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carmillaonline.com http://www.carmillaonline.com/2015/09/04/estetiche-del-potere-i-manifesti-dopo-il-68/ Estetiche del potere. I manifesti dopo il ’68 di Gioacchino Toni La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00 Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono da una parte le modalità innovative del linguaggio dei manifesti prodotti dai movimenti extraparlamentari e, dall’altro, l’influenza esercitata da tali novità sulla produzione dei manifesti della politica istituzionale. “La ricerca si è sviluppata in due direzioni: da un lato, la ricostruzione dell’attività sociale connessa alla produzione e diffusione dei manifesti, sia nel vivace magma delle migliaia di collettivi di movimento che nei grandi partiti di massa; dall’altro, l’analisi dell’iconografia e delle forme narrative assunte dai manifesti delle differenti forze politiche”. Il saggio intende indagare quanto “l’urto destabilizzante” dei movimenti abbia influenzato la comunicazione e la rappresentazione della politica istituzionale italiana. Tra i vari aspetti trattati da Gambetta, in questa sede, si preferisce insistere sulle “modalità di recupero” dei manifesti e del linguaggio della sinistra radicale attuate, per quel che possibile, dal sistema istituzionale con il duplice fine di dotarsi di un linguaggio in grado di comunicare con i soggetti sociali che, a partire dal ’68, animano le piazze (giovani, operai, donne) e, dall’altro, di addomesticarne e depotenziarne i contenuti. Ovviamente, un conto sono le finalità che i singoli partiti istituzionali, ed i singoli manifesti, nel corso degli anni ’70, si danno, altro è il raggiungimento degli scopi. Non mancano tentativi maldestri e palesi incapacità ma è innegabile che, anche in tale ambito, il processo di riassorbimento delle lotte antisistemiche e del loro linguaggio, si è dispiegato con un potenza di fuoco impari, soprattutto se si pensa a come la controffensiva dei manifesti istituzionali sia stata supportata dalla comunicazione televisiva. Nel saggio è presente un corposo apparato iconografico che raccoglie un’ottantina di riproduzioni dei manifesti che, nel corso del testo, vengono analizzati nel lessico, nell’iconografia, nelle caratteristiche tipografiche e compositive, nelle scelte cromatiche, nel lettering, nei contenuti più espliciti ed in quelli più profondi. “Studiare esclusivamente l’iconografia dei manifesti significa fermarsi alle soglie della loro specificità, che consiste in una più complessa articolazione tra racconto generale (il manifesto come parte di un sistema più complesso di comunicazione), sua elaborazione grafica e diffusione nella società ”.

Estetiche Del Potere I Manifesti Dopo Il 68

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Estetiche del potere. I manifesti dopo il ’68

di Gioacchino Toni

La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamentisociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità deimovimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica inItalia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panoramapolitico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partitiistituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, daimovimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono da una parte lemodalità innovative del linguaggio dei manifesti prodotti dai movimentiextraparlamentari e, dall’altro, l’influenza esercitata da tali novità sullaproduzione dei manifesti della politica istituzionale. “La ricerca si è sviluppata indue direzioni: da un lato, la ricostruzione dell’attività sociale connessa allaproduzione e diffusione dei manifesti, sia nel vivace magma delle migliaia dicollettivi di movimento che nei grandi partiti di massa; dall’altro, l’analisidell’iconografia e delle forme narrative assunte dai manifesti delle differenti forzepolitiche”. Il saggio intende indagare quanto “l’urto destabilizzante” dei movimenti abbia influenzato lacomunicazione e la rappresentazione della politica istituzionale italiana.

