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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione d’Impresa e Comunicazione Pubblica Tesi in Semiotica e Comunicazione Dall’Archetypal Branding allo Storytelling: gli archetipi come “leve universali” della comunicazione d’impresa Relatore Ch. ma Prof.ssa A.Cicalese Candidato Marco Fiore matr. n. 0322700274 Correlatore Ch. mo Prof.re E. D’Agostino Anno accademico 2012/2013

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione d’Impresa e

Comunicazione Pubblica

Tesi in

Semiotica e Comunicazione

Dall’Archetypal Branding allo Storytelling: gli archetipi come

“leve universali” della comunicazione d’impresa

Relatore

Ch. ma Prof.ssa A.Cicalese

Candidato

Marco Fiore

matr. n. 0322700274

Correlatore

Ch. mo Prof.re E. D’Agostino

Anno accademico 2012/2013

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A mia madre e a mio padre.

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Indice

Introduzione 6

Capitolo I: Gli “Archetipi” e le strutture fondamentali della narrazione 9

1.1 Bruner e il pensiero narrativo 11

1.2 La personalità 16

1.2.1 L’Io 17

1.2.2 Il Sé 21

1.2.3 La dialettica tra Io e Sé 24

1.3 Jung e il concetto di Inconscio 27

1.4 Gli “Archetipi” e l’“Inconscio collettivo” 34

1.4.1 Il simbolismo dell’Archetipo 40

1.5 L’Archetipo come immagine 43

1.5.1 Hillman e la Psicologia Archetipica 43

1.5.2 La tassonomia di Durand 46

1.5.2.1 Il regime diurno dell’immagine 55

1.5.2.2 Il regime notturno dell’immagine 57

1.6 L’Archetipo come mito 61

1.7 L’Archetipo come personalità 74

1.7.1 L’Ombra 76

1.7.2 La Persona 78

1.7.3 L’Anima 78

1.7.4 Il Sé 80

1.7.5 Il Fanciullo 81

1.7.6 La Grande Madre 81

1.7.7 Il Vecchio Saggio 82

1.8 Gli “archetipi narrativi”: gli studi di Vladimir Propp 82

1.8.1 Le funzioni 85

1.9 Campbell e il “Viaggio dell’Eroe” 89

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4

1.10 Conclusioni 99

Capitolo II: Le immagini collettive della comunicazione pubblicitaria 101

2.1 Sull’intenzionalità degli archetipi 103

2.2 Disegno della ricerca 105

2.3 Composizione del campione 106

2.4 I risultati della ricerca 111

2.4.1 La classificazione 111

2.4.2 Differenze tra le aree merceologiche 127

2.5 Per un’analisi “archetipica” degli spot pubblicitari: alcuni esempi 130

Capitolo III: Per una prospettiva archetipica al governo d’impresa:

l’Archetypal Branding 140

3.1 L’analisi delle mission e delle vision dei brand contemplati nel modello 157

3.2 Conclusioni 163

3.3 Per un modello “aggiornato” degli archetipi d’impresa 167

Capitolo IV: Lo Storytelling d’impresa 169

4.1 Il Corporate Storytelling 173

4.2 Perché lo Storytelling? una breve panoramica dei contributi 174

4.3 Obiettivi e aree di applicazione 179

4.4 Il Management Storytelling 182

4.5 L’Organizational Storytelling 185

4.5.1 Sulla condivisione e l’autenticità delle storie all’interno

dell’impresa 187

4.5.2 L’Organizational Storytelling secondo Van Riel 189

4.6 Il Marketing Storytelling 190

4.7 Storytelling e spot pubblicitari: due esempi 197

4.8. “Silénziati o diva”: i limiti del Corporate Storytelling 202

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5

Conclusioni 207

Bibliografia 213

Sitografia 219

Ringraziamenti 228

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Introduzione

Il presente lavoro reca in sé due obiettivi differenti ma, al contempo, strettamente

interrelati. Esso si propone di indagare, da una parte, le forme primigenee fondamentali

che contraddistinguono la psiche dell’uomo e che ne indirizzano il suo cammino

esistenziale, e, dall’altra, le strutture tipiche ricorrenti che caratterizzano i suoi discorsi

più antichi, familiari: le storie.

Dopo una breve panoramica sulla natura e sulle motivazioni psicologiche che risiedono

dietro alla narrazione – con un excursus sul concetto di pensiero narrativo di Jerome

Bruner e sulla sua idea di storie – ci addentreremo nel concetto cardine del nostro lavoro

di ricerca: gli archetipi.

Carl Jung definisce “archetipi” quegli elementi primigeni ed eterni situati nelle

fondamenta della psiche umana - l’inconscio collettivo - i quali agiscono in ogni tempo

e in ogni luogo, andando a costituire gli universali immaginativi (ed affettivi) del genere

umano tutto. Essi sono rappresentazioni “in potenza”, degli apriori psichici generali che,

a seconda degli individui e delle situazioni, in maniera dinamica e non preformata,

possono manifestarsi in contenuti diversi.

Gli archetipi sono più che simboli, dal momento che la loro natura è quasi numinosa:

essi costituiscono una sorta di ”innervatura universale” della psiche, l'essenza che dà

vita al simbolo e la potenza che consente a quest’ultimo di perdurare nell’eternità. Da

una panoramica sugli studi di Jung sugli archetipi ci sposteremo poi agli archetipi

declinati in immagine, mito e personalità. Per quanto riguarda gli archetipi come

immagine, analizzeremo le teorie di James Hillman ed in particolare gli studi di Gilbert

Durand, autore di una vera e propria tassonomia dell’immaginario basata sulle forme

archetipiche della psiche umana, che racchiude in categorie di simboli tutto lo “scibile

immaginativo” che l’uomo reca in sé fin dalla notte dei tempi. Il discorso, attraverso i

contributi di studiosi del calibro di Levi-Strauss, Roland Barthes, Joseph Campbell e

degli stessi Jung e Durand, si sposta poi sull’archetipo inteso in chiave dinamica e

narrativa - il mito, per l’appunto - andando a rintracciarne la struttura e le peculiarità

sostanziali. In ultimo, ancora con Jung, andremo a dipanare la teoria degli archetipi

come “tipi”, ovvero come figure e personalità ancestrali presenti in tutti gli individui

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che hanno il compito di caratterizzarlo ed orientarlo nel corso della propria esistenza

fino a giungere, idealmente, alla completezza e alla totalità del proprio sé.

Il filo “archetipico” del nostro percorso, si soffermerà poi sulle strutture tipiche delle

storie, con il fondamentale e pioneristico contributo di Vladimir Propp nella definizione

delle sue 31 funzioni inerenti ai “racconti di fate” russi, di fatto estendibili a

qualsivoglia racconto umano, a prescindere dall’epoca, dal luogo e dalla cultura di

appartenenza dei rispettivi autori. Sulla stessa falsariga si collocano gli studi di

Campbell e, in misura minore, di Chris Vogler, anche loro impegnati nell’ottica di

definire quei “percorsi archetipici” e quelle figure del discorso universali e sempiterne

che dalle grotte di Lascaux giungono fino ai giorni nostri, con eco intatta e precisa.

Il lavoro poi, si estrinseca nella ricerca on field sugli archetipi nella comunicazione

d’impresa, segnatamente per quel che concerne gli spot pubblicitari. Fine principale

dello studio svolto è quello di registrare la diffusione degli archetipi – primariamente

sotto forma di immagini - nelle manifestazioni del brand, quest’ultime realizzate dai

professionisti del settore della comunicazione. In particolare, gli obiettivi della ricerca

sono molteplici e si enucleano nel rilevamento della presenza degli archetipi nelle

immagini inerenti agli spot pubblicitari in onda in TV e quelli disponibili sul Web, nella

loro quantificazione sistematica, nella verifica della loro “universalità” intesa come

azione che prescinda dal luogo e dal contesto storico-culturale nel quale lo spot è stato

diffuso, nella loro classificazione a partire dalla tassonomia dei simboli di Gilbert

Durand e infine nell’evidenziazione di eventuali pattern e tendenze nell’uso – anche

combinato – degli archetipi in pubblicità.

Gli archetipi come personalità descritti pocanzi, sono poi applicati all’ambito

dell’impresa, nell’ottica di definire ed affinare un framework di riferimento per quanto

concerne l’uso degli archetipi all’interno della brand personality e della brand identity.

L’analisi, che si basa sulle teorie a metà tra psicologia, sociologia e marketing ad opera

di Carol S. Pearson, si muove nel tentativo di rintracciare i vantaggi, le potenzialità - e,

altresì, i limiti e le contraddizioni - di tale prospettiva “archetipica” nel governo

dell’impresa.

L’ultima parte dello studio, infine, è dedicata all’uso della narrazione all’interno della

comunicazione d’impresa, sia essa interna o esterna. A tal proposito, il corporate

storytelling, in tutte le sue forme e declinazioni all’interno dell’organizzazione,

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rappresenta un potente strumento di indirizzo dei comportamenti e degli atteggiamenti

legati agli stakeholder di riferimento e presidio della coerenza identitaria e del potere

comunicativo da parte dei vertici aziendali. L’arte del “raccontare storie”, con la

riproposizione delle traiettorie, delle vicissitudini e dei personaggi archetipici di cui

sopra, si conferma un’atavica e dirompente arma a disposizione delle imprese per

comunicare con grande efficacia i loro messaggi, contando sull’immedesimazione e la

partecipazione attiva dei loro pubblici di riferimento.

Nel presente lavoro di tesi ci muoveremo, dunque, sul crinale di due forze universali, e

attraverseremo, recando il bastone dell’identità nella mano, due fiumi primigeni e

perenni: da una parte quello della narrazione e del suo fluire ancestrale, e, dall’altra,

quello degli archetipi, ovvero gli apriori fondamentali della psiche umana. Lo faremo

cercando di evidenziare le connessioni che tra di essi intercorrono e soprattutto tentando

di descriverne l’atavica potenza e la rilevanza quasi divinatoria che essi occupano

presso l’essere umano in quanto tale. E lo faremo, soprattutto, non senza i salti e gli

inciampi del caso, dovuti quest’ultimi, alla oggettiva complessità e alla

multidisciplinarietà dei temi trattati, unitamente alle altrettanto oggettive – e,

confidiamo, non del tutto biasimabili - inettitudini di chi scrive.

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CAPITOLO I

Gli “Archetipi” e le strutture fondamentali della narrazione

Ci sforziamo di raggiungere il buono e il bello, ma al tempo stesso

afferriamo anche il malvagio e il brutto, poiché nel pleroma essi

formano un tutt'uno col buono e col bello. Se invece restiamo fedeli

alla nostra essenza, cioè alla differenziazione, allora ci differenziamo dal

buono e dal bello, e perciò anche dal malvagio e dal brutto, e non

cadiamo nel pleroma, ossia nel nulla e nel dissolvimento.

(Carl Gustav Jung, Il Libro Rosso, Liber Novus)

La narrazione di storie è una pratica sociale universale, insita nell’uomo, che risponde a

molteplici e complesse funzioni: dalla memoria delle origini e delle vicissitudini della

propria cultura (o del proprio gruppo di riferimento), alla condivisione di esperienze

collettive, dal tentativo di comprendere e, in qualche modo, reggere il peso e la

precarietà dell’essere umano sulla Terra, al puro intrattenimento e suggestione.

L’uomo narra dalla notte dei tempi, da quando si percepisce come corpo sperduto nella

moltitudine della Natura. Le origini della narrazione, imprecise ed oscure proprio

perché remote, sono probabilmente da rintracciare nei rituali comunitari degli uomini

primitivi relativi alla semina, alla raccolta, alla caccia, alla morte. Essa si è sviluppata

verosimilmente insieme al linguaggio, a partire cioè da circa un milione fino ai

duecentomila anni fa, segnatamente all’aumento delle dimensioni del cerebro dovuto, a

sua volta, all’intensificazione dei rapporti sociali tra gli ominidi. È il linguaggio che

consente di astrarre la realtà e quindi costruire discorsi su di essa ed è da esso che la

narrazione si sviluppa (probabilmente a partire dai primi passi mossi dall’Homo sapiens

sul globo terracqueo). Nel corso dei secoli i miti, le leggende e le fiabe sono diventate

un bagaglio fondamentale del genero umano attraverso il quale gli uomini hanno tentato

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incessantemente di attribuire un significato alla loro esistenza all’interno del cosmo.

Attraverso di essi gli individui hanno tracciato le relazioni con le cose del mondo - e tra

le cose del mondo stesse - riscaldando, con la forza atavica del racconto, il freddo gelido

ed oscuro dell’inesprimibile.

Narrare, però, è anche costruzione dell’identità. Una volta dotato di questa capacità,

infatti, l’individuo è capace di produrre un’identità che lo collega ad altri individui, la

quale gli permette di riandare selettivamente al suo passato, nel mentre ci si prepara

all’avvento di un futuro immaginato. Le narrazioni si muovono in un circolo che va

dall’interno all’esterno della persona e viceversa. Le storie che l’uomo racconta a se

stesso, che costruiscono e ricostruiscono il proprio sé, sono attinti alla cultura e al

periodo storico in cui egli agisce, a tal punto che buona parte delle sue manifestazioni

sono virtualmente espressioni del contesto che lo nutre. Ma, allo stesso tempo, la cultura

costituisce a sua volta una dialettica, espressa in narrazioni e immaginazioni alternative

in continuo divenire, su ciò che il sé è o potrebbe essere in potenza. Le storie che

emergono sono la risultante di tale dialettica laddove la mente, raccontando di sé a se

stessa, edifica e riedifica di continuo il disegno della propria biografia; essa,

rappresentandosi e interpretandosi, si indirizza e si auto-dirige. Ciò porta alla naturale

conclusione che è solo attraverso la narrazione che l’uomo rende manifesti e coscienti i

suoi bisogni, desideri, propensioni, attitudini e paure.

È mediante la narrazioni, infatti, che le situazioni in cui ogni individuo agisce prendono

senso per sé e per gli altri. Tale processo avviene anche attraverso la costruzione – o,

per meglio dire, la riproposizione – di particolari elementi basilari e primordiali, comuni

a tutti gli uomini, che, con il loro carattere luminoso (e numinoso), irradiano immagini,

affezioni, costruzioni di senso. Tali elementi primigeni ed eterni sono detti “archetipi”1.

Essi, situati nelle fondamenta della psiche umana, agiscono in ogni tempo e in ogni

luogo, andando a costituire gli universali immaginativi (e, come vedremo meglio poi,

per certi versi spiccatamente narrativi) del genere umano tutto.

1 Sul concetto di archetipo, teorizzato da Carl Gustav Jung, ci soffermeremo lungamente nel prosieguo del

presente capitolo.

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1.1 Bruner e il pensiero narrativo

Jerome Bruner, nella sua celebre opera La mente a più dimensioni2, afferma che

esistono “due modi principali di pensiero con cui gli esseri umani organizzano e

gestiscono la loro conoscenza del mondo, anzi strutturano la loro stessa esperienza

immediata”; esse consistono in due modalità cognitive umane differenti: la

comprensione paradigmatica da una parte, e la comprensione narrativa dall’altra.

Secondo l’eminente psicologo statunitense, la modalità paradigmatica (assimilata alla

“mano destra”) segue un percorso lineare, interno alla mente, che procede per via

deduttiva ed è finalizzata a processare il flusso dell'esperienza, a dividere, a confrontare,

a fare calcolare e a dare valutazioni comparative. Essa è tesa alla validazione secondo il

principio di verità (vero/falso) ed esprime la modalità più logico-analitica della mente

umana. Dall’altro canto, la modalità narrativa (ovvero la “mano sinistra”) segue invece

un percorso più irregolare, fatto di salti in avanti e indietro, che si sviluppa solo grazie

alle interazioni. Essa si differenzia da quella paradigmatica laddove permette una

molteplicità di rappresentazioni in contemporanea dei vari mondi sociali; il suo criterio

di validazione non è la verità, bensì la plausibilità.

Ad ogni modalità del conoscere corrisponde, secondo Bruner, un diverso tipo di

astrazione. Se, infatti, il pensiero paradigmatico-analitico giunge all’astrattezza “mosso”

da interessi legati agli aspetti concettuali più generali e universali, la capacità astrattiva

del pensiero narrativo emerge dai suoi interessi per il particolare. Il pensiero narrativo è

dunque ideografico, laddove ricerca le leggi relative al caso singolo. Nel cercare la

logica degli atti e degli eventi umani, esso si muove al livello della intensionalità3 dei

significati, tentando di costruire, a partire dalla ricchezza del caso particolare, un

unitario e generale. Esso, per dirla con Bruner, “si occupa delle intenzioni e delle azioni

umane e delle vicissitudini e conseguenze che seguano il suo trascorso”; le narrazioni,

in questo senso, vanno a costituire un vero e proprio modello interpretativo delle azioni

sociali umane4. A livello linguistico il pensiero narrativo può definirsi “sintagmatico”,

2 J. BRUNER, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma, 1988.

3 Il termine intensionale indica, infatti, il particolare e preciso contenuto, la proprietà o la qualità

individuale, la connotazione di un termine, di un predicato o di un enunciato. E si contrappone ad

estensionale, termine che invece indica la classe di tutti gli oggetti che sono denotati con lo stesso segno,

cioè con la stessa parola; per cui un insieme viene definito per estensione quando si enumerano

esplicitamente tutti gli elementi che appartengono a tale insieme. http://galileo.cincom.unical.it 4 Lo stesso Bruner afferma: ”La narrativa, pur essendo un evidente piacere, è una cosa seria. Nel bene e

nel male, è il nostro strumento preferito, forse addirittura obbligato per parlare delle aspirazioni umane e

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dal momento che che l'asse del suo linguaggio è orizzontale e riguarda tutte le

possibilità sintattiche di concatenazione tra parole e frasi. Al contrario, l'asse

paradigmatico del linguaggio, tipico del pensiero analitico-scientifico, richiama alla

mente tutti gli altri membri del paradigma corrente potenzialmente utilizzabili in un

punto della catena.

Raccontare viene a configurarsi, così, come un procedimento opposto al pensiero

paradigmatico, dal momento che la storia emerge da ciò che è assolutamente particolare,

e, al contempo, da tutto ciò che è sorprendente, inaspettato, anomalo, anormale,

perturbante. L’astrazione del pensiero narrativo sorge sostanzialmente da immagini che

non seguono una logica lineare, bensì di tipo analogico. Esse funzionano per

somiglianza e si uniscono l’una con l’altra in sequenze di contenuti ravvicinati,

attraverso similitudini di tonalità emotiva.

Bruner, dopo una iniziale radicalizzazione sui due sistemi di pensiero, intesi come

dimensioni contrapposte e quasi speculari, nel corso dei decenni opera una revisione di

quella che, a sua detta, costituisce una (fin troppo) entusiastica e spregiudicata teoria

giovanile, pervenendo alla conclusione che pensiero paradigmatico e pensiero narrativo

non sono reciprocamente traducibili, e perciò nessuna delle due modalità può essere

nettamente contrapposta all’altra o può in qualche modo assoggettarla. Piuttosto, esse

sono da intendersi come territori comunicanti e interconnessi. Per lo psicologo

americano l’integrazione delle modalità cognitive proprie dell’uomo, avverrà, così,

all’interno di esperienze significative, vitali, sia individuali che collettive, le quali

riconoscano, accanto alla fondamentale importanza pensiero paradigmatico e al metodo

scientifico (“austero e ben definito”), anche l’inevitabilità e l’imprescindibilità del

pensiero narrativo (“salvifico ma pieno di oscure minacce”5).

Quest’ultimo, storicamente meno considerato e indagato rispetto al primo, viene a

configurarsi per Bruner come specifico e decisivo per il genere umano. La conoscenza

narrativa permette quel legame intensissimo che, attraverso i racconti, gli individui

delle loro vicissitudini, le nostre e quelle degli altri. Le nostre storie non solo raccontano, ma impongono

a ciò che sperimentiamo una struttura e una realtà irresistibile; addirittura un atteggiamento fisiologico.

Infatti, per loro stessa natura, i racconti danno per scontato che noi, loro protagonisti, siamo liberi, a meno

che non siamo irretiti dalle circostanza. […] Raccontare storie è il nostro strumento per venire a patti con

le sorprese e le stranezze della condizione umana, come pure con la nostra imperfetta comprensione di

questa condizione”. J. BRUNER, La fabbrica della storie, Editori Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 101-

102. 5 Ivi, p. 116.

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stabiliscono tra il mondo ordinario e quello stra-ordinario, segnatamente quando tentano

di pervenire a spiegazioni, commenti ed interpretazioni dei comuni fatti della vita

quotidiana (soprattutto di quelli più spiacevoli o inattesi). Inoltre, il discorso narrativo

non è da intendersi come produttore di certezze e di asserti sul mondo; esso, infatti, “è

uno strumento non tanto per risolvere i problemi, quanto per trovarli, una profonda

riflessione sull’individuo, sulla caccia più che sulla preda”6 e la sua funzione più

importante risiede, piuttosto, nella presentazione di molteplici e differenti prospettive

che aiutano a rendere comprensibile l'esperienza umana tutta, sia quella canonica e

regolare, sia quella inusitata, che vìola i canoni socialmente e storicamente corroborati.

É in questo senso che il pensiero narrativo costituisce il mezzo di stabilizzazione di una

cultura, ma anche, in maniera complessa e dinamica, la sua continua rigenerazione. Se

da un lato, infatti, è vero che le storie assolvono la funzione di confermare e rendere

sopportabile lo status quo e le dinamiche correnti di una determinata cultura7, è

altrettanto certo che narrare rappresenta, all’interno di una qualsivoglia società, il

volano per le grandi trasformazioni. Secondo Bruner, infatti, “mediante la narrativa

costruiamo, ricostruiamo, in un certo senso perfino reinventiamo, il nostro ieri e il

nostro domani. In questo processo la memoria e l’immaginazione si fondono”8. Non

sembrerà, dunque, nemmeno minimamente stucchevole o esagerata l’affermazione dello

stesso psicologo statunitense, secondo il quale, “la morte delle storie costituisce la

morte di ogni comunità umana”9 .

10

6 J. BRUNER, La fabbrica della storie, cit., p. 23.

7 “Nessuna cultura umana può operare senza qualche mezzo per trattare gli squilibri prevedibili o

imprevedibili inerenti alla vita in comune. A parte tutto il resto, ciò che una cultura deve fare è escogitare

dei mezzi per tenere a freno interessi e aspirazioni incompatibili. Le sue risorse narrative – racconti

popolari, storie antiquate, la sua letteratura in evoluzione, persino i suoi tipi di pettegolezzo – servono a

convenzionalizzare le ineguaglianze che essa genera, tenendo così a freno i suoi squilibri e le sue

incompatibilità. Ivi, p. 105. 8 Ivi, p. 106.

9 J.BRUNER, La ricerca del significato, Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri Editore,

Torino, 1992, p. 73. 10

È opportuno, qui, ricordare brevemente che Aristotele, nella sua Poetica, notava come la tragedia

svolgesse un altro fondamentale compito presso gli spettatori, ossia quello di condurli ad una dimensione

purificatrice e liberatoria delle passioni umane: la dimensione “catartica”. Secondo il filosofo greco, la

visione stessa di fatti dolorosi, violenti, e angoscianti, aveva la funzione di astrarre tali sentimenti e

procurare nello spettatore la gratificazione e il sollievo psicologico per non esservi direttamente coinvolti.

Il fatto che la rappresentazione-narrazione sia finta, infatti, permette a chi vi si imbatte di sentirsi

contemporaneamente distaccato ma anche fortemente attratto da manifestazioni che nella vita reale

susciterebbero in lui ben altre reazioni. Da questo punto di vista essa assurge anche a ruolo di

contenimento e “anestetizzazione” degli istinti umani più bassi e violenti che getterebbero la quotidianità

nel caos e nel sopruso.

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Bruner, in riferimento alle narrazioni, individua ed illustra nove caratteristiche principali

che consentono di pervenire alla comprensione dei processi e dei contenuti del pensiero

narrativo. Esse consistono: Sequenzialità, Particolarità o concretezza, Intenzionalità,

Opacità referenziale, Componibilità ermeneutica, Violazione della canonicità,

Composizione Pentadica, Incertezza e Appartenenza ad un genere.

1. Sequenzialità. All’interno delle narrazioni gli eventi sono disposti in un processo

temporale e possiedono tutti una durata. Il flusso temporale può contemplare delle soste,

così come dei salti improvvisi in avanti o all’indietro.

2. Particolarità o concretezza. Le narrazioni son incentrate soprattutto sugli eventi e

sulle situazioni specifiche riguardanti le singole persone. Ciò, come accennato, non

significa che attraverso una storia non si affrontino tematiche più generali o universali,

afferenti alle abitudini, alle inclinazioni, ai costumi e alle predisposizioni di gruppo di

individui o intere comunità. Le storie vengono a costituire, per lo stesso Bruner, “la

moneta corrente di una cultura”11

.

3. Intenzionalità. Questa proprietà, strettamente connessa alla precedente e riferisce al

fatto che le narrazioni riguardano vicissitudini umane. I personaggi che si muovono al

loro interno, perciò, agiscono sotto la spinta di obiettivi, mete, reazioni, sentimenti ed

intenzioni consapevoli.

4. Opacità referenziale. Questa caratteristica indica che anche se le narrazioni parlano

di individui specifici, non è tanto in questione il problema della loro esistenza come tali,

quanto quello del loro essere "personaggi", ed esse devono essere lette in quanto tali,

cioè come pure rappresentazioni. L’opacità referenziale, in altre parole, fa riferimento

agli aspetti di verosimiglianza chiamati in causa nelle narrazioni. Le rappresentazioni

contenute nel racconto possiedobo valore in quanto non si riferiscono ad eventi o

oggetti definiti e concretamente esistenti (“Narrare una storia equivale a invitare non già

a essere come essa, bensì a vedere il mondo così come lo si incarna nella storia”12

). La

conseguenza di questo discorso è che in una storia si può parlare unicamente in termini

di verità o falsità e di realismo, ma anche - e soprattutto - di verosimiglianza, e

soprattutto rappresentazione della realtà.

11

Ibidem. 12

Ivi, p. 29.

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5. Componibilità ermeneutica. Gli eventi che formano una storia possono essere

compresi soltanto in funzione del contesto che li ingloba, vale a dire la stessa intera

storia. La causalità logica, dunque, lascia spazio all’interdipendenza tra le parti e il tutto,

laddove i personaggi e gli avvenimenti narrati stanno in un intreccio che li contiene e in

cui la vitalità delle singole parti e quella del tutto dipendono l’una dall'altra. Tale

interdipendenza parti-tutto fa scaturire un circolo interpretativo (o ermeneutico,

appunto) in base al quale l’intero significato della storia viene a configurarsi come

sempre in divenire, soggettivo e mai univocamente condiviso.

6. Violazione della canonicità. Tale caratteristica riferisce alla trasgressione, all’interno

delle narrazioni, della normale fase di processualità nella quale gli eventi accadono e si

svolgono seconde le attese. Ad un certo punto avviene una rottura, un imprevisto, un

avvenimento problematico che infrange la canonicità e fa si che si debba affrontare

l'eccezionalità. I protagonisti delle storie vengono a trovarsi in situazioni difficili, di

crisi; essi devono affrontare le proprie paure più grandi per giungere ad un’importante

trasformazione interna13

.

7. Composizione Pentadica. Le narrazioni sono costituite da almeno cinque elementi

fondamentali, ossia i personaggi, gli scopi, le azioni, le situazioni e gli strumenti e

strategie. Se in equilibrio tra loro, questi componenti, danno alla narrazione un carattere

di canonicità, diversamente se essi si trovano in disequilibrio, rimandano

all'eccezionalità da risolvere, nell’ottica di costruzione di un nuovo equilibrio.

8. Incertezza. I racconti si svolgono secondo un livello di realtà incerto. Esso esprime la

possibilità, l’eventualità e descrive non tanto ciò che si verifica, bensì quello che

potrebbe - o dovrebbe idealmente - accadere. È proprio in questo che le narrazioni si

distinguono dall’esposizione di fatti o notizie.

9. Appartenenza ad un genere. Ogni narrazione, sebbene nella sua concretezza e

particolarità, può essere riconosciuta - più o meno agevolmente a seconda dei casi -

come appartenente ad un genere specifico (per es. leggenda, fiaba, mito, romanzo,

biografia ecc) e ai suoi sottogeneri inerenti (commedia, tragedia, horror ecc.).

L’elemento che ci preme analizzare in merito al discorso sulla narrazione e sulle sue

caratteristiche-funzioni, è che quando parliamo di narrazioni ci riferiamo sempre, tanto

13

Così lo stesso Bruner “Sappiamo che la narrativa in tutte le sue forme è una dialettica tra ciò che si

attendeva e ciò che è stato. Perché vi sia un racconto occorre che accada qualcosa di imprevisto,

altrimenti ‘non c’è storia’”. J. BRUNER, La fabbrica della storie, cit., p. 17.

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a quelle “classiche” (per esempio della letteratura antica o delle leggende orali) tanto a

quelle moderne. In esse, dunque, come avremo modo di notare nel prosieguo di questo

capitolo e oltre, sono comprese anche i film, gli spettacoli televisivi, gli spot pubblicitari

- i quali concentrano in poche immagini elaborati sofisticati congegni narrativi e sui

quali sarà incentrata buona parte del presente lavoro -, i testi e i videoclip dei brani

musicali, gli altri prodotti audiovisivi ecc; essi confluiscono e si contaminano

variamente nel patrimonio narrativo di ogni singola cultura, per un verso innovandolo,

per l’altro ripercorrendo e rivisitando mitologie ancestrali e onnipresenti. Il ruolo

determinante che le narrazioni giocano può, dunque, essere compreso interamente solo

se, insieme alla dimensione narrativa della cognizione umana, si contempla la

componente mitico-archetipica, profondamente presente in tutti i prodotti narrativi di

una data cultura e di un dato periodo storico. Occorre, in altre parole, intendere

l’archetipo non come un contenuto preformato racchiuso nell’inconscio, bensì come una

forza orientante delle rappresentazioni umane più profonde, un nucleo primordiale e

potentissimo di energia e, infine, un principio ordinatore che consente di “catalogare” la

realtà, in termini sia cognitivi che - soprattutto - affettivi. Tali processi, tuttavia, hanno

come centro permanente la mente umana dalla quale si definisce la personalità stessa di

ciascun individuo: è ad essa e al suo funzionamento che è necessario rifarci per

comprenderli sin nel profondo. Le caratteristiche e le dinamiche della psiche saranno,

perciò, l’argomento del prossimo paragrafo.

1.2 La personalità

Per personalità si intende “il cuore psicologico dell’individuo, la presenza di strutture

stabili e riconoscibili nel tempo pur nelle diverse circostanze e nei diversi contesti, che

rendono l’individuo stesso riconoscibile agli altri; [in altre parole] il sistema

complessivo ed il suo modo di funzionamento dell’insieme dei processi, delle

dinamiche e delle interazioni che costituiscono la sfera psichica dell’individuo”.14

La

stabilità di cui sopra non è da intendersi come costrutto biologico o in qualche misura

predeterminato; piuttosto esso è il portato di un equilibrio, relativamente durevole nel

tempo - ma non perenne -, tra la sfera interna all’individuo e quella esterna, tra quella

14

G. SIRI, La psiche del consumo, Franco Angeli, Milano, 2001, pp.83-84.

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17

emotiva e quella cognitiva, individuale e sociale, e così via. La personalità dipende da

una serie di svariati fattori, quali le pressioni ambientali, i modelli educativi e culturali,

le vicissitudini personali, le relazioni interpersonali ecc. ecc. che vengono

continuamente “posti al vaglio” dall’individuo in maniera variabile e complessa. La

psiche viene a configurarsi così, come scomposta in varie dimensioni le quali operano

in maniera più o meno interagente, fungendo, al contempo, da punti prospettici diversi

per l’analisi della componente psicologica stessa.

Una teoria per presentare la complessità e la stratificazione della personalità ci viene

dagli studi dell’illustre psicologo e filosofo svizzero Carl Gustav Jung, allievo di

Sigmund Freud, padre della “Psicologia complessa (poi divenuta “analitica”), eminente

studioso delle strutture e delle dinamiche che sottendono alla psiche umana, nonché uno

degli intellettuali più influenti del XIX secolo (e non solo). Secondo Jung la personalità

è articolata in due grandi dimensioni: il sistema dell’”Io” e quello del “Sé” (più avanti ci

addentreremo nei concetti di Conscio e Inconscio, che per certi versi ricalcano quelli

dell’Io e del Sé, ma che si situano in un altro livello).

1.2.1 L’”Io”

Il sistema dell’”Io” è senza dubbio quello più lungamente studiato nell’ambito della

psicologia e sul quale gli stessi psicologi hanno una maggiore uniformità di vedute.

Possiamo intendere l’”Io” come “l’insieme dei processi cognitivi, vale a dire l’insieme

dei processi capaci di garantire il nostro adattamento attraverso apprendimento,

rappresentazione e coscienza del sé”1516

. Come è noto, l’attività cognitiva include

processi diversi, quali quelli legati all’attenzione, alla comprensione, alla memoria, al

linguaggio ecc. ma la nostra attenzione, nell’ottica del presente lavoro, è posta su una

funzione sovraordinata a quelle testé elencate, la quale mira ad un obiettivo più

generale. È soltanto attraverso la costruzione di regolarità, infatti, che l’individuo può

vivere in una realtà per lui “abitabile”, adattandosi a contesti diversi pur mantenendo

una coerenza di fondo. Sappiamo bene - e gli studi sulla schizofrenia della Scuola di

15

Ivi p.87. 16

Jung afferma che:“Per ‘Io’ bisogna intendere quel complesso fattore al quale si riferiscono tutti i

contenuti consci e che rappresenta, per così dire, il centro del campo di coscienza, nella misura in cui

quest’ultimo comprende la personalità empirica, l’io è il soggetto di tutti gli atti personali consci. Il

rapporto di un contenuto psichico con l’Io costituisce il criterio della sua consapevolezza, poiché non è

conscio alcun contenuto che non abbia un soggetto al quale riferirsi.” C.G. JUNG, Aion, Ricerche sul

simbolismo del Sé, Opere Vol. 9 ** Coll. Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1982, p. 2.

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Palo Alto ne sono un’evidenza, così come lo sono le casistiche relative ai reduci dei

conflitti armati dal primo conflitto mondiale in avanti - che condizioni assolute di

irregolarità, variabilità, casualità presso l’individuo possono generare patologie mentali

anche molto gravi. La creazione cognitiva di regolarità è condizione necessaria per la

“salute” stessa della psiche. Essa si traduce psicologicamente con la costruzione di veri

e propri schemi, che vanno da quelli senso-motori elementari alle rappresentazioni

mentali più complesse, in grado di far fronte ai rischi di forte contingenza e complessità

di cui sopra. Lo schema in sé viene a configurasi come un “plesso organizzato di

stimoli-risposte che consentono di disporre di reazioni a livello di azioni o anche a

livello cognitivo”17

; esso implica, appunto, un nesso tra azione e reazione. Sono schemi,

ad esempio, i riflessi innati del nostro corpo (pensiamo alla “pelle d’oca” in seguito

all’esposizione ad una corrente d’aria fredda) così come quelli sedimentati nel

linguaggio e nei processi di significazione. Di fatto i singoli schemi concorrono al più

ampio meccanismo di semplificazione della percezione del mondo che, attraverso

l’organizzazione della realtà in classi, generi e frames limitati nel numero, fa sì che i

processi cognitivi di percezione, memorizzazione ed elaborazione possano agire senza

l’aggravio delle informazioni “in eccesso”. Inoltre, come è stato evidenziato in diversi

studi psicologici a partire dalla seconda metà del secolo scorso, sembra che i processi

attentivi operino sulla base di filtri quali le aspettative, gli scopi e i bisogni

contingenti18

.

La conseguenza è che lo scopo di prevedibilità e semplificazione del sistema dell’“Io”

finisce per rendere inevitabile la “scorciatoia” degli stereotipi, dei pregiudizi e delle

conclusioni non meditate, resisi necessari a causa delle (relativamente) scarse risorse

cognitive di ogni essere umano, nonché dai tempi necessari per la decisione stessa. Tale

processo, piuttosto pre-formato, di previsione-controllo-decisione-azione, subisce poi

un irrigidimento ulteriore laddove l’individuo è sottoposto a situazioni particolarmente

ansiogene, su tutte, quelle che contemplano un’interazione con la dimensione sociale.

17

G. SIRI Op. cit., p.87. 18

A tal proposito è divertente l’annotazione di Siri che afferma: “se chiediamo ad un anziano professore

di musica, ad un giovane scapolo, e ad un fox terrier cosa c’era nella stanza da cui stanno uscendo

possiamo sentirci dire dal professore che c’era uno stradivari (suonato da una persona), dal giovane che

c’era una seducente giovane donna dai capelli rossi (che suonava un violino) e dal fox terrier che c’era

una barboncina con un buon odore che, poverina, si stava annoiando in un angolo della stanza (in cui un

essere umano emetteva strani e terribilmente sgradevoli suoni… ).

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Quest’ultima, infatti, è in assoluto la sfera più critica dal punto di vista psicologico dal

momento che è proprio attraverso l’accettazione di un gruppo di simili e la conferma

dell’immagine di sé che è garantita la sopravvivenza - biologica prima e psicologica poi

- di ogni individuo. Terreni altamente ansiogeni come questo fanno sì che gli schemi

assumano il governo dell’“Io”, al fine di garantire una rappresentazione quanto più

familiare e rassicurante della realtà19

. In questo senso è esplicativo, ancora una volta, il

riferimento al campo della comunicazione pubblicitaria. In particolare, il successo della

maggior parte degli spot pubblicitari - per molti versi le narrazioni audiovisive a noi più

prossime e familiari - risiede in parte nella rappresentazione di un mondo cucito sulle

nostre aspettative di singoli, in cui i rischi di violazione degli schemi sono normalmente

evitati per garantire a tutti i destinatari del messaggio un processo di gratificazione del

sé. I meccanismi ricorrenti di problema-soluzione, ansia-felicità e “lieto fine” che la

pubblicità propone, infatti, rispondono perfettamente alle logiche sedimentate nella

nostra psiche, ed essi non fanno altro che corroborarle, permettendo di trarre

soddisfazione dalla loro conferma.

Accanto all’esigenza di regolarità e prevedibilità, un altro principio fondamentale del

sistema dell’Io è quello della coerenza (altrimenti definito, in termini squisitamente

logici, “principio di non contraddizione”). Sostanzialmente esso “tende a mantenere

coerenza tra le rappresentazioni del sé e le rappresentazioni del mondo degli altri che

interagiscono con il sé”20

, venendo così a costituire una sorta di “sintesi” che l’Io

formula in relazione al sé. L’equilibrio e la coerenza richiedono una corrispondenza tra

ciò che l’individuo pensa e le azioni che egli compie e, pertanto, ogni qual volta che

occorre una incongruenza tra queste due dimensioni si rende necessario l’intervento di

una giustificazione. È da notare poi, come il processo di riduzione della dissonanza

attraverso meccanismi di autoprotezione da una parte, e la reazione al cambiamento

nell’ottica di garantire la coerenza dall’altro, divengano ancora più forti laddove tale

cambiamento investe sfere centrali del sistema dell’identità, quali i valori profondi di un

individuo, le sue credenze religiose, i suoi convincimenti di natura politica e così via.

Viceversa, le sfere più periferiche dell’autostima e dell’identità risultano più

19

L’estrema conseguenza che può derivare da questo tipo di meccanismi - di per sé normali e molto

frequenti - è rappresentata dal sopraggiungere di patologie di tipo psicotico e nevrotico laddove il

tentativo del soggetto è quello di delimitare oltremodo i confini dell’esperienza o addirittura sottrarsi ad

essa, creando realtà fittizie più gratificanti e rassicuranti (Siri). 20

Ivi, p.92.

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20

“malleabili” e più legate a variabili come la legittimazione sociale, il consenso, la

produzione e il consumo mediatico ecc.. L’Io viene a configurarsi, così, come una sorta

di “custode” dell’identità, ligio al principio della coerenza e pronto a difendere l’identità

in crisi, anche a costo di gravi contraddizioni nella percezione della realtà.

Come afferma Siri, poi, “la realtà postmoderna non ha modificato questo processo: ha

frammentato l’identità moltiplicando i sé, ma all’interno di ciascuna identità e di

ciascun sé (per il tempo in cui esso è sulla scena) valgono sempre gli stessi principi”

[…] Se oggi è più difficile vedere in azione grandi sistemi di identità (cristiana,

comunista ecc.) i vincoli del sistema di identità sono però altrettanto forti quando si

partecipa ad un gioco al villaggio oppure si suona con gli amici: certo queste attività

sono a decadimento rapido, ma entro i loro limiti funzionano ancora le cogenze del

principio di coerenza”21

.

Da questa breve descrizione sul sistema dell'Io che abbiamo tracciato sin qui, si

potrebbe ricavare il ritratto di un individuo fondamentalmente e tendenzialmente statico

e "conservatore"; tuttavia ciò è vero solo in parte. Accanto a questa dimensione che

potremmo definire “omeostatica”, infatti, all'interno dell'Io coesistono tendenze

antiomeostatiche che, al contrario delle prime, non rifuggono il cambiamento ma anzi lo

cercano, e che risultano altrettanto basilari ed indispensabili per l'adattamento

all'ambiente. Esse sono facilmente rintracciabili in natura: si pensi, ad esempio, alle

volte in cui un animale, mosso dall'istinto di sopravvivenza, abbandona il proprio

territorio messo in pericolo dalla presenza di predatori per andare in avanscoperta. Gli

etologi a tal proposito affermano che più si sale nella scala evolutiva e più la curiosità, il

gioco e la sperimentazione diventano caratteristiche fondanti della specie. Nell'uomo ciò

si traduce nella ricerca periodica della novità, del rischio, dell'emozione, in altri termini

nella variazione degli schemi abituali. Infatti, è solo con la presenza dell'incongruenza -

potremmo dire dell'eccezione - che quest’ultimi vengono in un secondo momento

costruiti e confermati, così come è vero che soltanto a partire da schemi preformati

possono essere davvero colte e declinate le novità. Le due sfere risultano in questo

modo complementari: uno stimolo che rimanda in maniera pedissequa ad uno schema

già noto produrrà noia e disattenzione ma, d’altra parte, è altrettanto vero che uno

stimolo che sia completamente difforme dagli schemi posseduti scatenerà nell’individuo

21

Ivi, p. 94.

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21

ansia, paura, angoscia. Questa è una delle ragioni per cui hanno tendenzialmente più

successo le narrazioni che seguono schemi sedimentati e reiterati, piuttosto che quelli

che propongono novità assolute (le quali corrono il serio rischio di risultare in questo

senso troppo spiazzanti ed incongrue rispetto agli strumenti di lettura del

telespettatore/consumatore). L'Io, in conclusione, ha bisogno, da una parte di regolarità

e coerenza - garantitagli dagli schemi di cui sopra - e, dall'altra, della violazione di tale

regolarità attraverso la ricerca della novità. Va da sé, poi, che in condizioni di

insicurezza e minaccia a livello identitario, tali meccanismi tendono ad essere

accantonati in favore di quelli legati alla dimensione omeostatica. Quelle che si possono

considerare due facce della stessa medaglia - regolarità e difformità, per l'appunto -

costruiscono una "dialettica" interna al sistema della personalità che ne articola la

complessità e ne descrive il dinamismo.

1.2.2 Il Sé

L'altro sottosistema dell'identità, come accennato poco sopra, è quello del “Sé”. Esso si

riferisce “ai processi affettivi e più in generale alle modalità di adattamento cui abbiamo

dovuto ricorrere per tutto il tempo in cui il sistema dell'Io non era ancora in grado di

operare efficacemente"22

. Il Sé viene cronologicamente prima dell'Io, instaurandosi fin

dai primissimi mesi di vita dell’individuo: è la parte più remota delle nostre modalità di

adattamento, il "taccuino originario" su cui sono impresse le nostre esperienze, i nostri

vissuti, le nostre tracce mnestiche che, dal canto loro però, possono essere elaborate e

rappresentate solo attraverso gli strumenti dell'Io, ossia il pensiero, la memoria, il

ragionamento razionale ecc. Il Sé viene così a configurarsi come "l'insieme di quei

processi affettivi di base che tendono a creare, alimentare e mantenere un legame

relazionale con quegli ‘oggetti affettivi’ che rappresentano la garanzia di sopravvivenza

biologica prima e psicologica poi"23

. Esso può essere inteso come una risposta che la

nostra biologia ha fornito alla nostra condizione di “neotonia”, vale a dire di immaturità

alla nascita che rende imprescindibili le cure parentali. Il Sé in questo senso si occupa di

22

Ivi, p. 97. Altre definizioni del Sé sono fornite da autori quali Goffman, Harré, Winnicott ecc. Per il

primo, ad esempio, nell’ottica della concezione di individuo come “attore” recante diverse “facciate”

all’interno della rappresentazione sociale di riferimento, il Sé “non ha origine nella persona del soggetto,

bensì nel complesso della scena della sua azione, essendo generato da quegli attributi degli eventi locali

che li rendono interpretabili da parte dei testimoni”. E. GOFFMAN, La vita quotidiana come

rappresentazione, collana Biblioteca, Il Mulino, Bologna, 1969, p.285. 23

Ivi, p. 99.

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22

dotare l'individuo di quei segnali e quelle attivazioni istintive che innescano tali cure

(questo processo in psicologia prende il nome di “attaccamento"24

). È noto che il

bambino vive nei primi 12 mesi di vita una fase in cui non esiste la distinzione tra sé e

non sé, realtà e fantasia: è proprio allora che la dinamica fondamentale è quella

dell'attaccamento che garantisce le cure genitoriali e la fusività originaria già vissuta nel

feto. La separazione, in questo senso, rappresenta per il bambino lo spauracchio

angosciante del non-esserci, ed è proprio questa paura a minacciare la sua

sopravvivenza psichica. Da qui (e per tutto il resto della vita) si crea nell'individuo la

"fiducia di base", ovvero le fondamenta dell'autostima, il sedimento dell'esperienza

basica che "c'è qualcuno per cui esistiamo e che ha cura di noi"25

. Successivamente,

oltrepassato il primo anno di età, il bambino entra nella fase di "separazione", in cui

comincia a sperimentare il distacco dalle cure parentali e quindi a percepire il proprio

corpo come diverso dal mondo esterno. É in questo momento che si scatena "l'angoscia

di separazione" che è ancora intollerabile per la sua psiche poiché in essa ancora non si

è sviluppato un organizzatore interno - l'identità per l'appunto - che rappresenti

un'ancora di salvezza a cui aggrapparsi nell'oceano tenebroso del non-esserci.26

Dal

momento che nessuna esperienza, benché positiva, può contrastare tale angoscia, si

attivano nel bambino dei processi che cercano di proteggerlo e di impedirne la

sopraffazione. Uno su tutti è il ricorso alla “sfera di esperienza transazionale”, ovvero

alla confusione programmatica tra realtà e fantasia da cui si genera il gioco e la

possibilità di sostituire la fantasia alla realtà. Attraverso tale attività, di carattere

evidentemente simbolico, l'individuo può modificare a piacimento i confini tra le due

sfere, preferendo la costruzione di un mondo di fantasia alle frustrazioni caratterizzanti

la realtà. Tale processo è estremamente importante poiché, come risulterà intuibile, è

anche attraverso di esso che passa lo sviluppo delle capacità simboliche e di

24

In psicologia, il termine attaccamento è legato alle ricerche sullo sviluppo e sull'infanzia, in relazione ai

legami che si creano con le figure di accudimento. Il primo a proporlo come concetto cardine, per

spiegare il comportamento dei bambini, fu John Bowlby, un ricercatore britannico di

scuola psicoanalitica. Secondo l'autore, il bambino, appena nato, è tendenzialmente portato a sviluppare

un forte legame di attaccamento con la madre o con chi si prende cura di lui. J. BOWLBY, Attaccamento

e perdita 1, Bollati Boringhieri, Torino 1999 25

Ivi, p. 100. 26

Così Jung: “A livello infantile e primitivo la coscienza non è un’unità, non essendo ancora centrata da

un complesso dell’Io consolidato, ma divampa ora qui ora là, dove eventi, istinti e affetti interni o esterni

la destano. A questo livello la coscienza ha ancora un carattere insulare o di ‘arcipelago’. C.G. JUNG,

Due testi di psicologia analitica, Opere Vol. 7, Coll. Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1991, p. 127.

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23

rappresentazione della persona. Oltre questa fase - nella quale, lo ripetiamo, è ancora

assente una personalità vera e propria - si ha nel bambino un processo di individuazione

ed autonomizzazione, favorito dalla rapida maturazione delle facoltà cognitive (su tutte

quella di linguaggio). Qui il bambino diventa una persona e sviluppa peculiarità come la

vivacità, la curiosità, l'esibizionismo, la propensione all'esplorazione, l'invidia e la

frustrazione nei confronti degli adulti derivante dalla sua condizione di "piccolo". Infine

l'ultima fase, quella che porta alla sostanziale definizione dell’identità, vede prevalere il

senso di vergogna e di interiorità: è qui che nasce la percezione dell'intimità e dei criteri

fondamentali di prestazione/merito, vittoria/sconfitta all'interno delle interazioni sociali,

così come emerge la capacità di identificare le regolarità e le causalità ricorrenti e

relativamente indipendenti dalla propria volontà.

Come si può evincere, il Sé è una componente della condizione umana estremamente

profonda e basilare che, andando a interrare i suoi semi fin dai suoi primissimi anni di

vita, coinvolge l’individuo dal nucleo intimo del suo essere psichico. Tuttavia gli studi

che riguardano quest’area della personalità sono relativamente recenti - fine 1800 - e

provengono dal filone legato al tema della malattia mentale e all’ambito dell’approccio

medico-terapeutico. Il Sé, infatti, nella visione positivista e segnatamente nelle teorie di

freudiane sulla personalità27

, era in principio inscritto nella dimensione dell’irrazionalità

e dell’istintualità, per esclusione di tutto ciò che esula dall’egida dell’Io e che in

generale si contrappone alla logica, alla civiltà, alla cultura. Così lo stato di follia e

“pazzia” era considerato un eccesso di componente istintuale dell’uomo e, di contro,

come debolezza della rigorosità del suo Io. Rispetto a queste ideologie originarie, lo

studio del Sé ha mosso passi da gigante, modificando quasi in maniera rivoluzionaria le

sue premesse (molto di più rispetto a quanto è successo per gli stessi studi sull’Io).

Grazie all’apporto della genetica e dell’etologia moderna, è definitivamente crollata, nel

corso dei decenni, l’idea di una componente istintiva rigida e selvaggia, così com’è

caduta l’ideologia di un inevitabile conflitto tra la sfera della razionalità (l’Io) e quella

dell’irrazionalità (il Sé). Dagli studi di Piaget in avanti, infatti, ha preso forma una

psicologia evolutiva che ha saputo evidenziare l’integrazione tra i processi dell’Io e

quelli del Sé, laddove questi ultimi costituiscono per certi versi la “culla” dei primi,

27

S.FREUD, Introduzione alla Psicoanalisi (1915), Coll. Bollati Boringhieri, Torino, 1978.

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24

poiché legati alla nostra base biologica, e, dunque, ad essi precedenti in termini di

genesi

1.2.3 La dialettica tra Io e Sé

Come testé accennato, per la psicologia contemporanea i due macro-sistemi dell’Io e del

Sé tendono a descrivere una linea intrecciata e sinergica di rapporti, sganciandosi da una

obsoleta prospettiva di conflitto e abbracciando, in maniera molto più verosimile, una

dimensione di complementarietà.28

È innegabile, infatti, che se da un lato le capacità

cognitive sono programmate biologicamente e danno vita a schemi di regolarità vitali

per l’esistenza dell’individuo, dall’altro è altrettanto vero che tali regolarità cognitive

sono in parte legate all’esperienza delle regolarità di tipo affettivo, cosicché l’Io è

impossibilitato a sviluppare tutto il suo potenziale senza le fondamenta del Sé. Ciò

risulta ancora più evidente dal momento che è sempre più avvalorata l’ipotesi che i

processi transizionali e le costruzioni fantastiche cui il Sé ricorre per rendere la realtà

abitabile sono anche il volano delle capacità simboliche che, a loro volta, concorrono a

formare le capacità di rappresentazione dell’individuo. Al tempo stesso, la connessione

tra fantasia transizionale e linguaggio generano l’intelligenza emotiva e la creatività.

Addentrandoci nel rapporto tra Io e Sé, due sono i focus principali che possiamo trarre

dalla loro interazione: il “principio di permanenza” e la “costruzione dell’identità”.

Riferendoci al primo, possiamo riassumere la sua logica nel fatto che “le funzioni

psicologiche successive non annullano la presenza e il manifestarsi delle modalità

psicologiche precedenti, […] ciò significa che l’emergere del sistema dell’Io non

annulla le attività delle modalità caratterizzanti il sistema del Sé”29

. In sostanza la nostra

visione del mondo avviene sì attraverso il filtro dell’Io - e del corollario di schemi di cui

sopra - ma anche per mezzo di quello del Sé, sotto forma di sentimenti, emozioni,

fantasie, associazioni irrazionali, sogni ecc. Viene a configurarsi, così, una sorta di

“doppia decodifica” corrispondente ai due livelli (senza che vi sia una gerarchia interna,

almeno in termini di rilevanza); in questo modo ogni segnale che riceviamo è vagliato

28

È lo stesso Jung a notare: “Secondo la nostra esperienza, noi possiamo affermare che i processi

inconsci stanno in relazione compensatrice con la coscienza. Dico a bella posta ‘compensatrice’ e non

'contrastante’, perché coscienza e inconscio non sono di necessità in contrasto fra loro, ma s’integrano

vicendevolmente formando un tutto, il Sé.” C.G. JUNG, Op. cit., Due testi di psicologia analitica, p. 177. 29

Siri, Op. cit., p. 104.

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25

sia ad un livello che potremmo definire “razionale”, sia ad uno “affettivo”. Pensiamo,

ad esempio, al caso di abbandono di una relazione amorosa. Un fatto psicologicamente

rilevante come quello di vedere interrotto, proprio malgrado, una rapporto sentimentale,

finirà inevitabilmente per attivare - a meno che non ci si trovi di fronte individui dotati

di un’autostima estremamente alta oppure emotivamente coatti - processi di

annichilimento, scissione e di fantasie vendicative e distruttrici, piuttosto che processi

rispondenti integralmente a logiche razionali e discorsive (la casistica dei cosìddetti

“femminicidi” ne è oggi, ahinoi, una drammatica testimonianza). Da ciò ne consegue

che in condizioni di minaccia, rischio, ansia ed angoscia - e in generale in tutte le

possibili circostanze in cui ha luogo crisi di identità ed autostima - tendiamo a reagire

destrutturando e irrigidendo i processi e le modalità dell’Io e utilizzando quelle del Sé.

Di più, come nota Siri stesso: “La realtà psichica quotidiana è fatta di continue

contaminazioni e shift, di oscillazione tra diversi mix di penetrazione tra Io e Sé. E

comunque per lo psicologo la forma di ‘razionalità’ migliore non è rappresentata dal

modello logico-deduttivo di Sherlock Holmes […] ma piuttosto dalla intelligenza

emotiva di Maigret”30

. In verità, la gestione degli stati di angoscia e di crisi identitaria

può aver luogo attraverso una sfera che è in qualche modo a cavallo tra le due

dimensioni: essa è definita come “area transizionale” oppure come “sfera di esperienza

intermedia”, laddove per “intermedia” si intende quello spazio che vive tra realtà e

fantasia. È attraverso di essa, ad esempio, che sono possibili i meccanismi dello humor,

della fabulazione (dall’autoinganno alla poesia) e in generale della creatività.31

L’altro

focus che attiene alla dialettica tra Io e Sé risiede, come detto, nella “costruzione

dell’identità”. Essa è un concetto molto complesso che comprende un insieme - per certi

versi una congèrie - di dinamiche ed aspetti diversi e interagenti tra loro. Segnatamente

essa è la risultante di tre componenti: la self image, la self esteem e la self efficacy (a cui

si aggiunge il feedback del cosiddetto mirroring). Sintetizzando possiamo affermare che

la self image “è frutto del lavoro cognitivo dell’Io, in quanto è una rappresentazione

organizzata che mappa i tratti della propria persona che conciliano la percezione interna

con quella esterna”32

. In sostanza si ha accesso al nostro self attraverso la

30

Ivi, p. 105. 31

Lo stesso Siri, a tal proposito, sottolinea come “ovviamente un impiego coattivo di queste modalità non

è indice di un buono stato di salute psichica né di adattamento alla realtà” Ibidem. 32

Ivi, p.106.

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rappresentazione operata dal nostro Io, oppure mediante sintomi (spesso sottaciuti e non

“elaborati”) che provengono dal Sé. La self efficacy e la self esteem, invece, dipendono

“dalla somma delle autovalutazioni e dalla memoria dei feedback che abbiamo ricevuto

nelle nostre prestazioni fatta dall’Io, come una sorta di autogiudizio che l’Io dà del

proprio Sé”33

. All’interno dell’identità, inoltre, coesistono elementi che l’Io può

riconoscere ma non gestire; essi sono, ad esempio gli stati di ansia, paura, pudore,

insicurezza, la predilezione, apparentemente non spiegabile, per alcuni modelli

comportamentali ecc. L’Io deve necessariamente cercare una coerenza in tutti questi

elementi e lo fa anche a costo di costruire una rappresentazione di sé parziale, o

formulando dei veri e propri autoinganni per ridurre la difformità rispetto ai propri

schemi interni.

La complessità del rapporto tra l’Io e il Sé, dunque, fa dell’identità non un costrutto

statico e prefigurato ma, al contrario, come la definisce lo stesso Siri, “una fabbrica in

perenne manutenzione ed arrangiamento”34

. Essa, come abbiamo visto, non dipende

solo dalle dinamiche interne ma anche (e soprattutto) dai feedback esterni (in particolare

quelli scaturiti dalle relazioni con gli altri individui e nel racconto reciproco di sé).

L’identità, dunque, è prima di tutto sintesi tra elementi e dimensioni contrastanti: un

compromesso dinamico e complesso di molteplici istanze che avvolge la psiche

dell’uomo e lo guida all’interno della sua quotidianità, nel rapporto con il mondo in cui

egli vive e nella relazione con i suoi prossimi.

In particolare dall’era della postmodernità in avanti, l’individuo si mostra alla continua

ricerca di conferme intorno alla sua identità, laddove le ideologie e le figure dominanti

di un tempo si sono consumate in una lenta ma inesorabile dissolvenza, lasciandosi

dietro i sempiterni fantasmi dello smarrimento e del Nulla.

È per queste ragioni - come vedremo meglio nel corso del presente lavoro - che le

immagini e i racconti veicolati dall’uomo (nella nostra modernità soprattutto attraverso

i media) risultano così imperanti e “potenti” nella vita di ogni individuo. Qui si debbono

rintracciare, infatti, le ragioni per le quali l’uomo è così attratto dalle simulazioni, dai

modelli di identificazione, dai giochi d’identità ecc. contenuti nelle narrazioni sia

classiche che moderne; esse gli permettono di estendere i confini della logica razionale

e dei pattern dell’Io e di evitare la rimozione forzata – e spesso traumatica - di elementi

33

Ibidem. 34

Ivi, p. 107.

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rilevanti della nostra personalità (di tipo inconscio), senza i quali, si verrebbero a creare

violenti e pericolosi contrasti all’interno della psiche stessa.

1.3 Jung e il concetto di Inconscio

A partire dalle considerazioni generali sulla personalità testé accennate, ci addentriamo

ora nei concetti-chiave di “Conscio” e “Inconscio” che ci permetteranno, a loro volta, di

dischiudere finalmente quello di “Archetipo”, uno dei punti nevralgici del presente

lavoro. Lo facciamo aiutandoci con la menzione che lo stesso Carl Gustav Jung fa dei

principali cenni storici relativi al tema.

Secondo Wundt, fondatore di una vera e propria scuola di pensiero dalla quale sono

usciti eminenti psicologi a partire dall’inizio del secolo scorso: “Qualunque elemento

psichico svanito dalla coscienza è definito da noi come un elemento divenuto inconscio

in quanto noi presupponiamo, così facendo, la possibilità del suo rinnovamento, ossia

del suo reinserimento nel contesto attuale degli eventi psichici. La nostra conoscenza

degli elementi divenuti inconsci non si riferisce ad altro che a questa possibilità di

rinnovamento. Questi elementi formano quindi semplicemente ‘germi’ o ‘disposizioni’

al sorgere di future componenti dell’evento psichico.” 35

. Secondo Wundt, dunque,

sarebbe improduttivo per la psicologia formulare ipotesi sugli stati e i processi relativi

all’inconscio in quanto esso agisce, per così dire, sottotraccia, e le sue dinamiche

risultano pertanto oscure e imperscrutabili. Un limite, questo, evidenziato in maniera

ancora più netta da altri seguaci di Wundt, secondo i quali il più semplice fatto psichico

è la “sensazione”, la quale, per definizione, non può essere scomposta in fatti più

semplici. Altri, invece, arrivano altresì a sostenere che “uno stato psichico non può

essere definito psichico se non ha raggiunto almeno la soglia della coscienza”. Jung

critica tali affermazioni notando come queste argomentazioni presuppongano il fatto che

sia solo la coscienza ad essere psichica e che, a sua volta, tutto ciò che è psichico e

cosciente. In questo modo, se si suppone che ciò che precede la sensazione - e quindi

ciò che è alla base di essa - non è mai psichico, bensì fisiologico, si finisce per

inciampare in una evidente contraddizione. Seguendo tali premesse, infatti, la

conclusione non può essere che unica, ovvero che non esiste affatto un inconscio

all’interno della psiche. Jung accusa Wundt di aver solo aggirato il problema e di essere

35

W. WUNDT, Grundiss der Psychologiw, Lipsia, 1902.

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giunto, in maniera del tutto arbitraria ed accademicamente pavida, ad una proposizione

secondo la quale tutte le possibili ipotesi sull’inconscio non possono essere avvalorate

da nessuna osservazione empirica: una conclusione che, come è evidente, fuga tutte le

possibilità di incappare nelle innumerevoli difficoltà che una tale prospettiva scientifica

può dipanare davanti a sé. Per evidenziare l’appurata repulsione che Wundt nutre verso

l’inconscio come reale ipotesi psicologica, Jung riporta un altro suo passo in cui si legge

che “i processi inconsci sono elementi psichici non già inconsci, ma soprattutto e

soltanto più oscuramente consci” e che “è possibile sostituire agli ipotetici processi

inconsci processi consci effettivamente dimostrabili o in ogni caso meno ipotetici”. Per

l’illustre psicologo svizzero l’atteggiamento di Wundt è antiquato e intellettualmente

approssimativo; esso non fa altro che incasellarsi nel filone di quegli approcci filosofici

nei confronti della psicologia sperimentale ormai abbondantemente superati e che non

mirano al cuore pulsante del “problema” della psiche.

