenuto ogni soldato che si fosse trovato a portata di mano.

Per prendere una scorciatoia che ci portasse a destinazione, attirai il capocuoco in un cul-de-sac e scansai con un calcio un secchio dell'immondizia, portando alla luce una fenditura

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sbreccata ai piedi del muro di mattoni. « Di qua, Maestro. » Ci infilò la testa, ma le spalle rimasero incastrate nella stretta apertura. Dissi: « Datemi il libro e riuscirete a passare ». Retrocesse e mi lanciò un'occhiata da dietro la spalla. Dissi: « Maestro, so dove andare, ma dobbiamo passare dall'altra parte del muro». Dopo un istante mi consegnò il libro e, bestemmiando, passò a stento dalla fenditura strappandosi gli abiti sui mattoni scheggiati.

Lanciai il libro nell'apertura e gli tenni dietro muovendomi a fatica. Nel momento in cui mi alzai in piedi sull'altro lato, il capocuoco si era infilato il libro sotto il braccio. Allungai una mano nella spaccatura per rimettere al suo posto il secchio degli avanzi e mascherare la nostra fuga. Corremmo per calli così buie che mi rammentarono il cunicolo del palazzo. Questa volta il pericolo era reale e, stranamente, più facile da gestire dei miei voli di fantasia. Il respiro accelerò, i sensi si acuirono, ma non perché fossi preso dal panico. Era l'eccitazione ben nota dell'inseguimento.

Condussi il capocuoco in una strada malfamata dove le donne si vendevano per un po' di vino acido e i malfattori si incontravano per progettare i loro delitti. Era gente che non avrebbe guardato due volte una coppia di banditi in più che si portavano addosso l'odore della fuga. Speravo che potessimo mescolarci a quella folla sgradevole per il tempo necessario a decidere dove trascorrere la notte.

Avevo fatto male i miei calcoli. Quando sbirciai da dietro l'angolo di una taverna, per vedere che razza di gente ci fosse per strada, vidi ovunque le Cappe Nere, impegnate a fermare ladri astuti e spietati assassini, non per arrestarli, ma per fornir loro la nostra descrizione e offrire una ricompensa. Per colpa mia eravamo finiti nell'unica parte della città dove chiunque ci avrebbe allegramente venduto al prezzo di una bottiglia.

Tirai il capocuoco nei recessi di un androne. « Maestro, dobbiamo toglierci dalla strada. »

« Dove possiamo andare? » « Conosco un posto, ma dovete fidarvi di me. » «Andiamo. » Uscimmo a precipizio dalla zona dei ladri e corremmo lungo

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uno stretto rio. Udii il rumore dei passi alle nostre spalle e filai su un ponte a schiena d'asino che molte volte in passato aveva salvato Marco e me. Il capocuoco esitò quando mi vide superarne la sommità in piena vista ma, grazie a Dio, mi seguì. Al capo opposto saltai giù e in tutta fretta mi portai al di sotto.

Dati l'oscurità e lo scompiglio, il capocuoco doveva aver avuto la sensazione che fossi scomparso nel canale.

« Luciano! » Aveva un tono disperato nella voce. « Dove sei finito? »

Sporsi la testa da sotto il ponte. « Svelto. » Indicai il punto in cui il muro di pietre scabre del canale aggettava creando una sorta di scalini che conducevano a una sporgenza sotto il ponte. Scese con impaccio, cercando un appiglio nel muro viscido del canale e tenendo stretto il libro. « Fate in fretta, Maestro. » Ci provò, ma la sporgenza era coperta di alghe scivolose e perse l'equilibrio. Lo afferrai per un braccio appena in tempo. Ricordo di aver pensato che sarebbe stato un ladro da poco e, nello stesso momento, compresi che la sua morte mi avrebbe completamente distrutto.

Rimanemmo immobili sulla sporgenza, premendo la schiena contro il canale fangoso; la melma si modellò attorno al mio corpo con il rumore del fango appiccicaticcio. Trattenni il fiato mentre le Cappe Nere arrivavano di corsa sul ponte con i loro stivaloni e si fermavano direttamente sopra la nostra testa.

Una voce aspra domandò: « Hai visto da che parte sono andati? »

« Troppo buio. Sono semplicemente scomparsi. » « Dobbiamo dividerci. » « Sì. » Quest'ultima pareva irritata. « Landucci li vuole vivi.

Che seccatura. » «Abbattili, ma cerca di non ucciderli. » « D'accordo. » «Andiamo. » Restammo immobili, compressi contro il muro bagnato come

escrescenze eccentriche, anche quando il rumore dei loro stivali si affievolì fino a scomparire. Udii un gatto miagolare tra le ombre e sperai che fosse Bernardo. Il capocuoco emise un lungo, lento respiro accompagnato da un fischio. Si incurvò, ma tenne saldamente il libro contro il petto. L'umidità filtrò

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negli abiti, la notte si fece fonda e sotto il ponte si avvolse a spirale la nebbia. Il capocuoco rabbrividì. Domandò: « E adesso dove andiamo? »

« Non vi preoccupate, Maestro. Conosco un posto nella strada dei pescivendoli. »

« I pescivendoli? » « Ho un amico là. » Risalii da sotto il ponte e tirai su il capocuoco. I nostri abiti,

prima splendidi, erano inzaccherati dalla sozzura del canale; avevamo i capelli scarmigliati e i volti rigati di sudore e sudiciume. Il capocuoco guardò prima me e poi se stesso. Disse: « Dio mio ».

Obiettai: « La sporcizia è una buona cosa, Maestro. Ci mescoleremo alla gente di strada. Basta che nascondiate il libro. Ci sta sotto i vestiti? »

Si sbottonò il panciotto e infilò il libro sotto la camicia. Il panciotto infangato restò aperto e il libro produsse un rigonfiamento voluminoso e innaturale sotto la camicia, come se avesse una deformità anomala. Commentò: « Nessuno si lascerà imbrogliare».

« Va benissimo. Siamo così lerci da sembrare soltanto due poveracci in più che nessuno ha voglia di guardare. »

Ci facemmo strada con circospezione, ascoltando e guardando da ogni parte prima di scegliere le calli più deserte. Avanzammo guardinghi tra le ombre e, al minimo rumore di voci o stivali, diventavamo tutt'uno con la fitta oscurità dell'androne più vicino.

Ci muovemmo furtivi lungo un sentiero lastricato che costeggiava un canale angusto, dove tre vecchie si erano fermate per trovare un posto in cui spettegolare. Ci mettemmo a passeggiare con aria indifferente, ma poco prima che raggiungessimo le donne, un paio di Cappe Nere comparve sull'angolo più lontano camminando verso di noi. Girammo su noi stessi all'unisono per prendere la direzione opposta ma, fatti pochi passi, due guardie del doge svoltarono l'altro angolo e ci vennero incontro brandendo impettite le alabarde. Mi sentii prossimo al panico, ma il capocuoco rivolse l'attenzione a un gondoliere di passaggio, che puntava la sua pertica in cerca di un passeggero.

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Le gondole sono dispendiose e assai lente, di certo non la soluzione ideale per sorpassare qualcuno in velocità. Eppure, il capocuoco salì sul margine del canale e fece un cenno al gondoliere. Spostai il peso da un piede all'altro, mentre le Cappe Nere si avvicinavano da un capo del sentiero e le guardie del doge da quello opposto.

Il gondoliere si appoggiò alla pertica e squadrò il capocuoco: abiti imbrattati di melma puzzolente e, sotto la camicia, un oggetto visibilmente nascosto. Scosse la testa e prese ad allontanarsi. Il capocuoco gli intimò con voce severa: «Vieni qui! Subito! » La voce del maestro che impartisce un ordine. Il gondoliere tornò a guardarlo e il capocuoco, sollevato il mento, tenne alto un ducato d'oro luccicante. Il gondoliere si strinse nelle spalle e, facendo manovra, accostò l'imbarcazione al muro del canale. Mentre saliva a bordo e mi faceva cenno di imbarcarmi, il capocuoco lo rimproverò per essersi gingillato.

Esitai. Era abituato a spostarsi in gondola e non si rendeva conto che lo spettacolo di due luridi barboni che salgono su un mezzo di trasporto tanto dispendioso avrebbe destato molti sospetti. Diedi un'occhiata alle Cappe Nere che ci stringevano da un lato e alle guardie del doge che avanzavano dall'altro. Stavano cercando un uomo e un ragazzo e in quel momento la strategia migliore consisteva nel separarsi. Mentre il capocuoco spalancava gli occhi invitandomi silenziosamente a raggiungerlo, mi slanciai verso una delle donne che stavano spettegolando e le strappai il borsellino dalla cintura. Strillò e le Cappe Nere si avventarono contro di me.

30

Il libro dei conflitti

Il gondoliere spinse la pertica contro il muro del canale per

allontanarsi dalla baraonda e io sfrecciai a destra e a sinistra per poi saettare tra i due uomini con una mossa ben rodata. La gondola scivolò via e mi infilai di corsa nell'abbraccio aggrovigliato della mia vecchia città con le Cappe Nere schiamazzanti alle calcagna.

Lasciai immediatamente cadere il borsellino non appena

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svoltato il primo angolo, sperando che le Cappe Nere si contentassero di restituirlo alla donna e mi lasciassero andare. Quella notte avevano una preda più importante da catturare di un comune ladro di strada. Corsi lungo un itinerario assurdo, insensato, finché non fui certo di averli seminati. Rallentare fu un sollievo, e mentre mi avviavo per la strada dei pescivendoli pregai che il capocuoco rammentasse il luogo dell'appuntamento.

Se lo ricordò e, tanto per cambiare, non gli venne in mente di rannicchiarsi nei vicoli. Lo trovai seduto sul molo, ingobbito per nascondere il gonfiore anomalo sotto la camicia, mentre tendeva una mano sudicia e tremolante e molestava i passanti chiedendo loro l'elemosina con voce asmatica. Lo aiutai ad alzarsi, dicendo: « È ora di tornare a casa, nonno » e lo condussi a casa del pescivendolo di Domingo.

Il pescivendolo aveva concesso a Domingo di dormire in un piccolo magazzino sul retro di casa sua. Per Domingo dormire al coperto era un gran lusso; poteva stravaccarsi sul pavimento asciutto di assi di legno e avvolgersi in tutti i sacchi di tela che gli servivano per tenersi caldo. In quella stanza il pescivendolo teneva le tele in più con cui coprire il banco, alcune robuste casse di legno piene di paglia per conservare il prezioso ghiaccio su cui metteva in mostra il pesce, e un assortimento di coltelli per desquamare ed eviscerare. Domingo teneva i coltelli puliti e affilati con la devozione del futuro proprietario.

In alto su una parete, una finestrella a vetri che si apriva come una porta consentiva a Domingo di andare e venire senza disturbare la famiglia del pescivendolo. Di notte poteva star sdraiato a guardare le stelle da quella finestra, sonnecchiando cullato dai suoni liquidi di Venezia. Meglio ancora, talvolta gli capitava di guardare la fredda pioggia tempestare il vetro e ascoltarla martellare il tetto mentre stava rannicchiato, al caldo e all'asciutto, sotto strati di tela. Certe notti guardava il lucore della luna scherzare sulla superficie brillante dei coltelli del pescivendolo e sognava il giorno in cui sarebbe stato padrone del proprio banco di pesce, e forse avrebbe avuto persino una moglie e una famiglia. Domingo amava la sua stanzetta ed era felice.

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Dissi: «Il mio amico Domingo ci aiuterà». Allungai un braccio e picchiettai la finestra con le unghie, ma Domingo, che dormiva sodo, non si mosse. Tamburellai con le nocche, ma continuò a dormire il sonno degli innocenti. Quando il capocuoco batté sfrontatamente il telaio della finestra e gridò: « Domingo! » boccheggiai. Disse: « Un nome pronunciato una volta sola nella notte attrae meno attenzione di qualcuno che bussa per un'eternità». Si alzò in punta di piedi e sbirciò nella stanzetta: « Ed è molto più efficace ».

Assonnato, Domingo era strisciato fuori dal sacco di tela. Si alzò in piedi fregandosi gli occhi mentre toglieva il chiavistello alla finestra. Saltai sulla cassa che usava per raggiungerla, mi issai sul davanzale ed entrai.

Domingo e io cercammo di trascinare dentro il capocuoco tirandolo per la camicia mentre questi si sforzava di issare la propria mole, ma era già esausto per le fatiche della serata e il libro, con il suo ingombro, gli era d'intralcio. Domingo si sporse dalla finestra dicendo: « Datemi il libro ».

Il capocuoco si ritrasse: « No » e scacciò la mano di Domingo. Lo confortai: « Non c'è da temere. Datelo a me, Maestro » e me

lo consegnò senza esitazione. Posato il libro, io e Domingo salimmo sulle casse e lo sostenemmo prendendolo sotto le spalle. Riuscimmo a farlo entrare per metà nella finestra e questo bastò perché sollevasse una gamba sul davanzale. Alzò la seconda gamba, la fece passare dall'altra parte, e con un salto scese nella stanzetta. Presi il libro, lo ripulii con la manica dal fango secco che ne aveva imbrattato la copertina, e glielo restituii.

Se lo infilò sotto il braccio dicendo: « Grazie, Luciano ». La stanza era minuscola e ingombra e fummo costretti a

rimanere, con un certo disagio, molto vicini l'uno all'altro. Fiutai l'odore di pesce andato a male negli abiti di Domingo e il fetore della melma del canale sul capocuoco e su me stesso. Mi avvidi della tensione nel viso del maestro e dell'inquietudine negli occhi di Domingo. Questa volta non gli portavo da mangiare, ma un bel po' di guai. Cominciai a spiegare, ma Domingo alzò i palmi per fermarmi.

Girò una chiave immaginaria sulle labbra. « Non voglio sapere » disse.

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« Ti aiuterò perché sei mio amico. Lasciamo le cose così come stanno. » Spostava in continuazione gli occhi dal viso del capocuoco al libro che questi teneva sotto il braccio. Era al corrente delle dicerie che erano sulla bocca di tutti e parlava spesso con Marco. Aveva senz'altro già indovinato la verità.

Il capocuoco disse: « Dobbiamo andarcene da Venezia». « Vogliamo andare in Spagna. » Lo dissi così d'impulso che mi

sorpresi. Io e Marco avevamo progettato tante volte di salpare per il Nuovo Mondo dalla Spagna e quello fu il primo posto che mi venne in mente.