Tra i vari aspetti trattati da Gambetta, in questa sede, si preferisce insistere sulle “modalità di recupero” deimanifesti e del linguaggio della sinistra radicale attuate, per quel che possibile, dal sistema istituzionale con ilduplice fine di dotarsi di un linguaggio in grado di comunicare con i soggetti sociali che, a partire dal ’68, animanole piazze (giovani, operai, donne) e, dall’altro, di addomesticarne e depotenziarne i contenuti. Ovviamente, unconto sono le finalità che i singoli partiti istituzionali, ed i singoli manifesti, nel corso degli anni ’70, si danno, altroè il raggiungimento degli scopi. Non mancano tentativi maldestri e palesi incapacità ma è innegabile che, anchein tale ambito, il processo di riassorbimento delle lotte antisistemiche e del loro linguaggio, si è dispiegato con unpotenza di fuoco impari, soprattutto se si pensa a come la controffensiva dei manifesti istituzionali sia statasupportata dalla comunicazione televisiva.

Nel saggio è presente un corposo apparato iconografico che raccoglie un’ottantina di riproduzioni dei manifestiche, nel corso del testo, vengono analizzati nel lessico, nell’iconografia, nelle caratteristiche tipografiche ecompositive, nelle scelte cromatiche, nel lettering, nei contenuti più espliciti ed in quelli più profondi. “Studiareesclusivamente l’iconografia dei manifesti significa fermarsi alle soglie della loro specificità, che consiste in unapiù complessa articolazione tra racconto generale (il manifesto come parte di un sistema più complesso dicomunicazione), sua elaborazione grafica e diffusione nella società”.

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La prima parte del testo ricostruisce la nascita dei manifesti italiani della sinistrarivoluzionaria a partire dal ’68. La fonte d’ispirazione maggiore è costituita dallaproduzione del Maggio francese che basa la comunicazione sulla “combinazioneessenziale di immagini e parole, privilegiando messaggi di rottura” spessoprovocatori ed aggressivi, ricorrendo al “ribaltamento di senso dei termini, simbolie modi di dire del linguaggio dominante per mostrarne incoerenze econtraddizioni (…) per far emergere concetti e significati alternativi”, rifacendosialle pratiche di détournement di matrice situazionista. Un ruolo importante spettaanche alla cultura underground statunitense che, già prima del ’68 si diffondenegli ambienti più inquieti della società italiana, soprattutto tra gli studenti. Altrefonti d’ispirazione sono la grafica cubana, una volta emancipatasi dal realismo dimatrice sovietica ed, in maniera minore, per quanto riguarda la rielaborazionegrafica per manifesti pubblici, la Rivoluzione culturale cinese. L’iconografia cineseviene infatti ripresa più per la produzione di manifesti da esporre nelle sedipolitiche o domestiche che non per la produzione pubblica. Sicuramente lasinistra radicale è debitrice nei confronti della rivoluzione maoista per quantoriguarda il ricorso ai ta-tse-bao, ma si tratta, in questo caso, di “linguaggio delle parole”, ben distante dalla“comunicazione iconografica ed essenziale del manifesto”. Sarebbe sbagliato enfatizzare le abilità comunicativedei manifesti, o dei giornali murali, di movimento così come non si dovrebbero stroncare i manifesti della politicaistituzionale; nel corso degli anni ’70 si ha un interesse talmente diffuso per il dibattito politico che riescono adincidere a livello comunicativo anche manifesti prolissi, maldestri e poco attraenti.

