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essun incontro – con una persona o una cosa – che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un significato segreto. Gli uomini
con i quali viviamo o che incrociamo in ogni momen-to, gli animali che ci aiutano nel lavoro, il terreno che coltiviamo, i prodotti della natura che trasformiamo, gli attrezzi di cui ci serviamo, tutto racchiude un’essenza spirituale segreta che ha bisogno di noi per raggiungere la sua forma perfetta, il suo compi-mento. Se non teniamo conto di questa essenza spiri-tuale inviata sul nostro cammino, se – trascurando di stabilire un rapporto autentico con gli esseri e le cose alla cui vita siamo tenuti a partecipare come essi par-tecipano alla nostra – pensiamo solo agli scopi che noi ci prefiggiamo, allora anche noi ci lasciamo sfug-gire l’esistenza autentica, compiuta.
Martin Buber, Il cammino dell’uomo (1948)
Periodico mensile - Anno 32, n. 3, marzo 2012 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz. e ammin.: 38122 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20
http://www.il-margine.it/it/rivista
N
Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno 32 (2012) n. 3
Francesco Ghia SALVE, PIEMONTE
Emanuele Curzel UNITI NELLA LOTTA
ISSN 2037-4240
Matteo Prodi “GRIDARE”: UN VERBO CENTRALE PER CHI CREDE NEL VANGELO
Eugen Galasso PASQUA DI LIBERAZIONE
Marco Stenico LA FUGA DAVANTI A DIO
Giuseppe Morotti IN DIALOGO CON LA CULTURA POSTMODERNA
IL MARGINE 3 MARZO 2012 Francesco Ghia 3 Salve, Piemonte. La «melodia mesta» della Tav
Emanuele Curzel 10 Uniti nella lotta. A proposito del diritto/dovere al titolo di studio e del suo valore legale
Matteo Prodi 13 “Gridare”: un verbo centrale per chi crede nel Vangelo
Eugen Galasso 20 Pasqua di liberazione Mauro Stenico 23 La fuga davanti a Dio. Un’opera di Max Picard per riflettere sulla modernità
Giuseppe Morotti 31 In dialogo con la cultura postmoderna Cinguettii
Ogni anno, a metà gennaio, nella chiesa londinese di Saint Lawrence Jewry, il pastore David Canon Parrott sostituisce la tradizionale cerimonia di benedi-zione degli aratri con una preghiera di benedizione sugli oggetti informatici che ormai scandiscono la nostra quotidianità (cellulari, smartphome, pc portatili, tablet). Pieferdinando Casini deve essere un suo segreto seguace, a giudicare dall’entusiasmo da adolescente con cui ha benedetto i social networks. Prima fu il galeotto tvb “twittato” a Di Pietro, poi la foto del vertice con Monti, Alfano e Bersani, anch’essa “twittata”. Twitter in inglese significa “cinguettare”. Lo fan-no i passerotti quando inizia la stagione degli amori. Con chi voglia cinguettare il neaodolescente e innamorato Casini lo capiremo presto. Quanto al resto, ha ragione Woody Allen: la vita non imita l’arte, ma la cattiva televisione. A giudi-care da certi suoi leaders, la politica sembra oggi non fare eccezione. (F.G.).
Avviso a coloro che si sono abbonati con ccp o ccb richiedendo l’invio del pdf per e-mail (pdf+carta euro 22, solo pdf euro 8): comunicateci il vostro
indirizzo e-mail! (altrimenti non possiamo inviarvelo!) scrivete a [email protected]
I L M A RG I N E
mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero http://www.il-margine.it/it/rivista e-mail: [email protected]
Direttore: Emanuele Curzel
Vicedirettore: Francesco Ghia
Amministrazione e diffusione: Luciano Gottardi [email protected] [email protected]
Comitato di direzione: Celesti-na Antonacci, Monica Cianciul-lo, Giovanni Colombo, France-sco Comina, Alberto Conci, Fulvio De Giorgi, Marcello Farina, Guido Formigoni, Paolo Ghezzi (resp. a norma di legge), Giovanni Kessler, Roberto Lambertini, Paolo Marangon, Fabrizio Mattevi, Michele Nico-letti, Fabio Olivetti, Vincenzo Passerini, Pierangelo Santini, Grazia Villa, Silvano Zucal. Collaboratori: Carlo Ancona, Anita Bertoldi, Dario Betti,
Stefano Bombace, Omar Brino, Vereno Brugiatelli, Luca Cristel-lon, Marco Dalbosco, Mirco Elena, Cornelia Dell’Eva, Mi-chele Dorigatti, Michele Dossi, Claudio Fontanari, Eugen Galas-so, Lucia Galvagni, Luigi Gior-gi, Massimo Giuliani, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Alber-to Guasco, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani, Pierluigi Mele, Silvio Mengotto, Walter Nardon, Rocco Parolini, Lorenzo Perego, Nestore Pirillo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi, Flavio Santini, Angelo Scottini, Giorgio Tonini.
Progetto grafico: G. Stefanati
Una copia € 2,00 - abbonamento annuo € 20, annuo + pdf euro 22, solo pdf euro 8, estero € 30, via aerea € 35. I versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 10285385 intestato a: «Il Margine», c.p. 359 - 38122 Trento o sul conto corrente bancario (IBAN IT25J 07601 01800 000010285385). Estero: BIC: BPPIITRRXXX.
Autorizzazione Tribunale di Trento n. 326 del 10.1.1981. Codice fiscale e partita iva 01843950229.
Redazione e amministrazione: «Il Margine», c.p. 359, 38122 Trento. Publistampa Arti Grafiche, Pergine Il Margine n. 3/2012 è stato chiuso in tipografia il 19 marzo 2012. «Il Margine» è in vendita a Trento presso: “Artigianelli”, via Santa Croce 35 - “Centro Paoli-no”, via Perini 153 - “La Rivi-steria” via San Vigilio 23 - “Benigni” via Belenzani 52 - a Rovereto presso “Libreria Ro-smini”.
editore della rivista:
ASSOCIAZIONE
OSCAR ROMERO
Presidente: Piergiorgio Cattani [email protected]
Vicepresidente: Leonardo Paris
Segretaria: Veronica Salvetti
Il Margine, 32 (2012), n. 3
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Salve, Piemonte
La «melodia mesta» della Tav
FRANCESCO GHIA
icono che per capire da quale zona provenga un piemontese sia suffi-
ciente un piccolo esperimento: fargli recitare i primi versi di “Piemon-
te”, la poesia di Carducci che nessuno si sognerebbe di definire un capolavo-
ro e che per lo più merita l’onore di una citazione per un memorabile sketch
di un grandissimo Felice Andreasi che la declamava appunto in accentuata e
solenne cadenza pedemontana. Basterà prestare orecchio a quanto stretta o
larga siano la ‘o’ di «Piemonte» e la ‘e’ della «melodia mesta da lungi riso-
nante» con cui scendono i fiumi, per indovinare immediatamente la denomi-
nazione di origine controllata e garantita dell’improvvisato declamatore: se
sono strette, di sicuro costui proverrà dalla zona della «regal Torino», se so-
no medie, dalla zona della «Asti repubblicana», se sono larghe, dalla zona di
«Cuneo possente e paziente»…
Quando Carducci compose la poesia correva l’anno 1898. All’epoca, il
traforo ferroviario del Frejus aveva già compiuto 27 anni: era stato infatti
inaugurato nel 1871, fortissimamente voluto, ai limiti dell’ossessione, da
Cavour, che vedeva in esso una straordinaria occasione di espansione com-
merciale per l’Italia da lui immaginata, nonché la possibilità di realizzare
una sorta di linea diretta che collegasse la sabauda e italica Torino con l’Alta
Savoia francese.
Fin dalla sua istituzione, la linea ferroviaria Torino-Bardonecchia-
Modane (via Bussoleno, Meana di Susa e Oulx) era quindi destinata ad as-
sumere una valenza ben maggiore di quella attribuibile normalmente a una
qualsiasi arteria di comunicazione: come poi noterà espressamente un fre-
quentatore abituale di Meana di Susa, eletta a luogo ideale in cui recarsi a
«cangiar fatica», ossia Benedetto Croce (al cui giudizio peraltro si deve an-
che la smisurata fortuna di Carducci nella storia della poesia italiana), quella
linea ferroviaria assurgeva al rango di paradigma dell’orgoglio operoso del
piemontese «popol bravo», a simbolo tangibile di ciò che può produrre,
quando solo si metta di impegno, la volontà indomita della modernizzazio-
ne.
D
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Le rughe di una vecchia signora e le seduzioni della giovane
A far da sfondo sullo schermo del mio computer c’è la foto di una
montagna: è la punta Clotesse (2900 metri di altezza) delle Alpi Cozie set-
tentrionali, nel cuore della catena della Grand’Hoche. Per me, che frequento
l’alta Val di Susa fin da quando ero bambino, è la vera punta simbolo della
valle: severa, con ampi tratti scoscesi e ripidi, con molto ciaplé (in italiano:
‘sfasciume’), ricorda il carattere montano degli autoctoni. Taciturna, un po’
ruvida e aspra, in alcuni punti indisponente, ma comunque in grado di man-
tenere lealmente le promesse: la vista mozzafiato che si gode dalla punta
(una panoramica sull’intera valle sottostante) è tale infatti da ripagare ogni
sforzo fatto per ascendervi…
Il contenuto anche simbolico della tratta ferroviaria Torino-
Bardonecchia-Modane e il carattere ruvido, ma leale dei valsusini sono, cre-
do, due chiave ermeneutiche irrinunciabili per provare a orizzontarsi un po-
co nella questione intricatissima della Tav. Nel seguito, vorrei provare a
spiegarne il perché.
I valsusini amano la loro ferrovia. Per anni, soprattutto nell’Alta Valle,
essa è stata tra le principali datrici di lavoro. Una ferrovia di altura (il traforo
è a 1250 mt.) richiede infatti una manutenzione costante e accurata e una
notevole quantità di ‘forza lavoro’. La qualifica di «manovale della ferro-
via» era quindi tutt’altro che disprezzata, anzi ambìta, e veniva portata con
tutto il legittimo orgoglio di chi sentiva su di sé la responsabilità di coopera-
re a un progetto importante.
Ma poi, «tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il
cielo», come constata il saggio e disincantato Qoèlet. Con il passare degli
anni, la nobile e gloriosa ferrovia ha cominciato a subire l’onta del declino,
come una bella donna di un tempo andato che ora si trova a fare i conti, allo
specchio, con le rughe sempre più profonde e con i capelli sempre più bian-
chi. Le merci hanno cominciato a viaggiare viepiù su gomma (per effetto
anche di politiche di agevolazione alla più grande fabbrica piemontese,
produttrice di autoveicoli), la rotaia ha perduto di fascino, anche perché
l’imbocco del traforo si era fatto troppo piccino per il passaggio di contai-
ners sempre più obesi e spigolosi. Da qui, la necessità di un nuovo traforo,
questa volta stradale, e di una autostrada conseguente, la A32, per tir e per
autovetture. Che avrebbe tra l’altro favorito anche l’incrementato afflusso
dei turisti dello sci e delle vacanze estive. Malinconicamente, la vecchia fer-
rovia assisteva così al crescere abnorme dell’autostrada e del suo traffico di
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portatori insani di ossidi di carbonio e si rassegnava, con quel mix di ironia e
mestizia che in fondo costantemente contraddistingue l’understatement pie-
montese, ai giorni un po’ grigi di una pur meritata pensione.