Domingo assentì. « La Spagna è una buona idea. Da lì potete andare nel Nuovo Mondo dove nessuno vi troverà. »

« Vorrei portare la mia famiglia. » Il capocuoco spostò il libro e se lo portò al petto abbracciandolo con tutto il suo corpo. «Adesso saranno a casa di mia cognata. Domingo, potresti andare lì e... »

« No. » Domingo scosse energicamente la testa. « Sarà abbastanza difficile far scappare voi due. Una famiglia intera? Mai. »

Il viso del capocuoco parve ripiegarsi su se stesso e gli occhi sprofondarono nelle orbite. Sussurrò: « Dio. Che cosa ho fatto?»

Domingo propose: « Date il libro a Luciano. Lo porterà in Spagna».

« Non posso farlo. » Il capocuoco serrò le braccia intorno al libro. « Non sa ancora servirsene. »

Provai un senso di sollievo al pensiero che non ci saremmo separati. « Non può tornare a casa. Le Cappe Nere stanno cercando sia me sia lui » dissi. « Dobbiamo andarcene da Venezia tutti e due. »

« Le Cappe Nere? Merda. » Domingo si fregò la fronte foruncolosa. «Va bene. Un mercantile parte per Cadice tra un giorno. Fino ad allora potete rimanere qui, ma state zitti. »

Dissi: «Grazie, Domingo». Il capocuoco distolse lo sguardo. Ci volle un attimo, ma disse:

«Sì, grazie». Fui contento di sapere che avevamo ancora un giorno. Avrei

avuto il tempo di vedere Francesca. Forse si poteva... magari lei avrebbe... non sapevo esattamente che cosa aspettarmi da lei, ma non potevo andarmene e basta.

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Domingo chiese: « Quanti soldi avete? » « Abbastanza. » Il capocuoco si espresse con voce tranquilla. «

Domani vedrò mia moglie a casa di sua sorella. Luciano, tu verrai con me. »

« Non posso. Voglio dire, non vorrete che vi stia tra i piedi quando incontrerete vostra moglie. »

Il capocuoco mi si rivolse con la faccia seria e colsi una certa ira nel suo sguardo. « Hai altri progetti per domani? »

Ostrega. Non potevo mentirgli. « Vorrei dire addio a Francesca. »

« Oh Dio, Luciano. » Si stropicciò il viso come un padre sfiancato.

«Maestro... » « Siamo già abbastanza nei guai. Vuoi peggiorare le cose?

Vuoi mettere in pericolo anche lei? » « Se vado solo, non mi farò prendere. » Domingo si intromise. «Non litigate, potrebbero sentirvi.

Stanotte non posso fare niente per voi. Sarebbe meglio che dormissimo tutti quanti. »

Il capocuoco mi lanciò uno sguardo severo e si voltò dall'altra parte.

Domingo si aggomitolò in un angolo e si tirò un sacco di tela fin sul mento; strizzò gli occhi, determinato a non vedere nulla. Il capocuoco si sedette sul libro e appoggiò la testa al muro, ma non chiuse gli occhi. Non essendoci abbastanza spazio per distendermi, sedetti con le ginocchia al petto e finsi di dormire sorvegliando il capocuoco a occhi socchiusi. Sbadigliò per la terza volta, poi si mise un sacco di tela piegato tra la testa e le spalle a mò di cuscino e chiuse gli occhi. Aspettai che il brusio e il russare diventassero regolari, poi mi alzai, silenzioso come il fumo, e sgusciai dalla finestra.

Corsi lungo il molo, sentendomi al sicuro senza il capocuoco e il suo libro. L'aveva detto lui: un ragazzo scarmigliato in più non costituiva una novità in quelle strade. A quel punto le pantofole con i ricami di perle erano lacere e talmente incrostate di fango che avevano il medesimo aspetto delle scarpe miserabili, sfaldate, che indossava un diseredato qualsiasi. Un vento umido increspò l'acqua e mi rinfrescò la fronte. Non so perché, ma quel tocco leggero sul viso mi fece

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sperare che Francesca potesse... sì, che potesse venire via con me.

Non mi sfuggi il contrasto paradossale tra la disponibilità del capocuoco ad abbandonare l'amatissima famiglia e il mio progetto di partire insieme a Francesca. Interruppi quel pensiero e lo ingollai tutto intero. Il senso di colpa, al pari di un pasto pesante mangiato troppo in fretta, mi rimase sullo stomaco.

L'ora era tarda e gli unici rumori - aspre risate in lontananza — provenivano da una taverna di marinai. Imboccai una buia calle, ma la strada curvò inaspettatamente e mi ritrovai a correre lungo un canale che non riconobbi. La luna si moltiplicò nell'acqua nera e l'angolatura della luce mi spinse a chiedermi se stessi andando nella giusta direzione. Non mi smarrivo mai, ma quella notte il senso di colpa mi confuse. Svoltai un altro angolo; il convento doveva essere alla prima curva a destra... macché. Una casa da gioco spandeva luce e rumore in un campiello. Dalla porta aperta vidi gli uomini bere e giocare d'azzardo, mentre le Cappe Nere passavano tra loro facendo domande.

Retrocessi e inciampai su un cumulo di stracci; il cumulo gemette e si mosse. Un mendicante cieco che dormiva in strada si mise a sedere e la luce della taverna illuminò le sue orbite vuote. Tese una mano sfiorita. Mi voltai per correre, ma il mendicante gridò al mio indirizzo. « Fate la carità » piagnucolò, « fate la carità. »

Continuai a camminare sussurrando: «Non posso. Proprio non posso ». Il mendicante non mi udì. Parlavo a me stesso, e al capocuoco.

Giunto al convento, salii sul gelsomino e mi arrampicai sul muro. Raggiunta la finestra aperta di Francesca, mi alzai in piedi e la chiamai dolcemente per nome. Si scosse all'istante e si mise a sedere con i capelli arruffati. Aveva il sonno più leggero di quello di Domingo; forse era meno innocente. Si accostò alla finestra nella sua camicia da notte sottile, bordata di pizzo e mi occorse uno sforzo poderoso per parlarle con compostezza.

Dissi: « Ho il libro ». « Il libro? » Si fece immediatamente attenta.

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« Domani me ne vado da Venezia e tu potrai raggiungermi in seguito. Invierò del denaro. »

« Hai davvero il libro? » Scrollò i capelli e alla luce della luna parvero un'aureola. « Il libro delle formule magiche? »

« Non ci sono formule magiche, Francesca. » «Avevi detto... » « Francesca, è un libro di cucina. » « Un libro di cucina? » Fece un passo indietro. « A che gioco

stai giocando? » Mi sporsi all'interno. « Non è un libro di cucina come gli altri.

Contiene ricette che si usano per trasmettere certi insegnamenti. Ci sono Vangeli... »

« Vangeli? » Vidi che i suoi occhi diventavano opachi. « Non te lo posso spiegare, ma il libro è importante. » « Dunque, non c'è nessuna formula magica? » « No. » « Ma c'è una ricompensa. » « Si. » Raccolse l'abito marrone e lo fece oscillare delicatamente su

un dito. « Dove vai? »

Esitai. Se non voleva venire con me, mi avrebbe consegnato in cambio della ricompensa? Scrutai il suo viso e vi colsi curiosità, entusiasmo, il desiderio sfrenato di una vita migliore, ma nessuna malizia né perfidia. Risposi: « In Spagna».

« Davvero? » « Domani notte. » Continuò a far dondolare l'abito sul dito. « Ho sentito parlare

della Spagna. Le sorelle dicono che è piena di castelli moreschi e di giardini con gli stagni che riflettono la tua immagine. Aranci e fontane. » Guardò alle sue spalle il letto solitario, il crocifisso tragico e le pareti desolatamente spoglie. « Mi piacerebbe andare in Spagna. »

« Sì » dissi, « ci potremmo sposare in Spagna. » « Prima, però, devi farti dare la ricompensa. » « No. Porto il libro in Spagna. » « Cosa? Perché? » « Il libro non è mio. Vado in Spagna con il capocuoco. » « Aspetta. » Gli occhi leggiadri si ridussero a due fessure. « È

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un libro di cucina e tu vai in Spagna con uno chef? Hai ancora intenzione di fare il cuoco? » Stava scuotendo la testa e arretrava. « Non è quella la vita che voglio. Posso restare qui e prendermi un ricco cardinale. »

«Ma... » « Una volta ero povera. So come ti trattano quando sei

povero. Non mi va di tornare a fare quella vita. Non voglio essere la moglie di un cuoco. » Le tremò il mento e le uscì una voce strozzata. « Hai detto che saremmo stati ricchi. »

« Ma potremmo vivere insieme in Spagna. Pensavo che tu... » « Sì, Luciano. » Si riaccostò alla finestra e la luce della luna le

inondò il viso. « Sì, preferirei stare con te che con un cardinale vecchio e ciccione, ma non possiamo sempre avere ciò che ci piace di più e tu stai chiedendo troppo. Non mi va di tornare a essere povera. Non posso. »

« Non saremmo poveri... » « No? In Spagna i cuochi addetti alle verdure sono facoltosi?

» «Adesso guadagno cinque centesimi a settimana... » Assunse un'aria incredula. « Cinque centesimi? Niente meno

che cinque centesimi? » « Un giorno sarò uno chef e... » «Vendilo. Che importa se è un libro di cucina? Tutti lo

vogliono. Proponilo al miglior offerente. Allora potremo andare in Spagna e vivere una vera vita. Con una villa rosa sul mare. Con i domestici! Potremmo acquisire titoli nobiliari e ricevere inviti a corte. Farei splendide mantiglie di pizzo, ma soltanto per me. Indosserei vesti di seta e tu avresti una carrozza con i cavalli bianchi. Potremmo... »

« Francesca. » Si interruppe, si sporse dalla finestra e mi pose le mani sul

petto. Il cuore mi batte così forte che credetti potesse udirlo. Domandò: « Non mi ami più? »

« Certo che ti amo. » «Anch'io ti amo, Luciano. » Si alzò in punta di piedi, protese il

busto sul davanzale e la sua guancia sfiorò la mia. Si muoveva con agilità, flessuosa come un gatto. Mi baciò, oh, con quanta delicatezza, sulle labbra e mormorò: « Ti piace? »

La voce del capocuoco mi tornò in mente: Scava a fondo in te

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stesso e troverai la forza. Chiusi gli occhi e dissi: « Ti prego, non farlo ».

Mi baciò gli occhi chiusi con tanta tenerezza da farmi gemere. Disse: « Non è bello, Luciano? Mmm? » Tracciò con la punta delle dita il contorno delle mie labbra, mi sfiorò il collo con le sue e mi soffiò nell'orecchio il suo respiro umido; l'eccitazione creò piccole onde che mi arrivarono fino alla punta dei piedi.

Scava a fondo. «Ti amo, Luciano. Avremo dei figli, se vuoi. Insieme

potremmo vivere una vita magnifica. » Mi toccò l'orecchio con le labbra e fece finta di mordermi il lobo. Mi carezzò i capelli sussurrandomi le parole che avevo desiderato udire dal primo giorno in cui l'avevo vista. « Verrò con te e ti darò tutto quello che vorrai. » Posò la testa sulla mia spalla e il profumo di sapone e di pane appena sfornato liberò ricordi e desideri.

Domandai: « Davvero verrai con me? » « Sì. » Ostrega. Il sogno era diventato realtà. La sua voce aveva un sottofondo vellutato. « Basta che vendi

il libro. » Provai a immaginare come poterlo fare senza ferire il

capocuoco. Perché mai doveva interessarmi che prevalesse Roma o Venezia? Sapevo di poter mettere le mani sul libro. Dopo tutto, quella sera me lo aveva consegnato spontaneamente due volte. Si fidava di me. L'impresa sarebbe stata farlo salire sulla nave e metterlo al sicuro senza il libro. Forse Domingo mi avrebbe aiutato; poteva tenere il capocuoco mentre lo legavo. Magari Marco ci avrebbe dato una mano a trasportarlo a bordo, se gli avessi promesso una parte della ricompensa. Avremmo dovuto imbavagliare il capocuoco per farlo star zitto. Era un'idea sgradevole, ma se non altro sarebbe stato fuori pericolo. A quel punto sarei andato a casa di sua cognata e avrei spiegato alla signora Ferrerò dove si trovava il marito. La famiglia avrebbe potuto raggiungerlo in Spagna invece di scomparire in mezzo alle montagne di Aosta.

Non appena fossero stati lontani, e al sicuro, avrei potuto stipulare un accordo con Landucci. Naturalmente, di lui non ci si poteva fidare. Glielo avrei fatto sapere tramite una serie di

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corrieri anonimi. Magari una suora avrebbe potuto consegnare un messaggio sigillato pensando che si trattasse di una questione ecclesiastica, un messaggio in cui mi sarei offerto di vendere il libro. Sì, un biglietto in cui avrei chiesto a Landucci di portare metà del denaro su una nave diretta in Spagna. No, meglio non fargli sapere la nostra destinazione. Fargli portare il denaro su una nave in partenza per Costantinopoli, o in una taverna nella zona dei ladri. Avrei concordato che l'altra metà diventasse esigibile non appena fosse entrato in possesso del libro. Avrei dovuto controllare gli orari del traffico marittimo; la tempistica doveva essere perfetta.

Dopo di che, un marinaio avrebbe consegnato un altro biglietto in cui si spiegava a Landucci dove trovare il libro e dove lasciare il resto del denaro. I biglietti li avrebbe scritti Francesca e io avrei nascosto il libro in un oscuro angolo di Venezia. Non avremmo preteso l'altra metà del denaro; sarebbe stata sicuramente una trappola. Nel momento in cui Landucci avesse trovato il libro, io e Francesca saremmo stati in mare aperto, diretti in Spagna e poi nel Nuovo Mondo. Sì, si poteva fare.

In quell'istante il silenzio fu pressoché totale. Soltanto la voce di Venezia, la puttana, mi lambì le orecchie sussurrando: Vendi, vendi. Allora udii la voce del capocuoco: Sei migliore di quanto tu pensi.