Dall’indagine sviluppata dall’autore emerge come la propaganda politicaistituzionale di fine anni ’60 risulti decisamente arretrata tanto rispetto alletecniche della promozione commerciale, quanto alle strategie comunicative deimovimenti antagonisti ma, tale ritardo, deve essere imputato anche ad unasostanziale inadeguatezza politica nei confronti delle figure sociali emergenti. Ilsistema politico ufficiale si dimostra, insomma, in forte ritardo nel comprendere latrasformazione in corso tanto nella società italiana, quanto internazionale, ed ilritardo nella comunicazione politica è legato sia al permanere di un’immagine delpaese che ormai non esiste più, che ad una difficoltà di dare risposte a domandeche si sono fatte radicali e che, probabilmente, non possono ottenere risposteistituzionali. Insomma, dopotutto ad essere messo in discussione è il sistemacapitalistico; difficile dare risposte a chi intende promuovere una rivoluzioneradicale.L’autore segnala come il Pri sia la prima forza politica che, sin dall’inizio deglianni ’60, ricorre ad un art director per rinnovare l’immagine del partito di Ugo LaMalfa: viene abbandonata la tradizionale comunicazione realista in favore di unostile razionalista derivato dalle nuove strategie di promozione commerciale. Con un decennio di ritardo rispettoall’esperienza dei repubblicani, anche il Partito socialista inizia a ricorrere a qualche designer professionista alfine di riformulare la propria immagine. In questo caso vengono mantenuti alcuni simboli tradizionali seppurrinnovati stilisticamente anticipando quella che sarà la sostanziale trasformazione del partito che si compie conl’avvento di Bettino Craxi ed il riposizionamento della forza politica quando, una volta messa in secondo piano latradizionale base operaia, decide di concentrarsi sui ceti medi.Nel corso degli anni ’70 sono diversi i grafici, i pittori ed i fumettisti che si prestano alle strategie comunicative deipartiti istituzionali o dei movimenti. Ricorso a professionisti della comunicazione o meno, l’intero panoramapolitico istituzionale, nel corso degli anni ’70, si trova a fare i conti con la rappresentazione dei soggetti sociali cheanimano la scena: giovani, operai e donne.

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Il mondo giovanile , sostiene Gambetta, è il primo soggetto ad essere ridefinitograficamente nei manifesti e nell’immaginario iconico dei partiti istituzionali di fineanni ’60. Il divario tra l’immagine dei giovani offerta dai partiti e la loroautorappresentazione appare decisamente incolmabile anche dal punto di vistagrafico. Sin dalle elezioni del maggio 1968 i partiti si trovano a doverlirappresentare nei manifesti ed optano per una descrizione composta e misurataattraverso immagini di rassicuranti “volti acqua e sapone”. Successivamente ilPartito comunista tenta di collegarsi maggiormente con il mondo reale ricorrendoa fotografie di manifestazioni studentesche accostate però, in maniera stridente,a testi tradizionali tesi a “normalizzare” le immagini (es. “innovazione nellacontinuità”). I partiti istituzionali di sinistra (Pci, Psi, Psiup) iniziano pian piano adutilizzare immagini di giovani in corteo, spettinati e con tanto di pugni chiusi ma,tale rappresentazione dei partiti, attraverso l’immagine del giovane maschiorisulta piuttosto una metafora di “vitalità, e vigore, nonché di virilità” tesa adesaltare la potenza rigeneratrice delle organizzazioni. Nei partiti di sinistra, insostanza, le immagini dei giovani servono per rappresentare le qualità giovanili dei partiti. In alcuni casi lamedesima immagine viene utilizzata con finalità opposte.Gambetta propone a tal proposito l’esempio della celebre foto diUliano Lucas di Piazzale Accursio a Milano nel 1971, utilizzatadalla Fgci nel 1977 con lo slogan “Unità dei giovani per salvarel’Italia” e, qualche anno dopo, dall’area dell’autonomia romana perricordare Valerio Verbano. I partiti più moderati, invece, ricorronoalle immagini dei giovani sopratutto “per comunicare con quellospecifico target sociale, rifiutando cioè l’idea di autorappresentarsiattraverso il volto dei giovani”. La Democrazia cristiana, adesempio, attraverso le immagini dei giovani inseriti nei manifestivuole sottolineare l’interesse e la fiducia in essi ma non intendeassociare il partito alla giovinezza.