Ora, un uomo che abbia, nella sua gioventù, perdutamente amato una
donna può anche accettare, forse, di vederla lasciarsi andare, con un po’ di
triste trascuratezza, all’indifferenza dei giorni. Ma, se l’ha amata davvero,
con onestà e lealtà, considererà il massimo della hybris, del tradimento e
della mancanza di rispetto anche solo pensare di rimpiazzarla nel suo cuore
con una donna più giovane, seducente e brillante. Così, il valsusino poteva
forse ancora tollerare, se pure di malanimo, la proterva arroganza
dell’autostrada e dei suoi tracotanti viadotti, con lo scempio ambientale e
paesaggistico che essa recava con sé; ma sostituire la vecchia ferrovia con
una nuova linea, più agile e snella, più scattante, veloce e charmante, questo
no, era ed è un affronto inaccettabile all’orgoglio di chi è nato e cresciuto
con la vecchia ferrovia.
Prima ancora che politiche, le ragioni dell’opposizione alla Tav sono
dunque sentimentali. Cantano un inno alla lentezza, alle rughe e alla sapien-
za degli anni che invecchiano.
‘A sarà düra…
È il motto dei no-Tav: «sarà dura», la resistenza sarà continua e dure-
vole. Non so come e da chi sia nato il motto e quanta consapevolezza lessi-
cale vi sia alle sue spalle. Certo tuttavia colpisce constatare come l’aggettivo
‘düra’ sia tradizionalmente legato, nel dialetto piemontese come in tanti al-
tre dialetti, al lemma ‘vita’. A sarà düra ha quindi anche, e a mio avviso so-
prattutto, una valenza esistenziale: è la vita, nella concretezza della sua esi-
stenza, a essere, e sempre permanere, dura… Ignorarlo significa peccare
semplicemente di ingenuità.
Ora, se c’è stata una Ursünde, un peccato d’origine nella gestione del
dibattito sulla Tav, questa va probabilmente cercata proprio nel non essere
stati in grado di comprendere, da parte di chi doveva gestire i processi deci-
sionali, la natura autentica dell’opposizione. Fin dall’inizio, a leggere le va-
rie tappe che hanno scandito gli oltre vent’anni di conflitto sul tema, i com-
mittenti politici dell’opera (governo centrale, Regione Piemonte e Provincia
di Torino) hanno affrontato il dissenso con la convinzione di trovarsi di
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fronte un tipico caso di nimby («Not In My Back Yard», «non nel mio corti-
le»).
È ben comprensibile, si sono detti, che da parte di si chi vede espropria-
re un terreno, un orto, un giardino o addirittura una casa vi sia resistenza. È
ben comprensibile, si sono detti, che i sindaci temano per l’impatto ambien-
tale dell’opera e per la ricaduta negativa che tale impatto può avere sulla
buona immagine (anche turistica) della loro comunità. Le prime discussioni
con le controparti (e forse, sembra di capire, anche le attuali) sono state
quindi improntate a un sostanziale paternalismo: «capiamo benissimo le vo-
stre ragioni, che sono dettate dal fatto che non conoscete l’intera portata del
progetto, ma quando le conoscerete non potrete che concordare con noi sul
fatto che esso è stato pensato anche e soprattutto per il vostro bene…». E
allo stile pacato ma fermo del ‘buon padre di famiglia’ si è poi non di rado
aggiunto il determinismo fatalistico delle decisioni sovraordinate da istanze
inappellabili: «E poi, vedete, è l’Europa che ce lo chiede…».
Il modello paternalistico e deterministico-fatalista, ancorché praticato
con una certa assiduità dalla comunicazione politica, è però ormai divenuto
improponibile in un’epoca in cui l’accesso alle informazioni e lo scambio
delle opinioni si è fatto, per chi voglia e possa, sempre più facile e rapido.
Occorrevano altre strategie, che implicassero una progettualità condivisa e
non imposta, una discussione argomentata, e cifre alla mano, del rapporto
costi-benefici, una seria programmazione di attività preventive contro le in-
filtrazioni mafiose che si annidano ogni volta che vi siano da realizzare ope-
re mediante appalto. L’occasione è stata perduta, dando piuttosto
l’impressione che l’esproprio di singoli terreni si espandesse a esproprio di
un’intera valle, peraltro già ampiamente violentata nel passato da costruzio-
ne dell’autostrada, da cementificazione in totale assenza di qualsivoglia pia-
no regolatore, e da opere faraoniche e mastodontiche erette in ossequio
all’evento delle olimpiadi invernali di Torino 2006. Occorreva poi un argo-
mentare convinto e convincente in ordine al fatto che un progressivo spo-
stamento degli assi delle merci dalla gomma alla rotaia è fondamentale per
un nuovo modello di sviluppo eco-compatibile.
Per contro, si è scelto di percorrere fino in fondo la strada della polariz-
zazione, a tutto vantaggio della comunicazione mediatica che di polarizza-
zioni vive e prospera. O sei pro-Tav o sei no-Tav, tertium non datur. O sei
per l’ordine, per la modernizzazione e per il progresso, o sei per l’anarchia
violenta, per la nostalgia del passato e per la scelta del declino. La retorica
ha fatto abilmente la sua parte nel cancellare ogni spazio alle sfumature in-
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termedie e al dubbio dialogante di chi chiede, prima di assumere una posi-
zione, di avere sott’occhio tutti gli strumenti necessari per crearsi autono-
mamente una opinione. Così molte domande attendono ancora risposta. Tra
queste: è davvero necessaria una linea ad alta velocità? Non bastava ammo-
dernare la linea precedente? I costi non sono eccessivi? L’investimento è
giustificato dalle attese di beneficio? Sarà poi davvero realizzata e resa fun-
zionante l’autostrada ferroviaria, cioè l’obbligo per i tir di percorrere il tratto
valsusino su rotaia, con considerevole beneficio per la qualità dell’aria?
Quali sono i rischi reali dell’opera per la salute e per l’ambiente? Il Musiné,
ossia la montagna con elevato contenuto di amianto e uranio, non fa più par-
te dell’attuale progetto (in origine, doveva essere traforato): ci sono però ga-
ranzie che amianto e uranio non siano ugualmente presenti nelle montagne
che si vorrebbe ora traforare? ecc. ecc.
Il neopositivismo e la ginestra
Perché si sia giunti a questo punto è questione complessa che merite-
rebbe di essere approfondita a partire dalla ormai diffusa e pressoché gene-
ralizzata incapacità del potere politico di gestire i processi decisionali. Ab-
biamo sì creato termini altisonanti come governance e decision-sharing, ma
nessuno sa, nel concreto, che cosa vogliano effettivamente dire. La vaghezza
definitoria si è così tradotta in vaghezza dell’azione, che affida il suo destino
al parere di una categoria altrettanto vaga e indefinita, ossia quegli Esperti
oggi consultati con la stessa voluttà e brama di conoscenza del futuro con
cui gli antichi, prima di partire per la guerra, si rivolgevano agli oracoli
(senza tuttavia mai in fondo capire se dalla guerra sarebbero tornati vivi o
morti…).
Un verso di Robert Browning citato da Jorge Luis Borges nelle sue
splendide lezioni americane sull’enigma della poesia dice: «Just where
we’re safest, there’s a sunset-touch» («Proprio quando siamo più al sicuro,
c’è un soffio di tramonto»).
Mi pare esprima lo stesso concetto dello «’a sarà düra» che fa da motto
ai no-Tav. Si può essere d’accordo o non d’accordo con le loro ragioni. Ma
se non altro la testardaggine implicita nel loro motto ci ricorda un insegna-
mento di vita: prima di accettare una qualsivoglia decisione occorre metterla
alla prova, per cercare di capire se davvero è l’unica possibile. Non è questo
d’altronde l’atteggiamento più fedele all’etimo stesso del termine ‘decisio-
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ne’, che richiama l’azione dello sfrondare un intrico da tutto ciò che è di im-
paccio, recidendolo?
Molti elementi inducono a ritenere che la società nella quale oggi vi-
viamo assuma tratti che a buon diritto potrebbero essere connotati come
‘neopositivistici’. L’irrazionalismo dilagante in molte pratiche collettive (il
culto degli oroscopi, la febbre del gioco, la fede cieca nei sondaggi, per non
fare che tre esempi), lungi dall’essere una confutazione di questo ‘neopositi-
vismo’, ne è il suo più verace correlato. In un numero sempre maggiore di
àmbiti (dalla scienza alla economia) è tornata di gran moda, con tutto il cari-
co delle sue seduzioni infide, l’idea delle «magnifiche sorti, e progressive».
Il progresso inarrestabile procede e scorre, secondo l’immagine leopardiana,
come la lava sulle pendici di un vulcano. Quando incontra sul suo cammino
la ginestra, la travolge senza riguardo. E a quest’ultima non resta che, cristo-
logicamente, piegare «sotto il fascio mortal non renitente» il suo «capo in-
nocente»…
«O Freunde, nicht diese Töne», ovvero l’euristica della violenza
Nel suo studio del 1961 L’io e gli altri lo psicologo sociale Ronald
Laing descrive con il termine «collusione» (dal latino cum-ludere, ‘giocare
insieme’) il processo in base al quale la persona non desidera soltanto avere
l’altro come appiglio per le proprie ineludibili proiezioni, ma si sforza di in-
durlo a diventare l’incarnazione della persona la cui collaborazione è neces-
saria al completamento dell’identità particolare, ovvero del ruolo, che essa si
sente costretta a sostenere e interpretare. È il meccanismo perverso del reci-
proco autoinganno nelle relazioni che bene abbiamo imparato a conoscere
dalla dinamica televisiva del talk show: si prendono due posizioni contrap-
poste, le si ‘stressa’ fino a farle risultare irriducibili nella loro polarità e si fa
in modo che i contraenti corrispondano in tutto e per tutto ai comportamenti
attesi dalla formulazione delle loro rispettive posizioni. Se poi, in questa po-
larizzazione esasperata, scorre anche (letteralmente o metaforicamente) un
po’ di sangue, beh, tanto meglio per l’audience…
Ormai, dietro la sigla no-Tav (quasi un brand, direbbero gli esperti di
marketing) c’è qualcosa di più di un movimento locale di popolo. Si tratta
quindi di capire chi decide realmente le strategie e che cosa ha in mente. Se
si vuole il dialogo, la via non può certo essere quella di bloccare le strade,
salire sui tralicci, invadere le stazioni bloccando i pendolari, tirare pietre,
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insultare o malmenare i giornalisti servi del regime, denigrare i poliziotti o i
carabinieri (con modalità che tra l’altro sembrano ricordare la famosa de-
nuncia di Pasolini contro i «figli di papà»). Occorre non dimenticare che,
nella rappresentazione pubblica del no-Tav (e anche spesso nella sua collu-
siva auto-rappresentazione singola), costui è un antagonista che deve essere
violento. E in effetti la violenza arriva. Ha un valore euristico, serve al pro-
Tav per stigmatizzare il no-Tav relegandolo nel cantuccio ben recintato ri-
servato a individui pericolosi e dannosi con i quali non vale neanche la pena
di provare a discutere e confrontarsi, e serve al no-Tav per autenticarsi nella
sua identità di antagonista, di lottatore duro e puro, ovvero, per dirla con
Max Weber, di «etico dell’intenzione» che non si cura degli esiti a lungo
periodo delle sue azioni (fiat iustitia, pereat mundus…).
Prima ancora che il processo venisse descritto in termini psicologici e
sociologici, esso era già stato plasticamente illustrato da Beethoven in con-
clusione della Nona Sinfonia. L’orchestra è alla disperata ricerca di un tema.