Al volgere del secolo, però, a coloro che, più o meno apertamente, rifiutano l’idea di

inconscio, si affiancano altri psicologi e filosofi del calibro di Gustav Fechner e di

Theodor Lipps che invece attribuiscono ad esso un’importanza decisiva. Il primo nota

come “Sensazioni e rappresentazioni hanno certamente cessato, allo stato inconscio, di

esistere come fatti reali […] ma c’è qualcosa in noi che continua: l’attività psicofisica”

36. Il pensiero di Fechner viene a rappresentare uno dei passi compiuti nella direzione di

un’articolata e composita teoria sull’inconscio, poiché esso va ad evidenziare alcuni

punti nevralgici, i quali saranno poi, a loro volta, oggetto di riflessione e

approfondimento dello lo stesso Jung. È Lipps, qualche anno dopo, a riprendere tali

concetti e ad articolarli ulteriormente. Per lo psicologo e filosofo tedesco, infatti,

sebbene la psicologia stessa viene a configurarsi come una “scienza della coscienza”,

tuttavia esistono sensazioni e rappresentazioni “inconsce”, intese a livello di “processi”.

Egli afferma: “Un ‘processo psichico’ non è per sua natura, o meglio in base al suo

concetto, un contenuto della coscienza o un’espressione vissuta dalla coscienza, bensì

l’elemento psichicamente reale che è alla base dell’esistenza di tale contenuto […] e

che è necessariamente co-pensato. […] Ma esaminando la vita cosciente si giunge alla

convinzione che in noi si trovano non solo occasionalmente sensazioni e

rappresentazioni inconsce, ma che il contesto vitale psichico si svolge sempre, per

36

G.T. FECHNER, Elemente der Psyvhophysik, vol. 2, Lipsia, 2ₐ ed., 1889, p. 209.

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quanto è essenziale, in tali sensazioni e rappresentazioni, e solo occasionalmente, in

punti precisi, ciò che opera in noi manifesta direttamente la sua esistenza in immagini

appropriate [… ]. Così la vita psichica supera sempre di gran lunga la misura di ciò che

è presente in noi, o può essere presente, in forma di contenuti di coscienza”37

.

Per Jung, dinnanzi alla scoperta di una dimensione altra all’interno della psiche, la

vecchia psicologia si trova di fronte ad una rivoluzione copernicana, in grado di

scompigliare costrutti e atteggiamenti consolidati nei secoli. Il cambiamento di

prospettiva di Jung (e in parte, come abbiamo visto, dai suoi predecessori) è così

espresso dallo stesso psicologo svizzero: “Si può ben stabilire che la psiche è la

coscienza e i suoi contenuti; ciò non impedisce affatto, anzi favorisce addirittura, la

scoperta di un retroterra non immaginato in precedenza, d’una vera matrice di tutti i

fenomeni della coscienza, di un prima e un dopo, un sopra e un sotto della

coscienza”38

.39

Freud soleva utilizzare il termine “Inconscio” riferendosi ad un serbatoio di contenuti,

processi, impulsi che non sono consapevoli. Nei suoi primi studi egli lo identificava in

una zona della mente (che lui considerata tripartita in “Conscio”, “Inconscio” e

“Preconscio”), il cui contenuto risulta difficilmente accessibile. Il termine venne poi

adoperato dallo stesso Freud per indicare più genericamente i contenuti stessi che non

sono accessibili dalla mente consapevole (il Conscio). Secondo la concezione freudiana

tali contenuti, sebbene inaccessibili, condizionerebbero comunque l’agire della persona,

poiché “premono” sulla coscienza per essere ascoltati (pena il manifestarsi di disturbi

psichici più o meno gravi nell’individuo). Essi si presenterebbero sotto forma di

sintomi, di lapsus, di sogni e soprattutto di tendenze infantili, in forma dunque distorta e

mascherata, tanto che la loro decodifica necessita di un processo di interpretazione.

Aderendo alla lettera a questa teoria, si potrebbe concludere che l’inconscio sia

costituito solo da quegli elementi della personalità che potrebbero benissimo essere

37

T. LIPPS, Leitfaden der Psychologie , Lipsia, 2ₐ ed. 1906, pp. 64-65. 38

C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, Opere Vol. 8, Collana Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p.

187. 39

Ancor più esplicativa (ed elegante) è quest’altro passo di Jung: “se il sistema psichico […] coincide e

s’identifica con la coscienza, noi possiamo in linea di principio conoscere tutto ciò che in generale è

conoscibile, ossia ciò che sta nei limiti teorico-conoscitivi. In questo caso non c’è alcun motivo di provare

un’inquietudine maggiore di quella che sentono l’anatomia e la fisiologia di fronte alla funzione

dell’occhio o dell’organo dell’udito. Se dovesse tuttavia accadere che la psiche non coincida con la

coscienza ma che – al di là e al di fuori della coscienza – essa funzioni inconsciamente in modo analogo o

“diverso” dalla sua parte capace di coscienza, allora la nostra inquietudine dovrebbe accentuarsi”. Ibidem.

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30

coscienti e sono repressi - nel caso delle tendenze infantili - durante la fase

dell’educazione attraverso il processo detto “di rimozione”40

. Una posizione, questa, che

risulta verosimilmente riduttiva.

Gli studi di Carl Gustav Jung sull’inconscio iniziano a partire dalla seconda metà degli

anni ’10 del secolo scorso e proseguono, a più riprese, durante tutto il corso della sua

vita (con aggiunte, correzioni e riedizioni che hanno messo a dura prova i filologi che

negli anni si sono occupati della sua sterminata quanto articolata produzione

intellettuale). Al contrario del suo originario maestro, Jung sostiene che: “sebbene, per

un certo modo di vedere, le tendenze infantili dell’inconscio siano quelle che più

spiccano, sarebbe tuttavia ingiusto definire o valutare l’inconscio esclusivamente in tal

modo, […] l’inconscio ha anche un altro lato: nel suo ambito bisogna comprendere non

solo i contenuti rimossi, ma anche tutto quel materiale psichico che non raggiunge la

soglia della coscienza.”41

Con i suoi studi, Jung allarga in maniera sensibile la

definizione di inconscio, sganciandosi dalle vedute di Freud, ritenute, per l’appunto,

insostenibilmente limitanti. Per lo psicologo zurighese, in maniera molto più generale,

“l’inconscio va concepito come la totalità di tutti quei fenomeni psichici che sono privi

della qualità della coscienza”42

dal momento che “rileviamo che nell’inconscio, oltre al

materiale rimosso, si trova tutto il materiale psichico divenuto subliminale, comprese le

percezioni sensoriali subliminali. Sappiamo inoltre […] che l’inconscio contiene anche

quel materiale che non ha ancora raggiunto la soglia della coscienza. Sono questi i

germi di successivi contenuti coscienti. Abbiamo parimenti motivo di sospettare che

l’inconscio non sia affatto in quiete e inattivo, ma sia continuamente occupato ad

associare e dissociare i suoi contenuti. Solo in casi patologici questa attività sarebbe da

considerare come assolutamente indipendente; in condizioni normali essa è coordinata

alla coscienza nel senso di una relazione compensatrice”43

. Lo stesso Jung ammette che

non si conosce - o almeno si conosce in maniera parziale – il funzionamento

dell’inconscio; tuttavia, poiché si suppone che esso sia un sistema psichico, è pacifico

sostenere che sia dotato di tutto ciò che possiede anche la coscienza (ossia memoria,

percezione, riflessione, affetto, sentimento, giudizio ecc.). Per lo psicologo svizzero

40

S. FREUD, Op. cit., 1915. 41

C.G. JUNG, Due testi di psicologia analitica, cit. p. 127. 42

C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit. p. 151. 43

C.G. JUNG, Due testi di psicologia analitica, cit. p. 128.

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l’ipotesi di un inconscio implica l’esistenza di una soglia che separa da noi le reazioni

psichiche, i pensieri e le conoscenze inconsce che si trovano al di sotto o al di sopra

della coscienza, i quali sono, allo stesso tempo, a noi prossimi ed irraggiungibili.44

Appare comunque innegabile che esista un’Io a cui si affianca un “coscienza

secondaria”, che la avvolge e che vi transita continuamente. In particolare essa può

incamerare o contenuti originariamente consci che, data la loro incompatibilità con l’Io,

sono divenuti inconsci mediante un processo di rimozione, oppure elementi derivanti da

un processo di natura subliminale che ha in qualche modo “eluso” la ricezione e la

comprensione dell’Io, e si è mantenuto sottotraccia. È dunque possibile che “l’inconscio

ospiti contenuti i quali posseggono una tensione energetica tanto grande da dover

diventare percepibili all’Io in altre circostanze”45

. Come già sottolineato, essi non si

esauriscono ai contenuti rimossi ma piuttosto rappresentano contenuti non ancora

consci.

Jung, in ultima analisi, dopo qualche “peripezia concettuale”, perviene ad una

definizione più schematica di quello che viene a rappresentare l’inconscio per la psiche:

“L’inconscio non è ciò che è semplicemente ignoto; da un lato è l’elemento psichico

ignoto, ossia tutto ciò che presupponiamo non si distinguerebbe in nulla dai contenuti

psichici a noi noti qualora pervenisse alla coscienza; d’altro lato dobbiamo aggiungervi

anche il sistema psicoide, sulla cui natura non siamo in grado di fare affermazioni

dirette. Questo inconscio così definito descrive un dato di fatto estremamente fluido:

tutto ciò che io sono, ma a cui momentaneamente non penso; tutto ciò che per me una

volta è stato cosciente, ma che ora è dimenticato; tutto ciò che viene percepito dai miei

sensi, ma che non viene notato dalla mia coscienza; tutto ciò che io sento, penso,

ricordo, voglio e faccio senza intenzione e senza attenzione, cioè inconsciamente; ogni

cosa futura che si prepara in me e che affiorerà alla coscienza solo più tardi; tutto questo

è contenuto dell’inconscio”46

.

Secondo le teorie Freud e di Jenet - che, a detta dello stesso Jung, rappresentano i

pionieri della ricerca sperimentale sul tema - gli elementi dell’inconscio esistono e

funzionano allo stesso modo di quelli della coscienza. Jung respinge questa ipotesi

44

L’esistenza di tale soglia è ben evidenziata, ad esempio, nei casi di “dissociazione o dissociabilità della

psiche” in cui accade che i processi inconsci sono indipendenti dagli eventi sperimentati dalla coscienza

e, allo stesso tempo, i legami tra i processi coscienti risultano assai flebili. 45

C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit. p. 194. 46

Ivi, pp. 203-204.

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affermando che la loro condizione può essere in alcuni casi sensibilmente diversa,

come, per esempio, nel caso dei complessi affettivi, i quali nell’inconscio, a differenza

di quanto avviene nella coscienza, non cambiano ma sono conservati nel loro stato

originario. Per lo psicologo svizzero l’inconscio “è un medium diverso dalla

coscienza”47

, la cui caratteristica di relatività non deve, però, far indurre nella trappola

di considerarlo meramente e semplicisticamente come il lato più oscuro della psiche. La

coscienza infatti, può essere considerata relativa quanto l’inconscio dal momento che

“tra ’io faccio’ e ‘io sono cosciente di ciò che faccio’ esiste una differenza abissale, non

solo, a volte addirittura una vera e propria antitesi”48

. Per Jung viene a configurarsi così

una coscienza che assume di volta in volta vari gradi di consapevolezza, andando dal

totale “controllo” alla predominanza della dimensione inconscia; la conclusione a cui

egli perviene - per certi versi apparentemente paradossale - è che non esiste contenuto

della coscienza che non sia inconscio sotto un altro aspetto.

Per spiegare meglio il rapporto tra la sfera della coscienza e quella dell’inconscio Jung

ricorre all’analogia dello spettro dei colori; segnatamente, egli paragona l’abbassamento

dei contenuti inconsci a uno spostamento verso la banda rossa, sottolineando come nelle

zone più prossime alla coscienza i cambiamenti non sono rilevanti, perché lì luce ed

ombra si alternano troppo spesso. Si comprende meglio, così, come coscienza ed

inconscio, lungi dall’essere separate da spaccature delineate e men che meno definitive,

siano dimensioni altamente comunicanti e interagenti tra loro, le quali si muovono, tra

integrazioni e sovrapposizioni, in quell’“universo di sfumature” che è la psiche.49

Anche

47

Ivi, p. 206. 48

Ibidem. 49

Jung, a tal proposito, si spinge oltre e aggiunge: “Forse non esiste neppure psichismo inconscio che non

sia al tempo stesso conscio. È più difficile dimostrare questa seconda asserzione che non la prima, perché

il nostro Io, il solo che potrebbe fare una tale constatazione, è il punto di riferimento della coscienza e

manca appunto – nei confronti dei contenuti inconsci – di un legame che gli permetta di pronunciarsi sulla

loro natura. Questi contenuti inconsci sono, ‘ai fini pratici’, inconsci per l’Io; il che non significa però che

non gli siano consci sotto un altro riguardo, ossia: l’Io può conoscere questi contenuti sotto un certo

aspetto, ma non sapere che sono questi stessi contenuti a causare, sotto un altro aspetto, dei perturbamenti

nella coscienza.” E ancora, sul funzionamento della coscienza e sullo “statuto” dei contenuti inconsci

Jung nota come: “nella sfera psichica il modello di comportamento con la sua coercitività cede il passo a

favore delle varianti di comportamento condizionate dall’esperienza e da atti volitivi, cioè da processi

consci. Rispetto allo stato psicoide riflesso-istintuale, la psiche rappresenta quindi un allentamento di

legami e una recessione crescente dei processi meccanici a favore delle modificazioni ‘scelte’. L’attività

selettiva si svolge da un lato dentro la coscienza, dall’altro fuori di essa, ossia senza rapporto con l’Io

cosciente, e quindi in maniera inconscia. Questo processo è solo paracosciente, come se fosse

‘rappresentato’ o cosciente. Non esistono ragioni sufficienti per ammettere che esista in ogni individuo un

secondo Io, o che chiunque sia soggetto a una dissociazione della personalità. Dobbiamo quindi

prescindere dall’idea di una seconda coscienza dell’Io dalla quale potrebbero venire decisioni volitive.

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a livello più alto, e al livello massimo, dunque, la coscienza non è ancora una totalità

completamente integrata, ma piuttosto un qualcosa capace di un ampliamento indefinito.

Isole affioranti, se non interi continenti, possono ancora sempre essere aggregate alla

coscienza moderna; è un fenomeno che lo psicoterapeuta sperimenta quotidianamente.

Sarà quindi bene pensare alla coscienza dell’Io come a un qualcosa circondato da molte

piccole luminosità, e al contempo come una mare necessario, un’acqua in cui bagnarsi

di continuo e non un mostro da cui rifuggire, pena i disastri e le derive più cupe dell’era

moderna, legate sia alle singole persone, sia alle intere comunità di individui50

.

Ma poiché sia l’esperienza fornita dalla psicopatologia sia quella della psicologia dei sogni rendono se

non altro estremamente probabile l’esistenza nell’inconscio di processi quanto mai complessi, paraconsci,

siamo costretti nolenti o meno a concludere che lo stato dei contenuti inconsci è non uguale, ma in

qualche modo simile a quello dei contenuti consci.” Ivi, pp. 207-208. 50

Sull’importanza del riconoscimento della dimensione inconscia - in particolar modo di quella collettiva

- e sui pericoli derivanti da un suo nascondimento o da una sua netta scissione dalla sfera della coscienza,

Jung ammonisce: “La cosiddetta coscienza civilizzata si è nettamente separata dagli istinti di fondo senza,

però, che questi ultimi siano scomparsi. Essi hanno semplicemente perduto ogni contatto con la nostra

coscienza e perciò sono costretti ad affermarsi in maniera indiretta. Ciò può verificarsi per mezzo di

sintomi fisici nel caso della nevrosi, o attraverso inconvenienti di vario tipo, come stati d'animo

inspiegabili, improvvise dimenticanze o errori di linguaggio. All'uomo piace credere di essere padrone

della propria anima. Ma nella misura in cui egli si dimostra incapace di controllare i propri stati d'animo e

le proprie emozioni, o di prendere coscienza degli infiniti modi segreti in cui i fattori inconsci arrivano a

insinuarsi nei suoi propositi e nelle sue decisioni, egli non è affatto padrone di se stesso. Questi fattori

inconsci debbono la loro esistenza all'autonomia degli archetipi. L'uomo moderno cerca di evitare di

prendere coscienza di questa spaccatura della sua personalità istituendo un sistema di compartimenti

stagni. Certi aspetti della sua vita esteriore e del suo comportamento sono mantenuti, per così dire, in

zone separate e non sono mai messi a confronto fra di loro.” C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli,

Tascabili Editori Associati, Milano, 1991, p. 63.

Il padre della psicologia analitica, ponendo l’attenzione sui rischi di una “emarginazione” dell’inconscio

perpetrata dall’uomo aggiunge: “Nella misura in cui noi, tramite il nostro inconscio, partecipiamo alla

psiche collettiva storica, viviamo naturalmente, in maniera inconscia, in un mondo di lupi mannari, di

demoni, di maghi ecc.; perché queste sono cose che hanno popolato di affetti intensissimi tutte le epoche

che ci hanno preceduto. Allo stesso modo noi conviviamo con Dei e con diavoli, con santi e criminali;

sarebbe assurdo però volersi attribuire personalmente queste possibilità che albergano nell’inconscio. […]

Negli uomini ingenui queste cose non erano mai naturalmente separate dalla coscienza individuale,

perché Dei, demoni ecc. non erano intesi come proiezioni psichiche e quindi come contenuti

dell’inconscio, ma come realtà evidenti. Soltanto nell’epoca illuministica si trovò che gli Dei non esistono

realmente, ma sono proiezioni. Ma se questa constatazione liquidò gli Dei, non eliminò affatto la funzione

psichica corrispondente, la quale fu catturata dall’inconscio. La conseguenza fu che gli uomini sono stati

avvelenati da un eccesso di libido che, in epoca anteriore, era investita nel culto dell’immagine di Dio. La

valorizzazione e la rimozione di una funzione intensa come quella religiosa ha avuto naturalmente

conseguenze di grande rilievo per la psicologia del singolo. L’inconscio viene infatti straordinariamente

rafforzato dal riflusso di questa libido, e così inizia ad esercitare con i suoi contenuti arcaici collettivi una

possente influenza sulla coscienza. L’Illuminismo si concluse, com’è noto, con gli orrori della

Rivoluzione francese. Anche oggi ci troviamo ancora una volta di fronte alla ribellione delle inconsce

forze distruttive della psiche collettiva. Il risultato è stato senza eguali [Questo passo risale al 1916, il

riferimento è agli orrori della Prima Guerra Mondiale, tuttavia è superfluo notare che ciò è applicabile a

tanti altri fatti storici, vedi i totalitarismi]. È proprio ciò che l’inconscio cercava. Prima, la sua posizione

era stata smisuratamente rafforzata dal razionalismo della vita moderna, che ha privato di valore tutto ciò

che è irrazionale e ha perciò fatto sprofondare nell’inconscio la funzione dell’irrazionale. Ma, non appena

questa funzione si trova confinata nell’inconscio, inizia di là ad operare le sue devastazioni, inarrestabile

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1.4 Gli “Archetipi” e l’”Inconscio collettivo”

Fin qui abbiamo cercato - in maniera sommaria per dovere di brevità - di descrivere le

caratteristiche principali dell’inconscio, intendendolo come parte integrante e attiva

della psiche dell’individuo, i cui contenuti possono emergere nella sfera dell’Io oppure

continuare a vivere nel “retroterra” della nostre mente. Come abbiamo visto, i contenuti

dell’inconscio sono di natura personale in quanto hanno il carattere, da una parte, di

acquisizioni dell’esistenza individuale, dall’altra, di fattori psicologici che potrebbero

anche essere coscienti. La loro origine, la loro parziale comparsa e i loro effetti, sono

riconducibili, dunque, al nostro passato biografico di singole persone. Jung però, con

una composita ed acuta analisi, si spinge concettualmente oltre e allarga sensibilmente

quello che è il concetto psicologico di inconscio, abbracciando una più estesa e

profonda dimensione: un risvolto della medaglia che potremmo definire “universale”.

Per lo psicologo svizzero, in ultima analisi, la sfera inconscia può essere divisa in due

parti: uno strato più superficiale rispondente ai dettami riportati nelle righe precedenti,

che è denominato per l’appunto “inconscio personale” e un altro, più profondo, di

natura globale ed innata, che è definito invece “inconscio collettivo”51

. Quest’ultimo,

per Jung, viene a costituire la “base primordiale” sulla quale il primo poggia, un sostrato

universale, comune a tutti gli esseri umani in quanto tali. Il concetto di inconscio

collettivo, rappresenta un importantissimo - e per molti aspetti rivoluzionario - tassello

nell’opera teorico-pratica di Carl Gustav Jung, il quale, in riferimento al carattere

sostanzialmente originale della sua posizione accademica, non stenta ad affermare:

“l’ipotesi di un inconscio collettivo fa parte di quei concetti che lì per lì stupiscono il

pubblico, ma che poi entrano presto in suo uso e possesso come concetti familiari; il che

appunto è avvenuto per il concetto di inconscio”52

. Egli, definendo con esattezza il suo

come una malattia inguaribile, le cui orde non possono essere sterminate perché invisibili. L’individuo,

come tutto il popolo, non può fare a meno di vivere l’irrazionale, limitandosi a impiegare il suo più

elevato idealismo e i suoi migliori motti di spirito per dar forma, con la sua massima perfezione possibile,

alla follia dell’irrazionale.” C.G. JUNG, Due testi di psicologia analitica, cit., pp. 95-96.

Jung, pertanto, auspica in ultimo una sintesi e un’unificazione tra la psiche individuale e quella collettiva,

poiché, come abbiamo visto, un atteggiamento di totale scissione e contrapposizione creerebbe dei mostri

pericolosissimi. Così conclude lo psicologo zurighese: ”Da un lato avremmo allora l’Io moderno e

differenziato, dall’altro invece una sorta di civiltà di negri o, per dirla in altre parole, una condizione

primitiva. Il risultato finale sarebbe quello che oggi è realmente visibile sotto gli occhi di tutti, ossia una

civiltà che ricopre come una crosta un bestione scuro” Ivi, p. 98. 51

C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere Vol. 9*, Coll. Bollati Boringhieri Editore,

Torino, 1980, p. 3. 52

Ibidem.

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35

concetto afferma: “ho scelto l’espressione ‘collettivo’ perché questo inconscio non è di

natura individuale, ma ‘collettiva’, e cioè, al contrario della psiche personale, ha

contenuti e comportamenti che […] sono gli stessi dappertutto e per tutti gli

individui”53

.54

L’inconscio collettivo viene a configurarsi così, come una sorta di

zoccolo duro, di “dotazione primordiale” e soprapersonale comune a tutti gli uomini,

dalla cui base va a collocarsi l’inconscio personale che, insieme all’Io, completa la

struttura della psiche umana. Esso ha una natura simile a quello dell’inconscio personale

ma differisce da quest’ultimo principalmente in termini di contenuti. Se i contenuti

dell’inconscio personale, infatti, come abbiamo visto, sono i cosiddetti “complessi a

tonalità affettiva” - i quali costituiscono l’intimità personale della vita psichica - quelli

dell’inconscio collettivo sono assimilabili a quelle che potremmo definire le “pietre

angolari” della psiche umana, le rappresentazioni primordiali e universali che prendono

il nome di “archetipi”. Per Jung, dunque, l’inconscio collettivo viene a rappresentare “la

poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo umano, che rinasce in ogni struttura

cerebrale individuale; [esso] contiene la sorgente delle forze motrici spirituali e le forme

o le categorie che le regolano, cioè gli archetipi. Tutte le più forti idee e

rappresentazioni dell’umanità risalgono agli archetipi.”55

L’ archetipo in sé consiste,

quindi, nella “tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur

nelle loro variazioni individuali anche sensibili, continuano a derivare dal medesimo

modello fondamentale”56

.

Il termine “archetipo” (che deriva dal greco antico ὰρχέτυπος col significato

di immagine: arché ("originale"), tipos ("modello", "marchio", "esemplare") compare

già in Filone Giudeo (De opificio mundi I.69) con riferimento all’immagine di Dio

nell’uomo, così come in Ireneo (Adversus hereses II.7, 5) nel quale si descrive che il

Creatore non trasse la sua opera del mondo, bensì attraverso “archetipi estranei”;

nell’Hermetica di Scott, Dio è chiamato “la luce archetipica”. Anche all’interno delle

53

Ibidem. 54

E ancora: “l’inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo

dall’inconscio personale per il fatto che non deve, come questo, la sua esistenza all’esperienza personale e

perciò non è acquisizione personale. Mentre l’inconscio personale è formato da contenuti che sono stati

un tempo consci, ma poi sono scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti

dell’inconscio collettivi non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti

individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà. L’inconscio personale

consiste soprattutto di complessi, il contenuto dell’inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente

da archetipi. Ivi, p. 43. 55

C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit., p. 176. 56

C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, Tascabili Editori Associati, Milano, 1991, p.52.

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opere di uno dei più grandi filosofi dell’antica Grecia, Platone, gli archetipi godono di

una considerazione estremamente alta. Essi infatti, vengono a configurarsi come eidos -

dal greco εἶδος che significa “forma”, “aspetto” - alle quali le cose reali aderiscono solo

mediante un processo di imitazione. Platone colloca tutte le "idee" in un mondo

distinto, il mondo "iperuranio" (dal greco υπερ, "oltre", e ουρανος, "cielo"), da cui

sgorgano come da una fonte per poi arrivare alla coscienza dell'umanità. L’eidos,

dunque, è una forma pura, ideale, appartenente ad un vero e proprio regno delle idee, al

quale si contrappone, e “ambisce”, quello sensibile delle cose.57

Per la Scolastica gli

archetipi sono assimilabili a “immagini naturali sepolte nello spirito umano, secondo le

quali lo spirito forma i suoi giudizi”58

. Sant’Agostino nel De diversis quaestionibus,

facendo riferimento a “idee principales”, ossia ad “Idee originarie […] che non sono

state create […] che sono contenute nell’intelligenza divina”, parafrasa il concetto di

archetipo pur non menzionandolo direttamente. È il caso anche del filosofo e poeta

inglese di inizio ‘600 Herbert of Cherbury, il quale afferma: ”Gli istinti naturali sono le

attività di quelle facoltà dalle quali derivano le conoscenze generali (secondo

un’analogia interna delle cose naturali) di tale specie, che in rapporto a causa, mezzo e

scopo del bene come del male, del bello, del gradevole ecc. sono formate

esclusivamente da sé stesse senza riflessione discorsiva. Ancora dalla filosofia Bergson,

per riferirsi alle reminiscenze di quelle immagini tipiche e autoctone che costituiscono il

fondamento delle mitologie dei popoli primitivi, adopera l’espressione “durée créatrice”

(la quale si ritrova, in verità, già in Proclo e, ancor prima, in Eraclito). Probabilmente,

però, gli autori che più ispirano Jung nella formulazione del concetto di archetipo (e,

prima ancora, di inconscio collettivo) sono il filosofo, antropologo ed etnologo francese

Lévy-Bruhl ed uno dei maggiori storici dell’‘800, Jacob Burckhardt. Il primo, per

riferirsi alle figure simboliche delle primitive visioni del mondo - emerse dai suoi lunghi

studi sulle popolazioni arcaiche - soleva adoperare l’espressione “représentations

collectives”59

, un’idea che è per molti tratti sovrapponibile a quella dello psicologo

zurighese. È di Burckhardt, invece, la definizione del concetto di “immagine originaria,

57

“Nell’acqua dell’arte, nella nostra acqua che è anche il caos, si trovano le scintille infuocate dell’anima

del mondo come pure Formae Rerum essentiales. Queste formae corrispondono alle idee pltatoniche, dal

che risulterebbe quindi una identità delle scintille con gli archetipi, se si suppone che le immagini eterne

di Platone, ‘custodite in un luogo sovraceleste’ siano un’espressione filosofica degli archetipi psicologici.

C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit., p. 209. 58

Ivi, p.154. 59

L. LÉVY-BRHUL, Les fonctions mentales dans la sociétés inférieures (Parigi, 2° ed. 1912)

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primordiale” come struttura apriori della mente. Infine Adolf Bastian, per riferirsi a tali

costrutti, usava le definizioni di “pensieri elementari” e “pensieri primordiali”60

.61

L’intuizione di Jung - mutuata, seppur in maniera parziale, dal pensiero degli autori

testé citati - è quella dell’esistenza, alla base della psiche, di “tipi arcaici o ancora

meglio primigeni, cioè immagini comuni presenti fin dai tempi remoti”62

. Gli archetipi

vengono a costituire, così, ne loro insieme, un alfabeto di possibili rappresentazioni che

alberga nella mente di ciascuno di noi, degli universali immaginativi, delle dotazioni di

base di carattere innato, in altre parole un bagaglio potenziale mai completamente sopito

di immagini, rappresentazioni, simboli che agiscono a livello inconscio, pronti - per

usare una felice espressione del maestro Jung - a far “balzare dalla sella la coscienza” in

qualsiasi momento.

Ma, come lo stesso Jung afferma, bisogna usare cautela ed attenzione nel descrivere la

natura dell’archetipo. Egli tiene a sottolineare, infatti, come gli archetipi non siano

rappresentazioni definite aprioristicamente dalla psiche e reiterate nei millenni in

maniera pedissequa; al contrario essi si limitano a designare i contenuti psichici non

ancora sottoposti ad elaborazione cosciente, i quali rappresentano così “un dato psichico

non ancora immediato”63

. Gli archetipi per Jung, in una prospettiva più psicologica e

biologica, vengono a costituire le forme di manifestazione degli istinti64

. Quest’ultimi

però, come egli stesso evidenzia, sono fattori impersonali, diffusi universalmente,

ereditari, di natura dinamica o motivante, che molto spesso non riescono - a differenza

di quanto accade per gli archetipi - a raggiungere la soglia della coscienza. Gli istinti,

60

C.G. JUNG, Simboli della trasformazione, Opere Vol. 5, Coll. Bollati Boringhieri Editore, Torino,

1970, p. 45, nota 37. 61

A partire da Cartesio la concezione metafisica di archetipo va indebolendosi fino a sfociare con Spinoza

in elemento interno del pensiero :”Intendo per idea un concetto della mente, che la mente forma”

(Benedictus de Spinoza, “Etica”, p.68. (Lipsia 1887) Kant, invece, con un ulteriore semplificazione

concettuale, riduce gli archetipi al numero limitato delle categorie dell’intelletto umano. 62

C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., pp. 100-101. 63

C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 102. 64

Sulla natura dell’istinto Jung: “Gli istinti sono forma tipiche dell’agire, e dovunque si tratta di forme

dell’agire che si ripetono uniformemente e regolarmente si tratta d’istinto, che vi si associ o no una

motivazione conscia”. E ancora: “l’azione istintuale appare come un evento psichico più o meno

sconnesso, una sorta di irruzione nella continuità della coscienza […] Conformemente a questa sua

natura, l’azione istintuale va annoverata tra i processi propriamente inconsci, i quali sono accessibili alla

coscienza solo attraverso i loro risultati”. Lo psicologo zurighese tiene poi a sottolineare le differenze tra

gli istinti e gli altri processi inconsci affermando: “Vi sono […] altre costruzioni inconsce, per esempio

pensieri ossessivi, melodie ossessive, immaginazioni e capricci improvvisi, affetti impulsivi, depressioni,

sensazioni di angoscia ecc. Questi fenomeni non compaiono, com’è noto, soltanto in individui anormali,

ma anche in individui normali. Fin quando [essi] si verificano isolatamente e non si ripetono con

regolarità devono essere distinti dai processi istintuali, sebbene il loro meccanismo psicologico sembri

corrispondere a quello dell’istinto” C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit., pp. 148-153.

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inoltre, a differenza degli archetipi, non hanno una natura vaga e indefinita; essi

piuttosto sono “forze motrici” specificamente formate, che, molto prima che esista un

qualsiasi grado di coscienza, e a prescindere dal grado di coscienza raggiunto in seguito,

perseguono i loro scopi intrinseci naturali. A parte le sostanziali differenze appena

evidenziate, Jung conclude che “[gli istinti] assumono[…] analogie così strette con gli

archetipi, che vi sono in verità buone ragioni per supporre che gli archetipi siano le

immagini inconsce degli istinti stessi; in altre parole, che essi siano ‘modelli di

comportamento istintuale’65

.66

Gli archetipi vengono a costituire, in questo modo, rappresentazioni “in potenza”, delle

strutture psichiche generali che, a seconda degli individui e delle situazioni, in maniera

dinamica e non preformata, possono manifestarsi in contenuti diversi.67

Se in un primo momento per Jung l'archetipo costituisce una forma trascendente

preesistente alla coscienza, egli gradualmente lo sgancia da tale concezione per

approdare a quella definitiva di “forma senza contenuto”. Così lo stesso Jung: "Nessun

archetipo è riducibile a semplici formule. L'archetipo è come un vaso che non si può

svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende

forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i

millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni. Gli archetipi sono elementi

incrollabili dell'inconscio, ma cambiano forma continuamente"68

.

Con queste affermazioni lo psicologo svizzero rigetta l’idea di un’ereditarietà, quasi

magica ed immutabile, delle specifiche rappresentazioni mentali di ciascun individuo,

rendendo così inconsistenti le accuse di misticismo e di scarso rigore empirico mossegli

65

C.G.JUNG, L'Analisi dei Sogni - Gli Archetipi dell'Inconscio - La Sincronicità, Bollati Boringhieri

Edizioni, Torino, 2011, p. 155. 66

A tal proposito Jung afferma: “Non è difficile ammettere che l'attività umana è notevolmente

influenzata dagli istinti, del tutto indipendentemente dalle motivazioni razionali della mente cosciente.

Pertanto, se si asserisce che la nostra immaginazione, la percezione e il pensiero sono parimenti

influenzati da elementi formali innati e presenti universalmente, mi sembra che un'intelligenza normale

non debba vedere in quest'idea né più né meno misticismo che nella teoria degli istinti. C.G. JUNG, Gli

archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. E altrove: “dalla sorgente vitale degli istinti fluisce tutto ciò che è

creativo, cosicché l’inconscio non è solo condizionamento storico, ma genera in pari tempo l’impulso

creatore, come la natura, che è enormemente conservatrice e nei suoi atti creatori neutralizza il proprio

condizionamento storico.” C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit., pp. 175-176. 67

“Gli archetipi hanno una loro iniziativa e una loro specifica energia. Ciò li rende suscettibili sia di

produrre una interpretazione significativa (nel loro stile simbolico caratteristico), sia di interferire in una

determinata situazione con i loro specifici impulsi e le loro particolari conformazioni di pensiero. Da

questo punto di vista essi funzionano allo stesso modo dei complessi: essi vanno e vengono a loro

piacimento e spesso ostruiscono o modificano in maniera imbarazzante le nostre intenzioni consce. C.G.

JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 59. 68

C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 172.

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a più riprese da alcuni69

. In ultima analisi, dal momento che “gli archetipi sono

determinati nella forma, ma non nel contenuto; tanto più l’archetipo non è preciso nella

forma, quanto più profondo è lo strato dell’inconscio collettivo da cui si presume che

sorga; uno strato nel quale i simboli non esistono che come sistema di assi, privi ancora

di contenuto individuale, non sono ancora differenziati dal sedimento della catena

infinita dell’esperienza individuale, che essi, ad ogni modo, precedono”70

; potremmo

riassumere che per Jung gli archetipi non sono rappresentazioni ereditate, bensì

possibilità innate di rappresentazioni. Inoltre, è da rimarcare il fatto che, essendo

manifestazioni dell'inconscio (collettivo), la coscienza può avere di essi soltanto una

conoscenza indiretta. Ciò svela la natura autonoma e slegata degli archetipi che, grazie

alla loro energia ancestrale ed universale, transitano e attraversano di continuo la sfera

dell’Io, pur costituendone la sua “piattaforma primordiale”. A tal proposito Jung nota:

“Specialmente sui gradini più elevati delle dottrine esoteriche, gli archetipi appaiono in

un contesto che di solito rivela in modo inequivocabile che essi sono stati giudicati e

valorizzati da un’elaborazione cosciente. Invece la loro apparizione diretta, quale ci si

presenta nei sogni e nelle visioni, è molto più individuale, incomprensibile e ingenua di

quanto non sia, per esempio, nel mito. L’archetipo rappresenta in sostanza un contenuto

inconscio che si è trasformato attraverso una presa di coscienza e per il fatto di essere

stato percepito, e ciò proprio nel senso di quella consapevolezza individuale nella quale

si manifesta.” 71

Gli archetipi non sono di natura spirituale, ma forme immanenti alla

materia in cui si sono sviluppati nel corso prima dell'evoluzione e poi della storia, e

sono contenuti nel patrimonio genetico dell'uomo. Jung, inoltre, opera un’importante

distinzione tra l’“archetipo in sé”, cioè l’archetipo potenzialmente insito in ogni

struttura psichica di ogni individuo, il quale possiede una natura non percepibile; e

l’archetipo “attualizzato”, ossia l’archetipo divenuto invece percepibile ed entrato nella

69

Così Jung sulla questione: “Benché l'accusa di misticismo sia stata rivolta frequentemente alla mia

concezione, devo di nuovo sottolineare che il concetto d'inconscio collettivo non è né speculativo né

filosofico, ma empirico. Il problema è semplicemente questo: esistono o non esistono forme universali

inconsce di questo genere? Se sì, c'è una regione della psiche che si può denominare inconscio collettivo.

È vero che la diagnosi dell'inconscio collettivo non sempre è un compito facile. Né è sufficiente

sottolineare la natura spesso inequivocabilmente archetipica dei prodotti inconsci, dal momento che essi

potrebbero essere derivati da acquisizioni avvenute tramite il linguaggio e l'educazione. Si dovrebbe

altresì escludere la criptomnesia, il che in alcuni casi è quasi impossibile. Nonostante tutte queste

difficoltà, a liberare il campo da ogni possibile dubbio, sussistono sufficienti casi individuali i quali

dimostrano il rivivere autoctono di motivi mitologici”. Ivi, p. 45. 70

Ivi, p. 64. 71

Ivi, p. 102.

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sfera della coscienza e che si presenta in seguito come immagine archetipica. In questo

caso la sua manifestazione è estremamente cangiante e varia costantemente al mutare

delle condizioni e del contesto entro i quali agisce. La conseguenza è che esistono

immagini archetipiche che, dopo essere state taciute nell’inconscio fino ad un attimo

prima, diventano efficaci in determinate situazioni; ma ciò non si sarebbe potuto dire,

ad esempio, per altre circostanze ed altri “humus psichici”.72

La somma degli archetipi viene a corrispondere, in ultimo, alla somma di tutte le latenti

possibilità della psiche umana: un’inesauribile granaio di antichissime cognizioni su

profondi nessi esistenti fra Dio, l’uomo e l’universo che lo circonda. L’archetipo, fonte

primordiale dell’esperienza umana universale, giace nell’inconscio, e di qui invade in

maniera dirompente l’ambito della vita.

1.4.1 Il simbolismo dell’Archetipo

Giunti sin qui, su tutti preme un quesito in particolare, vale a dire: in che modo

l’archetipo si manifesta nell’individuo una volta che, dalla nebulosa primordiale

dell’inconscio collettivo, approda nella coscienza laddove si esprime e viene finalmente

percepito? Apparirà a questo punto chiaro come la nozione di “archetipo” sia prossima a

quella di “simbolo”73

(o meglio ancora di “sintomo, come vedremo tra poche righe). Sul

rapporto tra i concetti di archetipo e simbolo lo psicologo svizzero si esprime in questi

72

Jung aggiunge: “Se il problema è legato al tempo e alla personalità, sarà molto complicata la veste con

la quale l’archetipo si esprime, ma al contempo essa sarà anche più delimitata e precisa; al contrario,

quanto più impersonale e generale è ciò che l’archetipo vuole illustrare, tanto più semplice e non

delineato sarà il suo linguaggio. Possiamo dire che il numero degli archetipi non è infinito. Nella vita si

presentano tanti archetipi, quanto è il numero delle situazioni tipiche. La ripetizione continua ha impresso

queste esperienze nella nostra costituzione psichica, ma non lo ha fatto nella forma di immagini dotate di

contenuto, bensì, inizialmente, come “forme senza contenuto” atte a costituire la possibilità di un certo

tipo di percezione e azione. L’archetipo si attiverà qualora si presenti una situazione che gli corrisponde e

si sviluppa una strada, che si apre un varco a fronte di ogni ragione o volontà” Ivi, p. 48. 73

Jung afferma: “Qualunque cosa possa essere l'inconscio, esso è un fenomeno naturale produttore di

simboli che si dimostrano significativi” C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 79. E ancora:

“L'uomo usa la parola parlata o scritta per esprimere il significato di quello che egli vuole comunicare. Il

suo linguaggio è pieno di simboli, ma egli spesso fa uso anche di segni o di immagini che non sono

descrittivi in senso stretto. Alcuni sono semplici abbreviazioni o successioni di iniziali, come ONU,

UNICEF, o UNESCO; altri sono familiari marchi di fabbrica, nomi di specialità medicinali, simboli

insegne. Sebbene siano in se stessi privi di significato, essi hanno acquistato un significato riconoscibile

attraverso l'uso comune o per un intento convenzionale. Tutti questi non sono simboli. Essi sono segni e

non hanno altro compito che quello di denotare gli oggetti a cui sono riferiti. Ciò che noi chiamiamo

simbolo è un termine, un nome, o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i

giorni e che tuttavia, possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale. Esso

implica qualcosa di vago, di sconosciuto o di inaccessibile per noi. Per esempio,molti monumenti cretesi

sono contraddistinti dal disegno della doppia ascia. Si tratta di un oggetto che ci è familiare ma di cui non

conosciamo le implicazioni simboliche.” Ivi, p. 10.

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termini: “L’inconscio agisce sull’Io, ma indirettamente, ossia per mezzo di ‘simboli’,

termine questo che però non è molto felice. I contenuti che appaiono nella coscienza

sono infatti anzitutto ‘sintomatici’. Da quanto sappiamo o crediamo di sapere su ciò a

cui essi rimandano o su cui si basano, sono ‘semiotici’ […], solo in parte realmente

simbolici, e hanno la funzione di rappresentanti indiretti di stati o processi inconsci la

cui natura può essere dedotta e resa cosciente solo imperfettamente dai contenuti che

appaiono nella coscienza. È quindi possibile che l’inconscio ospiti contenuti i quali

posseggono una tensione energetica tanto grande da dover diventare percepibili all’Io in

altre circostanze”74

. E ancora: “Il mondo parla attraverso il simbolo […] e più il simbolo

è arcaico e profondo[…] più diventa collettivo e universale. Più è astratto, differenziato

e specifico più si avvicina alla natura dei fatti unici”75

. Prima di continuare la

discussione sul simbolo, occorre precisare quale sia il rapporto e le differenze che

intercorrono fra il segno e il simbolo per Jung. Egli, lamentando un’ambiguità e una

carenza di fondo nel vocabolario scientifico (e non) in quanto ai termini per riferirsi al

concetto, afferma: “A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente

distinto dal concetto di mero segno. Significato simbolico e significato nell’ambito della

semeiotica sono due cose completamente diverse”. In questo senso ci può aiutare una

breve considerazione linguistica. In tedesco, infatti, la parola che equivale a simbolo

è Sinnbild, ed esprime con chiarezza la duplice origine del suo contenuto: il significato

(Sinn) è di pertinenza della coscienza, e dunque del razionale, l’immagine (Bild) è di

pertinenza dell’inconscio e dell’irrazionale. Il simbolo ha dunque la qualità per rendere

conto della totalità dei rapporti che si svolgono all’interno della psiche, ad esprimerne le

implicazioni e i contrasti, oltre che ad agire su di essi..

L’attribuzione di una natura

simbolica ad un oggetto dipende innanzitutto dalla coscienza della persona che vi si

trova di fronte. In questi termini ciò porta alla “naturale” conseguenza per cui ad alcuni

individui un oggetto apparirà come un simbolo, per altri, invece, soltanto come un

segno. Secondo Jung, allora, il simbolo non è né allegoria, né un segno, bensì

l’immagine di un contenuto che trascende la coscienza: esso rinvia a qualcosa di

essenzialmente sconosciuto, indecifrabile, per certi versi “misterioso”. La connessione

tra simbolo e ignoto, dunque, è così profonda che quando un contenuto simbolico si

rende noto e si lascia interpretare in termini concettuali, perde le sue caratteristiche di

74

C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 194. 75

Ivi, p. XXXIV.

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simbolo per divenire segno. Il simbolo, in altre parole, contiene un’“eccedenza di

senso”76

rispetto al senso conosciuto. Una volta annullata questa distanza, la

degenerazione è fatale, il simbolo muore e degenera in segno. Il simbolo, in questa

ottica, non rinvia a nulla che sia già noto: esso, infatti“[non comprende e non spiega,

ma accenna, al di là di sé stesso, a un senso ancora trascendente, inconcepibile,

oscuramente intuito, che le parole del nostro linguaggio attuale non potrebbero

adeguatamente esprimere” . Il simbolo è una parola, un nome, un’immagine, che, anche

laddove appartiene all’esistenza giornaliera, a noi del tutto familiare, cela al suo interno

delle implicazioni che vanno ad aggiungersi al suo significato sedimentato e

convenzionale. Per Jung “una parola o un'immagine è simbolica quando implica

qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato”77

. In questo modo, colui

che tenta di svelare cosa vi sia al di là dell’evidenza fattuale, cosa alberga nell’ignoto, è

fatalmente condotto verso sentieri che stanno al di là della ragione intesa come

razionalità (Io). Gli archetipi, alla luce di ciò, sono più che simboli; essi sono l'essenza

che dà vita al simbolo e sono la potenza che consente al simbolo di perdurare

nell’eternità. Quanto più il simbolo sarà “vivo” e “potente”, più andrà a rappresentare

un elemento essenziale dell’inconscio, e tanto più tale aspetto sarà diffuso, tanto sarà

più universale l’azione del simbolo. Perché ciò accada, esso dovrà “includere” gli

individui mediante materiali che devono risultare facilmente accessibili alla loro psiche,

ossia le voci che si lasciano dietro, e intorno, l’eco primitiva ed eterna degli archetipi;

l’alito ancestrale - potremmo dire - che per millenni il minus ha esalato sulla nuca del

suo prossimo all’interno della scala evolutiva, fino a che l’uomo, con la presa di

coscienza e la comparsa dell’Io, lo ha potuto davvero plasmare, arricchire, riconoscere e

custodire attraverso la complessa totalità del proprio Sé.

Solo se il simbolo abbraccia la natura innata ed immortale dell’archetipo, dunque, e lo

esprime nel modo più profondo ed elevato, può estendere la sua azione a tutti gli

individui, in maniera (pressoché) indistinta. Esso, così, nelle sue molteplici declinazioni

- parole, immagini, narrazioni ecc. - potrà agire servendosi di un’arma potentissima che

si realizza tutti i giorni nella vita psichica di ogni uomo ma che serba dentro di sé un

respiro cosmico e millenario.

76

U. GALIMBERTI, La terra senza il male, Feltrinelli Universale Economica, Milano, 2001, pp. 63-64. 77

C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 11.

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1.5 L’Archetipo come immagine

Non è da intendersi come incidentale, qui, collegata al concetto di archetipo (e dunque

di simbolo) la menzione di “immagine”. Una più fenomenica ed empirica prospettiva

sugli archetipi, infatti, porta al riconoscimento delle immagini come materiali

fondamentali mediante i quali l’inconscio - collettivo e personale - si palesa all’Io

cosciente. In altri termini, secondo tale teoria, gli archetipi si manifesterebbero

essenzialmente attraverso le immagini, le quali assumerebbero anch’esse una base

universale e innata da una parte, e una realizzazione individuale dall’altra.

1.5.1 Hillman e la Psicologia Archetipica

Il teorico principale di tale svolta del concetto di archetipo - nonché di fatto fondatore di

una vera propria “Psicologia Archetipica”78

- è James Hillman. Non è questa la sede per

operare una disamina approfondita dell’opera dello psicologo statunitense, la quale

muove direttamente dalle lezioni di Jung per poi allargare e ridefinire alcuni concetti

chiave del suo maestro, come, per l’appunto quello dell’archetipo, mettendo al centro

del suo pensiero l’idea di “immagine”; ci accontenteremo, dunque, di restituire un

breve estratto sul tema qui trattato. Hillman, nel tentativo di chiarire le peculiarità della

sua psicologia79

afferma: “Per Jung [gli archetipi] trascendono il mondo empirico del

tempo e dello spazio, non avendo di per sé natura fenomenica. Distaccandosi da Jung, la

psicologia archetipica ritiene che l’archetipo sia sempre fenomenico, evitando così

l’idealismo kantiano implicito nel maestro”80

. La strada per un tale distacco si sostanzia

78

La psicologia archetipica - la denominazione risale a Hillman (v., Why ‛archetypal' psychology?, 1970)

- si è proposta fin dall'inizio di travalicare l'ambito degli studi psicoterapeutici e delle indagini cliniche

per collocarsi nella cultura dell'immaginazione occidentale. È una psicologia che volutamente si collega

con le arti, la cultura e la storia della società, le quali traggono anch'esse origine dall'immaginazione. Il

termine ‛archetipico' contrapposto al termine ‛analitico', che è la qualifica abituale della psicologia

junghiana, è stato scelto non soltanto perché rifletteva gli approfondimenti teorici dell'ultimo Jung, che

tenta di risolvere i problemi psicologici andando oltre i modelli scientifici, ma, e soprattutto, perché ciò

che è ‛archetipico' appartiene a tutta la cultura, a tutte le forme dell'attività umana, e non esclusivamente

ai professionisti della moderna terapeutica.” J.HILLMAN, Psicologia Archetipica, Enciclopedia del ‘900,

vol V, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1981. 79

É con questi termini che Thomas Moore, in una raccolta di saggi di Hillman da lui curata intitolata

“Fuochi Blu”, introduce alla particolare visione della psiche dello psicologo statunitense: “La psicologia

archetipica non è una psicologia degli archetipi. La sua attività primaria non consiste nel far corrispondere

temi della mitologia e dell’arte ad analoghi temi della vita. L’idea è piuttosto di vedere come mito e come

poesia ogni frammento della vita e ogni sogno.”J. HILLMAN, T. MOORE (a cura di), Fuochi Blu,

Adelphi Editore, Milano, 1996, p. 380. 80

J.HILLMAN, Psicologia Archetipica, cit., p. 813.

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nel concepire la base della mente come base poetica81

e il suo linguaggio come

linguaggio metaforico. Jung, in realtà aveva già affermato che la psiche fosse

immagine82

, senza però trarne tutte le implicite conseguenze. Per Hillman, invece, gli

archetipi si presentano in origine nella nostra psiche come immagini, le quali vengono a

costituire“ il materiale stesso che costituisce la nostra anima, gli unici dati che si

presentano direttamente. Ogni altra cosa - il mondo, gli altri, il nostro corpo - sono

mediati alla coscienza da questo fattore poetico ancestrale, l’immagine.” E ancora:

“Tutto ciò che diciamo sul mondo, sugli altri, sul nostro corpo è influenzato da queste

fantastiche immagini archetipiche. Ci sono Dei, dèmoni ed eroi nelle nostre percezioni,

nei sentimenti, nelle idee e nelle azioni, e queste persone della fantasia determinano il

nostro modo di vedere, di sentire, di pensare e di comportarsi, tutta l’esistenza è

strutturata dall’immaginazione. Questo conduce ad una psicologia archetipica; la

riflessione su quei fattori soggettivi della fantasia che persistono sempre, il riconoscere

le immagini e il loro continuo operare in tutte le nostre realtà”83

. Il portato di tali

affermazioni spinge a concludere che se gli archetipi sono immagini e la “base

archetipica” della mente è metaforica e poetica, allora non si può trascendere

l’immagine in sé (come invece sostiene Jung); essa verrà a costituire, piuttosto, il dato

primario dell’intera psiche. È per questo motivo che la psicologia archetipica, come lo

stesso Hillman evidenzia, affonda le radici nell’ambito di quella realtà che H.Corbin84

ha definito mundus archetypalis, mundus imaginalis85

, vale a dire “un campo specifico

di realtà immaginali, il quale richiede metodi e facoltà percettive diversi da quelli

richiesti dal mondo spirituale o dal mondo empirico e ingenuo della normale percezione

sensoriale. Il mundus imaginalis offre una modalità ontologica di collocazione degli

81

La nozione di ‛base poetica della mente' si ritrova per la prima volta in Hillman (v.,Re-visioning,

1975, p. XI); con essa si intende che la psicologia archetipica ‟non ha il suo inizio nella fisiologia del

cervello o nella struttura del linguaggio o nell'organizzazione della società e nemmeno nell'analisi del

comportamento, ma nei processi dell'immaginazione. Il rapporto intrinseco che esiste tra la psicologia e

l'immaginazione culturale è richiesto imperativamente dalla natura della mente. L'approccio più fecondo

allo studio della mente è quindi quello che si rivolge alle sue più alte risposte immaginali, quelle in cui

più piena è la liberazione e l'elaborazione delle immagini. Hough, G., Poetry and the anima, in ‟Spring",

1973, p. 85. 82

“Ogni processo psichico è un'immagine e un ‛immaginare', altrimenti non potrebbe esistere nessuna

coscienza" (v. Jung, C. W.,XI, § 899). 83

J.HILLMAN, Il Pandemonio delle immagini, in “Testimonianze”, nn. 227-228, 1980, p. 80. 84

Corbin può essere considerato, dopo Jung, una sorta di “secondo padre” della psicologia archetipica. Lo

studioso, filosofo e mistico francese (Parigi 1903-1978) è noto in ambito accademico soprattutto per le

sue interpretazioni del pensiero islamico. Tra altri precursori “naturali” del pensiero di Hillman

ritroviamo Plotino, Marsilio Ficino e Giambattista Vico.

85 H. CORBIN, En Islam iranien, vol. 4, Paris 1971.

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archetipi della psiche, che risultano essere strutture fondamentali dell’immaginazione, o

fenomeni fondamentalmente immaginativi”86

. Per Corbin l’archetipo, presentandosi

innanzitutto come immagine, è accessibile primariamente all'immaginazione; ciò sta a

significare un fatto decisivo, ovvero che l'intera procedura della psicologia archetipica

come metodo è immaginativa. La sua esposizione deve avere un carattere retorico e

poetico, il suo ragionamento una natura non logica, e il suo fine terapeutico deve essere

teso a ricondurre il paziente alla propria realtà immaginale attraverso la “coltivazione”

dell'immaginazione nel paziente stesso.

Nella psicologia archetipica, il termine “immagine” riferisce, inoltre, ad una “immagine

consecutiva”, cioè al prodotto del sentire e del percepire; ed essa non va nemmeno a

configurarsi come un costrutto mentale che rappresenta in forma simbolica sentimenti e

concetti. L’immagine, infatti, non ha alcun referente oltre a sé stessa, né esterno, né di

tipo semantico: “le immagini non significano niente”; esse vanno a costituire la mente

stessa nella sua “visibilità immaginativa”; in quanto dato primario – “atomo” verrebbe

da dire – della psiche, l’immagine è irriducibile” 87

. L’estensione del concetto di

immagine, alla base della disciplina fondata da Hillman, riguarda la totalità del mondo,

o, sarebbe più corretto affermare, la pluralità dei mondi. Nell’attività di immaginazione

così, “non siamo noi che immaginiamo, bensì siamo immaginati”88

. A partire

dall’immagine archetipica si può, dunque, immaginare il mondo in quanto si è

immaginati come pluralità del mondo e pluralità dei mondi: “Un’immagine archetipica

funziona come il significato originario dell’idea (l’eidos e l’eidolon greci), si presenta

quindi non come ciò che vediamo, ma come ciò per mezzo del quale vediamo. Le

immagini archetipiche si manifestano perciò tanto nell’atto del vedere quanto

nell’oggetto visto: esse appaiono nella coscienza come la fantasia dominante in virtù

della quale diventa possibile il sorgere stesso della coscienza”.89

Sebbene ogni immagine vada sempre presa in considerazione come un evento unico e

individualizzato, un'immagine archetipica è universale perché, proprio come accade per

il concetto originario di archetipo, essa ha una risonanza collettiva. Grazie alle

immagini archetipiche, i fenomeni naturali presentano un volto che parla direttamente

86

J.HILLMAN, Psicologia Archetipica, cit., p. 814. 87

Ivi, p. 814. 88

Ivi, p. 815. 89

Ivi, p. 817

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all'anima immaginativa, in maniera “fattiva”, senza schermi di natura spirituale o

idealistica. Pare evidente come tali affermazioni costituiscono una “radicalizzazione”

del concetto di archetipo sull’immagine, e, prima ancora, sui processi immaginativi tout

court90

.

1.5.2 La tassonomia di Durand

Se, come abbiamo testé accennato, la Psicologia Archetipica dà la priorità alla

configurazione sulla singola molecola - l’immagine - e considera sempre anche gli

eventi particolari come “universali immaginistici”, allora non sarebbe affatto un azzardo

intellettuale concepire anche il campo dell’immaginario primordialmente ordinato in

regioni, temi, filoni e motivi tipici che si dipanano, a loro volta, seguendo modelli

fondamentali insiti nella psiche umana in quanto tale. Gilbert Durand, con la sua opera

“Le structures anthropologiques de l’imaginaire”91

, spingendosi sulla strada già tracciata

in precedenza da Bachelard - e il suo “Centre de Recherches sur l'Imaginaire” di

Chambéry - ha iniziato il disegno di una vera e propria “mappa dell'organizzazione

dell'immaginario”, visto, quest’ultimo, come la base dell'antropologia culturale, della

sociologia, della storia delle religioni e addirittura come base per la comprensione dei

processi immaginativi nella specie umana. .

Ma per meglio comprendere l’idea che risiede, in filigrana, dietro tale disegno è

necessario partire dalle concezioni che Durand ha su quelli che vengono a rappresentare

i “mattoni” che compongono l’immaginario stesso, ossia le immagini. Così come

Hillman, anche l’antropologo francese - intellettualmente vicino alla tradizione di Jung,

Corbin, e a quella dello stesso Bachelard, più volte citati all’interno della sua opera -

pone al vertice delle sue teorie il concetto di immagine e profonde tutti i suoi sforzi per

innalzarne la il valore e la considerazione presso gli studiosi delle scienze umane (e non

solo).

Durand, apre il suo libro proprio con una critica al pensiero occidentale circa lo

90

Il ‘900, in realtà, può definirsi “il secolo dell’immagine” poiché numerosi e importanti sono stati gli

studi, collegati a filoni diversi, che hanno posto l’immagine al centro dell’universo-uomo. In riferimento

all’Estetica e alla Storia dell’Arte, per esempio, sono stati decisivi e illuminanti gli apporti di autorevoli

studiosi: solo per fare alcuni nomi citiamo Ernst Cassirer, Erwin Panofsky e Aby Warburg, quest’ultimo

fondatore del pioneristico “Warburg Institute”, una biblioteca “per immagini” attualmente aggregata

all’Università di Londra, i cui materiali seguono una catalogazione volutamente rizomatica e

multidisciplinare. 91

G. DURAND, Les structures anthropologiques de l’imaginaire trad. it., Le strutture antropologiche

dell’immaginario, introduzione all’archetipologia generale, Edizioni Dedalo, Bari, 2009.

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“statuto” dell’immagine, nonché alla filosofia di stampo francese e alla psicologia in

generale, ree di aver costantemente svalutato, da una parte l’immagine dal punto di vista

ontologico, e, dall’altra, l’immaginazione in un contesto prettamente psicologico,

facendola assurgere alla parte più “povera” e trascurabile della mente (o, per dirla con

Durand, alla “matta di casa”92

) . Per Brunschvicg, per esempio, ogni immaginazione,

anche quella platonica di cui sopra, “è un peccato contro lo spirito”93

mentre, per la

psicologia classica, l’immaginazione è ridotta a quella sfera ancora “acerba”, al di qua

della sensazione, che prende in nome di immagine persistente o consecutiva. A questa

posizione aderisce anche Alain, che definisce l’immaginario come “l’infanzia della

coscienza”94

, laddove per Sartre, in una visione marcatamente metafisica, l’immaginario

non è che il mero portato della vacuità essenziale della coscienza umana.95

Secondo Durand tali posizioni tendono ad un monismo, ora meccanicistico, ora

nullificante della coscienza psicologica, riducendo l’immaginazione a flebile percezione

o a semplice specchio dei fenomeni psichici e l’immaginario ad una “illustrazione

didattica”96

. Riprendendo il discorso di Bachelard, l’autore delle “Structure

antropologiques...”, afferma: “l’immaginazione è dinamismo organizzatore, e questo

dinamismo organizzatore è fattore di omogeneità nella rappresentazione. […] ben lungi

dall’essere facoltà di formare immagini, l’immagine è potenza dinamica che deforma le

copie pragmatiche fornite dalla percezione. E tale dinamismo riformatore delle

sensazioni diventa il fondamento dell’intera vita psichica, perché le leggi della

rappresentazione sono omogenee”97

. Per Durand è essenziale comprendere come nel

simbolo costitutivo dell’immagine regna un’omogeneità di fondo tra significante e

significato, proprio in seno al dinamismo di cui sopra, e che dunque l’immagine esula

completamente dalla dimensione di arbitrarietà del segno, innalzandosi a elemento

fondamentale della psiche a sé stante. Ciò porta alla “estrema” conclusione che il

pensiero non ha altro contenuto che le immagini stesse. Così lo stesso antropologo

92

Ivi, p. 15. 93

L.BRUNSCHVICG, Héritage de mots, héritage d’idées, PUF, Paris, 1945, p. 98.