Guardai quel viso luminoso, pieno di speranza. « Francesca. » « Sì, amore mio. » « Non posso. » Si irrigidì e pestò i piedi. « No! » Li pestò di nuovo. « No! No! È

intollerabile! Hai un modo per farci stare insieme e non ne approfitti. »

« Ma io ti manderò a prendere. » « Per farmi vivere da contadina in un tugurio spagnolo? Se

mi fossi accontentata di una vita del genere, non sarei entrata in convento. »

« Non saresti una contadina. » Si strinse le mani e le venne una voce dolce e implorante, ma

vi colsi anche un filo di disperazione. « È soltanto un libro, Luciano. Dio, è un ricettario. Vendilo e verrò con te da qualsiasi parte. » Alzò su di me uno sguardo supplichevole. «

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Potremmo essere così felici. » « Francesca. » Le presi il volto tra le mani e le arruffai i

capelli con le dita. « Non c'è bisogno di essere ricchi. Io ti amo. Mi prenderò cura di te. Ti proteggerò. » Le misi una mano sul collo e l'attirai a me. La baciai con avidità, con ferocia. Quando, infine, la lasciai andare, la guardai in viso. Aveva le labbra gonfie, ammorbidite, come un frutto ammaccato. « Possiamo essere felici così come siamo » dissi.

Cercò di scuotere la testa, ma la tenni ferma. Disse: « Tenti di confondermi». Ci fissammo l'un l'altra per quella che parve un'eternità. La luce della luna fece balenare chiazze ramate nei suoi occhi e vi intravidi un barlume di comprensione. Non aveva mai soppesato l'eventualità di essere felice vivendo una vita semplice, onesta, e stava cercando di immaginarsela. Osservai quella possibilità risvegliarsi in lei, aleggiare sul suo viso e dissolversi.

« Sei un sognatore, Luciano. I poveri non sono felici. Se venderai quel libro per amor mio, ti amerò per sempre. »

Rammentai con quanta insistenza il capocuoco aveva affermato che niente avrebbe potuto costringere qualcuno ad amarmi. Gemetti: «Ah, Francesca». La creatura senza difetti che adoravo esisteva solo nella mia mente, proprio come i demoni che paventavo nel buio. La ragazza implorante, in piedi davanti alla finestra, era bellissima, ma non aveva coraggio. La creatura perfetta della mia immaginazione non era più reale delle formule per fabbricare l'oro e assicurarsi l'immortalità.

Per la terza volta nella mia vita, sentii il bisogno di pregare. Sollevai lo sguardo, perché è cosi che si fa, e vidi soltanto il cielo notturno, vuoto. Allora ricordai: Non guardare in alto, guarda dentro. Pensai: Ti prego... ma questa volta chiusi gli occhi e chiamai a raccolta la mia forza interiore.

Lasciar andare il suo viso fu come strappare una parte di me. Feci cadere le braccia e mi allontanai.

« Luciano... » La udii frignare come una bimba, un suono che bruciò là

dove mi aveva toccato il viso. Attraversai il chiostro senza preoccuparmi di essere visto. Superai il muro e mi diressi prima a nord, poi a sud, non aveva importanza. La strana

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sensazione di essere sonnambulo impedì che provassi fino in fondo l'impatto, ma, non appena giunsi a metà di un ponte di pietra, la realtà mi sommerse.

Non l'avrei mai più rivista. Il dolore mi fece cadere in ginocchio. Premetti la fronte sulla

fredda pietra e intrecciai le mani sulla nuca. I miei singhiozzi echeggiarono nella notte. Non sapevo che si potesse soffrire fino a quel punto; il male fisico sarebbe stato una distrazione ben accetta. Dovevo sembrare una piccola cosa, un ragazzo raggomitolato nel buio, sconvolto dal pianto. Dopo l'ultimo fremito, mi rannicchiai, vuoto e sfinito. Sconsolato. Dopo un po' mi alzai e senza pensarci mi asciugai gli occhi con il polso. Arrancai verso la strada dei pescivendoli, chiedendomi chi sarei stato senza di lei.

L'alba aveva appena iniziato a diluire l'inchiostro del cielo notturno quando mi infilai nella finestra. Domingo dormiva ancora, ma il capocuoco era seduto con il suo libro, sveglio e con l'aria smarrita. Disse: « Sei andato da lei ».

« Sì. » Feci ciondolare il capo. « Ti ha respinto. » « Non proprio. Voleva che vendessi il libro. Ho rifiutato. » « Bravo, Luciano. » Il capocuoco si alzò in piedi e mi

abbracciò. Mi tenne stretto, molto stretto. « Hai scoperto la tua virilità, ed è eccezionale come sospettavo. Il dolore passerà. »

Avrei voluto chiedere: Quando? Per quanto tempo dovrò sentirmi così? Ma il capocuoco tornò a sedersi nel suo angolo e chiuse gli occhi per concedermi un po' di isolamento. Mi raggomitolai contro la parete e piansi silenziosamente finché Domingo non cominciò a muoversi. Mi asciugai il viso con la manica e finsi di svegliarmi proprio in quel momento.

Domingo mi guardò intensamente. « Luciano? Stai bene? » Non risposi, temendo che la voce mi tradisse. Inscenai uno

sbadiglio e Domingo spiegò: «Vado al lavoro. La nave parte domattina all'alba, ma mi servono i soldi il più presto possibile: dieci ducati a testa e cinque perché il capitano vi faccia salire a bordo stanotte senza che nessuno se ne accorga».

Il capocuoco disse: « Mi procurerò il denaro. Ci vediamo qui nella tarda mattinata».

Domingo si issò sulla finestra e la scavalcò senza aggiungere

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una parola. Era così ansioso di allontanarsi da noi e dal libro che urtò l'intelaiatura con la testa e non si fermò neppure per controllare la sbucciatura. Lo udii toccare terra con i piedi e correre via.

31

Il libro dell'oppio

Per giungere all'appuntamento con la moglie del capocuoco

seguimmo un percorso tortuoso. Sporchi, puzzolenti, stremati ed esausti, avevamo l'aspetto della peggior gente di strada. Il capocuoco teneva il libro sotto la camicia più o meno allo stesso modo in cui molti barboni portavano con sé i loro miseri beni. Stava a capo chino con un braccio alla vita come se avesse mal di stomaco. Ciondolavo alle sue spalle tenendomi a una certa distanza per far credere che non fossimo insieme. Ci mescolammo ai poveri vagabondi, ciononostante cambiammo strada ogni volta che vedemmo le Cappe Nere o le guardie del doge. Seguimmo sentieri poco battuti e strade semideserte, fermandoci sempre a guardare dietro gli angoli prima di avventurarci.

Prendemmo una deviazione per un sestiere povero della città, il Cannaregio, una zona di pontili dove venivano calafatate le barche abbandonate. Su un canale di acqua stagnante, congestionato di verdure marce e paglia fradicia fuoriuscita dai materassi buttati, pendevano ringhiere svelte dai terrazzini. Tutto parlava di abbandono e sventura e la gente tetra che vi abitava, occupata a sopravvivere, ci ignorò.

Nella tortuosa calle del Capitello camminammo in mezzo a mura alte e torve che svettavano su quell'angusta via, famosa per essere la strada degli assassini. Perlopiù la gente faceva di tutto per evitare di passare per quella calle appesantita dagli spiriti delle vittime violate. Ovunque fosse stato commesso un omicidio, era stato collocato un tabernacolo dedicato alla Vergine in una nicchia del muro. Bastavano pochi passi perché ci sorridesse una Vergine imbrattata.

Da calle del Capitello sbucammo davanti a un palazzo diroccato, avvolto in un'atmosfera di quieta vetustà.

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Camminammo lungo il sentiero che correva all'ombra del palazzo e io guardai dal cancello di ferro battuto. Colsi di sfuggita un giardino ben tenuto, malinconico e appartato, pieno di oleandri e di rose luminose nella luce del mattino. I giardini di Venezia danno un senso di speranza, sono oasi di vita che sboccia coraggiosamente mentre tutto il resto viene sgretolato e consumato dall'acqua salata e dal tempo. Interpretai il giardino come il segno che in quel pericoloso intrico di eventi potevamo ancora trovare la salvezza.

Giunti a casa della cognata, una dimora rispettabile simile a quella del capocuoco, questi mi disse di attendere nel cortile sul retro mentre si recava all'interno. Disse: « Rosa ne sarà sconvolta».

Li vidi, il capocuoco e la signora Ferrerò, e udii persino qualche frammento della loro conversazione da una finestra aperta del piano nobile. La brezza marina spingeva a rigonfi verso l'interno le tende bianche e nei morbidi sprazzi svelati dagli scuri, che si aprivano e si chiudevano come un occhio che ammiccasse lentamente, si svolse una scena penosa. Mi azzardai a guardare il quadro dolente.

Il capocuoco parlò per primo. Dalla sua espressione capii che stava chiedendo scusa e nei suoi gesti lessi un senso di impotenza. Era il viso di un uomo annientato. Il volto della signora Ferrerò, inizialmente spaventato e confuso, ben presto fu oscurato da una rabbia incontrollata. Il capocuoco chinò il capo e lasciò che l'invettiva della moglie proseguisse senza interruzioni finché, di punto in bianco, la rabbia non andò in fumo. Lo sguardo furioso si dissolse e le braccia, che non avevano potuto esprimersi per l'interruzione della filippica, circondarono il collo del marito, mentre la donna cedeva al suo abbraccio. Piansero insieme e i singhiozzi a cui si abbandonarono mi giunsero ben udibili, straziandomi.

Fu lei la prima a smettere di piangere. Si asciugò gli occhi con un fazzoletto e gli carezzò la guancia con dolce rassegnazione. Parlarono, si toccarono il viso, si asciugarono le lacrime e scivolarono nell'intimità confortante dell'abbraccio. Rimasero così a lungo.

Infine la donna si staccò dal marito ed entrambi si affaccendarono a predisporre la sua partenza. Lui fece

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scivolare il libro in un sacco di farina e mi sorpresi nel vederlo impacchettare anche una penna d'oca e una pietra da inchiostro blu. Allora me ne ricordai; a quell'ora le figlie dovevano essere a scuola per mantenere un'apparenza di normalità. Avrebbe scritto senz'altro qualche lettera alle figlie, forse nell'attesa di imbarcarsi. Mi chiesi se potessero combinare una riunificazione in Spagna. Forse avrebbe scritto le classiche rassicurazioni di un padre.

La moglie lo aiutò a indossare una camicia pulita e gli spazzolò il fango secco dalle ginocchia. Mise una pagnotta e una fetta di formaggio in un altro sacco e gli infilò un borsellino rigonfio nella tasca dei calzoni.

Scesero insieme alla porta sul retro, tenendosi per mano come giovani amanti. Il capocuoco la guardò come se volesse parlare, ma non avesse la lingua. La signora Ferrerò si ricompose. Quando parlò, lo fece con voce ferma. « Siamo stati felici, Amato. »

« Sì, mia cara. » «Adesso, però, dobbiamo essere molto più che felici. » Le carezzò la guancia. « Adesso dobbiamo essere coraggiosi. » «Và. » Lei distolse lo sguardo. « Riunirò le bambine e partirò

per Aosta oggi stesso. » Il capocuoco stava per parlare quando udì battere forte al

portone d'ingresso. « Maestro. » Lo tirai per la manica. « Le Cappe Nere. » Aveva l'aspetto di un uomo prostrato e annichilito. « Và » disse lei, togliendoci di mezzo con un gesto. « Mia

sorella ci metterà un po' di tempo a rispondere. Và! » Il capocuoco non si mosse fino a che Rosa non ci chiuse la

porta in faccia. Al molo, svoltammo l'angolo all'imbocco della via dei

pescivendoli e ci fermammo di colpo alla vista di quattro Cappe Nere che bazzicavano intorno alla casa del padrone di Domingo. Indietreggiammo lungo il fianco della casa più vicina e vedemmo le Cappe Nere cercare di aprire il portone d'ingresso, sbirciare dalle finestre e portarsi sul retro per dare un'occhiata alla stanza di Domingo.

C'era anche Giuseppe e teneva sollevato uno schiamazzante Bernardo a mò di trofeo. Scrollò il mio povero gatto tenendolo

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per la collottola e Bernardo si scagliò a unghie sfoderate contro gli occhi del vecchio ubriacone. Giuseppe esibì Bernardo a una Cappa Nera spiegandogli in tono lamentoso: « Ve l'avevo detto che sarebbero venuti qui, ed ecco. Questo è il gatto del ladro. Tornerà a prenderselo ».

Il capitano ordinò: « Bruno, resta qui e tieni gli occhi aperti ». Giuseppe sgambettò alle calcagna del capitano. « Lasciate

soltanto un uomo? » Il capitano si voltò verso Giuseppe e sfoderò un coltellino

dalla manica. Tenne la punta sotto il mento di Giuseppe e spinse finché questi non tirò indietro la testa. « Pensi che una Cappa Nera non sappia cavarsela con un uomo e un ragazzo? »

« Sì, signore. Volevo dire, no, signore. » La Cappa Nera spinse il coltello quel tanto da far uscire una

goccia di sangue e lo rinfoderò congedando l'altro con un gesto noncurante. « Se pensi che un uomo non basti, resta qui. Tu e il gatto sarete di grande aiuto.» La Cappa Nera rise senza gioia e si allontanò come un animale a tante teste. Bruno si appostò sul fianco della casa in modo da poter sorvegliare contemporaneamente la facciata e il retro. Giuseppe si accovacciò per strada insieme a Bernardo.

Io e il capocuoco ci scambiammo uno sguardo d'intesa e in punta di piedi tornammo nel poverissimo Cannaregio. Camminammo per una via deserta, non fosse stato per una donna che alla finestra del terzo piano stava appendendo la biancheria scolorita a un filo teso tra gli edifici. Non c'era altra gente nei paraggi; in quel sestiere gli uomini se ne andavano il mattino presto a sfacchinare per altri uomini, e le donne se ne stavano per conto proprio a sbrigare le faccende domestiche, che si sobbarcavano senza un aiuto e spesso con un neonato al seno. Soltanto la sera la gente metteva nel vicolo le sedie sgangherate per scambiarsi pettegolezzi e vino fatto in casa.