Ma non riesce a trovare un accordo. Si è polarizzata in due principi. Il prin-
cipio normativo, incarnato dai suoni gravi e cupi dell’orchestra, e il princi-
pio orante, incarnato dal suono esile e timido dei singoli strumenti, le cui
velleità vengono volta a volta stroncate e sopite dalla invadenza del princi-
pio normativo. Da questa polarizzazione non può sortire alcunché di armo-
nico. Deve intervenire un terzo, la voce baritonale dell’uomo che, rivolgen-
dosi all’orchestra nella sua totalità, intima: «O Freunde, nicht diese Töne»,
«non è così, amici miei, che si suona». Solo adesso, prima sommessamente,
poi in maniera sempre più vorticosa e coinvolgente, può partire l’Inno alla
gioia che ridà fiato alla sinfonicità della composizione.
Nella controversia sulla Tav manca oggi questa voce baritonale. Che
rappresenta l’unica possibilità per uscire dallo stallo, dall’impasse in cui la
polarizzazione esasperata ha condotto i contraenti. Lo avevano già intuito
Don Milani e i suoi ragazzi della scuola di Barbiana: «Allora facciamo così:
abbandoniamo noi e Lei le posizioni troppo passionali e scendiamo sul ter-
reno scientifico. Riprendiamo il nostro racconto da capo, ma questa volta in
cifre». Perché quella della Tav non sia solo una melodia mesta, ma si tra-
sformi in una possibilità sinfonica, occorre questa ripartenza dalle cifre,
dall’analisi spassionata della situazione. Forse si è ancora in tempo per pre-
venire l’insorgenza di danni più gravi.
Il Margine, 32 (2012), n. 3
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Uniti nella lotta
A proposito del diritto/dovere al titolo di studio
e del suo valore legale
EMANUELE CURZEL
l dibattito sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, aperto
(e fortunatamente non già attivamente chiuso) dal governo Monti, vor-
rei portare il mio modesto, caustico e opinabile contributo.
Parto non dal tema in sé, ma da un’immagine che vedo frequentemente
evocata, specie a “sinistra”: una società in cui tutti vivono un lungo perio-
do di obbligo scolastico, tendenzialmente uniforme, in prospettiva fino alla
maggiore età. E fin qui si tratta di uno scenario che mi trova complessiva-
mente d’accordo.
Quel che mi lascia più perplesso è il fatto che la semplice frequenza
scolastica di questo lungo periodo viene poi fatta coincidere (da alcuni in-
segnanti, da alcuni studenti, da alcuni genitori) con il raggiungimento del
“diploma”, quasi che la consegna di quest’ultimo rientri nei doveri
dell’istituzione. Per essere espliciti: si tratta di studenti e genitori che dico-
no “ho/ha passato tante ore a scuola, e dunque devo/deve essere promos-
so”; di insegnanti che, per convinzione o per convenienza, non danno mai
voti inferiori alla sufficienza. Se questi studenti, genitori e insegnanti sono
(ancora) una minoranza, essi però finiscono con il condizionare anche i
comportamenti della maggioranza, generando di volta in volta illusioni e
disillusioni che trascinano verso il basso qualunque zelo nello studio o
nell’insegnamento.
Risultato finale: alle elementari la parola “bocciatura” ha perso ogni
significato; alle medie solo dopo lunghe discussioni si fa ripetere una clas-
se, mentre è esclusa l’eventualità di un mancato conseguimento della licen-
za per motivi che non abbiano a che fare con il puro e semplice rifiuto
dell’istituzione scolastica da parte dell’interessato; la valutazione negativa
resiste in qualche settore delle superiori, ma vi sono atteggiamenti che ten-
A
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dono comunque a scoraggiarla, dato che la qualità di una scuola (e il suc-
cesso dell’insegnante e del dirigente) sono fatti coincidere con la percentua-
le dei promossi e dei maturi. L’onda ha ormai raggiunto anche alcune fa-
coltà universitarie, dove con un po’ di tenacia e di insistenza possono otte-
nere diplomi anche persone palesemente inidonee. Questa descrizione potrà
essere considerata caricaturale, ma bisognerà ammettere che – a torto o a
ragione – gli ultimi decenni hanno visto un’evoluzione in questo senso: ver-
so una società in cui tutti – se solo lo vogliono – possono ottenere il titolo di
“dottore”, anche quando al titolo non corrisponde alcuna capacità effettiva
(come vorrebbe l’etimologia) di tramandare ulteriormente una conoscenza.
Vista “da sinistra”, questa prospettiva è comunque accettabile, perché
i suoi risvolti negativi sono considerati secondari di fronte all’esistenza di
una scuola capace, almeno potenzialmente, di innalzare il livello di scola-
rizzazione, di far passare i valori della convivenza, di favorire la socializza-
zione. Vista “da destra” la situazione può essere considerata eccezional-
mente vantaggiosa non in sé, ma perché favorisce un’evoluzione da tempo
invocata: ed ecco che entra in gioco l’abolizione del valore legale del titolo
di studio (punto b1 della sezione “programmi” del Piano di Rinascita De-
mocratica della Loggia Massonica P2, presidente Licio Gelli, tessera 1816
Silvio Berlusconi).
Quando tutti sono laureati, infatti, non lo è più nessuno: il “pezzo di
carta”, distribuito troppo generosamente, diventa inutile. Basterà una pic-
cola campagna di stampa volta a dimostrare quanto sia scadente la prepa-
razione di chi esce comunque dalla scuola con un titolo e il valore di
quest’ultimo (già in forte difficoltà) verrà cancellato con un voto parlamen-
tare ad ampia maggioranza.
Ho l’impressione che molti (anche a sinistra) non guardino a tale pro-
spettiva con particolare preoccupazione (a riprova del fatto che
l’operazione è già in atto). Però vorrei che riflettessimo su un paio di con-
seguenze, a mio parere piuttosto logiche, di questa situazione che vede (al
di là delle intenzioni) destra e sinistra unite nella lotta:
1) se il titolo, o la votazione che lo accompagna, non varrà più nulla,
sarà il “mondo del lavoro” a valutare direttamente o indirettamente la pre-
parazione dei singoli (attraverso procedure inevitabilmente più parziali e
più oscure, all’interno delle quali il merito sarà una possibilità e non una
certezza – più di quanto già non accada);
2) la scuola pubblica, non fornendo più un titolo avente valore legale e
non potendo inseguire altre modalità di formazione sul terreno della qualità
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(o almeno della “qualità percepita”), perderà ulteriormente terreno (finan-
ziamenti, insegnanti, studenti, credito, ruolo).
Non è strano che a destra si voglia abolire il valore legale del titolo di
studio: in questo modo potrà venire eroso quel potente mezzo di integrazio-
ne sociale interclassista e interetnico che è la scuola pubblica. È più strano
che a sinistra non si comprenda quanto un certo modello di scuola, tanto
“aperta” da rinunciare a esprimere un giudizio (se necessario negativo)
sulla preparazione di chi la frequenta, possa essere autodistruttivo.
Cosa si può fare allora? La soluzione mi sembra tanto semplice in teo-
ria quanto ardua (e controcorrente) nella pratica. Si tratta di smettere di
valutare la bontà di ogni singola scuola e della scuola nel suo complesso
sulla base del numero dei promossi. Di smettere di far ritenere (agli studen-
ti, ai genitori, a noi stessi) che un giudizio negativo su una preparazione
coincida con un giudizio negativo sulla persona: il voto, anche quando è
negativo, è un segno di attenzione e di preoccupazione. Di smetterla con la
frase “è lo stesso”, che tante volte pronunciamo nel momento in cui consi-
deriamo valido qualunque risultato: non è segno di accoglienza, è segno di
disinteresse e perfino di disprezzo.
A chi teme che una scuola più severa – che abbia il coraggio di dare
un giudizio e anche di selezionare in base alle capacità e all’impegno – non
sia quella che serve al futuro dei singoli e della collettività, vorrei ricordare
l’articolo 3, comma b della Costituzione: «è compito della Repubblica ri-
muovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Una scuola che
non forma, anche attraverso il rigore, persone capaci di rimuovere quegli
ostacoli finirà con il cristallizzare quelle stesse divisioni di censo e di classe
che la Repubblica considera suo compito superare.
Il Margine, 32 (2012), n. 3
13
“Gridare”: un verbo centrale
per chi crede nel Vangelo
MATTEO PRODI
educazione religiosa che generalmente viene offerta nella nostra
Chiesa, nelle nostre parrocchie, potrebbe essere definita, con un ele-
vatissimo rischio di banalizzazione, come una educazione impartita ai bravi
bambini: in silenzio, con le mani giunte, compostamente seduti. La ricaduta
esistenziale mi sembra sia quella di educare adulti che non sanno esprimere,
a partire dalla fede, i loro dubbi, proporre la loro rabbia, manifestare la loro
indignazione. È curioso, invece, notare come in tutta la Scrittura il verbo
gridare abbia una non piccola rilevanza.
Il grido dell’uomo
Esiste innanzitutto un gridare dell’uomo, non solo verso Dio: un testo
dell’Esodo è certo una svolta decisiva nella storia della salvezza.
«Nel lungo corso di quegli anni, il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la lo-
ro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Al-
lora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacob-
be. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero» (Es 2,23-25).
L’alleanza stipulata tra Dio e i patriarchi sembra bloccata dalla schiavi-
tù in Egitto: proprio il grido del popolo sembra destare il Signore dal suo
sonno.
Moltissime sono le ricorrenze delle parole collegate al tema del gridare,
specialmente davanti ad ogni forma di ingiustizia1; la vera domanda che at-
1 Ad esempio Abacuc 1,2: «Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il
grido: “Violenza! ” e non soccorri?».
L’
14
tanaglia il lettore dell’AT è se Dio ascolta l’uomo. Semplificando, possiamo
dire che a volte il testo sacro presenta un Dio attento2, a volte il grido sem-
bra cadere nel vuoto3. La partita sembra giocarsi tra un Dio che permette
prove e ingiustizie e il popolo eletto e il singolo credente chiamati vivere
della fede pura nella provvidenza del Signore.
Il grido di Gesù
Per i cristiani esiste la necessità di arrivare alla pienezza della rivela-
zione, costituita dall’uomo Gesù. La domanda, quindi, è se il figlio di Maria
e Giuseppe ha gridato e che cosa ha espresso nel gridare. Un testo molto in-
teressante è l’episodio della resurrezione di Lazzaro. Vanno richiamati alcu-
ni elementi: Gesù appositamente non si reca dall’amico ammalato, come per
condurre il lettore a una esperienza di affidamento che comprenda anche
l’angoscia della morte. Egli piange davanti alla tomba, segno che il dolore
ha trafitto anche la sua umanità. Gesù, parlando al Padre, rinnova la sua fede
nell’essere ascoltato4. A questo punto il quarto Vangelo ci dice che gridò a
gran voce: «Lazzaro, vieni fuori». Due osservazioni: il Padre aveva già
ascoltato, Gesù era già sicuro dell’esaudimento della sua richiesta; Lazzaro
era morto, non aveva certo il problema di sentire o meno. Perché grida a
gran voce Gesù? Mi piace pensare che faccia così per portare nel cuore di
Dio, con la sua umanità in lacrime, commossa dal dolore, la rabbia e la fede
dell’uomo davanti allo strazio della morte.
Questa traiettoria è confermata anche dai racconti della morte del Si-
gnore: sulla croce prega urlando al Padre tutto il suo essere abbandonato5 e
il suo abbandonarsi6, vivendo fino in fondo, ancora gridando, tutta la dram-
2 Ad esempio il Salmo 120: «Nella mia angoscia ho gridato al Signore ed egli mi ha rispo-
sto». 3 Ad esempio il libro di Giobbe (30,20) «Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma
tu non mi dai retta». 4 «Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi
hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi
sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”» (Gv 11,41-42). 5 «Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» (Mt 27, 46) 6 «Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Det-
to questo, spirò» (Lc 23,46).