Gli operai rappresentano il secondo soggetto a trovare spazio sui manifesti dei partitipolitici istituzionali. Le formazioni conservatrici tendono ad evitare di rappresentare ilmondo del lavoro attraverso una specifica categoria professionale, soprattutto operaia,preferendo puntare sull’idea di cittadinanza: ogni lavoratore diventa più genericamenteun cittadino. Nei casi in cui tale cittadino venga ritratto, esso si presenta come maschio,adulto ed appartenente alla piccola o media borghesia. Nelle rappresentazioni dei partitidella sinistra parlamentare si riprende l’iconografica ottocentesca che prevede unlavoratore maschio, muscoloso e virile, non di rado a torso nudo con gli attrezzi dalavoro e lo sguardo rivolto al futuro. Tale rappresentazione, però, abbandonal’iconografia cara al realismo socialista; viene scemando la raffigurazione dell’operaio inmarcia al fianco di contadini ed intellettuali con bandiere rosse e nazionali. Se prima del’68 l’operaio viene presentato, nei manifesti dei partiti di sinistra istituzionale, come uomomaturo, esperto ed orgoglioso della sua professionalità, soprattutto dopo le vertenzedell’Autunno caldo ’69 l’operaio si trasforma in giovane combattivo ritratto in situazione diconflitto. La marcia orgogliosa verso il “sol dell’avvenire” lascia il posto al corteoconflittuale ed allo sciopero.Tanto negli ambienti radicali, quanto in quelli istituzionali si ricorre anche a personaggi difantasia disegnati in maniera caricaturale con una notevole dose ironica e dissacrante. Se in un primo tempo lacaricatura nasce per irridere la controparte, sull’onda della grafica politica radicale nordamericana, ora questaviene utilizzata per l’autorappresentazione di una classe perennemente in lotta.

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La donna è il terzo soggetto che, irrompendo sulla scena, obbliga il sistemapolitico a ripensare e ridefinire la comunicazione tramite manifesto. Si tratta diuna rincorsa, spesso maldestra, frequentemente di facciata, funzionale da unaparte a conquistare il foto femminile, non più scontato, e dall’altra adepotenziare la portata eversiva dei movimenti femministi. Se sin dai tempiantichi la figura femminile viene utilizzata soprattutto per incarnare un ideale,raffigurare un mito, tra il XIX ed il XX secolo le donne borghesi diventanoconsumatrici di merci ed iniziano a perde l’astrattezza simbolica in un processodi “riduzione alla fisicità”. Ben presto l’immagine femminile viene costruitadall’immaginario maschile e dal sistema commerciale come veicolo per venderemerci. Le formazioni moderate e conservatrici, non di rado, continuano a rifarsiall’immaginario di matrice religiosa ove la donna è prima di tutto, quando nonesclusivamente, madre. In generale la donna è mostrata come madre e moglienell’ambito domestico, tanto che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, moltimanifesti politici ripropongono la tradizionale associazione“donna/madre/famiglia”. Con l’avvento dei collettivi femministi vengonocontestati radicalmente sia i ruoli tradizionali assegnati alle donne, che il consumismo, imponendo tanto allasinistra rivoluzionaria, quanto al mondo politico istituzionale, la “necessità di parlare delle donne e alle donne e ditener conto delle loro aspirazioni”. I manifesti prodotti dall’area femminista risultano piuttosto in linea con la “presadi parola”, con la necessità di raccontarsi autonomamente. “I titoli e i testi colloquiali ed evocativi, i simbolifemministi disegnati e rielaborati in mille modi, l’impiego dominante e originale di colori come il viola, il rosa,l’azzurro, i caratteri tipografici più dinamici e spesso tratteggiati a mano, l’ampio utilizzo di fumetti, caricature efotografie inconsuete – soprattutto in funzione autoironica, più raramente autocelebrativa – furono i segni diquesta nuova narrazione tra donne”. Alla fine degli anni ’70 tutte le formazioni politiche si trovano costrette adivulgare una nuova immagine della donna. Nell’ambito della politica istituzionale, il Partito radicale, per certi versipartito maggiormente di frontiera tra istituzioni e movimenti, è tra i primi ad inserire una rinnovata immaginefemminile: o come “denuncia della propria oppressione” o come “protagonista della propria liberazione”.