94 Émile-Auguste Chartier (ALAIN) Vingt leçons sur les beaux arts, 7° edizione Hartmann, Paris 1943,

pp. 89-90. 95

Non a caso Durand giudica come banale e riduttivo l’epilogo che lo scrittore e filosofo esistenzialista

francese sceglie per concludere il suo studio sull’immaginario; esso recita: “Questa coscienza libera […]

che supera il reale in ogni istante, che cos’è in effetti, se non semplicemente la coscienza tal quale essa si

rivela a se stessa nel cogito?” J.-P. SARTRE, L'Imaginaire, Paris, Gallimard, 1940, coll. Folio/Essais,

1986, p .236. 96

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 22. 97

Ivi, p. 26.

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francese: “È di capitale importanza notare che nel linguaggio, se la scelta del segno è

insignificante perché quest’ultimo è arbitrario, non altrettanto accade nel campo

dell’immaginazione, dove l’immagine - per quanto degradata la si possa concepire - è in

se stessa portatrice di un senso che non deve essere ricercato al di fuori della

significazione immaginaria […] L’analogon che costituisce l’immagine non è mai un

segno arbitrariamente scelto, ma è sempre intrinsecamente motivato, e cioè è sempre

simbolo”98

.99

A parere di Durand il “peccato originale” che sta dietro a pensatori come

Husserl, Bergson e Sartre risiede nell’aver confuso l’immagine con la parola, ossia un

simbolo colmo di significato con un segno arbitrario, in altre termini, il dato primario

della mente con un quasi-oggetto che esprime piuttosto la degradazione del pensiero,

perpetuando, in questo modo, un’opera di eccessiva semplificazione, svalutazione ed

“emarginazione” dell’immagine stessa che risulta ingiustificata e cieca agli occhi

dell’autore francese. Si colloca in questo filone, il pensiero dello stesso Freud e dei suoi

seguaci, secondo i quali l’immaginazione non sarebbe nient’altro che l’esito di un

conflitto tra le pulsioni dell’individuo e la loro rimozione sociale. Durand contrasta con

vigore tale concezione notando come l’immagine sia, piuttosto, il prodotto di una

mediazione tra i desideri e gli oggetti dell’ambiente sociale, e come essa sia scaturita da

meccanismi di disinibizione invece che di rimozione (“le immagini non valgono per le

radici libidinose che nascondono, ma per i fiori poetici e mitici che rivelano”100

).

Sull’importanza e il dinamismo delle immagini psichiche Durand cita ancora Bachelard,

secondo il quale “i simboli non devono essere giudicati dal punto di vista della forma

[…] ma dalla loro forza”, evidenziando come l’immagina letteraria sia “più viva di ogni

disegno perché trascende la forma ed è movimento senza materia”101

. Si viene a

configurare così una maniera cinematica di considerare un possibile schema

classificatorio dei simboli (che è, lo ricordiamo, il fine principale di Durand). Secondo

lo psicologo svizzero Charles Baudouin “la costanza degli archetipi non è rappresentata

98

Ivi, pp. 24-25. 99

Per Durand questo discorso porta ad un’ulteriore conseguenza, evidenziata in queste righe: “Ora,

respingere per l’immaginario il primo principio saussuriano dell’arbitrarietà del segno determina il rifiuto

del secondo principio, quello della “linearità del significante”. Il simbolo, avendo perso la natura

linguistica, non si svolge più in una sola dimensione. Le motivazioni che strutturano i simboli, più che

lunghe catene di ragioni, non formano più neppure una ‘catena’. L’esplicazione lineare, del tipo

deduzione logica o narrazione introspettiva non serve più allo studio delle motivazioni simboliche 100

Ivi, p. 37. 101

G. BACHELARD, L’eau et le rêve, Corti, Paris, 1942 p.161; trad. it., Psicanalisi delle acque, Red,

Como 1987 p. 177.

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da un punto nello spazio immaginario, ma da una direzione, [pertanto] in tali realtà

dinamiche vanno ricercate le categorie del pensiero”102

, mentre è un altro psicologo,

Desoille, a parlare di “immagini motorie”103

e unirle ai modi di rappresentazione visivi e

verbali. Durand, a tal proposito, nota come le due dominanti riflesse nel bambino

umano, quella posturale (riflessi inerenti alla posizione del corpo legati a processi

sopra-segmentali collegati al sistema extra-piramidale) e quella di nutrizione (riflessi di

suzione labbiale e di corrispondente orientamento della testa), a cui si aggiunge quella

ritmica (legata ai gesti ciclici e alla sessualità), abbiano un’importanza fondamentale per

lo sviluppo della sfera immaginativa e simbolica dell’individuo. Posta dunque una

“stretta e accertata concomitanza tra i gesti del corpo, i centri nervosi e le

rappresentazioni simboliche”104

, è proprio da questa dimensione di movimento e di

“fisicità” che Durand parte per delineare la sua classificazione dei simboli.

Innanzitutto egli li divide in schemi; uno schema è “una generalizzazione dinamica e

affettiva dell’immagine, esso costituisce la fattività e la non-sostantività generale

dell’immaginario” e tende a collegare tra loro non l’immagine e il concetto (come vuole

la concezione classica kantiana), bensì le rappresentazioni con i gesti inconsci senso-

motori e le dominanti riflesse. Secondo Durand sono proprio questi schemi, questi

“tragitti incarnati in rappresentazioni concrete e precise”105

, a costituire l’ossatura

dinamica dell’immaginazione. In questo modo, “al gesto dell’inghiottimento

corrisponde lo schema della discesa quello del rannicchia mento nell’intimità” mentre, a

sua volta, “lo schema del rannicchiamento genera tutti gli archetipi del grembo e

dell’intimità […] e agli schemi dell’ascensione corrispondono immutabilmente gli

archetipi della sommità, del capo, del lume, mentre gli schemi diairetici si sostanziano

in costanti archetipiche come la spada, il rituale battesimale ecc.”106

Durand poggia, in

tal modo, la sua classificazione sull’isomorfismo degli schemi, degli archetipi e dei

simboli e li raggruppa intorno a modelli sovraordinati - “macroschemi” potremmo dire

- che egli definisce strutture. Per struttura si intende qui non un assetto statico e

irrigidito di tali simboli ma, al contrario, un ordinamento cangiante e trasformatore; le

102

C. BAUDOUIN, De l’instinct à l’esprit, Desclée de Brouwer, Bruges 1950, pp. 60, 63, 197; trad. it,

Dall’istinto allo spirito, Angeli, Milano, 1976. 103

R. DESOILLE, L’exploration de l’affectivité subconsciente, Libraire Bernard Maille, Paris, 1938, p.

65. 104

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 51. 105

Ivi, pp. 60-61. 106

Ivi, p. 63.

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conseguenze evidenti di questo tipo di discorso risiedono nel fatto che tali modelli, da

una parte sono da concepire dinamici - nel senso che sono soggetti a modificazioni al

variare di uno dei loro termini - e, dall’altra, vanno a costituire modelli tassonomici,

agevolmente adottabili per la classificazione. Essi, poiché in qualche modo “malleabili”,

possono servire inoltre a modificare il campo dell’immaginario. A loro volta poi,

raggruppate in aree determinate, queste strutture contigue vanno a definire per Durand il

“regime dell’immaginario” 107

, ovvero le macrodimensioni generali che dividono la

classificazione a metà (come vedremo meglio tra breve).

Per Durand il simbolo non è mai aprioristicamente dato ma costituisce piuttosto “il

prodotto degli imperativi biopsichici attraverso le intimazioni dell’ambiente”108

. Ciò

significa che esso è il portato sia delle singole individualità – intese come persone

dotate di una psiche, ma anche di un soma – e sia dei particolari contesti in cui esse si

trovano ad agire. Così, gli assi fondamentali dell’immaginazione vengono a configurarsi

come “tragitti antropologici”, laddove per questa espressione si vuol intendere, da un

lato, il tragitto dei principali gesti che l’essere umano fa verso il suo ambiente naturale

e, al contempo e in maniera del tutto reversibile, quello degli effetti visibili all’interno

dell’ambiente stesso. Quest’ultimi, a loro volta, possono andare a ritroso nella direzione

del comportamento umano. Durand definisce il tragitto antropologico come

“l’incessante scambio che esiste, a livello dell’immaginario, tra le pulsioni soggettive e

assimilatrici e le intimazioni oggettive provenienti dall’ambiente cosmico e

sociale“109

.110

È evidenziata, in questo modo, una stretta connessione tra gesto e ambiente,

connessione nella quale si inscrive la stessa produzione del simbolo. Bachelard, a tal

proposito afferma: “Alla descrizione puramente cinematica di un movimento […]

bisogna sempre aggiungere la considerazione dinamica della materia in cui opera il

movimento”111

ribadendo una sorta di genesi reciproca tra le due dimensioni.

L’immaginario viene a delinearsi, pertanto, in quel tragitto in cui da una parte, la

rappresentazione dell’oggetto si modella sulle caratteristiche, sulle dotazioni e sulle

107

Ivi, p.66 108

Ivi, p. 39. 109

Ivi, p. 38. 110

Per dirla con Durand: “ogni gesto chiama la propria materia estratta, cioè astratta dall’ambiente

cosmico, e qualsiasi arnese o utensile sono le impronte di un gesto superato”. Ivi, p. 39. 111

G. BACHELARD, Psicanalisi delle acque, cit., p. 301.

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pulsioni del soggetto e, dall’altra, in maniera reciproca, le rappresentazioni soggettive

vengono declinate in base agli “accomodamenti anteriori del soggetto”112

all’ambiente

oggettivo.

Ma se per Durand il simbolo è costitutivo di un accordo e di un “equilibrio tra i desideri

imperativi del soggetto e le intimazioni dell’ambiente oggettivo”113

, esso non deve

trarre nel facile tranello di una affrettata – ed infondata – sistematizzazione delle

tipologie delle immagini con il genere sessuale, il comportamento pragmatico e il

carattere del singolo individuo che le produce. Durand, in accordo con Jung sul concetto

di “animus” e “anima”114

- sui quali ci soffermeremo nei prossimi paragrafi - , sostiene

che ogni uomo abbia in sé potenzialità rappresentative femminilizzanti, così come ogni

donna possiede un “occhio maschile” col quale guardare l’universo. Data l’esistenza di

tali meccanismi di inversione, quindi, la virilità e la femminilità in relazione

rappresentazione dei simboli nella psiche umana, divengono in questo modo concetti

sfumati e piuttosto relativi. Così come è altrettanto sfumata e relativa la correlazione che

intercorre tra il carattere dell’individuo e il contenuto delle sue rappresentazioni; queste

infatti, sia intese a livello immaginario, onirico che artistico, possono sensibilmente

differire dal comportamento generale della personalità dalla quale scaturiscono, così che

“anche un personaggio da ‘quattro soldi’ può vantare un’immaginazione da centomila

franchi”115

.116

A screditare una tesi “sessista” alla costituzione dell’attività rappresentativa è anche il

fatto stesso che la femminilità, al pari della virilità, trova posto in tutti i regimi

dell’immaginario inerenti alla classificazione dell’antropologo francese, così come è

altrettanto vero che “l’immaginazione umana sembra vergine rispetto a ogni

predeterminazione categoriale, sicché si può parlare, al di là delle intimazioni del

carattere o del sesso, di un’universalità dell’immaginario smentita soltanto

dall’eccezione patologica, dove l’immaginazione sembra bloccata in questa o in quella

112

J. PIAGET, La formation du symbole chez l’enfant, Delachaux et Neiestlé, Paris 1945 cit., p. 219 trad.

it., Formazione del simbolo nel bambino, La Nuova Italia, Firenze 1972 113

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p.488. 114

Cfr. par. 7 del presente capitolo. 115

Ivi, p. 472. 116

Così Durand sulla questione della personalità: “se si ammette con Jaspers che la psicosi di cui soffre

van Gogh è schizofrenica, tutta l’opera del pittore smentisce i caratteri psicologici di tale psicosi,

costituendo un modello di immagini mistiche.” E ancora: “la musica di Bach, contraddistinta da un sereno

misticismo, fu scritta da un funzionario buontempone, collerico, amante della buona tavola, mentre le

opere più terrificanti di Goya furono incise o dipinte proprio nel momento in cui l’artista aveva vinto

l’angoscia nevrastenica”. Ivi, pp.471-472.

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struttura esclusiva.” Secondo Durand le variabili che entrano in gioco in merito

all’aspetto immaginifico della psiche – a cui spesso è richiamato il concetto di “anima”

– sono da ricercare, non tanto, quindi, nel genere sessuale e nel tipo di carattere

appartenente alla singola persona, quanto nelle ideologie, nei costumi, nelle usanze, e in

generale nelle pressioni sociali, culturali e storiche cui l’individuo è sottoposto in una

determinata epoca, laddove per pressione si intende quella evenemenziale – cioè del

singolo avvenimento - delle ideologie, legata, appunto, ad un dato momento di una data

civiltà (Durand, a tal proposito, preferisce il termine “pedagogia” a quello di “storia”).

Molti, d’altronde, tra le fila degli stessi storici e filosofi della storia, ma anche studiosi

di estetica, convengono nell’attribuire determinati regimi dell’immaginario ad una

particolare fase culturale e nel constatare come specifici archetipi si estendano a

macchia d’olio in una data epoca, nella coscienza di un dato gruppo sociale. Essendo il

meccanismo di funzionamento della “pressione pedagogica” essenzialmente “in

negativo”, le forme, i miti e le immagini dominanti in una certa congiuntura spazio-

temporale e sociale rifiuterebbero le rappresentazioni fantastiche estranee al loro

regime.117

Così, “il geometrismo astratto dell’iconografia dei primitivi sarebbe

l’espressione di un immenso bisogno di tranquillità [le quali emergono] da un uomo

stanco dei terrori procurati dalla natura e dalle costruzioni epiche, esistenziali o

storiche”118

, mentre l’arte non figurativa della prima metà del ‘900, dissimile sia rispetto

all’espressionismo, sia al realismo, altro non è che il tentativo di “strappare ogni oggetto

particolare esterno al suo carattere arbitrario […] nell’eternarlo appaiandolo a forme

astratte e nello scoprire in questo modo un punto di arresto nella fuga dei fenomeni”119

.

In ultima analisi, la Storia, per Durand, non sarebbe nient’altro che una grande

realizzazione simbolica delle aspirazioni archetipiche frustrate, provenienti dalle

generazioni precedenti. In questo modo le proiezioni immaginarie e mitiche

prenderebbero poco a poco forma in imitazioni e stili di vita che si codificherebbero in

sistemi pedagogici stabili e socializzati i quali, a loro volta, andrebbero a frustrare i

regimi archetipici differenti da quelli “in vigore”. Sono quelle che Durand stesso

definisce “le sistoli e le diastoli della storia”120

, le quali, secondo l’autore, sono

117

Ivi p. 476. 118

Ivi p.477. 119

K. WORRINGER, Abstraktion und Einfühlung, cit., pp. 18-20; trad. it. Astrazione e empatia, Einaudi,

Torino 1975 120

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 389.

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determinate dagli archetipi, e non viceversa. Conclusione questa, che porta al rifiuto di

ogni spiegazione di tipo storico o evoluzionista delle immagini e dei miti. Per dirla con

Durand “ben lontano dall’essere un prodotto della storia, è il mito che vivifica, con il

suo fluire, l’immaginazione storica e struttura le concezioni stesse della storia. In tutte le

epoche e sotto tutte le incidenze storiche si ritrovano, l’uno di fronte all’altro, i grandi

regimi antinomici dell’immagine. Solo il contesto sociologico collabora al

modellamento degli archetipi in simboli e costituisce la derivazione pedagogica.”121

L’universalità degli archetipi e degli schemi secondo Durand, - in accordo col pensiero

di Jung - non implica direttamente quella dei simboli specifici, bensì è la pressione

sociologica costante a specificare di volta in volta, mediante i segni ben differenziati del

linguaggio, il simbolismo dell’archetipo e dello schema universale. Ciò spiega

l’impossibilità di una traducibilità completa di un’espressione da una lingua all’altra, a

fronte di una sempre possibile trasposizione basata sul semantismo dei mitemi.

In conclusione, secondo l’antropologo francese la storia non può spiegare il contenuto

mentale dell’archetipo in quanto, essendo con quest’ultimo, come accennato poco sopra,

in un rapporto di dipendenza e subalternità, essa stessa entra nell’ambito

dell’immaginario.122

Torna così come preminente, rispetto sia alle pressioni storiche, sia

alle differenziazioni in base al sesso e alla personalità della persona, il concetto di

“tragitto antropologico” precedentemente enucleato. Durand conclude affermando che

esso, esprimendo in maniera più intima possibile il rapporto tra l’uomo e il suo

ambiente, fonda una generalità comprensiva che nessun’altra spiegazione può

totalmente coniare, assurgendo in questo modo a variabile principale nei processi

psichici che sottendono all’immaginazione. I tre grandi gesti delle riflessologia, infatti,

svolgono e orientano la rappresentazione simbolica verso categorie preferenziali ben più

sensate rispetto a quelle troppo rigide e razionalizzate legate agli elementi della natura

(quelle, ad esempio, che ha utilizzato Bachelard con le sue psicanalisi delle acque, del

fuoco, della terra, e dell’aria). È così che il primo gesto, la dominante posturale, richiede

da una parte, materie luminose e splendenti, e, dall’altra attività di purificazione e di

separazione di cui le spade, le frecce, le armi sono i simboli più frequenti; il secondo

121

Ivi p. 483. 122

“In ogni fase storica, l’immaginazione è presente per intero, in una duplice e antagonistica

motivazione: pedagogia dell’imitazione, dell’imperialismo delle immagini e degli archetipi tollerati

dall’ambiente sociale, ma anche fantasie avverse della rivolta, dovute alla rimozione di questo o di quel

regime dell’immagine da parte del contesto e del momento storico. Ivi, p. 484.

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gesto, legato alla discesa digestiva, esige le materia del bere, del cibarsi e della

profondità (simbolizzata attraverso l’acqua, le caverne ecc.) e le entità contenenti quali

coppe, cofani, uova ecc.; infine i gesti ritmici vanno ad estrinsecarsi nei ritmi stagionali,

nei cicli (attraverso la rappresentazione della ruota, del cerchio, della zangola ecc.) fino

a sconfinare nei simboli legati alla ritmicità sessuale. Il piano dell’opera di Durand,

però, oltre a fondarsi su tale tripartizione riflessologica, si declina, come accennato in

precedenza, in due grandi regimi del simbolismo - intrecciati alle tre dimensioni testé

descritte - i quali danno vita, a loro volta, a specifici gruppi di schemi, archetipi e

simboli: si tratta del “regime diurno dell’immagine” e del “regime notturno”. Il primo

concerne la dominante posturale, la tecnologia delle armi, la sociologia del sovrano

mago e guerriero, i rituali della purificazione e dell’elevazione; il regime notturno,

invece, si ricollega sia alla dominante digestiva che a quella ciclica, la prima delle quali

comprende le tecniche dell’ambiente e del contenente, i valori digestivi e alimentari, la

nutrizione e la sociologia matriarcale; la seconda, invece, si rifà alle tecniche del ciclo,

del calendario agricolo e astrologico, ai simboli del ritorno e ai miti.

Affrontiamo ora nel dettaglio – ma allo stesso tempo servendoci di “filtro” espositivo

necessariamente sintetico, vista la gran mole di citazioni e approfondimenti

pluridisciplinari che permea tutto il testo – la struttura classificatoria dell’opera di

Durand. Essa, come detto, va ad articolarsi innanzitutto in regimi e, ad un livello

successivo, in “costellazioni”, ovvero insiemi di simboli, schemi ed archetipi tra i quali

intercorre un isomorfismo di base che li rende tra loro coerenti e omologhi attraverso un

principio di convergenza (piuttosto, come afferma lo stesso Durand, che di analogia). È

su queste basi metodologiche che l’autore dispiega quello che potremmo definire il suo

“bestiario universale”. Esso cova in sé l’ambizione, non del tutto disattesa, di

racchiudere tutto lo “scibile immaginativo” umano, andando a costruire un’enciclopedia

del simbolo che, per coerenza e completezza, risulta essere a tutt’oggi una delle opere

più importanti all’interno di questo filone di studi. La descrizione di un vero “impero

del simbolo”, dunque, come quello descritto da Aniela Jaffé, allieva di Jung, quando

ricorda che: “La storia del simbolismo dimostra che qualsiasi cosa può assumere un

significato simbolico: così gli oggetti naturali (come pietre, piante, animali, esseri

umani, montagne e vallate, il sole e la luna, il vento, l'acqua e il fuoco), come le cose

che sono opera dell'uomo (case, barche, veicoli), e perfino le forme astratte (i numeri, le

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figure geometriche come il triangolo, il quadrato e il cerchio). In effetti, l'intero cosmo è

un simbolo potenziale”123

. Vediamo dunque, nello specifico, il contenuto di tale

categorizzazione.

1.5.2.1 Il regime diurno dell’immagine

Siccome “si può dire che non c’è luce senza tenebre mentre il contrario non è vero, dal

momento che la notte ha un’esistenza simbolica autonoma”124

, è possibile definire il

regime diurno dell’immagine come un regime dal carattere sostanzialmente antitetico.

Esso, si dispiega in due parti: la prima (della quale fanno parte i simboli “teriomorfi”,

“nictomorfi” e “catamorfi”), afferente alla dimensione dell’oscurità, della profondità,

della pesantezza, della solitudine, del mistero e dell’inquietudine; la seconda (ovvero i

simboli “ascensionali”, “spettacolari” e “diairetici”) che in maniera antitetica si

ricollega piuttosto alla luce, allo splendore, al sole, alla purezza, alla grandezza, al

divino.

Simboli teriomorfi

I simboli teriomorfi sono animali - reali o fantastici - che ricorrono in iconografie e

narrazioni sin dalla notte dei tempi, ossia da quando l’uomo li raffigurava sulle pareti

delle caverne con il duplice scopo di raffigurare la loro quotidianità ed esorcizzare il

pericolo derivante dalle bestie. Ad essi sono ricollegabili diversi simbolismi quali la

forza, la virilità, la bestialità, “l’angoscia dinanzi al mutamento”125

, l’incubo notturno, la

fuga del tempo, il viaggio verso il regno dei morti, il complesso di Edipo ecc. Tra questi

ritroviamo il toro, la Sfinge, il pesce, il lupo, il cavallo, il topo, la salamandra, l’uccello,

la lepre, la vacca, la vipera, il cane, il ragno, il verme, ecc. ecc.

Simboli nictomorfi

Sono le immagini che rimandano alla morte, all’oscurità, alle tenebre, all’angoscia,

all’annegamento, alla depressione, all’indolenza, al caos, all’impurità, al rumore, al

123

C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 191. 124

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 69. 125

Ivi p. 79.

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demoniaco, al satanico, al terrificante, al legame inteso come costrizione e come

trappola mortale.

Tra i simboli con maggiore occorrenza troviamo: l’acqua ostile, sporca, contaminata, i

fiumi e gli stagni infernali, le lacrime, il sangue mestruale, la capigliatura femminile, lo

specchio scuro, il riflesso sinistro di se stessi, la luna funesta, la trappola e la morsa del

ragno, della piovra, della donna fatale, della maga ecc. ecc.

Simboli catamorfi

I simboli catamorfi sono quelli legati alla caduta (intesa come preludio alla morte), alla

discesa che comporta la visione di scene infernali, alla vertigine, alla pesantezza, allo

schiacciamento. Essi vengono a configurarsi come elementi moralizzati dal momento

che rappresentano la punizione del tempo nefasto e mortale. La caduta, spesso

femminilizzata, diviene così l’emblema dei peccati di collera, gelosia, idolatria,

fornicazione, omicidio ecc. e soprattutto dei peccati della carne.

I simboli ricorrenti sono: la regressione verso il basso, la fogna, il labirinto, la bocca

dentata, l’intestino, il sesso femminile, le immagini digestive, anali ecc. ecc.

Simboli ascensionali

Questa costellazione è collegata al volo, all’elevazione, all’erezione, al sollevamento,

all’immortalità dell’ascensione, all’ingrandimento, alla potenza, alla virilità, alle

elevazioni monarchiche e divine, all’ascetismo, alla verticalità, al viaggio verso un

luogo elevato, verso uno spazio metafisico e verso un “al di là del tempo”126

. I simboli

ricorrenti sono: l’atto del volare, gli uccelli, le ali, le piume, i promontori, le montagne

sacre, i betili, le rocce, le scale (anche astronomiche), l’arco, la freccia, lo scettro, il

trono, l’altare, il fallo, il cranio umano e animale, le corna ecc. ecc.

Simboli spettacolari

In opposizione ai simboli nictomorfi, quelli spettacolari, da una parte riferiscono a tutto

ciò che riguarda la luce, l’illuminazione, l’abbaglio, lo splendore divino benefico, e,

dall’altra, rimandano all’occhio come organo supremo della visione, il quale consente,

di fatto, la loro stessa presenza.

126

Ivi p. 173.

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I simboli più ricorrenti sono quelli del raggio, dell’aura di luce, dell’aureola, dei colori

caldi (soprattutto il rosso, il giallo, l’oro, il celeste), del sole, delle altre fonti di luce

come il faro e la lampada, dei capelli e delle barbe bianche, e dell’occhio come visione

fenomenologica e trascendenza divina.

Simboli diairetici

I simboli diairetici rimandano alla divisione, al taglio, alla fenditura, alla recisione, allo

squarcio, ma anche alla purezza, alla limpidezza, alla purificazione, nonché alla

separazione tra il maschile e il femminile attraverso pratiche come la circoncisione

(intesa come “cerimonia di diairesi catartica”127

), quella tra l’uomo primitivo e

intellettuale, e infine tra la dimensione immanente e quella trascendente.

Ritroviamo, quindi, la spada, le lame, i coltelli e tutte le armi taglienti e/o aguzze per

quanto riguarda il carattere offensivo, mentre, per ciò che concerne quello difensivo,

prevalgono bastoni, fossati, mura, corazze e scudi. Il fuoco, la fiamma purificatrice,

l’acqua e l’aria limpide e fresche, i detersivi e i saponi, vanno a collocarsi invece

nell’isomorfismo della purificazione, dell’evoluzione intellettuale dell’uomo e del

mondo metafisico.

1.5.2.2 Il regime notturno dell’immagine

Il regime notturno dell’immagine viene a configurarsi come “contraltare fisiologico” del

regime diurno. Senza di esso, infatti, si correrebbe il rischio di cadere nell’unilateralità e

nella vacuità assoluta 128

, perdendo di mira l’insegnamento platonico del discendere

nella caverna, “raccogliere” a piene mani la pasta della nostra condizione mortale e fare,

per quanto ci è possibile, un buon uso del tempo. Eros e Chronos sono gli déi che

idealmente governano questo regime, il quale si pone sotto il segno dell’“eufemismo”

da una parte, e della “conversione” dall’altra. Segnatamente il processo di

eufemizzazione si concreta in una vera e propria antifrasi per inversione e

capovolgimento del senso di altre immagini (d’altronde è nelle tenebre che si ricerca la

luce); la conversione, invece, va a collocarsi nel tentativo di scoperta di un fattore di

127

Ivi p. 208. 128

A tal proposito Durand, con una riflessione di ampio respiro antropologico, sociologico, storico ed

psicologico, afferma come “troppi uomini in questo secolo dell’illuminazione si vedono usurpare il loro

imprescrittibile diritto: il lusso notturno della fantasia” Ivi p.529.

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costanza all’interno della sempiterna fluidità temporale, condensando l’attitudine alla

trascendenza e le “intuizioni immanenti del divenire”129

. La notte, qui, diviene promessa

vivificatrice e, insieme, controparte necessaria e imprescindibile del giorno e dell’alba

stessi. In ultima analisi, la conseguenza di questi due processi – soprattutto di quello

legato all’inversione del senso che predispone in sé una sorta di dialettica – fa sì che il

regime notturno dell’immagine induca il simbolismo a organizzarsi in narrazioni

drammatiche o storiche quali miti, leggende ecc. (a questo tema è dedicata una

trattazione a parte all’interno del presente lavoro).

Simboli dell’inversione

Queste costellazioni rimandano non all’ascensione verso la vetta, bensì alla

“penetrazione di un centro”, alle tecniche ascensionali subentrano qui “tecniche di

scavo”130

; l’ambiguità si mescola alla profondità, all’abisso rivalutato, alla circolarità.

Essi scaturiscono da un principio di antitesi rispetto ad altri simboli, che va a

rappresentare, di fatto, un loro capovolgimento. Come lo stesso Durand afferma: “il

procedimento risiede essenzialmente nel fatto che mediante il negativo si ricostituisce il

positivo, attraverso una negazione o un atto negativo si distrugge l’effetto di una prima

negatività” e ancora: “l’antifrasi costituisce un’autentica conversione, che trasfigura il

senso e la vocazione delle cose e degli esseri conservando l’ineluttabile destino delle

cose e degli esseri.”131

Tali simboli possono esprimersi attraverso una doppia negazione

(ad esempio un contenente raddoppiato, a sua volta contenuto) oppure attraverso il

rovesciamento degli opposti (è il caso dell’“inversione gulliverizzante” in cui gli esseri

piccolissimi divengono molto potenti proprio per la loro stazza ridotta). In tale ambito i

simboli ricorrenti sono il pesce nel suo habitat marino, le immagini afferenti al culto

della Grande Madre, i folletti, i nani, gli esseri rimpiccioliti ecc. ecc.

Simboli dell’intimità

I simboli dell’intimità riferiscono in primo luogo all’“inversione eufemizzante”132

che

caratterizza i rituali mortuari e di seppellimento, i quali vanno a rappresentare l’antifrasi

129

Ivi, p. 241. 130

Ivi, p. 245. 131

Ivi p. 250. 132

Ivi p. 293.

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della morte stessa. Collegato all’inversione del senso naturale della morte è

l’isomorfismo sepolcro-culla133

che si applica in generale a buona parte degli oggetti e

dei luoghi cavi, riparati, profondi, contenenti, sicuri, intimi, femminilizzati, ma anche ai

fluidi e alle bevande come simboli di suzione segreta e nascosta.

Tra i simboli ricorrenti ritroviamo i sarcofagi, i sepolcri, la cripta, la nicchia, il vello, la

caverna-casa, la dimora sull’acqua, l’incavo, la grotta, il tunnel, il grembo materno,

l’organo femminile. E ancora: i vasi, le scodella, il cucchiaio, la bacinella, la ciotola, la

cinta e le porte chiuse, i bauli, i forzieri, le casseforti, le figure chiuse e quadrate, i cesti,

le cisterne, le vasche, i laghi, i vascelli, la barca, l’automobile, la roulotte, l’aereo, la

conchiglia e tutti gli animali dotati di guscio, le coppe, il vino, il latte ecc. ecc.

Simboli ciclici

Riferiscono al trascorrere e alla rigenerazione reiterata del tempo, alla ciclicità delle

stagioni, alla fruttificazione, alla nascita e alla crescita, al ciclo lunare e vegetale, allo

schema agro lunare sacrificio-morte-sepoltura-resurrezione, al ciclo totale delle

creazioni e delle distruzioni cosmiche, al raddoppiamento e alla ripetizione (nei riti così

come nelle narrazioni), alle pratiche di iniziazione, sacrificio e a quelle mondane ed

orgiastiche: queste simbolizzano l’integrazione col tempo e ritorno ad uno stato

primordiale ed anomico, così come, allo stesso tempo, svelano la promessa di un ordine

futuro. In aggiunta ritroviamo i temi del mutamento (anche di forma), il flusso e del

riflusso della vita, il divenire, il destino, la circolarità come strumento utilitario e, prima

di tutto, come “ingranaggio archetipico essenziale dell’immaginazione umana”.134

Tra i simboli che ricorrono in questa collezione ritoviamo: l’albero, il denaro, il bastone,

il calendario gregoriano e lunare, la luna, i simboli vegetali, i riti iniziatici, sacralizzanti,

le feste e le festività periodiche, il rettile e la sua muta, l’uroboro, il serpente e il drago

come depositare del flusso e del fluire della vita, gli strumenti di tessitura e filatura, la

sfera, il cerchio, la ruota, la svastica, il chakra, le spirali ecc. ecc.

Durand porta così a termine una descrizione realmente fenomenologica dei contenuti

dell’immaginazione, rifiutando – come avevano fatto diversi psicologi, filosofi ecc. – di

133

D’altronde “la mummia, come la crisalide è insieme tomba e culla delle promesse di sopravvivenza”

Ivi p. 293. 134

Ivi, p. 406.

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separare la coscienza immaginante dalle immagini concrete che la costituiscono a

livello semantico. Egli, nel corso della sua profondissima e meticolosa ricerca, fa

appello alla totalità di quel “tragitto antropologico” di cui sopra, ponendo i tre riflessi

dominanti come fil rouge psicologico di tutto il lavoro. In questo senso l’archetipologia,

data la (quasi) mutua esclusività delle categorie simboliche individuate, andrebbe a

configurarsi come una semplice tipologia. Durand, a tal riguardo, la definisce “un utile

catalogo degli errori dell’immaginazione, un immaginario museo delle immagini, ossia

dei sogni e delle menzogne degli uomini”135

. Egli, a conclusione della sua opera,

esprime il personale auspicio di un vero e proprio insegnamento, nel mondo

accademico, dell’archetipologia generale – una sorta “pedagogia dell’immaginazione” -

affinché alle teorie e i ragionamenti sull’oggetto e sull’oggettività si affianchi lo studio

delle vocazioni della soggettività e della comunicazione dei singoli spiriti136

, arrivando

ad augurare il riconoscimento di un “umanesimo planetario”137

, il quale non può

esaurirsi nelle solo speculazioni provenienti della scienza ma deve di fatto abbracciare il

“consenso e la comunione archetipica delle anime”. Durand, nelle ultime righe del suo

fortunato libro, assume un tono risolutorio nel definire il concetto di immaginario; esso,

infatti, “Tutt’altro che epifenomeno passivo, annientamento o vana contemplazione di

un passato esaurito […] si è manifestato non solo quale attività che trasforma il mondo,

immaginazione creatrice, ma soprattutto quale trasformazione eufemistica del mondo

[…], disposizione dell’essere agli ordini del meglio. […] L’immaginario, ben lungi

dall’essere vana passione, è azione eufemistica che plasma le cose. Tale è il grande

disegno rivelatoci dalla funzione fantastica”138

. E ancora, a ribadire il ruolo

determinante, rigenerante, dinamico e fruttifero del processo immaginativo, egli

afferma: “Soprattutto l’immaginazione è il contrappunto assiologico dell’azione. Ciò

che arricchisce di un peso ontologico il vuoto semiologico dei fenomeni, ciò che

vivifica la rappresentazione e la asseta di realizzazioni: ecco ciò che ha fatto sempre

pensare all’immaginazione come alla facoltà del possibile, al potere di contingenza del

futuro”139

.140

135

Ivi pp. 525-526. 136

Ivi, p. 529. 137

Ivi, p. 530. 138

Ivi pp. 531-532. 139

Ivi, p. 532.

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Ed è proprio da questa consapevolezza della potenza universale dell’immagine, dalla

sua eco ancestrale ma allo stesso tempo in continuo propagarsi – in altre parole dalla sua

“aura archetipica” - che concludiamo il nostro breve discorso sull’immaginario e

sull’attività immaginativa per approdare alla contigua ed affine dimensione del mito,

oggetto di analisi nelle righe che seguono.

1.6 L’Archetipo come mito

Si è già accennato, poco sopra, di quanto le immagini – e soprattutto quelle appartenenti

al regime notturno – possano avere in sé un sorta di “attitudine alla narrazione”. È

nell’opposizione dei contrari, infatti, che risiede qualsiasi principio di dialettica che sta

alla base di qualsivoglia narrazione. Le immagini archetipiche o simboliche, così, non

bastando più a se stesse nel loro dinamismo interno, si articolano le une con le altre

attraverso un dinamismo in qualche modo esterno, per dare vita a storie. Ed è proprio da

queste immagini in opposizione dipanate in storie – e influenzate a loro volta dalla

Storia e dalle strutture drammatiche – che nascono quelli che noi chiamiamo “miti”. A

tal proposito, in riferimento ai simboli della trasformazione della tipologia di Durand,

Cicalese nota: “La coerenza dei contrari può riscontrarsi in maniera ancora più profonda

nelle stesse strutture narrative che presentano solitamente valori in opposizione,

conciliando trasformazioni e polemiche tra due forze: una dedita alla vita, che raffigura

la forza richiesta all’eroe per sperare le prove che lo porteranno a congiungersi con il

suo obiettivi, con il suo oggetto di valore, l’altra opponente che, rappresentando il

destino avverso, intralcia il programma dell’eroe e rimanda all’eterna sfida contro la

morte.”141

Ancora una volta, nel descrivere il concetto di “mito” appena introdotto,

partiamo dalle analisi dello stesso Durand, il quale lo colloca, nel suo studio basato

prettamente sui simboli, sugli archetipi e sugli schemi da essi derivanti, come

prolungamento, in chiave dinamica, degli stessi simboli, archetipi e schemi da lui

140

Sulla natura prima delle azioni rispetto ai processi immaginativi - e in generale del pensiero - Jung

nota come: “Opportunamente il Faust di Goethe afferma: ‘Im Anfang war die Tat’ [in principio era

l'azione]’. Le ‘azioni’ non furono mai inventate, ma semplicemente compiute; i pensieri, d'altra parte,

costituiscono una scoperta relativamente recente dell'uomo. Dapprima egli era spinto all'azione da fattori

inconsci e solo dopo molto tempo cominciò a riflettere sulle cause da cui era stato mosso; infine c'è

voluto un periodo di tempo ancora più lungo prima che egli arrivasse all'idea assurda di essere stato

spinto ad agire dai propri impulsi soggettivi - essendo la sua mente incapace di identificare qualunque

altra forza stimolante al di fuori della propria.” C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, op. cit., p. 62. 141

A. CICALESE, Fatti di consumo. Noi tra gli spot e le marche, Editrice Gaia, Salerno, 2010, p. 38.

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descritti all’interno delle “Structures anthropologiques”142

. Secondo Durand il mito “è

già un abbozzo di razionalizzazione poiché utilizza il filo del discorso, nel quale i

simboli si risolvono in parole e gli archetipi in idee. Il mito rende esplicito uno schema

o un gruppo di schemi: come l’archetipo istituiva l’idea e il simbolo generava il nome,

si può dire che il mito promuove la dottrina religiosa, il sistema filosofico […], la

narrazione storica e leggendaria”143

. Il mito, così, viene a configurarsi come la

controparte dinamica delle costellazioni statiche che abbiamo visto nei precedenti

paragrafi. Esso è immagine in movimento, articolata in un’inversione, in

un’opposizione, in un contrasto e, quindi, in un racconto. È esplicativo, a tal riguardo,

un passo dello stesso studioso francese che riportiamo qui per intero: “La ripetizione ha

una funzione propria, che è di rendere manifesta la struttura del mito. È questa forma

ridondante che occorre comprendere, appunto con l’aiuto di una o di un gruppo di

strutture, e sono le strutture del regime notturno, con il raddoppiamento dei simboli e la

ripetizione a fini acronici, che rendono conto della ridondanza mitica. Quest’ultima

possiede la medesima essenza della ripetizione ritmica della musica, la medesima

struttura.”144

Il mito, dunque, possiede una struttura e una funzione affine a quella del

rito, nel quale è ancora più evidente il principio di ripetizione e di esorcizzazione della

morte”145

. Conclude Durand: “Che nel mito covi una struttura sincronica dipende dal

suo essere eterno ricominciamento di una cosmogonia, dunque rimedio contro il tempo

e la morte, dal suo contenere in sé un principio di difesa e di conservazione che

comunica al rito. Tale struttura equivale, né più né meno, a ciò che è stato definito

regime notturno dell’immagine. Il mito è una ripetizione ritmica, con leggere varianti, di

una creazione. Più che raccontare, come fa la storia, il ruolo del mito sembra essere

quello di ripetere, come fa la musica”146

.

La peculiarità del mito, secondo Durand, è quella di essere un ibrido che si colloca a

metà strada tra il simbolo e il discorso. Esso impone l’introduzione della linearità della

narrazione a dispetto della non-linearità e della pluridimensionalità del semantismo: da

142

Così lo stesso Gilbert Durand: “Intenderò per mito un sistema dinamico di simboli, di archetipi e di

schemi, sistema dinamico che, sotto la spinta di uno schema, tende a comporsi in narrazione” 143

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 64. 144

Ivi, p. 447. 145

Sul concetto di rito l’autore francese afferma: “Il rito ha l’unica funzione di addomesticare il tempo e

la morte e di assicurare nel tempo, sia agli individui sia alla società, la perennità e la speranza. Ma lo

stesso vale per tutte le attività estetiche, dalla cosmetica al teatro, passando per la coreografia, la scultura

delle maschere e la pittura. Le maschere sono l’avanguardia della difesa contro la morte”. Ivi, p. 502. 146

Ivi, p. 448.

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una parte il logos, composto da segni arbitrari che si articolano in un discorso

sincronico, dall’altra il sincronismo dei simboli o delle loro opposizioni diairetiche. È

da questo contrasto tra la dimensione atemporale del simbolo e quella necessariamente

temporale del discorso, che ogni miti ha in sé come struttura di base una struttura

sintetica che racchiude in sé il numero più alto possibile di significati.147

Risultano vani,

così, per quanto ci si sforzi, i tentativi di voler descrivere ed esaurire il discorso sul mito

attraverso il solo impiego del linguaggio. Tutt’al più, a parere di Durand, si possono

descrivere le strutture che compongono il mito, le “matrici concrete in cui viene a

imprimersi la fluida molteplicità dei casi” dal momento che il semantismo, gravido di

senso, risulta imperante nel simbolo tanto quanto nel mito.148

Riassumendo il mito si

presenta come portatore, da una parte, di un senso diacronico della narrazione che tiene

conto delle sue ripetizioni tipiche, e, dall’altra di un isotopismo più immediatamente

simbolico, che illustra l’orientamento delle strutture e delle costellazioni d’immagini

(archetipiche nella loro origine, laddove l’archetipo riveste in generale un ruolo

determinante all’interno della narrazione mitica). Queste due dimensioni, come descritto

prima, si condensano in strutture sintetiche che tengono traccia di ambedue le istanze.

Le visioni di Durand, d’altronde, prendono corpo dalle teorie di uno dei suoi principali

maestri che, come detto, risponde al nome di Carl Gustav Jung. Era stato Jung,

seguendo la linea tracciata dal suo concetto di archetipo, a fare del discorso mitico un

discorso preminentemente “archetipico”. Secondo lo psicologo zurighese, infatti, “I miti

risalgono a un narratore primitivo e ai suoi sogni, a uomini mossi dallo stimolo

appassionato delle loro fantasie. Costoro non si differenziavano gran che da coloro che

dopo molte generazioni sono stati chiamati poeti o filosofi. I narratori primitivi non si

preoccupavano di conoscere l'origine delle loro fantasie; fu solo in epoche molto

posteriori che ci si cominciò a chiedere da dove i racconti avessero avuto origine.

Eppure, molti secoli fa, nella cosiddetta «antica» Grecia, la mente degli uomini era già

147

Così Durand: “Da ciò deriva il fatto che, accanto alla linearità spinta del Logos o dell’Epos, il Mythos

appare sempre come il contesto che sfugge, paradossalmente alla razionalità del discorso. L’assurdità del

mito […] non proviene che dalla sovra determinazione dei suoi motivi esplicativi. Oltre che stratificata, la

regione mitica è fitta. E la forza che raggruppa i simboli in ‘sciami’ sfugge all’essere messa in forma” Ivi,

p. 461. 148

Infatti “Da nessuna parte, meglio che nel mito, si vede all’opera lo sforzo semiologico e sintattico del

discorso che si infrange sulle ridondanze del semantismo, perché l’immutabilità degli archetipi e dei

simboli resiste al discorso.” Ibidem. E ancora: “Il diacronismo del mito è l’aspetto generale che lo include

nel genere racconto, il sincronismo è un indizio che segnala i temi importante, ma l’isotopismo resta, in

ultima istanza, il vero sintomo del mito o del racconto considerato, permettendone una diagnosi

strutturale” Ivi, pp. 462-463.

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sufficientemente avanzata da supporre che le storie degli dèi non fossero altro che

tradizioni arcaiche deformate relative ad antichissimi re e condottieri. […] In tempi più

vicini a noi abbiamo visto trattare allo stesso modo il simbolismo dei sogni.”149

. Jung

scrive di un caso molto particolare riguardante una bambina di 10 anni che aveva

regalato al padre, psichiatra e suo amico, un quadernino in cui, tra le altre cose,

comparivano le descrizioni dettagliate di alcuni sogni piuttosto strani ed inquietanti.

Elencando i principali motivi di tali sogni150

– motivi che per larga parte non

stenteremmo ad organizzare nella stessa tassonomia durandiana dei simboli – Jung nota

come essi siano perfettamente riconducibili ad archetipi universali che in epoche antiche

hanno dato vita ad una serie di miti, sia religiosi che profani (dal mito millenario

dell’eroe salvatore al teriomorfismo biblico e dall’idea di Ezechiele della quadruplice

divinità). Dato per certo che la bambina non avesse accesso a particolari ed approfondite

conoscenze filosofiche e religiose che potessero in qualche modo giustificare tali

visioni, egli arriva alla conclusione che queste debbono necessariamente riferirsi

all’intrinseca difficoltà delle “immagini collettive” primordiali ed universali.151

149

C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 67. 150

I motivi principali dei sogni della bambina erano:

1. «l'animale infernale», un mostro a forma di serpente provvisto di numerose corna, uccide e divora

tutti gli altri animali. Ma Dio interviene dai quattro angoli (si tratta in realtà di quattro dèi separati) e

resuscita tutti gli animali morti;

2. una ascesa al cielo, dove si stanno celebrando danze pagane, e una discesa all'inferno, dove si

trovano angeli intenti a compiere buone azioni;

3. un'orda di animali atterrisce la sognante: essi assumono dimensioni spaventose e uno di loro divora

la bambina;

4. in un topolino si introducono vermi, serpenti, pesci ed esseri umani, ed esso si trasforma in uomo:

ciò raffigura le quattro fasi dell'origine del genere umano;

5. appare una goccia d'acqua, come vista attraverso il microscopio e la bambina vede che essa è piena

di rami d'albero: ciò raffigura l'origine del mondo;

6. un ragazzo malvagio tiene in mano una zolla di terra e ne scaglia un po' su tutti i passanti: in seguito

a ciò anch'essi diventano cattivi;

7. una donna ubriaca cade nell'acqua e ne esce rinnovata e sobria;

8. la scena si svolge in America: un gran numero di persone si rotolano sopra una distesa di formiche e

vengono da esse attaccate; la sognante, in preda al panico, cade in un fiume:

9. sulla luna c'è un deserto: la bambina vi sprofonda fino a raggiungere l'inferno;

10. in questo sogno la bambina ha la visione di una sfera luminosa; la tocca e ne emana vapore;

sopraggiunge un uomo e la uccide;

11. la bambina sogna di essere gravemente ammalata; dalla sua pelle spuntano improvvisamente tanti

uccelli che la ricoprono completamente;

12. sciami di zanzare oscurano il sole, la luna e tutte le altre stelle, tranne una: essa cade sulla

sognante. Ivi, p. 52. 151

Così lo stesso Jung a tal proposito: “Nel secondo sogno appare un motivo decisamente non cristiano in

cui i valori tradizionali sono rovesciati: per esempio il motivo delle danze pagane degli uomini in cielo e

delle buone azioni degli angeli nell'inferno. Questo simbolo suggerisce il criterio della relatività dei valori

morali. Dove ha potuto trovare la bambina un concetto così rivoluzionario, degno del genio di

Nietzsche?”[…] Se il soggetto sognante fosse stato uno stregone primitivo, si sarebbe potuto

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Jung, dunque, coerentemente con il suo particolare approccio psicologico, individua una

connessione cruciale fra i miti arcaici o primitivi e i simboli prodotti dall'inconscio

(anche di quello dell’uomo moderno); una connessione evidentemente biunivoca e

fondante dell’intero “apparato umano” e delle sue manifestazioni nel corso dei

millenni.152

In contrasto con una visione puramente “archetipica” del discorso mitico, è Claude

Lévi-Strauss, uno degli antropologi più importanti ed influenti del XX secolo, e non

solo. Questi, a proposito della genesi psicologica del mito, si pone in un atteggiamento

alquanto scettico rispetto alle posizioni junghiane “integraliste” di una stretta e diretta

connessione tra alcuni significati precisi e determinai temi mitologici come esclusivo ed

esauriente punto di vista sul tema del mito. Per Lévi-Strauss, infatti, coloro che

propendono per tale teoria incappano nella stessa fallacia di quei filosofi del linguaggio

che sono stati per molti anni convinti che i suoni di una lingua possedessero un’affinità

naturale con questo o quel determinato senso (convinzione sostanzialmente smentita).

Egli afferma come il mito faccia parte integrante della lingua e che soltanto attraverso il

discorso lo si può comprendere e spiegare veramente. L’antropologo e psicologo

francese, in parte ispiratore dello stesso Gilbert Durand, aveva ben individuato come il

mito possedesse al contempo una dimensione sia storica che astorica, una natura

complessa e stratificata, il cui senso, però, non può risiedere “negli elementi isolati che

entrano nella sua composizione, ma nella maniera in cui tali elementi sono

combinati”153

.

Nella visione di Lévi-Strauss, riscontriamo così una netta radicalizzazione sul

linguaggio, a discapito del simbolo, dell’immagine e della “luce archetipica”, che, come

abbiamo visto, Durand ed altri autori di ispirazione junghiana pongono come elementi

essenziali all’interno del mito. Egli, aderendo alla prospettiva strutturalista classica di

ragionevolmente supporre che essi rappresentassero alcune variazioni dei temi filosofici della morte, della

resurrezione o restituzione, dell'origine del mondo, della creazione dell'uomo e della relatività dei valori.

Ma se si cerca di interpretare questi sogni da un punto di vista personale, bisogna rinunciare a ogni

spiegazione, data la loro intrinseca, inestricabile difficoltà. Essi contengono indubbiamente alcune

«immagini collettive», e queste in un certo senso sono analoghe alle dottrine impartite ai giovani delle

tribù primitive quando si accingono a essere iniziati come uomini.” Ivi, p. 55. 152

Lo psicologo zurighese, in ultima analisi, afferma: “L’inconscio collettivo […] sembra consistere in

motivi ed immagini mitologici, e perciò i miti dei popoli sono gli autentici esponenti dell’inconscio

collettivo. Tutta la mitologia sarebbe una specie di proiezione dell’inconscio collettivo”. C.G. JUNG, La

dinamica dell’inconscio, cit., p. 87. 153

C. LÉVI-STRAUSS, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 2009 , p. 241.

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Roman Jakobson, si concentra sulla struttura del mito stesso, arrivando ad ipotizzare,

così come accade normalmente nella struttura della lingua con i fonemi, i morfemi e i

semantemi, la presenza di vere e proprie unità costitutive all’interno del discorso mitico:

i “mitemi”, appunto. Secondo l’antropologo francese, quest’ultimi, come tutte le unità

costitutive di qualsiasi lingua, a qualunque livello siano isolati, consistono in relazioni.

In maniera più specifica essi si collegano tra loro attraverso “fasci di relazioni”154

, dalla

cui combinazione – che si svolge su un doppio livello, rispettivamente diacronico

legato alla “langue” e sincronico legato alla “parole” - acquisiscono una funzione

significante. Per spiegare meglio il suo approccio al mito Lévi-Strauss impiega

l’esempio dell’armonia musicale e della partitura d’orchestra, notando come essa “ha

senso solo se letta diacronicamente secondo un asse (una pagina dopo l’altra, da sinistra

a destra) ma, nello stesso tempo, sincronicamente secondo l’altro asse dall’alto in basso.

In altri termini, tutte le note poste sulla stessa linea verticale formano una grossa unità

costitutiva, un fascio di relazioni appunto”155

. Il metodo di Lévi-Strauss nell’analisi del

mito consiste nel prendere in considerazione non la versione autentica o primitiva del

racconto, dedicandosi alla sua spasmodica – e spesso infruttuosa – ricerca, bensì di

definire di ogni mito tutte le sue versioni e cercare di rintracciarne mitemi e fasci di

relazioni tra essi. Dato che il mito è formato dall’insieme delle sue varianti attraverso i

vari popoli e nelle varie epoche in cui esso agisce, l’analisi strutturale dovrà vertere

sulla somma di queste varianti, considerandole alla stessa stregua. Così, per

l’antropologo francese bisognerebbe tralasciare, nello studio del mito, il “feticcio” della

ricerca della versione primigenia, e dedicarsi piuttosto alla sua analisi su un piano più

prettamente linguistico, ad un livello sia diacronico che sincronico.

Ritornando al tema che abbiamo incontrato in precedenza circa il regime notturno

dell’immagine della classificazione di Durand, processi come quello del

raddoppiamento, della triplicazione o della quadruplicazione di una stesso simbolo o di

una stessa sequenza di simboli vanno a configurarsi, secondo Lévi-Strauss, come

l’aperta manifestazione della struttura del mito stesso, una struttura che, come abbiamo

visto, ha alla base i fasci di relazioni bidimensionali tra i mitemi.156

A questo punto

154

Ivi, p. 237. 155

Ivi, p. 238. 156

Così lo stesso Lévi-Strauss: “la ripetizione ha una funzione peculiare, che è quella di rendere manifesta

la struttura del mito. Abbiamo mostrato infatti che la struttura sincro-diacronica da cui il mito è

caratterizzato permette di ordinare gli elementi in sequenze diacroniche che debbono essere lette

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diviene netta la frattura “postuma” tra l’illustre antropologo ed etnologo francese e lo

stesso Durand il quale, a tal proposito, si esprime in termini chiari e risoluti.157

Secondo

l’autore delle “Structures anthropologiques” nel mito, al di là del filo della narrazione

comunque presente e importante, è essenziale anche il senso simbolico dei termini che

vi compaiono. Per Durand il fulcro del problema è che, una volta riconosciuto che il

mito, essendo un discorso, presenta una certa linearità del significante, bisogna altresì

intendere tale significante come simbolo e non come segno linguistico arbitrario, alla

stregua di tutti gli altri. È in questo modo che si spiega ancora meglio l’affermazione,

propria dello stesso Lévi-Strauss, secondo la quale “si potrebbe definire il mito come

quel modo del discorso nel quale il valore della formula ‘traduttore-traditore’ tende

praticamente a zero”158

.159

Durand aggiunge che “poiché un archetipo non si traduce,

dunque non può essere tradito da alcun linguaggio”160

, e che “il mito non si traduce,

neppure in logica: ogni sforzo di traduzione del mito […] è uno sforzo di

impoverimento.”161

Così, il livello più elevato del discorso mitico non si sostanzia nei

mitemi e nella loro natura sintattica, bensì “esso è un livello simbolico - o meglio

archetipico – fondato sull’isomorfismo dei simboli in seno a costellazioni strutturali”162

.

Durand, accettando in parte l’idea dei “fasci di relazioni” tra unità costitutive in

contrasto alle relazioni isolate – prospettiva molto vicina alla concezione

dell’isomorfismo semantico da lui prediletto – specifica però che secondo il suo parere

tali “fasci” non sono da intendersi come fasci di relazioni, bensì di significazioni. È

esplicativo, in questo senso l’affermazione di Jacques Soustelle che, in merito

sincronicamente. Ogni mito possiede quindi una struttura a molti piani che traspare in superficie, per così

dire, nel procedimento di ripetizione e grazie ad esso.” Ivi pp.257-258 157

“Ribadisco il mio rifiuto nei confronti della ricorrente tentazione di Lévi-Strauss che è quella di

assimilare il mito a un linguaggio e le sue componenti simboliche a fonemi. […] Tentazione legittima per

un etnologo […] ma pericolosa, quando ci si avvicina all’universo del mito, universo che non è fatto solo

di relazioni diacroniche o sincroniche, ma di significati comprensivi, universo carico di un semantismo

immediato che è distorto unicamente dal carattere mediato del discorso”. G. DURAND, Le strutture

antropologiche dell’immaginario, cit., p 441. 158

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 442. 159

Sul tema della traducibilità del mito tra le diverse lingue l’autore afferma inoltre: “Il posto del mito,

nella scala dei modi di espressione linguistica, è opposto a quello della poesia […] La poesia è una forma

di linguaggio estremamente difficile da tradurre in una lingua straniera, ed ogni traduzione comporta

molteplici deformazioni. Al contrario, il valore del mito in quanto mito persiste, a dispetto della peggior

traduzione. Per grande sia la nostra ignoranza della lingua e della cultura da cui l’abbiamo raccolto, il

mito viene percepito come mito da ogni lettore, in tutto il mondo. C. LÉVI-STRAUSS, Antropologia

strutturale, cit., p. 235. 160

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 443. 161

Ivi, p. 444. 162

Ivi, p. 447.

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all’espressione del mito nel linguaggio nahialt, dichiara che tale discorso mitico è

costituito da “blocchi, o se si vuole da sciami di immagini, carichi di un significato

affettivo molto più che intellettuale”163

. Il mito, in questo senso, non si riduce né a

linguaggio né – come fa Lévi-Strauss – alle metafore di armonia musicale. In ultima

analisi esso viene a disporsi come un discorso che non diventa mai “una notazione che

si traduce o si decifra, esso è presenza semantica e, composto di simboli, contiene

comprensivamente il suo proprio senso.”164

Durand, sottolineando a più riprese

l’essenzialità dell’aspetto simbolico-archetipico all’interno del mito oltre al suo aspetto

linguistico, sancisce il suo sostanziale distacco dalle teorie di Lévi-Strauss, accusandolo

di eludere il mitico a vantaggio di un pensiero rigorosamente logico e matematico, e

tacciandolo di un eccessivo formalismo.

Resta, dunque, dalla revisione durandiana sulle teorie di Lévi Strauss intorno al mito,

una ferma attestazione sulla forza simbolica ed “archetipica” sul quale il mito si fonda,

in sinergia con la dimensione linguistica, la quale risulta però, come detto, una

condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla spiegazione mitologica.

Più vicino alle idee di Lévi Strauss è, invece, l’illustre semiologo, linguista e critico

letterario francese Roland Barthes. Egli, a proposito del discorso mitico afferma: “Va

stabilito energicamente sin da principio che il mito è un sistema di comunicazione. È un

messaggio. Dal che si vede che il mito non può essere un oggetto, un concetto, o

un’idea; bensì un modo di significare, una forma. Mentre sull’incidenza delle variabili

storiche, sociali e culturali del mito lo studioso francese si esprime in questi termini:

“Più avanti sarà necessario porre a questa forma limiti storici, condizioni d’uso,

reinvestire in essa la società: ciò non impedisce che in primo luogo la si debba

descrivere come forma.”165

Barthes crede nell’assoluta contingenza storica del mito, il

quale è raccontato dalla sua parola e non dall’oggetto, né dalla materia cui riferisce. Per

sgomberare il campo da eccessivi misticismi e psicologismi sullo ‘statuto’ del discorso

163

J.SOUSTELLE, La pensée cosmologiques des ancien Mexicain. Représentation du monde et de

l’espace, Herman, Paris 1940, p. 9. 164

G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 444. 165

R. BARTHES, Miti d’oggi (1957), Einaudi Editore, Torino 1974, p. 191.

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mitico, l’eminente linguista e semiologo francese afferma: “si possono concepire miti

antichi, non ne esistono di eterni […] Lontana o no, la mitologia può avere solo un

fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia: il mito non può

sorgere dalla ‘natura’ delle cose”166

. Ancora, in una prospettiva marcatamente storica e

non aprioristica sul mito egli arriva ad affermare che “non c’è alcuna fissità nei concetti

mitici: possono alterarsi, formarsi, sparire completamente. E appunto perché sono

storici la storia può sopprimerli assai facilmente”167

. Per quanto concerne la struttura del

mito Barthes afferma che in esso si ritrova lo schema tridimensionale della semiologia

classica “significato-significante-segno” ma ampliato da un “sistema semiologico

secondo”168

. Così ciò che nel primo sistema è segno (in quanto sintesi tra concetto e

immagine acustica) viene a costituire semplice significante per il secondo sistema. Per

Barthes, infatti, “i materiali della parola mitica (lingua propriamente detta, fotografia,

pittura, manifesto, rito, oggetto, ecc.), pur differenti che siano all’inizio e al momento in

cui sono colti dal mito, si riconducono ad una pura funzione significante: il mito non vi

vede che un’identica materia prima; la loro unità sta nel fatto che sono ridotti, tutti, al

semplice statuto di linguaggio.”169

Nel mito, dunque, sono presenti due sistemi

semiologici: un sistema linguistico (il “linguaggio-oggetto”), ovvero il linguaggio che il

mito stesso “utilizza” per costruire il proprio sistema; e il mito stesso (il

“metalinguaggio”) che viene a rappresentare una seconda lingua attraverso la quale si fa

riferimento alla prima. Prendendo in considerazione il metalinguaggio, il semiologo

sarà dispensato dal compito di analizzare la composizione del linguaggio-oggetto. In

questo modo egli, una volta individuato il segno globale (che sia esso afferente alla

166

Ivi, p. 192. 167

Ivi, p. 202. 168

Ivi, p. 196. 169

Ibidem.

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scrittura, all’immagine ecc.), potrà porre la sua attenzione limitatamente alla misura in

cui tale termine totale è inserito all’interno del mito stesso, a prescindere dalla sua fonte

originaria (che è attinente, invece, al primo sistema). Il terzo termine, ossia la

connessione tra i primi due – concetto e forma – è chiamato da Barthes “significazione”;

è in esso che, di fatti, è racchiuso il mito, esattamente come il segno saussuriano

corrisponde alla parola. Ma il mito, secondo Barthes è sostanzialmente “un furto di

linguaggio”170

dal momento che la sua peculiarità è trasformare un senso in una forma

naturalizzandolo e andando così a depredare ogni linguaggio primo.171

Il termine stesso

“mito” è, per l’autore francese, una “parola eccessivamente giustificata”172

: dimorano

nel torto, infatti, tutti coloro che sostengono che le immagini mitiche provochino in

maniera naturale il concetto, come se il significante partorisse naturalmente un

significato corrispondente. Barthes afferma, ancora una volta ed in maniera più

perentoria, come il mito sia fatto squisitamente storico; esso, infatti, “è un valore, non

ha per sanzione la verità: niente gli impedisce di essere un alibi perpetuo: gli è

sufficiente che il significante abbia due facce per avere sempre a disposizione un

altrove: il senso è sempre pronto a presentare la forma; la forma è sempre pronta a

distanziare il senso”173

. Dal momento che la significazione mitica è strettamente

collegata alle motivazioni, alle intenzioni e le analogie che vi risiedono, per Barthes è

inverosimile ammettere che esse siano fornite dalla Natura e non abbiano piuttosto un

carattere storico. Egli, inoltre, non solo appiattisce il mito sul piano della storia -

170

Ivi, p. 212. 171

A tal proposito Roland Barthes nota che probabilmente il linguaggio che più “oppone resistenza” al

mito è quello poetico contemporaneo. Quest’ultimo, infatti, secondo l’autore, al contrario del mito, tenta

di ritrovare uno stadio pre-semiologico del linguaggio, ritrasformando il segno in senso e andando a

ricercare non il senso delle parole ma il senso stesso delle cose. La poesia contemporanea, infatti, - al

contrario di quella classica, molto più ‘mitica’ in questo senso - , estremizza l’astrazione della concetto

l’arbitrarietà del segno ed è proprio questo che la pone agli antipodi rispetto al mito. 172

Ivi, p. 211. 173

Ivi, p. 205.