Quel giorno il silenzio della strada parve ancora più assoluto, per via dell'unico suono prodotto dal filo per stendere, che cigolava a intervalli regolari ogni volta che la donna appendeva la biancheria e ne tirava un tratto... appendeva la biancheria e ne tirava un tratto... appendeva la biancheria e ne tirava un tratto. Non c'erano volti che guardassero dalle case fatiscenti, né suoni che giungessero fino a noi, a parte lo stridio

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monotono, ripetitivo del filo per stendere. Il capocuoco mi guidò alla chiesa parrocchiale in cui ci

intrufolammo da una porticina secondaria. Percorremmo la navata oltrepassando vedove vestite di nero dai volti amari. Borbottavano meccanicamente le preghiere per i mariti defunti che le avevano lasciate senza un soldo. La chiesa era antiquata e scarsamente illuminata come una grotta, con l'odore di muffa e d'incenso che si era inglobato in via permanente nelle panche di legno. Il luogo era povero come i parrocchiani: i paramenti dell'altare lisi, la doratura sulle aureole dei santi assottigliata, il mantello della Vergine sbiadito e ormai grigio. Il soffitto a volta coglieva i suoni, li espandeva in un paradiso acustico e li abbatteva di schianto sulle teste chine. Udimmo amplificati il ticchettio dei grani del rosario e il fruscio delle gonne delle vedove che muovevano le ginocchia artritiche sul pavimento di pietra. Pregavano a voce bassa come se sussurrassero attorno a un letto di morte.

Sedemmo senza parlare e io mi domandai quanto a lungo saremmo rimasti lì. Mi domandai come avremmo fatto a tornare nella stanza di Domingo. Mi domandai che cosa avrebbe fatto se non gli avessimo portato il denaro in tempo. Mi domandai perché il capocuoco avesse acconsentito con tanta facilità a recarsi in Spagna. Mi domandai se conoscesse un altro Guardiano sul posto. Mi domandai quali altre ricette, analoghe a quella del soufflé, avesse ancora da insegnarmi. E, per la centesima volta, mi domandai a che cosa gli servisse l'oppio.

Le candele votive sfolgoravano negli angoli bui ravvivando i lineamenti lugubri dei martiri. Sottili steli di luce, intasati dal pulviscolo, bisecavano le ombre. Il crocifisso sull'altare pareva smussato dal tempo e il viso pallido di Gesù era velato e appesantito da decenni di polvere. Pensai: Bene, se ci sono altri segreti da svelare, questo è il posto giusto per farlo. Bisbigliai: « Maestro? »

« Sto pensando. » « C'è una cosa che vorrei chiedervi. » « Cosa? » « A che cosa vi serve l'oppio? » « Dio, adesso? » Sospirò. « È legato a uno dei testi contenuti

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nel libro. » « Quale? » Alzò le sopracciglia. «Vuoi saperlo adesso? » « Non stiamo andando da nessuna parte. » Il capocuoco guardò il crocifisso per un po', e poi: « Sì, forse è

il posto adatto per parlarti dell'oppio ». Sbucato dal nulla, Bernardo percorse in un lampo la navata e

mi balzò in grembo. « Bernardo! » Gli carezzai la schiena e fece le fusa. « Te la sei svignata da Giuseppe, eh? Bravo ragazzo. Sei un gatto intelligente. » Gli baciai la testa e risi. Una vedova si voltò e mi inceneri con lo sguardo, ma ero così sollevato nel vedere Bernardo che le restituii lo sguardo truce.

Il capocuoco fece schioccare la lingua. « Hai finito di giocare col gatto? »

« Scusate, Maestro. » « Bene. » Si piegò verso di me e bisbigliò: « Nel libro c'è una

ricetta molto semplice: acqua, aceto e oppio ». « Non mettete l'oppio nella minestra di fagioli bianchi? » « Da dove ti vengono idee simili? » Si passò una mano tra i

capelli. «Bè, di tanto in tanto, magari un pizzico, se le circostanze lo richiedono. È impossibile accorgersi della sua presenza in un piatto. È un antidolorifico, ma i suoi effetti collaterali sono terribili. Preso in eccesso, può anche uccidere. » Scosse la testa. « Non è un'erba benigna da usare a volontà. L'oppio va maneggiato con cura. Lo conserviamo in memoria di uno dei nostri testi più importanti: un resoconto della crocifissione, scritto da un soldato romano che vi assistette. È una descrizione inconsueta che rammenta la necessità di non chiudersi di fronte a nessuna spiegazione alternativa di, bè... di qualsiasi cosa. Il soldato affermò di aver dato a Gesù una spugna imbevuta di acqua e aceto, ma prima mescolò all'acqua un po' di oppio. »

« Perché? » « Fu un atto di compassione. Dopo tutto, Gesù stava

soffrendo. Il soldato sapeva che l'oppio avrebbe alleviato il suo dolore o l'avrebbe ucciso con più misericordia. »

Ero confuso. « Ma sono stati i romani a crocifiggere Gesù. » « Sì. » Il capocuoco sorrise con mestizia. « Crocifissero anche

Pietro. Eppure la Chiesa di Gesù ha il proprio centro a Roma e

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nessuno ci trova niente da ridire. » Scosse la testa e sospirò. Proseguì: « Non tutti i romani lo volevano morto. Quel soldato

era, in segreto, un simpatizzante di Gesù, uno dei tanti che non osarono esprimersi pubblicamente. Lo stesso soldato gli trafisse un fianco. Vedi la ferita? » Indicò il crocifisso polveroso e notai la fenditura tra due costole del Cristo di legno. « Lo ferì quel tanto da poterlo dichiarare morto e impedire ai soldati di spezzargli le gambe come fecero con gli altri due. Naturalmente, l'acqua che fuoriuscì dalla ferita non dimostrava proprio nulla. A un uomo che viene sospeso su una croce si raccoglie l'acqua nei polmoni. Alcuni sostengono che la presenza del sangue, mescolato all'acqua, dimostra che Gesù era ancora vivo perché i morti non sanguinano. »

« Fu l'oppio a uccidere Gesù? » « Forse no. Una certa quantità di oppio provoca in un uomo

uno stato che somiglia alla morte. Alcune narrazioni affermano che Gesù "spirò" dopo aver ricevuto la spugna, ma il soldato sostiene che scivolò nel sonno profondo dato dagli oppiacei e in seguito si svegliò in un sepolcro. I discepoli fecero circolare la frottola della resurrezione, nel caso qualcuno l'avesse visto. »

« Gesù sopravvisse alla crocifissione? » Facevo fatica a parlare a bassa voce.

« Secondo Tommaso, Gesù tornò dai suoi discepoli un anno dopo la crocifissione. Disse loro di aver trovato un nascondiglio dove avrebbero potuto unirsi a lui, se lo avessero desiderato. Può darsi che abbia vissuto a lungo e sia morto di morte naturale. »

« Credete alla storia del soldato? » Il capocuoco si appoggiò allo schienale della panca e guardò

intensamente il crocifisso. « Gesù era un uomo giovane, sano. Rimase sulla croce soltanto tre ore. La maggior parte dei condannati ci restava per giorni. Ai due uomini crocifissi insieme a lui dovettero spezzare le gambe per accelerarne la morte. Perché mai Gesù sarebbe spirato così in fretta e immediatamente dopo aver bevuto? Sì, credo al resoconto del soldato. »

« Ostrega. » « La faccenda della resurrezione non è una storia originale,

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credimi. Non sorprende che i discepoli abbiano escogitato quell'espediente. Secoli prima di Gesù, si parlava perlomeno di tre uomini-dei pagani, morti durante il periodo di Pasqua, ovvero l'equinozio di primavera, che sarebbero resuscitati dopo tre giorni. Ti sembra una coincidenza? O non sarà forse che i discepoli adottarono una vecchia storia ritrita per proteggere Gesù? »

« Voi che pensate? » « Penso che la narrazione del soldato possa avere un fondo di

verità, ma rappresenta una minaccia per la Chiesa, e per questa ragione noi Guardiani dobbiamo conservarla fino a quando non sarà possibile esaminarla e discuterne apertamente. »

« Quando accadrà? » « Non lo so. » Il capocuoco mi mise una mano a coppa sulla

nuca e il suo gesto parve una benedizione. Disse: « Per il momento, io e te possiamo trarre conforto dal fatto che Gesù era un uomo come noi. Non resuscitò per imbrogliare la morte. Se avesse saputo di poterlo fare, che valore avrebbe avuto la sua dipartita? Gesù era puramente e divinamente umano: è questa la buona novella. Cosa vanno cercando gli esseri umani che prendono a modello gli dei? In te c'è la stessa forza che Gesù aveva dentro di sé. Ricordatelo, qualsiasi cosa accada».

« Maestro, però Gesù era un tipo speciale. » « Sì, uno della nostra specie. Disse: 'Ciò che ho fatto io, potete

farlo anche voi, e meglio'. Forse siamo tutti adepti potenziali. » « Come N'bali? » « Come tutti i maestri che portavano i sandali. » Mi lanciò il

suo sorrisetto enigmatico. Le vedove scandirono i grani del rosario, il capocuoco chinò

la testa e, accarezzando Bernardo, riflettei su quanto aveva detto. Fu allora che mi resi conto che, al posto delle Cappe Nere, era stato il mio gatto a trovarci. Sussurrai: « Maestro, Bernardo li ha superati tutti in astuzia».

Malgrado la situazione, o forse proprio in virtù delle circostanze, la piega inaspettata che avevano preso gli eventi parve la più splendida delle commedie. I nervi logorati cedettero e ridemmo forte. Le vedove vestite di nero si voltarono e ci fissarono con sguardi furibondi. Una di loro ci

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mostrò il pugnetto e questo ci fece ridere ancora di più. Le risate fuoriuscirono come un'emorragia. Spasmi incontrollabili, senza alcuna leggerezza né gioia, ci scossero fin nell'anima. Caddi di lato sulla panca di legno, squassato dalle risate che travalicarono il filo del rasoio sul quale avevamo camminato per troppo tempo. Il capocuoco gettò la testa all'indietro e le sue risate a crepapelle allentarono, con sfarzo, con dovizia, la tensione a lungo repressa. Dalla nostra bocca uscì un'esplosione catartica che ci lasciò senza fiato e in preda alla tosse, piangenti e ansanti, con un dolore lacerante ai fianchi che contrastammo tenendoci le costole. A lungo andare l'esplosione calò, grazie a Dio, e infine, per fortuna, si interruppe.

Rimanemmo seduti in un silenzio purificato. Bernardo strofinò il muso contro il mio petto e il capocuoco tornò a chinare la testa. Da tempo, le vedove erano uscite a passettini dalla chiesa, assolutamente scandalizzate. Quella sera, per strada, si sarebbe parlato a lungo delle nostre risate convulse e sacrileghe.

Dissi: « Avete parlato a vostra moglie dei Guardiani ». Il capocuoco annuì. « Speravo che non fosse necessario

farglielo sapere, ma quando il doge ha dato il via alla sua campagna, sì, le ho detto tutto. »

« Vi raggiungerà in Spagna? » « Spero che un giorno sarà possibile, ma c'è molto da fare

prima di pensare alle riunificazioni. » « Quando ricomparirà ad Aosta, non le faranno delle

domande? » « Dirà che è rimasta vedova. La mia Rosa darebbe la vita

piuttosto che tradirmi. Come me, che morirei piuttosto che tradire i Guardiani. »

« Non avete paura di morire? » Il capocuoco sembrava più tranquillo di come l'avevo visto

nelle ultime settimane. Disse: « Vivere tanto per vivere ha lo stesso senso di un orologio che scandisce le ore ». Si strinse nelle spalle. « Morire non è nulla; vivere con integrità e per uno scopo, questo sì è qualcosa. »

32

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Il libro delle illusioni

Trovammo Domingo al banco del pesce e il capocuoco gli

consegnò un borsellino pieno di ducati. Tornando a casa per incontrarsi con noi, Domingo aveva visto Giuseppe e una Cappa Nera sorvegliare la casa ed era più eccitabile che mai. Affondò le mani nelle ascelle, guardò fisso a terra e borbottò la promessa di provvedere alla nostra sistemazione. Poi si allontanò.

Il capocuoco gli toccò un braccio. « Ci serve un posto dove stare fino a stanotte. »

Domingo si morse il labbro inferiore; io avvertii l'urgenza del suo desiderio di liberarsi di noi. Mi chiesi quanta lealtà potevano comprare un po' di pane, porri e finocchi. Fino a che punto conoscevo il silenzioso, solitario, imbronciato Domingo? Avevo sempre dato per scontato che volesse diventare un pescivendolo e niente più, ma se invece avesse coltivato altri desideri? Senza nessun motivo apparente, il capocuoco disse: « Potrai vivere una lunga vita pacifica vendendo il pesce non appena ce ne saremo andati, Domingo. È nell'interesse di tutti che ci imbarchiamo stanotte ». Forse non era necessario, ma fui lieto che l'avesse detto al posto mio.

Dissi: « Domingo, hai dimostrato di essere un vero amico aiutandomi in una situazione difficile. Grazie ».

Domingo annuì. «Al molo c'è una taverna chiamata Bacco, vicino alle barche dei pescatori di granchi. È un covo di contrabbandieri e ha una cantina. Dite al proprietario che vi serve un posto dove stare fino a stanotte. » Puntò il mento verso il capocuoco. «Avete altro denaro? »

Il capocuoco fece tintinnare la tasca. Domingo assentì. « L'oste prende la sua quota su tutto quello

che entra o che esce, soprattutto se si tratta di persone. Smercia schiavi e nasconde malfattori. Dategli quattro ducati. Verrò lì stanotte, sul tardi. »

« Grazie, Domingo. » Il capocuoco si allontanò dal banco e si voltò per andarsene.

Presi a seguirlo, ma Bernardo si dimenava sotto il mio braccio. Gli mancavano i pasti regolari che consumava a

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palazzo e l'odore del pesce fresco fu troppo per lui. Lasciò il mio braccio con un balzo, strinse tra le fauci un grasso sgombro e se la svignò in mezzo alla folla. Il pescivendolo sbraitò e lo inseguì con un coltello da desquamazione. Avrei voluto corrergli dietro, ma il capocuoco mi tenne per un braccio. Domingo disse: « Andatevene ».

Diretti alle barche dei pescatori di granchi, cercai Bernardo, ma era scomparso con il suo sgombro. Le cose stavano così: Bernardo e Francesca li avevo perduti per sempre.