15
matica tragedia della morte: «e Gesù, emesso un alto grido, spirò» (Mt
27,50).
La lettera agli Ebrei, mentre parla della consacrazione definitiva del Fi-
glio di Dio fattosi uomo come sommo sacerdote, del suo essere reso perfet-
to, racconta come «proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli
offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva libe-
rarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7); le grida e le lacrime
della sua umanità costituiscono un elemento decisivo per il suo rapporto col
Padre, affinché la sua offerta esistenziale sia gradita grazie all’obbedienza,
obbedienza che consente anche ai suoi discepoli di ottenere la salvezza.
Il grido degli uomini nel Vangelo
Non solo l’uomo Gesù grida nel Vangelo, ma anche tanti uomini grida-
no; è interessante notare come il loro grido sia direttamente o indirettamente
collegato con il Nazareno. In un ipotetico ordine cronologico, il primo epi-
sodio che ci interessa è la strage degli innocenti operata da Erode.
L’evangelista Matteo, dopo la descrizione del fatto, riporta una delle sue ci-
tazioni di compimento: «allora si adempì quel che era stato detto per mezzo
del profeta Geremia: “Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamen-
to grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché
non sono più”» (Mt 2,17-18). Il male presente nel mondo si scatena imme-
diatamente dopo la nascita del Salvatore; il re terreno ha paura di perdere il
suo potere e pensa di conservarlo uccidendo, causando grida e pianti. Le pa-
role di Geremia non solo interpretano il fatto, ma l’attento conoscitore della
scrittura sa che la profezia successiva riporta una grandissima consolazione7.
Gesù, nascendo, svela il contenuto del cuore dell’uomo e apre alla speranza
di guarigione.
C’è poi il grido del Battista: il precursore sa che la sua missione è deci-
siva per l’umanità, è urgente ascoltarla; la sua predicazione è quella voce
che «grida nel deserto» (Mc 1,3) e prepara l’arrivo dell’inviato di Dio.
Non sono esenti dal gridare neppure i discepoli; nell’episodio matteano
che racconta Gesù che cammina sulle acque, egli va incontro ai suoi ma essi
«furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura» (Mt
7 «Dice il Signore: “Trattieni il tuo pianto, i tuoi occhi dalle lacrime (…) C’è una speranza
per la tua discendenza”» (Ger 31,16-17).
16
14,25). L’irrompere del divino porta alla paura, non alla fede; anche davanti
alla trasfigurazione i discepoli hanno timore. I discepoli gridano perché non
capiscono e il Signore li deve guidare per mano. Ma è interessante notare
come l’unione tra Dio e l’uomo anche nei primi credenti sia qualcosa di con-
flittuale.
Altri personaggi gridano verso Gesù; uomini e donne che in qualche
modo emergono dalla folla; anzi, gridano proprio per farsi ascoltare dal Si-
gnore. L’episodio più interessante è l’incontro con la Cananea. Sappiamo
essere una donna straniera e sappiamo che il Messia, così come esplicita-
mente ci dice il primo Vangelo, sentiva di essere stato inviato solo alle peco-
re perdute della casa d’Israele. Quella donna non ha nessun diritto di do-
mandare alcunché. Eppure grida. Non viene ascoltata; ma i discepoli, molto
infastiditi, supplicano il maestro di fermarsi per accontentarla: «Esaudiscila,
vedi come ci grida dietro» (Mt 15,23). Questo gridare della donna compie il
miracolo: nella vita del Signore si apre un nuovo spiraglio proprio a causa di
quella donna, perché impara che la sua missione è molto più universale di
quanto potesse pensare prima. La fede di quella donna, lodata da Gesù, dila-
ta la fede e la prospettiva esistenziale del Salvatore8.
Dinamiche analoghe troviamo in Luca 9,37-43, dove il padre di un epi-
lettico grida pregando di guarire suo figlio e nel cieco di Gerico (Mc 10,46-
52) che, per sovrastare l’azione della folla che voleva metterlo a tacere, gri-
da una seconda volta ancora più forte; anche di quest’ultimo Gesù mette in
risalto l’azione salvifica della sua fede.
Due brani, tra loro molto diversi, ci aiutano a mettere in luce un altro
aspetto: l’esistenza umana di Gesù ha messo in moto un gridare che non può
essere arrestato. Giovanni Battista ha gridato nel deserto, ma ora c’è come
un grido diffuso tra gli uomini e nel creato per annunciare l’arrivo del Mes-
sia. Il primo riferimento lo troviamo nella parabola delle dieci vergini;
quando queste sono ormai addormentate, l’evangelista scrive: «A mezzanot-
te si levò un grido: “Ecco lo sposo, andategli incontro!”» (Mt 25,6). Il testo
non ci dice da chi provenga il grido, ma quelle parole costituiscono lo scatto
decisivo per la parabola: chi saprà accogliere questo invito? Solo le vergini
sagge che avevano preparato l’olio per accompagnare il corteo nuziale. Il
grido costituisce in qualche modo l’inizio del test sulla sequela del Signore.
8 «Allora Gesù le replicò: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come deside-
ri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita» (Mt 15,28).
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È un grido ed è quindi un appello forte, urgente, capace di destare dal sonno
ogni uomo; udendolo, si saprà se si è stati capaci di attrezzarsi.
Un altro passaggio ci mostra come l’avvicinarsi del Signore alla sua
passione determini una dinamica in cui sarà inevitabile confrontarsi con
l’evento della croce. Gesù entra in Gerusalemme e la moltitudine festante
dei discepoli loda Dio a gran voce. Ma «alcuni farisei tra la folla gli dissero:
“Maestro, rimprovera i tuoi discepoli”. Egli, però, rispose: “Vi dico che, se
questi taceranno, grideranno le pietre”» (Lc 19,39-40). Anche il creato ina-
nimato sembra comprendere che è arrivata la definitiva svolta della storia e
le pietre stesse testimonieranno con forza questa dinamica.
L’annuncio gridato con forza dell’arrivo del Messia non è necessaria-
mente accolto da tutti. Anzi, con la stessa energia vediamo che il Signore è
rifiutato, è messo a morte. Alcune parole della passione ce lo testimoniano:
«disse loro Pilato: “Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?”. Tutti gli
risposero: “Sia crocifisso!”. Ed egli aggiunse: “Ma che male ha fatto?”. Essi
allora urlarono: “Sia crocifisso!”» (Mt 27,22-23).
Il grido dell’Apocalisse
Il verbo e le parole correlate al grido, che stiamo ricercando nella Scrit-
tura, sono presenti anche nell’ultimo libro della Bibbia. Nella liturgia celeste
che esso descrive compaiono varie volte. Possiamo tracciare un breve itine-
rario a partire da tre ricorrenze.
Nella prima si riprende in qualche modo il gridare dell’umanità di fron-
te alle ingiustizie:
«Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che fu-
rono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano re-
sa. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non
farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?”»
(Ap 6,9-10).
Chi ha dato la vita per l’Agnello immolato, proseguendo la Sua offerta,
chiede conto, gridando, del permanere delle ingiustizie nella storia. Ma la
liturgia prosegue; quando entra in scena la «moltitudine immensa, che nes-
suno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9) fi-
nalmente può esplodere il grido di esultanza: davvero il Signore della storia
è il crocefisso resuscitato. A questa signoria partecipa l’innumerevole uma-
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nità salvata ed esplode di gioia: «E gridavano a gran voce: “La salvezza ap-
partiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello”» (Ap 7,10).
La tensione tra la salvezza già offerta agli uomini e il tempo storico, nel
quale si assiste anche alla lotta tra bene e male, produce un altro grido. È
vero che nel cielo appare un segno grandioso, una donna vestita di luce; ma
è altrettanto vero che «era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del
parto» (Ap 12,2). E proprio questo parto è l’inizio della lotta finale tra Mi-
chele e il drago. Questa donna è certo Maria di Nazareth, ma è anche la
Chiesa che genera con dolore i discepoli dell’Agnello, coinvolti loro stessi
nella lotta tra Dio e Satana.
Alcune conclusioni
Esiste un gridare nella storia dell’umanità; spesso è qualcosa che nasce
dall’impossibilità di assistere a tanta ingiustizia e a tante diseguaglianze. In
qualche modo i movimenti di indignazione cui stiamo assistendo in questi
mesi ne sono una manifestazione magari parziale, ma certo evidente. Questo
vale anche per tutte le sofferenze esistenziali che abitano nell’umanità.
Teologicamente parlando, il problema è se Dio ascolta questo grido.
Abbiamo visto come l’AT non risolva il problema. Nel NT, si apre una pro-
spettiva diversa: Gesù, il definitivo rivelatore del volto del Padre, grida, as-
sume in sé il gridare dell’uomo, lo fa suo e lo porta nel cuore di Dio.
In questa prospettiva sono autorizzate tutte le grida degli uomini, per-
ché si uniscono all’agire del Signore. Anzi, si potrebbe suggerire che il Na-
zareno impari dagli uomini il gridare e consenta a questa modalità
dell’umano di entrare nella vita di Dio e nella liturgia del cielo.
Il gridare, almeno così ci appare ora, è una dimensione decisiva della
vita del credente; certo, lo è quando riesce a compiere tutti questi passaggi,
mettendosi anche in questo caso alla piena sequela del Cristo. Il discepolo
deve gridare, deve ascoltare il grido dell’uomo e deve portare con la sua vita
tutto questo nel cuore della liturgia del cielo, nell’eternità di Dio. Dobbiamo
domandarci se riusciamo a educare al gridare o ancora trasmettiamo un cri-
stianesimo di sottomissione e di vuota obbedienza.
Dobbiamo domandarci se la Chiesa sa educare a unirsi ai vari gridare
del mondo, senza la paura di sporcarsi. La veste del fedele è bianca, ma non
perché il battezzato sia bravo e capace a mantenerla così, ma perché lavata
dal sangue dell’Agnello.
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Dobbiamo domandarci se riusciamo a rispondere all’appello di Isaia
che dice: «Grida a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la
voce; dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi pec-
cati» (Is 58,1). Se, cioè, riusciamo a dirci con forza che è il nostro peccato
che non ci consente di incidere nel mondo; siamo protesi a una religiosità
vuota9, ma il Signore vuole che portiamo la sua giustizia.
«Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i
legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste
forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?»
(Is 58,6-7).
Solo allora ci sarà una nuova luce per noi e per tutta l’umanità: «allora
la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti
a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà» (Is 58,8).
L’umanità nuova aprirà la via al Signore e alla sua gloria.
9 «“Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci, se tu non lo sai?”. Ecco, nel giorno
del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai» (Is 58,3).
Il Margine, 32 (2012), n. 3
20
Pasqua di liberazione
EUGEN GALASSO
a Pasqua, per il cristiano, è festa e momento liturgico determinante e
porta con sé un significato fondamentale che, pur nella diversità,
l’accomuna alla Pasqua ebraica: è la liberazione, in senso polisemico (libe-
razione dalle schiavitù routinarie, dalle sacralità inutili, nelle accezioni so-
ciali e politiche ecc.). Ed è un momento che non va separato dal Natale.
Che Natale e Pasqua rappresentino i due momenti fondamentali della
vita di Cristo, fondamento della vita cristiana, è pacifico: l’evento della na-
scita, ossia dell’Incarnazione, del Verbum caro factum est, e l’evento della
morte di croce e della resurrezione. Prescindo qui dalle differenti interpreta-
zioni teologiche, che rimangono aperte, nonostante il clima “silenziante” che
sembra essersi instaurato negli ultimi anni, specie in ambito cattolico. Che
«l’esperienza dell’assoluta accettazione e donazione di sé di Dio data
nell’esperienza trascendentale della persona umana raggiunge il suo zenith
in Gesù di Nazareth»1, è parimenti accettato, al di là, appunto di come poi ci
si ponga, a livello ermeneutico, rispetto a tale esperienza.