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svincolandosi a più riprese da approcci che in qualche modo seguono filoni

“archetipici” - ma compie una vera e propria opera di discredito ontologico nei

confronti del discorso mitico, che , in ultima analisi, viene a costituire per il semiologo e

critico francese una sorta di “impostore” del linguaggio stesso174

.

Uno spazio intermedio tra una visione squisitamente psicologico-naturalistica del mito

ed una prettamente logico-linguistica e storica è quello occupato da uno dei più grandi

mitologi di tutti i tempi: Joseph Campbell. Quest’ultimo, imbastendo un impianto

teorico che conciliasse lo studio della mitologia comparata con quello della psicologia

analitica (o complessa) di matrice junghiana, è uno dei primissimi studiosi a concepire i

temi mitologici di base - provenienti in tutte le religioni del mondo, dalle più primitive

alle più sofisticate, da un capo all’altro del globo terracqueo - come archetipi ricorrenti,

diversamente declinati a seconda della psiche del singolo individuo e del contesto

geografico e sociale in cui essi agiscono. Campbell nota come “Le immagini

mitologiche sono quelle attraverso le quali il conscio è messo in contatto con

l’inconscio. […] Se non abbiamo immagini mitologiche o se per una ragione o per

l’altra la nostra ragione la rifiuta, restiamo senza contatti con la parte più profonda di

noi.”175

Egli abbraccia completamente il concetto junghiano di archetipo e ammette la

sua preminenza all’interno dei miti, come nella vita di tutti i giorni di tutti gli esseri

umani. Allo stesso modo, però, secondo il mitologo e storico delle religioni

statunitense, “l’immaginario dei miti è un linguaggio, una lingua franca, che esprime

174

Così si esprime l’“idiosincrasia”di Barthes per il mito: “Dal punto di vista etico ciò che disturba nel

mito è appunto il fatto che la forma sia motivata. Perché se c’è una ’salute’ del linguaggio, a fondarla è

l’arbitrarietà del segno. Ciò che disturba nel mito è il ricorso a una falsa natura, il lusso delle forme

significative, come in quegli oggetti che ornano la loro utilità con una apparenza naturale. La volontà di

appesantire la significazione di tutte le cauzioni della natura provoca una specie di nausea: il mito è

troppo ricco, e di troppo ha appunto la sua motivazione.” Ivi, p. 207, nota 1. 175

J. CAMPBELL, Pathways to Bliss. Mithology and Personal Transformation, Joseph Campbell

Foundation 2004, trad. it., Percorsi di felicità. Mitologia e trasformazione personale, a cura di David

Kudler, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, p. 101.

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qualcosa di fondamentale della nostra umanità più profonda”176

. Campbell, circa

l’universalità e l’eternità del mito, nota come esso tratti tematiche senza tempo calate

all’interno di una particolare cultura (“Se non facciamo attenzione ai parallelismi

tematici, rischiamo di pensare che si tratti di storie diverse, mentre, in verità, non è

così”177

). I miti, per l’antropologo statunitense, sono metafore delle potenzialità

spirituali dell’uomo e le storie e le ambizioni che vi si trovano al loro interno si

dipanano tutte da uno stesso “ceppo primigenio” e sono quindi declinate in vario modo

a seconda delle epoche e delle società nelle quali si sviluppano (“non è esagerato dire

che il mito costituisce il passaggio segreto attraverso il quale le inesauribili energie del

cosmo penetrano nelle forme della cultura dell'Uomo”178

).179

Campbell dunque, in

riferimento ai miti, si colloca in una posizione intermedia tra – semplificando - lo

“psichismo” e il “naturalismo” di Jung e l’approccio linguistico e storico di Barthes,

sebbene a più riprese egli sembra propendere più per il primo. Ciò risulta evidente

quando, a proposito della genesi stessa delle mitologie, Campbell afferma come esse

“sono fondamentalmente le stesse ovunque. Di conseguenza, le immagini mitologiche

non si riferiscono in prima istanza a eventi storici provengono dalla psiche e parlano alla

176

Ivi, p. 35. 177

J. CAMPBELL, Il potere del mito, intervista di Bill Moyers, Apostrophe S Productions, Inc. 1988, p.

34. 178

J. CAMPBELL, The hero with a thousand faces, Pantheon Books, New York, 1953, trad. it., L'eroe

dai mille volti, Feltrinelli Editore, Milano, 1958, p. 15. 179

Lo stesso Campbell, nel libro intervista di Bill Moyers, risponde con queste parole alla domanda sullo

statuto di ereditarietà e globalità dei miti: “È proprio così: hai lo stesso corpo, gli stessi organi e le stesse

energie che aveva l’uomo di Cro-Magnon trentamila anni fa. La vita umana, nelle caverne o a New York,

passa attraverso le stesse fasi: l’infanzia, la maturità sessuale, la transizione dalla dipendenza infantile alla

responsabilità adulta, il matrimonio, il declino del corpo e infine la morte. Hai lo stesso corpo e le stesse

esperienze corporee, quindi reagisci alle stesse immagini”. E ancora: “Ogni mitologia tratta della

saggezza della vita in relazione a determinate situazioni culturali e storiche. Integra l’individuo nella sua

società e la società nella natura. Unifica il mondo della natura con il mondo dell’uomo: è una forza

armonizzatrice”.

J. CAMPBELL, Il potere del mito, cit., pp. 61-80.

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psiche; il loro riferimento primario è lo psichico […] non l’evento storico”180

. Un ordine

mitologico, per Campbell, è “un sistema di immagini che rende cosciente un certo

significato dell’esistenza”181

e il mito, in sé, possiede quattro funzioni principali. La

prima funzione è quella ludico-simulativa del “come far credere che noi stiamo facendo

questo e quest’altro”182

, ossia quella che evoca nell’individuo un senso gratificante di

soggezione dinanzi al vivere nella vita stessa, immerso nel grande mistero

dell’esistenza. La seconda funzione sta nella presentazione di un’immagine stabile

dell’universo circostante che avvalori e trattenga tale soggezione; qui non è importante

il concetto di Verità, piuttosto quello di coerenza nei termini e nelle “regole del

gioco”183

. Così un’immagine cosmologica non fa che offrire uno spazio ludico in cui

giocare il gioco che contribuisce a conciliare l’uomo con la sua stessa vita, la sua

condizione di essere vivente, la sua coscienza e le sue aspettative di senso. La terza

funzione di un ordine mitologico è corroborare e supportare un certo sistema sociale,

ovvero “un insieme condiviso di diritti e torti, di convenienze e scorrettezze” da cui

dipende la vita stessa del gruppo sociale di riferimento. Essa è strettamente legata al

concetto di moralità e serve a regolare e confermare l’apparato sociale entro determinati

limiti comportamentali. La quarta è ultima funzione, invece, è di natura

preminentemente psicologica. Secondo Campbell, infatti, il mito deve accompagnare

l’individuo nelle diverse fasi della sua vita, dalla nascita alla morte. Ogni individuo

dovrebbe scoprire qual è il suo “mito personale” e farsi trasportare per tutto il corso

della sua esistenza. Ciò, ovviamente, in accordo con l’ordine sociale dal momento che

180

J. CAMPBELL, Percorsi di felicità, cit., p. 106. Parrà evidente al lettore come tali affermazioni circa

la formazione e lo sviluppo del mito, sostanzialmente adiacenti a quelle di Gilbert Durand, siano però in

netto contrasto con le conclusioni alle quali, poco più sopra, era pervenuto Barthes. 181

Ivi, p. 18. 182

Ivi, p. 19. 183

Campbell afferma: “La gente vive giocando un gioco. Glielo si rovina intervenendo con un serioso

‘Bene, a cosa serve?’” Ivi, p. 19

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sia il cosmo che l’immane mistero della vita al quale si accennava pocanzi sono sempre

declinati e posseggono un senso all’interno di un gruppo sociale di riferimento184

. In

ultima analisi, per Campbell, i miti, sedimentati nel “mare notturno” cui l’uomo emerge

misteriosamente da millenni, vanno a costituire da una parte i sintomi dell’inconscio -

personale ma soprattutto collettivo – e, dall’altra, “affermazioni controllate e stabilite di

determinati principi spirituali, rimasti altrettanto costanti lungo il corso della storia

umana quanto la forma e la struttura nervosa del corpo umano”185

. Le metafore che

risiedono racconto mitico uniscono, così, l’inconscio con i campi dell’azione pratica di

ogni individuo, andando a toccare le energie vitali ti tutta la psiche umana in un

rimando formidabile ed eterno186

.

1.7 Archetipo come personalità

In quest’ultimo paragrafo andiamo a dipanare l’ultima prospettiva dalla quale guardare

gli archetipi, ovvero quella legata al tipo di personalità di un individuo e agli effetti e

alle ascendenze che in qualche misura governano la vita di tutti noi. Come afferma

Jung, infatti, “Imparare a memoria un elenco di archetipi non serve a nulla. Gli archetipi

sono complessi di esperienza che sopravvengono fatalmente, e il cui effetto si fa sentire

nella nostra vita più personale.”187

L'inconscio di ogni individuo contiene una sorta di “energia psichica” che si concreta

nella spinta, naturale ed innata, verso lo sviluppo della coscienza di sé, la quale tende a

fuoriuscire mediante il cosiddetto “processo di individuazione”. Esso rappresenta un

184

Così Campbell “Se il tuo mito privato […] coincide con quella della società sei in buon accordo con il

gruppo. Altrimenti ti aspetta un’avventura nella foresta buia.” J. CAMPBELL, Il potere del mito, cit., p.

64. 185

J. CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, cit., p. 229. 186

È proprio dalle immagini in opposizione dispiegate in storie e dagli studi sul mito di Lévi-Strauss che

Greimas costruisce la ben nota teoria del “quadrato semiotico”, basato sullo sviluppo logico di categorie

semiche binarie. A.J. GREIMAS, Du sens, Del Senso (ed. or. 1970), tr. Bompiani, Milano 1974 187

C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 28.

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percorso naturale – e tuttavia traumatico e difficoltoso – che ogni uomo è portato a

compiere per scoprire davvero il suo carattere e vivere con reale consapevolezza e

solidità psichica la sua esistenza188

.

Ma il processo di individuazione va al di là del rapporto dialettico fra il germe innato

della totalità e gli eventi del mondo esteriore. Come afferma l’allieva di Carl Jung,

Marie-Louise von Franz, “L'esperienza soggettiva di esso ci rivela che qualche forza

soprapersonale opera attivamente in modo creativo. Si ha talvolta la sensazione precisa

che l'inconscio tracci la via da seguire secondo un disegno segreto. È come se una entità

indeterminata ci guardasse, una entità che non possiamo vedere, ma che ci vede - forse

il «grande uomo» che vive all'interno del nostro cuore, che esprime le sue opinioni su

noi per il tramite dei sogni”189

. Tale processo, inoltre è fortemente soggettivo laddove

per ogni individuo esiste un determinato percorso da seguire, assolutamente personale

che non può essere in qualche modo confuso o sovrapposto con quello di un altro

individuo.190

188

Così lo psicologo svizzero: “La funzione trascendente non procede senza meta, ma conduce alla

rivelazione dell’uomo essenziale. Dapprima è un puro e semplice processo naturale, che in certi casi si

svolge senza conoscere e senza partecipazione, e deve anzi affrontare la resistenza dell’individuo

imponendosi con la forza. Il processo ha per senso e meta la realizzazione della personalità

originariamente contenuta nel germe embrionale di tutti i suoi aspetti. È l’attuazione e il dispiegarsi

dell’originaria totalità potenziale. I simboli che l’inconscio adopera a questo scopo sono gli stessi che

l’umanità ha sempre usato per esprimere totalità, compimento e perfezione. Questo processo è stato da me

definito ‘processo di individuazione’”. C.G. JUNG, Due testi di psicologia analitica, cit., pp. 111-112. 189

C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 130. 190

“Non si deve fare altro che ascoltare, per sapere ciò che la totalità interiore - il sé - vuole che si faccia

‘hic et nunc’, in una particolare situazione. Il nostro atteggiamento deve essere simile a quello del pino di

montagna […]: esso non si irrita quando il suo sviluppo è ostacolato da una pietra, né pianifica i modi in

cui potrà aver ragione degli ostacoli; cerca solo di avvertire se debba crescere in una direzione piuttosto

che in un'altra, nel senso della pendenza, o nel senso contrario. Come l'albero, dobbiamo cedere a questo

quasi impercettibile, ma poderoso impulso - un impulso che deriva dalla tendenza all'unica, creativa

autorealizzazione. E si tratta di un processo nel corso del quale si devono spesso ricercare soluzioni a

problemi che sono ignoti a qualsiasi altro soggetto. Gli impulsi direttivi provengono non dall'ego, ma

dalla totalità della psiche: il sé. È inutile, inoltre, spiare furtivamente gli altri, per individuare il modo in

cui si sviluppano le varie personalità, perché ciascuno si trova davanti un compito di autorealizzazione

che presenta caratteri di unicità. Se molti problemi umani sono simili, non sono mai identici. Tutti i pini si

assomigliano (altrimenti non li potremmo classificare come pini), ma nessuno è esattamente simile a un

altro. Proprio per l'incidenza di questi fattori di similitudine e differenza, è difficile schematizzare le

infinite possibilità di variazione del processo di individuazione. Il fatto è che ciascuno di noi deve fare

qualche cosa di diverso, qualche cosa di assolutamente privato e personale. C.G. JUNG, L’uomo e i suoi

simboli, cit., p. 132.

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Il termine “individuo” significa “non diviso”: l’individuazione è, in sostanza, il processo

attraverso il quale l’individuo diventa se stesso, un essere umano intero, inscindibile e

tuttavia tendente alla realizzazione della totalità psichica, ossia all’integrazione delle

componenti consce ed inconsce.

Il processo di individuazione costituisce per Jung l’epilogo ideale dell'esistenza umana

per mezzo del quale l'uomo stesso dovrebbe giungere alla scoperta e alla realizzazione

dei propri bisogni individuali più reconditi e profondi. Lo sviluppo della personalità

viene a configurarsi, quindi, come un processo che va oltre la semplice maturazione

fisiologica: essa consiste nel divenire individuo e cioè non diviso nella sue molteplici

polarità interne (Io e Sé, maschile e femminile, ombra e luce ecc.) Segnatamente,

l’individuazione passa per alcune tappe specifiche che, sotto forma di archetipi

dominanti, “guidano” il tragitto del singolo attraverso la sua stessa esistenza.

Idealmente, tali archetipi dovrebbero transitare uno ad uno nel corso della vita di un

uomo; ciò non toglie che essi si presentano in un numero ridotto e che quindi non

portano a compimento la totalità della persona, e che piuttosto facciano restare

l’individuo dentro i confini di un determinato archetipo (il quale finirà fatalmente per

indirizzarlo per tutto il tempo in cui essi agisce in lui). L’individuazione consisterà, in

questo modo, con il congiungimento armonioso tra l’Io e il Sé e il raggiungimento della

definitiva maturità e della totalità della psiche. Tra i più importanti archetipi che

figurano nel processo di individuazione ritroviamo: l’Ombra, l’Anima, l’Animus, il

Vecchio Saggio, Il Fanciullo, la Grande Madre, la Persona e, soprattutto, il Sé.

1.7.1 L’Ombra

L’archetipo dell’Ombra rappresenta una parte inconscia della personalità,

contraddistinta da inclinazioni e comportamenti - sia negativi che positivi - rimossi

dall’Io cosciente. L’Ombra è una sorta di alter ego dell’uomo che rappresenta in prima

istanza il suo inconscio individuale; essa è “parte viva della personalità e vuole vivere

con lei sotto qualche forma”191

. L’uomo, attraverso la sua Ombra, va incontro a se

stesso e accetta la propria parte “oscura”, ben nascosta agli altri, quella fatta di azioni

irrazionali e violente, impulsi selvaggi, comportamenti contrari alla propria etica,

191

C.G.JUNG, L'Analisi dei Sogni - Gli Archetipi dell'Inconscio - La Sincronicità, cit., p. 123.

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pulsioni e aberrazioni morali varie.192

Questo archetipo, secondo Jung, si rende

necessario dal momento che l’uomo deve imparare a conoscere se stesso per conoscere

la sua identità e non smarrirsi nei meandri del mondo e, prima ancora, in quelli della sua

psiche. L’archetipo dell’Ombra richiede una certa risolutezza morale laddove il suo

riconoscimento presuppone il superamento di qualsivoglia inibizione e pudore, e la

scoperta di tutti gli aspetti – leggasi tutti i “mostri” - della propria individualità; come

afferma lo stesso Jung, infatti, “in quanto la conoscenza di sé costituisce una misura

psicoterapeutica, essa comporta spesso un lavoro faticoso che può protrarsi per molto

tempo”193

.

L’Ombra rappresenta per eccellenza l’archetipo più celato dall’uomo, il quale ha sempre

avuto orrore di se stesso, vivendo nel terrore che una “folata” di inconscio lo facesse

cadere nell’assoluta indeterminatezza. È per questo, secondo Jung, che “gli sforzi

dell’umanità sono stati interamente volti al consolidamento della coscienza mediante i

riti, le représentations collectives, i dogmi: che erano le dighe, le muraglie erette contro

i pericoli dell’inconscio”194

. L’Ombra è il “lato oscuro” di ogni uomo, il secondo volto

sempre presente che egli, attraverso il totale ripiegamento sulla coscienza, tenta di

rinnegare. Ma ogni uomo, secondo lo psicologo svizzero, deve avere il coraggio e

l’ardire di confrontarsi con questa parte di se stesso, conoscendola e accettandola per

quella che è. Questo compito è estremamente difficile perché non soltanto mette in

causa l’uomo, cogliendolo sul vivo, ma perché lo mette di fronte alla sua miseria. Egli

però, per vivere in maniera davvero consapevole e tenere davvero i piedi sulla terra che

calpesta, deve aprire il “vaso di Pandora” del suo inconscio - il quale “nasconde

un’acqua vivente, cioè spirito divenuto natura”195

– e accettare la sua natura altra ma al

contempo così profonda radicata nella sua psiche (una natura, peraltro, che può rivelarsi

negativa tanto quanto positiva). 196

192

In un passo dell’autore zurighese leggiamo: “Chi va verso se stesso rischia l’incontro con se stesso. Lo

specchio non lusinga, mostra fedelmente quel che in lui si riflette, e cioè quel volto che non mostriamo

mai al mondo.” Ivi, p. 122. 193

C.G. JUNG, Aion, Ricerche sul simbolismo del Sé, cit., p. 8. 194

C.G.JUNG, L'Analisi dei Sogni - Gli Archetipi dell'Inconscio - La Sincronicità, cit., p. 125. 195

Ivi, p. 127. 196

Sui pericoli derivanti dalla sottovalutazione della dimensione inconscia si veda la nota n° del presente

capitolo.

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1.7.2 La Persona

L’archetipo della Persona - in latino “maschera dell’attore” - esprime il ruolo sociale,

derivante dalle convenzioni e dalle aspettative della società e dell’educazione

dell’individuo. L’Io equilibrato è in rapporto con il mondo attraverso una Persona

adattabile. Secondo Jung l’identificazione assoluta con la Persona, cioè con il proprio

ruolo all’interno di una società, è in contrasto con lo sviluppo psicologico del soggetto,

il quale può venire seriamente fuorviato – o nella migliore delle ipotesi rallentato - nel

suo processo di individuazione. L’aspetto negativo dell’archetipo della Persona, infatti,

ostacola di fatto il rapporto tra gli uomini. D’altra parte, il suo lato positivo impedisce

agli elementi dell’inconscio di agire indiscriminatamente e permette all’Io di intervenire

su di essi e regolarli. Persona è l’archetipo dell’individuazione dove l’Io agisce

normalmente, e Persona ed Io sono molto legati. Ponendo un limite al nostro mondo

interiore, quindi, la Persona ci permette di interagire col mondo e le persone intorno a

noi in maniera equilibrata ma, al tempo stesso, una sua radicalizzazione finisce per

inficiare il rapporto dell’individuo nei confronti del suo prossimo e dell’universo in cui

egli si trova a vivere.

1.7.3 L’Anima

Presso i primitivi, come riporta lo stesso Jung, l’anima è “magico soffio vitale”197

.

Questo archetipo può essere considerato probabilmente come il più importante per

l’uomo dal momento che “un essere dotato di anima è un essere vivente. L’anima è la

parte più viva dell’uomo, ciò che vive di per sé e dà vita […] Con astuzia e con giocoso

inganno, l’anima attira verso la vita l’indolenza della materia che non vuole vivere. Fa

credere all’uomo cose inverosimili affinché la vita sia vissuta”. L’Anima viene a

configurarsi, così, come dispensatrice di vita afferente alla dimensione sovrumana e

quella dell’inconscio; tuttavia essa non si identifica totalmente con quest’ultimo ma

rappresenta soltanto un archetipo tra molti (in altre parole solo particolare un aspetto

dell’inconscio). Essa è un fattore e non può essere costruita; è sempre l’elemento

aprioristico di umori, sentimenti, emozioni, reazioni della psiche. Con essa si incontra

“il regno degli déi”, ovvero della metafisica dal momento che tutto ciò che essa tange

diventa assoluto, magico, pericoloso, attinente sia alla dimensione paradisiaca che

197

Ivi, p. 131.

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infernale. L’Anima, in conclusione può essere considerata come l’archetipo della vita

stessa. A sottolineare la sua preminenza e il suo carattere vivifico per ogni uomo è lo

stesso psicologo zurighese quando afferma – in maniera solenne e sfidando ogni

ragionevole contraddizione, - “se non fosse per l’agitazione e l’iridescenza dell’anima,

l’uomo si impaluderebbe nella sua massima passione, la pigrizia”198

. Parole queste,

pregne di Verità, e che si adattano perfettamente anche ai tempi che stiamo

attraversando.

L’archetipo dell’Anima, inoltre, più specificamente all’interno del processo di

individuazione, va a denotare la parte inconscia femminile della personalità

dell’uomo.199

L’Anima rappresenta la funzione relazionale (eros), quindi la sua

evoluzione nell’uomo si manifesta nel modo di rapportarsi alle donne. L’identificazione

con l’Anima può avere come conseguenza l’emergere di tratti psicologici come

volubilità, eccitabilità, vanità, suscettibilità. A partire dal fatto che “in ciascun sesso è

insito (fino a una certa soglia) il sesso opposto, dato che, dal punto di vista biologico, è

soltanto la maggior quantità di geni maschili che fa pendere la bilancia in favore della

virilità” e siccome “la minore quantità di geni femminili sembra costituire un carattere

femminile che però, a causa della sua inferiorità quantitativa, di solito rimane

inconscio”200

, a sua volta l’Anima possiede un suo corrispettivo maschile che prende il

nome di “Animus”.

L’archetipo dell’Animus definisce, pertanto, l’elemento maschile dell’inconscio

femminile e funziona allo stesso modo dell’Anima nell’uomo. Esso costituisce in

particolar modo la funzione razionale (logos) e compare nei sogni come figura

maschile. L’identificazione con l’Animus nella donna può manifestarsi con

caratteristiche di ostinazione, caparbietà, durezza, mentre, nell’aspetto più positivo,

mette in relazione la donna con le energie creative e vivifiche dell’inconscio.

Secondo Jung “quando l’Animus e l’Anima si incontrano, l’Animus sfodera la spada

della forza, della potenza; l’Anima sprizza invece il veleno dell’inganno e della

seduzione [ma] il risultato non è necessariamente negativo poiché ci sono altrettante

198

C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 88. 199

Jung spiega: “Ciò che in me, uomo, non è Io, cioè non è maschile, è molto probabilmente femminile, e

poiché il non-Io è considerato non appartenente all’Io e pertanto al di fuori di esso, l’immagine

dell’Anima è abitualmente proiettata su donne.” C.G.JUNG, L'Analisi dei Sogni - Gli Archetipi

dell'Inconscio - La Sincronicità, cit., p. 133. 200

Ivi p. 133.

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possibilità che i due si innamorino”201

e ancora, sulle ricadute a livello di inconscio

personale e collettivo dei due archetipi, i quali vengono a rappresentare vere e proprie

‘chiavi’ per affacciarsi al di fuori della coscienza: “il rapporto Anima-Animus è sempre

‘animoso’, cioè emotivo e perciò collettivo: gli effetti abbassano il livello di relazione,

avvicinandolo alla base istintuale comune che non ha più in sé nulla di individuale. Non

di rado, quindi, la relazione sfugge interamente al controllo dei due attori umani, i quali

poi non sanno spiegarsi come tutto ciò sia potuto accadere”202

.

1.7.4 Il Sé

L’archetipo del Sé è l’archetipo dell’unità e della totalità della psiche. Esso ha un effetto

ordinatore su quest’ultima e non va confuso con l’Io dal momento che – come abbiamo

diffusamente visto - il Sé è un concetto molto più amplio e che di fatto ingloba la

dimensione cosciente e razionale della mente.203

Il Sé si manifesta nelle visioni, nei

sogni, nei miti, nelle fiabe, nei racconti e in tutte le narrazioni come personalità di grado

superiore, ad esempio come figura regale o eroica oppure, in forme astratte, riferendosi

al motivo della totalità, come cerchio, quadrato, albero mandala. Il Sé, pur essendo

concettualmente un “tutto” e, al contempo, uno scontro di entità opposte (Dio-Lucifero,

Bene-Male, Forza-Debolezza ecc.), rimane fuori dagli schemi della nostra psiche,

essendo non paragonabile a nessun’altra dimensione esistente. Il Sé va a configurarsi

così come un’entità quasi trascendente; ciò darebbe adito a convincimenti circa la sua

natura e potrebbe indurre a pensare che esso sia piuttosto il frutto di una speculazione

umana priva di qualsiasi concretezza. Ma esso, lungi dall’essere un puro costrutto

filosofico, basato sul semplice esercizio del ragionamento, è ben presente e radicato

nella psiche e nella storia dei popoli dal momento che i fatti che lo evidenziano sono

numerosissimi. L’esperienza diretta col Sé lascia un’impronta indelebile nell’uomo, la

quale si manifesta di conseguenza nel suo agire cosciente. Essa è il coronamento di un

tragitto lungo e tortuoso a cui ogni individuo è chiamato; un percorso mai semplice ma

201

C.G. JUNG, Aion, Ricerche sul simbolismo del Sé, cit., p. 15. 202

Ivi, pp. 15-16. 203

A tal proposito Jung è categorico quando afferma: “Il fatto che l’Io sia assimilato al Sé va considerato

una catastrofe psichica” Ivi, p. 21.

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che, una volta compiuto, apre all’uomo le porte della sua stessa umanità all’interno del

cosmo.204

1.7.5 Il Fanciullo

L’archetipo del Fanciullo - o Puer Aeternus, in latino “fanciullo eterno, divino”, -

proviene da un dio appartenente dell’antichità, in seguito identificato con Dioniso e

quindi con Eros. È il dio della giovinezza, della forza, della resurrezione dopo la morte,

del rinnovamento. Questo archetipo si manifesta, nel suo lato negativo, come fuga di

fronte responsabilità e agli impegni e con un protrarsi di una condizione adolescenziale;

in quello positivo, invece, esso risveglia la vigorìa, le risorse creative e le capacità di

rinnovamento della psiche. Per Jung osservare il motivo del fanciullo soltanto come

residuo del ricordo della nostra infanzia o adolescenza è fuorviante o quantomeno

limitante dal momento che, essendo un archetipo appartenente all’inconscio collettivo,

esso va a configurarsi piuttosto come “l’aspetto infantile preconscio dell’anima

collettiva”205

. Questo archetipo descrive al contempo qualcosa che è stato, ma anche

qualcosa di attuale e in divenire. Il fanciullo, infatti, è “avvenire in potenza”206

,

presagio: anche quando sembra riferirsi ad eventi legati al passato di un individuo, esso

serba in sé la promessa di sviluppi futuri ed il presagio di imminenti trasformazioni.

1.7.6 La Grande Madre

L’archetipo della Grande Madre nasce dalla storia delle religione e comprende le varie

specie del tipo di dea-madre (tra cui la mamma, la nonna, la matrigna la suocera, la

nutrice, la sovrana, la Vergine Maria ecc. ecc.). Le proprietà principali di questo

archetipo sono il “materno”, ossia “la magica autorità del femminile, la saggezza e 204

Da Due testi di psicologia analitica: “Il Sé potrebbe essere caratterizzato come una specie di

compensazione per il conflitto fra l’interno e l’esterno; formulazione non impropria in quanto il Sé ha il

carattere di un risultato, di una meta conseguita, di qualcosa prodottasi a poco a poco e divenuto

sperimentabile con molte fatiche. Pertanto il Sé è anche la meta della vita, perché è la più perfetta

espressione della combinazione fatale che si chiama individuo, e non solo del singolo uomo, ma di un

intero gruppo, nel quale l’uno integra l’altro per costituire l’immagine completa. Quando si riesce a

sentire il Sé come irrazionale, come un ente indefinibile, al quale l’Io non è né contrapposto né sottoposto

ma pertinente, e intorno al quale esso ruota come la terra attorno al sole, allora l’individuazione è

raggiunta […] In questa relazione non c’è nulla di conoscibile, perché noi non possiamo dir nulla circa i

contenuti del Sé. L’Io è l’unico contenuto del Sé che conosciamo. C.G. JUNG, Due testi di psicologia

analitica, cit., p. 235. 205

C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 155. 206

Ivi, p. 157.

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l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo,

protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; l’istinto e

l’impulso soccorrevole [ma anche] ciò che è segreto, tenebroso, nefasto; ciò che divora,

seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile”207

. L’archetipo della Madre,

dunque, come tutti gli archetipi possiede un lato positivo , quello della madre amorevole

e soccorrevole, e uno negativo ossia la madre terrificante e nefasta. Jung, a differenza di

Sigmund Freud, attribuisce un’importanza marginale alla madre personale, ossia a

quella naturale – o adottiva – di ciascun individuo. Egli sostiene, ad esempio, che i

contenuti delle fantasie anormali sono da riferirsi alla madre naturale soltanto in parte,

dal momento che essi in gran misura hanno motivazioni che si spingono al di là di tale

figura e degli episodi dell’infanzia ad essa legati. Motivazioni, queste, che andrebbero

ricercate, piuttosto, nelle produzioni della fantasia di carattere mitologico - e quindi

archetipico – le quali provengono sempre da un presupposto inconscio e possono

derivare da racconti di fiabe, storie, aneddoti, (ma anche, aggiungeremo noi da film,

cartoni animati, spot pubblicitari e qualsiasi produzione audiovisiva).

1.7.7 Il Vecchio Saggio

L’archetipo del “Vecchio Saggio” – o Senex, in latino “vecchio” - rappresenta

l'archetipo dello spirito ossia il significato preesistente nella vita caotica. Rivela

anch’esso una natura dicotomica: da una lato, infatti, assume caratteristiche

psicologiche quali la stabilità, la maturità, la saggezza, il senso di responsabilità; in

senso negativo, invece, esso riferisce ad inclinazioni derivanti da eccessivo

tradizionalismo, dispotismo, cinismo, razionalità e mancanza di fantasia.

1.8 Gli “archetipi narrativi”: gli studi di Vladimir Propp

Accanto a quelli che potremmo definire gli archetipi “in sé” - declinati, come abbiamo

visto, in immagine, mito e personalità - esistono, altresì, quelli che potremmo

identificare come motivi e strutture archetipiche che attengono alla narrazione e alle

modalità di racconto.

207

Ivi, p. 83.

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Vladimir Propp (San Pietroburgo 1895 – Stalingrado 1970) pubblica nel 1928 quello

che sarebbe diventato un classico non solo del folclore, ma delle scienze umane in

generale. Morfologia della fiaba208

è un’opera che ha precorso in maniera illuminante e

affatto originale le ricerche linguistiche di stampo strutturalista che da lì in poi si sono

dispiegate nei decenni. Canti, novelle, leggende e fiabe provenienti da antiche tradizioni

popolari sono storicamente state ascritte a genere letterario, da analizzare in ottica

filologica o estetica. Propp allarga il campo di analisi e ne fa un problema più

marcatamente etnologico, storico e, per certi versi, psicologico. La tesi del linguista

russo è quella di una sostanziale omogeneità strutturale di tutte le fiabe esistenti in

letteratura e nei racconti orali popolari. Essi, infatti, a prescindere dalla data della loro

creazione e dalle radici geografiche dalle quali hanno preso vita, conserverebbero in sé

la medesima struttura portante, una grammatica di fondo universale, coerente nei secoli

e attraverso le varie culture. In altre parole, Propp prefigura quello che potrebbe

definirsi una sorta di “archetipo narrativo” il quale, pur limitato dall’autore al racconto

folcloristico, può essere fatto ricondurre - senza troppi indugi ma con le dovute

eccezioni - alla più amplia dimensione della narrazione tout court. Secondo Propp, tutte

le fiabe (laddove per “fiaba” si intende anche “favola” dal momento che i due termini

sono usati indistintamente, mentre lo stesso autore preferisce riferirsi a “favole di

magia” per indicare ricchi e multiformi racconti del folclore aventi una determinata

struttura) posseggono caratteristiche comuni sintetizzabili in cinque punti:

1. "Gli elementi costanti, stabili, della favola sono le funzioni dei personaggi,

indipendentemente dall’identità dell’esecutore e dal modo di esecuzione. Esse formano

le parti componenti fondamentali della favola"209

. La vera è propria discriminante per

Propp è rappresentata dalla funzione del personaggio. È dall’individuazione delle

funzioni dei personaggi, della loro combinazione della loro successione, infatti, che

prende forma l’ossatura del racconto. Essa è totalmente indipendente dall’identità stessa

del personaggio, nonché dalle modalità in cui essa è svolta.210

Per Propp, infatti,

“nessun soggetto di racconto di fate può esser studiato a sé [così come] nessun motivo

208

V.J. PROPP, Morfologia della fiaba (1927), Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1988. 209

Ivi, p. 27. 210

“Rinunciamo completamente per il momento a studiare la fiaba dal punto di vista del soggetto. Il

racconto di fate è un tutto, tutti i suoi soggetti sono reciprocamente legati e condizionati; da ciò deriva

l’impossibilità di isolare l’indagine del motivo”. V.J. PROPP, Le radici storiche del racconto di fate

(1946), Einaudi Editore, Torino, 1949, p. 31.

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di racconto di fate può esser studiato prescindendo dalle sue relazioni con il tutto”211

.

Secondo l’autore russo la successione degli avvenimenti all’interno della favola

possiede leggi ben definite ed è scrupolosamente identica; la possibilità di variazioni,

così, avrebbe limiti molto ristretti e facilmente individuabili.

2. "Il numero delle funzioni che compaiono nella favola di magia è limitato"212

. In

totale, le funzioni213

individuate da Propp, sono 31 (avremo modo di trattarne fra breve).

3. "La successione delle funzioni è sempre identica"214

. Poche sono le fiabe che

contengono al loro interno tutte le funzioni, tuttavia ciò non inficia la legge della

successione di cui sopra, dal momento che l’assenza di alcune funzioni non muta

l’ordine delle altre.

4. "Tutte le fiabe di magia hanno struttura monotipica"215

, ovvero rappresentano

innumerevoli variazioni di una serie unica per tutte le fiabe.

Una volta individuate le funzioni, quindi, è possibile determinare isotopia tra le favole

che potranno così essere considerate tra esse “monotipiche”216

. In base a questa

classificazione, secondo Propp, si può compilare un indice dei tipi fondato su precisi

tratti strutturali delle favole e non, come avevano cercato di fare altri linguisti - Volkov

e Veselovskij su tutti - sulla base del loro intreccio (metodo considerato piuttosto vago).

Tutte le funzioni della favola si vanno a disporre, in questo modo, in un unico racconto,

avente una sola serie di funzioni, senza che tra di esse ci possa essere un rapporto di

contraddizione o di mutua escludibilità. Esso in sostanza riprende le tre fasi aristoteliche

della narrazione, ossia: una fase preparatoria in cui qualcosa rompe l’equilibrio iniziale

e causa un allontanamento, una fase centrale nella quale si assiste alle lotte e alle

peripezie dell’eroe per raggiungere il suo obiettivo, e infine una fase finale che consiste

nella vittoria risolutiva e nel ritorno all’ordine.

211

Ivi, p. 30. 212

Ibidem. 213

Nota Propp: “Per funzione si intende l’azione del personaggio determinata dal punto di vista del suo

significato per l’andamento della narrazione” V.J. PROPP, Morfologia della fiaba, cit., p. 215. 214

Ivi, p.28. 215

Ivi, p. 29. 216

Nelle scienze umane è monotipico un gruppo tassonomico rappresentato da un solo tipo; ad esempio

una famiglia con un solo genere oppure un genere con una sola specie.

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Come si accennava, le funzioni “universali” individuate da Vladimir Propp sono 31; in

questo elenco le riproponiamo nel dettaglio, attenendoci alle diciture originali

dell’autore.217

1.8.1 Le funzioni

I. Uno dei membri della famiglia si allontana da casa (Allontanamento).

II. All’eroe è imposto un divieto (Divieto)

III. Il divieto è infranto (Infrazione del divieto)

IV. L’antagonista tenta una ricognizione (Investigazione)

V. L’antagonista riceve informazioni sulla sua vittima (Delazione)

VI. L’antagonista tenta di ingannare la vittima per impadronirsi di lei o dei suoi

averi (Tranello)

VII. La vittima cade nell’inganno e con ciò favorisce involontariamente il nemico

(Connivenza)

VIII. L’antagonista arreca danno o menomazione a uno dei membri della famiglia

(Danneggiamento)

IX. La sciaugura o mancanza è resa nota, ci si rivolge all’eroe con una preghiera o

un ordine, lo si manda o lo si lascia andare (Mediazione, momento di

connessione)

X. Il cercatore acconsente o si decide a reagire (Inizio della reazione)

XI. L’eroe abbandona la casa (Partenza)

XII. L’eroe è messo alla prova, interrogato, aggredito ecc., come preparazione al

conseguimento di un mezzo o di un aiutante magico (Prima funzione del

donatore).

XIII. L’eroe reagisce all’operato del futuro donatore (Reazione dell’eroe)

XIV. “Il mezzo magico perviene in possesso dell’eroe” (Fornitura)

XV. L’eroe si trasferisce, è portato o condotto sul luogo in cui si trova l’oggetto delle

sue ricerche (Trasferimento tra due reami)

XVI. L’eroe e l’antagonista ingaggiano direttamente la lotta (Lotta)

XVII. All’eroe è impresso un marchio (Marchiatura)

XVIII. L’antagonista è vinto (Vittoria)

217

Ivi, Cap. 3.

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XIX. È rimossa la sciagura o la mancanza iniziale (Rimozione della sciagura o della

mancanza)

XX. L’eroe ritorna (Ritorno)

XXI. L’eroe è sottoposto a persecuzione (Persecuzione, Inseguimento)

XXII. L’eroe si salva dalla persecuzione (Salvataggio)

XXIII. L’eroe arriva in incognito a casa o in un altro paese (Arrivo in incognito)

XXIV. Il falso eroe avanza pretese infondate (Pretese infondate)

XXV. All’eroe è proposto un compito difficile (Compito difficile)

XXVI. Il compito è eseguito (Adempimento)

XXVII. L’eroe è riconosciuto (Identificazione)

XXVIII. Il falso eroe o antagonista è smascherato (Smascheramento)

XXIX. L’eroe assume nuove sembianze (Trasfigurazione)

XXX. L’antagonista è punito (Punizione)

XXXI. L’eroe si sposa e sale al trono (Nozze)

Tali funzioni, secondo Propp, sono da intendersi come universalmente valide poiché

rappresentano le fasi tipiche di qualsiasi racconto folcloristico e, aggiungeremo noi, di

qualsivoglia narrazione, sia antica che moderna. La stessa pubblicità, intesa come

racconto audiovisivo contemporaneo, non è affatto esente da questo discorso: basti

pensare alla miriade di spot che presentano, seppur in maniera sintetica e condensata, le

stesse funzioni descritte dal linguista russo, andando così a confermare, semmai ce ne

fosse stato il bisogno, la validità e l’applicabilità delle sue teorie.

Come accennato prima le funzioni devono essere intese come indipendenti dall’identità

di chi le compie e, altresì, dal modo in cui esse sono compiute. Ciò, però, può rendere

difficoltosa la loro identificazione poiché funzioni diverse possono essere attuate in

modo identico; si deve constatare, perciò, una certa influenza di alcune forme su altre

che può dar vita a processi di “assimilazione”218

.219

Assimilazioni e omissioni a parte,

218

Ivi, p. 71. 219

Così lo stesso autore sul fenomeno dell’assimilazione: “Prendiamo il caso seguente: Ivan chiede un

cavallo alla baba-jaga, che gli propone di scegliere il migliore di una mandria di puledri tutti uguali. Egli

fa la giusta scelta e ottiene l’animale. L’operato della baba-jaga rappresenta qui la messa alla prova

dell’eroe da parte del donatore, che sarà seguita dal conseguimento del mezzo magico. Vediamo però che

in un’altra favola l’eroe vuole in moglie la figlia del genio delle acque e questi pretende che egli si scelga

la sposa tra dodici ragazze tutte uguali. Possiamo parlare anche in questo caso di messa alla prova da

parte del donatore? È chiaro che pur se l’operato è identico, ci troviamo di fronte a un elemento

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resta fedele la “struttura archetipica” del racconto di fate e la sua applicabilità generale

(o quasi).

Per quanto concerne i personaggi, invece, Propp ne individua sette principali all’interno

della fiaba220

; dando preminenza, come detto, alla loro funzione, essi sono intesi più

propriamente come sfere di azione e si concretano in:

1. L’Antagonista (comprende il danneggiamento e il combattimento con l’eroe)

2. Il Donatore (comprende la trasmissione del mezzo magico e la sua preparazione)

3. L’Aiutante (comprende il trasferimento dell’eroe nello spazio, la rimozione della

sciagura o della mancanza, il salvataggio dalla persecuzione, l’adempimento dei

compiti difficili, la trasfigurazione dell’eroe)

4. La principessa e il padre della principessa (comprende l’assegnazione di compiti

difficili, la marchiatura, lo smascheramento, l’identificazione, la punizione del

secondo antagonista, le nozze

5. Il mandante (comprende l’invio, il momento della connessione)

6. L’eroe (comprende la partenza, la reazione alle richieste del donatore, le nozze)

7. Il falso eroe (idem)

Le sfere di azione corrispondono esattamente al personaggio, laddove un solo

personaggio può abbracciare più sfere d’azione. Anche i personaggi, dunque, così come

le funzioni dalle quali si plasmano, possono essere considerati costanti all’interno del

racconto di fate, entità che ricorrono in ogni contesto seppur in parte omessi o

“raddoppiati” nelle loro funzioni all’interno del racconto.

Propp è certo che i motivi dei racconti fate vadano ridotti sostanzialmente a fatti e che

questi fatti non sono una somma di elementi risolvibili nelle fonti ma il risultato di un

processo spirituale data l’universalità dei motivi stessi. A tal riguardo il legame con i

miti, all’interno della prospettiva proppiana, è evidentemente presente; tuttavia egli

preferisce compiere – in particolar modo con la sua opera successiva Le radici storiche

del racconto di fate221

- un’opera magna sui racconto del folclore e sulla sua struttura

completamente diverso e cioè al compito difficile collegato alla richiesta di matrimonio. Quello che ha

avuto luogo è l’assimilazione tra le due forme.” Ibidem. 220

Ivi, pp. 85-86. 221

V.J. PROPP, Le radici storiche del racconto di fate (1946), Einaudi Editore, Torino, 1949.

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(argomento a lui più prossimo), senza addentrarsi troppo sul terreno dei raffronti e

lasciando in questo modo, presso gli studiosi, una moltitudine di gravide suggestioni.

Propp, tuttavia, non potendo ignorare il mito all’interno della sua ricerca afferma: “Per

mito si intenderà [..] un racconto su divinità o esseri divini nella cui realtà il popolo

crede […]. Il mito e il racconto di fate si differenziano non già dalla loro forma, ma per

tutta la loro funzione sociale […]. Formalmente esso non può essere distinto dal

racconto di fate. Il racconto di fate e il mito possono talvolta coincidere così

perfettamente, che nell’etnografia e nel folclore tali miti si chiamano spesso fiabe.”222

Secondo Propp la sostanziale vicinanza del mito al racconto di fate consiste nel

significato preminentemente sociale che hanno i due generi . Nel mito, infatti, così come

nella favola “Non è importante la tecnica della produzione come tale, bensì il regime

sociale che ad essa corrisponde.”223

Entrambi, dunque, sembrano configurarsi come fatti

sostanzialmente storici e sociali, i quali affondano le loro radici nell’“humus”

contingente all’interno dei quali sono prodotti e amplificati e soprattutto essi

rappresentanto, verosimilmente, il retaggio di antichi rituali simbolizzati nei secoli

come quello dell’iniziazione, del matrimonio, del funerale ecc.224

Tuttavia Propp,

nonostante ripeta a più riprese che “l’unita di composizione della fiaba non va ricercata

in certe particolarità della psiche umana, né in una particolarità della creazione artistica,

ma nella realtà storica del passato” tra le righe lascia almeno trasparire al lettore che

miti, riti, leggende e racconti di fate posseggono un carattere squisitamente psicologico.

L’autore russo, infatti, afferma come “tanto il mito quanto il rito sono il prodotto della

mentalità. È talvolta assai difficile spiegare e definire queste forme di mentalità.

Tuttavia è indispensabile che il folclorista ne tenga conto, non solo, ma chiarisca a se

stesso quali rappresentazioni si trovano alla base di dati motivi”225

. Secondo Propp la

mentalità primitiva è il dato fondamentale da prendere in analisi per risalire alla genesi

del racconto di fate. Essa, infatti, non conoscendo astrazioni di nessun genere, si

222

Ivi, p. 43. 223

Ivi, p. 34. 224

È Joseph Campbell a notare, a tal proposito, come “I riti delle tribù per la nascita, l’iniziazione, il

matrimonio, i funerali, l’insediamento, e così via, servono a tradurre in forme impersonali e classiche le

crisi e le azioni della vita dell’individuo. Esse lo svelano a se stesso, non come questa o quella persona ma

come il guerriero, la sposa, la vedova, il prete, il condottiero; e nel contempo ripetono per il resto della

comunità l’antica lezione degli stadi archetipi. Tutti partecipano al rito secondo il loro rango e le loro

funzioni. Tutta la società diventa visibile a se stessa come un’unità vivente ed imperitura. Generazioni di

individui passano, come cellule anonime di un corpo vivente; ma la forma eterna che sostiene rimane”. J.

CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, cit., p. 339. 225

V.J. PROPP, Le radici storiche del racconto di fate, cit., p. 49.

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manifesta negli atti, nelle usanze, nella lingua, nei riti e nelle forme di organizzazione

sociale. Ora, a chiunque abbia anche minimamente interiorizzato la prospettiva

archetipica junghiana, verrebbe da compiere un salto logico preciso. Essi, infatti,

perverrebbero alla conclusione che tale mentalità rispondeva allora – come a tutt’oggi

risponde – , oltre agli aspetti storici e sociali l’individuo soggiaceva, a quelle immagini

e a quelle energie primigenie, a quelle “idee primordiali” preminenti nell’uomo che

Jung stesso definiva, per l’appunto, “archetipi”. Considerati i risultati emersi dallo

studio di Propp, i quali hanno evidenziato, come abbiamo visto, una struttura tipica dei

racconti folcloristici, universale, comune a tutte le epoche e a tutte le zone geografiche,

non parrà, dunque, al lettore un azzardo o un’ingenuità intellettuale evidenziare una

natura archetipica – anche metaforicamente archetipica – riferita a questo tipo di

racconti nonché, come abbiamo più volte accennato, alla narrazione in senso più

amplio. In questo modo, spingendoci ancora più in là con le nostre alchimie concettuali,

potremmo affermare che, come per l’uomo l’alfabeto primigenio del mondo è dettato,

attraverso l’inconscio collettivo, dalla luminosità ancestrale degli archetipi, così le varie

funzioni individuate da Propp ricorrenti in tutti i racconti di fate sono – poste le dovute

limitazioni - gli apriori universali di qualsivoglia discorso narrativo, dal momento che

esse vanno a figurare una struttura sempre valida e applicabile, la cui genesi affonda le

proprie radici nella notte dei tempi226

.

1.9 Campbell e il “Viaggio dell’Eroe”

Operazione simile a quella proppiana, dalla quale trae certamente ispirazione, è quella

realizzata dallo stesso Joseph Campbell nella prima metà degli anni ’50. Quest’ultimo,

analogamente al linguista e antropologo russo, parte dal presupposto che tutte le storie

mitologiche intorno alla figura dell’eroe vadano a comporre, in realtà, una sola grande

storia universale, narrata all’infinito, al cui interno può sussistere un numero pressoché

illimitato di variazioni. Nella sua opera The hero with a thousand faces227

, pietra miliare

226

Le correnti all’interno della semiotica, dell’analisi del discorso e della cosiddetta “narratologia”, sono

diverse ed hanno avuto la loro massima espansione tra Ottocento e Novecento. Ne facciamo qui, un

elenco riassuntivo con l’indicazione delle teorie e degli autori più rappresentativi: il “formalismo russo”

(Propp, Bakthin, Todorov), l’“ermeneutica tedesca” (Gadamer, Husserl), lo “strutturalismo francese”

(Barthes, Lévi-Strauss, Greimas, Bremond, Ricoeur), la “storiografia” e la “semiotica italiana” (Segre,

Avalle, Eco), il “neo-criticismo statunitense” (Frye, Scholes, Chomsky, Chatman, MacIntyre). 227

J. CAMPBELL, The hero with a thousand faces, cit., Pantheon Books, New York, 1953, trad. it.,

L'eroe dai mille volti, Feltrinelli Editore, Milano, 1958.

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degli studi mitologici del XX secolo, Campbell nota come ogni mito segue uno schema

narrativo costituito da elementi strutturali comuni, una “sceneggiatura universale”, che

si ripete indipendentemente dall'appartenenza del racconto alla mitologia, occidentale, a

quella greca, a quella biblica o a quella orientale antica, andando a costituire ciò che egli

stesso chiama un unico, grande, “monomito”.

Con rigore scientifico, il mitologo americano pone a confronto centinaia di racconti e di

leggende tribali e arcaiche, estrapolati dalle più svariate culture e dai periodi storici più

disparati. Gradualmente, egli perviene alla conclusione che esiste, all’interno del

racconto mitici, una sorta di “trama-archetipo”, comune a tutte le storie. Per Campbell,

infatti, “sia l’eroe ridicolo o sublime, greco o barbaro, ebreo o gentile, il suo viaggio

varia ben poco nelle sue linee essenziali. Nelle favole popolari l’atto eroico è costituito

da un’azione fisica; nelle religioni più alte è presentato come un’azione morale; tuttavia

si troveranno variazioni sorprendentemente piccole nella morfologia dell’avventura, dei

personaggi, delle vittorie riportate”228

, mentre sull’applicabilità dei tale percorso innato

egli afferma: “Quando in una determinata favola, leggenda o mito, sembra mancare

l’uno o l’altro degli elementi base del modello archetipo, esso vi è inevitabilmente

celato sotto questa o quella veste, e la sua apparente mancanza può illuminare sia la

storia che la patologia”.229

Le tappe della struttura mitica del “Viaggio dell’Eroe” individuate da Campbell –

diciassette in tutto – vanno a costituire così una vera e propria mappa psichica dei più

ricorrenti archetipi dell’inconscio collettivo, i quali afferiscono direttamente ai miti ma

che possono essere rintracciati altresì nelle stesse favole, nei sogni e nei processi

immaginativi in generale. Essi vanno a costituire il percorso archetipico di rivelazione

che ogni essere umano è chiamato ad intraprendere nel corso della sua esistenza (un

percorso che è concettualmente molto vicino a quello junghiano di “individuazione”230

)

Esse, esattamente come le funzioni proppiane del racconto di fate, sono presenti, in

parte o in toto, in ogni mito, anche se non necessariamente nella stessa sequenza.

Segnatamente, le tappe del viaggio archetipico si dipanano raggruppate in tre stati

fondamentali che qui vediamo nel dettaglio.231

228

Ivi, p. 40 229

Ivi, pp. 40-41. 230

Cfr. par. 7. del presente lavoro. 231

Nella loro versione riveduta e ridotta le fasi del viaggio, comunemente studiate sono invece tredici,

rispettivamente: 1. Il Mondo Ordinario, Il Richiamo all'Avventura,Il Rifiuto dell'Appello, L'Incontro con

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Stadio della Separazione o Partenza

1. L’appello

2. Rifiuto all’appello

3. L’aiuto soprannaturale

4. Il varco della prima soglia

5. Il ventre della balena

Stadio delle Prove e Vittorie dell’iniziazione

1. La strada delle prove

2. L’incontro con la dea (Magna Mater)

3. La donna quale tentatrice

4. Riconciliazione con il padre

5. Apoteosi

6. L’ultimo dono

Stadio del Ritorno e Reinserimento nella società

1. Rifiuto a tornare

2. La fuga magica

3. L’aiuto dall’esterno

4. Il varco della soglia del ritorno

5. Signore dei due mondi

6. Libero di vivere232

Lo schema individuato da Campbell, fonte crescente di ispirazione per moltissimi

studiosi provenienti da svariate discipline, viene fatto proprio, all’inizio degli anni ’90

del secolo scorso, dallo scrittore, sceneggiate e story analist Chris Vogler, il quale,

assumendo come faro l’opera del mitologo americano, ne compendia i tratti principali e

il Maestro, L'Attraversamento della Prima Soglia, Prove, Alleati, Nemici, L'Avvicinamento alla Caverna

più Segreta, Sacrificio e tradimento, La Prova Suprema o Iniziazione, Il Premio, La Via del Ritorno, La

Resurrezione e Il Ritorno con l'Elisir.

232

Ivi, pp. 39-40.

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ne adatta i contenuti alla scrittura narrativa e cinematografica (nello specifico a quella di

Hollywood).

Ne Il viaggio dell’eroe233

Vogler fa assurgere il modello fondamentale di Campbell a

“codice segreto” di qualsivoglia narrazione, anche audiovisiva contemporanea234

. Egli,

rielaborando parzialmente e facendo propria la direzione descritta dal maestro, riassume

il Viaggio in dodici tappe fondamentali e si concentra, altresì, sui personaggi-funzione

che occorrono all’interno del racconto, ovvero gli archetipi intesi come personalità o

entità. Diamo qui, dunque, una breve descrizione delle fasi del Viaggio vogleriano,

direttamente mutuato, come si è detto, da quello di Campbell di cui abbiamo già

illustrato il percorso in maniera schematica. Le tappe come, si diceva, sono dodici.

Troviamo, nell’ordine: 1 Il Mondo Ordinario, Il Richiamo all’Avventura, Il Rifiuto del

Richiamo, L’Incontro col Mentore, Il Varco della prima soglia, Prove, alleati e nemici,

L’Avvicinamento alla caverna più recondita, La Prova centrale, La ricompensa, La via

del ritorno, la Resurrezione, Il Ritorno con l’Elisir.

Nella prima tappa, l'eroe, - sia esso uomo oppure donna - , viene bruscamente sottratto

alla sua vita ordinaria e trasportato in un mondo altro, nuovo ed alieno: si tratta della

classica teoria del “pesce fuor d’acqua”. L’appello all’avventura rivela la posta in gioco

e rende manifesta la meta. All’eroe si presenta un problema, una sfida o un’avventura da

intraprendere che compromette lo status quo; una volta che il Richiamo è pervenuto,

l'eroe non può più vivere nel abituale mondo della vita quotidiana. Il Rifiuto del

Richiamo è la metafora delle paure e delle debolezze comune, insita in ogni uomo; così

gli eroi pigri o pavidi devono essere chiamati più volte all'avventura e se cercano di

sottrarsi alla loro responsabilità, essi devono essere "incitati, blanditi, adulati, tentati o

costretti"235

L’eventuale rifiuto iniziale è, tuttavia, ragionevolmente comprensibile poiché l’eroe si

trova ad affrontare la più grande di tutte le paure ossia il terrore dell'ignoto.

Una volta risposto positivamente all'appello, l'eroe entra quasi sempre in contatto con

fonti saggezza o di sostegno prima di intraprendere l'avventura. Tale fonte può

233

C. VOGLER, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e cinema, Dino

Audino Editore, Roma, 1992. 234

Così lo stesso autore: “Non tutte le storie contemporanee sono mitologiche, né hanno necessariamente

a che fare con la sfera del mito, ma le storie che si raccontano ai nostri giorni hanno molto in comune con

quell’antica energia dei miti. La struttura e gli archetipi del mito sono alla base di tutta la narrativa

contemporanea e ogni scrittore dovrebbe conoscerne gli elementi.” Ivi, p. 5. 235

Ivi, p. 9.

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manifestarsi in una persona (per es. il mago Merlino) ma anche in un oggetto, un’entità,

una suggestione, un motto che torna alla mente. Il Varco della Prima Soglia è l'atto di

volontà attraverso cui l'eroe sancisce formalmente il proprio impegno nella risoluzione

della situazione, confrontandosi seriamente con il problema e cominciando ad agire. È il

momento in cui il racconto decolla e l’avventura entra nella sua fase più significativa.

È qui che l'eroe incontra i primi Guardiani della Soglia, che a volte si presenteranno

sotto spoglie inquietanti ed ostili. Il loro fine principale è quello di mettere alla prova

l'eroe. Quest’ultimo potrà ritirarsi e fare marcia indietro, passare all'attacco, agire

d'astuzia o con il sotterfugio per evitarli, potrà cercare di sedarli, corromperli o di farli

diventare alleati.

Ad interpretare i Guardiani possono essere, in maniera sottaciuta, anche le persone più

care e prossime all'eroe: saranno loro a testare la sua determinazione poiché essi

rappresentano i demoni interiori che albergano nell’inconscio. L'eroe, dunque, in tale

marasma di complessi, deve riuscire a cavarsela ma anche a separare gli amici dai

nemici. In questa fase l'eroe incontra spesso la propria Anima, ossia, in perfetta sintonia

con le concezioni junghiana, un individuo di sesso opposto su cui l'eroe potrebbe

proiettare i propri bisogni o le proprie forze inconsce, rendendolo, così, fortemente

attraente.

Con l’Avvicinamento alla caverna l’eroe giunge finalmente ai confini di un luogo

pericoloso e spesso oscuro, dove è nascosto l’oggetto della sua ricerca. L’eroe,

entrandovi, attraversa la seconda soglia e, nel farlo, spesso è costretto a superare delle

prove preliminari (per es. eludere la sorveglianza di un luogo inaccessibile e

pericoloso).

Nella Prova Centrale l'eroe si trova di fronte al suo timore più grande: egli va incontro

alla morte – o meglio gli sembrerà di morire - , ma lo fa per poter rinascere e ritornare

cambiato, migliorato. Essa può essere rappresentata anche nella semplice e momentanea

interruzione di un rapporto. La prova è un momento cruciale e di grande suspence

all’interno della quale l’eroe si allontana drammaticamente dal suo obiettivo e tutto è

messo in serio pericolo. Ma è proprio dal brivido terribile di aver guardato negli occhi la

morte che l’eroe riceverà una spinta vitale straordinariamente potente ed inusitata. Vinta

la prova, all’eroe spetta la Ricompensa (per es. un’arma particolare, la futura sposa, il

santo Graal ecc.), attraverso cui egli prende possesso di ciò che ha cercato; a questo

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punto, egli può sentirsi gratificato e realizzato dalla vittoria, rendendosi

improvvisamente conto della sua reale natura, e rammaricandosi di quanto, in passato,

sia stato sciocco o testardo. L'eroe si prepara, quindi, a tornare nel Mondo Ordinario,

ma teme nel suo profondo che la suggestione della prova possa svanire nel nulla

dinnanzi alla cruda e cinica vita di tutti i giorni; egli deve dedicarsi, perciò, ad un

continuo cambiamento interiore. La Resurrezione costituisce l’acme di qualsivoglia

mito (e narrazione tout court): in questa fase l'eroe deve dimostrare che la sua vecchia

identità è del tutto decaduta e che quella nuova è immune alle tentazioni e alle

debolezze cui era succube. La Resurrezione implica il sacrificio che va a costituire di

fatto la caratteristica dell'eroe: dopo di essa egli è pronto a rinunciare a tutto per un

ideale, per una persona o per un gruppo. Qui la morte e l’oscurità si presentano al

cospetto dell’eroe per un’ultima prova prima di venire sconfitte in maniera definitiva;

egli dimostrerà così di aver imparato la lezione della Prova Centrale. L'ultima tappa del

Viaggio è Il Ritorno con l'Elisir.

Esso rappresenta l’oggetto che l’eroe porta via con sé, ma può manifestarsi sotto forma

di diversi valori, esperienze e virtù - amore, saggezza, la fama, conoscenze da

condividere con la comunità ma anche l'eccitante avventura di tutta una vita - ai quali

egli perviene alla fine del suo tortuoso percorso. L’Elisir trasforma, rende più

consapevoli, più “umani”, più integri, più parte di un insieme. Il Viaggio dell'Eroe è a

questo punto completato: se l'Eroe fallisce, dovrà ripetere tutte le prove finché non avrà

assimilato la lezione di vita e riportato a casa il suo Elisir da condividere con gli altri.

Tali fasi, come sottolineato a più riprese, non sono da intendersi come fisse o

imprescindibili ma, piuttosto, come elementi cangianti e dinamici che, seppur

riverberati attraverso diverse culture, generi ed epoche storiche, restano tuttavia

radicalmente presenti all’interno delle narrazioni. Esse possono essere omesse, aggiunte

e persino rimescolate senza, per questo, perdere la validità e la loro coincidenza con la

“spina dorsale” di ogni narrazione. Come lo stesso Vogler afferma, infatti,: “Gli

elementi del viaggio tipico sono solo le rappresentazioni simboliche di esperienze

universali di vita […] Tali simboli possono cambiare infinitamente per adeguarsi a

ciascun racconto e ai bisogni della società in cui viene raccontato”236

.