Bacco emanava un blando odore di pesce e di vino versato. L'odore sarebbe stato più intenso, ma le porte sul davanti e sul retro erano uscite dai cardini e non erano mai state sostituite. La brezza di mare, salina e costante, attraversava il locale rinfrescandone l'aria. Le porte scardinate servivano da piani dei tavoli, tutt'intorno ai quali erano sparpagliati sgabelli di legno a tre gambe.

Taverna e oste, unti e grezzi com'erano, formavano una bella coppia. L'oste alzò lo sguardo quando entrammo, ma non smise di asciugare un bicchiere untuoso con il grembiale macchiato di vino. Gli occhi non si accordavano al viso smorto, paffuto: erano di un azzurro penetrante, taglienti come l'acciaio, sotto due sopracciglia nere. Gli conferivano l'aspetto dell'uomo capace di estrarre un pugnale dalla manica prima che tu l'avessi visto muoversi.

Il capocuoco gli parlò con calma. Il proprietario posò il bicchiere sudicio e lo osservò appoggiare quattro ducati sul bancone. Li fece cadere dal piano e scivolare dentro la tasca in una sola mossa, e poi con un gesto indolente ci fece cenno di seguirlo. Non aveva detto una parola.

Nel retro, il proprietario sollevò grugnendo una cassa di vino da una catasta d'angolo, dopo di che ne alzò un'altra e un'altra ancora. Quando spostò di lato con un calcio l'ultima cassa, vedemmo una botola nel pavimento. Si inginocchiò con impaccio e, sudando per essersi piegato sulla pancia molle, aprì la botola con una maniglia di corda. Vidi la prima metà di una lunga scala; la parte più in basso era inghiottita dalle tenebre. Il proprietario accese un lume e abbassò lo stoppino per non sprecare il combustibile. Con quello in mano, cominciò

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a scendere la scala e noi lo seguimmo. Ci condusse in uno scantinato che sapeva di muffa pieno di

casse di vino. La ventilazione proveniva unicamente da una finestrella aperta all'altezza della strada. Udii il lento sgocciolio dell'acqua dietro i muri; il pavimento di terra battuta era scivoloso. Eravamo sotto il livello del mare. Mi venne subito la pelle d'oca, poi fui preso dal panico e il respiro accelerò facendosi più laborioso.

Il capocuoco disse: « Fermo, Luciano. Qui e ora sei al sicuro. Respira».

Mi venne in mente il cunicolo. « Sì, Maestro, grazie. » Mi concentrai sul respiro - inspirare, espirare — e la paura scemò.

Il capocuoco prese il lume dal proprietario e alzò la fiamma. L'uomo fece l'occhiolino per sottintendere che eravamo tutti ladri, dunque potevamo fidarci gli uni degli altri. Salì a passi pesanti sulla scala, che tirò su dopo essere uscito, e chiuse con forza la botola. Udii le casse di legno grattare il pavimento mentre venivano rimesse al loro posto.

« Cerca un angolo asciutto » disse il capocuoco. « Riposa finché puoi. »

Sedetti su una cassa di vino e mi concentrai sul respiro che entrava e usciva, lento e costante. Ogni volta che i pensieri deviavano sulla finestra, o sulla scala, o sulla paura che Domingo non venisse, tornavo a focalizzarmi sul respiro. Chiusi gli occhi e lo sincronizzai con l'acqua che sgocciolava dietro i muri, dentro e fuori, regolare come un pendolo. A un certo punto udii un fruscio e un rumore di carta strappata.

Alla luce del lume, il capocuoco si vedeva a malapena, ma riuscii a distinguerne la sagoma curva sul libro, intenta a scribacchiare con la penna d'oca. Rammentai d'averlo visto che la portava via insieme alla pietra d'inchiostro blu e pensai che, per lui, dover scrivere alle figlie fosse come strapparsi il cuore. Le rassicurava dicendo che le avrebbe ritrovate o era costretto a dir loro addio?

Dissi: « Mi dispiace che dobbiate separarvi dalla vostra famiglia».

« Dispiace anche a me. » « Se state scrivendo qualche lettera alle vostre figlie,

Domingo potrebbe consegnarle per voi. »

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« Ti dispiace concedermi qualche minuto per conto mio? » « Scusate, Maestro. » Tornai al respiro. La penna stridette di meno sulla

pergamena e proprio nel momento in cui cominciavo a provare una sensazione di malinconica pace, fummo disturbati da un rumore di passi e dal raschiare delle casse sopra le nostre teste. Io e il capocuoco ci guardammo: era di gran lunga troppo presto perché fosse Domingo. Vedemmo la botola aprirsi e un polveroso raggio di luce attraversò obliquamente la cantina mentre veniva calata la scala. Una scarpa lacera fece un passo sul primo piolo. Non era lo stivale di un soldato, grazie a Dio. Il capocuoco mise il libro su una cassa e vi si piazzò di fronte con la penna che gli penzolava dalla mano. Il secondo piede atterrò sulla scala, poi le gambe e il busto. Scese un giovane con un fagotto sotto il braccio. Dissi: « Marco? »

La botola si chiuse con fracasso. « Che significa? » Il viso del capocuoco, illuminato dal lume, vacillò tra la rabbia e la sorpresa.

Ai piedi della scala c'era Marco e, benché la cantina fosse buia, mi accorsi che aveva un aspetto disinvolto e soddisfatto di sé. Disse: «Vi ho portato qualcosa». Aprì il fagotto e mostrò una pagnotta. « Sono andato nella cucina e ho sentito dire che eravate scappati alla disperata con le Cappe Nere alle calcagna. Domingo mi ha detto dove eravate quando gli ho fatto vedere il pane che avevo rubato per voi. Avete fame, non è così? »

« Merda. Cosa vuoi, Marco? » Rise. « Quel Domingo. Si rifiutava di parlare con me. Allora

gli ho domandato: "Vuoi che Luciano muoia di fame? Quante volte ti ha portato da mangiare?' » Marco mi spintonò spalla contro spalla. « Cosa c'è che non va, Luciano? Non avrai intenzione di abbandonarmi e andartene con il libro, vero? »

« Nel libro non c'è niente che possa interessarti, Marco. » « Come no. È per questo che tutti non vedono l'ora di metterci

le mani sopra. » « Tu non capisci. » « Capisco che non ti permetterò di tagliarmi fuori. » « Madre di Dio. » Il capocuoco si passò le dita tra i capelli e

bestemmiò tra sé e sé. Temendo che Marco potesse tentare di

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prendere il libro con la forza, mi spostai davanti al mio maestro e mi piazzai a gambe divaricate. Avrebbe dovuto passare sul mio cadavere.

Sul viso di Marco si allargò un sorriso maligno. « Pensi di poterti battere con me? »

Il capocuoco si mise al mio fianco. « Siamo in due. » Marco si sistemò su un basso cumulo di casse. « Non c'è

bisogno di venire alle mani. Pensi che non abbia riflettuto a lungo sulla questione? Luciano, dovresti sapere che non sono uno sciocco. Non avrebbero mai dato la ricompensa a uno come me, e ancor meno un seggio al senato. Se avessi portato il libro, se lo sarebbero preso e basta, e magari mi avrebbero ammazzato. »

Il capocuoco commentò: « Esatto. Allora, che ci fai qui? » « Quello che ci fate voi. » Marco sporse il mento. « Quando

arriva Domingo, io vengo con voi. In quel libro c'è una formula per fabbricare l'oro. So che c'è e la voglio. Io vado dove va il libro. »

« Marco » dissi, « non sai quello che fai. » Il capocuoco scosse la testa. « Non lo sai davvero, ragazzo. » Feci un passo verso di lui. « E Rufina? » Marco sbuffò. « Se non l'ho trovata finora, non ho nessuna

possibilità di trovarla in seguito. N'bali ha detto quello che sapevamo da sempre. Mia sorella è morta. »

Annuii. Non mi ero reso conto che aveva avuto il coraggio di accettare la verità.

« In ogni modo » proseguì, « anche se fosse viva, cosa potrei fare per lei visto che riesco a malapena a sfamare me stesso? Il libro è la mia sola opportunità. » La sua espressione era un misto di rabbia e sconforto e capii che non c'era modo di convincerlo ad andarsene.

Dissi: «Va bene, Marco ». « Oh Dio. » Il capocuoco si mise a sedere con la testa tra le

mani. « Ci devo pensare. » Marco sogghignò. « Pensate pure quanto volete. » Fece

marcia indietro per mettersi comodo sulle casse. « Ci rilasseremo tutti e tre in attesa che arrivi Domingo. Mi dicono che stiamo per andare in Spagna. » Si sdraiò sulla schiena con i piedi appoggiati al muro e le mani intrecciate dietro la testa.

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Non avevo voglia di guardarlo e non volevo sapere se il capocuoco mi stesse guardando. Sedetti su una cassa e chiusi gli occhi. Mi sforzai di tornare al respiro, ma alcuni minuti dopo ci mettemmo tutti in allarme per il rumore dei pesanti stivali che scuotevano il pavimento sopra le nostre teste. Le voci delle Cappe Nere entrarono dalla porta aperta sul retro della taverna e dall'alta finestra della cantina. Una di loro disse: « Tienitelo, il tuo vino rubato. Vogliamo le persone che hai nascosto ».

« Chi? » fece Foste con voce annoiata. « Quali persone? » « Nascondere la gente è la tua specialità, non è vero? » « Di che cosa cianciate? Io sono un oste. » Trassi una qualche consolazione nell'udire l'oste che

rimaneva così calmo, come se le incursioni di quel genere fossero abituali.

Una Cappa Nera interloquì: « Li hanno visti entrare qui dentro ».

« Bah. Si saranno sbagliati. Ma visto che siete qui, perché non vi fate un bicchiere? Offre la casa, naturalmente. » Il rumore di un bicchiere rotto ci fece sobbalzare. L'oste urlò: « Che diavolo state facendo? Siete pazzi? »

Una Cappa Nera commentò: « Quanto basta per tagliarti la gola con questo ».

« Madonna mia! Cosa volete? Soldi? Ecco, tenete. Che state facendo? »

Mi feci piccolo allo spaventoso schianto dei vetri rotti. Dovevano aver buttato giù tutto il contenuto degli scaffali dietro il bancone. Mi balzò il cuore in petto al rumore dei tavoli capovolti e del legno che si scheggiava colpendo le pareti. Marco scese dalla cassa con un balzo e rimase a fissare la botola. Il capocuoco prese il borsellino dalla tasca e vi infilò le lettere per le figlie. Il trepestio dei pesanti stivali rimbombò sulle nostre teste e un uomo gridò: « Tenetelo fermo! »

Un altro disse: « L'ho preso! » « Benissimo. » Era stata la prima voce a parlare. « La cosa è

semplice. Ti prendo un dito per ogni domanda a cui non rispondi. Cominciamo dal pollice. Questo, per esempio... »

Il proprietario della taverna strillò; fu un grido primordiale di dolore e raccapriccio. « Sono nella cantina. »

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« Ci siamo » commentò il capocuoco, « è finita. » Indicò la scala e fece un ampio gesto. La spostai dalla botola e la collocai sotto la finestra. Udimmo sopra di noi gli stivali camminare con passo pesante nel retro.

Il capocuoco sollevò il lume e lo infranse contro una cassa di vino imbottita di paglia. Dalla paglia si levarono fiamme esili che annerirono il legno. Una scintilla finì in una seconda cassa che il capocuoco accostò alla prima.

Marco gridò: « Siete impazzito? » Udimmo le casse che venivano spostate per scoprire la

botola. Il legno inzuppato di petrolio esplose in una conflagrazione e,

non appena le bottiglie scoppiarono e il fumo salì al soffitto, ci schermammo gli occhi. Più bassa dei sibili delle fiamme, la voce del capocuoco mormorò: « Dio mi perdoni ». Sollevò il libro.

Gridai: « No, Maestro! » « Figlio di puttana! » Marco si slanciò e abbrancò il capocuoco

proprio mentre scagliava il libro nella vampa. La botola si stava già aprendo, e Marco cercò di allungare una mano nel fuoco, ma la ritrasse all'istante sibilando per il dolore.

Il capocuoco vide la mia espressione orripilata e disse: « I Guardiani sono più importanti di un singolo libro ».

La pergamena secca prese immediatamente fuoco arricciandosi mentre la pelle si gonfiava e anneriva. La luce arancione improvvisò una folle danza sulle pareti scabre, come se nella cantina avessero preso vita i demoni danzanti delle ombre. Diavolo, pensai, siamo all'inferno.

Sopra di noi una voce gridò: « Un incendio! » « Tirateli fuori. Landucci li vuole vivi. » « Procurati una scala. » Il capocuoco mi cacciò in tasca il borsellino rigonfio e mi

spinse verso la scala appoggiata sotto la finestra. Marco aveva già messo un piede sul piolo più basso quando il capocuoco lo afferrò per i capelli buttandolo a terra. « La tradizione deve andare avanti » sussurrò con cipiglio. Mi spinse in malo modo sulla scala, dandomi una pacca nel didietro come se fossi un mulo e disse: «Và! »

Mentre le Cappe Nere lanciavano maledizioni all'oste

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incitandolo a fare in fretta con la scala, strisciai fuori dall'alta finestra, mi misi a quattro zampe e sbirciai in quell'inferno. La cantina era piena di fumo e individuai a malapena il movimento di un'altra scala che veniva calata dalla botola.

Marco, che stava salendo verso la finestra, era già a metà strada. Tese una mano verso di me, poi il suo viso manifestò una forte sorpresa e scivolò in basso nel fumo nero che andava intorbidando l'aria. Pensai che gli fosse scivolato un piede su un piolo; soltanto in seguito capii che probabilmente il capocuoco aveva già in mente di servirsi di lui. Vidi il volto terrorizzato di Marco allontanarsi dalla finestra e scomparire in mezzo al fumo.

Mi appiattii e rimasi incollato al muro. La cantina era limacciosa e umida; dopo la vampata iniziale, le bottiglie di vino, esplodendo, avevano bagnato la paglia e vi era più fumo che fuoco. Le volute che uscivano sbuffando stavano già diminuendo. Una Cappa Nera strillò: « Spegnetelo! » Un'altra urlò: « Il ragazzo è sulla scala». Udii un grido, lo schiocco di un pugno che affonda nella carne, un gemito, e tutti che tossivano, tossivano...

Qualcuno vociò: « Merda! Mi sono bruciato le dita per niente. Non è rimasto nulla a parte la rilegatura ».