Le condizioni della nascita di Gesù portano a considerare l’oggi delle
condizioni di miseria e di oppressione politica in cui la vita umana, anche
proprio nell’esperienza della nascita, si radica: ciò avviene nel “Terzo Mon-
do”, ma anche negli slums di molte metropoli, megalopoli, città medie e pic-
cole anche di Paesi d’Europa, degli Stati Uniti, di altre parti del mondo tut-
tora considerate, nonostante la crisi, sviluppate. In questa chiave credo che
la viva voce delle omelie (partecipate, non ex cathedra, in quanto i fedeli
intervenivano) di Ernesto Cardenal negli anni Settanta del Novecento
nell’isola nicaraguense di Solentiname renda efficacemente conto di una
1 Karl Rahner, Zum Verhältnis zwischen Theologie und heutigen Wissenschaften, confe-
renza del 1971, in Karl Rahner, Schriften zur Theologie, X, Köln, Benzinger, p. 108.
Traduco Selbstzusage con «accettazione e donazione di sé», cogliendo anche il senso
di quanto nel testo precede e segue il passo specifico citato.
L
21
condizione quale quella delineata appunto nell’omelia del Natale: «denutri-
zione, sottoalimentazione, mancanza di alloggi e problemi di chi è senzatet-
to, sfruttamento dei lavoratori, furto alla popolazione, prigionieri politici»2.
Si tratta di temi che oggi sembrano quasi messi da parte o “forclusi”, inten-
zionalmente rimossi, nell’omiletica e nella riflessione teologica, in particola-
re in ambito cattolico, o meglio si svolgono in comunità che rischiano di es-
sere o diventare nicchie, soprattutto in Italia e in Europa. Eppure si tratta dei
temi-momenti/chiave dell’esistenza, nei quali vita et mors convertuntur.
Notevoli però le prese di posizione, di stampo talora anche integralista
o para-integralista, da parte di alcuni mass-media, a proposito della “strage
di Natale” (brutto titolo giornalistico) in Nigeria: il missionario padre Giulio
Albanese si è sforzato di dimostrare che «non si tratta semplicemente di
rappresaglie anticristiane», ma i gestori dei media tendono a privilegiare
l’aspetto sensazionalistico, per cui i martiri saranno rigorosamente solo cri-
stiani (cattolici, se possibile), peraltro dimenticando il vero significato del
lemma “martire” che è quello di testimone, prima di quello, secondo, di
“torturato e messo a morte”.
In questo senso è anche da sottolineare come certo fanatismo insito già
nei primi cristiani (per non dire degli errori e anche dei crimini della Cristia-
nità, recentemente riconosciuti ma sempre con troppa prudenza e con ripetu-
ti “colpi di coda” all’indietro) possa rendere almeno parzialmente vero
quanto scrive Giuliano l’Apostata nel suo Katà tòn Galilaìon (Contro i Gali-
lei, ossia, per Giuliano, i Cristiani), pamphlet per la rinascita di un pagane-
simo di ispirazione misteriosofica e neoplatonica, composto intorno al 362:
«se qualcuno esamina con attenzione la vostra religione, troverà che le vo-
stre empietà provengono in parte dalla ferocia e dall’insolenza degli Ebrei e
in parte dall’indifferenza e dalla volgarità dei Pagani»3. Il processo di incul-
turazione dei primi cristiani – si può tradurre più modernamente e in manie-
ra più equilibrata – si svolgeva a partire dalle Scritture, ossia da un Antico
Testamento con tratti culturalmente anche feroci (derivanti da una lettura
2 E. Cardenal, Das Evangelium der Bauern von Solentiname (originale spagnolo: El
Evangelio de Solentiname, 1977), Wuppertal, Peter Hammer, 1981, p. 39 (qui è
l’omelia della messa di mezzanotte del Natale del 1972, a pochissime ore dal terribile
terremoto di quell’anno a Managua e in altre parti del Nicaragua). 3 Traduco il testo dalla nuova edizione francese, che riprende, con pochi aggiustamenti, la
classica traduzione settecentesca: Défense du paganisme, Paris, La Mille et Une Nuit,
2011, pp. 52-53; per una contestualizzazione storico-culturale di questa figura, diversa
da quella di un Celso, si veda la postfazione di Yannis Constantinidès.
22
letterale e superficiale, non sorretta da esegesi e ermeneutica) e da un paga-
nesimo i cui caratteri di fondo il “pagano illuminato” Giuliano imperatore
(l’Apostata) conosceva bene e criticava “dall’interno”.
«Le volpi hanno una tana e gli uccelli hanno un nido, ma il figlio
dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58). Sofisticate letture di que-
sto passo, inserito ancora nel “secondo annuncio della Passione”, hanno fat-
to (o, talora, voluto far) perdere di vista la definizione di Gesù quale profu-
go, “ricercato”, escluso dai “circoli buoni” della società. Non si tratta di
avallare necessariamente opere come quelle di Joel Carmichael e Adolf Holl
su “Gesù come rivoluzionario” o “in cattiva compagnia”: ma negare che
Cristo fosse escluso, per le sue concezioni, dalla “società ufficiale”, dei
Sadducei e dell’Impero romano, appare molto difficile.
Il Margine, 32 (2012), n. 3
23
La fuga davanti a Dio
Un’opera di Max Picard
per riflettere sulla modernità
MAURO STENICO
a storia della filosofia rivela talvolta l’esistenza di scritti brillanti, ma
generalmente considerati secondari, di qualche autore noto a pubblico e
specialisti per altre opere. A volte accade persino di imbattersi in un pensa-
tore quasi integralmente “nascosto”, ignoto ai manuali di studio. È il caso di
Max Picard (1888-1965), nato in Germania da genitori svizzeri ebrei1. Vis-
suto dal 1919 alla sua morte in Canton Ticino, la sua opera è stata recente-
mente rivalutata nel corso, tra l’altro, di un simposio internazionale tenutosi
a Trento nel dicembre 20092.
Die Flucht vor Gott (La fuga davanti a Dio)
Nei suoi scritti, Picard propone la riflessione su tematiche da egli rite-
nute connaturali all’essenza umana, come il silenzio, il rapporto con Dio, il
volto, il matrimonio, la parola, la libertà. Alle pubblicazioni su questi temi
fanno da corredo pensieri esposti in relazioni epistolari3, appunti di viaggio
4,
altri lasciti pubblicati postumi5. Nella produzione letteraria picardiana, Die
1 Per la biografia: Gabriele Picard, Max Picard: cenni biografici e problematica religiosa,
in Come all’inizio del mondo. Il pensiero di Max Picard, con l’inedito Max Picard,
L’atomizzazione della persona, a cura di Silvano Zucal, Daniele Vinci, Il pozzo di
Giacobbe, Trapani 2011. 2 Come all’inizio del mondo.
3 Nacht und Tag. Briefe an eine Freundin (Notte e giorno. Lettere ad un’amica), Eugen
Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 1967; Briefe an den Freund Karl Pfleger (Lettere
all’amico Karl Pfleger), Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich- Stuttgart 1970. 4 Zerstörte und unzerstörbare Welt (Mondo distrutto e indistruttibile), Eugen Rentsch
Verlag, Erlenbach-Zürich 1951. 5 Das alte Haus in Schopfheim (La vecchia casa a Schopfheim), Eugen Rentsch Verlag,
Erlenbach-Zürich 1974; Fragmente aus dem Nachlass 1920-1965 (Frammenti
dall’eredità 1920-1965), Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 1978.
L
24
Flucht vor Gott6 (1934) assume i tratti di una “svolta”, date l’intensità, la
critica e la profondità dell’analisi sullo status dell’uomo e della società mo-
derna. L’Autore vi delinea le conseguenze generate dalla perdita della rela-
zione della persona con la trascendenza. Al momento della stesura
dell’opera, Picard vive da ormai quindici anni in Ticino. Ha già pubblicato
la sua tesi di laurea in medicina sulla paralisi di Lue (1912), uno scritto sul
cittadino, articoli in riviste culturali tedesche, opere sull’arte, uno scritto cri-
tico sulla figura umana (1921)7, uno di fisiognomica (1929)
8. Dalla Svizze-
ra, Picard vede un’Europa in subbuglio e tesa. Guardando a Est, egli vede
gli esiti nefasti della rivoluzione bolscevica e il trionfo di Stalin nella Russia
dell’ateismo e del materialismo dialettico. È però per il Nostro l’umanità in-
tera ad aver ormai perso la propria identità nel ‘mondo della fuga’ (da Dio).
Dio ha donato e si è donato all’uomo (Incarnazione), avrebbe detto in
un’opera successiva, ma al movimento discendente della Grazia l’uomo ha
prediletto un movimento che parte da se stesso9. Tutto quanto appartiene al-
la struttura essenziale della persona, ricorderà altrove il pensatore ticinese, è
da lei posseduto nella forma del dono, un a priori (das Vorgegebene, lette-
ralmente: ‘il pre-dato’) che è frutto d’amore10
.
Premessa: il mondo della fuga
Non è in sé esclusiva della contemporaneità la fuga dell’uomo da Dio.
La novità risiede però nel fatto che la fuga è oggi generalizzata, è divenuta
‘mondo’: l’umanità intera volge le spalle al Creatore. Se
«in tutte le epoche l’uomo è fuggito davanti a Dio […] in questo la fuga di oggi si
distingue dalle altre: […] prima la fede rappresentava il generale, preesisteva al sin-
golo […] la fuga si verificava unicamente nel singolo, si compiva solo con un atto
decisionale mediante il quale il singolo, che doveva anzitutto creare la sua stessa fu-
6 Die Flucht vor Gott, Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 1934. In traduzione ita-
liana: La fuga davanti a Dio, a cura di Carla di Scipio, Edizioni di Comunità, Milano
1948. 7 Der letzte Mensch (L’ultimo uomo), E. T. Tal & Co. Verlag, Leipzig 1921.
8 Das Menschengesicht (Il volto umano), Delphin Verlag, München 1929.
9 Cfr. Die unerschütterliche Ehe (Il matrimonio incrollabile), Eugen Rentsch Verlag, Er-
lenbach-Zürich 1945, p. 45 e seguenti. 10
Der Mensch und das Wort (L’uomo e la parola), Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-
Zürich 1955, p. 11.
25
ga, se voleva fuggire, si staccava dal mondo della fede. Oggi avviene il contrario: la
fede come mondo oggettivo è distrutta, il singolo deve ogni volta creare daccapo la
fede […] poiché la fuga, non più la fede, esiste quale mondo oggettivo» (p. 11)11
.
L’uscita dal mondo della fuga rappresenta oggi l’eccezione, mentre un
tempo era il contrario: fuggire era l’eccezione.
La perdita dell’identità nel mondo della fuga, ovvero: preda del conti-
nuum del divenire
Secondo Picard, la drammaticità della situazione è tale che l’uomo non
può più nemmeno sentirsi in colpa per l’atto del fuggire (da Dio). La fuga
non è più una scelta, ma, una volta generata, è divenuta il contesto generale
al quale ci si adegua “per natura”. La persona non controlla più il suo stesso
prodotto, che si configura come una massa amorfa e in continua crescita nel-
la quale ogni qualità viene dissolta nella quantità (materiale). Non c’è identi-
tà nel mondo della fuga: non importa chi fugga, ma solo fuggire. L’opposto
accade nel mondo della fede, ove il singolo non perde la sua soggettività al
cospetto di Dio: parte di una comunità, egli possiede anche un valore ine-
stimabile come creatura individuale pensata dal Creatore dall’eternità.