Il Partito socialista nelle campagne referendarie per il divorzio e,successivamente, per l’aborto inizia a rappresentare il mondo femminile nonsolo tramite l’icona della donna autonoma e consapevole ma con l’aspetto e ilvolto delle donne che protestano in piazza: il manifesto del Psi del 1977 per l’8marzo ricorre ad un volto di donna urlante associato alla scritta. “No a unagiornata celebrativa – Le donne in lotta per l’alternativa”. Ancora nel 1979,quando ormai può dirsi iniziato il processo di trasformazione del Psi in forzapolitica sempre meno di lotta e sempre più riformista, il partito continua amantenere un certo protagonismo femminile nei manifesti: il tentativo divienequello di “mitizzare quella battaglia, di strapparla dal fermento vivo del conflittoper renderla narrazione epica”.Gambetta sintetizza, attraverso l’analisi di due manifesti ravvicinati di metà anni’70, la trasformazione in corso nell’immagine femminile del Pci.

In un manifesto del 1975 il ritratto femminile “è accompagnato da un invitoesterno”: “Donne siete più forti – Con il vostro voto cambiate la società”. Nelmanifesto del 1976 all’immagine femminile viene associata la scritta: “Voto comunista perché il domani sia anchemio”. Si è passati dall’immagine di una donna come “soggetto da esortare” ad una donna che si fa protagonistadel suo slogan. Qualcosa di analogo, tenuto conto del diverso orizzonte politico, accade anche nella Dc. In unmanifesto del 1972 all’immagine di una giovanissima donna dall’aria incerta viene associata la frase: “Tu voti perla prima volta – Attenta che non sia anche l’ultima”. In un manifesto di qualche anno dopo, del 1976, l’immaginemostra un gruppetto di donne che parlano tra loro in pubblico, una di loro fuma una sigaretta ed a tale scena èassociato lo slogan. “Vieni con noi” (da intendersi nella doppia accezione con noi donne / con noi Dc). Anche inquesto caso si passa dalla donna come soggetto a cui suggerire ciò che è meglio per lei, ad una donna che,agendo in prima persona, invita altre donne a partecipare.La radicalità del messaggio femminista e dell’autorappresentazione data dalle stesse militanti attraverso i

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manifesti risulta difficilmente riassorbibile dalla politica istituzionale (e dalla cultura maschilista del paese): a partel’area politica istituzionale più vicina ai movimenti (nuova sinistra e radicali)nessun partito si sente di “superare alcuni limiti, scardinati invece nei manifestifemministi come, ad esempio, la denuncia dei rapporti patriarcali interni allafamiglia o le disparità sessuali nelle gerarchie di lavoro”, così come nessunpartito decide di affrontare “esplicitamente i temi legati alla sessualità e al corpofemminile”.