« Non riesco a respirare. » «Adesso usciamo. » Avrei voluto correre, ma pensai che Marco e il capocuoco

non riuscissero ancora a fuggire. Forse avrei avuto occasione di aiutarli. Mi guardai intorno alla ricerca di un nascondiglio e vidi una barca a remi rovesciata, in attesa di essere calafatata e dipinta, un piccolo natante abbandonato con gli spazi vuoti tra le tavole. Faceva al caso mio. Mi precipitai verso il molo e mentre stavo sollevando la barca, un paio di pescatori che avevano smesso di riparare le reti per assistere alla baraonda mi fissarono. Incrociai il loro sguardo, uno alla volta, e ciascuno dei due annuì. Non avevano visto niente; dopo tutto, eravamo a Venezia. Alzai la barca e mi infilai sotto.

Dagli spazi vuoti osservai gli uomini uscire incespicando dalla taverna. Si tenevano la gola, tossendo come se stessero per soffocare, e poi si sedettero o restarono in piedi piegati in due mentre inalavano avidamente l'aria pulita del mare.

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Alcuni marinai e pescatori buttarono secchi d'acqua di mare nella cantina e il fumo diminuì, il fango e l'umidità avevano impedito alle fiamme di diffondersi, grazie a Dio. Una Cappa Nera serrava un braccio del capocuoco e un'altra teneva Marco per la collottola. L'oste cadde a terra in ginocchio, stringendo con cura una mano avvolta in uno strofinaccio inzuppato di sangue.

La camicia pulita del capocuoco era striata di fuliggine e chiazzata di vino. Aveva le mani e il viso anneriti, non saprei se per il sudiciume o per le bruciature, ma teneva la testa alta. Marco barcollava in preda allo stordimento, asciugandosi il naso insanguinato. Le Cappe Nere li condussero via con le mani legate dietro la schiena.

Soltanto molti anni dopo avrei appreso i particolari della loro sorte.

33

Il libro delle rivelazioni

Avevano dato la caccia a uno chef e a un ragazzo e avevano

catturato uno chef e un ragazzo. Il destino fu capriccioso quel giorno. Non sapendo dove andare, restai rannicchiato sotto la barca capovolta. Non avevo dubbi che Marco e il capocuoco fossero stati portati direttamente alle segrete e, per quanto mi sforzassi, non mi venne in mente un modo per aiutarli. Avessi avuto il libro, avrei tentato di barattarlo con la loro vita. Sarebbe stata una mossa stupida oltre che inutile, e ho spesso ringraziato la sorte per non avermi dato l'opportunità di provarci. Mi strinsi sotto la barca domandandomi se sarebbero stati interrogati soltanto dalle Cappe Nere o se Landucci in persona avrebbe preso parte all'interrogatorio. Non so quale dei due scenari mi sembrasse più spaventoso.

Immaginai il capocuoco, silenzioso e stoico, e Marco che piangeva e rabbrividiva giurando di essere il ragazzo sbagliato. A quel punto avevo capito che il capocuoco aveva tenuto Marco in cantina perché prendesse il mio posto. Nelle segrete, il capocuoco avrebbe mantenuto il silenzio e le Cappe Nere avrebbero riso in faccia a Marco dandogli del vigliacco. Povero

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Marco. La tortura e la morte sembravano un castigo sproporzionato per una comune debolezza umana. Il capocuoco sapeva per che cosa stava morendo ed era disposto ad affrontare la propria fine. Marco, invece, il mio povero fratello affamato, non avrebbe mai saputo che la sua dipartita aveva uno scopo. L'obiettivo avrebbe dato un senso alla sua morte, benché non ne sapesse nulla? Volevo pensare che fosse così, ma per lui non era di alcuna consolazione. Oh, Marco, dovevi per forza seguirmi? Pareva una mostruosa ingiustizia. Volevano me e pensai che la cosa giusta fosse arrendermi per salvarlo. Sapevo, però, che mi avrebbero preso trattenendo anche lui. Rammentai il suo viso che scompariva tra il fumo e piansi.

Avevo pensato che la perdita di Francesca fosse la cosa peggiore che potesse capitarmi, ma sotto quella barca, quel dolore si fuse con la sofferenza di aver perso tutto - il capocuoco, Marco, il libro, le nostre speranze e i sogni - e mi lasciai andare alla disperazione. In quel momento terribile, mi ricordai di un cadavere che una volta io e Marco avevamo visto sospeso a un ponte. L'uomo aveva legato un'estremità della corda al parapetto di pietra e l'altra attorno al collo, ed era saltato. Pareva che avesse il collo spezzato, ma può anche darsi che fosse morto strangolato. Gli sporgeva la lingua dalla bocca, il suo viso era pieno di chiazze azzurre e color porpora, e un fetore putrido gli aleggiava intorno.

Io e Marco ci ritraemmo alla vista del cadavere, però poi ne parlammo e ci ragionammo sopra. Pieni di progetti per il nostro futuro nel Nuovo Mondo, non riuscivamo a capire come avesse potuto buttar via tutto con un solo, rapido salto. Com'era possibile che una persona smettesse del tutto di sperare?

Quel giorno, sotto la barca, capii. Era possibile disperarsi e anelare all'oblio soltanto per sfuggire a un senso di colpa schiacciante. Perché a me era concesso tirare avanti mentre a Marco e al capocuoco non veniva data questa possibilità? Non ero stato forse io a eccitare Marco parlandogli di alchimia? Non ero stato io a portarlo nella vita del capocuoco? Presi in considerazione l'ipotesi di riempirmi le tasche di pietre e saltare nella laguna, ma sapevo che non sarei riuscito a farlo e

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tornai a disprezzarmi per la mia vigliaccheria. Pensai di consegnarmi alle Cappe Nere e lasciare che lo

facessero loro al posto mio, poi però mi venne in mente la culla di Giuda e temetti di cedere sotto tortura e tradire i Guardiani. Rammentai le ultime parole del capocuoco: La tradizione deve andare avanti.

Forse sarebbe stata quella la mia redenzione. Avrei mantenuto il segreto dei Guardiani e trovato sottili canali per diffondere il rispetto tributato dal capocuoco alla conoscenza. Non avrei imparato tutte le nozioni elevate che mi avrebbe insegnato lui, ma potevo mantenere vivo il suo messaggio. In ogni caso, non ero all'altezza di diventare un Guardiano. In quel momento di cupezza e cinismo, mi criticai aspramente per aver creduto di poter fare parte di una dimensione tanto grandiosa.

Fu allora che rammentai di nuovo una frase pronunciata dal capocuoco: Sei migliore di quanto tu pensi.

Ebbene, sarebbe stata quella la mia missione: migliorarmi. Sarei diventato l'uomo che voleva io fossi. Avrei corrisposto alla fiducia dimostratami restando vivo e comportandomi al meglio delle mie capacità. Quello fu il momento della mia resurrezione.

Rimasi lì, accoccolato sotto la barca, nella speranza che Domingo si dirigesse verso la taverna come ci eravamo accordati. Mi raggomitolai in posizione fetale e attesi. Dopo un po' mi vennero i crampi alle gambe e l'emicrania, ma l'idea di strisciar fuori per stirarmi fu soggiogata da un vento freddissimo che spirò dal mare al crepuscolo. Scosse il mio riparo e sibilò tra le fessure nella barca. Vidi una gondola sollevata da una raffica; il berretto di un marinaio volò via e il vento agitò le acque. Poi cadde la pioggia, a scrosci, a torrenti. Colpì la barchetta, mi cadde sulla testa dagli interstizi, mi schizzò tutt'intorno e mi infradiciò i vestiti. Andò avanti per ore. Battevo i denti e lo stomaco gorgogliava. Mi abbracciai e a occhi socchiusi guardai tra le fessure. Quando comparve Domingo, che percorreva a grandi falcate il molo con un pezzo di tela sulla testa, non fui certo di potermi fidare dei miei occhi. Si fermò davanti alla taverna incendiata e rimase sotto la pioggia a guardare l'intelaiatura annerita della finestra della

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cantina. Strisciai fuori del mio nascondiglio e sfrecciando gli arrivai

alle spalle. Dissi: « Le Cappe Nere... » Alzò una mano. « Dobbiamo fare in fretta. Il capitano sta

aspettando. » Si erano avventurati in pochi nella tempesta, soltanto una

prostituta con i capelli gocciolanti, acciambellata in un androne, e due marinai che ci superarono in fretta con il mento affondato nel colletto. A Domingo scintillarono gli occhi neri sotto le ciglia bagnate, ma non mi guardò. La pioggia ci grondò sul viso, il vento ci frustò i capelli, un fulmine lampeggiò come una vena seghettata e il rombo di un tuono si rovesciò su Venezia come il ruggito di un leone.

Giungemmo a un vecchio, massiccio mercantile che si dondolava in modo precario sulle onde che ne sferzavano lo scafo incrostato dai cirripedi. Domingo corse sulla passerella e mi fece cenno di salire a bordo. Proprio allora, dalla pioggia sbucò Bernardo, fradicio e inzaccherato, che correva dritto verso di me. Si fece largo tra le mie gambe, facendo le fusa, spingendomi con il naso bagnato e alzando su di me gli occhi diventati enormi nel musetto lisciato dalla pioggia. Bernardo mi aveva seguito fedelmente in cucina, fuori della cucina, in chiesa, e ora mi seguiva sulla nave. Mi si spezzò il cuore. Lo strinsi tra le braccia e arrancai sulla passerella.

Il capitano non riusciva a star fermo. Girava la testa avanti e indietro e un muscolo della guancia era in preda agli spasmi; mi fece cenno a gesti convulsi di fare in fretta. Sbirciò la passerella oscurata dalla pioggia e domandò: « Dov'è l'altro? »

Domingo replicò: « Se aspettavate due persone, dovreste restituire metà del denaro ».

« No, adesso me lo ricordo. Era una sola. Forza, via di qui. » Tenevo stretto il braccio di Domingo. « Grazie, Domingo. Mi

hai salvato la vita. » « Niente. » Si infilò le mani sotto le ascelle e si guardò i piedi. «

Buona fortuna, Luciano. » « T'ho detto: vattene. » Il capitano gli diede una spinta e

Domingo scese con passo pesante dalla passerella e scomparve nella pioggia.

Il capitano non aveva tempo per i sentimentalismi. « Scendi

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nella stiva prima che qualcuno ti veda. » Mi spinse verso una porticina e soltanto allora mi ricordai delle lettere scritte dal capocuoco che tenevo in tasca. Avrei dovuto darle a Domingo. Il capitano disse: «Aspetti le Cappe Nere? Muoviti! »

Quella notte sedetti appoggiato a botti dall'odore acre, assicurate con fasce metalliche così gelide da bruciare al solo toccarle. Ero infradiciato e infreddolito fin dentro le ossa e tremavo dalla testa ai piedi. Avevo la punta delle dita intirizzita e, quando vi soffiai sopra, ricordai la mia fantasia infantile di imbarcarmi come clandestino, tra le balle di lana fiorentina che mi avrebbero tenuto al caldo e all'asciutto mentre il vascello mi cullava nel sonno. In quella stiva non c'era una sola superficie morbida, a eccezione del mio fragile corpo e di Bernardo. Il carico era stato abilmente imballato per la traversata in botti di legno sigillate con il catrame, che l'avrebbe protetto dal sale e dall'umidità.

La nave rollò e sgroppò nella tempesta, mi scagliò avanti e indietro mandandomi a sbattere prima contro una botte, poi contro un'altra. Il moto mi fece venire la nausea e i conati di vomito, ma non c'era nulla che potessi rigettare. In bocca si addensò una pozza dal sapore amaro, metallico, e la inghiottii.

Riuscii a spostare alcune botti per formare una specie di cerchio, e mi pigiai al centro insieme a Bernardo. Lo spazio era stretto, le botti puzzavano di muffa e le fredde fasce metalliche pungevano, ma se non altro la nave non ci avrebbe sbatacchiato da una parte all'altra come bambole di pezza. Al primo attacco di claustrofobia inalai profondamente e tornai al momento presente. Come momento era piuttosto sgradevole, ma lo superai.

Il capitano, stabile sulle sue gambe da veterano del mare e di modi amichevoli non appena fui stivato e nascosto, scese a portarmi un tozzo di pane e mezza bottiglia di vino. Me li lasciò in grembo e mi augurò allegramente la buonanotte. Sapevo che avrei dovuto mangiare: avevo bisogno di mangiare, volevo mangiare e tentai di farlo. Ma al pensiero del capocuoco, di Marco e del libro perduto non ce la feci a inghiottire. Masticai un boccone di pane e lo spappolai per Bernardo che lo leccò dalla mia mano. Mi puntellai contro il moto del mare e appoggiai una guancia sulle tavole del pavimento. Bernardo si

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accoccolò contro di me leccandosi meticolosamente le zampe bagnate. Odoravo di acqua salsa e di vino, di gatto bagnato e di lana fradicia. La guancia sfregava dolorosamente contro il legno scheggiato e sentivo ancora in bocca il sapore della bile. Lo sfinimento mi fece la grazia di un sonno intermittente.

Il mattino dopo, quando mi svegliai, la tempesta era passata e la nave si muoveva dolcemente sui flutti. Io e Bernardo trovammo il modo di salire sul ponte e mi domandai per un attimo se fosse sottinteso che dovessi restare nascosto. Giunsi rapidamente alla conclusione di non dovermi nascondere visto che avevo pagato il passaggio... o quanto meno lo aveva fatto il capocuoco Ferrerò. Uscii sul ponte e la luce mi accecò. Il capitano mi salutò con un sorriso amichevole; era diventato simpatico e non era più in preda ai suoi tic nervosi. Aveva avuto paura quando si trovava nel porto; sarebbe stato sgradevole farsi beccare con in tasca il denaro di un clandestino. Una volta in mare, ero libero di andarmene a zonzo a mio piacimento.

Non avevo mai visto uno spazio tanto vasto di un azzurro così brillante. I verdi canali di Venezia sono fiancheggiati da palazzi che ostruiscono l'orizzonte. Il porto, affollato di navi provenienti da tutti i paesi, oscura il mare aperto con una foresta di alberi e sartie.