L’aspetto temibile della fuga «è questo: l’uomo non è ormai più necessario
alla fuga, dato che non si tratta più della sua fuga; qualcos’altro può fuggire
in sua vece […] Egli viene eliminato, espulso dalla sua propria fuga […]
dov’è lui, l’uomo?» (pp. 17-18).
Una sola, nel mondo della fede, è la relazione fondante l’identità uma-
na: quella con Dio. Anche il credente muta nel tempo (ad es. invecchia), ma
tale cambiamento non implica un abbandono di Dio. Il Creatore è la certez-
za, il fondamento. Il fuggitivo, invece, ricerca la propria identità nella mol-
teplicità materiale, ma in tal modo finisce per esser preda dell’istante e di
quanto si presenta in esso. La persona è così dispersa nella pluralità: gli og-
getti stessi non hanno più valore per il loro carattere ‘creaturale’ e di stru-
menti al servizio di un fine, bensì perché base per un’ulteriore molteplicità:
quanto più può derivare da un oggetto, tanto più questo è stimato. Gli enti,
dunque, sono ridotti a rampa di lancio per il ‘volo’ verso ‘altro’. In tal modo
11
Dalla presente citazione in poi, i numeri di pagina si riferiscono a Die Flucht vor Gott (i
corsivi sono nell’originale); la traduzione è eseguita dell’autore del presente contribu-
to.
26
viene però meno anche l’identità delle cose, dissolta nella categoria della
possibilità (potenzialità): «Questo è il mondo della fuga […], mondo […]
della possibilità […]. Una cosa produce l’altra non affinché questa esista,
bensì perché così viene prodotta un’altra possibilità» (p. 22).
Niente è certo, determinato. Le possibilità, tuttavia, non costituiscono
nel mondo della fuga un qualcosa che può produrre vere novità: il fuggitivo
ha già pre-catalogato tutto. Allorché l’evento si verifica, non deve far altro
che trovarne il posto nella lista. Niente può destare meraviglia. L’unico ti-
more è quello della corretta catalogazione. Dotato di identità stabile, il cre-
dente regola invece le proprie azioni non sul momento (carpe diem), ma sul
lungo termine; l’identità illusoria del fuggitivo è al contrario connessa alla
potenzialità del momento: «L’uomo della fuga […] continuamente si costi-
tuisce, continuamente torna a dissolversi […] non possiede una misura pre-
cisa in base alla quale regolarsi, ma solo le possibilità» (p. 24).
Il tempo stesso, forma esistentiva del creato fisico, è dissolto nella for-
ma di un continuum monotono e privo di intervalli di qualità12
. È necessario
che sia così: chi si ferma potrebbe essere raggiunto da Dio, l’Inseguitore13
.
Non c’è passato, non c’è futuro. Nel mondo della fede la partizione tempo-
rale si staglia sullo sfondo dell’eternità, pilastro di ogni istante di vita. Nella
fuga le parti del tempo sono mescolate, conta solo la potenzialità del “nuo-
vo” offerta dall’istante14
. L’io si frammenta, adotta una “maschera” per le
esigenze del momento. Per Picard – non a caso – la schizofrenia è una delle
malattie tipiche dell’uomo moderno. Paradossalmente, la cosa in apparenza
più stabile è quella che in sé non lo è affatto: il chiacchiericcio, nel quale
tutto appare e scompare, tutto viene livellato. Non sorprende che il fuggitivo
tema l’amore, che è il soffermarsi per eccellenza sull’amato, un intrattenersi
presso questo, una pausa di qualità che si sottrae al continuum mobile della
fuga:
«È l’amore che trattiene l’uomo dal rendersi mobile per la fuga. Una persona che ne
ami un’altra o che ami qualcosa, considera l’amato in tutti i suoi aspetti e con cal-
ma, verificando se nell’amato non vi sia un qualche punto che egli ancora non ami;
12
«Nella fuga l’essere intero viene dissolto nel divenire» (p. 46). 13
Il tedesco Verfolger può essere tradotto con ‘inseguitore’, ad indicare la dinamica per la
quale l’uomo deve fuggire da un Dio che lo insegue, ma altro suo significato è ‘perse-
cutore’, a suggerire quanto l’uomo della fuga tema il Creatore. 14
Sul tema del ‘potenziale’, cfr. anche Max Picard, Wo steht heute der Mensch?, in Hans
W. Bähr, Wo stehen wir heute?, Bertelsmann Verlag, Gütersloh 1960, pp. 95-106.
27
[…] ciò sottrae troppo tempo alla fuga, nella quale l’uomo vuole essere sempre in
movimento. Per questo il mondo viene sistematicamente privato d’amore. Tutte le
relazioni nelle quali esso possa trovarsi – matrimonio, famiglia, amicizia – vengono
distrutte dagli uomini della fuga. Si tenta di trasformare il matrimonio, l’amicizia e
la famiglia in meri legami esteriori […] [ove] si è solamente gli uni vicini agli altri
per fuggire insieme» (pp. 54-55).
L’amore è temuto soprattutto perché potrebbe ricondurre il fuggitivo,
anche solo per un istante, anche solo come ricordo, al Sommo Amore: Dio.
Laddove è nient’altro che mera possibilità dell’istante, laddove è assenza
totale di stabilità, scompare tra l’altro pure la distinzione tra menzogna e ve-
rità. Menzogna e verità, infatti, rappresentano una determinazione stabile
della cosa, che è un impedimento alla fuga. Niente deve essere determinato
nel bene o nel male. Tutto deve essere semplicemente ‘possibile’; anche Dio
è degradato al rango di possibilità:
«Non c’è fede nel mondo della fuga. Laddove tutto è possibile, non c’è infatti biso-
gno di credere. Dio è degradato a possibilità, degradazione più infima della stessa
impossibilità […] Nel mondo della fuga si vive del dire “possibile”; non si rischia
alcunché con codesto “possibile” […] Dio è mera possibilità» (pp. 29-30).
Le illusioni della fuga: identità ‘alternative’
Nel meccanismo generale del ‘possibile’, l’umanità astratta prende per
Picard il posto dell’uomo concreto. La persona concreta occupa infatti uno
spazio preciso, impenetrabile al resto. L’astrattezza, al contrario, implica la
permeabilità reciproca degli oggetti: da una cosa si deve poter passare
all’altra, senza sosta. Come il credente, anche il fuggitivo è creatura, e pos-
siede le medesime esigenze del primo: Picard riconosce come colui che fug-
ge percepisca un vuoto interiore, incolmabile dal continuum del divenire.
L’uomo della fuga è infelice. Affinché l’infelicità non prenda il sopravvento
totale, servono rimedi per colmare il vuoto, per trovare un’identità (provvi-
soria). La soluzione perfetta sarebbe l’uscita dalla fuga, atto in qualsiasi
istante a tutti possibile (conversione), purché scelto con onestà, grazie alla
misericordia divina che pervade il creato intero. Generalmente il fuggitivo
non concepisce questa eventualità, e le predilige rimedi apparenti, tra i quali:
1) soggettivismo; 2) sfruttamento di verità e menzogna nella forma di mezzi
per ottenere visibilità e indifferenti al contenuto delle asserzioni; 3) radicali-
28
smo nelle parole o nelle azioni; 4) raggruppamento meccanico-esteriore de-
gli uomini per ‘tipologie’; 5) adesione a sètte o associazioni per meri scopi
di visibilità; 6) slogan e simboli attorno ai quali possano raccogliersi gruppi
di persone; 7) raggruppamento al cospetto di ‘grandi’ uomini o ‘grandi’ ope-
re (anche letterarie); 8) la ricerca dell’‘originale’ (ad es. nei manufatti), che
conferisce particolarità – dunque visibilità – all’oggetto in questione.
Anche coloro che fuggono si rendono conto della superficialità delle
soluzioni menzionate. Il legame con Dio, connaturale all’essenza umana,
non può dunque essere soddisfatto in tal modo. La sua energia viene perciò
rivolta alla fuga, che diviene la dèa dei fuggitivi: «Coloro che fuggono vo-
gliono sempre aver presenti […] le caratteristiche di Dio […] per poter così
imparare a difendersi da lui […] La fuga intera è predisposta come mostruo-
sa imitazione a mezzo della quale i fuggitivi si esercitano contro Dio» (p.
91). La fuga imita quindi Dio nella speranza di poterlo sostituire. Questo an-
che nel senso che gli attributi divini nel corso dei secoli indagati da filosofia
e teologia (infinità, onnipresenza, onniscienza, immutabilità…) le vengono
imputati.
La speranza non muore: l’uscita dalla fuga
In conseguenza della riduzione dell’essenza umana, nel mondo della
fuga risultano snaturate l’economia, la lingua, gli oggetti, il volto, la natura,
l’arte, la letteratura, la città, la scienza – una scienza che per Picard è ridotta
a meccanismo autonomo dall’uomo nel quale ciò che è (apparentemente)
“nuovo” non è altro che il risultato di un continuo mescolamento meccanico
di parti preesistenti. Lo scienziato è quindi ormai solo descrittore, non più
protagonista. Aspetto particolarmente drammatico della fuga è per l’Autore
la perdita dell’immaginalità (Bildhaftigkeit) degli enti. Creati da Dio, che è
essenza infinita e perfetta, gli enti rispecchiano un loro modello ideale del
quale non possono essere che parziali espressioni. L’immagine – il modello,
l’idea – è sempre infinitamente superiore alla sua concrezione materiale. È
per questa ragione che Picard ritiene che in ogni ente sia pre-sentibile il ‘di
più’ (das Mehr), l’eccedenza – tema fondamentale delle sue opere:
«Poiché fu Dio a creare uomini e cose, in essi v’è più di quanto richiesto per il loro
mero esistere. Laddove Dio crea, si costituisce un’eccedenza ben al di là del pura-
mente necessario. Gli oggetti vivono in codesta eccedenza […] vi si rinnovano con-
tinuamente […] L’eccedenza non è concepibile con la ragione, e nemmeno con un
29
qualche vago sentire, bensì solo con l’amore. L’amore è l’equivalente di questo più.
Immagine e amore appartengono l’una all’altro […] stanno l’uno di fronte all’altra,
si struggono […] L’immagine […] è luogo di incontro di amore ed eccedenza» (pp.
164-165).
L’immagine conferisce un centro all’oggetto, nonché la naturale incli-
nazione al ritorno all’origine (il mondo delle idee), molto chiara nel mondo
della fede. È grazie a questa traccia di infinito che le cose sono più “leggere”
di quanto parrebbe rispetto alla loro pesantezza materiale. L’immagine è an-
che qualcosa che trattiene, di fronte al quale l’uomo, rivolto all’immagine
divina originaria (göttliches Urbild), deve soffermarsi. Strumento per un ri-
torno a Dio, immagine e amore non possono essere benvenute nel mondo
della fuga.
La grandezza della misericordia divina può per Picard scorgersi quando
si consideri come probabilmente sia stato Dio stesso a rendere possibile la
sua “scimmiottesca” imitazione da parte della fuga. Anziché permettere il
distacco totale da sé, il Creatore ha consentito il sussistere almeno
l’imitazione dei suoi attributi affinché il fuggitivo abbia sempre la possibili-
tà di giungere a Lui – l’imitazione di Dio genera comunque un ricordo di
Dio – uscendo dalla fuga. Il mysterium iniquitatis non è dunque compatibile
con la distruzione completa della fede. Anzi: «l’intero mondo della fuga sa-
rebbe già crollato a pezzi, se non fosse tenuto insieme dall’amore di Dio» (p.