Parlando del decennio post ’68, è inevitabile per i manifesti affrontare laquestione della violenza politica. Gambetta sottolinea come l’etichetta di “annidi piombo”, applicata al decennio, riconduca tutte le pratiche in cui vi è ricorsoad una forma di violenza, all’interno di un insieme indistinto: scontri tra oppostefazioni o con la polizia, bombe stragiste, azioni di fuoco di gruppi armati ecc.,tutto diviene parte di una nebulosa indistinta. Dalla ricerca dell’autore emergonotre schemi comunicativi principali: l’esaltazione della forza del popolo o delpartito al fine di piegare la violenza negativa dei nemici, la denuncia dellaviolenza di Stato e l’appello alla concordia istituzionale contro un nemico estraneoalla vita democratica del paese.La forza del popolo tendenzialmente viene celebrata tanto dai manifesti deimovimenti radicali, quanto dalla sinistra istituzionale. Nel primo caso l’accento èspesso posto sul legame tra le lotte popolari internazionali e la lotta anticapitalistaportata avanti all’interno del paese. Il ricorso alla violenza, anche armata, non soloè condivisibile nei confronti delle lotte di popolo in atto (es. Vietnam), ma non è daescludere nemmeno sul fronte interno. Molti sono i manifesti in cui al pugno chiusoinizia ad essere associata l’icona dell’Ak 47. Nella sinistra istituzionale, invece, ilriferimento alle armi si limita o alla celebrazione della Resistenza italiana alnazifascismo o alle guerre popolari di liberazione nel sud del mondo. Dal punto divista “interno”, nazionale, la forza “delle masse” viene tradotta graficamente dallasinistra parlamentare dalle immagini di un popolo che si mobilita riempiendo lepiazze, “nei volti severi ma scoperti dei manifestanti e nelle bandiere”.Molti manifesti nel corso del “lungo Sessantotto”, adottano un sistema dicotomicoove una violenza “legittima e necessaria” si scontra con una violenza“immorale e arbitraria”: partiti costituzionali vs. “opposti estremismi”, sinistrarivoluzionaria vs. neofascisti e/o Stato borghese e/o capitalismo ecc. Non èinfrequente che nei manifesti di tutte le forze politiche, istituzionali e non, ilnemico venga mostrato come entità anonima, col volto celato (passamontagnao casco d’ordinanza, in base allo schieramento della forza politica), incline allaviolenza cieca ed indiscriminata. Il nemico violento viene raffigurato comeautoma senza volto, mero simbolo o marionetta guidata da dietro le quinte. Leforze politiche istituzionali, al fine di negare legittimità agli avversari, tendono adenunciare la violenza armata o “attraverso immagini verosimili, ideateappositamente”, o “modificando profondamente le fotografie originali” al fineda enfatizzare l’impatto emotivo. Alla condanna del terrorismo (termine cheben presto diviene quasi onnicomprensivo di qualsiasi ricorso a forme diviolenza), i manifesti istituzionali associano spesso l’indicazione di comesconfiggerlo. La comune “battaglia per la difesa della democrazia” neimanifesti Dc diviene “difesa delle istituzioni e della sua classe dirigente”,mentre nella produzione del Pci la risposta viene dalla “mobilitazione popolare”, dalla massa di lavoratori chescende in piazza e partecipa alla vita democratica del paese. Allo schema più diffuso, basato sullasemplificazione “bene vs. male”, si sottraggono le formazioni della nuova sinistra ed i radicali. La campagnareferendaria (un quesito riarda l’abolizione della Legge Reale) di questi ultimi, in pieno 1977, ne è un esempioemblematico. Vengono affissi due manifesti del tutto uguali in termini di slogan (“Disarmiamoli con la non violenzafirmando gli 8 referendum”) e di grafica recanti in un caso la celebre foto del militante che spara in via De Amicisa Milano e, nell’altro, l’altrettanto celebre immagine del poliziotto travestito da manifestante che, dopo aver

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sparato, pistola in pugno, si ritira tra le fila delle forze dell’ordine. In questo caso di duplice manifesto, ilmessaggio radicale è chiaro: condannare tanto la violenza armata di piazza, quanto la violenza armatarepressiva. La nuova sinistra, volendo problematizzare il ricorso alla violenza nelle sue svariate manifestazioni,fatica a ricorrere ad un mezzo sintetico come il manifesto necessitando di argomentazioni articolate inadatte aduna comunicazione così “drastica”.

In conclusione Gambetta segnala come, a partire dai primi anni ’80, con l’affievolirsi dei movimenti e dellaconflittualità sociale, il linguaggio dei manifesti subisca una sorta di “ritorno all’ordine”. La comunicazione politicasi avvicina sempre più a quella commerciale ed il ruolo della televisione diviene sempre più determinante tantoche, gli stessi manifesti vengono ad avere la funzione di “richiamare messaggi ascoltati altrove, promossi e diffusiattraverso altri canali, nei talk show o negli spot televisivi”.

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Copertina: W. Gambetta, I muri del lungo ’68…, Derive Approdi (2014)– Manifesto: Operai-studenti…, Movim. studentesco di Bologna (1968)– Manifesto: Per uscire dalla crisi…, Pci (1979)– Manifesto: Lotta col voto…, Psi (1972)– Tessera: Unità dei giovani…, Fcgi (1977)– Manifesto: Assemblea operaia…, Pci (1968)– Manifesto: Tu voti per la prima volta…, Dc (1972)– Manifesto: No a una giornata celebrativa…, Psi (1977)– Manifesto: Voto comunista perchè…, Pci (1976)– Manifesto: No alla violenza…, Pci (1975)– Manifesto: La violenza distrugge la libertà…, Dc (1976)