236

Ivi, p. 31.

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Le concezioni di Campbell e Vogler, corrono parallelamente a quelle di Jung anche per

ciò che concerne l’individuazione di medesimi tipi di personaggi riscontrabili nei miti e

nelle favole di tutte le epoche e, in una stadio anteriore, nell’inconscio personale e

collettivo della razza umana tutta. Il concetto di archetipo, in questa ottica, è strumento

imprescindibile per comprendere l’identità e la funzione dei personaggi di un racconto;

esso, infatti, è considerato da Vogler come parte del linguaggio comune della narrativa e

il suo controllo e la consapevolezza della loro atavica energia è, secondo l’autore

americano, un passaggio fondamentale per lo scrittore come lo è l’atto del respirare. È

l’universalità di tali modelli e la loro perenne vibrazione a rendere possibile che la

narrativa diventi un esperienza di tutti. Così come aveva illustrato Propp, Vogler non

intende per archetipo un ruolo statico ed esclusivo che il personaggio acquisisce e

mantiene per tutta la durata della storia. Diversamente, esso si declina in funzioni

flessibili che un personaggio può assumere (e abbandonare) durante il corso del

racconto; così facendo, essi vengono a configurarsi come una sorta di maschere

indossate dagli “attori” temporaneamente per un determinato scopo. Vogler è così

persuaso dal potere di tali archetipi che arriva ad affermare che “non si possono scrivere

racconti senza di essi”237

. Lo studioso americano ne individua sette tra i più ricorrenti,

dando loro una definizione e analizzandoli sia da un punto di vista psicologico che

drammaturgico. Essi, ricalcando in gran parte gli archetipi “originali” teorizzati dal Carl

Jung (vedi paragrafo 7) sono, nell’ordine: l’Eroe, il Mentore (vecchio saggio o saggia),

il Guardiano della soglia, il Messaggero, il Mutaforme, l’Ombra, l’Imbroglione. Ne

riportiamo di seguito una breve descrizione.

L’Eroe

Un Eroe è pronto a proteggere e servire un’altra persona a lui cara o un gruppo di

persone, sacrificando, laddove necessario, la sua stessa vita. L’Eroe, come abbiamo

visto, è chiamato a portare al termine il suo personale viaggio, affrontando, con

sacrificio e dedizione numerose peripezie e paure. Egli agisce, impara e cresce traendo

benefici dalle sue esperienze. In termini psicologici l’archetipo dell’Eroe rappresenta la

tensione che, partendo dall’Io, abbraccia la globalità del Sé: in altre parole la ricerca

dell’identità e della compiutezza.

237

Ivi, p. 127.

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L’eroe è il protagonista della narrazione ed è l’agente che sostanzialmente la fa

muovere. Esistono svariati tipi di eroi: si va dal classico Eroe coraggioso (pronto al

sacrificio, dinamico, entusiasta, valoroso), all’Eroe riluttante (passivo, recalcitrante,

pigro, pauroso), dall’Eroe buono e giusto, all’antieroe (cinico, amareggiato, vendicativo,

machiavellico, a volte persino violento ed immorale); dall’Eroe solitario e quello

filantropo, dedito alla comunità, dall’Eroe catalizzatore238

(il quale, a differenza degli

altri non accoglie grandi trasformazioni interiori ma piuttosto li provoca presso gli altri),

per l’Eroe imbroglione (si veda in seguito) all’eroe autoreferenziale e vanitoso, e così

via239

.

Il Mentore (Vecchio saggio o saggia)

Il mentore è di solito una figura positiva che motiva, coadiuva, istruisce e offre doni

all’Eroe. Essi spesso parlano con una voce divina o comunque illuminata e sono spesso

la proiezione di ciò a cui l’Eroe tende nella vita. A livello psicologico questo archetipo

rappresenta la saggezza dell’Io cosciente: alcuni mentori, infatti, sono una specie di

voce della coscienza dell’eroe (si pensi a Grillo Parlante in Pinocchio). Esso è

strettamente collegato, inoltre, all’immagine del genitore o comunque del parente più

anziano.

Così come gli Eroi, anche i Mentori possono essere di diversi tipi: esiste, infatti, il

mentore donatore (che aiuta provvisoriamente l’eroe consegna dogli armi magiche,

chiavi, informazioni determinanti ecc.), il mentore motivatore (che sprona e incita l’eroe

affinché prosegua con successo nel suo tragitto), il mentore inventore (sotto forma di

scienziato, dottore ecc. offre mezzi, saperi o invenzioni all’eroe), il Mentore-coscienza

(che, come il Grillo Parlante, o la volpe della carta igienica “Foxy” un noto spot

pubblicitario, rappresentano la voce interiore e saggia dell’eroe), il Mentore sciamano

(colui che guarisce e opera in maniera magica), il Mentore caduto240

(ovvero quello

precedentemente smarrito durante il suo personale Viaggio dell’Eroe), il falso Mentore

238

Ivi, p. 42. 239

Campbell ne aveva individuati sette principali ovvero: l’eroe quale guerriero, l’eroe primordiale,

l’eroe umano, l’eroe quale amante, l’eroe quale imperatore e tiranno, l’eroe quale redentore del mondo,

l’eroe quale santo.

240

Ivi, p. 46.

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(ingannatore, il cui intento è sviare l’eroe dalla sua meta, distogliendolo dal suo

obiettivo) ecc.

Il Guardiano della soglia

I Guardiani della soglia rappresentano di solito i personaggi cattivi o gli antagonisti

della storia comunque minori (sentinelle, soldati, criminali, mercenari ecc. ecc.) oppure

semplici figure neutrali che fanno parte del Mondo Stra-Ordinario al quale l’Eroe

approda dopo aver varcato la soglia. Il loro scopo principale è di vagliare la presenza

dell’eroe ed ostacolarlo in qualche modo; tuttavia l’eroe, oltre ad attaccarli o a fuggire

da essi, può riservarsi la possibilità di contrattare, corromperli e trasformarli in alleati.

L’Eroe più che sconfiggere i Guardiani deve assimilarli, carpendone esperienze e

competenze. In termini psicologici essi vengono a configurarsi come i “demoni

interiori” di ciascun individuo - vizi, nevrosi, ansie, dipendenze, tabù ecc - che si

frappongono sulla sua strada verso il cambiamento e la rivelazione.

Il Messaggero

Questi personaggi recapitano sfide e annunciano l’arrivo di importanti cambiamenti:

essi forniscono la motivazione e offrono una sfida all’eroe. Messaggero può essere una

persona (gli araldi della cavalleria, un telegrafista ecc.) o anche una forza (l’arrivo di un

tornado, il tremolio della terra ecc.). I Messaggeri hanno in sé la funzione psicologica di

annunciare la necessità di un significativo mutamento nella vita dell’individuo. Esso

rappresenta quella forza innovatrice (una figura dei sogni, una persona reale, una

suggestione immaginifica, una nuova esperienza o idea nella quale ci si imbatte ecc.)

che “avvisa” la psiche di essere finalmente pronta al cambiamento.

Il Mutaforme

L’archetipo del mutaforme si contraddistingue per la capacità di cambiare connotati

fisici, umori, carattere ed intenti, rendendosi, per questo motivo, di non facile

individuazione. Spesso è rappresentato dall’amante (es. la classica famme fatale) che si

trasforma in traditrice o addirittura folle omicida. La funzione drammaturgica del

Mutaforme è quella di seminare dubbi, ambiguità e suspance all’Eroe e all’interno della

storia stessa. Così come gli altri archetipi esso può manifestarsi in personaggi sia

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maschili che femminili e, in termini più prettamente psicologici, è strettamente

collegato al concetto di proiezione e a quello junghiano di anima/animus che abbiamo

trattato precedentemente nel presente lavoro.

Voltumna, dio etrusco del cambiamento di foggia, è un classico esempio di mutaforme,

ma rientrano in questo archetipo tutti i personaggi “doppi” e mendaci (per es. Orson

Welles in The Stranger ma anche Robin Williams in Mrs. Doubtfire).

L’Ombra

L’Ombra rappresenta un fondamentale archetipo nel quale risiede la forza del lato

impenetrabile, degli aspetti inespressi, rimossi, rinnegati, nascosti. Esso è il coacervo

delle tendenze respinte o sottaciute che tuttavia sono sempre in agguato all’interno della

psiche. Il volto negativo dell’Ombra si sostanzia spesso, all’interno di una storia, nei

nemici e nei “cattivi”, oppure nei personaggi antagonisti. Mentre i primi si limitano a

cercare di eliminare o sconfiggere l’eroe, gli antagonisti possono essere meno ostili e

proiettarsi in personaggi alleati con l’eroe ma che, ad esempio, non condividono in

pieno la sua condotta. Ma l’Ombra può vivere anche all’interno dello stesso eroe e

rappresentare, come si diceva, il suo lato oscuro; accade, ad esempio, quando egli,

tormentato dalle sue paure o dai sensi di colpa, si comporta in maniera autolesionista, o

comunque non corretta. Attraverso questo archetipo l’eroe si confronta con il suo

inconscio e affronta tutte le sue nevrosi, psicosi, ansie e fantasie riprovevoli. L’Ombra

può essere semplicemente la parte della personalità che si ritiene in qualche modo

insana, sgradevole e limitante, un vizio, il mostro interno col quale si combatte dalla

nascita; l’eroe, per sconfiggerla, dovrà necessariamente affrontarla e, prima ancora,

identificarla e portarla alla luce.

L’Ombra, ha una enorme importanza all’interno del racconto poiché è con essa che

l’eroe misura il proprio valore. All’interno del racconto essa può essere rintracciata in

figure quali mostri, vampiri, alieni, figure diaboliche o altri nemici più o meno terribili.

Anche qui gli esempi si sprecano e si va dal Grendel della leggenda di Beowulf agli

alieni di Signs dai quali tenta di sfuggire Mel Gibson, laddove il Dr. Jekill e Mr. Hyde

ritraggono evidentemente la forza del lato oscuro di ogni uomo che rinviene dal mare

profondo del suo inconscio.

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L’Imbroglione

L’ultimo archetipo, l’Imbroglione, congiunge le energie della goliardia, della leggerezza

d’animo e, al contempo, del desiderio di cambiamento. Esso, come tutti gli altri, ha

radici antichissime che risalgono al tempo delle leggende, dei miti e del folclore e sono

interpretati tutti quei personaggi che, all’interno della narrazione, assumono le vesti di

buffoni, giocherelloni ecc. Quest’ultimi hanno il ruolo di stemperare la tensione della

storia e i conflitti psicologici che da essa sono generati, venendo a creare intermezzi

comici o quantomeno distensivi. Gli Imbroglioni possono essere “spalle” dell’eroe

(amici, servitori, alleati ecc.) oppure personaggi indipendenti con trame proprie. In

termini psicologici essi svolgono diverse funzioni: suscitando risate aiutano a

comprendere i limiti e ad isolare follie, ipocrisie e contraddizioni. Attraverso il loro

comportamento l’eroe viene spesso richiamato ad una ritrovata oggettività ed umiltà e,

al contempo, ad un necessario ed imminente cambiamento nella situazione corrente

divenuta ormai stagnante.

Uno degli Imbroglioni per eccellenza è rappresentato da Loki, il dio normanno della

frode e dell’inganno ma innumerevoli sono gli esempi che possono essere tratti anche

dalla modernità (Bugs Bunny e i personaggi di Buster Keaton, ad esempio,

rappresentano i più classici degli “Eroi Imbroglioni”).

1.10 Conclusioni

Gli “archetipi della narrazione” sin qui descritti, e intesi sia come personaggi-funzione

sia, operando un’estensione, come strutture primigenie del raccontare, sono l’evidenza

che qualunque storia - come, d’altronde, qualsiasi vita umana - è innervata di forme ed

elementi base attraverso i quali si dipanano tutte le sue vicende. Sul diretto legame tra

narrazioni e predisposizioni universali dell’individuo non ci soffermeremo oltre; ci

affidiamo, piuttosto, all’autorevolezza e l’eleganza della prosa di Joseph Campbell, del

quale vale ben la pena di citare un intero passo, che va a costituire - a pare nostro - il

perfetto epilogo del presente paragrafo:

“Non è difficile per l’intellettuale moderno ammettere che il simbolismo della mitologia

ha un significato psicologico […]. Con la scoperta che la struttura e la logica delle fiabe

e del mito corrispondono a quelle dell’immaginazione, le chimere dell’uomo arcaico,

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già tanto disprezzate, sono ritornate in primo piano nella coscienza moderna. Da questo

punto di vista appare evidente che attraverso i racconti fantastici […] viene fornita una

descrizione simbolica dei desideri inconsci, delle paure, delle tensioni che determinano

il comportamento umano cosciente. La mitologia è, in altre parole, psicologia scambiata

per biografia, storia e cosmologia. Lo psicologo moderno può ridarle il suo valore

originario e fornire così al mondo contemporaneo un documento ricco ed eloquente

degli abissi più profondi del carattere umano. Ai nostri occhi si rivelano così, come in

un fluoroscopio, gli occulti processi dell’enigma dell’individuo – occidentale e

orientale, primitivo e civile, contemporaneo ed arcaico. Abbiamo davanti il quadro

completo; dobbiamo soltanto leggerlo, studiarne le linee fondamentali, analizzare le

variazioni, e giungere quindi ad individuare le forze occulte che hanno plasmato il

destino dell’uomo e continuano a determinare la nostra vita sia privata che pubblica”241

.

In ultima analisi possiamo affermare che chi parla attraverso i racconti e gli archetipi

parla con una voce immortale, che dalle grotte di Lascaux giunge fino ai giorni nostri,

con eco intatta e precisa: sta all’uomo moderno, in un’ottica di coinvolgimento ed

empatia col suo prossimo, saper riprodurre e declinare l’afflato archetipico in diverse

fogge, intercalandolo opportunamente nei suoi discorsi quotidiani, in modo da servirsi

della sua atavica e dirompente forza.

241

Ivi, pp. 227-228.

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CAPITOLO II

Le immagini collettive della comunicazione

pubblicitaria

Colui che vuole comandare gli uomini deve aver vinto gli dèi.

R. Caillois, Nascita di Lucifero

Tratteremo ora la presenza degli archetipi all’interno della comunicazione pubblicitaria

d’impresa, segnatamente per quel concerne gli spot pubblicitari. Nonostante ad una

prima e superficiale analisi possa sembrare un ambito del tutto alieno – o quantomeno

distante - rispetto all’impianto teorico fin qui delineato, quello della comunicazione

pubblicitaria rappresenta, in realtà, un terreno gravido di spunti d’analisi che viene a

costituire, di fatto, la declinazione e l’applicazione ad un discorso contemporaneo dei

costrutti teorici di cui sopra. Il commercial, d’altronde, in quanto espressione della

creatività umana, rientra in pieno diritto nell’ambito dell’immaginazione e, dunque,

della ricezione e della produzione di archetipi dell’inconscio collettivo. La dimensione

comunitaria, auto-generativa e rassicurante della pubblicità, in tal senso, con la

proposta di modelli e di figure del discorso che si ripetono attraverso i decenni – dal

mitico cowboy Marlboro al testimonial “Invictus” di Paco Rabanne - non fa altro che

avvalorare tale implicazione242

. Ma per sgomberare prontamente il campo da qualsiasi

eventuale perplessità in merito alla scelta dell’oggetto di studi che ci accingiamo qui ad

analizzare, facciamo riferimento ancora una volta alle parole di Carl Gustav Jung il

242

Come afferma, tra gli altri, Umberto Eco: “L’artificio retorico che ci comunica il concetto non viene

inventato in quel momento: è già istituzionalizzato, fa parte di un codice pubblicitario assorbito col latte

materno, è già stato presentato sotto forme diverse un’infinità di altre volte e ci appare comunicante in

blocco”. U.ECO Ciò che non sappiamo della pubblicità televisiva, in Il costume di casa, Milano,

Bompiani 1973, p 169.

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quale, nei suoi saggi Psicologia e arte poetica (del 1922) e Psicologia e poesia243

(1930-1950), a proposito dello statuto psicologico dell’opera d’arte afferma: “numerosi

sono i motivi mitologici che compaiono [all’interno dell’inconscio]; essi però si

dissimulano nel linguaggio figurato moderno, cioè non si tratta più dell’aquila di Giove,

ma di un aeroplano; la madre ctonia è una grossa erbivendola; Plutone, che rapisce

Proserpina, un automobilista temerario e così via.”244

. Orbene, alla luce di quanto

affermato dall’illustre psicologo zurighese, e fatte le dovute distinzioni tra opera d’arte

intesa in senso “classico” e produzioni audiovisive massmediatiche, non risulta affatto

azzardato accostare le immagini delineate dallo stesso Jung a quelle in cui ci si imbatte

quotidianamente all’interno degli spot pubblicitari, laddove, ora la bimba innocente con

in mano un cesto di vimini, ora il giovane uomo intento a scoccare una freccia in una

natura silvana, ora il vispo canguro che saltella ovunque incessantemente245

, possono

essere considerati il vivido retaggio, tradotto in segni, di ataviche ed universali forme

dell’inconscio collettivo. Essi rappresentano le figure che, a partire da un nucleo di

consistenza semantica universale e primigenio, si articolano di volta in volta a seconda

dei termini di relazione tra forma e contenuto, i quali possono variare a seconda di una

determinata epoca o di in una particolare cultura. Tuttavia, come si è più volte

rimarcato, anche all’interno degli spot pubblicitari è solo il significante a cambiare e

non il “tema archetipico” che si trova alla sua base, dal momento che quest’ultimo,

inciso dal peso del cosmo, è impresso nella mente dell’uomo sin dai suoi albori.

La ben nota rilevanza e pervasività dell’ambito pubblicitario in termini di implicazioni

culturali, sociali ed economiche da una parte, e la pertinenza che tale territorio mostra

avere con le varie teorie sugli archetipi affrontate in questo lavoro dall’altra, ci hanno

portato, dunque, alla decisione di approfondire, attraverso una composita ricerca, tale

accattivante legame.

La pubblicità, d’altronde, rappresenta a tutt’oggi le leva fondamentale per il marketing

d’impresa nell’ottica di favorire la propensione all’acquisto da parte dei potenziali

consumatori e, in generale, di aumentare la brand equity (ossia il valore complessivo

della marca) presso tutti i suoi pubblici di riferimento.

243

Entrambi i testi sono contenuti in C.G. JUNG, Psicologia e Poesia, Bollati Boringhieri Editore,

Torino, 1979 244

Ivi p. 69. 245

Il riferimento, qui, è ad alcuni spot oggetto del corpus d’analisi.

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2.1 Sull’intenzionalità degli archetipi

Prima di procedere all’analisi della ricerca, ci preme far luce su una questione

controversa che è quella riguardante l’intenzionalità di coloro i quali, nella realizzazione

di un prodotto massmediatico destinato alla comunicazione di un particolare

prodotto/servizio o brand, vi inseriscono del materiale puramente archetipico. Tale

questione, come vedremo, seppur difficile nella sua trattazione particolare ed analitica,

risulta pressoché trascurabile in termini di effetti che essa produce e, allo stesso modo,

di volontà da cui essa è posta in essere.

Nel dirimere il (falso) problema testé descritto facciamo ancora una volta appello a

Jung, tornando ai saggi menzionati ad inizio capitolo di Psicologia e arte poetica (

e Psicologia e poesia in cui l’autore zurighese discute del rapporto tra autore letterario e

opera d’arte e delle loro motivazioni ed implicazioni psicologiche. La posizione di Jung,

è netta e si estrinseca nell’impossibilità di ridurre l’opera a mero sintomo di eventuali

nevrosi, o comunque a surrogato dei tratti psicologici dell’artista; piuttosto, essa, va ben

oltre la sfera dell’inconscio personale dell’individuo che la crea, per affondare le sue

radici nel grande mare dell’inconscio collettivo. A parere di Jung, infatti, l’opera

letteraria (e, per estensione, quella artistica in generale), oltre a delineare un possibile

quadro delle motivazioni psicologiche e delle vicissitudini individuali che si celano

dietro la sua realizzazione – un aspetto relativamente interessante per quanto concerne il

particolare oggetto d’analisi –, svela quelli che sono le corde ancestrali ed universali

tipiche dell’inconscio collettivo e degli archetipi che lo abitano, le quali

contraddistinguono ogni essere umano in quanto tale. Jung rivendica, così, l’autonomia

e l’impersonalità dell’opera creativa rispetto al suo creatore, tanto da arrivare ad

affermare che “[essa] porta con sé la propria forma; ciò che l’autore vorrebbe

aggiungervi viene respinto; ciò che egli vorrebbe respingere gli viene imposto […]

mentre la sua coscienza trovasi annientata e vuota di fronte al fenomeno, egli viene

sommerso da un fiume di idee ed immagini che non sono, in alcun modo, il prodotto

della sua intenzione e che la sua volontà mai avrebbe voluto creare”246

. Emerge

evidente da queste affermazioni, la concezione dello psicologo svizzero secondo la

quale l’opera è frutto non solo dell’intenzionalità e del portato psichico del singolo

individuo, bensì anche – e soprattutto – delle spinte collettive e perenni inerenti alla

246

Op. cit. p.32

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mitologia inconscia di ognuno247

. Sta proprio nella presenza - quasi sempre non

volontaria - degli archetipi, dunque, il discrimine tra un’opera “semplicemente”

sintomatica che riguarda strettamente la psiche di chi l’ha generata e che Jung stesso

definisce “psicologica”, ed una pregnantemente simbolica, di portata molto più generale

che prende il nome di creazione artistica “visionaria”248

. Così, laddove la prima “per

quanto gravemente possa scuotere un individuo, si dimostra docile alle forme proprie

delle arti umane, le seconda “strappa dall’alto in basso il velo sul quale sono dipinte le

immagini del cosmo, e consente allo sguardo di intravedere le inafferrabili profondità

del non ancora divenuto”249

. È la componente visionaria dell’opera, dunque, la materia

vivida e sensibile nelle opere creative che permette a quest’ultime di trascendere la

biografia personale e la psiche del suo autore per giungere fin dentro lo spirito di

ognuno che la incontri lungo il suo percorso di vita250

.

Ciò detto, non sembrerà azzardato, ancora una volta, il parallelo tra l’artista/creativo di

cui parla Jung e i creativi pubblicitari autori degli spot (come quelli analizzati

all’interno di questa ricerca). Anche quest’ultimi, infatti, nei limiti delle possibilità

logistiche, economiche e dei rapporti con i propri committenti, danno libero sfogo al

loro afflato creativo al fine di realizzare un prodotto che, in molti casi, avvicinandosi in

maniera mirabile a grandi arti come quella del cinema e del teatro, assurge al ruolo di

opera vera e propria. Essa, come sappiamo, seppur non opera d’arte propriamente detta,

rappresenta comunque un prodotto contemporaneo mediale e culturale di notevole

pervasività e, non di rado, di indubbio valore estetico.

Apparirà limpido dunque, alla luce di quanto emerso, come il quesito circa la

conoscenza diretta degli archetipi e il loro uso consapevole da parte dei creatori di spot

pubblicitari diventi una questione, se non trascurabile, quantomeno marginale. I creativi

pubblicitari, in maniera volontaria o non, vengono di fatto “rapiti” dalla corrente

archetipica perenne, trascinando con loro, di rimando, tutti gli spettatori dei simboli

247

“Tutti i processi psichici che si svolgono all’interno della coscienza possono essere spiegato

causalmente; ma la creatività, che ha le sue radici nell’indeterminatezza dell’inconscio, è chiusa in eterno

alla conoscenza umana”, Ivi, p. 53. 248

Ivi p. 57. 249

Ivi p. 58. 250

Così Jung a proposito del creativo: “una specifica psicologia artistica è un fatto collettivo e non

personale ; l’arte è innata in lui come un impulso che lo afferra e ne fa il suo strumento, In ultima analisi,

la volontà che in lui vuole non è lui, uomo, bensì l’opera d’arte. Come persona l’artista può avere

capricci, umori e mire sue proprie, ma come artista, nel senso più alto “uomo”, è “uomo collettivo”

portatore e rappresentante della vita psichica inconscia dell’umanità”. Ivi p. 75.

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universali che essi hanno inscenato, non potendo quest’ultimi, da parte loro, sottrarsi al

richiamo ancestrale e collettivo che tali simboli sprigionano da sempre per natura.

2.2 Disegno della ricerca

La ricerca – ci preme specificarlo - trae ispirazione principalmente dal lavoro di

Cicalese251

Fatti di consumo. Noi tra gli spot e le marche, in cui sono ben evidenziati i

suddetti nessi che intercorrono tra le teorie sugli archetipi dell’inconscio collettivo e

l’articolazione del discorso pubblicitario, attraverso uno studio che, ai fini della presente

ricerca, è risultato essere particolarmente prezioso ed illuminante.

Obiettivo principale dello studio svolto, quindi, è quello di registrare la diffusione degli

archetipi – primariamente sotto forma di immagini - nelle manifestazioni del brand,

quest’ultime realizzate dai professionisti del settore della comunicazione (copywriter e

art director su tutti) e immesse nei canali mediatici legati alla televisione e ad Internet

attraverso lo strumento del commercial.

Addentrandoci nella ricerca, possiamo enuclearne i suoi molteplici obiettivi:

Rilevare la presenza degli archetipi nelle immagini (e, in seconda analisi, nel

wording) degli spot pubblicitari in onda in TV e quelli disponibili sul Web, e

quantificarli in maniera sistematica.

Verificare la loro “universalità” intesa come azione che prescinda dal luogo e

dalla data nella quale lo spot è stato diffuso.

Classificarli a partire dalla tassonomia dei simboli di Gilbert Durand (vedi

paragrafo 1.5.2, cap.1 ) per poi operare una rielaborazione e un adattamento

della tassonomia stessa.

Evidenziare eventuali pattern e tendenze nell’uso – anche combinato – degli

archetipi.

Come già accennato, il corpus d’analisi è formato da un insieme di spot pubblicitari.

Quest’ultimi, trasmessi principalmente dal mezzo televisivo sono stati raccolti

attraverso il metodo random, dalla piattaforma web “YouTube”. I commercial oggetto

di analisi sono 101. Essi sono stati selezionati a partire da un corpus più ampio di spot

visionati - circa 350 –, dal quale sono stati estratti gli spot contenenti immagini

251

Cfr. A. CICALESE, Fatti di consumo. Noi tra gli spot e le marche, cit., Cap. II, “Archetipi ed

immagini collettive” pp. 3-56.

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106

archetipiche (circa 150) ; a partire da quest’ultimi, infine, sono stati selezionati gli spot

che contavano su una presenza più marcata degli archetipi stessi (101, per l’appunto).

Gli spot sono stati analizzati singolarmente, attraverso una lettura profonda e minuziosa

delle immagini presenti al loro interno. Attraverso il meccanismo dei “video correlati”,

già presente sul sito, è stato possibile passare da uno spot all’altro in maniera casuale,

riuscendo ad ottenere una grande varietà per quanto concerne sia il Paese di diffusione

del video, sia l’anno di diffusione/realizzazione dello stesso, sia la categoria

merceologica al quale il prodotto pubblicizzato appartiene. Tale principio, infatti,

sebbene suggerisca una certa omogeneità dei contenuti, in realtà si sostanzia in un

meccanismo che permette essenzialmente di passare da uno spot all’altro conservando

un’elevata eterogeneità di fondo.

Per facilitare l’analisi dei commercial raccolti, si è poi provveduto alla costruzione di

una matrice di dati recante, come righe, gli spot stessi e come colonne i diversi attributi

di analisi quali il nome del brand, il Paese di diffusione dello spot, l’anno in cui è stato

trasmesso per la prima volta, la categoria merceologica alla quale appartiene il

prodotto/servizio pubblicizzato e la serie di categorie e sottocategorie di simboli che si

rifanno a quelle testé menzionate ad opera di Durand (58 in tutto).

2.3 Composizione del campione

Per quanto concerne l’arco temporale in cui sono inseriti gli spot oggetto d’analisi, esso

copre più di mezzo secolo e va dal 1959 del primo spot in ordine cronologico

(segnatamente, lo spot del modello “Taunus” della Ford, trasmesso in Francia) al 2013

(tra gli altri, lo spot del nuovo “Galaxy Grand TVC”, trasmesso in India).

Nello specifico, è riportata qui la tabella 1 che mostra l’anno in cui sono stati trasmessi

gli spot del corpus di studio, indicando, inoltre, il numero di spot risalenti ad ogni

singolo anno:

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107

Tabella 1- Distribuzione di frequenza per anno di distribuzione dello spot

Anno diffusione

Frequenza

1959 1

1964 2

1966 1

1967 1

1969 1

1971 1

1973 1

1974 2

1978 1

1980 1

1982 2

1983 1

1984 1

1987 5

1988 2

1989 7

1990 5

1992 3

1993 1

1995 3

1996 1

1997 1

1998 1

1999 1

2000 2

2001 2

2002 3

2003 1

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2004 1

2006 1

2007 4

2008 6

2009 3

2010 4

2011 8

2012 11

2013 9

Totale 101

Così come per l’anno di diffusione, in riferimento ai Paesi in cui gli spot sono stati

trasmessi si registra una notevole varietà. Abbracciando tutti e 5 i continenti, infatti, gli

spot hanno le provenienze più disparate (si va dall’Arabia Saudita all’Uruguay,

passando per Svezia, Kenia e Nuova Zelanda). Come è evidenziato dalla tabella in

basso ( Tabella 2 ) sono ben 31 le nazioni comprese.

Tabella 2 - Distribuzione di frequenza per Paese di diffusione dello spot

Paese diffusione

Frequenza

Arabia Saudita 1

Argentina 2

Australia 1

Bangladesh 1

Belgio 1

Cipro 1

Colombia 2

Corea del Sud 1

Danimarca 1

Francia 1

Germania 1

Giappone 2

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109

India 1

Iran 1

Islanda 1

Italia 36

Kazakistan 1

Kenia 1

Messico 1

Nigeria 1

Norvegia 1

Nuova Zelanda 1

Olanda 2

Pakistan 1

Polonia 1

Rep. Ceca 1

Singapore 1

Spagna 1

Sud Africa 1

Turchia 1

Uruguay 1

W 31

Totale 101

Numerosi spot, inoltre, essendo inerenti a grandi brand multinazionali, sono stati in

realtà trasmessi in tutto il globo (o quasi). Ciò - insieme al fatto stesso che a comporre il

corpus d’analisi sono spot trasmessi in almeno 31 Paesi diversi - risponde perfettamente

al principio dell’universalità dell’archetipo che, per definizione, trascende la dimensione

temporale, ma anche quella spaziale.

In riferimento alla categoria merceologica, invece, i prodotti e servizi oggetto degli spot

sono stati classificati in 16 categorie diverse (a cui si aggiunge la categoria residuale

“Altro”):

Tabella 3- Distribuzione di frequenza per categoria merceologica

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110

Categoria merceologica

Frequenza

Abbigliamento 3

Accessori 1

Auto e moto 20

Bevande 13

Casa e arredamento 5

Cibo 10

Cosmetici 4

Cura e igiene del corpo 2

Editoria 1

Elettronica 4

Giochi e Giocattoli 2

Medicinali 5

Prodotti assicurativi e bancari 5

Profumi e Deodoranti 13

Servizi 6

Altro 2

Totale 101

Si segnala una presenza considerevole di spot riguardanti automobili e moto (ben 20),

seguiti dai profumi e deodoranti e dalle bevande (13) e dai cibi (10). I prodotti editoriali

(una sola occorrenza) sono invece tra quelli meno presenti nel corpus. Lungi dal voler

intendere tali dati su scala generale, si può affermare con buon senso che, laddove

prodotti come bevande, cibo, profumi e automobili si prestino particolarmente ad una

rappresentazione “sinestetica” - e spesso narrativa - delle loro caratteristiche peculiari

(facendo molto spesso ricorso, nella descrizione del prodotto, alla dimensione sensoriale

ed estetico-immaginifica che quest’ultimo suggerisce), lo stesso non si può dire di

prodotti come quelli editoriali che, per la loro natura, prediligono storicamente canali

diversi da quello televisivo o comunque inerenti al video.

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Soffermandoci per un istante sui primi risultati della ricerca - che avremo modo di

commentare diffusamente più avanti all’interno del presente capitolo - la presenza delle

immagini archetipiche all’interno degli spot pubblicitari risulta marcata, con un rapporto

che si stabilizza intorno all’1:3. Il primo dato registrabile, dunque, è che commercial

contrassegnati come “archetipici” sono circa un terzo di quelli visionati, laddove la

restante parte è caratterizzata principalmente dalla presenza di altre figure del discorso e

figure retoriche (su tutte l’ironia), dalla rappresentazione su schermo di stereotipi252

,

slice of life prive di richiami simbolici degni di nota, dal dozzinale appello al sesso

(come avremo modo di commentare più avanti) o da una presenza di archetipi troppo

flebile per poter essere analizzata con dettaglio.

2.4 Risultati della ricerca

2.4.1 La classificazione

Come accennato in precedenza, per quanto riguarda le categorie simboliche archetipiche

inserite nella matrice di ricerca, ci si è basati su quelle largamente descritte nel primo

capitolo del presente lavoro e che compongono la tassonomia di Gilbert Durand, ovvero

simboli teriomorfi, nictomorfi, catamorfi, ascensionali, spettacolari, diairetici,

dell’inversione, dell’intimità e i simboli ciclici. La conditio sine qua non per la quale

ciascun simbolo presente all’interno di uno spot è stato reputato come rilevante – e

quindi registrato nella matrice – è la sua non assoluta incidentalità o mera contingenza

in termini di apporto semantico. Di contro, gli archetipi rintracciati nei commercial presi

in esame, sono stati reputati tutti significativi e funzionali agli obiettivi comunicativi –

consci o inconsci, è il caso di dirlo – di chi li ha ideati. Una volta marcati gli archetipi

come tali, quindi, si è proceduto alla loro classificazione che, come avremo modo di

approfondire più avanti, sebbene abbia avuto come riferimento le categorie di cui sopra,

ha richiesto preliminarmente un lavoro ulteriore di adattamento e “smussamento”

252

Lo stereotipo rappresenta l’espressione di specifici modelli, culture, luoghi, oggetti, atteggiamenti

tipici ecc. In questo senso, rispetto all’archetipo, esso assume un carattere particolare, statico e

semplicistico risultando molto meno appetibile, dunque, per l’audiance di riferimento.

Per un approfondimento sull’uso degli stereotipi e degli archetipi in pubblicità rimandiamo a

G.ZALTMAN, Come pensano i consumatori, Etas, Firenze, 2003.

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rispetto alle categorie di partenza. La tabella n°4 mostra i risultati a cui si è giunti a

partire dal corpus della ricerca:

Tabella n°4- Distribuzione di frequenza dei simboli

Simboli Frequenza

Spettacolari 57

Ascensionali 56

Dell’intimità 40

Diairetici 37

Ciclici 36

Nictomorfi 30

Teriomorfi 21

Dell’inversione 19

Catamorfi 14

Da un’analisi globale degli archetipi rinvenuti negli spot pubblicitari oggetto di analisi,

possiamo evincere come siano i simboli spettacolari e i simboli ascensionali a prevalere,

rispettivamente con 57 e 56 occorrenze (ovvero i casi in cui i simboli compaiono

entrambi all’interno dello spot). Inoltre, attraverso una visualizzazione incrociata delle

due distribuzioni è possibile registrare, per tali simboli, ben 31 co-occorrenze a

testimoniare la loro affinità e correlazione. Tale risultato, d’altronde, non deve procurare

sorpresa dal momento che le suddette categorie di simboli (che riferiscono, lo

ricordiamo, alla luce, alla solarità e all’elevazione) sono, a livello semantico,

indubbiamente quelle più positive, o quantomeno quelle più immediatamente e

facilmente percepibili come tali; un aspetto, quest’ultimo, che in una comunicazione

tradizionalmente “euforica” come quella pubblicitaria, diventa determinante. Per

l’identico motivo stupisce, invece, la presenza relativamente massiccia nel corpus di

simboli polarizzati negativamente: nella fattispecie i simboli nictomorfi (presenti in ben

30 spot) e quelli catamorfi (presenti in 14 spot). In realtà, andando ad osservare con

attenzione la matrice, si può notare come la presenza di tali simboli disforici sia nella

totalità dei casi o invertita semanticamente oppure compensata da quella di altri simboli,

polarizzati positivamente, che annullano l’effetto negativo iniziale. Nello specifico, i

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simboli nictomorfi sono in 11 casi invertiti semanticamente, in 21 casi “mitigati” da

simboli spettacolari, in 13 casi da simboli ascensionali, in 9 da simboli diairetici e

dell’intimità, e in 6 casi da quelli ciclici. In riferimento ai simboli catamorfi, invece, essi

sono invertiti 6 volte e compensati in 12 casi da simboli ascensionali, in 7 da quelli

spettacolari e da quelli intimi, 5 volte dai simboli diairetici e in un caso anche da

simboli ciclici. La tabella che segue fa un resoconto ordinato di tali co-occorrenze:

Tabella n 5 – Co-occorenza simboli nictomorfi

S.

nictomorfi

S. dell’

inversione

S.

spettacolari

S.

ascensionali

S.

diairetici

S. dell’

intimità

S.

Ciclici

30 11 21 13 9 9 6

Tabella n°6 – Co-occorenza simboli catamorfi

S.

catamorfi

S. dell’

inversione

S.

Ascensionali

S.

spettacolar

i

S. dell’

intimità

S.

diairetici

S.

Ciclici

14 6 12 7 7 5 1

È da notare, infine, per quanto riguarda i simboli nictomorfi e catamorfi, il fatto che essi

coesistano in soli due spot: ciò potrebbe trovare una spiegazione verosimile nel fatto

che, trattandosi in ogni caso dei simboli disforici, la loro presenza contemporanea

potrebbe risultare troppo marcata e più difficilmente dissipabile con l’intervento di altri

simboli di significato opposto.

Passando in rassegna la distribuzione dei simboli all’interno del corpus, risulta

significativa la presenza di altre tre categorie di simboli recanti un significato positivo,

ovvero i simboli dell’intimità (40 occorrenze), i simboli diairetici (37) e quelli ciclici

(36). Sono più di un terzo del campione, dunque, gli spot contenenti i suddetti simboli e

ciò è spiegato dal largo ricorso da parte dei pubblicitari ad immagini - spesso coadiuvate

da testi - che evocano senso di sicurezza, stabilità e affidabilità per quanto riguarda i

primi, dinamicità, aggressività, contrasto e purezza per quel concerne i secondi, ed

infine ricorsività, rinascita, ritorno alla Natura in riferimento agli ultimi simboli. In

ultimo, più staccati rispetto agli altri, troviamo i simboli teriomorfi (ovvero i riferimenti

agli animali e/o ai tratti animaleschi in generale) i quali coinvolgono circa un quinto

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degli spot presi in esame, e, appena più distanti, i simboli dell’inversione. Quest’ultimi,

tuttavia, risultano relativamente molto presenti dal momento che lo spiazzamento, la

trasgressione e il ribaltamento di senso in pubblicità sono delle costanti (soprattutto,

come avremo modo di vedere in seguito, relativamente a prodotti quali profumi e

automobili).

A queste “macrocategorie” globali, però, sulla scorta della teoria dello stesso Durand, si

affiancano nella classificazione operata all’interno della ricerca, diverse sottocategorie

che, di fatto, vanno a comporre le prime. Come si accennava in precedenza, nel lavoro

di classificazione, da un lato, si sono tenuti pressoché alla lettera buona parte dei

“microsimboli” durandiani (ascritti ognuno ai diversi simboli riproposti pocanzi), e,

dall’altro, si sono operate delle aggiunte e delle modifiche funzionali al corpus d’analisi

– gli spot pubblicitari, per l’appunto. Tali aggiunte e rielaborazioni, lungi dal voler in

qualche modo scavalcare la tassonomia descritta dall’illustre antropologo francese, sono

state realizzate in maniera mirata ed oculata in un’ottica di integrazione e adattamento

degli strumenti teorici a disposizione, in modo da tale da rendere quest’ultimi

applicabili al discorso pubblicitario moderno con una pertinenza ed un’agilità

d’indagine indubbiamente maggiori253

.

Simboli Teriomorfi

Nella fattispecie, per quanto concerne i simboli “teriomorfi” sono state definite 2

categorie: “Animali/tratti animali” e “Azioni animalesche”, in modo marcare la

presenza, all’interno di uno spot pubblicitario, primariamente di immagini inerenti ad

animali, ma anche di tratti o azioni collegati a persone e a cose che richiamino in

maniera evidente il mondo animale. È il caso, ad esempio, di Vanessa Paradis,

protagonista dello spot Chanel (spot n°96 della matrice), che assume le posture e le

movenze di un canarino in gabbia, del muso felino della Mazda 6 e dei suoi fari che

fendono la notte (spot n°77) oppure ancora dell’orda selvaggia di donne che si precipita

al cospetto del protagonista del celebre spot Axe (spot n°28).

253

A tal proposito, le sparute co-occorrenze e ambiguità che si possono riscontrare nell’opera di Durand

in merito all’appartenenza di un simbolo ad una determinata categoria di simboli, sono state risolte in

base all’interpretazione personale di chi scrive.

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Tabella n°7 – Distribuzione di frequenza dei simboli teriomorfi

Sottocategorie Frequenza

Animali/tratti animaleschi 20

Azioni animalesche 4

Totale 24

Analizzando, poi, le occorrenze più significative di ciascuna delle sottocategorie

simboliche definite per quel che concerne i simboli teriomorfi (tab. n°7), possiamo

notare come vi sia una netta prevalenza di richiami indiretti ad animali attraverso tratti

simili oppure - nella maggior parte dei casi - a immagini di animali veri e propri (20

occorrenze in tutto), a scapito delle azioni e dei gesti che rimandano alla dimensione

bestiale (solo 2 occorrenze).

Simboli Nictomorfi

Dai simboli “nictomorfi”, invece, si dipartono 7 sottocategorie: “Buio, oscurità,

penombra” (gli esempi sarebbero numerosi, per dovere di brevità ricordiamo

l’ambientazione dello spot del profumo “Guilty Black” di Gucci), “Vestiti, superfici,

ambienti dai colori scuri o disforici” (come le divise completamente nere dei personaggi

cattivi nello spot Nike n°80), “Luoghi angusti e oggetti che provocano costrizione”

(come le pile-crisalidi dello spot di Bebat n°49 dalle quali fuoriescono le farfalle

variopinte oppure le preziose, seppur limitanti, catene che Julia Roberts si scrolla via

con un gesto nello spot n°7 di Lancôme ), “Sporco/lordura” (è il caso piatti affastellati

nella cucina del monastero dello spot di “Svelto” n°50), “Disordine/caos” (come quello

ricreato dalla norvegese “Dnb” nella camera da letto della protagonista dello spot 11,

“Personaggi diabolici e/o mostruosi” (ricordiamo, tra gli altri, i mostriciattoli di

Nurofen, spot n° 55, colpevoli del mal di testa) ed infine “Pioggia, acqua scura o sporca,

mare agitato, spruzzi d’acqua violenti” (è il caso degli agenti atmosferici che

tormentano la protagonista dello spot n°8 Aspirina o anche degli spruzzi violenti

d’acqua arginati dai rubinetti Zucchetti dello spot n°79).

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Tabella n°8 - Distribuzione di frequenza dei simboli nictomorfi

Sottocategorie Frequenza

Buio, oscurità, penombra 14

Pioggia, acqua scura o sporca, mare agitato, spruzzi d’acqua violenti

12

Disordine/caos 11

Vestiti, superfici, ambienti dai colori scuri o disforici 5

Luoghi angusti e oggetti costrittivi 5

Sporco/lordura 4

Personaggi diabolici e/o mostruosi 3

Totale 54

Considerando le occorrenze all’interno dei simboli nictmorfi, invece, non stupisce la

prevalenza del buio e dell’oscurità (sono ben 14 gli spot in cui essi sono presenti) ma è

degna di nota, tuttavia, la presenza marcata di immagini relative all’acqua impura o

agitata (12 occorrenze) e delle situazioni di caos (11); lo sporco e la lordura, invece,

risultano meno frequenti (appena 4 occorrenze).

Simboli Catamorfi

I simboli “catamorfi”, a loro volta, si compongono di: simboli sotto forma di “Gesti,

posizioni, azioni che esprimono discesa o caduta” (è il caso, ad esempio, della discesa

nella piscina dorata della protagonista dello spot Dior n°37) e “Persone, animali, oggetti

o sostanze in caduta” (si pensi, tra gli altri, alla caduta del barattolo dell’olio per motori

Selenia nello spot n°38 o alla rovinosa distruzione della torre di mattoncini Urban Street

Jenga in riferimento alla riga 70 della matrice).

Tabella n°9 - Distribuzione di frequenza dei simboli catamorfi

Sottocategorie Frequenza

Persone, animali, oggetti o sostanze in caduta 11

Gesti, posizioni, azioni che esprimono discesa o

caduta

4

Totale 15

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Per tale sottocategoria si registra una scontata prevalenza dei corpi e degli oggetti in

caduta (11) piuttosto che quella dei gesti che indicano la discesa o la caduta stesse (4).

Simboli Ascensionali

Per quanto riguarda i simboli “ascensionali” riportati in tabella, invece, essi si dividono

in 8 sottocategorie simboliche: “Gesti, azioni di fuoriuscita o slancio verso l'alto” (come

quelli tesi a sollevare le tende e le bandiere dello spot n° 34 del Banco de la Načion

Argentina o come la risalita dei soldati dell’Esercito de Bangladesh dalle acque della

palude all’interno dello spot n° 26), “Strutture architettoniche o naturali slanciate” (è il

caso delle montagne dello spot Brooklyn n°42 o dell’imponente tour Eiffel ritratta nello

spot 92 di Givenchy Play), “Oggetti fusiformi” (come non ricordare le candele in mano

ai protagonisti dello spot Coca Cola natalizio n°33), “Persone, oggetti o sostanze

sospese, in volo, in risalita o posti verso l'alto” (come la Morris 1100 sospesa in volo

sopra il fossato dello spot n° 2 o l’aquilone di Fakro dello spot successivo), “Mezzi di

trasporto aereo” (l’aereo della South African Airway dello spot n°67 oppure l’ombrello

magico dello spot Mulino Bianco n°45), “Percorsi in salita” (come quello fatto da Eric

Bana, il protagonista dello spot Bulgari n°46, alle prese con le insidiose scale dell’antico

tempio), “Sguardi verso l’alto” (quelli, per esempio, dei gioviali protagonisti dello spot

pakistano dell’olio Dalda, n°88 nella matrice) ed infine “Indumenti, capelli sollevati dal

vento” (è il caso della protagonista dell’agenzia di viaggio kazaka Balting nello spot

n°62 il cui velo bianco è sollevato dolcemente dalla brezza marina).

Tabella n°10 - Distribuzione di frequenza dei simboli ascensionali

Sottocategorie Frequenza

Persone, oggetti o sostanze sospese, in volo, in risalita o posti verso

l'alto

33

Gesti/azioni di fuoriuscita o slancio verso l'alto 27

Strutture architettoniche o naturali slanciate 14

Sguardi verso l’alto 13

Indumenti o capelli sollevati dal vento 9

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Percorsi in salita 9

Oggetti fusiformi 7

Mezzi di trasporto aereo 4

Totale 114

Considerando le occorrenze all’interno di tali simboli, quella delle “Persone, oggetti o

sostanze sospese, in volo, in risalita o posti verso l'alto” e quella dei “Gesti/azioni di

fuoriuscita o slancio verso l'alto” sono le più frequenti (rispettivamente presenti in 33 e

in 27 spot presi in analisi), mentre sono ugualmente significative la terza e la quarta

posizione in tabella, occupate dalle strutture slanciate e dagli sguardi verso l’alto

(presenti, rispettivamente in 14 e in 13 commercial), le quali si attestano come supporti

abbastanza frequenti alle principali sottocategorie di cui sopra (così come rappresentano

un buon “rinforzo”, d’altronde, le immagini relative ai capelli sollevati dal vento e

quelle inerenti ai personaggi alle prese con percorsi in salita).

Simboli Spettacolari

Passando ai simboli spettacolari ritroviamo, nell’ordine: “Luce naturale intensa”

(adoperata in maniera significativa nella maggioranza degli spot del corpus), “Luce

artificiale intensa” (come quella protagonista nella Parigi notturna dello spot Givenchy

Play n°92), “Oggetti luccicanti” (il piccolo sole recato in mano dal protagonista dello

spot Allianz n°56), “Oggetti, ambienti, indumenti, capelli di colore biondo, giallo, oro,

rosso ecc.” (come, tra gli altri, il giallo del vetro caldo, della maglia e del costume da

bagno della protagonista dello spot iraniano n°13 o quello dei palloncini dello spot Tv

Sorrisi e Canzoni n°66), “Occhi, pertugi, superfici trasparenti che permettono la

visione” (è il caso dell’occhio benefico e risolutore dell’omino protagonista dello spot

Nurofen n°55, la telecamera che segue la Ford Taunus nello spot n°98 o anche il

pertugio dal quale i bambini curiosi del già citato spot del Forum di Istanbul guardano

all’interno della struttura in costruzione), e, in ultimo, “Ordine e armonia”, di solito

contrapposta alla categoria nictomorfa del “Disordine/Caos” (a tal riguardo lo spot

Buscopan n°32 in cui il mare diventa calmo e il cielo sereno dopo la burrasca provocata

dal mal di stomaco ne è un esempio lampante).

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Tabella n°11 - Distribuzione di frequenza dei simboli spettacolari

Sottocategorie Frequenza

Luce naturale intensa 41

Oggetti, ambienti, indumenti, capelli di colore biondo, giallo, oro, rosso 15

Ordine ed armonia 16

Occhi, pertugi, superfici trasparenti che permettono la visione 8

Luce artificiale intensa 6

Oggetti luccicanti 5

Totale 88

Come emerge dalla tab. n°11, procedendo all’analisi interno dei simboli spettacolari è

netta la predominanza dell’utilizzo della luce naturale intensa (presente in 41 spot del

corpus su un totale di 90 simboli spettacolari) laddove si attestano su un buon numero

(rispettivamente 16 e 15 occorrenze) le immagini inerenti a situazioni di armonia e di

ordine - quasi sempre ristabilito dopo una situazione caotica - e quelle contenenti

oggetti, ambienti e indumenti dai colori caldi.

Simboli Diairetici

In riferimento alla categoria dei simboli “diairetici”, poi, nella nostra classificazione

rintracciamo 6 sottocategorie. Si principia da quelli “classiche” de “Oggetti da taglio” e

“Azione del tagliare” (è il caso del celebre coltello dello spot Grana Padano, il n°22

della matrice, che taglia e squarcia diversi alimenti prima di arrivare al prodotto

reclamizzato), passando per un altro tipo di taglio, meno letterale e più metaforico, dei

“Veicoli sfreccianti” il quale racchiude tutte quelle immagini relative a veicoli che

attraversano gli ambienti entro cui scorrono in maniera dinamica e veloce tale da

descrivere, per l’appunto, delle parabole inerenti al taglio. Sono molto numerose, a tal

proposito, le pubblicità di automobili che ritraggono la vettura nell’azione di “tagliare”

il paesaggio circostante grazie alla loro velocità e aggressività (lo spot Alfa Romeo n°5

del 1989 che ritrae, con inquadrature frenetiche, le vetture che sfrecciano a gran velocità

lungo il paesaggio innevato, ne rappresenta un’evidenza). Sempre attenendoci ai dettami

di Durand, ma rielaborandoli parzialmente e adattandoli alla natura del corpus d’analisi,

ritroviamo le categorie “Oggetti, persone, ambienti emblemi della purezza” e

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“Personaggi, oggetti, vestiti, ambienti, animali di colore bianco” inerenti alla

dimensione della purezza (anche qui gli esempi si sprecano, si pensi al simpatico

fantasmino dello spot Lavasbianco Fantasmatico n°16 della matrice o ai marinai in

divisa, perfetti ballerini, dello spot n°76 di Mastro Lindo254

), ed infine la categoria

“Contrapposizioni e divisioni antitetiche” ad indicare situazioni, personaggi e stati

d’animo evidentemente contrastanti (è il caso, tra gli altri, dello spot Volvo n°43 in cui è

evidente la contrapposizione tra la dimensione esasperatamente tecnologica in cui è

immerso il passeggero nell’auto alle prese col suo inseparabile smartphone e la postura

profondamente naturale e “poetica” del conducente e dell’ambiente in cui entrambi si

trovano a transitare, oppure ancora allo spot Baleno Lavapavimenti n°84 all’interno del

quale la contrapposizione tra la situazione della famiglia cliente Baleno e quella non

utilizzatrice del prodotto, è espressa chiaramente a livello visivo tramite una separazione

dello schermo in due parti).

Tabella n°12 - Distribuzione di frequenza dei simboli diairetici

Sottocategorie Frequenza

Personaggi, oggetti, vestiti, ambienti, animali di colore bianco 16

Veicoli sfreccianti 15

Oggetti, persone, ambienti emblemi della purezza 10

Contrapposizioni e divisioni antitetiche 8

Azioni del tagliare 6

Oggetti da taglio 2

Totale 56

In riferimento alle occorrenze delle sottocategorie facenti capo ai simboli diairetici, con

sorpresa notiamo che quella “tipica” dell’azione del taglio compare soltanto in 6 spot,

laddove è netta la prevalenza di immagini relative a oggetti, vestiti, ambienti e animali

di colore bianco (a simboleggiare la purezza in 16 spot all’interno del corpus) e quelle

del “taglio metaforico” effettuato dai veicoli nei rispettivi paesaggi (15 occorrenze).

254

D’altronde, come afferma lo stesso Durand: “Spada, lama di fuoco, torcia, acqua e aria lustrale,

detersivi e smacchiatori costituiscono il grande arsenale dei simboli diairetici di cui l’immaginazione

dispone per tagliare, salvare, separare e distinguere dalle tenebre il luminoso valore”. G. DURAND, Le

strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 217.

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Simboli dell’Inversione

Per quanto riguarda i simboli “dell’inversione”, invece, sulla scorta di quelle

durandiane, ritroviamo 3 sottocategorie: rispettivamente quella delle “Persone,

personaggi, oggetti piccoli o rimpiccioliti” (è il caso della protagonista dello spot

spagnolo dell’Aspirina che cammina tra le scatole del medicinale), quella del

“Contenitore contenuto” (si pensi allo spot Lindt, il numero 30 della matrice, il quale si

basa su un gioco di incastri che parte dal globo terrestre fino alla sfera del cioccolatino

reclamizzato)255

e infine “Inversione dell’investimento timico legato agli altri

simboli”256

, una sottocategoria abbastanza presente nel corpus di spot pubblicitari

(soprattutto per quanto concerne la categoria dei profumi e delle auto), inerente al

ribaltamento del significato associato ad un determinato simbolo. Nella fattispecie,

riferendoci a quest’ultima categoria, quando, ad esempio, un simbolo nictomorfo –

evidentemente di significato negativo, “disforico” – è presentato con dei tratti positivi,

oppure diventa “euforico” nei suoi effetti, allora tale simbolo è considerato oggetto di

una vera e propria inversione semantica. Ne rappresentano un’evidenza, all’interno della

matrice di riferimento, lo spot Hugo Boss n°1, in cui il protagonista, in un corridoio

buio ed angusto e vestito di nero, attraversa un muro di semafori rossi dopo averli fatti

esplodere (mentre la voce off commenta con un eloquente “Red means go!”), o anche il

commercial del parco giochi coreano Caribbean Bay (spot n°15) in cui la catamorfia

della preparazione dei protagonisti alla caduta e quella della caduta stessa sono in

questo senso invertite dal momento che essi precipitano in un colorato, emozionante e

fantasmagorico scivolo.

255

Una ricorsività e un gioco di incastri rimarcato anche dalla componente verbale dello spot attraverso

l’utilizzo della figura retorica della ripetizione. 256

La categoria timica è introdotta dal Greimas in Du sens nel 1983 e segna l’iscrizione della componente

passionale all’interno del quadrato semiotico e della più generale teoria generativa della narratività, in cui

l’elemento patemico viene inserito dapprima al livello delle strutture semio- narrative profonde – in cui si

situa il quadrato- e superficiali e poi al livello discorsivo, in qualità di ruoli patemici rivestiti da specifici

attori. L’investimento timico si esprime nell’opposizione euforia/disforia, sovradeterminando ed essendo

alla base dei giudizi di valore positivi o negativi articolabili a partire da qualsiasi dicotomia e

contribuendo esso stesso a rendere assiologica una categoria. L’importanza della dimensione affettiva ha

condotto pertanto all’integrazione nella semiotica del testo, rispetto alla sola componente cognitiva,

dell’analisi della sfera passionale inscritta nei discorsi, dando vita così alla branca della semiotica delle

passioni, in riferimento alla quale si rimanda a Semiotica delle passioni di Greimas e Fontanille del 1991.

GREIMAS A. J., (1983), Du sens, Éditions Du seuil, Paris (trad.it., Del senso II, Narrativa, modalità,

passioni, Bompiani, Milano, 1984.

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Tabella n°13 - Distribuzione di frequenza dei simboli dell’inversione

Sottocategorie Frequenza

Inversione dell’investimento timico legato agli altri simboli 17

Persone, personaggi, oggetti piccoli o rimpiccioliti 1

Contenitore contenuto 1

Totale 19

Analizzando le occorrenze specifiche all’interno dei simboli dell’inversione, come

pronosticabile, sono ben 17 su 19 gli spot in cui è riscontrabile un’inversione di

significato relativo agli altri simboli, a testimoniare che l’inversione negli spot

pubblicitari è prevalentemente basata sul ribaltamento e la costruzione continua del

senso.

Simboli dell’Intimità

Per quanto riferisce ai simboli dell’intimità, poi, essi si dividono nelle seguenti 7

sottocategorie: “Contenitori” (come non ricordare il celebre spot del “bimbo in tazza”

Orzo bimbo, il n°27, vero e proprio trionfo dell’intimità, così come lo spot dei “Rigoli”

Mulino Bianco nel quale campeggiano decine e decine di contenitori di ogni forma e

dimensione ad evidenziare la qualità e la calda artigianalità del prodotto pubblicizzato),

“Azione del riempire” (spesso in concomitanza con la categoria dei contenitori),

“Azione del bere e presenza di liquidi” (è il caso degli spot che esaltano ed indugiano

sull’azione del bere da parte dei protagonisti, come nello spot n°41 della birra Splugen,

ma è anche il caso, ad esempio, della strada sdrucciolevole sotto gli pneumatici della

Morris 1100 all’interno dello spot n°31, affiancata dallo slogan “It floats on fluid” dal

font rigorosamente ondulato), “Ambienti riparati/sicuri/domestici” (la quale si rifà agli

spot che rendono funzionali e significative immagini di ambientazioni riparate come,

per citare un esempio, la casa dello spot giapponese della Nivea n°82 del 1971 in cui i

protagonisti, dopo essere stati raggiunti da un violento temporale, si muovono nel loro

spazio domestico accogliente e riparato), “Aloni, veli, superfici protettive” (la quale

rappresenta una della categorie aggiunte in fase di ricerca per la sua pertinenza, come

dimostra ad esempio, la sua presenza evidente e massiccia nello spot testé citato della

Morris 1100 trasmesso in Australia partire dal 1964 ), ed infine “Ambientazioni inerenti

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al processo produttivo e agli ingredienti utilizzati” e “Veicoli e loro spazi interni”. Nello

specifico, queste ultime sottocategorie sono anch’esse frutto di un’aggiunta e di

un’interpretazione personale a partire dalla tassonomia di Durand, operata in base a

principi di pertinenza ed occorrenza. Segnatamente, la prima si riferisce a quelle

immagini che, ancora una volta nell’ottica di celebrare la qualità e la stabilità del

prodotto reclamizzato, si soffermano in maniera prolungata ed evidente sull’ambiente

riparato e alle azioni curate e precise inerenti al processo di lavorazione e/o al richiamo

degli ingredienti utilizzati per la realizzazione del prodotto stesso (è il caso, tra gli altri,

dello spot per il Web della Rolls Royce, il n°64 della matrice, in cui si può apprezzare il

processo di lavorazione della tappezzeria dell’automobile, o anche dello spot Fernet

Branca n°39 all’interno del quale sono mostrati tutti gli ingredienti alla base dell’amaro

digestivo). Infine, nell’ultima sottocategoria definita, ovvero “Veicoli e loro spazi

interni”, sono state fatte rientrare tutte le scene che ritraggono le parti interne dei veicoli

– per lo più quelle meccaniche delle automobili inerenti al motore – che, per la loro

messa in evidenza, sono state reputate non incidentali o contingenti alla mera

rappresentazione delle parti del prodotto, bensì funzionali alla comunicazione di

caratteristiche quali il comfort, la solidità, affidabilità, la potenza, la sicurezza ecc.

inerenti al brand e al prodotto stesso. Rammentiamo qui, a livello esemplificativo, lo

spot n°87 della Ford Escort Turbo in cui più volte si fa appello ad immagini, sia reali

che stilizzate, relative alla meccanica della vettura, oppure ancora lo spot n°5 di Alfa

Romeo in cui si vede il dettaglio della mano del pilota dell’auto nell’atto di impugnare il

manubrio e, pochi fotogrammi dopo, l’immagine del motore pulsante col marchio Alfa

Romeo impresso sulla parte frontale.

Tabella n°14 - Distribuzione di frequenza dei simboli dell’intimità

Sottocategorie Frequenza

Contenitori 21

Ambienti riparati, sicuri, domestici 11

Ambientazioni inerenti al processo produttivo o agli ingredienti 13

Veicoli e loro spazi interni 5

Azione del riempire 7

Presenza di liquidi e azione del bere 6

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Aloni, veli, superfici protettive 6

Totale 68

Per quanto riguarda le occorrenze nei simboli dell’intimità, la sottocategoria “classica”

delle immagini di contenitori si conferma come la più significativa, dal momento che

essa è presente in 21 spot. Più staccate, ma relativamente molto presenti, sono le

sottocategorie inerenti agli ambienti riparati e al processo di lavorazione, che riguardano

rispettivamente ben 11 e 10 spot, a testimoniare che tali simboli, frutto di un’aggiunta e

una rielaborazione rispetto alla struttura dell’immaginario originale di Durand, trovano

una loro importante collocazione all’interno del corpus preso in analisi nella presente

ricerca.