167).
Dio non turba il libero arbitrio umano, ma sorveglia comunque la di-
namica della fuga, affinché non si assolutizzi. Il fuggitivo incontrerà Dio
ovunque. Essendo il Creatore onnipresente ed eterno, Egli ha raggiunto da
tutta l’eternità i luoghi nei quali i fuggiaschi cercheranno riparo da lui. Ecco
verificarsi il rovesciamento dialettico frutto dell’amore divino: il fuggitivo
scappa, ma poiché lo ha anticipato ab aeterno, sembra sia il fuggitivo a in-
seguire Dio. Prendere coscienza della vicinanza di Dio all’uomo può in
qualsiasi istante porre fine alla fuga. Quanto più si fugge, tanto più Dio di-
viene evidente:
«Sempre lo si ha vicino, l’inseguitore, sempre è possibile tornare a lui con un balzo
e porre fine alla fuga […] Signori del mondo della fuga volevano essere i fuggitivi,
ma ora non sono che inservienti […] di Dio. Devono aiutare Dio a venir visto chia-
ramente. Mai più un uomo potrà dire di non poter credere che Dio esista, che Dio
non sia quindi che una possibilità» (p. 197).
Il Margine, 32 (2012), n. 3
30
In dialogo
con la cultura postmoderna
GIUSEPPE MOROTTI
La seguente riflessione è stata presentata nel novembre
2011 all’Istituto Teologico di Bolzano e riproposta in
due parti nel mese di gennaio 2012 ad un gruppo di
adulti che si riunisce regolarmente nella parrocchia Tre
Santi di Bolzano.
a cultura in cui tutti noi siamo cresciuti e abbiamo trascorso la nostra
giovinezza è stata la cultura moderna, detta anche della secolarizzazio-
ne. Una cultura che poneva molta fiducia nell’uomo, nella sua razionalità,
nella sua autonomia, nella sua capacità di risolvere tutti i problemi
dell’umanità con l’aiuto della scienza e della tecnica. Un uomo guidato da
grandi ideali, utopie e ideologie ben definite che si fondavano su verità asso-
lute di libertà, di progresso, di sviluppo e di benessere per tutti. Una cultura
animata quindi da valori profondi e alla quale da una parte dobbiamo essere
grati dato che ci ha permesso di raggiungere le più alte cime del pensiero,
dell’arte, della scultura, della scienza, della tecnica.
Ma ponendo la ragione al di sopra di tutto, la società occidentale mo-
derna ha fatto di essa “una ragione armata” che con l’aiuto di una scienza e
di una tecnica asservite al mito di un mercato sempre più globalizzato è
giunta a dominare dispoticamente il mondo.
Di conseguenza, «assistiamo ad una dimensione consumistica delle re-
lazioni e ad una dimensione relazionale dei consumi. Proprio per questo ci
troviamo di fronte ad una popolazione di individui sempre più svincolati,
lontani, insofferenti, disillusi ed insicuri»27
.
27
Daniela Capitanucci in “Prospettive”, aprile 2006, p. 16.
L
31
La cultura post-moderna
Ci troviamo però ora a essere sempre più immersi nella cultura “post-
moderna”, nata in gran parte in reazione agli eccessi e alle contraddizioni
della cultura moderna. È la conseguenza di aver esperimentato quanta vio-
lenza e spersonalizzazione possa causare ogni sistema e ogni ideologia tota-
litaria, sostenuta da una razionalità sempre più scollata dalla vita reale e che
prende sempre meno in considerazione la persona e le relazioni interperso-
nali.
«Mentre la modernità si poggiava sulla convinzione che esercitando la
ragione il mistero della vita avrebbe potuto essere sciolto, la post-modernità
si gioca invece sull’idea opposta: esercita la ragione fino in fondo e sarai
posto di fronte al mistero»28
. Dopo aver costatato che i sogni di un progresso
senza limiti si stanno ritorcendo negativamente, in alcuni casi in modo cata-
strofico sulla persona, sulla natura e sull’umanità presente e futura, la cultu-
ra post-moderna riposa piuttosto sull’immediatezza (non si cerca più tanto
lontano), sull’individualismo (non si guarda più tanto attorno),
sull’irrazionale, sulla sensazione del momento, senza mirare né troppo in
alto né troppo lontano e senza arrischiarsi in compromessi a lungo termine
(ed ecco i timori nei confronti del matrimonio, del celibato o di un lavoro
vincolante per tutta la vita...).
La cultura odierna porta in sé, inoltre, un rifiuto viscerale di tutto ciò
che si presenta come assoluto, normativo, coercitivo e uniformante, che si
propone con intolleranza, autorità, rigidità, troppa sicurezza e troppa chia-
rezza. Si avverte sempre di più, da parte in particolare dei giovani che pur
coltivano un sentimento religioso, un atteggiamento che non è neppure di
opposizione, ma peggio ancora di indifferenza nei confronti delle Chiese e
dei partiti. Non esiste più un ateismo militante: al contrario si ricorre volen-
tieri a tutti i credi religiosi prendendovi semplicemente quello che soddisfa
in quel determinato momento. Tutto questo favorisce una relativizzazione e
una frammentazione detta anche “atomizzazione” della vita, della conoscen-
za e della morale in cui ciascuno diventa il criterio della verità stessa. Ognu-
no si sente libero, di conseguenza, di costruire una propria etica e delle veri-
tà personali, di fondarsi sull’immediatezza, le sensazioni e i sentimenti del
momento, cercando di soddisfare immediatamente desideri sempre nuovi.
Viviamo quindi di conseguenza un’epoca intrisa dalla cultura dell’eccesso e
28
Vito Mancuso in “Oreundici”, n. 10/ 2011, p. 9.
32
del virtuale, intendendo con ciò l’abolizione del limite e la ridefinizione
soggettiva del reale. «È l’epoca delle parole senza pensiero» (Andreoli).
«L’epoca liquida delle comunità estetiche», la definisce il sociologo polacco
Baumann.
Nei confronti di questa nuova cultura, che sembra aver fatto piazza pu-
lita delle certezze e dei valori su cui in passato eravamo invitati a giocare la
nostra vita, due sono essenzialmente i modi di reagire che si riscontrano nel-
la società, nella Chiesa e sicuramente in ciascuno di noi.
Reazioni di contrapposizione
La prima reazione, che potremmo definire anacronistica, di contrappo-
sizione e di difesa a oltranza, la ritroviamo innanzitutto nei movimenti na-
zionalisti e separatisti che si propongono di difendere la propria identità e le
proprie sicurezze psicologiche, sociali, culturali ed economiche chiudendosi
dietro le proprie mura e le proprie certezze, difese anche in modo fanatico,
manifestando così un bisogno profondo di una appartenenza che dia loro si-
curezza.
Ritroviamo questa reazione di difesa anche in forze che all’interno del-
la Chiesa si organizzano sotto forma di movimenti ben strutturati che, con
l’intenzione di difendersi da questa frammentarietà, si pongono in blocco, in
modo autoritario, monolitico, dogmatico, favorendo un ritorno a verità forti,
a logiche unificanti e a etiche tradizionali e fondamentaliste. Una Chiesa,
dobbiamo confessarlo, presente anche in ciascuno di noi, tentata di coltivare
ancora il sogno della “cristianità”, preoccupata più di distinguersi dal mondo
che di dialogare con esso. Una Chiesa tentata di farsi forte delle proprie cer-
tezze, delle proprie definizioni di Dio, dei propri dogmi, della propria mora-
le, che si sente maestra in tutto e di tutti anziché compagna di viaggio, ma-
dre, amica, sorella e in cui di conseguenza vengono poco rispettati il plurali-
smo, la diversità, il dialogo, l’ascolto, la messa in discussione e la concerta-
zione della base.
Reazioni costruttive e dialoganti
Accanto a queste reazioni anacronistiche si fa avanti oggi con forza,
anche se discreta e silenziosa, tra i credenti e i non credenti, una seconda
33
reazione. Pur tenendo presenti i forti limiti di questa cultura post-moderna, il
primo dei quali è quello di favorire lo sviluppo di un libero mercato e di un
capitalismo sempre più selvaggio (di cui è figlia) e di incoraggiare l’uomo al
soggettivismo e all’’individualismo, si cerca tuttavia di entrare in un dialogo
costruttivo con essa.
Ci si lascia provocare, interrogare e ricondurre ad aspetti e a valori fi-
nora messi non sufficientemente in evidenza del Vangelo stesso. Si cerca la
propria unità non rinchiudendosi sugli stereotipi del passato, ma dischiuden-
dosi a una nuova autenticità, meno ideologica e più rispettosa della persona,
della sua libertà e più aderente alla vita e al servizio di essa. Ci si rende così
conto che il mondo di oggi non è affatto un mondo senza valori e senza pun-
ti di riferimento. Questi sono invece differenti e senza dubbio con basi meno
istituzionali, meno massicciamente diffuse, meno trionfaliste, meno ideolo-
giche, più personali e più pluraliste:
- una nuova morale, meno dogmatica, meno settaria, più aderente alla
vita, più rispettosa della singolarità di ogni persona e orientata a favorire
“una mutua fecondazione delle differenze”.
- un’attenzione maggiore al momento presente, al caso concreto, alla
persona singola, al bisogno immediato, alla vita fatta di «dettagli e gesti
quotidiani, lenti, per questione di intensità», con meno propensione alle ge-
neralizzazioni, alle razionalizzazioni, alle massificazioni, alle assolutizza-
zioni ed alle ideologizzazioni.
- un invito a “disarmare la nostra ragione” facendo maggiore attenzione
a ciò che è vissuto personalmente in una maniera forte, umana, poetica,
emotiva, sentimentale, spirituale, appassionata, privilegiando i testimoni ai
maestri e ai moralisti, la persona del Cristo ed il suo Vangelo ai catechismi.
- la propensione a mantenere davanti a tutto e a tutti una attitudine umi-
le, rispettosa, aperta e dialogante, a non lasciarsi prendere dalla frenesia,
dall’efficacia e dall’utilitarismo per curare in particolar modo l’amicizia, il
rispetto del creato, la cura del proprio corpo, il tratto umano, la qualità e
l’ecologia dei propri legami.
- la capacità di discernere e il coraggio di perseguire tutto ciò che è ve-
ro, autentico, coerente e prettamente umano, di entrare in profonda empatia
con la sofferenza letta direttamente negli occhi e nel volto di qualcuno,
coinvolgendosi in prima persona, con tutto se stessi e senza calcoli di sorta.
Di indignarsi per una ingiustizia subita, di spendersi fino in fondo in un vo-
lontariato che risponda ad un bisogno concreto, preciso ed immediato.
34
- «La propensione mistica di stare nel mutamento, nel dissolversi delle
forme e dei contenitori, nella provvisorietà dei tempi, con la percezione che
nessuna misura ci contiene e ci racchiude in modo definitivo e discernere in
questo agone il pungolo d’Infinito che brilla nel finito»29
.
- «La possibilità di imparare a vivere in maniera creativa ed inventiva
anche nelle situazioni di incertezza, di crisi, di instabilità, di ambivalenza e
di disparità, dove convivono sempre di più persone di tutti i credi, di tutte le
culture, di tutte le classi sociali, percependosi ciascuno e ciascuna molecole
di aperto, soglie dell’incommensurabilità del mistero umano e divino».30
- L’ardire di trovare gioia perfino nell’insicurezza. Come diceva Sirio
Politi, il prete che viveva e lavorava nel porto di Viareggio:
«C’è una sicurezza che deve essere scoperta: la sicurezza che deriva dal riconoscere
e accettare con serenità e libertà la propria insicurezza e quella di tutte le cose. Poi
bisogna umilmente e fraternamente appoggiare questa nostra insicurezza alla insicu-
rezza di tutti e permettere sorridendo che gli altri facciano altrettanto con noi. Di qui
non ne verrà certamente una forza ma sicuramente la gioia dei poveri che non hanno
nulla e che fraternamente si dividono il loro pezzo di pane. Sembra strano ma
l’amore nasce e fiorisce soltanto nella insicurezza, in questa misteriosa povertà del
cuore serenamente accettata e dolcemente offerta»31
.