In alto mare le acque si fondono con il cielo e l'azzurro si estende perennemente per ogni dove. Mi sentii stordito di fronte alla novità di tanta ampiezza. Allargai le braccia e ruotai lentamente su me stesso. Tenendomi in equilibrio sul ponte che oscillava dolcemente, mi avvicinai al parapetto, feci pendere le braccia sulla fiancata e diedi per la prima volta un'occhiata al mondo al di là di Venezia. Allungai una mano per toccare l'azzurro continuo e sentii il cielo incresparsi tra le mie dita. Per un istante il mio mondo fu pacifico e infinito. Poi Bernardo miagolò e si strofinò contro la mia gamba, e ogni cosa tornò in un impeto luttuoso. La pace perfetta del cielo infinito era un'illusione.

Il capitano mi si avvicinò e mi diede una pacca sulla schiena. Disse: « Scendi nella cucina di bordo se vuoi fare colazione ».

Malgrado lo scoramento, la frizzante aria di mare e l'accenno

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alla colazione diedero un'impennata alla fame. Sembrava proditorio voler mangiare in quelle circostanze, ma lo feci. Scesi sotto coperta e seguii i profumi appetitosi che mi condussero a una stanza dal soffitto basso con una lunga tavola. Il cuoco di bordo, un vecchio marinaio sdentato, mi porse una ciotola di pappa d'avena mentre Bernardo piombava su un topo e ci disponemmo entrambi a consumare il nostro pasto. La pappa d'avena era così bollente da scottarmi la bocca, ma non sentii nulla.

Rimasi intorpidito per l'intera traversata, che fu priva di avvenimenti e contrassegnata perlopiù dalla tristezza. L'azzurro diventò il colore della sconfitta, e l'aria salata l'odore della perdita. Quando ormeggiammo, camminai per le strade di Cadice senza meta e senza progetti. Portai sotto un braccio Bernardo, che faceva le fusa per la contentezza, in uno stato di ignara beatitudine.

Cadice affonda le sue radici nell'Africa e persino allora capii

che erano moreschi gli elementi esotici che caratterizzavano la città. Avevo sentito dire spesso che « l'Africa comincia ai Pirenei » e constatai che era vero. I mori avevano lasciato impronte durature nell'anima di Cadice.

Andai a zonzo nella zona dei pontili, un'area portuale rozza, malandata, brulicante di marinai; le bettole e i bordelli si allineavano sul molo. Non parlavo spagnolo, ma Cadice è un posto affollato e risuonava di tutte le lingue del mondo. Avanzai domandando: «Nessuno parla italiano?» Di tanto in tanto qualcuno mi rispondeva di sì e io facevo domande sulle navi dirette nel Nuovo Mondo. La risposta era sempre la stessa: « Non ci va più nessuno». Colombo aveva fatto l'ultima traversata partendo da Cadice nel 1493. Un uomo mi consigliò di andare a Lisbona e cercare un capitano di nome Amerigo Vespucci. Dove diavolo era Lisbona?

Mi addentrai nella città sperando di trovare qualcuno che ne sapesse più dei comuni marinai. Cadice si rivelò nient'altro che un dedalo di stretti passaggi, difficili da percorrere, dove gli abitanti vivevano in case di pietra con le finestre a feritoia, simili a fortezze di ignoranza, che le nonne tremanti usavano

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come barriera per difendersi dal malocchio. Una megera brizzolata disse: « Quale Nuovo Mondo? » Strizzò gli occhietti e si cacciò un pugno dietro la schiena per proteggersi dal diavolo.

Cadice trasudava di superstizione, eppure le tracce dei mori partiti da poco si vedevano ovunque: i cortili fioriti e lastricati di mattonelle invetriate a mano, le finestre a ogiva e gli architravi dagli intagli elaborati. La città aveva un sottofondo poetico e cominciai a pensare che avrei potuto viverci.

Da un'alta finestra fluttuò il suono di una chitarra. Lo strumento arabo a quattro corde aveva un suono unidimensionale se paragonato al liuto italiano, ma era altrettanto evocativo. La musica ammaliante mi seguì mentre mi dirigevo nuovamente al molo. Serpeggiò per i vicoli tortuosi, si mescolò agli odori dell'agnello arrosto e dello sherry dolce, volteggiò attorno al fregio a laterizi di una fontana sussurrante e sbiadì lentamente, come un ricordo.

All'esterno di una vecchia chiesa, mi feci di lato per far passare una fosca processione di penitenti incappucciati che indossavano lunghe vesti rosse. Erano appesantiti da poderose catene e piegati in due dalle croci di legno a grandezza naturale che portavano sulla schiena. Negli occhi cerchiati di nero della folla vidi i riflessi di un fanatismo religioso e di una crudeltà più inclemente di quella che avevo conosciuto a Venezia. Conclusi che non avevo nessuna voglia di vivere in quel posto. Ripensai a Lisbona e continuai a vagabondare.

Arrivai a una via di bodegas, simile a una piccola Rialto, con i banchi che offrivano tentacoli di polpo appesi a testa in giù come la biancheria, maialini da latte con le code allegramente arricciate e grassi prosciutti affumicati che pendevano dalle travi di legno. I venditori mi si rivolsero in spagnolo, ma non avevo alcuna ragione per saggiare le loro mercanzie, nessuno chef per conto del quale fare la spesa e nessun cuoco in attesa delle pesche o del formaggio.

Camminai fino al momento in cui il sole non si immerse nella baia e nelle taverne si accesero luci invitanti. I rumori e il ritmo della giornata lavorativa cedettero il posto alle risate dei marinai che vagavano per il molo in cerca del piacere. Affluirono come la marea nelle bettole e nei bordelli. Mi fermai

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davanti alla porta aperta di una bettola e vidi una giovane donna salire su un piccolo palcoscenico. I capelli nero-azzurri erano avvolti sulla nuca in uno chignon. Si era appuntata una rosa rossa dietro un orecchio e indossava un lungo abito di raso, che le andava a pennello per poi scampanare, come d'impulso, all'altezza del ginocchio.

Percorse il perimetro del minuscolo palcoscenico con uno sguardo pieno di disprezzo. Fremette di rabbia quando un giovane dai pantaloni neri attillati e con la camicia bianca la raggiunse sulla scena. Lui la guardò irrigidendo la schiena con aria di sfida. Girarono l'uno intorno all'altra come animali in preda a una passione repressa e una concupiscenza tenuta a malapena a freno. Dal fondo proveniva di tanto in tanto un «.Ole», pronunciato col tono di chi è stanco della vita. Un uomo cantò una malinconica canción che evocava le anime tristi dei fellahin, e dopo poco il cantante fu accompagnato dalle chitarre e da un batter di mani al ritmo sincopato di antiche percussioni. Con un grido primitivo, la donna alzò sopra le ginocchia la gonna svolazzante, le cosce apparvero in un lampo e i tacchi batterono il pavimento di legno con un rullio. Schioccò le dita e fece scattare il crepitio delle nacchere. Il giovane reagì, eccitato e infuriato. La loro danza era un duello e si schernirono a vicenda fino al culmine della frenesia.

Pensai a Francesca e non nego che provai dispiacere per averla perduta. Al pari di me e di Marco, viveva sul filo del rasoio e non aveva alcuna ragione concreta per mettere il suo destino nelle mie mani. Avevamo fatto entrambi la cosa giusta. Se il capocuoco avesse potuto chiedermi che cosa avevo imparato, gli avrei detto che l'amore non corrisposto non muore; viene solo schiacciato in un luogo segreto dove va a nascondersi, raggomitolato e ferito. Per alcuni sfortunati si trasforma in amarezza e meschinità, e chi viene dopo paga il prezzo del male inferto da chi l'ha preceduto. A me non è successo, grazie a Dio. Il tempo ha attutito il dolore, ma di tanto in tanto qualcosa riaccende il ricordo dei suoi occhi da antilope, del suo profumo e della sua presenza, e in quei momenti l'amo ancora.

Perlomeno avevo Bernardo. La prima notte che passammo a Cadice trovammo una locanda la cui insegna mostrava la

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figura di un letto dipinto a mano, l'annuncio per i viaggiatori analfabeti che in quel luogo affittavano le stanze. Entrai e indicai l'insegna. La vecchia strega dietro il bancone sfregò il pollice e l'indice: Prima i soldi. Frugai nella tasca ed estrassi il borsellino che mi aveva dato il capocuoco. Non avevo ancora guardato cosa contenesse, né avevo aperto le lettere per le figlie. Non le avrei lette nemmeno se avessi saputo farlo; dopo tutto, non averle consegnate era l'ennesima delusione che gli avevo dato. Aprii il borsellino e per un momento mi impensierì l'idea che forse mi sarebbero serviti dei soldi spagnoli. Poi rammentai che Cadice era un grande porto, come Venezia, e qualsiasi moneta sarebbe stata bene accetta. Mi chiesi soprappensiero se avessi abbastanza denaro per acquistare un passaggio per il Nuovo Mondo.

Estrassi i fogli di carta piegata e vidi che, in effetti, c'era parecchio oro, ma più sbalorditivi ancora erano i fogli stessi. Capii immediatamente che non erano lettere, ma pagine scelte tratte dal libro: gli scritti che il capocuoco riteneva più preziosi. Aveva sbucciato il carciofo lasciandone solo il cuore. La cosa più sorprendente di tutte era la presenza dell'unica parola che sapessi leggere, scritta in fondo a ciascuna pagina e nello stesso modo in cui l'avevo imparata: Guardiani. Sotto quella parola ce n'erano altre, scribacchiate con lo stesso inchiostro blu. Si sarebbero rivelate essere i nomi di due chef e delle località in cui avrei potuto trovarli.

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Il libro delle ossa

Il mio maestro non riuscì a impartirmi anni di istruzione, ma

mi indirizzò verso un altro chef che lo fece al posto suo. Inoltre, con il suo esempio, costituì per me un modello di vita eccezionale. Sono suo figlio? Ha importanza? Padre e figlio non sono fatti di una sostanza tanto fragile e corruttibile come la carne e il sangue. Non sono forse, queste ultime, polpa che imputridisce e frutta che irrancidisce? No, padre e figlio sono plasmati dallo sforzo, dalla volontà e dal cuore. Io ebbi tutto questo; non c'è altro.

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Pagai uno scrivano spagnolo per farmi leggere i nomi dei due Guardiani. Uno viveva nel lontano Nord della Francia, l'altro nell'antica città di Granada, a poche settimane di viaggio da Cadice. Ecco perché il capocuoco aveva acconsentito a recarsi in Spagna. Avrei saputo in seguito che Granada significa melagrana, e fu così che, con il mio viaggio, completai il cerchio.

Il Guardiano spagnolo era lo chef della regina Isabella la Cattolica nella sua residenza dell'Alhambra. Parlerò di lui come del mio insegnante e se vi parrò reticente a proposito della sua identità e del luogo in cui attualmente mi trovo, capirete che sono ancora in tanti coloro che vorrebbero metterci a tacere.

Camminai per ventitré giorni e, quando arrivai a Granada, mi addentrai nella casbah araba, l'Albayzin, un labirinto di stradine e case imbiancate a calce con i giardini interni appartati. Nel punto più alto dell'Albayzin la vista panoramica dell'Alhambra, la magnifica fortezza moresca, mi tolse il fiato.

Mura massicce color crema, torri e torrette, spalti merlati si stendevano in maniera contorta su un altopiano coperto di ciuffi di verzura. I poeti moreschi parlano dell'Alhambra come di perle incastonate negli smeraldi. Per secoli i mori che vi risiedevano avevano governato un regno composito di musulmani, cristiani ed ebrei. Dopo che gli spagnoli avevano conquistato Granada per conto di Isabella la Cattolica, i musulmani rimasti si erano convertiti al cristianesimo, mentre gli ebrei erano stati cacciati dalla Spagna.

Salii alla fortezza e mi unii ai pellegrini, ai postulanti e ai mercanti che vi affluivano dai cancelli. L'esterno severo ha lo scopo di acuire il contrasto con lo splendore dell'interno. Attraversai ammutolito una serie di corti signorili e di sale di marmo dai soffitti a cupola coperti di intagli. Vidi dappertutto pareti adorne di una fluidità di arabeschi e filigrane che le facevano sembrare pizzi di stucco. L'effetto era quello di un'aerea leggerezza.

Trovai la cucina principale, entrai da una porta secondaria e mi aggirai tra un esercito di cuochi affaccendati alla ricerca dello chef. Fui incuriosito dai cibi stranieri che avrei imparato a conoscere come il chorizo, i peperoni piquillo arrostiti alla

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fiamma, lo zafferano della Mancia sigillato nei vasi azzurri di terracotta, il jamón serrano e le melanzane in salamoia. L'odore di quella cucina era un misto tra i profumi che aleggiavano in quella del mio maestro e nella cucina di Borgia. Vi erano la pulizia e la buona aerazione a cui ero abituato, ma un forte odore di olive salmastre e carni affumicate dava una certa fragranza all'aria.

Lo chef era un uomo alto, spigoloso, che si muoveva con grazia arrogante. Quando si accorse che mi aggiravo nella sua cucina, venne verso di me con un'andatura brusca, efficiente, e capii chi fosse dal modo in cui i cuochi si dividevano per sgombrargli il passaggio. Mi superava di una testa e mi sentii intimorito dal suo portamento e dall'espressione di durezza. « Quién es usted? » domandò, facendo arretrare la testa e irrigidendo il collo. Scrollai il capo senza dire una parola ed esibii il biglietto scribacchiato in fretta dal mio maestro in cui lo spagnolo lesse il proprio nome. Ci rimuginò sopra a lungo, fregandosi la mascella sbarbata e adocchiandomi con sospetto. Il personale della cucina continuò a lavorare a ritmo costante e non ci prestò alcuna attenzione, segno che quel capocuoco non tollerava la curiosità oziosa. Ripiegò con cura il biglietto e se lo fece scivolare in tasca. Poi mi portò fuori.

Restammo in un patio piastrellato, accanto a un albero di arancio che era stato interrato in un massiccio vaso di ceramica. Si mise a braccia conserte dicendo: « Qué hace usted aqui? » Non capii, ma gli dissi che il capocuoco Ferrerò di Venezia era il mio maestro e nei suoi occhi si accese un barlume di interesse. Per fortuna lo spagnolo e l'italiano sono abbastanza simili e riuscii a comunicare la lugubre notizia che il mio maestro era stato arrestato e gran parte del libro era andata perduta.