Simboli Ciclici

Infine, in riferimento all’ultima categoria di simboli, quelli “ciclici”, ritroviamo nella

matrice 9 sottocategorie: “Paesaggi e ambientazioni naturali, selvagge o agresti” (molto

diffuse negli spot, utilizzate come richiamo alla forza, alla bellezza e alla purezza eterna

di Madre Natura), “Alternanza giorno/notte” per indicare una continuità forte della vita

e del tempo (come quella rappresentata nello spot cartoon di Allianz n°56) “Alternanza

stagioni, paesaggi”, anch’essa indice di stabilità e continuità ma anche di versatilità e

diversificazione (come quelle dimostrate dalla Mercedes M Class guidata dal celebre

tennista Roger Federer nello spot n° 9, il quale, con un semplice tasto, muta

completamente l’ambiente dentro cui si trova a passare, alternando deserti a paesaggi

innevati, boschi fitti a trafficate arterie cittadine ecc.), “Alimenti” (con il riferimento a

cibi naturali), “Oggetti circolari o roteanti” (è il caso del barattolo gigante Nivea che

rotola sulle dune del deserto nello spot n°19, oppure della ruota di metallo con cui rotola

il protagonista simil-uomo vitruviano dello spot Seiko Kinetic n°83), “Strutture

architettoniche circolari” (come la finestra rotonda che filtra la luce del giorno nella

camera da letto della protagonista dello spot Lancôme n° 75), “Oggetti e scene che si

rifanno alle dimensione astrale” (è il caso delle esplosioni a mo’ di Bing Bang e

dell’immagine del versante del pianeta nello spot della birra Pilsner n°59, oppure delle

sfere in mano agli studenti che si raccolgono poi in un grande globo terrestre nello spot

cipriota n°6 diffuso dall’Università di Nicosia), “Atmosfere mondane e lascive” (da

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quelle festanti e “ancestrali” del ballo con costumi tipici dello spot n°18 di Zuegg, a

quelle particolarmente licenziose e sensuali dello spot Siemens n°25 in cui è

rappresentato un ballo che si svolge in una sorta di bolgia dantesca e dove sono rese

evidenti attitudini sessuali promiscue), ed infine il “Corpo nudo o seminudo”, inteso

non dal punto di vista della sua carica erotica - o almeno solo in parte -, bensì come

stato naturale, “grado zero” della civiltà e ritorno alla Natura (è il caso dello spot n°100

di Vörður, in cui è ritratto un giovane uomo nudo immerso nella natura nell’atto di

scoccare una freccia).

Tabella n°15 - Distribuzione di frequenza dei simboli ciclici

Sottocategorie Frequenza

Paesaggi e ambientazioni naturali selvagge o agresti 22

Corpo nudo o seminudo 8

Alternanza stagioni, paesaggi 6

Oggetti circolari e roteanti 5

Atmosfere lascive e mondane 5

Oggetti e scene che si rifanno alle dimensione astrale 5

Alternanza giorno/notte 4

Strutture architettoniche circolari 1

Alimenti 1

Totale 57

Prendendo in considerazione, infine, le occorrenze specifiche dei simboli ciclici,

possiamo facilmente evidenziare la prevalenza delle ambientazioni naturali. Esse,

facendo da sfondo complessivamente a ben 22 spot, si confermano come tendenza

abbastanza diffusa tra le fila dei creativi pubblicitari al richiamo ad uno stato di Natura

armonioso ed incontaminato (o quasi), al fine di comunicare particolari attributi e valori

legati al prodotto e al brand, quali la libertà, il desiderio di evasione, la naturalità, e, più

in generale, alla cifra positiva dei simboli ciclici che sappiamo rifarsi ad un senso di

ricorsività e rigenerazione della vita e del tempo (in questo senso i 10 spot in cui è

chiara l’alternanza tra il giorno e la notte e quella di paesaggi tra loro eterogenei non

sono un dato da trascurare). Anche il corpo nudo o seminudo – lo ripetiamo, caricato di

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“ciclicità” piuttosto che di sensualità – registra, infine, una buona presenza, dal

momento che sono 8 gli spot contenenti questo particolare tipo di immagini.

A tal proposito è importante rimarcare, sulla scorta del lavoro di ricerca che ci ha

condotto a visionare un alto numero di spot, il fatto che l’uso del corpo in pubblicità in

termini sensuali è una tendenza assai diffusa tra i pubblicitari. Il ricorso al sesso da parte

di quest’ultimi - spesso in maniera esplicita e volgare – è molto frequente dal momento

che esso rappresenta un facile push comunicativo da utilizzare nei confronti dello

spettatore medio e della sua componente più istintuale. Pertanto, data la loro sostanziale

non aderenza alle categorie di Gilbert Durand e alla loro presenza diffusa e spesso

“vuota” di significato, si è deciso di non contemplare questa categoria di immagini nella

tassonomia definita nel presente studio.

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2.4.2 Differenze tra le aree merceologiche

Giunti a questo punto, procediamo all’analisi incrociata delle occorrenze delle varie

categorie di simboli rispetto alla categorie merceologiche alle quali appartengono i

rispettivi prodotti o servizi pubblicizzati. La tabella n°14 evidenzia, in maniera globale,

tale relazione:

Tabella n°16 – Distribuzione dei simboli per aree merceologiche

Categoria

merceologica

S.

Ter.

S.

Nict.

S.

Cat.

S.

Asc.

S.

Spett.

S.

Dia.

S.

Inv.

S.

Intim.

S.

Cicl.

TOT

Abbigliamento 3 0 0 3 1 0 0 0 1 3

Accessori 0 1 0 0 1 0 0 0 1 1

Auto e moto 5 6 2 9 8 14 6 8 9 20

Bevande 5 2 1 7 5 2 0 8 4 13

Casa e

arredamento

1 1 0 2 5 1 0 4 1 5

Cibo 1 1 2 9 5 4 2 5 3 10

Cosmetici 0 1 1 4 2 3 0 2 1 4

Cura del corpo 0 0 1 2 0 1 0 0 0 2

Editoria 0 0 1 1 1 0 0 0 0 1

Elettronica 0 2 0 1 1 1 2 2 2 4

Giochi e

giocattoli

0 0 2 2 1 0 1 0 0 2

Medicinali 0 5 1 0 5 1 1 1 0 5

Prodotti

assicurativi e

bancari

0 2 0 2 4 2 0 1 4 5

Profumi e

Deodoranti

3 5 3 7 9 3 7 2 5 13

Prodotti per la

pulizia della

casa

1 3 0 1 3 3 0 4 0 5

Servizi 1 1 0 4 5 1 0 1 5 6

Altro 1 0 0 2 1 1 0 2 0 2

TOT 21 30 14 56 57 37 19 40 36 101

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Prima di procedere al commento, ci pare doverosa una premessa: i casi raccolti ed

analizzati nella presente ricerca, seppure in numero relativamente alto, non sono

sufficienti, come è ovvio, a trarre delle generalizzazioni universali a partire dal corpus

di riferimento. Le conclusioni alle quali si è pervenuti, dunque, sono da considerarsi

puramente indicative; tuttavia, dall’analisi realizzata, è possibile trarre degli spunti

interessanti che ci accingiamo a descrivere di seguito.

I risultati mostrano, innanzitutto, una significativa concentrazione dei simboli

ascensionali – che abbiamo visto essere i più frequenti all’interno del corpus insieme a

quelli spettacolari – in riferimento della categoria merceologica delle auto e delle moto

e soprattutto dei cibi e delle bevande. Su 10 spot inerenti ai cibi, infatti, ben 9 sono

marcati con simboli ascensionali, laddove su 13 spot riguardanti le bevande, se ne

rinvengono 7; anche in riferimento alle occorrenze dei simboli stessi, le due categorie

merceologiche coprono, da sole, circa un terzo della loro distribuzione totale. Ciò può

essere spiegato dall’intenzione - o meglio dall’attitudine - ad esaltare, insieme al gusto e

alla qualità degli alimenti e delle bibite reclamizzate, anche la loro leggerezza, in

rispetto di una delle qualità più ricercate ed apprezzate presso il pubblico dei

consumatori, e, di conseguenza, una delle più riproposte in pubblicità. La presenza di

simboli ascensionali in circa la metà degli spot inerenti ad auto e moto – legata

maggiormente ai percorsi in salita e ai rilievo entro cui i veicoli si trovano a muoversi e,

in parte, alla contestualità dei simboli ciclici – sono da intendersi, invece, come il

cammino che il mezzo compie per raggiungere e dimostrare le qualità e i valori declinati

dal brand.

Altra considerazione possibile è quella che riguarda, per l’appunto, la categoria

merceologiche delle automobili e delle moto. In esse, infatti, possiamo rinvenire la

presenza massiccia di simboli diairetici – quasi tutti inerenti alla sottocategoria “veicoli

sfreccianti” che abbiamo descritto in precedenza – che riguardano 14 spot su 20 e

interessano quasi la metà delle occorrenze riguardanti i simboli diairetici. Ciò sta ad

esaltare chiaramente il carattere dinamico ed energico dei prodotti pubblicizzati, in una

comunicazione che difficilmente rinuncia a mostrare il prodotto alle prese con i più

svariati contesti, pronto ad affrontarli tutti con la sua velocità e la sua eleganza.

Significativa, in tal senso, è anche la presenza di 9 spot contenenti simboli ciclici, dal

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momento che molto spesso a fare da sfondo ai veicoli sono ambientazioni naturali

selvagge o agresti; va da sé che il loro uso si trascina via anche la dimensione

dell’eternità e della ricorsività, e quindi, nella fattispecie, dell’affidabilità e della

durabilità nel tempo, proprie dei simboli ciclici. In ultimo, è rimarcabile la presenza di

diversi simboli intimi (ben 8 su 20, di cui 5 riconducibili alla sottocategoria “veicoli

mostrati nei loro spazi interni”) ad indicare un richiamo abbastanza diffuso a benefit

quali la solidità strutturale e meccanica dei veicoli, la loro potenza e il loro comfort.

Oltre alla costante dei simboli spettacolari ed ascensionali, più della metà degli spot di

profumi e deodoranti contano, poi, al loro interno, simboli dell’inversione (tutti legati

alla sottocategoria dell’inversione dell’investimento timico degli altri simboli); allo

stesso modo, tale categoria merceologica ricopre, da sola, circa un terzo del totale delle

occorrenze legate a questa determinata categoria simbolica. Ciò, come già accennato in

precedenza, è spiegabile in base al fatto che questo tipo di prodotto si presta

particolarmente, in sede di discorso pubblicitario, al processo di decostruzione,

negoziazione e riformulazione del senso, attraverso una comunicazione incentrata

spesso sulla trasgressione e sullo spiazzamento del consumatore come leve

fondamentali per attirare la sua attenzione.

Altro dato interessante è quello che emerge dagli spot relativi a prodotti medicinali;

ebbene, nella totalità degli spot presi in analisi, la “nictomorfia” presente al loro interno

(sotto forma di personaggi mostruosi, di acqua impura e soprattutto di situazioni

caotiche) è compensata dalla presenza di simboli spettacolari legati a condizioni di

ordine e armonia. La struttura di tali spot pubblicitari sembra recitare sempre lo stesso

copione, principiando da situazioni di pericolo e/o disordine che coinvolgono i

malcapitati protagonisti vittime dei disagi e delle minacce della malattia che incombe, e

terminando con la quiete e la salute finalmente ristabilite. Da quello che si evince dal

nostro studio, dunque, la tecnica del problem solving è sicuramente quella più utilizzata

da copywriter e art director in relazione ai prodotti medicinali, grazie alla sua “atavica”

semplicità ed immediatezza comunicativa.

Passando in rassegna la categoria merceologica dei prodotti per la pulizia della casa,

invece, notiamo come siano ben 4 su 5 sono gli spot che contengono al loro interno

simboli intimi, laddove si attestano a quota 3 i simboli nictomorfi, compensati dalla

presenza di quelli spettacolari, e infine da quelli diairetici della purezza. Questa

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tendenza trova giustificazione, da una parte, nel “facile” richiamo alla sicurezza, alla

tranquillità e all’intimità, per l’appunto, delle mura domestiche, e, dall’altra, nel

meccanismo sporco/disordine-pulito/splendore di cui sopra.

Per quel che concerne i prodotti assicurativi e bancari, invece, oltre alla cospicua – e del

resto pressoché onnipresente – distribuzione di simboli spettacolari (4 su 5 gli spot in

cui essi sono presenti), sulla stessa cifra si attesta la presenza dei simboli ciclici. Tale

tendenza può essere spiegata ancora attraverso il ricorso da parte dei creatori di spot

pubblicitari a caratteristiche quali l’affidabilità, la stabilità e la durabilità nel tempo.

Prodotti a medio-lungo termine come quelli bancari e assicurativi, trovano così,

nell’evocazione dei moti perpetui della Natura e del tempo e nella promessa del futuro,

la loro dimensione – euforica – ideale.

In ultimo, per quanto riguarda gli spot relativi all’abbigliamento sportivo, si sono

riscontrati simboli teriomorfi in tutti i casi presi in esame. Il riferimento alle

caratteristiche e al comportamento animale sembra costituire, dunque, una corsia

creativa preferenziale da parte dei pubblicitari: ciò si può ben comprendere se si risolve

l’elementare ed intuitiva associazione forza-agilità animale con quelle dello sportivo che

fa uso del prodotto.257

2.5 Per un’analisi “archetipica” degli spot pubblicitari: alcuni esempi

Di seguito riportiamo alcuni esempi di commercial televisivi estratti dal nostro corpus

di riferimento, al fine di svolgere, sulla scorta degli strumenti teorici fin qui acquisiti,

una più approfondita ed articolata analisi in chiave “archetipica” degli spot stessi.

Lo spot Lancôme 2012, che vede come protagonista la celebre attrice statunitense Julia

Roberts, rappresenta un esempio significativo di “nictomorfia” sovvertita da simboli

spettacolari ed ascensionali. Il commercial si apre con la voce-off dell’attrice che si

257

Per quanto concerne il riferimento teriomorfo, stiamo assistendo sempre più spesso, negli ultimi mesi,

in Italia, al richiamo in chiave ironica e grottesca all’animale fine al di procurare un effetto di

spiazzamento ed ilarità presso il pubblico. Ripreso durante improponibili slice of life tipicamente umane e

spesso animato da voci celebri del mondo dello spettacolo, l’animale (ricreato attraverso un pupazzo)

rappresenta spesso il vero protagonista del commercial e, allo stesso modo, la mascotte del brand. Esempi

di questa tendenza ci pervengono dalla campagne Vodafone 2012-2013 in cui si sono avvicendati

rispettivamente l’orso Bruno (“doppiato” dal celebre attore Diego Abbatantuono), il pinguino Pino (con la

voce Elio, leader del gruppo “Elio e le storie tese”), e la foca Monica (alla quale presta la sua

inconfondibile voce l’attrice e comica Luciana Littizzetto). Ultimi in ordine di tempo, infine, sono i

pinguini-attori dello spot Fiat Panda dell’autunno 2013.

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chiede: “In a world full of dictates and conventions could there be another way?”, ad

indicare il carattere anticonvenzionale e fuori dagli schemi del prodotto/brand. A questo

punto, si vede il panorama di Parigi di notte accendersi di scie luminose (luce artificiale

intensa legata ai simboli spettacolari) il quale, poi, attraverso uno stacco, “convoglia”

nelle fila di lampadari luminosi che campeggiano splendenti in un’elegante ed affollata

sala di ricevimento (simboli spettacolari). La protagonista, vestita di un bianco

splendente, entra nella sala e si pone inizialmente sulla stessa “scia luminosa” disegnata

dai lampadari (simboli spettacolari e diairetici nel senso di purezza). Tutti gli astanti,

intanto, sono vestiti di nero e la luce all’interno del salone è molto bassa (simboli

nictomorfi) laddove sono i lampadari bianchi e il vestito della Roberts ad illuminare la

scena, creando, in questo modo, un contrasto molto evidente (simboli diairetici). A

questo punto la protagonista vede comparire degli strani fili/corde che provengono

dall’alto e che sembrano intrappolare le persone intorno a lei e quasi “guidarle” nei loro

gesti ordinari e ripetitivi – chiara allegoria delle convenzioni e dell’omologazione di cui

sopra – le quali vanno ascritte ai simboli nictomorfi. Accortasi di essere anch’ella legata

dai fili, la testimonial provvede a tagliarli e a spazzarli via con un gesto deciso ma

elegante (simboli diairetici) per poi guadagnare il terrazzo della sala. A questo punto le

immagini enfatizzano la sua salita sul terrazzo per mezzo di alcuni gradini (simboli

ascensionali) e mostrano una luce molto intensa che invade, dall’orizzonte, tutta la

scena (simboli spettacolari) e che accompagna il sorriso orgoglioso e liberatorio che

l’attrice lancia alla platea, come a manifestare il suo percorso di superamento delle

convenzioni e delle banalità quotidiane grazie all’uso del profumo. Quest’ultimo è

rappresentato nella parte finale dello spot, la quale mostra una boccetta del prodotto

agitarsi elegantemente per liberarsi anch’essa dai legami costrittivi di cui prima,

esattamente come aveva fatto la protagonista, evidenziando ancora una volta la coerenza

di fondo tra la parte visiva e quella verbale del commercial.

Lo spot Nurofen n°31 è imperniato su di un “classico” esempio di strategia problem

solving, presentando una situazione iniziale di caos che poi si risolve in uno status di

pace ed armonia. Nello specifico, all’inizio dello spot stesso, sono mostrate le immagini

di un mare in tempesta intorno ad un faro e di un cielo scuro, con una presenza

massiccia di pioggia e raffiche di vento (simboli nictomorfi). A questo punto, dalla tasca

del guardiano del faro, fa capolino la scatola del medicinale oggetto del commercial:

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egli ne estrae una dose e la lascia cadere nel mare sottostante (l’inquadratura del lancio

è per un tratto realizzata dal basso per non accentuare la cifra catamorfa - diremmo - del

gesto in sé). Appena il medicinale entra in acqua, di colpo le nuvole vengono dissipate,

il sole spunta dall’orizzonte e il mare diventa una tavola piatta (simboli spettacolari

legati alla luce e all’armonia). Il faro, infine, simbolo spettacolare di per sé, si illumina

sullo sfondo, assurgendo finalmente alla sua natura simbolica originaria.

Lo spot Brooklyn n°41 è stato selezionato in quanto racchiude diverse categorie di

simboli e soprattutto rappresenta perfettamente il connubio tra simboli ascensionali,

spettacolari e diairetici. Le immagini iniziali ritraggono un lupo bianco (simbolo

teriomorfo) che avanza lungo un pendio innevato (ascensionalità della salita e

diaireticità dell’ambiente intesa come purezza ma anche ciclicità della natura

incontaminata) con delle montagne “ascensionali” a fare da sfondo. A questo punto si

vede un velivolo che fa capolino dal cielo (anch’esso simbolo ascensionale), mentre si

susseguono le immagini dei protagonisti - presumibilmente scienziati o alpinisti – i cui

capelli sono vistosamente sollevati dal vento (simboli ascensionali) e che si muovono

anch’essi tra la neve vergine e sotto un sole splendente (simboli spettacolari). Anche

quando il velivolo atterra sull’acqua, lo fa sulla striscia di luce solare riflessa ed in

maniera morbida, quasi accennata, senza il benché minimo tonfo. Alla fine dello spot

uno dei personaggi porta alla bocca il chewingum e mentre lo mastica ha lo sguardo

rivolto verso l’alto (simboli ascensionali); a questo punto compaiono sullo sfondo la

catena montuosa in bella vista, il ponte di Brooklyn che dà il nome al prodotto

(entrambi sono simboli ascensionali in quanto strutture slanciate) ed infine, in

sovraimpressione, il pack, anch’esso inclinato verso l’alto.

Altro spot in cui si può apprezzare la commistione di vari simboli – nella fattispecie

soprattutto quelli spettacolari, ascensionali ed intimi – è quello della bevanda “Green

Da-ka-ra”, il n°46 della matrice, il quale vede come protagonista una irresistibilmente

dolce bambina giapponese alle prese con l’acquisto/raccolta di frutta fresca. Le

immagini ritraggono la bimba con un cesto di vimini in mano (simbolo intimo di una

sorta di Cappuccetto Rosso nipponico) che corre tra i vicoli e le piazze di un paesino

rurale battuto da un sole splendente (simboli spettacolari). Arrivata al mercato

ortofrutticolo - composto da bancarelle dai tendaggi rosseggianti – la piccola chiede

della frutta e i commercianti si precipitano a riempire la sua cesta di frutti variopinti e

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anch’essi da colori caldi (simboli spettacolari). A questo punto la bambina compie una

magia trasformando la frutta del cesto in bottiglie marcate “Da-ka-ra” e lo fa sfilando

verso l’alto, con un ampio gesto, una tovaglia (simboli ascensionali). Le immagini

finali, vedono come protagonista la bambina e due commercianti che sono ripresi

nell’atto di sollevare la bottiglia e berne il contenuto (simboli ascensionali e intimi

dell’azione del bere). Alla fine dello spot si vede la bambina con la bottiglia in mano e,

sulla sinistra, un’altra bottiglia sospesa nel vuoto (simboli ascensionali).

Lo spot n° 63 delle scarpe “Canguro”, invece, è un caso esemplificativo di tratti

teriomorfi trasmessi al prodotto/brand pubblicizzato. Sorvolando sul nome del marchio

stesso e sul logo (il quale consiste nella stilizzazione di un canguro) che sono, di per sé,

chiaramente teriomorfi, si può notare, all’interno del commercial, la presenza di un

canguro-cartoon saltellante che accompagna in maniera incessante le gesta del

testimonial (il portiere della nazionale italiana di calcio Bordon) alle prese con i suoi

allenamenti quotidiani. La marcata presenza del canguro sullo schermo, descrive

chiaramente la traslazione di qualità come l’agilità, la leggiadria ed il comfort

nell’atterraggio, dall’animale al testimonial e a tutti gli altri consumatori che fanno uso

del prodotto. In questo senso, come si è già precedentemente accennato, il ricorso ai

tratti tipici teriomorfi è un semplice ed immediato strumento a disposizione di chi crea

pubblicità, e ciò è vero soprattutto nell’ambito dell’abbigliamento sportivo, dal

momento che lo sport è associato in maniera consolidata alle sfida contro i propri limiti

umani, attraverso gesti tecnici e movenze che trovano una loro corrispondenza pura e

vigorosa proprio all’interno del regno animale.

Lo spot TV Sorrisi e Canzoni, il numero 66 della matrice, rappresenta invece un buon

esempio di simboli catamorfi “mitigati” dalla presenza di simboli ascensionali e

spettacolari. Il commercial si apre con l’immagine di un aeroplano giallo in volo (primi

cenni di simboli ascensionali e spettacolari), il quale lascia cadere subito dopo le riviste

pubblicizzate. La caduta di quest’ultime, però è frenata dalla pronta apertura di mini-

paracadute, anch’essi di colore giallo chiaro, che si posano pian piano sulla città

brulicante di passanti. Le prime riviste sono raccolte con un balzo da una donna con i

capelli biondi, appoggiata ad un taxi di colore giallo (ancora simboli ascensionali e

spettacolari), mentre, poco dopo, si vede prima un uomo sul montacarichi di un camion

in movimento che legge la rivista facendo gonfiare il suo paracadute in maniera

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orizzontale, e poi delle bambine che volteggiano su una giostra e che procurano alla

rivista e al suo paracadute il medesimo effetto (altri simboli ascensionali che smorzano

la catamorfia delle riviste cadenti). Alla fine dello spot, tutte le riviste ancora in volo

con i loro paracadute gialli, scendono su una collinetta e si concentrano per comporre la

scritta “TV”: ancora una volta, dunque, il loro atterraggio disforico è compensato (nella

fattispecie dal fatto che la loro discesa è stata funzionale alla formulazione della scritta).

Lo spot Honda SH mode n°94 del 2013, invece, rappresenta un esempio di simboli

contraddistinti da significati negativi, controbilanciati da simboli dell’inversione e

simboli “euforici” quali i simboli ascensionali, spettacolari e diairetici. Le immagini

iniziali si aprono in ambientazione cittadina notturna in cui un giovane uomo, seduto

sulla sella del suo scooter, si appresta ad indossare il casco prima di partire. A questo

punto egli si accorge che è appena iniziato un temporale perché le prime gocce si

posano sul faro frontale acceso del mezzo; ciò ovviamente, considerata la situazione,

assume i tratti di una piccola “sciagura” per il giovane. Tuttavia, il primo gesto del

ragazzo è quello di far scivolare la goccia, che intanto gli è caduta sul viso, all’interno

della bocca per berla (un primo “sintomo” di inversione dell’investimento timico legato

all’elemento pioggia, di base nictomorfo). Il ragazzo, intanto, mette in moto lo scooter

e parte, iniziando a descrivere delle serpentine sull’asfalto bagnato mentre tutti i

passanti si affrettano a coprirsi con gli ombrelli per ripararsi dal temporale. A un certo

punto percorre un tratto di strada e sullo sfondo appare un’intensa luce artificiale, quasi

accecante (simboli spettacolari) che lo conduce all’appuntamento con una giovane

donna. Sceso dal motorino, lui toglie il casco e lei richiude l’ombrello ed entrambi

iniziano a saltellare e fare piroette sotto la pioggia, quasi invocandola, in una danza

liberatoria (simboli dell’inversione più che mai evidenti). A questo punto, “esaurita”

l’inversione, si passa di colpo ad un’ambientazione notturna ad una diurna dove

predomina un sole splendente (simboli spettacolari), e si possono apprezzare dei salti e

delle acrobazie realizzate da funambolici skater (simboli ascensionali). Si susseguono

poi, sullo schermo, delle immagini ritraenti lo scooter che sfreccia velocemente tra le

strade e i vicoli della cittadina guidato da una giovane donna (simboli diairetici), quelle

di panni stesi ad asciugare, delle biglie e delle caramelle in primo piano dai colori accesi

(simboli spettacolari), quelle inerenti al taglio di un’arancia con un grosso coltello

(simboli diairetici) e quelle inerenti a fiori e piante mosse da un vento impetuoso

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(simboli ascensionali). L’ultima parte del commercial, infine, mostra una coppia di

giovani in sella ad uno scooter e con i capelli al vento (simboli ascensionali) alle prese

con i giochi di luce solare di una galleria (simboli spettacolari), e poi ancora con

acrobazie ed evoluzioni di skater e rider vari (simboli ascensionali). Lo spot termina con

l’approdo di una piccola comitiva di ragazzi ad una spiaggia attraverso lo scooter;

quest’ultimi si spogliano in tutta fretta e a grandi gesti lanciando in aria i propri

indumenti e facendo dei salti acrobatici (simboli ascensionali) per poi tuffarsi

allegramente nell’acqua del mare (simboli ciclici e intimi dell’inghiottimento).

Il celebre spot Coca Cola del 2012, il n°97 della matrice, rappresenta perfettamente la

commistione di diversi simboli che si susseguono tra loro principalmente attraverso il

meccanismo della contrapposizione netta e del contrasto (che ricordiamo essere ascritto,

di per sé, alla dimensione diairetica). Lo spot si apre con un messaggio verbale sullo

schermo che recita “Hai mai provato a guardare il mondo con occhi diversi?”; subito

dopo si vede la scena di una scolaresca formata da bambini piccoli intenta a cantare in

un’aula molto illuminata dalla luce del sole (simboli spettacolari), la canzone che fa da

colonna sonora al commercial stesso (“I'm free to be whatever” degli Oasis) sotto la

guida del maestro. A questo punto, dopo la frase scritta “Per ogni persona corrotta…”,

si vede un’immagine dalle tinte scure che ritrae un mucchio di banconote sparse in

maniera disordinata sul tavolo, con un rosso scuro e tetro a fargli da sfondo, e che si

risolvono in un’esplosione finale (simboli nictomorfi). Sullo schermo appaiono, a

questo punto, una miriade di palloncini rosso fuoco che risalgono nell’aere (simboli

spettacolari e ascensionali) accompagnati dalla frase “8000 persone donano il sangue”.

Di seguito, è il turno delle immagini marcate verbalmente con un “Mentre si progetta

una nuova arma” e che rappresentano, ancora una volta con colori spenti e tetri, il lancio

di un missile sinistro e dalla base infuocata da una mare scuro e agitato (simboli

nictomorfi); a queste viene contrapposta la sequenza che ritrae una casalinga nella sua

cucina di casa alle prese con una torta, la quale spalma delicatamente sulla superficie

del dolce una panna bianchissima servendosi di un vassoio altrettanto bianco (simboli

diairetici), accompagnata dalla frase “una mamma prepara una torta”. A questo punto,

appare la frase “Per ogni coro razzista…” che precede la scena di un gruppo di ultras

particolarmente aggressivi e che tendono continuamente il braccio verso il campo (un

movimento, quello di tendere il braccio, potremmo dire storicamente e culturalmente

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“nictomorfo” dato il suo rimando al celebre saluto vigente nella Germania nazista del

secolo scorso); a queste viene contrapposta l’immagine di un uomo canterino intento a

fare la doccia (volendo, una “spettacolarità” intima, psicologica), nella quale spiccano,

sulla sinistra dello schermo, delle confezioni fusiformi di shampoo e bagnoschiuma

(simbolo ascensionale accennato), precedute dalla frase “80000 uomini cantano sotto la

doccia”). Procedendo, nello spot appare un’altro testo che recita “Per ogni cattiva

notizia..” a cui fanno seguito le immagini di un telegiornale il quale, oltre a presentare

dei titoli “verbalmente nictomorfi” (ad esempio l’inquietante “GLOBAL WARMING”

in sovraimpressione), mostra i visi tristi e allarmati dei giornalisti (anche qui una sorta

di “nictomorfia dello stato d’animo” che si inserisce in altre più palesi); a queste scene

vengono contrapposte quelle di una coppia di giovani stesa sul letto in una camera

molto illuminata da una finestra aperta, e di bambini che giocano felici in un giardino

quasi accecante per la sua luminosità (simboli spettacolari), con la dicitura in alto “100

coppie cercano di avere un bambino”. L’ultima contrapposizione archetipica, invece, si

apre con la frase “Per ogni giornata nera” che fa da incipit alla scena in cui la

nictomorfia del disordine e della spazzatura in cui versa l’uomo inquadrato - tra l’altro,

in una posizione che suggerisce raccoglimento e sconforto - risulta evidente; a questa

scena è contrapposta quella – recuperata da un altro celebre spot della stessa Coca Cola

risalente all’anno 1990 e corrispondente allo spot n°33 della matrice - di persone

illuminate da un sole splendente che, con gli sguardi rivolti verso l’alto, recano in mano

una bottiglia di Cocacola (simboli spettacolari e ascensionali) mentre una frase in

sovraimpressione recita: “Migliaia di persone condividono una Coca-Cola”. Lo spot si

chiude con l’immagine di una ragazza che solleva la bottiglia di Coca Cola per

portarsela alla bocca (simboli intimi) mentre si vedono suoi capelli svolazzare nel vento

(simboli ascensionali) e sullo sfondo, esattamente in corrispondenza del bordo della

bottiglia, stagliarsi un sole luminoso e splendente (simboli spettacolari), quasi ad

indicare che il momento topico e che elargisce più felicità è proprio quello del

consumare il prodotto oggetto della pubblicità. L’headline finale è “Ci sono tante

ragioni per credere in un mondo migliore”, a ribadire, in maniera sintetica, ancora una

volta il concetto di negatività sovvertita e sconfitta dal bene e dalla speranza.

Lo spot islandese n°100, inerente ai prodotti assicurativi Vörður, costituisce una

presenza a dir poco singolare nell’ambito della nostra analisi incentrata sugli archetipi

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all’interno degli spot televisivi. Esso si apre con la più classica delle ambientazioni

naturali, con le immagini – accelerate – di un promontorio che termina in una pianura

verdeggiante e incontaminata, coperto da grandi nuvole in transito nel cielo (simboli

ciclici legati alla natura e al divenire); a questo punto si vede un bambino a torso nudo

(simboli ciclici del “grado zero” del corpo) che lancia in aria una penna di uccello, la

quale si trasforma essa stessa in un uccello che vola via (simboli ascensionali). Sullo

schermo, poi, mentre va una colonna sonora perfettamente aderente al contesto,

compare vecchio uomo (anch’egli apparentemente nudo o seminudo) dai capelli e barba

bianchi (simboli spettacolari) intento a scrutare il paesaggio circostante , e un giovane

completamente nudo (ancora simboli ciclici) ripreso mentre tende con forza e attenzione

un arco in legno (altro simbolo ascensionale). È il turno poi, di una giovane donna,

ferma con le braccia sollevate sulla riva del mare, la quale indossa solamente un velo

che svolazza senza sosta spinto dal vento (ancora simboli ciclici e ascensionali). Intanto,

ad accompagnare e ad integrare le immagini del commercial ci sono le parole-chiave

della parte verbale che recitano, nell’ordine: “Initiative..”, “Knowledge…”,

“Independence…”, “Freedom…” , “Cooperation…”, “Force…”, “Preciseness…”. A

questo punto dello spot, dopo che le immagini sono ritornate prima sull’anziano che

scruta l’orizzonte dagli scogli e poi sul giovane con l’arco, interviene, a sorpresa -

facendo bloccare di colpo la musica con un effetto sonoro distorto - una presenza a dir

poco straniante. Fa il suo ingresso nella scena, infatti, un giovane ben vestito e dal

sorriso affabile ed irridente, il quale si piazza alle spalle dell’altro giovane (che lo

osserva incredulo) e guardando la telecamera dice: “Well, this hasn’t much to do with

insurance, does it? We at Vörður Insurances don’t like to complicate things. We simply

offer good insurances, and good services”. Lo spot si chiude , così, con un pay off finale

in corsivo e di piccole dimensioni - messo in risalto da uno sfondo completamente

bianco - che recita, attraverso una voce-off: “less image, more insurance” e a cui fa

seguito il logo dell’impresa.

L’ultimo spot del nostro corpus, quello Chanel n°5 del 2012, è stato selezionato per la

sua particolarità di presentare archetipi in forma quasi esclusivamente verbale, lasciando

per una volta da parte la componente visuale del messaggio pubblicitario. Il

commercial, che vede come protagonista il celeberrimo attore americano Brad Pitt,

rappresenta un esempio di come le parole possono, oltre che “supportare” le immagini

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archetipiche presenti negli spot pubblicitari, sostituirsi a quest’ultime e diventare esse

stesse veicolo di archetipi. Come abbiamo avuto modo di notare nelle analisi precedenti,

la componente verbale, sebbene marginale o comunque secondaria, svolge spesso un

ruolo importante all’interno dei commercial laddove essa, ora attraverso accostamenti

evocativi, ora mediante termini più didascalici, va a corroborare la parte visuale,

arricchendola di significato. Nel caso dello spot Chanel N°5, però, il testo recitato da

Pitt si stacca da una dimensione comprimaria per assurgere a vero protagonista dello

spot. Ciò avviene perché la parola, divenuta finalmente “archetipica”, è messa

intenzionalmente e indiscutibilmente al centro della scena, dal momento che per quasi

tutta la durata del commercial non si vede altro che la figura dell’attore - vestito in

maniera abbastanza anonima ed ordinaria - che recita immobile al centro di una stanza

completamente spoglia, puntellando, con la sua voce, un silenzio assoluto, quasi

“cosmico”. L’uso inconsueto del bianco e nero in questo senso, non fa altro che ribadire

la chiara volontà di non distogliere in alcun modo l’attenzione dello

spettatore/consumatore dal testo che sente proferire sullo schermo, quasi invitandolo a

chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare da quel “profluvio archetipico” che le parole,

scandite una per una, ricreano all’interno della sua psiche. Nella fattispecie il testo

proferito dal testimoniale è il seguente:

“Non è un viaggio,

tutti i viaggi finiscono

ma noi andiamo avanti.

Il mondo gira e noi

giriamo con lui.

I progetti svaniscono,

i sogni prendono il sopravvento.

Ma comunque vada

ci sei tu…

la mia sorte,

il mio destino,

la mia fortuna.

Chanel N°5…

Inevitabile.”

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Il testo, con i suoi rimandi al tema del tempo, del destino, della circolarità, del viaggio -

anche attraverso la negazione iniziale - della finitudine e del nuovo inizio, può essere

considerato, nel suo insieme e sulla scorta delle categorie simboliche di Durand, come

un grande simbolo ciclico. I termini che lo compongono, di rara pregnanza semantica,

evocano in maniera disarmante la suddetta dimensione di ricorsività e di “immortalità”

del tempo da una parte, e delle vicissitudini e avventure umane dall’altro. La presenza di

entrambi questi richiami fa sì che, all’udire le parole dello spot, sia facile per l’uditore,

sentirsi immerso in un’atmosfera che è fortemente inerente alla storia personale di

ognuno e, al contempo, dentro la grande Storia dell’umanità e dell’universo intero,

diventando in questo senso, personale e collettiva. Nell’ultima parte del testo, il

richiamo alla coppia – quella metaforica tra il testimonial ed il profumo – si aggiunge ai

simboli ciclici testé descritti, andando ad arricchire il testo con la presenza di un’unità

estremamente forte che, per l’appunto, sfida il Tempo e i piccoli episodi dell’esistenza

di ogni persona, per un legame inscindibile ed eterno.

Dal punto di vista delle immagini, infine, lo spot compie un solo “stacco” da quella

dell’attore impegnato a recitare, interruzione che, di fatto, nei suoi contenuti, aderisce

perfettamente al testo enunciato fino a quel momento. Essa consiste, infatti, nella

raffigurazione della confezione del prodotto, la quale emerge in sovraimpressione da un

paesaggio che raffigura una porzione di spazio in cui si vede la superficie di un pianeta

- simboli ciclici, questa volta puramente visivi - puntellata da pepite di luce infuocate

(una sorta di pianeta Terra rivisitato in chiave “spettacolare”), e a sua volta illuminata in

lontananza da un sole splendente (simboli spettacolari). Ancora una volta, dunque, la

parte verbale e quella visiva di uno spot risultano semanticamente coerenti, tuttavia, nel

caso di specie, è la prima a dominare nettamente sulla seconda, e non viceversa come

vuole la norma all’interno della pubblicità (ormai da almeno 30 anni a questa parte)258

258

Per una panoramica sull’iconic turn della comunicazione pubblicitaria a discapito della parte verbale

del messaggio, avvenuta a partire dalla fine degli anni ’70, e sul rapporto tra pubblicità e arte letteraria, si

rimanda al lavoro di tesi triennale in “Comunicazione audiovisiva e scritture mediali” ad opera di chi

scrive, dal titolo “Poesia venale”:quando la musa è un detersivo. Il rapporto tra pubblicità e parola

letteraria.

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CAPITOLO III

Per una prospettiva “archetipica” al governo d’impresa:

l’Archetypal Branding

“Ma tutto ciò che sono, non ve lo posso dire, a dirlo non son buono,

mi proverò a cantar…!”

(Ettore Petrolini nelle vesti di “Fortunello”)

L’Archetypal Branding rappresenta, ad oggi, una delle tendenze più interessanti ed

originali nell’ambito del management d’impresa. Esso può essere definito come “un

framework per individuare le personalità archetipiche fondamentali per la cultura

dell’organizzazione e per lo sviluppo di un’identità interna ed esterna chiara e in grado

di essere appetibile per i clienti e tutti gli stakeholder; esso, inoltre, mette in guardia

dal possesso da parte di un determinato archetipo e sollecita al controllo contro il

rischio di essere trascinati dal suo potenziale negativo”259

.

È proprio dagli archetipi junghiani della personalità (vedi paragrafo 7 del cap.1), infatti,

unitamente alle teorie sul mito di J. Campbell (vedi paragrafi 6 e 9 del cap. 1), che la

psicologa e docente universitaria Carol S. Pearson260

, pioniere per quel che concerne

l’Archetypal Branding e, tra le altre cose, presidente del Pacifica Graduate School of

Santa Barbara in California e del Center for Archetypal Studies and Applications, inizia

i propri studi alla fine degli anni ’90. Le ricerche di Pearson, a cui si aggiungono quelle

di altri autori che menzioneremo tra breve, hanno in sé l’originale e ambizioso obiettivo

di porsi metà tra la psicologia, la sociologia e il management d’impresa allo scopo di

259

C.S.PEARSON,M. MARK The Hero and the Outlaw: Building Extraordinary Brands Through the

Power of Archetypes, McGraw-Hill, New York, 2002

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individuare una serie di archetipi che, sulla scorta di quelli teorizzati da Carl Gustav

Jung, si applichino in maniera pertinente e funzionale ai “tipi” della società

contemporanea e, soprattutto, all’identità – e alla personalità261

- delle imprese operanti

nel mercato odierno. L’idea alla base, per l’appunto, è che, così come per le persone

esistono delle attitudini e delle inclinazioni identitarie, ereditate dalla notte dei tempi e

che si susseguono durante il corso della propria vita (idealmente affrontandole tutti fino

ad arrivare all’archetipo del “Sé” che abbiamo visto essere quello della totalità), così per

le imprese possono essere adottati modelli comportamentali specifici in termini di

branding allo scopo di seguire delle linee guida coerenti ed “universali” che permettono

di raggiungere un’elevata efficacia presso i propri pubblici di riferimento.

Per arrivare a stilare la sua lista definitiva di archetipi – inizialmente 6, poi divenuti 12 –

Pearson conta sull’ausilio di autorevoli imprese di consulenza inerenti al brand

management, al marketing, e alla comunicazione quali “Forges” e “Storybranding”,

oltre che su quello di Margaret Mark, Presidente della “Archai” (un istituto di ricerca

focalizzato sulle applicazioni e gli studi inerenti agli archetipi) e con un passato di vice

presidente esecutivo presso la celebre agenzia di comunicazione Young & Rubicam.

La teoria di Pearson, multidisciplinare ed eterogenea in termini di background

accademico-professionale posto in essere dietro alla sua definizione, attualmente risulta

avere un cospicuo riverbero tra gli esperti di branding, tant’è che la Rete brulica di

articoli e di siti inerenti a tale paradigma, il quale va nella direzione di una “condotta

archetipica” del governo d’impresa262

.

261

Cfr. N. MARKWICK, C. FILL., “Towards a framework of managing corporate identity”, European

Journal of Marketing, 1995, Vol.31, pag. 397. 262

Sul Web, tra le decine di articoli e siti Web dedicati all’Archetypal Branding diverse sono le

classificazioni realizzate sulla scorta dei 12 archetipi di Pearson. Tra queste, proponiamo qui quella lunga

ed articolata di “Forty Agency”, un’impresa di consulenza di marketing e comunicazione, che ha stilato

una lista di ben 20 archetipi dai quali sono scaturiti, tra l’altro, diverse pubblicazioni (traduzione nostra):

1)Il Ribelle, marchi: Harley Davidson, Virgin, Mtv; obiettivo: per raggiungere la libertà attraverso la

sfida, la disobbedienza, e l’anticonformismo. 2)L’Uomo Qualunque, marche IKEA,Walmart, Visa ;

obiettivo: legare con gli altri per essere umile. 3)L’Innocente, marche: Google, Apple; obiettivo:

semplicità, fare sempre la cosa più giusta. 4)L’Intrattenitore, marchi: Budweiser, Fanta, Jack in the Box;

obiettivo: fare amicizia (ed evitare i nemici) usando l'umorismo e divertimento.

5)L’Antagonista, marchi: Megadeth, Hot Topic, LA Ink; obiettivo: Soddisfare le passioni attraverso

qualsiasi mezzo.6) L Intellettuale, marche: Ask.com, CNN, MIT; obiettivo: trovare la verità attraverso la

ricerca, l'obiettività, e la diligenza. 7)L’Edonista, marche: Victoria 's Secret, BMW, Versace; obiettivo:

perseguire il piacere attraverso esperienze fisiche. 8)Il Servitore, marche: Croce Rossa, Amnesty

International, Peace Corps; obiettivo: mettere da parte se stessi per la cura degli altri. 9)Il Tradizionalista,

marche: Procter & Gamble, Wells Fargo, GAP; obiettivo: ripristinare il mondo di una volta attraverso un

ritorno ai vecchi valori. 10)La Nutrice , marche: Campbell, Pampers, Johnson & Johnson; obiettivo:

aiutare gli altri e provvedere ai loro bisogni e desideri. 11) Il Connettore, marchi: Facebook, LinkedIn,

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La classificazione che ci accingiamo qui a proporre, in assoluta la più riconosciuta e

citata allo stato dell’arte attuale, è contenuta nel libro più noto della Pearson, The Hero

and the Outlaw: Building Extraordinary Brands Through the Power of Archetypes (di

cui la stessa Mark è co-autrice). La descrizione degli archetipi, nello specifico, è

dapprima focalizzata sul “tipo psicologico” alla base (con i vari esempi tratti dalla

società, dalla letteratura, dalla pubblicità, dal mondo dello spettacolo ecc.) e poi inerente

all’applicazione di tali tipi al governo di impresa (in particolare alla brand personality e

alla brand identity).263

Procediamo, dunque, con l’esposizione del modello:

L’INNOCENTE

L’Innocente è la figura della purezza e della bontà d’animo (in francese antico ed in

latino la radice della parola “innocente” significa: “nulla di male”). Egli è naturalmente

idealista, ottimista e speranzoso, perseverante di fronte agli ostacoli e solerte nel

motivare gli altri ad avere fiducia nella buona risoluzione dei problemi. Gli innocenti

sono sempre pronti ad affrontare nuove sfide, superando quelle barriere che avrebbero

scoraggiato chiunque si fosse imbattuto in esse. Esse sono genuine, a volte puerili e con

un velo di nostalgia.

Twitter; obiettivo: conoscere le persone giuste. 12)L’Artista, marche: Hp, Adobe, Lego; Bbiettivo: creare

qualcosa di bello, duraturo e di valore. 13)Il Filosofo, marchi: Scientology, Calvin Klein,

Nikon; obiettivo: aiutare la gente a vedere le cose da una prospettiva diversa. 14)Il Sognatore, marchi:

Disney, Axe, Rock Band ; obiettivo: aiutare le persone a realizzare esperienze soprannaturali,

promuovendo la fede e la meraviglia. 15)Il Motivatore, marchi: Electronic Frontier Foundation,

Moveon.org; obiettivo: raggiungere obiettivi sorprendenti rendendo la gente entusiasta per una causa.

16)Il Governante, marchi: Microsoft, Rolex, Gillette; obiettivo: condurre le persone verso una

destinazione comune attraverso la fiducia e la determinazione. 17)L’Esploratore, marchi: North Face,

Subaru, Starbucks; obiettivo: cambiare il proprio ambiente. 18)Il Difensore, marchi: US Army,

Greenpeace, Marlboro; obiettivo: proteggere gli altri dal male con coraggio. 19)Il Combattente, marchi:

X Games, Mountain Dew; obiettivo: ottenere grandi ricompense attraverso grandi rischi.

20)L’Atleta, marchi: Nike, Ford, Adidas; obiettivo: mettere alla prova se stessi attraverso sfide continue. 263

Essa, inoltre, sconta l’apporto di due esperti di brand management, operanti a livello internazionale e

con un’esperienza decennale sul campo, ovvero Nikolaus Eberl e Herman Schoonbee. Quest’ultimi, a

partire dai 12 archetipi stilati da Pearson, hanno operato alcuni approfondimenti ed integrazioni,

unitamente alla nascita del loro progetto “BrandOvation”, un’azienda di consulenza che promuove l’uso

degli archetipi nel branding e che ha collaborato, tra le altre cose, a margine dell’evento dei Mondiali di

calcio in Sud Africa del 2010.

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Esempi da Hollywood vanno dal Tom Hanks di “Forrest Gump”, a Bambi e Biancaneve

dei film Walt Disney. Fanciulli, personaggi buoni e infantili - ma anche monaci,

monache e persone sante - rappresentano al meglio questa particolare figura.

Le organizzazioni “Innocent” suggeriscono ai propri clienti che per riuscire non serve

aggressività ma ottimismo e genuinità: esse offrono soluzioni semplici a problemi ben

identificati e attraverso la loro comunicazione proiettano i loro consumatori in una

dimensione infantile e pura. Un’impresa che ricopre il ruolo di “Innocente” è

un’impresa che, con ottimismo e tenacia, non si arrende di fronte a difficoltà limitanti

per qualsiasi altra azienda, riuscendo ad individuare cosa è meglio per essa e

mantenendo la fiducia nei propri valori che sono quelli della semplicità, della

tradizionalità, della bontà, del benessere e dell’ottimismo. Esempi di brand incentrati su

questo particolare archetipo sono Coca Cola, Mc Donald, Walt Disney ecc.

Motto: libero di essere te e me stesso

Desiderio fondamentale: andare in paradiso

Obiettivo: essere felice

Paura più grande: essere punito per aver fatto qualcosa di sbagliato

Strategia: fare le cose nel modo giusto

Debolezza: noioso a causa della sua innocenza naive

Talento: fiducia nella potenza del pensiero positivo e dell’ottimismo

L’innocente è anche conosciuto come: utopista, tradizionalista, naive, mistico, santo,

romantico, sognatore ecc.

L’UOMO QUALUNQUE

Gli uomini e le donne qualunque sono individui che traggono soddisfazione nell’essere

se stessi e nel far sentire gli altri a proprio agio, incentivando i loro processi di

adattamento a situazioni e a gruppi di persone. Essi sono per natura empatici, onesti,

accomodanti, sensibili, gentili e danno il meglio di sé a contatto con altre persone. Gli

uomini e le donne “qualunque” sono schiette, inclini alle relazioni e capaci di

intrattenere rapporti basati sulla sincerità e sulla sinergia.

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Uno degli esempi più evidenti che perviene dalla letteratura è sicuramente l’Oliver

Twist di Charles Dickens, mentre, in riferimento all’immaginario cinematografico, mai

come nel periodo neorealista il personaggio comune, “del popolo”, ha avuto così tanto

risalto (si pensi ai grandi film italiani degli anni ’40 come “Roma città aperta” di

Rossellini, “Ladri di biciclette”di Vittorio de Sica e “Riso amaro” di De Santis). In

pubblicità l’archetipo dell’uomo e della donna qualunque è altrettanto utilizzato come

catalizzatore dell’attenzione del pubblico: il suo essere semplice, comune e al pari

livello del consumatore, infatti, agevola il meccanismo di immedesimazione ed

influenza presso quest’ultimo. Gli Everyperson, infatti, ripresi in slice of life

opportunamente costruite e lontane da atmosfere più lussureggianti e sofisticate, fanno

leva sul loro appeal di “comuni mortali” per coinvolgere il pubblico e aumentare la sua

propensione all’acquisto.

Organizzazioni “Everyperson” sono quelle che, allo stesso modo, trasmettono ai propri

clienti senso di appartenenza ad un gruppo, fiducia, autostima, amicizia; per

quest’ultimi non è importante sentirsi unici o speciali a tutti i costi. Le imprese che si

rifanno all’“Uomo Qualunque”, inoltre, assicurano un alto livello di benessere e dignità

e forniscono un forte senso di appartenenza presso i propri stakeholder. Esse sono

dedite creazione di gruppi di lavoro motivati nella loro attività, in cui regna una reale

comunione di valori e di intenti. I prodotti “everyperson” sono di solito usati tutti i

giorni. Esempi di imprese Everyperson pervengono da IKEA, Visa, ING Direct ecc.

Motto: tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali

Desiderio fondamentale: connettersi con gli altri

Obiettivo: appartenere ad un gruppo

Paura più grande: essere lasciato in disparte o spiccare nella folla

Strategia: sviluppare solide virtù ordinarie, avere i piedi per terra

Debolezza: perdere il proprio sé nello sforzo di assimilarsi agli altri

Talento: trasparenza, empatia, assenza di falsità

L’Uomo Qualunque è anche conosciuto come: l’orfano, la persona della porta

accanto, il “good old boy”, il realista, il lavoratore, il cittadino modello, il buon vicino,

il lavoratore ecc.

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L’EROE

L'eroe agisce coraggiosamente per migliorare una situazione che presenta limitazioni

e/o pericoli. Naturalmente determinato, razionale, concentrato, dimostra un

atteggiamento vincente e risoluto che spesso può motivare gli altri a raggiungere i suoi

obiettivi. Egli è attratto dal caos e dalla difficoltà poiché vi intravede la possibilità

dell'eroismo e gli è propria la capacità di “fare squadra” contro il nemico individuato.

L’Eroe è un archetipo che fonda le sue radici dalla notte dei tempi. Il mito dell'eroe

universale, ad esempio, si riferisce sempre a “un uomo potente o ad un uomo-dio che

annienta le forze del male materializzate in dragoni, serpenti, mostri, demoni e così via,

e che libera il proprio popolo dalla distruzione e dalla morte”264

. Ritroviamo la figura

dell’Eroe nella mitologia classica della Grecia e di Roma, nel Medioevo, nell'Estremo

Oriente e anche fra le tribù primitive contemporanee (Sargon a Babilonia, Mosè nella

Bibbia, Karna in India, Edipo, Danae e Perseo in Grecia, Romolo e Remo a Roma,

Sigfrido nell’Europa del nord, Rolando in quella occidentale del 700 ecc. ecc. ). Gli eroi

e le eroine contemporanee dei fumetti e dei cartoni animati (da Superman a Wonder

Woman) costituiscono un’evidenzia immediata di questo particolare tipo, laddove

possono altresì evocare tale figura la polizia, gli autisti di ambulanze, i vigili del fuoco

ecc. In pubblicità l’Eroe vanta una casistica corposa: esso può essere impersonato, ad

esempio, da atleti determinati a raggiungere un obiettivo sportivo, da semplici uomini e

donne impegnate nelle piccole-grandi sfide quotidiane ecc. ecc.

Le imprese “eroiche” sono quelle attratte dalla competizione: esse creano innovazioni

che hanno un grande impatto sul mercato, riuscendo, a volte, a contribuire alla soluzione

di problemi sociali e ad incoraggiare altri soggetti a perseguire la stessa causa. I loro

prodotti aiutano le persone a raggiungere i propri obiettivi e a sconfiggere delle

avversità ben precise. Il brand “Eroe” è difficilmente leader del mercato: esso è capace,

però, di porsi grandi obiettivi e di conseguirli tutti con grande determinazione e grande

tenacia e senso di rivalsa curando, al contempo, l’aspetto del “fare squadra” e del

sentirsi parte di un gruppo unito ed omogeneo. Esempi di marche “eroiche” sono Nike,

Champion, Sector, ecc.

264

C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 60.

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Motto: dove c’è la volontà, c’è una via

Desiderio fondamentale: dimostrare il proprio valore attraverso atti coraggiosi

Obiettivo: diventare esperto in qualcosa che migliori il mondo

Paura più grande: debolezza, vulnerabilità, essere codardi

Strategia: essere il più forte e competente possibile

Debolezza: arroganza, il bisogno di avere sempre una battaglia da combattere

Talento: competenza e coraggio

L’eroe è anche conosciuto come: il guerriero, il crociato, il salvatore, il supereroe, il

soldato, l’uccisore di draghi, il vincitore e chi lavora bene in squadra

L’ANGELO CUSTODE

L'archetipo dell’Angelo Custode (Caregiver) è una figura altruista, motivata dal

desiderio di aiutare gli altri e proteggerli dal male e dai pericoli della vita. I Caregiver

sono gratificati quando possono fare la differenza per qualcun altro. Compassionevoli e

servili per inclinazione, essi sono intenti a dimostrare la loro volontà nel sostegno e

possono anche indurre gli altri a fornire un servizio o una cura migliore. Sono di solito

sempre pronti e ben disposti ad andare incontro ai bisogni dell’altro (anche a costo di

sacrificare se stessi) e sono spesso tesi alla costruzione di ambienti stabili e sicuri dove

sostenere il prossimo con cure e attenzioni di ogni genere. Gli esempi, limitandoci alla

nostra contemporaneità, includono figure sante e filantrope come Madre Teresa di

Calcutta, Martin Luther King, le categorie dei medici, degli infermieri, dei volontari,

degli assistenti sociali, la figura della madre o del padre premuroso all’interno di uno

spot televisivo ecc ecc.

Le aziende “Caregiver” sono quelle capaci di offrire ai propri clienti e ai propri

dipendenti assistenza e servizi di alto livello, costruendo ambienti lavorativi accoglienti

e vivibili e facendo sentire i propri stakeholder “a casa propria”. Nella comunicazione

esse non sono mai ruvide o aggressive ma piuttosto genuine e naturali e fanno leva

sull’empatia e la fiducia. I brand Caregiver si contraddistinguono per il loro interesse

manifesto verso l’incolumità e il benessere del prossimo e per la realizzazione di

prodotti che preservano la salute dei consumatori e che permettono loro di stare in

contatto e prendersi cura l’uno dell’altro.

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Imprese “Angelo Custode” sono, tra le altre: Chicco, Pampers, Volvo ecc.

Motto: ama il tuo prossimo come te stesso

Desiderio fondamentale: proteggere e curare gli altri

Obiettivo: aiutare gli altri

Paura più grande: egoismo e ingratitudine

Strategia: fare qualcosa per gli altri

Debolezza: il martirio e l’essere sfruttato

Talento: compassione e generosità

L’angelo custode è anche conosciuto come: il santo, l’altruista, il genitore, l’aiutante,

il sostenitore ecc.

L’ESPLORATORE

L'Esploratore vuole scoprire e conoscere nuovi ambienti allo scopo di raggiungere e

mantenere l’indipendenza. Per natura autonomi, autentici, curiosi e volitivi gli

Esploratori sono in grado di seguire percorsi unici e motivare gli altri ad esplorare

territori sconosciuti; essi sono di solito entusiasti per l'opportunità di tracciare un

sentiero nuovo. La loro esplorazione può essere geografica - come lo è stata per

Cristoforo Colombo, Marco Polo e la flotta di Star Trek – ma può anche essere interna,

come nel caso di un individuo che venga a conoscenza di informazioni su se stesso e

sulla sua stessa vita. L’Esploratore è sempre aggiornato sulle ultime tendenze e

incoraggia l'iniziativa individuale fornendo gli altri l'opportunità di imparare e di

crescere. Questo atteggiamento, dal canto suo, nasconde spesso irrequietudine e

indolenza. Ulisse è l’esempio tipico della mitologia e della letteratura classica ma anche

Francis Crick e James Watson, i biologi molecolari scopritori della struttura del DNA,

evocano evidentemente la figura dell’Esploratore. Così come, d’altronde, essa è

perpetrata nell’advertising laddove, ad esempio, il personaggio di un messaggio

promozionale è intento a scoprire, attraverso l’acquisto e il consumo del prodotto

reclamizzato, nuove percezioni, ambientazioni ed esperienze di vita inedite .

Le imprese “Explorer” sono sempre alle prese con nuove sfide e nuovi obiettivi; esse

sono tese al continuo aggiornamento sugli ultimi trend nell’ottica di una incessante

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innovazione e di una continua crescita dell’organizzazione. I brand “esploratori” fanno

sentire i propri consumatori liberi, autonomi e anticonformisti laddove i loro prodotti

sono tipicamente contraddistinti da una natura forte e selvaggia. Ne sono degli esempi i

marchi: Jeep, Discovery Channel, Land Rover ecc.

Motto: non recintarmi

Desiderio fondamentale: la libertà di scoprire chi si è esplorando il mondo

Obiettivo: fare un’esperienza migliore, più autentica e appagante della vita

Paura più grande: essere intrappolato, la conformità e il vuoto interiore

Strategia: viaggiare, cercare e far esperienza del nuovo, scappare dalla noia

Debolezza: vagare senza meta, diventare un disadattato

Talento: autonomia, ambizione e sincerità con se stessi

L’Esploratore è anche conosciuto come: il cercatore, l’iconoclasta, il girovago, il

pioniere, l’individualista, il pellegrino ecc.

Il RIVOLUZIONARIO

I Rivoluzionari sono individui dall’attitudine essenzialmente ribelle la cui soddisfazione

consiste nel riuscire a cambiare un determinato status quo che necessita di un

mutamento. Spesso pensatori non convenzionali e originali, i Rivoluzionari possono

sviluppare nuovi approcci e paradigmi. Essi danno il meglio di loro stessi sfidando la

situazione corrente e motivando gli altri a pensare in modo diverso.

Il Rivoluzionario (Revolutionary o anche Rebel) spesso riesce a sviluppare, inoltre, idee

veramente e radicali che hanno delle ricadute su un intero gruppo di persone. Egli è un

“cane sciolto” che si ribella e rompe le regole e trae soddisfazione anche dall’essere “il

cattivo della situazione” ed incutere un certo timore presso gli altri.

Nella mitologia Lucifero è il ribelle per eccellenza, mentre, ai giorni nostri, personaggi

famosi come i Rolling Stones, Madonna e Jack Nicholson ne proseguono in qualche

modo il motivo. Quella del Ribelle, altresì, è mai come negli ultimi anni una figura

imperante in pubblicità dal momento che sono numerose le marche che, nella loro

comunicazione, decidono di posizionarsi nel versante della trasgressione,

dell’indipendenza e dell’originalità a tutti i costi.

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Anche la categoria dell’imprenditore, infine, nel momento in cui egli, nell’esercizio

della sua attività, si trova a rompere con il passato al fine di iniziare qualcosa di

innovativo (lanciando ad esempio un nuovo prodotto sul mercato) può rimandare alla

figura del Rivoluzionario.

Le aziende rivoluzionarie, infatti, sono quelle aziende che riescono a sviluppare idee

realmente originali e profondamente innovative, attraverso un’organizzazione votata a

sviluppare un ambiente libero, creativo e, allo stesso tempo, efficiente. I prodotti

“rivoluzionari” sono quelli che sostanzialmente vanno contro i valori, gli atteggiamenti

e modi di pensare allo scopo di affermare la propria identità e la propria moralità (anche

se quest’ultima non è invisa alla maggior parte delle persone). Consumatori e impiegati

collegati ad imprese “Rebel”, in tal senso, si sentono spesso estranei ai valori correnti

della società e del mercato, sentendosi piuttosto consonanti con i valori del brand.

Esempi di marchi Ribelli sono dati da: Harley Davidson, Sarah Chole ecc.

Motto: le regole sono fatte per essere infrante

Desiderio fondamentale: vendetta o rivoluzione

Obiettivo: capovolgere quello che non funziona

Paura più grande: essere privo di potere o inefficace

Strategia: disturbare, distruggere o scioccare

Debolezza: passare al lato oscuro, rendersi autore di un crimine

Talento: forte vocazione alla libertà

Il rivoluzionario è anche conosciuto come: il ribelle, l’uomo selvaggio, il disturbatore,

l’iconoclasta, l’irriverente, il cane sciolto ecc.