Non sono tutti questi aspetti che ci danno la possibilità di ricomprende-
re l’umano oltre che le Beatitudini di Gesù e lo Spirito del Suo Vangelo in
modo nuovo, motivante e suggestivo?
Non è vero dunque che la società odierna sia una società senza valori.
Un dialogo sincero con essa, al di là dei limiti che la contraddistinguono,
può perfino aiutarci a riscoprire aspetti dell’umano e del Vangelo che nel
passato erano tenuti in ombra.
Riferendoci al campo religioso, notiamo che, se dal punto di vista delle
sue manifestazioni tradizionali ed ecclesiali la partecipazione è in forte calo,
c’è invece un considerevole risveglio per le tematiche e le esperienze reli-
giose e spirituali. Si parla tanto di crisi della vita religiosa consacrata e ci si
lamenta del fatto che i seminari e i conventi sono sempre più vuoti. D’altra
parte questi stessi conventi e monasteri, come quello di Camaldoli, di Ma-
guzzano, di Villa Sant’Ignazio, di Bose, se sono sempre più vuoti di persone
che si consacrano con i voti per tutta la vita, sono al contempo sempre più
29
Ivan Nicoletto, Transumananze, Camaldoli, 1998, p. 79. 30
Ivan Nicoletto, Transumananze, p. 33. 31
Pubblicato in www.lottacomeamore.it.
35
frequentati, per non dire invasi, da laici che impegnati nella vita comune,
sentono il bisogno di trascorrervi tempi sabbatici, momenti di ritiro, di silen-
zio e di meditazione. Oltre al cosiddetto “turismo spirituale” che sta diven-
tando sempre più di moda, sono molti coloro che si mettono in cammino per
giorni e giorni come pellegrini nel digiuno e nella preghiera per raggiungere
santuari o luoghi sacri. Sono sempre più numerose inoltre le persone che de-
cidono di trascorrere le proprie ferie negli agriturismi che permettono di vi-
vere momenti di riposo non solo fisico ma anche psichico e spirituale in sin-
tonia con il ritmo della natura.
Si nota al contempo un gran pullulare di nuove forme di vita religiosa
suscitate e animate dallo Spirito. Gruppetti di laici, di famiglie, celibi e spo-
sati, che senza troppe etichette e strutturazioni decidono di vivere insieme o
in stretto rapporto tra di loro. Piccoli gruppi o comunità che riscoprono il
gusto di una vita semplice, meno schiava del consumismo, più a contatto e
più rispettosa della natura e attenti a ciò che si coltiva, si acquista e si con-
suma. Gruppi che riscoprono l’importanza della parola di Dio, della medita-
zione, del silenzio e che animate da una amicizia profonda tra di loro, cerca-
no poi di vivere nelle maniere più svariate, alternative ed originali la coeren-
za al Vangelo. Famiglie che hanno il coraggio di ridurre il proprio lavoro e
quindi il proprio standard di consumo per una scelta di vita meno frenetica e
più relazionale. Persone che hanno perso l’abitudine di confessarsi con un
sacerdote ma che sempre di più desiderano confrontarsi fraternamente e
francamente da amico ad amico con lui. Persone che sempre più coscienti
dei propri limiti e delle proprie debolezze si lasciano guidare da un terapeuta
che le aiuti a meglio conoscersi e a meglio gestire le proprie conflittualità.
Molti di noi sono sempre più convinti insomma che «oggi dovremmo
ritenerci e soprattutto astenerci insieme ... investire una parte della potenza
nell’addolcimento della nostra potenza, poiché l’umanità diventa umana
quando riscopre il proprio limite e la propria la debolezza»32
.
Una nuova teologia e una nuova spiritualità
Questa selva silenziosa, questa «economia sommersa del Regno» (To-
nino Bello), è sostenuta anche da una nuova filosofia, una nuova letteratura,
32
Michel Serres, Tempi di crisi, Bollati-Boringhieri, Torino 2010, p. 37.
36
una nuova teologia e di conseguenza una nuova spiritualità che pur nella di-
screzione si fanno sempre più strada.
In campo filosofico ci basti ricordare la riscoperta fatta oggi degli scrit-
ti di Levinàs in cui si sostiene con forza la necessità di «regarder le visage»,
di riuscire cioè a guardare nel volto il proprio prossimo, sguardo che disar-
merà facilmente le nostre tensioni, le nostre paure, le nostre aggressività.
I giovani in particolare, ma anche persone molto meno giovani, hanno
colto nella personalità, e in particolare nelle parole testamentarie di Steve
Jobs (creatore della Apple) una sintesi avvincente del miglior spirito post-
moderno.
«Tutto quello in cui inciampai semplicemente seguendo la mia curiosità ed il mio
intuito si rivelarono in seguito di valore inestimabile... Dovete avere fede in qualco-
sa: il vostro intuito, il destino, la vita, il karma, quello che sia... Questo approccio
non mi ha mai deluso e ha fatto tutta la differenza nella mia vita... A volte la vita ti
colpisce in testa come un mattone. Non perdete la fede. L’unica cosa che mi ha
convinto ad andare avanti nonostante le difficoltà incontrate, è stato l’amore che
provavo per quello che facevo. Dovete trovare ciò che amate. Il lavoro riempirà
gran parte della vostra vita e l’unico modo per essere veramente soddisfatti è di cer-
care e di scegliere il lavoro che più sentite di amare...
Ricordare che morirò presto è stato lo strumento più importante che mi ha consenti-
to di fare le scelte più grandi della mia vita. Perché praticamente tutto – tutte le
aspettative, l’orgoglio, le paure di fallire – tutte queste cose semplicemente svani-
scono di fronte alla morte, lasciandoci con quello che è veramente importante. Ri-
cordarsi che moriremo è il modo migliore che conosco per evitare la trappola di
pensare di avere qualcosa da perdere. Siete già nudi... Non c’è nessun motivo per
non seguire il vostro cuore.
Il vostro tempo è limitato quindi non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro.
Non lasciatevi intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del
pensiero di altri. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui faccia affogare la
vostra voce interiore. Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e il vostro intui-
to. Loro sanno già quello che voi volete veramente diventare. Tutto il resto è secon-
dario»33
.
In campo teologico, abbiamo la riscoperta del Dio della Genesi che
crea separando, separandosi, un Dio che non è geloso dell’uomo ma è con-
tento di dargli tutta la sua autonomia. Un Dio che non vuole essere “neces-
sario” all’uomo ma che proprio per questo può veramente diventare interes-
sante perché Dio della gratuità che vuole instaurare con l’uomo un rapporto
33
“Ore Undici”, n. 11/2011, p. 26.
37
di alleanza, tra partner d’amore, improntato quindi sulla libertà, la corre-
sponsabilità, la reciprocità.
Non più il Dio possente e sterminatore dei profeti idolatrici dell’Elia
del Carmelo, ma debole e sempre rispettosamente vicino come la brezza
leggera dell’Oreb, definita da Enzo Bianchi «il silenzio trattenuto di Dio».
Non più il Dio assoluto, possessivo e fusionale della torre di Babele, «non
più il Kyrios Signore e Re egemonico e dai tratti esclusivamente maschili-
stici, ma il Dio amante della comunione nelle diversità, decisamente più al
femminile della Pentecoste. Il Dio Trinitario, comunità d’amore fra persone
uguali e distinte che si ricollega alla visione cosmo-teandrica della realtà che
vede le tre dimensioni costitutive: uomo e cosmo, in una profonda armonia e
comunione fra di loro»34
.
La riscoperta del Dio del presepe che si presenta a noi piccolo, povero,
umile, in punta di piedi..., un Dio che ci accoglie lasciandosi accogliere. Il
Dio dell’Eucarestia che si dona tutto ma sotto i segni semplici, umili, discre-
ti, rispettosi, quotidiani e silenziosi di un pezzo di pane e di un poco di vino,
caratteristiche di ogni autentico amore.
La riscoperta del Mistero dell’incarnazione, che ci spinge a cercare Dio
non più nelle alture dei cieli ma nelle profondità della nostra umanità: «Dio
non lo troverai nella moltiplicazione dei riti e delle formule ma quanto più
sprofonderai nel tuo essere umano, nella tua nuda santa, originaria umani-
tà»35
.
La riscoperta di un Dio che non è concepito solo come l’Onnipotente
creatore dei primi sei giorni ma anche come il Dio che il settimo giorno si
ritiene, si limita ed addolcisce la sua forza contento che i suoi figli diventino
sempre più responsabili e con-creatori.
«Mutazione di un Dio che diventa sempre più umano. Si va dal Dio “tappabuchi” o
del mantenimento dell’ordine, al Dio “scavabuchi” dell’ebbrezza dell’amore, diven-
tando interessante per l’uomo di oggi così geloso della sua autonomia e della sua li-
bertà... All’umana propensione dell’uomo che sentendosi fragile e vulnerabile si è
sempre assicurato di definire chiaramente la mappa del mondo, di colmare tutti i
vuoti e tutte le distanze, si sostituisce oggi la percezione di una Presenza Divina che
è da nessuna parte e dappertutto, vacante, libera da ogni uso e consumo... e tuttavia
permette ed accompagna tutto ciò che sta per accadere. Significa un Regno di Gra-
zia... accogliere Dio come elemento squilibrante rispetto alla nostra presa, alla sicu-
34
Francesco Comina, Il cerchio di Panikkar, Il Margine, Trento 2011, p. 66. 35
Giovanni Vannucci, Invito alla Preghiera, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1979, p.
15.
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rezza a cui aneliamo, alle risposte che vogliamo... Significa imparare a vivere in
maniera creativa ed inventiva nelle situazioni di incertezza, di crisi, di transito, di
sospensione, di sfacelo, di ambivalenza, di disparità, di contaminazione, dove con-
vivono cose di tutti i tipi... Significa far circolare Dio come stupore, amore, deside-
rio, sovrappiù, immenso indicibile, soffio che spira leggero.
Dio allora potrebbe essere:
- tutto quello che non smette di muoverci.
- tutto quello che in me non mi basta e mi lascia aperto su altro.
- tutto quello che in me piange e piangerà fino all’ultimo.
- tutto quello che non mi permette di chiudere un altro nei limiti dei suoi difetti e ca-
renze ma mi mantiene nella sorpresa di un di più che lo attraversa.
- tutto quello che apre, essendo Dio L’Apertura spalancata e senza fondo, che fa in
modo che il mondo si faccia, si compia...e al quale noi possiamo affidarci, sperarvi,
amarlo»36
.
Nuove e coinvolgenti visioni del mondo, dell’umanità e di Dio, che so-
no state rimesse in luce proprio dalla nuova sensibilità che la cultura odierna
sta maturando in noi e attraverso di noi. La cultura di una società che a pri-
ma vista potrebbe apparire refrattaria alle forme di religiosità tradizionali ma
assolutamente non senza valori e senza Dio. Visioni nuove che in un primo
tempo possono anche in qualche modo urtare e ferire la sensibilità e le cer-
tezze di noi credenti più adulti ma che nel medesimo tempo possono render-
ci non solo più al passo con i tempi ma anche più liberi, più umani e più
simpatici.
36
Ivan Nicoletto, Transumananze, p. 86.