L'alto spagnolo mi studiò a lungo. Il suo sguardo gelido e i suoi modi riservati non mi rassicurarono, e mi premetti le dita nei palmi sudati. Alla fine disse: «Bueno, vieni ».

Il linguaggio dei gesti mi comunicò l'ordine di seguirlo in cucina, cosa che feci, anche se lui non badò a me. Prese le provviste da una dispensa chiusa a chiave e mise una padella su una stufa a legna. Attesi mentre faceva fondere il burro e aggiungeva un pezzo di carne bianca e liscia: cervella di vitello.

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Immaginai volesse farmi vedere il procedimento e lo osservai far appassire le cervella, aggiungere vino e brodo, far addensare il liquido contenuto nella casseruola fino a ottenere un intingolo aromatico. Intrecciai le mani dietro la schiena e annusai l'aria, cercando di farmi vedere affascinato mentre incorporava le chiare d'uovo sbattute e la panna. Coprì la padella e abbassò la fiamma per far cuocere la carne nella salsa dolce.

Mentre la carne sobbolliva, mi rivolse uno sguardo spassionato e cominciai a chiedermi se avessi frainteso, se magari fossi stato congedato e dovessi andarmene. Non sapendo però dove, restai lì, sperando di creare un po' di affiatamento, ma il suo sguardo imperturbabile mi gelò fino al midollo.

Dopo un minuto, l'uomo che sarebbe divenuto il mio insegnante tolse la padella dal fuoco e fece scivolare le fettine di cervella alla panna in due piatti di terracotta. Ne dispose uno su una tavola e mi porse l'altro. Lo spilungone mi fece cenno di sedermi su una sedia di fronte a lui e disse: « Usted ha venido a verme para saber. Bueno. Empecemos compartiendo estos sesos». Annuì con risolutezza e affondò il coltello nella pietanza.

Non capii le parole, ma voleva evidentemente che pranzassi con lui. Il piatto era succulento e gustoso; quando finimmo di consumarlo, si mise comodo e sorrise. Aveva i denti opalescenti e gli incisivi da coniglio che pizzicavano in modo simpatico il labbro inferiore. Nel vederlo sorridere capii che avendo mangiato insieme le cervella avevamo ratificato l'inizio della nostra comune ricerca della conoscenza. I Guardiani amano le metafore culinarie.

Mi occorsero dodici anni per diventare un Guardiano e ogni giorno trascorso con il mio insegnante fu un privilegio. Diventato chef, mi sposai. Com'era capitato al capocuoco Ferrerò, la maturità mi fece apprezzare qualità che andavano ben oltre una chioma bionda e una pelle color caramello. Anche con i capelli che si vanno imbiancando, mia moglie è una dea flessuosa con un sorriso sagace. Ho tre figli, di cui un maschio che non ha mai provato interesse per l'arte culinaria. È un topo di biblioteca che ama i numeri. All'inizio ci restai

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male, poi capii che concedergli di dimostrarmi quali fossero i suoi talenti naturali era più gratificante per tutti e due. Alle mie figlie ho insegnato a cucinare, e non solo. I loro mariti banchettano e sono tratti in inganno. Ah, uomini fortunati! Non ho mai insegnato ai miei figli che cosa pensare, ho insegnato loro a pensare. Non li ho mai costretti nemmeno ad andare in chiesa; però li ho mandati a scuola.

Anche Bernardo trovò una compagna, una civetta dal pelo di seta e con gli occhi a mandorla, e dopo la sua morte adottai una delle sue figlie. Oggi la sua bisnipote Manetta si aggira in cerca di prede nella mia cucina, flirtando senza vergogna per ottenere bocconcini gustosi. Al capocuoco Ferrerò sarebbe piaciuta Manetta; è impossibile resisterle.

Gli sarebbe piaciuto anche sapere che le tipografie e i libri a stampa si sono diffusi in tutta Europa; le tecniche sono in continuo miglioramento. Maggiore è il numero dei libri in circolazione, più diffusa è l'alfabetizzazione e ciò, a sua volta, fa aumentare il numero dei libri. A tutt'oggi i testi copiati a mano cominciano a essere considerati un'eccentricità. Sembra promettente.

Il capocuoco Ferrerò aveva presagito il successo della stampa, ma non poté assistervi. Venni a conoscenza della sua sorte dieci anni dopo, quando il pericolo era passato e riuscii a tornare a Venezia per una visita. Erano stati dieci anni di turbolenze. Il doge morì nel 1499, Castelli uccise Landucci nel 1502 e Borgia fu assassinato da uno dei suoi tanti oppositori politici nel 1503. Dopo Borgia, fu eletto papa Giulio II, un pontefice guerriero deciso a estendere con le battaglie il potere del papato. Rammento che, informato della sua elezione, lo chef spagnolo commentò: « Guardati dall'uomo che usa l'aggettivo "santa e il sostantivo "guerra nella stessa frase ».

Papa Giulio II diede vita alla Lega di Cambrai per ottenere l'appoggio militare contro Venezia. Castelli, sentendosi minacciato e in preda alla disperazione, raddoppiò gli sforzi per trovare lo sgusciante libro che avrebbe potuto screditare Roma. Fu soltanto nel 1509, quando Castelli fu ucciso nella battaglia di Agnadello, che Giulio II rivolse la propria attenzione all'impresa di sconfiggere la Francia, e la ricerca del

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libro misterioso passò alla leggenda. Finalmente si poteva tornare senza pericolo a Venezia.

Mi recai a casa del capocuoco, sperando che la signora Ferrerò fosse tornata, ma era sparita — non seppi mai se fosse morta, o si fosse ritirata in un convento per vedove - e le ragazze, suppongo, dovevano essersi maritate altrove. Rimasi davanti alla casa a fissare il portone azzurro, nel ricordo dei pranzi domenicali con la famiglia e della notte in cui avevo spiato dal terrazzino. Senza la famiglia del capocuoco, era soltanto una casa come le altre, e andai a zonzo per il sestiere notando che nulla era cambiato, a parte gli abitanti. Lo stesso carretto con la frutta stazionava nel medesimo angolo sorvegliato da un altro uomo. Mi fermai in un bacaro poco distante per bere un bicchiere di vino. Il proprietario era un vecchio e gli domandai se rammentasse lo chef dell'ultimo doge. Versò il vino dicendo: «L'ultimo doge è morto, vediamo, dieci anni fa? Faccio fatica a ricordarmi di lui, figuriamoci del suo chef».

Stava per allontanarsi, ma lo tenni delicatamente per un braccio dicendogli: «Viveva qui dietro l'angolo, nella casa col portone azzurro. Aveva quattro figlie ».

« Ah, quel tizio. » Posò la bottiglia. « Quel tizio è stato decapitato. »

Deglutii a fatica. « Sì? Di quale crimine si era macchiato? » «Nessun crimine, probabilmente.» Mi fece l'occhiolino. «

Dicevano che sapesse qualcosa di un libro di eresie e arti magiche. Se anche fosse, lui non parlò. Stette tre mesi nelle segrete prima che rinunciassero a interrogarlo. Sì, adesso ricordo, era una persona normalissima. Non so perché erano convinti che conoscesse la stregoneria. Erano tempi insidiosi. Quello chef fu decapitato insieme al suo apprendista. »

Mormorai: «Anche l'apprendista?» « Sì, ero in mezzo alla folla e ve lo dico io, il ragazzo era

terrorizzato, piangeva e tremava. Continuava a dire tra i singhiozzi: 'Vi siete sbagliati'. Devo ammetterlo, strappava il cuore. Era giovane, eh? Ma farneticava. Cosa vuoi che gliene importasse a loro se si erano sbagliati o no? Non era nessuno. Povero ragazzo. Dovettero tenerlo fermo.

« Ma quello chef conservò la sua dignità sino alla fine. Era

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pelle e ossa, non aveva più un dente, un uomo distrutto e in catene, eppure prima di appoggiare la testa sul ceppo disse: 'Muoio vittorioso'. » Si strinse nelle spalle. « Forse farneticava anche lui. »

« Fa pensare che non abbia rivelato quello che volevano sapere. »

« Può darsi. Ma un uomo a cui staccano la testa non mi sembra vittorioso. »

« Ci sono tanti tipi di vittorie. » Mi diede uno sguardo cinico e scalpicciando se ne andò a

occuparsi di un altro cliente. Durante la medesima visita mi recai al convento e domandai

di Sorella Francesca. Una nuova Madre Superiora, che incuteva altrettanta soggezione, rispose che non c'erano suore che rispondessero a quel nome. Insistetti: « Dieci anni fa era novizia in questa casa».

« Le novizie vanno e vengono, signore. » « Quella dì cui parlo faceva libellule con il pizzo

chiacchierino. Mi hanno detto che costavano molto care. » Il viso della suora perse ogni espressione. « Ve l'ho detto,

signore, non abbiamo nessuna Sorella Francesca. » Andò al portone e lo tenne aperto perché uscissi. «Addio, signore. »

Attraversai il chiostro e mi fermai rammentando le volte in cui c'ero venuto per incontrare Francesca. Mentre stavo per andarmene, entrò un prete e si fermò di botto, sorpreso di vedere un uomo in quel bastione femminile. « Signore » domandò, « posso esservi utile? »

« Mi scuso per l'intromissione, padre. Sono venuto a far visita a una suora, ma non è qui. Una certa Sorella Francesca. »

« Le suore non conservano il nome di battesimo. Non avete altri segni di riconoscimento? »

« Non ne ho idea. So soltanto che faceva libellule con il pizzo chiacchierino. »

« Ah, alludete alla bella vedova di Verona. Ho sentito dire che tempo addietro era novizia in questa casa, ma fuggì con un giovane nobiluomo di Verona. » Ridacchiò. « Penso che le suore più che scandalizzate fossero invidiose. Ma, ahimè, il suo giovanotto morì subito dopo le nozze e la famiglia la mise alla porta. Vendette i gioielli che le erano stati donati e aprì un

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negozio di merletti. Ha una serie infinita di pretendenti ma, temo, una pessima reputazione come creatrice di... bè, biancheria di pizzo che chiamerei 'provocante'. Le sue creazioni sono famose presso le nobildonne di tutta Europa, anche se poche saranno disposte ad ammetterlo. La vedova di Verona è una svergognata. »

Fui costretto a sorridere. « Forse, più che svergognata, padre, è una donna concreta. »

« Forse. » Dal convento mi recai a Rialto e vidi Domingo, appesantito e

più felice, che soprintendeva a un florido banco di pesce. Comprai da lui una trota affumicata e quando gli misi i centesimi in mano lessi nel suo viso che mi aveva riconosciuto. Sorrise e io feci un cenno col capo. Mi consegnò la trota e dissi: « Grazie, Domingo ».

« Niente, Luciano. » Lo lasciai alla sua vita felice e tornai alla mia. Sono uno chef

ormai da molti anni. Con l'aiuto del mio maestro spagnolo, ho sviluppato il nocciolo di conoscenze donatemi dal capocuoco. Credo che sarebbe orgoglioso di vedere il mio libro. Ho avuto vari apprendisti, uno non abbastanza sveglio, un altro troppo sveglio per il suo bene, uno disonesto e uno troppo frivolo. Di recente ho trovato il mio erede. È un ragazzo del posto che faceva salami e, benché avesse già un lavoro redditizio, era venuto a cercare qualcosa di meglio. Il suo atteggiamento mi è piaciuto. Mi compiaccio nel dire che è intelligente e curioso, e ha uno spontaneo senso dell'umorismo, qualità indispensabili che non si possono insegnare. Un giorno, l'ho sorpreso in procinto di buttar via la lisca di un magnifico salmone. L'ho preso per un braccio e gli ho detto: « Sei ammattito? »

E lui: « Maestro? » « Le ossa, ragazzo mio, racchiudono l'essenza. Estrarremo

tutto il sapore e il nutrimento contenuti in questo pesce. Faremo una zuppa. »

Mi ha consegnato la lisca con i brandelli di carne attaccati qua e là. Dopo avere riempito una marmitta di acqua fresca, ho aggiunto la lisca del salmone e ho appeso la pentola su una fiamma vivace. Mentre si scaldava l'acqua, abbiamo affettato cipolle, carote e sedano. Lui li ha aggiunti alla pentola e,

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mentre le verdure danzavano nell'acqua, ho richiamato la sua attenzione sull'armonia dei colori e sulla musica del bollore. Non appena l'acqua bollente ha cominciato a restituire la lisca, il brodo ha preso sostanza e siamo stati avvolti dall'aroma.

« Fà attenzione » gli ho detto col mio tono più dottorale. « La lisca costituisce una nobile base a cui dobbiamo aggiungere soltanto un tantino di sale, un pizzico di aneto e una manciata di prezzemolo. In questo modo creiamo un nettare dal sapore pieno attraverso il quale la forza del pesce può trasmettersi alle nostre ossa. »

Lo sguardo attento e l'immobilità del suo viso mi hanno comunicato che aveva compreso come l'argomento della nostra conversazione non fosse soltanto la zuppa. Il mio brillante apprendista ha osservato il brodo che sobbolliva con sguardo pensoso e interrogativo. Ancora non sa che farsene della lezione, ma ci sta pensando. Bene.

Anch'io penso, e da tanto ormai. Valutai l'opportunità di scrivere queste memorie nel lontano anno in cui un infuocato tedesco di nome Lutero si servì dei libri a stampa per rivelare la corruzione di Roma. Lutero era un uomo aspro, ma il mio maestro avrebbe apprezzato i suoi paragoni espliciti tra Roma e Babilonia. Reso audace tanto dai libri a stampa quanto dai liberi pensatori affermatisi negli anni recenti, ho osato mettere per iscritto questo resoconto degli eventi. Forse molto presto prenderà la strada che conduce a una stamperia, o forse accadrà soltanto nella nuova era. Ogni frutto ha la sua stagione.

Il pendolo del tempo oscilla e, come sempre, sono i maestri a portare la fiaccola. Grazie ai miei maestri, ho abbandonato la superstizione e abbracciato la libera ricerca della conoscenza. Oggi vivo ogni giorno attento a ogni scoperta. Soltanto ieri ho udito di sfuggita un viaggiatore tedesco dissertare di una nuova scienza chiamata meccanica celeste e mi sono voltato, come se il capocuoco mi avesse chiamato per nome.