L’AMANTE

L’archetipo dell’amante è in perenne ricerca - e offerta - di amore attraverso la

costruzione di relazioni. L’Amante si occupa di stare vicino alle persone, ai luoghi e alle

attività che egli ama. Questi individui sono per inclinazione riconoscenti, appassionati

ed impegnati e sono gratificati nel creare consenso e nel motivare altri soggetti a

scoprire e utilizzare i loro doni speciali. Gli amanti sono per inclinazione tesi godere

della ricchezza e della pienezza della vita e dei piaceri derivanti dal corpo. Rifacendoci

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alla mitologia, alla religione e alla letteratura sono centinaia gli esempi di Amanti

celebri - da Adamo ed Eva ad Apollo e Dafne, da Tristano e Isotta a Romeo e Giulietta

– ma allo stesso tempo diverse star di Hollywood incarnano – ed hanno incarnato nel

recente passato – questa figura, per esempio, all’interno dei circuiti pubblicitari

collegati soprattutto a prodotti di cosmesi (si pensi a sex symbol del calibro di Marilyn

Monroe, Nicole Kidman e Brad Pitt che hanno legato la loro immagine a quella della

prestigiosa marca di profumo Chanel N°5).

Imprese di tipo “Lover” - in cui rientrano i cosiddetti lovemark - fanno spesso

affidamento sulle sensazioni e sulla creazione di esperienze multi-sensoriali in cui il

corpo (e il sesso) rivestono un ruolo importante. Esse, inoltre, sono molto interessate a

costruire una reale partnership tra dipendenti e clienti, considerare le possibilità di una

maggiore qualità della vita all'interno e all'esterno del luogo di lavoro, e ideare metodi e

luoghi armoniosi per lavorare meglio insieme (si pensi alle politiche incentrate sul

miglioramento del workplace dei dipendenti). Esempi di imprese “Lover” sono L’Oréal,

Alfa Romeo, Chanel, ecc.

Motto: tu sei l’unico

Desiderio fondamentale: intimità ed esperienza

Obiettivo: essere in relazione con le persone, il lavoro e gli ambienti amati

Paura più grande: essere solo, timido, non voluto, non amato

Strategia: diventare sempre più attraente dal punto di vista fisico ed emotivo

Debolezza: desiderio di compiacere gli altri a rischio di perdere la propria identità

Talento: passione, gratitudine, apprezzamento ed impegno

L’Amante è anche conosciuto come: il partner, l’amico, l’amante, l’entusiasta, il

sensuale, lo sposo, l’edonista ecc.

IL CREATIVO

I soggetti “Creativi” traggono soddisfazione nel vedere nuove idee prendere forma. Di

inclinazione espressiva, originale, fantasiosa e trasognante, essi si compiacciono nel

mostrare la loro inventiva e spesso sono in grado di far maturare il pensiero creativo in

altri individui. I Creativi sono affascinati da tutte le opportunità di esprimersi o di

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avanzare nuove idee e proposte. Spesso questo archetipo è associato alla figura

dell’artista, dello scrittore, del compositore, dell’inventore ecc. Omero, Leonardo da

Vinci e Mozart sono le personalità che più evidentemente aderiscono a questa figura,

laddove nella contemporaneità, attenendoci, ad esempio al campo dei grandi

imprenditori, evidenze lampanti di Creativi sono Steve Jobs – vero e proprio mito legato

ad Apple –, Niklas Zennstrom, co-fondatore di Kazaa e Sky, e Mark Zuckerberg,

fondatore di Facebook.

Organizzazioni Creative, pertanto, sono proprio quelle che riescono a sviluppare

prodotti e servizi distintivi e originali e/o nuove soluzioni innovative a problemi

esistenti. Esse si contraddistinguono per una natura fantasiosa ed anticonformista:

cercano e offrono ai propri clienti diverse alternative ed opzioni nell’ottica di esercitare

l’espressività e la libertà di scelta in ogni circostanza, strizzando l’occhio

all’innovazione, nonché all’aspetto artistico al fine di stabilire un vero e proprio circolo

virtuoso di creatività.

Le imprese “Creator” capaci di creare, altresì, un contesto fertile che possa incentivare

la creatività dell’organizzazione e, allo stesso tempo, in grado di lasciare spazio

all’iniziativa individuale (laddove, ovviamente, questa sia presente nel consumatore e

nel caso in cui quest’ultimo abbia abbastanza tempo da dedicare alla sua dimensione

creativa). Esempi di imprese creative sono, Lego, Mac, Sony ecc.

Motto: se puoi immaginarlo, puoi realizzarlo

Desiderio fondamentale: creare cose di valore e durature nel tempo

Obiettivo: realizzare una visione ed esprimerla, creare cultura

Paura più grande: avere un’ispirazione o un’esecuzione mediocre

Strategia: sviluppare capacità artistiche

Debolezza: perfezionismo estremo, cattive soluzioni

Talento: creatività e immaginazione

Il Creativo è anche conosciuto come: l’artista, l’inventore, l’innovatore, il musicista,

lo scrittore, il sognatore ecc.

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IL GIULLARE

I Giullari sono per natura giocosi, spontanei, irriverenti, scanzonati e divertenti; amano

la spensieratezza e la sincerità e possono condurre altri individui ad apprezzare il valore

del divertimento e dell’ironia. Il Giullare, chiamato di solito in causa per alleggerire

situazioni ansiogene, stressanti e/o imbarazzanti, spesso dice cose che altri non hanno

l’ardire di proferire e, grazie alla sua franchezza e alla sua naturalezza, può avere

un’influenza molto forte su chi lo circonda. Nell’immaginario collettivo quelli più

immediatamente riconducibili a questo tipo sono i giullari di corte, i quali hanno

caratterizzato diverse epoche storiche; in anni più recenti, invece, il cinema ha incarnato

questa figura, con personaggi quali Joker (interpretato da Heath Ledger), Jack Sparrow

(Johnny Depp) , Borat (Sacha Baron Cohen) ecc. ecc. Nella pubblicità il Giullare è una

figura “euforica” ricorrente: si pensi ad esempio a tutte le situazioni in cui si inneggia

alla spensieratezza del vivere, al valore del divertimento, della leggerezza, della pausa

ecc.

I brand “giullari” vanno incontro al desiderio di tutti i consumatori (o quasi) ovvero

quello di volersi divertire e stare in contatto con altri soggetti; attraverso la

ridicolizzazione delle convenzioni e l’informalità, essi diventano catalizzatori del

cambiamento.

Le imprese che riferiscono a questo particolare archetipo, di solito sono quelle che

praticano tecniche di brainstorming e fanno pensare fuori dagli schemi la loro politica

aziendale al fine di trovare modi intelligenti per aggirare gli ostacoli e divertirsi nel

mentre si lavora per raggiungere gli obiettivi prefissati. Esempi di brand “Jester” sono

rappresentati da Snickers, Diesel ecc.

Motto: si vive una sola volta

Desiderio fondamentale: vivere nel presente divertendosi

Obiettivo: passare bei momenti e illuminare il mondo

Paura più grande: annoiarsi o annoiare gli altri

Strategia: giocare, fare scherzi, essere divertenti

Debolezza: frivolezza, perdita di tempo

Talento: solarità

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Il Giullare è anche conosciuto come: il folle, il prestigiatore, il pagliaccio, il comico

ecc.

IL SAGGIO

L’archetipo del saggio riferisce ad individui che traggono soddisfazione dal fornire le

risposte alle grandi domande della vita. Essi sono intelligenti, riflessivi, acculturati,

informati e possono motivare gli altri a cercare la Verità. Il Saggio si trova a suo agio

all’interno di situazioni e problemi che hanno bisogno di essere meglio compresi; egli

aiuta le persone a capire il loro mondo e la strada da seguire. Platone e Confucio, sono

saggi per eccellenza, ma questo archetipo è ricorrente in moltissime forme265

, basti

pensare a tutti quei personaggi della Storia, delle leggende, dei miti, della religione,

della letteratura, del cinema e, in ultimo, della pubblicità che appaiono come faro

intellettuale e guida spirituale per gli individui – o per gli interi gruppi di persone - con i

quali si trovano ad agire. Essi sono generalmente “incarnati” da uomini e donne anziani,

dotati di grande carisma, autorevolezza e cultura e dispensatori di consigli,

ammonimenti e soluzioni a problemi particolarmente intricati.

Imprese sagge sono soprattutto quelle che riescono a sviluppare competenze

significative da elargire a terzi, nonché quelle che si dedicano in maniera particolare alla

raccolta e all’analisi dei dati in modo che questi siano utili per l’azienda stessa, per i

suoi stakeholders e per la collettività tutta in cui ci si trova ad operare. Esse

incoraggiano i loro clienti a pensare e realizzano prodotti di alta qualità. Esempi di

imprese “Sage” sono: The New York Times, MIT ecc. ecc.

Motto: la Verità ti renderà libero

Desiderio fondamentale: trovare la Verità

Obiettivo: usare l’intelligenza e l’analisi per capire il mondo

Paura più grande: l’ignoranza, essere ingannato, fuorviato,

265

si pensi soltanto alle recenti vicissitudini politiche in Italia, dove, dopo le elezioni politiche del 24 e 25

Febbraio 2013 e la sopraggiunta ingovernabilità del Paese, il Presidente della Repubblica Giorgio

Napolitano ha convocato a sé, con grande clamore mediatico, i cosiddetti “dieci saggi” – uomini di

politica e professionisti appartenenti a diversi partiti – al fine di trovare una soluzione all’emergenza

politica post-elezioni.

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Strategia: cercare informazioni e conoscenza, riflettere e capire i processi del pensiero

Debolezza: studiare i dettagli all’infinito senza mai agire

Talento: saggezza, intelligenza

Il Saggio è anche conosciuto come: l’esperto, lo scolaro, il detective, il pensatore, il

filosofo, l’accademico, il ricercatore, il pensatore, il pianificatore, il mentore,

l’insegnante ecc.

IL MAGO

Il ruolo del Mago è principalmente quello di trasformatore. Uno dei temi di fondo di

questo particolare archetipo è scoprire le leggi dell'universo al fine di far accadere le

cose. Il Mago, a volte ricoperto da un alone di mistero, è gravido di intuizioni e presta

molta attenzione alle coincidenze significative. Egli trae soddisfazione da una

previsione o da un’intuizione realizzata. Naturalmente intelligenti, intuitivi, astuti e

perspicaci, i Maghi sono in grado di percepire molteplici prospettive e cogliere diverse

opportunità intorno ad una stessa situazione, motivando gli altri a credere che nulla è

precluso e che tutto è possibile. Essi, inoltre, si esaltano in condizioni di particolare

fermento e trasformazione.

Solo per citare due esempi della Storia del ‘900, Nelson Mandela e Ken Saro-Wiwa

sono due figure che rispondono perfettamente all’archetipo del Mago.

Ad evocare questa figura nei giorni nostri, invece, potrebbe essere invece un normale

chirurgo estetico o un personal trainer; allo stesso modo accade con annuncio stampa in

cui il prodotto cosmetico promette risultati entusiasmanti ai suoi acquirenti.

Le imprese che si rifanno all’archetipo del Mago realizzano prodotti innovativi che sono

in grado di far approdare i propri clienti in una dimensione fino a quel momento

inusitata e di trasformare la loro identità e il loro mondo. Essi di solito sono molto

all’avanguardia sebbene facili da utilizzare.

“Magiche”, inoltre, sono quelle imprese catalizzatrici del cambiamento, nonché della

collaborazione sinergica con altre aziende. Esse di solito trasformano problemi in

opportunità, ridimensionano difficoltà a prime vista insuperabili, concedono spazio alle

persone, formano gruppi e reti di imprese attraverso un meccanismo di tipo win/win che

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assicura soluzioni flessibili per tutti i soggetti coinvolti. Ne sono degli esempi marchi

come Svelto, Apple ecc.

Motto: Io faccio accadere le cose

Desiderio fondamentale: capire le fondamentali leggi dell’universo

Obiettivo: realizzare i sogni

Paura più grande: conseguenze negative fortuite

Strategia: sviluppare una visione e vivere in accordo a questa

Debolezza: diventare un manipolatore

Talento: trovare soluzioni vincenti per tutti

Il mago è anche conosciuto come: il visionario,, il leader carismatico, lo sciamano, il

guaritore ecc.

IL SOVRANO266

266

Operazione simile a quella della Pearson – anche se rispetto ad essa molto più limitata e specifica – è

quella portata avanti da Calamandrei nel libro Archetipi d’impresa, Istruzioni per uno sviluppo “eroico”

della piccola impresa, uno studio che ha come oggetto l’interessante e peculiare universo delle piccole

imprese di artigianato localizzate nella regione Toscana. Intendendo gli archetipi d’impresa come quelle

attitudini e quegli “argomenti-chiave ai quali l’impresa e sensibile e fa [e potrebbe fare] prevalentemente

riferimento”, nonché come portato di valori e azioni tramandato nei decenni attraverso l’”humus”

imprenditoriale del luogo, Calamandrei stila una lista di 9 archetipi rispecchianti le imprese del tessuto

artigianale locale. Segnatamente essi sono: L’Artista, ossia l’archetipo che ispira gli artigiani con

particolari doti creative e dalla personalità artistica la cui attitudine è quella di realizzare prodotti unici e

riconoscibili per la loro raffinata e personale manodopera, in grado di trasmettere emozioni e suggestione

nei pressi degli acquirenti (la loro meta è “Affermare la propria personalità”); Il Conquistatore è

l’archetipo nel cui alveo rientrato quelle imprese particolarmente solerti nell’aggressione di mercati

emergenti, specie di quelli internazionali, attraverso una politica di alta qualità dei prodotti (il suo motto

è: “Conquistare nuovi mercati geografici sorprendendoli”); Il Seduttore è l’archetipo di quelle imprese

fanno del loro marchio una vera e propria Griffe, non solo attraverso manodopera d’autore, ma soprattutto

con la ricerca e con politiche industriali mirate a costruire una larga riconoscibilità dei prodotti grazie alla

loro originalità e spesso anche grazie alla personalità e alla biografia dell’imprenditore (il suo motto è:

“Diventare un simbolo”); Il Maestro è l’archetipo che conduce le imprese a realizzare prodotti di qualità

eccelsa – anche se tra loro similari - sulla scorta dell’insegnamento degli antichi artigiani locali (il motto è

“fare le cose a regola d’arte”); Il Tipico, simile al Maestro ma specializzato nel settore alimentare e con

una più spiccata propensione alla relazione diretta con in consumatore finale (il suo motto è “Fare le cose

buone di una volta”); Il Diversificatore, che fa riferimento a quelle imprese artigianali la cui struttura

produttiva è molteplice (ad esempio un’impresa con un marchio proprio che contemporaneamente

produce anche per terzi), tale da consentire una maggiore stabilità e longevità dell’attività imprenditoriale

(il motto è “cercare la sicurezza attraverso una pluralità di aree d’affari”; Il Diversificatore qualificato,

simile al Il Diversificatore ma con una spiccata propensione alla qualità dei prodotti e dei servizi inerenti

alle aree in cui è impegnato ( il motto è: ”Cercare sicurezza su più aree d’affari ma facendosi riconoscere

per la propria qualità”); L’Anonimo è l’archetipo che fa riferimento alle imprese con una caratterizzazione

identitaria scarsa o nulla, le quali danno vita a prodotti “normali” attraverso competenze tecniche e know-

how non eccellenti, ma venduti ad un prezzo conveniente (il suo motto è:”Fare quel che ci viene chiesto

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Il Sovrano (The Ruler, secondo la terminologia di Pearson) è colui che mira al controllo

e al potere creando l'ordine a partire caos. I Sovrani traggono la loro soddisfazione dalla

dimostrazione della loro leadership, dal governo delle situazioni complesse e

dall’incidenza del loro ascendente sugli altri individui. Per predisposizione carismatici,

fiduciosi, competenti e responsabili, fanno spesso sfoggio del loro buon senso e

riescono a motivare gli altri a dare il meglio di loro stessi.

La Storia è ricca di esempi di grandi Sovrani: da Ramses II a Luigi XIV passando per

Akbar e Carlo Magno, fino ad arrivare, in epoche più recenti, a Margaret Thatcher e

Barack Obama. In pubblicità il Sovrano è spesso percepito in maniera “disforica” e

inteso come emblema di un potere sceso dall’alto, di una costrizione all’interno di

regole ferree le quali, come espressioni della limitazione della libertà dell’individuo,

sono da combattere a tutti i costi (attraverso il consumo di determinati beni o servizi,

ovviamente).

Le imprese Sovrano sono spesso leader del mercato, cosa che offre presso gli

stakeholder un senso di stabilità e sicurezza in un mondo caotico e cangiante. I prodotti

“Sovrano” sono generalmente prodotti di alta qualità e duraturi nel tempo: essi aiutano i

consumatori a sentirsi più sicuri e ad essere più organizzati. Organizzazioni “Sovrano”,

inoltre, hanno maggiore successo quando possono prendere decisioni i cui benefici

coinvolgono altri soggetti. Esse usano la loro leadership e la loro influenza per ottenere

risultati positivi e per raggiungere e mantenere ordine e potere. Spesso esse sono un

esempio da seguire per le altre imprese e per i consumatori stessi.

Esempi tra i brand che assurgono a questo particolare archetipo sono: Rolls Royce,

BMW ecc.267

nel modo più economico possibile”); Il Prigioniero, corrispondente alle imprese che sono imbrigliate nel

loro eccessivo tradizionalismo del modus operandi, della produzione, delle relazioni ecc, un

tradizionalismo che si traduce in vero e proprio immobilismo e all’inevitabile disadattamento, prima, ed

espulsione poi, dal mercato (Il suo motto è “fare le cose così come le abbiamo sempre fatte”).

Calamandrei, per validare la bontà della sua schematizzazione, ci tiene a sottolineare come essa sia stato

frutto di diversi focus group interprovinciali cui hanno partecipato imprese e professionisti del settore.

Egli, infine, afferma come tali archetipi possano essere molteplici all’interno della stessa impresa nel

tempo, nonché talvolta concomitanti, laddove il processo di formazione della propria identità può

richiedere all’impresa l’uso di un vero è proprio mix di archetipi. Cfr. D. CALAMANDREI, Archetipi

d’impresa, Istruzioni per uno sviluppo “eroico” della piccola impresa, Franco Angeli, Milano, 2010 267

Sempre per quanto concerne studi italiani, si veda anche Lombardi , il quale elabora un modello basato

anch’esso su 12 archetipi d’impresa, ognuno corrispondenti a delle specifiche qualità, e che si articolano

in: Il Saggio (generosità), il Padre (autorevolezza), la Madre (generosità), l’Angelo (l’innocenza), la Fata

(il piacere), l’Esploratore (la scoperta), il Creativo (la creazione), il Mago (la trasformazione), il

Guardiano (la protezione), l’Amico (l’amicizia), il Guerriero (il potere) e l’Innamorato (il romanticismo).

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Motto: il potere non è tutto, è l’unica cosa che conta

Desiderio fondamentale: controllo

Obiettivo: creare una famiglia o una comunità prosperosa e di successo

Paura più grande: caos, essere detronizzato

Strategia: l’esercizio del potere

Debolezza: essere autoritario, incapace di delegare, imbrogliarsi in eccessive gerarchie

e lungaggini burocratiche

Talento: responsabilità, attitudine alla leadership

Il Sovrano è anche conosciuto come: il capo, il leader, l’aristocratico, il re, la regina, il

politico, il manager, l’amministratore ecc.

3.1 L’analisi delle mission e delle vision dei brand contemplati nel modello

Per validare lo studio proposto sugli archetipi come personalità d’impresa, infine,

abbiamo proceduto alla verifica “sul campo” degli aspetti linguistici collegati alle

mission e alle vision delle imprese proposti come esempi all’interno del frame work.

Nella fattispecie, si sono messe in evidenza, per ciascun testo, le parole-chiave e i

contenuti semanticamente aderenti alle peculiarità dell’archetipo a cui il brand stesso

riferisce. Ove riscontrata una netta difformità di contenuti, inoltre, si è operato una

sostituzione dell’esempio in questione, attraverso la ricerca di imprese i cui valori

fossero calzanti con le linee guida delineate nel modello.

Questo il materiale rintracciato sul Web:

COCA COLA (Innocente)

“Da sempre rinfreschiamo i nostri consumatori nel corpo e nello spirito, con la volontà

di trasmettere ottimismo attraverso le nostre scelte ed i nostri prodotti: vogliamo creare

valore e fare davvero la differenza in qualunque iniziativa intraprendiamo. Leadership,

collaborazione, integrità, affidabilità, passione, innovazione e qualità: ciò che anima

Cfr. M. LOMBARDI, Il nuovo manuale di tecniche pubblicitarie, Franco Angeli, Milano, 1998.

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l'universo Coca-Cola va oltre il marchio e significa affrontare ogni scelta in modo

ottimista.”268

IKEA (Uomo Qualunque)

“I nostri valori e la passione per la vita quotidiana in casa ci guidano in tutto quello

che facciamo. Ogni prodotto che creiamo è un’idea per migliorare la casa. Il Gruppo

IKEA ha 298 negozi in 26 paesi.

Vision: La nostra visione strategica, creare una vita quotidiana migliore per la

maggioranza delle persone, è sostenuta dalla nostra idea commerciale: offrire un vasto

assortimento di articoli d’arredamento funzionali e di buon design a prezzi così

vantaggiosi da permettere al maggior numero possibile di persone di acquistarli.

Cerchiamo di coniugare qualità e prezzi accessibili ottimizzando la catena del valore,

stabilendo relazioni a lungo termine con i fornitori, investendo nell’automazione

industriale e producendo in grandi volumi. Ma la nostra visione strategica non

riguarda solo l’home furnishing. Vogliamo creare una vita quotidiana migliore per

tutte le persone interessate dal nostro business.”269

NIKE (Eroe)

“La nostra mission: portare ispirazione e innovazione per ogni atleta nel mondo”.270

CHICCO (Angelo Custode)

“La felicità è un viaggio che inizia da piccoli. C’è un mestiere più bello che far

sorridere un bambino?

Secondo noi, no. Forse è per questo che ci sembra ancora il migliore del mondo. E ci

sentiamo fortunati perché possiamo pensare ogni giorno a come farlo. Così, ogni cosa

che pensiamo nasce con un solo scopo. Arrivare un giorno in una casa, incontrare un

bambino e renderlo felice.

268

http://www.coca-colaitalia.it/default.aspx 269

http://www.ikea.com/ms/it_IT/about-the-ikea-group/company-information/index.html 270

http://nikeinc.com/pages/about-nike-inc

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Per noi, non c'è nulla che valga più di questo. Perché sappiamo che in cambio avremo

il regalo più bello del mondo. Il sorriso di un bambino.”271

JEEP (Esploratore)

“The iconic Jeep ® brand is recognized the world over — forever tied to freedom,

capability and adventure. Every Jeep vehicle has a unique story to tell, with a rich

heritage that links back to the original Willys MA.”272

DIESEL (Rivoluzionario)273

271

http://www.chicco.com/AboutChicco/Mission/tabid/117/language/it-IT/Default.aspx 272

http://www.jeep-official.it/life.html#jeep_history 273

Il modello inscriveva Diesel nell’archetipo del Giullare, laddove esso sembra essere più attinente a

quello del Ribelle/Rivoluzionario. Passando in rassegna le campagne Diesel - da quelle più recenti a

quelle risalenti ai primissimi anni ’90 - risulta evidente il leit motiv dell’attitudine all’irriverente e al

dissacrante, ma, soprattutto, alla rivoluzione intesa come originalità, spirito di iniziativa e trasgressione

delle regole e dei costumi vigenti. L’aderenza della comunicazione esterna Diesel ai valori fondativi del

brand e del suo storico fondatore Renzo Rossi, ossia esprimersi in libertà, seguire la propria strada unica e

irripetibile e non omologarsi ai trend, sembra, dunque, non essere messa in discussione. Lo testimoniano

perfettamente, solo per fare alcuni esempi, il primo spot della campagna “for successful living” del 1997,

quello del profumo “Fuel for life Spirit” della primavera 2013 e l’ultima campagna stampa lanciata

nell’Agosto del 2013 dal titolo “reboot”, ovvero “riavvio”. Lo spot, ambientato nel vecchio West di fine

‘800 (che strizza l’occhio alle ambientazioni “spaghetti western” delle celebri pellicole di Sergio Leone)

inscena il più classico dei duelli armati tra il personaggio buono, virtuoso e di bell’aspetto e “il cattivo”,

rozzo, grasso e burbero che si risolve, sorprendentemente, con la vittoria di quest’ultimo, ad esprimere

una rottura netta, sia dal punto di vista del “capovolgimento timico” legato ai valori e ai disvalori

rappresentati, sia del format narrativo classico legato al particolare genere letterario-cinematografico in

questione. L’altro spot Diesel, invece, questa volta legato al profumo “Fuel for life Spirit”,esprime alla

perfezione il concetto di libertà, espressione e realizzazione di se stessi rappresentando la scena di un

gruppo di ragazzi che, irrompendo in piena notte in una soporifera tavola calda, convince la giovane e

avvenente barista ad unirsi a loro nel ballo senza alcuna inibizione (con tanto di salita sui tavoli del

locale) e , alla fine, a licenziarsi e fuggire assieme su di una sfrecciante decappottabile. La campagna

stampa di cui sopra, infine, nasce appunto dal concetto di “riavvio” e di “costruzione a partire dalla

decostruzione” - non a caso Diesel ha recentemente cambiato il suo direttore creativo - e sceglie di non

utilizzare modelli per gli scatti, bensì professionisti del campo della moda, del design e della street art

(alcuni di loro vistosamente in sovrappeso) raggiungendo il massimo del clamore con un annuncio

raffigurante una giovane donna tuatuata e seminuda, vestita solo da un burka, il cui headline recita “I am

not what i appear to be” (annuncio che ha provocato inevitabili e durissime polemiche, soprattutto

provenienti dal mondo islamico). Verosimilmente, l’esempio di Diesel ascritto inizialmente all’archetipo

del Giullare è dovuto all’affinità di fondo che, in termini comunicativi, accomuna quest’ultimo con

l’archetipo del Rivoluzionario/Ribelle e, con tutta probabilità, all’analisi della famosa campagna Diesel

“Be Stupid” del 2010 in cui il valore della trasgressione era espresso con toni e parole-chiave in effetti

molto vicine semanticamente alla dimensione “Jester”. La campagna poteva, a ragione, far pensare ad una

Diesel Giullare laddove essa, come abbiamo visto, è decisamente e coerentemente Ribelle.

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We're currently recruiting for several positions throughout the world.

Whatever you're into, as long as you have passion, an insatiable love for fashion and

will do almost anything to get into Diesel (or even if you just have the innate ability to

break the rules): Email your CV, Covering letter and a shot of yourself to the email

address below274

.

THE BEERS (Amante)275

"There are no measurements to describe how to find your perfect diamond. However

important the 4 C`s are - beauty is the only arbiter. All diamonds should show Fire,

Life, and Brilliance. Fire is the beautiful rainbow effect that is produced by the

dispersion of light, Life is the scintillation and sparkle when you move the stone in front

of your eyes, and Brilliance is the brightness of the diamond due to reflected white light

when the diamond is still. Ultimately though, it is the diamond that chooses you."

Andrew Coxon, President of the De Beers Institute of Diamonds”276

LEGO (Creativo)

“Missione:

"ispirare e sviluppare i costruttori del domani"

Il nostro scopo è ispirare ed educare i bambini a pensare creativamente, ragionare in

modo sistematico e realizzare il loro potenziale, plasmando il loro futuro e

sperimentando le infinite possibilità umane.

“Visione:

"inventare il futuro del gioco"

Desideriamo sperimentare nuovi modi di giocare, nuovi materiali di gioco e modelli di

274

http://www.diesel.com/jobs 275

L’esempio contemplato nel modello per l’archetipo dell’Amante è L’Oréal il quale, però, ci è sembrato

molto più attinente alla sfera del Sovrano. La scelta, dunque, è ricaduta su De Beer, che costituisce a

nostro parere un esempio molto più calzante rispetto a quello originario. 276

http://www.debeers.com/about-de-beers

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business, facendo leva sulla globalizzazione e la digitalizzazione... non è solo una

questione di prodotti, ma vogliamo realizzare le infinite potenzialità delle persone.”277

CHUPA CHUPS (Giullare)278

LIFE LESS SERIUOUS

“Welcome to the official Chupa Chups Australia website! Please enjoy our page as we

continue with our mission to encourage more people to live a Life Less Serious.

Chupa Chups are a delicious confectionery treat that throughout its history has bought

happiness to people of all ages. It combines a strong sense of tradition with

contemporary creativity and innovation.

The brand has a strong personality and unique relationship with it’s consumers which

has set hundreds of pleasurable and fun stories rolling.”279

THE NEW YORK TIMES (Saggio)

“The core purpose of The New York Times is to enhance society by creating, collecting

and distributing high-quality news and information. Producing content of the highest

quality and integrity is the basis for our reputation and the means by which we fulfill

the public trust and our customers’ expectations.”280

SVELTO (Mago)

“UN POSTO MAGICO CHIAMATO MONDO DI SVELTO”

Benvenuti nel Mondo di Svelto!Questo è un luogo in cui la magia di Svelto regna su

ogni coltello e forchetta, su ogni tazza e piattino, padella e pentolino. È un mondo in cui

i nostri sogni di stoviglie si realizzano grazie all'aiuto di Svelto: stella del nostro

universo, in grado di porre fine a tutti i nostri problemi di stoviglie.

277

http://aboutus.lego.com/it-it/lego-group/mission-and-vision 278

Qui il modello prevedeva Diesel che, come detto, è stato spostato nell’archetipo del Rivoluzionario.

Chupa Chups, invece, sembra rappresentare perfettamente le caratteristiche e i dettami del Giullare. 279

http://www.chupachups.com.au/ 280

http://www.nytco.com/who-we-are/culture/standards-and-ethics/

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Qui troverete di tutto, dagli scolapasta ai taglieri, dalle pentole ai cucchiai, ciascuno

con una personalità diversa e un problema da raccontare. Troverete soluzioni a

problemi reali. Non passa giorno senza che un suscettibile contenitore o delle

puzzolenti ciotole di plastica o delle forchette pignole non facciano storie. Ed è qui che

il magico Svelto porta una ventata d'aria fresca! Grazie alla sua formula tutti i

problemi delle stoviglie sono acqua passata rendendoci le stoviglie più pulite e brillanti

della città.

Il nostro ospite di eccezione è sempre Spugna, che diffonde la magia di Svelto per

renderci puliti e brillanti. È una tipa tranquilla e di poche parole, ma una volta che si

mette in moto è impossibile fermarla! Vedrete presto che i fatti contano più di mille

parole!Vieni a conoscere il nostro magico mondo. Purtroppo voi umani non potete

vivere nel nostro mondo dove Svelto porta a nuova vita la nostra cucina. Ma grazie alla

magia della moderna tecnologia potrai venirci a trovare ogni volta che lo vorrai.

Speriamo che tu ti diverta in questa tua visita e che tornerai spesso a trovarci: ci

farebbe piacere rivederti!”281

L’ORÉAL (Il Sovrano)282

“L'Oréal Paris, un marchio presente in tutto il mondo senza eguali nell'universo della

bellezza, dedica agli uomini e alle donne di tutti i continenti le sue continue innovazioni

tecnologiche, offrendo prodotti di bellezza e di trattamento all'avanguardia.

L'innovazione è l'essenza della marca. Perseguendo l'eccellenza,

L'Oréal Paris prepara il futuro della bellezza.

Presente in più di 120 nazioni, il marchio L'Oréal Paris si sviluppa intorno ad un'unica

filosofia: innovare e offrire al maggior numero possibile di consumatori i prodotti più

efficaci al prezzo migliore. La chiave della forza propulsiva e del successo di L'Oréal

Paris è senza alcun dubbio la Ricerca Scientifica, alla quale l'azienda dedica ampi

mezzi e potenti risorse. Un approccio basato sulla scienza e su prodotti di qualità

superiore.

Pionieri dell'innovazione scientifica, i nostri gruppi di ricerca utilizzano le tecnologie

più all'avanguardia per sviluppare prodotti esclusivi, sicuri ed efficaci, facili da capire

281

http://www.svelto.com/About-Us/default.aspx 282

Vedi nota n°16.

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e da utilizzare: la nostra missione è rendere le nostre innovazioni scientifiche

accessibili a tutti.

L'Oréal Paris ha l'obiettivo di offrire un'ampia gamma di prodotti, che rispecchi la

diversità e l'eterogeneità del mondo in cui viviamo.

Packaging innovativi dei nostri prodotti, elevati standard qualitativi dei nostri siti

produttivi e nuovi concetti di allestimento del punto vendita, traducono la nostra visione

di bellezza, eccellenza e lusso accessibile a tutti.“ 283

3.2 Conclusioni

Esaurita la descrizione della teoria degli archetipi applicati al management e alla

comunicazione d’impresa di Pearson et alii, possiamo trarre, qui, degli spunti

interessanti esponendo quelli che, a nostro modesto parere, risultano essere i punti di

forza e i punti di debolezza dell’impianto teorico sin qui delineato.

Il framework esposto sopra rappresenta di certo un accattivante modello di riferimento

per le imprese, nell’ottica della costruzione di una personalità (in termini di valori)

prima, e di un’identità poi, definita e coerente nel tempo. L’approccio “archetipico” al

governo d’impresa, infatti, può risultare piuttosto utile al management, il quale, potendo

contare su linee guida fondamentali che si ricollegano ai costrutti psicologici universali

ed ancestrali che abbiamo ampiamente descritto nel presente lavoro, possono più

agevolmente raggiungere i propri obiettivi di allineamento tra personalità, identità,

immagine e reputazione aziendale. Avere a disposizione un semplice ed immediato

schema di riferimento per quanto concerne valori, comportamenti e comunicazione

pianificata d’impresa – è il caso della comunicazione pubblicitaria – è di sicuro un

supporto aggiuntivo che può rivelarsi utile, come detto, in una duplice prospettiva,

“interna” ed “esterna”. Per quanto concerne la prima, infatti, il modello può risultare

utile per la definizione dei valori fondamentali su cui poggia la personalità d’impresa, i

quali possono essere poi manifestati in maniera coerente attraverso l’identità d’impresa

- che comprende il comportamento, il simbolismo la comunicazione – per poi venire

registrata attraverso la corporate image (l’opinione che hanno i pubblici di riferimento

del brand in un determinato istante) e infine mediante la corporate reputation

283

http://www.loreal-paris.it/la-marca/chi-siamo.aspx

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(l’opinione e l’atteggiamento rispetto all’impresa maturati in un arco temporale lungo).

In un’ottica “esterna”, invece, il frame work offre di per sé un valido “grimaldello” in

termini di percezione e coinvolgimento dei propri stakeholders poiché, facendo leva

primariamente sul loro inconscio e andando a toccare i loro “pulsanti primordiali” più

reconditi, assicura, da un punto di vista psicologico, una presa significativa e profonda.

In termini più pragmatici, una volta definito un profilo valoriale d’impresa aderente, ad

esempio, all’archetipo dell’Innocente, quella determinata impresa dovrà perseguire al

suo interno e in tutte le sue manifestazioni esterne valori-base come la bontà, la

semplicità e la tradizionalità non perdendo mai di mira la sua identità e restando vigile

sui rischi legati, da una parte, alla confusione con un archetipo differente (ad esempio

quello del Rivoluzionario o dell’Esploratore, che presentano attitudini notevolmente

divergenti) e, dall’altra, all’“interpretazione” non ottimale dell’archetipo stesso (che, nel

caso di specie, sfocia nella banalità e nell’eccessiva “edulcorazione” caratterizzanti la

brand identity).

Se, però, da un lato, il modello dei 12 archetipi applicati al brand management presenta

indubbi vantaggi e possibilità di applicazione, è anche vero che la sua impostazione

mostra il fianco a diverse – e in alcuni casi piuttosto limitanti – ambiguità e punti di

debolezza.

Innanzitutto il modello comportamentale così impostato da Pearson – e soprattutto dagli

altri autori che hanno tentato di riadattare e approfondire la sua teoria da un punto di

vista del branding – ha in sé il rischio di condurre ad una staticità identitaria, soprattutto

in termini di comunicazione. Fatta salva la coerenza accettabile del profilo valoriale

(facente parte, lo ricordiamo, della brand personality), non emerge, infatti, in maniera

abbastanza chiara, la possibilità da parte di un brand appartenente ad un determinato

archetipo di poter variare le sue manifestazioni nei confronti dei propri pubblici e

renderle, a seconda dei casi e dei periodi storici, più affini a quelle che

contraddistinguono altri archetipi. Tale rigidità impedirebbe, ad esempio, ad un’impresa

“Innocente” di fare leva, all’interno di una campagna pubblicitaria, su aspetti quali

l’ironia, l’irriverenza e la giovialità (tipiche delle imprese “Giullari”) oppure sulla

ricerca di nuovi mondi e prospettive diverse (l’obiettivo dell’”Esploratore”) e così via.

In altri termini, perseguendo alla lettera il modello si corre il pericolo di

“cristallizzazione” della brand identity che, in un mercato variabile e dinamico come

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quello odierno, non è di certo una condizione auspicabile. Molto più verosimile in

questo senso, invece, è l’interpretazione degli archetipi come linee guida fondamentali

dalle quali partire per definire l’identità d’impresa, tenendo ben presente la possibilità di

“variare sul tema”. Com’è ovvio, tali variazioni284

andrebbero operate conservando

un’affinità di fondo, ma in ogni caso facendo una chiara distinzione tra coerenza delle

espressioni e fissità e monotonia delle stesse. Il dubbio che perviene, in conclusione, è

che tale classificazione riguardi più la comunicazione che l’intera personalità e identità

d’impresa, fatto questo che non fa altro che aggiungere ambiguità al modello stesso.

Come abbiamo avuto modo di notare attraverso la pur sommaria analisi delle effettive

mission e vision aziendali, il modello tradisce diverse inconsistenze e ambiguità per

quanto concerne la definizione degli esempi d’impresa per ogni archetipo descritto; a tal

proposito, però, come risulterà d’altronde ovvio, c’è da sottolineare che il modello è

antecedente alla nostra ricerca e che quindi alcune di queste difformità possono essere

dettate dal lasso di tempo trascorso dalla pubblicazione dei vari studi proposti.

Altro punto debole della classificazione è la non mutua esclusività di alcune delle sue

classi. È registrabile, infatti, una certa labilità dei confini appartenenti ad alcuni di essi.

Si pensi, a questo proposito, all’affinità che intercorre tra l’archetipo del Creativo

(caratterizzato da imprese che puntano principalmente sull’innovazione e sullo sviluppo

della creatività) e quello del Rivoluzionario (inerente a quelle imprese che vanno

284

Intendiamo qui, per variazione tematica, una variazione al livello discorsivo e non dei valori-guida e

della personalità collegati all’archetipo d’impresa. Per dirla con Cicalese, ci muoviamo sul livello “della

manifestazione” piuttosto che “dell’immanenza”. Nel suo modello di analisi del testo narrativo, che

integra e arricchisce teorie semiotiche e narratologiche diverse (da Hjelmslev a Eco transitando per

Greimas), Cicalese prevede, infatti, otto livelli di testo inclusivi ed inestricabili tra loro. Nello specifico,

partendo dalla base fino ad arrivare al livello più superficiale, essi si dipanano in: Livello archetipico

(archetipi, inconscio collettivo, miti), Livello valoriale (assiologie e ideologie), Livello socio-semiotico

(stili di vita, ideologie, tendenze, mode, credenze, gusti, rituali, preferenze, connotazioni e timìe), Livello

semantico (contenuto, mondi, temi, storie, intertestualità, riferimenti enciclopedici), Livello formale

(forme della storia, griglie di genere, architesti, frame testuali, grammatiche narrative), Livello

fenomenologico (segni, stilistiche, pragmatica, enunciazione, costruzione dell’interazione con i simulacri,

tone of voice, passioni) Livello mediatico (specificità del medium, varietà delle materie, tecnologie

disponibili), Livello autoriale (cifra dell’autore e della marca). È evidente che nel passaggio/inclusione

tra un livello e l’altro all’interno del processo creativo - e comunicativo - le forme discorsive possono

mutare; quello che non muta, invece, sono i valori di marca di base, riferiti, a loro volta, ad un

determinato archetipo. Ad esempio, se il valore di marca è “la libertà”, esso può manifestarsi a livello

discorsivo nella figura del Saggio, che fornirà il suo lucido e sapiente punto di vista sul perché è giusto

perseguire tale ideale, dal Giullare, che attraverso la spensieratezza e il disimpegno potrà evidenziare

come la libertà possa dare accesso al benessere e al divertimento, dal Creativo che della libertà può fare il

senso stesso della vita e così via. Cfr. A. CICALESE, Fatti di consumo, cit. Cap IV, p. 71.

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controcorrente, alla ricerca di prodotti e soluzioni sempre nuove e che producono un

cambiamento), oppure ancora tra quest’ultimi e quello del Mago (anch’esso foriero di

intuizione, innovazione e cambiamento nell’ambito dell’impresa). Tale scarsità

dell’autonomia di alcune categorie, può essere spiegata dal numero relativamente alto

degli archetipi contemplati nel modello e dalla necessità di evidenziare delle differenze

tra gli archetipi anche (fin troppo) sottili. Tuttavia, tale somiglianza, sulla scorta delle

affermazioni di cui sopra sul rischio di rigidità dell’identità aziendale, può rivelarsi

un’opportunità a disposizione del governo d’impresa per diversificare il proprio assetto

in termini di brand identity nell’ottica di una presa sempre rinnovata e mai stagnante nei

confronti degli stakeholder di riferimento.

Muovendo un’ulteriore critica al modello dei 12 archetipi, possiamo evidenziarne,

inoltre, la confusione latente che viene fatta tra i valori e l’identità che una certa impresa

persegue (o che dovrebbe perseguire) e le caratteristiche e l’immaginario legati in

maniera specifica ai suoi prodotti. Tra la righe del modello, infatti, si può notare come il

confine tra il profilo valoriale, comportamentale, simbolico e comunicativo dell’impresa

sia talvolta sovrapposto o comunque confuso con la natura e i benefit legati al prodotto e

con la loro percezione presso i pubblici si riferimento: una classificazione accorta,

ovviamente, dovrebbe considerare soltanto il primo aspetto, tralasciando in ogni caso il

secondo. A tal riguardo, rappresenta un’evidenza il caso di Discovery Channel, brand

fatto risalire all’archetipo dell’Esploratore per ragioni difficilmente rintracciabili oltre a

quelle relative alla destinazione del prodotto in sé (intrattenimento televisivo a sfondo

documentaristico), oppure ancora al caso di Pampers e Snickers che sembrano essere

state classificate - rispettivamente come Angelo Custode e Giullare – esclusivamente

per la funzione dei loro prodotti o, tutt’al più, per i contenuti ed il tono dei commercial

ad essi inerenti. La stessa menzione dei prodotti all’interno della descrizione dei “tipi”

può rivelarsi, in questo senso, fuorviante.

In conclusione, l’essenzialità e, se vogliamo, il semplicismo e il non oculato

approfondimento teorico che sta dietro alla stesura di tale frame work, ne minano in

maniera significativa la sua validità e applicabilità all’interno del brand management.

Tuttavia, se si considera il modello come un semplice spunto in termini di linee guida

fondamentali che il governo dell’impresa può considerare nell’ottica di una maggiore

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167

coerenza tra brand personality, brand identity e brand image e reputation, allora esso

può rappresentare un supporto prezioso che porta con sé un’eco sempiterna.

3.3 Per un modello “aggiornato” degli archetipi d’impresa:

In conclusione della nostra descrizione degli studi sull’Archetypal Branding,

proponiamo, a titolo esemplificativo, uno schema riassuntivo degli archetipi fin qui

trattati (Fig. 1), il quale sconta le modifiche e gli aggiustamenti operati a margine della

nostra analisi.285

285

Elaborazione personale da:

https://www.austintexas.gov/sites/default/files/files/AustinGO/Appendix_Q_Branding_Report.pdf

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I 4 quadranti nei quali si articolano i 12 archetipi d’impresa (con i relativi esempi di

brand) sono costituiti dalle dicotomie “Ego/Social” e “Order/Freedom”. Sulla scorta di

quanto descritto all’interno del modello, risulta semplice intuire, per quanto concerne la

prima, l’espressione di due determinati desideri e motivazioni: da una parte la

soddisfazione del piacere personale e le sfide e gli obiettivi individuali - o tutt’al più con

se stessi - dall’altra, invece l’interesse, la sensibilità e l’amore per l’altro e per la

collettività tutta. Per quanto riguarda gli altri due quadranti (“Order” e “Freedom”) essi

riferiscono, rispettivamente, al mantenimento/rafforzamento della situazione corrente, e

al desiderio di libertà, disimpegno, divertimento e capovolgimento dello status quo.

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169

CAPITOLO IV

Lo Storytelling d’impresa

Sous ses formes presque infinies, le récit est présent dans tous les temps, dans tous les lieux, dans toutes

les sociétés ; le récit commence avec l'histoire même de l'humanité ; il n'y a pas, il n'y a jamais eu nulle

part aucun peuple sans récit ; toutes les classes, tous les groupes humains ont leurs récits, et bien souvent

ces récits sont goûtés en commun, par des hommes de culture différente, voire opposée : le récit se moque

de la bonne et de la mauvaise littérature : international, transhistorique, transculturel, le récit est là,

comme la vie.

(Roland Barthes, Poétique du récit)

A man tells his stories so many times that he becomes the stories.

They live on after him, and in that way he becomes immortal.

(dal film “Big Fish”)

Sulla scorta dell’impianto teorico descritto nel primo capitolo del presente lavoro,

riguardante la narrazione intesa come peculiarità psichica fondamentale e i cui principi e

strutture archetipiche universali si ripetono nei millenni attraverso leggende, miti e

storie di ogni genere286

, ci addentriamo ora nell’analisi del cosiddetto Narrative turn,

ossia la “svolta narrativa” che sembra caratterizzare la società e la cultura

contemporanee, e, in particolar modo, un numero sempre maggiore di imprese operanti

sul mercato odierno.

L’interesse per la natura e le dinamiche collegate alla narrazione sta trovando negli

ultimi anni sempre più spazio all’interno degli ambiti più svariati, da quello della

formazione e dell’educazione a quello della comunicazione d’impresa. Segnatamente,

all’interno di quest’ultimo si registra una rinnovata attenzione per le storie e per la loro

ancestrale efficacia che, a partire dai primordi dell’umanità fino ad arrivare ai nostri

giorni, si conferma di generazione in generazione.

286

Cfr. Cap. 1, Propp (1927) , Campbell (1953), Levi-Strauss (1958) , Durand (1963), Bruner (1988).

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Prima di affrontare l’argomento cardine del presente capitolo – lo storytelling

d’impresa – è doveroso un breve passo indietro che consideri la narrazione in

termini psicologici e culturali, al fine di comprendere al meglio l’importanza che

rivestono i racconti nella vita dell’uomo.

Quest’ultimo, infatti, come sappiamo, ha comunicato con i suoi simili attraverso

le storie fin da quando abitava le caverne. Anticamente la narrazione costituiva il

principale mezzo di trasmissione delle informazioni dal momento che, attraverso

di essa, le comunità arcaiche codificavano e rappresentavano le situazioni e le

azioni aderenti alle norme sociali correnti ed ereditavano dagli avi leggende,

rituali e saperi vari (basti pensare alla grande tradizione orale dei cantori greci

antecedente all’Iliade e all’Odissea di Omero). Raccontare storie può essere

considerata un’attività insita nell’uomo, quasi istintuale, al pari dell’azione del

respirare o del camminare: un’attitudine innata che va incontro all’esigenza di

semplificazione e comprensione del mondo. Con l’analisi delle strutture narrative

profonde e “archetipiche” analizzate da Vladimir Propp e Joseph Campbell,

abbiamo avuto già modo di notare come esse rappresentino, per dirla con Vogler,

“un insieme di principi che governano il modo di vivere e il mondo della

narrazione così come la fisica e la chimica regolano il mondo fisico”287

, mentre è

con Bruner che si arriva alla definizione di una vera e propria modalità di

pensiero narrativa presente nella psiche, contrapposta a quella logico-scientifica.

È Walter Fisher, invece, a parlare per primo di “homo narrans”288

, riferendosi alla

narrazione come strumento cognitivo primario capace di fornire modelli di

comprensione concettuale delle situazioni e di cooperare nella definizione

dell’agire quotidiano laddove, a parere di Collison e McKenzie, le storie

costituiscono “uno degli strumenti di base inventati dalla mente dell’uomo allo

scopo di accrescere la comprensione. Ci sono state grandi civiltà che non hanno

usato la ruota, ma non ne sono esistite che non hanno raccontato storie” 289

. Del

resto, a delineare tale concetto, era stato lo stesso Barthes, a parere del quale “il

287

VOGLER C., cit. p. 5. 288

W. FISHER, Narration as a Human Communication Paradigm: the case of Pubblic Moral

Argument, Communication Monographs, 51-1984. 289

C. COLLISON, A. MACKENZIE, The Power of Story in Organisations, Journal of workplace

learning, 1999, vol. 11, p. 39.

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racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito

in alcun luogo un popolo senza racconti”290

.

Da sempre l’uomo ha prodotto storie e tratto insegnamenti da esse; le narrazioni

sono un medium collegato direttamente al funzionamento dei processi mentali

umani, dal momento che attribuiscono senso a ciò che succede e consentono alla

memoria a lungo termine di cristallizzarsi. Esse possono essere definite come un

dispositivo di crescita e apprendimento presente in tutte le culture e avente una

dimensione collettiva. Il discorso universale delle storie, in cui gli episodi e le

emozioni ad essi relate si susseguono in maniera ordinata, coinvolge

indistintamente e profondamente tutti coloro che ne fruiscono poiché il

funzionamento stesso della psiche si presta particolarmente alla loro ricezione e

memorizzazione. A tal riguardo è Simmons ad affermare come “Qualcuno con

una cattiva memoria può comunque ricordare una storia se essa è memorabile […]

Si ricordano le storie che risvegliano le nostre emozioni”, laddove, sempre a

questo proposito, l’autrice ravvisa la capacità delle storie di costituire un

differente stato di conoscenza, il quale “è meno analitico, più ricettivo e

maggiormente collegato agli strati più inconsci“291

.

Gli individui costruiscono e raccontano storie quotidianamente per attribuire un

significato alla realtà sensibile che li circonda e che “gli accade” intorno: grazie ai

nessi causa-effetto che si stabiliscono tra gli eventi, infatti, quest’ultimi appaiono

più semplici e agevoli da ricordare. Mediante le storie, inoltre, le persone

comunicano le proprie conoscenze e ne acquisiscono di nuove, stabilendo

collegamenti, implicazioni e analogie tra quello che è già noto e le nuove

informazioni che man mano pervengono292

. La narrazione, dunque, è allo stesso

tempo un processo cognitivo ed emozionale, in grado, perciò, di interessare

entrambi gli emisferi del cervello umano. Parkin, a tal riguardo, nota che “le

reazioni alle informazioni presentate sottoforma di storia sono diverse da quelle

290

, R. BARTHES, “Introduction to the Structural Analysis of Narratives”, in S. Heath, Image –

Music – Text, Glasgow, 1966, pp. 79-124; trad.it. “Introduzione all’analisi strutturale dei

racconti», in R. BARTHES et al., L’analisi del racconto, Milano, 1969, pp. 7-46, p. 7. 291

A. SIMMONS, The Story Factor. Secrets of Influence from the Art of Storytelling, Perseus

Publishing, Cambridge, 2002, p. 126. 292

Per la teoria psicolinguistica afferente al “given.new contract” si veda H.H. CLARK, S.E.

HAVILAND, Comprehension and Given-new contract, School of Social Sciences, University of

California, Irvine, 1975.

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indotte dalla forma analitica” e che “La narrazione di storie è interattiva e

complessa, e richiede all’ascoltatore di utilizzare entrambi gli emisferi del cervello

per gestire le informazioni”293

. Le storie, grazie alla loro struttura e alla loro

pregnanza semantica, sono in grado di restituire tutte (o quasi) le sfumature delle

esperienze che le persone si trovano a vivere nel corso della loro esistenza; mentre

ordinano e collegano tra loro gli eventi/episodi, infatti, le storie investono i fatti di

implicazioni affettive che contribuiscono così a fissarli nella memoria294

e a

stabilirsi nelle profondità della psiche. In tal merito è ancora Parkin a notare come

“Il potere della storia sta nel fatto che mentre le nostre menti coscienti sono

assorbite, il subconscio è libero di assimilare la morale o il messaggio contenuti

nel racconto. L’assorbimento prodotto dalla storia dipende dal fatto che la sua

fruizione avviene in una condizione di rilassamento, di basso livello di stress,

nella quale entrambi gli emisferi del cervello sono chiamati in causa: il sinistro,

razionale, per elaborare analiticamente le parole; il destro, creativo, per presiedere

la visualizzazione e i modelli di apprendimento.” 295

La conseguenza logica di tali affermazioni è che le storie attengono più di ogni

altra forma comunicativa alla dimensione relazionale della psiche. Esse, infatti,

tramite i racconti di eventi, episodi, esperienze di vita personale e collettiva – le

storie degli uomini, da una parte, e la grande Storia dall’altra – e attraverso

l’espressione delle relative emozioni, sentimenti e stati d’animo, creano un legame

molto forte tra l’individuo e il suo prossimo, nonché con tutta la sua collettività di

riferimento. Le storie definiscono, così, le esperienze umane e le mettono in

contatto attraverso un innato meccanismo di condivisione ed empatia, venendo a

rappresentare uno spazio di condivisione fondamentale per l’espressione

dell’individuo stesso. Notare che la propria storia personale è comune a tante

altre, e sentirsi parte di una grande storia che coinvolge e tiene in piedi tutta

l’umanità, acquieta la solitudine dell’individuo e lo rende più sicuro e consapevole

del suo posto nel mondo. Esse, in questo senso, possono essere considerate le

293

M. PARKIN, Racconti per la formazione. 50 storie per facilitare l’apprendimento, ETAS,

Milano, p. 45. 294

Snowden, a tal proposito, sintetizza : “le storie trasmettono idee complesse in una forma

semplice, coerente e memorabile” 294

295

M. PARKIN, Racconti per la formazione. 50 storie per facilitare

l’apprendimento, 2005, p. 35.

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“barriere” più resistenti innalzate a difesa di se stessi contro il caos e la caducità

che contraddistinguono la condizione umana.

In ultima analisi, non risulterà stucchevole affermare che l’uomo vive di storie e

che le storie, aggiungeremmo, sono fatte della sua stessa materia (e viceversa).

Esse lo pongono in stretto contatto – quasi in “comunione” - con altri soggetti e,

chiamando in causa sia la sua dimensione razionale, sia quella emozionale-

relazionale, avviluppano la parte più profonda della sua psiche, in una presa che lo

trascina sin dalle viscere del suo essere.

4.1 Il Corporate Storytelling

Il concetto di “Storytelling” propriamente detto nasce a partire dalla prima metà

degli anni ‘90 negli Stati Uniti e riferisce, letteralmente, all’arte di “raccontare

storie”. Esso rappresenta il portato degli studi in materia di narrazione

precedentemente analizzati, declinato in un contesto inusitato e dinamico: quello

dell’identità e della comunicazione d’impresa.

Il periodo storico che stiamo attraversando, infatti, è caratterizzato dal suddetto

multidisciplinare fenomeno del “narrative turn”, vale a dire l’improvviso

incremento dell’interesse nei confronti delle storie296

in ambito sociale, educativo

ed aziendale, laddove i precedenti contributi in merito alla narrazione si

limitavano per lo più agli studi umanistici. Salmon, a tal riguardo, identifica come

age narratif297

l’epoca in cui una pluralità di persone sembra aver riscoperto le

potenzialità della narrazione298

, e in cui, più specificatamente, le imprese hanno

296

Nelle pagine a seguire si farà spesso riferimento ai termini “storia”, “racconto” e “narrazione”,

i quali verranno trattati sostanzialmente come sinonimi. In realtà con Genette intendiamo la

“storia” come “l'enunciato narrativo, il discorso orale o scritto che assume la relazione di un

avvenimento o di una serie di avvenimenti”, il “racconto” come contenuto di avvenimenti

dell'enunciato narrativo, ovvero la successione di avvenimenti, reali o fittizi, che fanno l'oggetto

del discorso narrativo e le loro diverse relazioni di concatenamento, opposizione, ripetizione, ecc.,

e infine la narrazione come enunciazione narrativa, vale a dire “non quello che si racconta, ma

quello che consiste nel fatto che qualcuno racconta qualcosa: l'atto del narrare preso in se stesso”.

G. GENETTE, Discours du récit Figures III. Paris: Éditions du Seuil, coll. «Poétique», 1972, pp.

71-73, trad. it., Figure III. Discorso del racconto, L. ZECCHI, Torino, Einaudi, 1976. 297

C. SALMON, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, Paris,

2007; trad.it. di G. Gasparri, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, 2008, p. 12. 298

Lynn Smith, a tal proposito, nel suo articolo dal titolo Not the same old story, pubblicato sul

Los Angeles Times nell’aprile 2001, afferma “il pensiero narrativo si è propagato ad altri campi:

storici, giuristi, economisti e psicologi hanno riscoperto il potere che le storie hanno di costruire la

realtà. E lo storytelling ha cominciato a rivaleggiare con il pensiero logico”.

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cominciato a dialogare con i propri pubblici di riferimento facendo leva sul loro

lato emozionale, al fine di comunicare la propria realtà nel modo più efficace

possibile, sia all’interno che verso l’esterno, attraverso il meccanismo

dell’immedesimazione e della condivisione dei vissuti personali.

Più specificamente il corporate storytelling (o brand storytelling) è inteso come

tecnica, artificio adoperabile al fine di rendere la comunicazione più coinvolgente

ed accattivante. In questa ottica diventa oggetto di interesse tutto ciò che può

contenere al proprio interno un elemento narrativo, tradotto a sua volta in un

segno, capace di “parlare” a pubblici diversi. Possono diventare “storie”, così,

tutti i discorsi all’interno dell’organizzazione con cui l’organo di governo cerca di

orientare l’opinione dei propri stakeholders di riferimento, ma possono essere

declinati in termini narrativi, allo stesso modo, anche i messaggi, le conversazioni,

gli aneddoti, i rumors e le tracce di vissuti personali diffusi - o trapelati -

all’interno dell’impresa, così come, da un punto di vista esterno all’impresa, i

messaggi e i relativi feedback comunicativi da parte dei consumatori, atti a

definire e tenere traccia dell’universo dei significati intorno alla marca.

4.2 Perché lo Storytelling? una breve panoramica dei contributi

Il motivo dell’“esplosione” dello Storytelling d’impresa, ovvero dell’“utilizzo

strategico della narrazione di storie per un fine organizzativo”299

, è abbastanza

agevole da rintracciare.

Tutte le imprese che si trovano ad agire nel mercato odierno, infatti, parlano e,

parlando, si raccontano. Essendo “comunità umane basate su discorsi umani che

parlano di problemi umani”300

, esattamente come accade agli individui, esse

narrano i loro prodotti e servizi, facendo riferimento a “tracce emotive e traiettorie

affettive”301

coerenti con il vissuto personale di ogni componente dell’audience di

riferimento (o almeno, di larga parte di esso); emozioni e testimonianze che

trascendono la dimensione oggettiva e descrittiva legata all’azienda o al prodotto

299

. A. FONTANA, Lo Storytelling per la comunicazione d'impresa, in M. Barone, A. Fontana,

Franco Angeli, Milano, 2005. 300

R. LEVINE, C. LOCKE, C. SEARLS, D. WEINBERGHER, Cluetrain Manifesto. The end of

business as usual, Fazi Editore, trad. it. Roma, 2001. 301

K. FOG, C. BUDTZ, B. YAKABOYLU, Storytelling Branding in practice, Samfundslitteratur

Press, Frederiksberg, 2004, p. 12.

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pubblicizzato, per abbracciare profondamente quella immateriale, che riferisce

piuttosto ai valori, agli ideali e alle esperienze a cui quest’ultimi rimandano. A tal

proposito Cortese afferma che le imprese possono raccontarsi in due sensi.

Primariamente “l’organizzazione si racconta perché elabora ed esprime un

racconto di sé”: in questo senso essa è intesa come molteplicità di narrazioni

provenienti da tutti i soggetti organizzativi, sia interni che esterni ad essa. In

secondo luogo, l’organizzazione si racconta perché “può essere narrata”, e quindi

può costituire essa stessa oggetto di narrazione a partire dalla sua personalità, dai

suoi simbolismi e dalla sua condotta.302

Le organizzazioni contemporanee, d’altronde, vivono in un mercato sempre più

variabile e complesso, reso ancora più instabile dalla tristemente notoria crisi

economica mondiale che imperversa ormai da almeno un lustro. Esse, per

perseguire i propri obiettivi, sono sottoposte a continui mutamenti d’identità

organizzativa i quali, se da una parte, nell’ottica di aderire ai nuovi trend esistenti,

vanno incontro alle nuove esigenze e agli atteggiamenti dei vari stakeholders di

riferimento – sempre più volubili, demotivati e annoiati –, dall’altra, finiscono per

“logorare” l’impresa stessa nell’incessante ridefinizione del sé, delle proprie

politiche e della propria mission.

È in questo scenario che trova una sua raison d’être forte lo strumento dello

storytelling. Esso, infatti, assolve al delicato compito di raccogliere, organizzare e

“canalizzare” il senso più profondo dell’impresa, ovvero quei valori, quei miti e

quegli ideali che sono alla base della personalità d’impresa e che si riverberano,

poi, all’interno della corporate identity.

Barbara Czarniawska definisce “istituzionalizzazione”303

il processo attraverso cui

l’impresa si trasforma da apparato “asettico” ed efficientista a veicolo di

gratificazione collettivo intriso di valori e cultura d’impresa, attraverso i quali essa

acquisisce istintività nei confronti dei sovra-sistemi e dei sotto-sistemi, siano essi

esterni o interni alla stessa organizzazione.

Sullo sfondo emerge, dunque, la nuova prospettiva dell’impresa cognitiva, che

non ha più come principale fine la produzione delle merci e l’erogazione dei

302

C. CORTESE, L’organizzazione si racconta, Guerini e Associati, Milano, 1999, p. 4. 303

B. CZARNIAWSKA, A Narrative Approach to Organizations Studies, Sage Publications,

London, 1998.

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servizi, ma, come afferma Salmon stesso: “la condivisione delle conoscenze, la

circolazione delle informazioni, la gestione delle emozioni”304

. Oggi più che mai

le imprese, nei loro valori, nella loro condotta, nel loro comportamento e nelle

loro manifestazioni simboliche, significano e si raccontano ad una pluralità di

pubblici, che va dai consumatori dei propri prodotti/servizi agli investitori

finanziari, passando per i fornitori e, ovviamente, per i dipendenti dell’impresa

stessa. In questo senso, come afferma Andrea Fontana305

, l’organizzazione va a

configurarsi come “un set multiplo di narrazioni, una serie di racconti (più o meno

mirati ed efficaci), una vasta gamma di gadget tangibili/oggettivi e

intangibili/simbolici che – a seconda dei diversi periodi storico-culturali – si

esprimono attraverso i diversi mezzi di comunicazione interna o esterna, di

formazione, di sviluppo organizzativo [cosicché] Il raccontare storie è parte della

condizione organizzativa, è un aspetto estremamente serio che il management non

può lasciare al caso o, peggio, all’istinto.”306

Silverman, a proposito dello storytelling applicato all’impresa sostiene che le

storie permettano alle organizzazioni di raggiungere grandi risultati “grazie alla

loro abilità di toccare le persone intellettualmente, fisicamente, emozionalmente e

spiritualmente”307

, laddove Taylor, dal canto suo, afferma come esso risulti molto

utile alle aziende dal momento che “contribuisce non solo all’apprendimento

organizzativo, ma anche alla soluzione dei problemi, […], alla socializzazione dei

nuovi dipendenti, alla creazione di significato”308

.

304

C. SALMON, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, Paris,

2007; trad.it. di G. Gasparri, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, 2008, p. 38. 305

In Italia Fontana è considerato un vero e proprio guru del corporate storytelling; a lui va il

sicuro merito di aver profuso energie nella promozione e divulgazione della materia all’interno del

nostro Paese. Docente di "Storytelling e narrazione d`Impresa" all`Università degli Studi di Pavia

e di “Metodologia della formazione" all`Università degli Studi di Milano-Bicocca, Fontana, tra le

altre cose, è co-fondatore di “Storyfactory”, prima società italiana nel campo della consulenza

narrativa d’impresa, e Presidente dell’Osservatorio Italiano di Corporate Storytelling presso

l’Università di Pavia. 306

A. FONTANA, Manuale di Storytelling, Raccontare con efficacia prodotti, marchi e identità

d’impresa, Etas, Milano, 2009, p. 56.

pp. 38-39. 307

L. SILVERMAN , Strategic Storytelling, Association Management, 2004, vol. 56, p. 48. 308

S.TAYLOR, D. FISCHER, R. DUFRESNE, How Can Storytelling Become a Key Part of

Managerial and Organizational Learning, People Management, 2003, vol. 9, p. 54.

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Secondo Durrance, invece, dal momento che “una narrazione […] porta con sé la

cultura condivisa, le credenze e la storia di un gruppo”309

le storie svolgono

l’importante ruolo di aiutare le persone a dare il meglio di loro stessi sul luogo di

lavoro, mentre è più “venale”, in tal senso, Steve Denning, uno dei principali

studiosi della disciplina, il quale sostiene come storytelling possa essere

considerato a tutti gli effetti come “l’ultima tecnologia basso costo-grande

risultato”310

riferendosi alla sua natura semplice e accessibile che non necessita,

di per sé, di grossi investimenti, né a livello hardware, né a livello software.

Lo storytelling, inoltre, si concreta in una comunicazione che possiede una cifra

fortemente intuitiva, dal momento che le storie rappresentano un ottimo

dispositivo di trasmissione della conoscenza tacita, fondamentale all’interno e

all’esterno dell’organizzazione; è Gabriel a tal proposito ad affermare che “poiché

sappiamo più di quanto possiamo dire, attraverso lo storytelling possiamo dire più

di quanto sappiamo (conoscenza esplicita)”311

.

Lo storytelling, poi, oltre a permettere di comunicare in modo chiaro e creare

senso in un contesto in cui vige il caos – come abbiamo visto, collegando spazio,

tempo e scopi umani e strutturandoli in una sequenza ordinata di eventi -,

rappresenta una modalità comunicativa meno “brusca” e più collaborativa e

interattiva rispetto alle altre. Nel caso della comunicazione interna, ad esempio,

l’organo di governo dell’impresa invita a seguire le storie passo a passo e ad

accedere in maniera graduale al messaggio, con la possibilità – qualora

contemplata - di intervenire attivamente nella sua stessa definizione o

riformulazione (a tal proposito, come afferma Boje, “lo storytelling assomiglia più

a una danza che ad una battaglia”312

). In questo senso, dal momento che la storia

può essere co-creata da chi la racconta e da chi la ascolta, essa viene meglio

compresa ed interiorizzata attraverso un meccanismo altamente interattivo e

persuasivo (ben lontano dalle classiche comunicazioni aziendali altamente formali

309

B. DURRANCE, Stories at Work, Training & Development, 1997, vol. 51, P.26. 310

S. DENNING. Squirrel Inc. A Fable of Leadership through Storytelling, John Wiley & Sons,

2004, ed. it. a cura di N. GAIARIN, Scoiattoli Spa. Storie di noci e di leadership, ETAS, Milano,

2005, p. 121. 311

Y. GABRIEL, Sorytelling in organizations: facts, fictions and fantasies, Oxford University

Press, New York, 2000. 312

D.M. BOJE, Narrative methods for Organizational and Communication Research, Sage,

London, 2001.

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e dal carattere strettamente unilaterale ed esecutivo). Per lo stesso motivo lo

storytelling rappresenta un forte richiamo all’azione: esso, infatti, non esaurisce la

sua funzione colmando il gap conoscitivo tra l’emittente il pubblico destinatario

del messaggio, ma stimola quest’ultimo alla co-creazione del racconto stesso, in

una logica di partecipazione e collaborazione attiva.

In ultima analisi, non è azzardato affermare che la comunicazione che si serve

dello storytelling risulti mediamente più accattivante e divertente rispetto alle

altre. Come sostiene lo stesso Boje, d’altronde, “le comunicazioni astratte sono

noiose e aride perché non sono popolate da persone ma da cose. Come esseri

umani noi siamo attratti da ciò che è vivente”. Raccontare storie fatte di

personaggi, ambientazioni, fatti, peripezie ed emozioni legate ad essi, dunque,

rappresenta sicuramente un modo altamente coinvolgente per trasmettere i propri

discorsi ai rispettivi pubblici di riferimento dell’impresa, capace di catturare la

loro attenzione e di “coglierli sul vivo” attraverso l’empatia e l’immedesimazione

nelle vicende rappresentate.

Ciò detto, creare e gestire il flusso narrativo all’interno e all’esterno dell’impresa è

divenuto fondamentale per le organizzazioni che si trovano ad operare nel mercato

odierno dal momento che i valori, l’identità e la dimensione simbolico-affettiva

collegata ad esse risultano ormai cruciali per il successo nei confronti dei propri

pubblici di riferimento, nonché per la loro stessa sopravvivenza. Le “storie

d’impresa”, in questo senso – e lo vedremo meglio più avanti – rappresentano, da

una parte, uno strumento di espressione e controllo della corporate personality e,

dall’altra, un forte “push” comunicativo nei confronti dei propri stakeholder

nell’ottica di un più profondo coinvolgimento e/o di una maggiore motivazione e

fiducia nei confronti dell’impresa stessa.

Lo storytelling, dunque, sta diventando sempre più uno strumento dal quale

difficilmente le imprese possono prescindere: come afferma Fontana “fare

storytelling significa per un’impresa, saper gestire meglio il cambiamento

culturale ed organizzativo, raccontandolo con nuovi codici e stili linguistici. Vuol

dire anche dare vita a prodotti che siano significativi in mercati ad alto assedio

testuale. Allo stesso modo, acquistare un brand significa oggi acquistare sempre

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una storia (un racconto, una narrazione) un modo in cui immedesimarsi e

progettarsi in modo simulato, temporaneo, vicario”313

Alla luce di quanto accennato fin qui e volendo rispondere sinteticamente al

quesito da cui prende il nome il presente paragrafo, potremmo infine ricorrere alle

parole dello stesso Denning, il quale, alla domanda inerente al perché dell’utilizzo

dello storytelling nell’ambito dell’impresa, fornisce una risposta quanto mai

semplice ed efficace: “Perché funziona!”, invitando studiosi e professionisti del

settore ad occuparsi di tale emergente ed accattivante materia in maniera più

sistematica e consapevole.

4.3 Obiettivi e aree di applicazione

Come ci illustra Fontana, attraverso il racconto di storie è possibile per l’impresa

perseguire diversi obiettivi comunicativi, che si declinano su molteplici aree,

canali314

e mezzi di intervento e in riferimento a diversi stakeholder.

Segnatamente, il corporate storytelling serve a:

1) Condividere obiettivi specifici;

2) Dare senso alle azioni della realtà organizzativa quotidiana, che altrimenti

sarebbe vuota e priva di spinta motivazionale;

3) Creare un’identità (individuale o di gruppo), che permette di riconoscersi sul

lavoro e nella vita;

4) Mantenere la memoria (individuale o collettiva), garantendo così una

continuità dei saperi e un orientamento dei comportamenti;

313

A. FONTANA, Manuale di storytelling, cit. p. 32. 314

Lo stesso Fontana fornisce delle griglie dettagliate in merito alle aree, forme, canali e strumenti

possibili per lo storytelling. A tal proposito uno dei canali più interessanti ed emergenti è

sicuramente quello del Web. Attraverso l’immissione dei contenuti narrativi on-line (spot

tradizionali ma anche immagini, foto, testi, messaggi brevi ecc.) si vanno infatti a “stressare” –

come si usa dire in gergo – le peculiarità del mezzo nell’ottica di aumentare in maniera

considerevole il coinvolgimento, la pervasività e la possibilità di co-creazione delle storie stesse

attraverso la partecipazione diretta ed immediata dell’utente. Il Digital Storytelling rappresenta una

tecnica accattivante e che, data la sua nascita relativamente molto recente, ha in sé potenzialità di

crescita e affinamento. Esso si inserisce perfettamente nell’ottica di una sempre più crescente e

imperversante “transmedialità” - o“crossmedialità” - dei contenuti, frutto dell’attuale “cultura della

convergenza”.

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5) Orientare l’opinione del sociale d’impresa, con storie che fanno ridere,

portano a piangere, suscitano paura, generano speranza e molti altri

sentimenti, attraverso l’identificazione e la proiezione;

6) Costruire e presidiare una cultura, fatta di valori e atteggiamenti che poi si

riverberano nei fatti quotidiani;

7) Sostenere nella progettazione del futuro, che per essere realizzato deve anche

essere ripetuto, ri-raccontato, “venduto”, più e più volte, sia a noi stessi che

agli altri.315

Lo storytelling d’impresa è uno strumento quasi trasversale ad essa, dal momento

che esso può essere applicato in tante aree-funzioni delle organizzazioni, che

corrispondono, a loro volta, ad attività manageriali specifiche quali: la governance

dell’identità e dell’immagine d’impresa, la gestione del cambiamento interno ed

esterno, la guida complessa delle relazioni istituzionali e infine il presidio e lo

sviluppo commerciale.

Vedere l’organizzazione sotto questa lente “narrativa” di ingrandimento porta a

ripensare i ruoli:

Dei vertici aziendali e di chi declina le linee guida valoriali in strategic

statements (che dovrebbero contenere un’alta densità epica);

Della comunicazione interna e le sue capacità di orientare e sensibilizzare i

pubblici interni (che dovrebbe suscitare un interesse favoloso);

Del training e dello sviluppo organizzativo (che oggi più che mai ha

l’esigenza di formare comportamenti e indicare atteggiamenti di lavoro a

estesa endurance eroica); del brand management e della possibilità di

creare una personalità d’impresa narrante capace di parlare all’animo

delle persone (il cosiddetto “animadvertising”);

Della comunicazione esterna con l’opportunità di fidelizzare i diversi

stakeholder esterni (generando un’identificazione);

Della creazione di prodotti (i quali necessitano sempre di più un nuovo

ordine narrativo che sappia generare distintività di scelta).316

315

A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p. 47.

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Le storie all’interno dell’impresa, dunque, sono molteplici così come sono

molteplici i soggetti - e i gruppo di soggetti - dai quali esse possono scaturire e

all’interno dei quali possono diffondersi. In particolare la somma delle storie

soggiacenti alla personalità d’impresa viene a costituire la cosiddetta core

corporate story317

; essa, infatti, rappresenta lo “zoccolo duro” iniziale

dell’organizzazione, ovvero vision, mission, valori, ideali e competenze

d’impresa, intorno alla quale si sviluppano poi le storie interne, esterne e quelle di

consumo inerenti al brand.

Le imprese, in questo senso, possono essere considerate come veri e propri “spazi

di narrazione aperta”318

, ovvero luoghi in cui si intrecciano diverse storie e

racconti, le quali, a loro volta si estendono dalla varietà delle conversazioni che si

innescano all’interno dell’organizzazione - sia in forma scritta che orale – alla

redazione della documentazione aziendale (persino quella di carattere più tecnico

come, ad esempio, il bilancio sociale)319

.

Più specificamente, le storie che nascono e si sviluppano all’interno e all’esterno

dell’impresa possono essere divise in tre gruppi:

Da un punto di vista individuale: tutte quelle narrazioni - insieme di

produzioni letterarie, verbali o scritte - con cui gli attori esprimono la

propria esperienza di lavoro nell’organizzazione.

Da un punto di vista strategico: il set di storie strategico - l’insieme di

produzioni narrative mirate - per promuovere attività, iniziative, progetti

interni. Si tratta di un set adoperato secondo una logica multicanale (carta,

relazione, digitalità, eventi);

Da un punto di vista del consumo: la gamma di narrazioni (visual design,

musica, arredo, ecc.) che promuove e orienta le esperienze di shopping

contemporaneo (sia di acquisto che di vendita).320

316

FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., pp. 48-49. 317

M. SCHULTZ, M.J. HATCH, M. HOLTEN LARSEN, The Expressive Organization: Linking

Identity, Reputation, and the Corporate Brand, Oxford University Press, New York, 2000, p. 196. 318

C. KANEKLIN, G. SCARATTI, Formazione e Narrazione, Raffaello Cortina editore, Milano,

1998, p. 30. 319

Per una breve e generale panoramica sull’applicabilità dello storytelling all’interno

dell’organizzazione e specificamente nella documentazione aziendale, si veda l’intervista a

Lorenzo Carpané di “Palestra della scrittura”: http://www.youtube.com/watch?v=5z2QicJjRdQ 320

A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p. 27.

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Esistono, alla luce di quanto riportato, tre tipi di storytelling: uno “interno”,

definito “organizational storytelling”, che rimanda alla produzione di storie da

parte dei soggetti interni all’organizzazione e inerenti all’esperienza di lavoro,

individuali o collettive che siano; un altro strategico, detto “management

storytelling”, che riferisce sostanzialmente al presidio della brand identity a

partire dalla brand personality e alla gestione di tutte le storie inerenti

all’organizzazione; infine l’altro “esterno”, che prende il nome di “marketing

storytelling”, che si occupa della comunicazione in chiave narrativa dei prodotti (o

servizi) dell’azienda. Procediamo adesso alla loro descrizione che, per pertinenza

del percorso di studio ed esigenza di brevità, si soffermerà sugli aspetti teorici

principali delle diverse aree, senza scendere nel dettaglio dei processi strategici

legati alla loro implementazione.

4.4 Il Management Storytelling

Abbiamo visto, nel corso del presente lavoro, come le strutture narrative

rappresentino le forme attraverso cui gli individui comprendono la realtà, le

proprie vite, le proprie azioni e quelle degli altri soggetti. L’inserimento in una

cornice di riferimento, dunque, rende ciascun evento comprensibile in funzione

del contesto in cui esso va a collocarsi e che, al contempo, esso stesso contribuisce

a generare. In questo senso, lo storytelling è in stretto rapporto, altresì, con la

memoria autobiografica - sia individuale che collettiva - di ognuno, in quanto

quest’ultima consiste in un “dispositivo narrativo che ha il compito di mantenere

il filo della coerenza agli atti unici della nostra vita, in connessione con quella de-

gli altri”321

. Così, come qualsivoglia comunità umana è costituita e mantenuta in

vita da storie che si propagano, si ripetono e si corroborano all’interno degli usi e

delle tradizioni sociali, allo stesso modo l’emergere e la tenuta di

un’organizzazione sono legate alla possibilità da parte dei propri membri di

riconoscersi in schemi e cornici interpretative condivise, le quali vanno a

rappresentare la base solida della cultura d’impresa. In questo senso, il

management storytelling va a configurarsi come un potente dispositivo di

allineamento tra i tanti racconti interni ed esterni all’azienda, ovvero tra l’apparato

321

K. FOG, C. BUDTZ, B. YAKABOYLU, Storytelling Branding in practice, cit. p. 97.

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di storie proposto dall’impresa, i racconti delle persone che vivono in azienda, l’

“autobiografia” dell’impresa stessa e, infine, i molteplici discorsi sviluppati

nell’interazione biunivoca con i mercati di riferimento322

.

Come afferma Fontana “vivere all’interno dell’organizzazione significa accorgersi

che ogni impresa recita precisi copioni condensati in formati specifici, e adopera

particolari costrutti narrativi basati certamente sul pensiero logico-deduttivo

(budget, organigrammi, piani operativi) ma anche e soprattutto sul pensiero

logico-narrativo (miti, credenze, ideali), i quali coinvolgono sia i soggetti interni

all’azienda, sia quelli al di fuori di essa.”323

.

Il ruolo dei racconti inerenti all’impresa risulta, dunque, decisivo per la percezione

che i pubblici hanno di essa e del loro stesso ruolo all’interno dell’azienda. Come

sostiene lo stesso Fontana, infatti, “chi possiede le strutture narrative di

un’organizzazione possiede i modi di costruire i significati perché le strutture

narrative sono forme universali attraverso cui le persone comprendono la realtà e

la manipolano […] chi ha in mano queste strutture è un gatekeeper narrativo, un

custode dei “cancelli del senso” di un certo contesto o di una certa situazione

reale324

.

Alla luce di quanto accennato, i costrutti narrativi vengono a rappresentare un

sofisticato mezzo retorico di mantenimento e scambio del potere all’interno

dell’organizzazione, tale da consentire a colui che possiede le chiavi d’accesso ai

suddetti “cancelli del senso” - cioè ai processi di creazione dei significati – di

plasmare e definire la percezione del reale da parte degli individui interni

all’impresa, e, di conseguenza, anche gli effetti ed i comportamenti possibili in un

determinato contesto. Dal momento che “l’organizzazione postmoderna vive in

una boundery position in cui si attraversano più pratiche discorsive e più ruoli

nello stesso tempo - quella dell’imprenditore, quella del manager, quella degli

staff segretariali, quella del personale operativo, quella del mercato” 325

-, i vertici

322

“All’identità organizzativa, intesa come sostanza, si sostituisce un nuovo modello, nel quale

l’identità è vissuta invece come racconto: non più una struttura monolitica, ma un filo che

continuamente si dipana nel tempo, attraverso le storie dei diversi stakeholder con cui l’azienda

interagisce” A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit. p. 59. 323

Ivi p.39. 324

Ivi, p.39. 325

C. SALMON, Storytelling. La fabbrica delle storie, trad. it. Guerini e Associati Editori,

Milano, 2008.

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dell’impresa cercano di presidiare tali posizioni di confine assumendo la funzione

di gatekeeper, in modo da definire e controllare l’universo di senso intorno alla

propria impresa. Chi non si occupa di tali posizioni, infatti, non assume fin in

fondo il controllo dell’organizzazione, la quale è destinata prima o poi ad essere

controllata e dominata dalla “supremazia narrativa” di qualche altro soggetto.326

Riassumendo e venendo agli aspetti più concreti del management storytelling,

come schematizza Fontana327

, i discorsi che afferiscono allo storytelling interno,

sono tesi a:

1) Informare, di solito su politiche e prassi di lavoro;

2) Motivare, tendenzialmente per accettare nuovi cambiamenti;

3) Orientare, generalmente verso l’assunzione di certe modalità di

comportamento;

4) Persuadere, abitualmente a assumere certi atteggiamenti interni;

5) Promuovere, molto spesso servizi interni (ritroviamo qui la logica del

marketing che, da strumento esterno, si ritrova a essere usato come

dispositivo di motivazione interna);

6) Far percepire: certe nuove modalità fisiche del lavoro (la nuova

procedura, la nuova disposizione spaziale delle scrivanie, la nuova

macchina in produzione ecc.)

Per Fontana, infine, “le storie organizzano, ordinano, sistemano, modellano e

plasmano la vita organizzativa sia nei suoi valori che nelle sue prassi”. Esse,

all’interno della vita organizzativa non hanno tutte la stessa funzione, ma si

326

Tali affermazioni, com’è ovvio, allargano di parecchio lo spettro in cui agisce chi si occupa di

definire ed esercitare, all’interno di un’organizzazione, la personalità e l’identità d’impresa, tale

che “Governare la narrazione in un’impresa significa per il manager divenire “stratega mediatico”

capace di favorire la socializzazione delle conoscenze, la governante della prassi di lavoro

(rendendo pubbliche le proprie competenze per il raggiungimento degli obiettivi comuni), la

percezione dei propri prodotti/servizi, la formazione di comunità di riconoscimento interno ed

esterno. [Quest’ultima] rappresenta una comunità di pratiche, dal momento che condivide modi

per gestire i problemi, le situazioni tipiche e le routine all’interno dell’impresa e, altresì, una

comunità di discorso laddove condivide modalità comuni per discutere di quest’ultimi.” A.

FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p. 40. 327

Ivi, pp. 35-36.

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dipanano in quattro funzioni narrative primarie, ovvero quella “di presidio, di

apprendimento”, di “cambiamento e di attivazione emozionale328

.

Con funzione “di presidio” si hanno le narrazioni di controllo, il mantenimento e

la diffusione delle conoscenze, delle esperienze e dei valori all’interno delle

organizzazioni. La funzione “di apprendimento”, invece, è quella che si concreta

nelle narrazioni a scopi introduttivi e/o di presentazione, le quali hanno il compito

di diffondere pratiche morali e inserirle opportunamente all’interno delle pratiche

d’impresa. Le storie “di adattamento”, d’altra parte, svolgono la funzione di

spiegare, promuovere, incentivare o presidiare i cambiamenti - incessanti - che

avvengono all’interno dell’organizzazione (si pensi, ad esempio, all’introduzione

di nuove prassi oppure il ben più traumatico taglio del personale). Infine, le

narrazioni “di eccitamento” sono quelle storie che stimolano particolarmente il

pubblico generando investimenti affettivi di carattere positivo.

Il management storytelling, in ultima analisi, cine a configurarsi come uno

strumento fondamentale di implementazione della brand identity, a cui i vertici

aziendali fanno ricorso per una maggiore coerenza all’interno e all’esterno della

propria organizzazione e per il presidio delle posizioni di “potere narrativo” al suo

interno.

4.5 L’Organizational Storytelling

Dal punto di vista dei dipendenti, invece, il termine storie organizzative sta ad

indicare “quelle narrazioni, quell’insieme di produzioni letterarie, verbali o scritte,

iconiche e filmiche, con cui gli attori organizzativi esprimono, a sé e agli altri, la

propria esperienza di lavoro e gli danno un senso nell’organizzazione”329

, oppure

ancora, per Cortese, “un resoconto soggettivo, strutturato in forma di racconto,

relativo a un evento passato connesso ad una problematica rilevante, che consente

di pervenire ad una attribuzione di significato”330

. Tramite le narrazioni -

individuali e di gruppo - dunque, viene concessa a ciascun individuo narrante la

328

M. BARONE, A. FONTANA, Prospettive per la comunicazione interna e il benessere

organizzativo, Franco Angeli, Milano, 2005 329

A. FONTANA, 2005 330

C. CORTESE, L’organizzazione si racconta, cit., p. 55.

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possibilità di recuperare ed esprimere la dimensione personale dei vissuti e delle

esperienze di lavoro all’interno della realtà aziendale mediante la “comprensione

della dinamica degli eventi e delle situazioni, di messa a fuoco degli elementi più

significativi, di valutazione delle cause e degli effetti”331

. È indubbio, come si

accennava precedentemente a tal proposito, il tentativo da parte dell’organo di

governo dell’azienda di “de-verticalizzare” l’assetto narrativo dell’organizzazione

nell’ottica di una maggiore partecipazione da parte dei dipendenti e di una vera e

propria co-creazione delle storie. Quest’ultimi, attraverso la testimonianza dei

vissuti personali, dei colori, delle emozioni, delle avventure, delle soddisfazioni e

- perché no? - delle delusioni e dei disagi all’interno dell’impresa, possono in

qualche modo riappropriarsi di essa e attribuire nuovi sensi al ruolo che svolgono

al suo interno.

In questo senso le storie dei dipendenti, così come quelle del brand, possono

essere anch’esse, analizzate dal punto di vista delle strutture archetipiche

fondamentali della narrazione, dal momento che esse si dipaneranno attraverso un

inizio, l’evidenziazione di un problema o una minaccia, l’impiego di strumenti

(tangibili o cognitivi) per andare incontro a tale problema, e infine la sua

risoluzione e il ritorno/approdo ad una situazione stabile (che può, in ogni caso,

evidenziare delle criticità).

Riprendere le storie delle persone che lavorano all’interno di un’azienda, però,

non si esaurisce in un’operazione di semplice, magari malinconico, ricordo delle

esperienze trascorse all’interno del contesto lavorativo. Lo storytelling, infatti,

rappresenta piuttosto il “collante” ideale per ricostituire all’interno di

un’organizzazione aziendale un senso di appartenenza ed uno spirito di squadra

forti, attraverso l’emersione del talento, delle storie virtuose e degli esempi di

eccellenza da seguire.

Esso, inserendo all’interno del medesimo piano narrativo le singole storie di chi

lavora all’interno dell’impresa, unite in un “canovaccio” comune, viene a

configurarsi come un processo di rafforzamento ed incentivazione dell’unità

all’interno dell’azienda, attraverso i valori della solidarietà e, al contempo, della

meritocrazia. Obiettivo dell’organizational storytelling, dunque, è quello di far

331

Ivi, p. 60.

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sentire i propri dipendenti parte integrante di una storia, la grande storia

dell’impresa che, dal canto suo, sulla base della core corporate story, lascia

partire una miriade di racconti inerenti ed essa allo scopo di creare valore e

motivazione presso i propri stakeholder interni. Consiste proprio in tale prospetta

il “quid” dello storytelling, che si concreta, così, in una modalità di

comunicazione che va oltre la dimensione tecnica e routinaria dei turni di lavoro,

delle prassi, delle politiche commerciali, per rivolgersi al lato umano – il più

umano possibile, potremmo dire – dei propri attori interni.

Considerare con più attenzione tale modalità di raccontare in maniera partecipata

la propria impresa, pertanto, è diventato ad oggi un obbligo per le imprese che

operano nei mercati: ciò è vero se non altro perché, scetticismi e perplessità

metodologiche degli addetti ai lavori a parte (ancora presenti a tutt’oggi), investire

su un personale consapevole e coinvolto e quindi motivato a “dare il massimo”

all’interno dell’organizzazione può avere dei cospicui ritorni in termini di

redditività e rendere soddisfatti, in tal senso, tutti i manager che fanno capo

all’impresa stessa332

.

4.5.1 Sulla condivisione e l’autenticità delle storie all’interno dell’impresa

Al fine di mantenere un equilibrio tra le diverse voci degli attori in scena, risulta

cruciale, in quest’ottica, la costruzione di un’ “aura” narrativa coerente e forte

all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Essa, partendo dagli input – o forse

sarebbe più corretto parlare di incipit – forniti dall’organo di governo

dell’impresa, dovrà, però, necessariamente scontare la partecipazione di una

varietà di individui ad essa collegati nell’ottica di una vera e propria co-creazione

dell’identità.

332

A proposito dei dubbi e delle ritrosie (dettati per lo più dalle lacune enciclopediche) dei

manager d’impresa sono particolarmente incisive e divertenti le parole di Denning che,

testimoniando la sua . seppur datata - esperienza nel campo del corporate storytelling afferma:

“Do stories really have a role to play in the business world? Believe me, I’m familiar with the

skepticism about them. When you talk about ‘storytelling’ to a group of hardheaded executives,

you’d better be prepared for some eye rolling. If the group is polite as well as tough, don’t be

surprised if the eyes simply glaze over.” S. DENNING, Telling stories, Harvard Business Review,

Watertown, 2004.

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A tal riguardo è chiaro il monito di Czarniawska, per la quale “non basta scegliere

un’identità attraente e poi presentarla con l’aiuto di una retorica appropriata.

L’identità deve essere accettata dagli attori coinvolti”333

. Secondo l’autorevole

autrice polacca, la semplice presentazione di una storia o di un set di storie da

parte dei vertici dell’azienda in maniera rigidamente verticale (top-down) non

rappresenta la maniera migliore per ottenere accettazione ed adesione da parte

delle persone coinvolte. Quest’ultime, infatti, per essere davvero coinvolte e

motivate nei discorsi intorno all’organizzazione devono assurgere a vere

protagoniste della creazione dell’identità, attraverso l’ascolto delle loro

testimonianze e la valorizzazione dei loro contributi (Storylistening). Dello stesso

avviso è Christian Salmon, per il quale lo storytelling “è un’operazione più

complessa di quanto si potrebbe credere a prima vista: non si tratta soltanto di

“raccontare storie” ai dipendenti, di nascondere la realtà con un velo di invenzioni

ingannevoli, ma anche di far condividere un insieme di credenze atte a suscitare

l’adesione e di orientare i flussi di emozioni, di creare insomma un mito collettivo

vincolante.”334

L’approccio narrativo può intervenire, quindi, anche in questa prospettiva, dal

momento che “uno dei [suoi] punti di forza sta nel fatto che esso è in grado di

dare voce ad un ampio spettro di attori organizzativi, mostrando in che modo le

loro interpretazioni della realtà organizzativa possono corrispondere o differire”335

contribuendo, in questo modo, a renderle credibili e coerenti grazie alla

negoziazione del senso partecipata.

Altro vantaggio dello organizational storytelling interno, poi, consiste nella

ricostruzione dell’autenticità e della spontaneità degli attori organizzativi poiché

permette a quest’ultimi di non recitare astrazioni e contesti formulate da altri, ma

di articolare in prima persona storie che diventano la testimonianza di un proprio

vissuto personale, fatto di realtà proprie, di eventi, di emozioni e di colori unici ed

irripetibili. Questo aspetto, in particolare, risulta decisivo nell’ottica d’impresa

333

B. CZARNIAWSKA, Narrare l’organizzazione. La costruzione dell’identità istituzionale,

Edizioni di Comunità, Milano, 2000, p. 217 334

C. SALMON, C, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits,

Paris, 2007; trad.it. di G. Gasparri, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, 2008, p. 61. 335

B. CZARNIAWSKA, Narrare l’organizzazione. La costruzione dell’identità istituzionale, cit.,

p. 5.

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poiché, attraverso l’incentivazione del racconto libero e schietto del sé all’interno

dell’azienda da parte dei dipendenti che vi lavorano, permette all’organo di

governo di “tastare il polso” della situazione all’interno dell’organizzazione ed

individuare quali sono le criticità sulle quali intervenire336

.

4.5.2 L’organizational storytelling secondo Van Riel

Nel suo libro “The expressive organization: linking reputation, identity and

corporate brand”, Van Riel pone subito al centro la storia aziendale: “I shall claim

that communication will be more effective if organizations rely on a so-called

sustainable corporate story as a source of inspiration for all internal and external

communication programs. Stories are hard to imitate, and they promote

consistency in all corporate messages”. L’eminente studioso olandese intende la

corporate story come una storia unica, distintiva ed irrepetibile, in grado di

differenziare l’azienda rispetto ai propri concorrenti attraverso la creazione di un

vero e proprio vantaggio competitivo. Essa viene a configurarsi, dunque, come

una solida e proficua fonte di ispirazione in riferimento all’implementazione di

qualsivoglia piano di comunicazione o di management. Per Van Riel, inoltre, la

“storia d’impresa” costituisce non soltanto il nucleo della personalità dell’impresa

ma, allo stesso tempo, la “pietra angolare” sulla quale sono costruiti tutti i racconti

facenti capo all’organizzazione (“An ideal (normative) sustainable corporate story

is a realistic and relevant description of an organization, created in an open

dialogue with stakeholders the organization depends upon”337

). È per assurgere a

tale ruolo che, prosegue Van Riel, essa deve riportare quattro caratteristiche

fondamentali, ossia debba essere:

336

Un singolare esempio di Organization Storytelling è quello che dei lavoratori “Agile” - ex

“Eutelia” – e del loro libro Il tempo senza lavoro, curato da Massimo Cirri, che raccoglie le

testimonianza di 12 lavoratori dell’azienda (a loro volti coadiuvati nella scrittura dalla Scuola

Holden). Il libro racconta le tormentate vicende professionali ed umane dei lavoratori Agile –

Eutelia - i cui manager sono finiti in tribunale per aver sottratto più di 30 milioni di euro

all’aziende - alle prese, loro malgrado, con lo stato di inoccupati. Il libro è una sorta di “catarsi

collettiva” in cui la scrittura, sotto forma di testimonianza dei propri vissuti, delle proprie emozioni

e dei propri tormenti, diventa terapeutica e mette su carta i disagi interiori nella speranza che essi

vengano al più presto risolti (il processo è tuttora in corso). 337

C. B. M .VAN RIEL – J. M. T. BALMER, Corporate identity: the concept, its measurament

and management,” European Journal of Marketing”, volume 6, 1997.

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- Distintiva, perché i portatori di interesse siano consapevoli che il messaggio

intrinseco che la storia reca in sé costituisce un valore aggiunto dell’impresa,

rendendo l’intero racconto unico ed irripetibile.

- Realistica, in modo tale che gli stakeholder la intendano come il “nucleo

pulsante” dell’azienda, che di quest’ultima rappresenta i valori e gli ideali,

scortando le sue peculiarità e le sue competenze.

- Interattiva, nel senso che corporate story deve avere una natura dinamica: essa

è non è costituita a priori, ma prodotta e riprodotta incessantemente dalla continua

interazione e dal continuo confronto fra portatori di interesse interni ed esterni.

Tale dialettica deve essere in grado di valutare e “soppesare” di volta in volta la

rilevanza e la credibilità dei racconti, attraverso continui feedback inernti alle

percezioni interne ed esterne all’impresa, nonché alle esigenze da parte delle

audience di riferimento.

- Sostenibile, strettamente relata con quella precedente, la caratteristica della

sostenibilità è quella probabilmente più importante a parere dello stesso Riel.

Nella fattispecie, ogni corporate story “will only be sustainable if it succeeds in

finding and maintaining the right balance between the competing demands of all

relevant stakeholders and the desire of the organization itself”.

Il concetto di sostenibilità, dunque, si estrinseca essenzialmente nel balance tra le

richieste dei portatori d’interesse, da una parte, e i valori e i desideri

dell’organizzazione stessa dall’altra.

4.6 Il Marketing Storytelling

Il focus di questo paragrafo è posizionato sullo storytelling applicato alla

comunicazione esterna d’impresa, segnatamente per quel che concerne la

comunicazione pubblicitaria, la quale rappresenta, a tutt’oggi, l’investimento più

importante a livello finanziario che le imprese periodicamente effettuano allo

scopo di comunicare con i loro pubblici esterni. Essa, di fatto, costituisce un ponte

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di collegamento tra le organizzazioni, i mercati in cui quest’ultime agiscono e i

loro stakeholder di riferimento.

Sintetizzando ancora con Fontana, gli obiettivi dello storytelling esterno

d’impresa possono consistere nel:

1) Convincere a comprare i propri prodotti e servizi facendo leva su la

razionalità e la logica;

2) Enfatizzare le componenti emozionali dei prodotti e servizi (per

manipolare l’impulso irrazionale di acquisto compulsivo);

3) Persuadere nella legittimazione dei propri valori ideali (qui si “compra”

un set di idee guida).

4) Coinvolgere nell’esperienza di consumo, ormai teatralizzata, per generare

un riconoscimento tra le autobiografie umane e le autobiografie delle

marche-prodotti.338

Nel contesto economico attuale, che si contraddistingue per l’ipercompetitività del

mercato e per una crescente omogeneità oggettiva dei prodotti in commercio, è

divenuto ormai necessario per le imprese fare appello alle proprie peculiarità più

soggettive e meno imitabili, quali sono appunto i valori, la cultura, e le storia

(intesa come core corporate story) che caratterizzano la marca.

Inoltre, data la crisi imperversante dei mercati internazionali, i consumatori hanno

sviluppato mediamente, negli ultimi anni, una maggiore attenzione al rapporto

qualità/prezzo inerente alle merci e ai servizi, e, di conseguenza, una minore

propensione alla fedeltà alla marca; ciò non ha fatto altro che rendere ancora più

urgente l’impiego di strumenti comunicativi in grado di coinvolgere fortemente il

pubblico dei consumatori – sempre meno attento e affascinabile e con un reddito

sempre più basso - al fine di renderlo partecipe ed immedesimarsi nei valori e

nella storia del brand.

D’altronde, da quanto si è discusso a proposito delle caratteristiche e delle

specificità dell’approccio narrativo, emerge chiaramente come, nel momento in

cui un brand sceglie di comunicare i benefit del proprio prodotto attraverso la

338

A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p.36.

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modalità narrativa, esso non comunicherà soltanto il prodotto in quanto tale, ma lo

arricchirà di suggestioni ed emozioni che trascendono la dimensione oggettivo-

descrittiva della merce e mirano al coinvolgimento diretto dei destinatari del

messaggio. Tali elementi “aggiuntivi”, dunque, renderanno la comunicazione

stessa maggiormente accattivante per il pubblico consumatore, incrementandone,

allo stesso tempo, la memorabilità e la distintività rispetto alle imprese

competitor.

A tal proposito è “radicale” il parere di Jensen secondo cui sono proprio le storie

in sé a determinare la nascita dei brand, arrivando a sostenere come “solo quando

la storia è stata raccontata ad un numero sufficiente di consumatori ed essi sono in

grado di ricordarla, allora l’azienda potrà affermare di avere un brand”339

.

Ogni impresa, in effetti, ha un passato ricco di avvenimenti, una genesi da

raccontare, dei fondatori (o compratori) da rendere mitici e una cultura, un

insieme di valori, ideali e competenze che le rendono uniche e che le hanno

condotto allo sviluppo e alla definizione della strategia di business; è proprio tra

questi elementi firm-specific che le storie devono attingere il loro materiale,

raccontando ai suoi pubblici l’universo della marca e dei suoi prodotti, e

conducendoli all’interno del proprio immaginario.

In particolare, le storie inerenti ai prodotti possono essere: costruite insieme a

quest’ultimi; realizzate ad hoc per un particolare momento; prese in prestito dalle

arti o dalla cultura popolare. Qualunque sia la loro origine, però, esse devono

essere coerenti con la strategia e la vision aziendale, nell’ottica di un’aderenza -

fondamentale per ogni organizzazione - tra brand personality, brand identity e

brand image.

L’uso delle storie nella comunicazione pubblicitaria, come è ben noto, ha radici

lontanissime. In Italia, ad esempio, fin dai tempi di Carosello, quando le finalità

commerciali delle pubblicità erano annacquate e concentrate nel famoso “codino”

finale, la pubblicità ha raccontato delle storie, costruendo, a partire dalla fantasia

dei creativi, contesti narrativi fantastici per coinvolgere, emozionare o

semplicemente divertire l’audience dei consumatori/spettatori. Si tratta, in termini

339

R. JENSEN, The Dream Society. How the Coming Shift from Information to Imagination Will

Transform Your Business, McGraw Hill, New York, 1999, p. 56.

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più attuali, del cosiddetto “advertinment”340

(risultato della crasi tra “advertising”,

“pubblicità”, ed “entertainment”, ossia “intrattenimento”) che unisce in un unico

artefatto mediale gli scopi commerciali di un particolare brand - con l’obiettivo di

pubblicizzare e favorire la propensione all’acquisto presso i consumatori - con

quelli inerenti al divertimento, e in generale al coinvolgimento emotivo, da parte

dello stesso pubblico. La finzionalità della pubblicità contemporanea viene, così, a

configurarsi come la produzione (e la promozione) di esperienze che trascendono

le dicotomie vero-falso, apparenza-esistenza, assumendo significati inusitati e

innovativi. A sua volta, l’alone immaginifico e narrativo di cui sono avvolti i

prodotti, è divenuto, con il passare degli anni, parte integrante del loro stesso

valore economico all’interno del mercato, assurgendo ad asset ormai

imprescindibile per qualsivoglia bene o servizio.

Se fin da tempi lontanissimi, infatti, la comunicazione pubblicitaria ha fatto leva

su precisi meccanismi propri della narrazione allo scopo di destare l’attenzione del

suo pubblico, è con l’avvento dell’era postmoderna che le marche hanno iniziato a

costruire intorno al prodotto un vero e proprio “mondo possibile”341

inscindibile

dal prodotto stesso, un immaginario valoriale (e “sensoriale”) e che in molti casi

viene a configurarsi come elemento davvero distintivo per i brand ed essenziale

nella scelta del consumatore, più di quanto non lo siano gli aspetti materiali e

tangibili.

340

P. MUSSO, Advertainment. La comunicazione pubblicitaria alle soglie del Duemila,

in “Comunicazioni Sociali”, N.2, Anno XXI, Aprile-Giugno 1999, Vita e Pensiero, Pubblicazione

dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, pp. 246-256. 341

La nozione di “mondo possibile” di Umberto Eco, con la quale si intende un costrutto culturale

ipotizzato dal destinatario, che possiede una natura narrativa contenente valori, attori e situazioni e

che configura un possibile corso di eventi, è stata declinata da Andrea Semprini nei mondi

possibili della marca. Secondo Semprini, tutti i mondi possibili di marca sono principalmente

caratterizzati dalle seguenti caratteristiche: una natura funzionale (anche se tale natura può

apparire come particolarmente vicina alla realtà quotidiana, e può dunque impiegare un linguaggio

quotidiano); un’elevata coerenza interna; la capacità di produrre un elevato livello di

differenziazione rispetto agli analoghi mondi possibili delle marche concorrenti; la capacità di

selezionare un proprio specifico pubblico.

I mondi possibili di marca, secondo l’eminente studioso italiano, sono dei mondi virtuali che

possono attualizzarsi soltanto con la partecipazione diretta del destinatario finale. La marca in sé,

dunque, non costruisce il mondo possibile in maniera autoreferenziale ma sono i consumatori che,

aderendo alla costruzione immaginaria della marca stesa, attribuiscono al mondo una vera

esistenza. Cfr. A. SEMPRINI, Marche e mondi possibili. Un approccio semiotico al marketing

della marca, Franco Angeli, Milano, 1993.

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Le merci contemporanee, infatti, possono essere identificate con quelle che

Carmagnola definisce delle vere e proprie “merci immaginarie”342

il cui

“fantasma” che vi si cela dietro, però, non è un fantasma nefasto o ingannatore,

bensì un “disvelatore", un dispositivo di valorizzazione dell’identità che ha

bisogno di processi narrativi per riconoscersi e viversi”343

. Una merce “mitica”,

dunque, è una merce in sé ad alto coefficiente narrativo, inserita in strutture

tipiche – o per meglio dire, archetipiche – che nasce e si sviluppa all’interno

dell’incertezza esistenziale e comportamentale della società: a partire da

quest’ultima, essa è in grado di creare risposte “oggettive” e credibili che

diventano vere e proprie strategie di vita per ciascun individuo, acquisendo così,

un carattere quasi divinatorio e numinoso. Essa è in grado di fornire molteplici

risposte a più esperienze di vita, dall’immaterialità alla praticità, ma la sua essenza

sta, prima di tutto, nell’essere “merce autobiografica” che fornisce risposte alle

“forme di vita” delle persone, addirittura, in alcuni casi, orientandole e

definendole ex-novo. 344

In questo senso la narrazione può costituire, così, un ottimo volano per le imprese

nella definizione, prima, e nella trasmissione poi, dell’immaginario di marca,

incrementando l’appeal emozionale legato ai prodotti e alla loro comunicazione,

nonché il valore della marca in generale. Le storie, infatti, riescono ad avere una

forte presa sul pubblico, dal momento che trasportano quest’ultimo direttamente

nell’universo della marca, facilitando in maniera esponenziale la comprensione

dei fatti, l’evolversi degli avvenimenti e delle azioni legate all’impresa, nonché

l’assimilazione dei valori ad essa relati. Agisce ancora una volta, attraverso la

narrazione - in questo caso pubblicitaria -, quella atavica forza che “instaura”

l’individuo nel mondo che abita e nella sua stessa esistenza, spingendolo,

attraverso l’eterna moltitudine di progetti, conflitti, eventi, cambiamenti e

342

F. CARMAGNOLA, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction

economy, Mondadori, Milano, 2006. 343

A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p. 77. 344

Sull’importanza degli aspetti immateriali legati alla marca, e in generale, sulle sue implicazioni

psicologiche e culturali all’interno della società contemporanea si confronti, oltre al già citato

Semprini, tra gli altri, L. MINESTRONI, L'alchimia della marca, Franco Angeli, Milano, 2002,

L. MINESTRONI, G. FABRIS, Valore e valori della marca. Come costruire e gestire una marca

di successo, Franco Angeli, Milano, 2004, J.M. FLOCH, Semiotica, marketing e comunicazione.

Dietro i segni, le strategie, trad. it., Franco Angeli, Milano, 2003, G. MARRONE, Il discorso di

marca, modelli semiotici per il branding, Laterza, Roma-Bari, 2007.

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trasformazioni ineluttabili, verso una determinata direzione all’interno della

propria esistenza.

D’altronde, le “storie dell’impresa” sono del tutto riconducibili a quelle che

l’uomo si racconta ogni giorno dalla notte dei tempi, le cui strutture portanti e

figure tipiche principali sono state messa in evidenza, come abbiamo visto nel

primo capitolo, da studiosi eminenti del calibro di Vladimir Propp. Sulla scorta di

quest’ultime, dunque, non risulterà ostico equiparare, in una sorta di “meta-

narrazione” il percorso di vita delle persone a quello del brand, il quale, così come

ogni Eroe che si rispetti, persegue degli obiettivi - segnatamente economici ma

anche intangibili legati alla brand loyalty - in vista del raggiungimento delle sue

Nozze e del suo Incoronamento (che può essere inteso sotto diverse forme, la cui

principale si sostanzia nell’acquisto di nuovi clienti e/o la fidelizzazione di quelli

esistenti), scontrandosi e duellando con diversi Antagonisiti (principalmente i

competitors dell’impresa stessa) ma coadiuvata da personaggi o fattori favorevoli

alla sua azione (su, tutti, gli stessi stakeholder dell’impresa che con il loro

consenso permettono a quest’ultima di perseguire gli obiettivi di cui sopra,

venendo ad assurgere al ruolo di Aiutanti/Donatori). Per quanto riguarda i

messaggi veicolati tramite le storie rappresentate all’interno delle singole

campagne pubblicitarie e dei singoli annunci/spot, il discorso è assai simile e per

lo più si riduce ad una struttura narrativa semplice e corroborata nei decenni. Essa

consiste, il più delle volte, nella presenza di un eroe – che può essere anche un

“uomo qualunque” oppure un autentico antieroe - alle prese con un ostacolo o

comunque un problema (Antagonista e suo Danneggiamento) che gli impedisce di

raggiungere il proprio obiettivo (Nozze e Incoronamento); obiettivo che egli riesce

a raggiungere grazie all’impiego del Mezzo magico (ossia lo stesso prodotto

pubblicizzato).

Le marche, così come i miti di cui abbiamo trattato all’interno del primo capitolo,

si muovono sul terreno dell’ideologia, dei sogni, delle emozioni e degli affetti più

intimi dell’individuo. L’integrazione sociale del mito sta proprio nella sua

capacità di congiungere il sogno privato con quello collettivo, coltivando in sé una

promessa che, parlando all’individuo nella sua unicità, si allarga a tutti mediante

scale di valori e strutture di senso universalmente riconoscibili.

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La forza dello storytelling, in questo senso, sta nel coinvolgimento diretto

dell’audience di riferimento e nell’intercettazione delle tracce emotive ed

esperienziali inerenti alle biografia di ognuno.

Come afferma Fontana, infatti, “lo storytelling diventa marketing autobiografico

perché la memoria d’impresa, consapevole della vita sul territorio in cui si trova

ad operare e responsabile in qualche modo di essa, intercetta e si fonde con la

memoria autobiografica dei diversi soggetti a cui l’impresa tenta di rivolgersi. Il

brand che si racconta diventa una delle principali istanze mitopoietiche delle

società avanzate, generatrici di senso e di significati condivisi.”

Lo storytelling, in definitiva, viene a configurarsi come un utile strumento di

supporto alla comunicazione d’impresa - sia interna che esterna -, contribuendo a

migliorare l’impatto, la credibilità, l’efficacia e la memorabilità dei messaggi

trasmessi ai propri stakeholders di riferimento, nell’ottica di una maggiore

coerenza tra brand personality, brand identity e brand image345

. Attraverso di

esso le imprese assurgono al ruolo di “cantastorie” dell’era contemporanea,

canalizzando le traiettorie emotive ed esperienziali comuni a ciascun

consumatore/spettatore al fine di condurre quest’ultimo nella dimensione

universale ed eterna – diremmo noi “archetipica” – delle umane vicissitudini.

Ed è proprio l’immedesimazione, in ultima analisi, il grimaldello fondamentale

che apre le porte che separano il brand e lo spettatore/consumatore e dà il via a

quella “corrispondenza di sensi” la quale, seppur non propriamente “amorosa”,

risulta quantomeno empatica e, addirittura, pregna di infinito.

345

A tal proposito Jon Thomas, in un articolo sul digital storytelling (ovvero sullo storytelling

diffuso sul Web) apparso su “postadvertising.come” riassume in 7 punti le ragioni per il quale esso

risulti importante per la comunicazione d’impresa. Nello specifico, secondo l’autore:“stories

produces experiences - reveal what makes your message unique - are the emotional glue that

connects you to your customers, - shape information into meaning, - can motivate an audience

toward your goal - are more likely to be shared - are less likely to be resisted.”

http://www.postadvertising.com/2012/08/7-reasons-storytelling-is-important-for-branded-content/

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4.7 Storytelling e spot pubblicitari: due esempi

Le storie ai tempi di Carosello: Unca Dunca e le caldaie Riello

Procediamo ora all’analisi, attraverso le funzioni e i personaggi tipici della teoria

di Propp (cfr. par. 1.8.1) di uno spot basato su di un plot narrativo346

che risale ai

tempi del glorioso Carosello, il già citato - e sterminato - contenitore di storie

inerenti alle imprese (oggi riproposto, seppur in forma ridotta e differente rispetto

all’originale, sulla rete ammiraglia Rai nel prime time serale). Lo spot in

questione347

risale al 1961 e fa parte di una lunga serie di spot andati in onda tra il

1961 al 1970. Esso pubblicizza una (allora) nota marca di caldaie e condizionatori

costruiti in Veneto ed ha come protagonista "Unca Dunca", uno stralunato

indiano, disegnato dalla matita di un giovane Bruno Bozzetto, uno dei più celebri

cartoonisti italiani.

La storia inizia con “Unca Dunca” (l’Eroe), capo del villaggio di indiani

d’America, ritratto felice e sorridente sul suo trono mentre incalza frenetica la

colonna sonora dello spot (nella quale spicca la presenza del tamburo, il più

classico degli strumenti tribali). Il protagonista riceve subito un monito - cantato

- da quello che sembra essere il vecchio sciamano del villaggio (il Mandante), il

quale lo avverte di un pericolo imminente: l’intenzione da parte di Giaguaro

Pezzato (l’Antagonista) di detronizzarlo e privarlo della sua stessa capanna

(Danneggiamento). A questo punto Unca Dunca, spronato dal suo mentore ad

intervenire (Mediazione, momento di connessione), è afferrato e portato via di

peso da un gruppo di uomini (Donatori) che, una volta poggiato a terra il sovrano,

gli porgono frusta, scudo e cavallo per prepararlo al duello (Fornitura). Unca

Dunca, convinto ormai di sconfiggere il suo nemico parte per il deserto (Partenza)

in sella al suo pigro e inebetito cavallo (l’Aiutante), una sorta di Ronzinante del

vecchio West. Qui incontra, per la strada, degli improbabili cartelloni pubblicitari

346

Per quel che riguarda le storie dell’advertainment , esse possono auto concludersi in un solo

spot (è il caso dei 2 esempi presi in esame), oppure dispiegarsi su intere campagne pubblicitarie

che possono occupare anni ed anni di programmazione televisiva (si pensi, solo per restare nel

nostro Paese alle campagna Tim che segue le avventure della celebre cantante-ragazza qualunque

Chiara Galiazzo) . Il tema della serialità, meccanismo di produzione testuale che risale ai romanzi

a puntate – i cosiddetti feuilleton – della Francia di inizio ‘800, è argomento articolato e

meriterebbe, perciò, una trattazione a parte. Per un approfondimento si rimanda a A. CICALESE,

Fatti di consumo, cit., Cap V, “Serialità e transtestualità”, p. 101. 347

http://www.youtube.com/watch?v=LscaNw48iM8

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dotati di visual e headline che raffigurano il Giaguaro pezzato ritratto con la sua

proverbiale frusta in atteggiamenti intimidatori: i cartelli recitano, nell’ordine:

“Giaguaro Pezzato…”, “Schianta, devasta, polverizza” e “Pussa via!”

(Trasferimento tra due reami). Il protagonista arriva, dunque, al cospetto del suo

nemico che gli fa subito una dimostrazione della sua forza e della sua abilità

riducendo in tanti pezzettini una mela che pende dal ramo di un albero con il solo

uso della sua fedele frusta. Unca Dunca ne rimane impressionato e, fuggendo

dalle prime scoccate della temibile arma (Lotta), si nasconde dietro un grande

masso. Il riparo di fortuna però, si rivela precario, dato che Giaguaro Pezzato in

pochi colpi riserva alla pietra la stessa sorte che aveva serbato alla mela poco

prima. A questo punto Unca Dunca rimane scoperto ed indifeso e Giuaguaro

Pezzato con un colpo gli taglia in due la sua amata penna, simbolo del suo potere

e della sua stessa identità (Marchiatura). È qui che Unca Dunca si vede ferito nel

profondo, si arrabbia e imbraccia anch’egli la sua frusta, sbattendola a terra con

decisione. Quest’ultimo, non fa in tempo a mostrare preoccupazione e paura per lo

slancio del suo avversario che viene subito colpito dalla sua frusta, la quale gli

taglia entrambe le penne che porta sul capo, tutti i suoi capelli e persino parte del

vestito che porta addosso, costringendolo a raccoglierlo e tenerlo su prima che si

sfili del tutto mostrando la sua indignitosa e comica nudità. Giauguaro Pezzato,

sconfitto ed umiliato nel profondo, fugge a gambe levate (Vittoria) abbandonando

definitivamente le sue manie di sopruso (Rimozione della sciagura o della

mancanza). Unca Dunca, dopo aver esclamato un altro dei suoi proverbiali

“Augh!”, fa ritorno al suo villaggio (Ritorno) e viene sollevato di peso - questa

volta per inneggiare alla sua vittoria - da una folla festante con tanto di cartelloni

dedicati che lo restituisce al posto che gli compete, il suo trono, incoronandolo

con una grande corona di penne, proprio come quella che aveva in testa prima

dell’allontanamento (Nozze e Incoronamento). A questo punto lo spot termina con

Unca Dunca, felice e rilassato sul suo amato trono, che ferma la musica

esclamando un sonoro “Sileeeenzio! Ora voglio stare tranquillo!”, al quale

risponde una schiera di personaggi sorridenti che urlano insieme “Riello”, il nome

della marca che con un’assonanza chiude il cartone animato e introduce al codino

pubblicitario finale (staccato, come è ben noto, dai valori di marca).

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“Thank you, Caregiver”, lo spot Procter and Gamble

Pervenendo alla narrazione pubblicitaria contemporanea, segnatamente per quel

che riguarda gli spot pubblicitari, gli esempi di storytelling sono innumerevoli.

Essi si contraddistinguono soprattutto per la loro spettacolarità - legata spesso a

ricercati artefici cinematografici e letterari - e per la loro brevità, che costringe

imprese e creativi a condensare i racconti nello spazio di poche decine di secondi.

Le storie così, divengono un “concentrato di senso” che, a partire da una struttura

narrativa essenziale e un numero ridotto di figure del discorso, si propaga nella

mente dello spettatore/consumatore permettendogli, in questo modo, di collegare

tra loro tutte le isotopie soggiacenti al testo.

È il caso, ad esempio, dello spot Procter & Gamble348

, inserito nella campagna

pubblicitaria apparsa sugli schermi a partire dalla primavera del 2012, che ha

come protagonista la categoria delle mamme e come tema di fondo di quello degli

(allora) imminenti giochi olimpici svoltisi a Londra nell’estate dello stesso anno.

Il commercial, firmato dal regista messicano Alejandro González Iñárritu e

dall’agenzia Wieden&Kennedy, mette in scena quattro madri che in quattro

diverse città del pianeta, Londra, Rio De Janeiro, Los Angeles, Pechino,

accompagnano e assistono i propri figli piccoli nelle loro attività sportive

(rispettivamente la ginnastica, la pallavolo, la corsa e il nuoto). Le immagini, che

scorrono all’interno di un montaggio alternato accompagnate splendidamente

dalle note del brano “Divenire” ad opera di Ludovico Einaudi, mostrano le

mamme impegnate prima a dare la sveglia ai propri piccoli assonnati, mentre

ancora albeggia il sole, e poi a preparare loro con cura la colazione. Dopo il pasto

mattutino è tempo di prepararsi ed uscire per andare agli allenamenti, i quali si

svolgono sotto gli occhi attenti e amorevoli delle madri, che guardano i loro figli

impegnarsi e divertirsi. Si vedono, poi, le stesse mamme alle prese i vari

trasferimenti in macchina, con le faticose faccende di casa (inerenti soprattutto al

lavaggio e alla cura degli indumenti sportivi dei loro bimbi) e, nel caso della

mamma afro-americana di Los Angeles, affaccendate a curare le ferite e i traumi

riportati dall’attività fisica. Scorrono poi, le immagini delle mamme che incitano e

incoraggiano i propri figli durante i duri allenamenti a cui sono sottoposti: si vede,

348

http://www.youtube.com/watch?v=0ruHOaHrGnQ

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ad esempio, la mamma cinese che sul bordo della piscina segue bracciata per

bracciata l’incedere della propria figlia in acqua, mentre è la mamma americana

che rassicura con un affettuoso sguardo la sua bambina che ha appena sbagliato

un esercizio con la sbarra. A questo punto la scena cambia e la bambina, cresciuta

dopo l’ellissi temporale, si ritrova ad eseguire il suo esercizio sulla pedana delle

olimpiadi di Londra 2012 in un’arena gremita di pubblico, mentre la colonna

sonora incalza ed aumenta il tempo. Stessa cosa accade al ragazzino nero che,

cresciuto, dalla palestra della sua città si ritrova a scattare sulla pista olimpica in

uno stadio tambureggiante, poi alla giovane nuotatrice cinese, che appare in

televisione sotto gli occhi ansiosi ed emozionati di amici e parenti e il pallavolista

e infine al pallavolista brasiliano che, con un abile effetto della regia, si solleva

per schiacciare la palla sulla sabbia della spiaggia di Rio per poi ritrovarsi, ormai

adulto,a segnare il punto in un palazzo dello sport di Londra. A questo punto le

immagini tornano sulla ginnasta che, una volta eseguito l’esercizio, corre

emozionata ad abbracciare la sua mamma sugli spalti; il forte impatto emozionale

della scena è accentuato dal “rallentamento” della musica che fa sì che tutta

l’attenzione e il raccoglimento del pubblico siano dedicati al momento del

ricongiungimento commosso e liberatorio tra mamma e figlia). Grondanti di

lacrime sono anche gli occhi della mamma cinese che, dopo la vittoria della figlia

e la sua dedica personale affidata all’obiettivo della telecamera, non trattiene la

commozione. È il turno, poi del centometrista americano che, vinta la gara si

inginocchia esultante ed esausto sulla pista e manda un bacio alla sua mamma, la

quale, in piedi nel pubblico, congiunge le mani quasi a voler accennare una

preghiera mentre i suoi occhi si arrossiscono e si allarga sul suo volto un sorriso

pieno di contentezza e di amore. Infine è il turno del pallavolista che corre

esultante ad abbracciare la mamma, la quale lo prende per il collo, gli dice

qualcosa e lo abbraccia fortemente mentre la folla intorno è impazzita di gioia. A

questo punto sullo schermo, davanti ad uno sfondo interamente bianco, appare la

frase “The hardest job in the world, is the best job in the world”, seguito da un

semplice ma quanto mai efficace “Thank you, mom”, a riassumere l’enorme

impegno e dedizione che comportano il “mestiere di mamma” ma, al contempo, le

grandi soddisfazioni che esso regala nel momento in cui i figli mettono a frutto il

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loro sacrifici e i loro insegnamenti. Lo spot si chiude e con il logo dell’azienda e il

pay off finale “P&G, Proud sponsor of moms” che viene anche recitato da una

voce fuori campo, rigorosamente femminile.

Il commercial, puntando sulla rappresentazione di vicissitudini autobiografiche e

sull’infrangibile legame mamma-figlio/a comune a tutti gli individui, genera una

sicura presa emotiva nello spettatore che non può fare a meno di immedesimarsi

nelle vicende dei giovani atleti e delle loro amorevoli mamme, fino a gioire e a

commuoversi con loro. A questo punto, è spianata la strada per il messaggio finale

della marca, il quale sembra rivolgersi a tutte le mamme del mondo e dire

“Conosciamo il tuo passato, la tua vita quotidiana, i tuoi sacrifici e il tuo impegno:

per questo ti forniamo prodotti che rispecchiano proprio quello di cui hai

bisogno”.

L’analisi dello spot da un punto di vista delle strutture “archetipiche” della

narrazione è intuitiva e, come si accennava prima, si riduce a pochi ma incisivi

passaggi. I protagonisti dello spot sono i bambini (poi divenuti giovani donne e

uomini) che assurgono ad Eroi in uno dei più classici contesti “mitici” ed epici

contemporanei: quello dello sport. La loro meta, o almeno il loro sogno nel

cassetto, è quello di vincere un giorno le olimpiadi. Essi sono assistiti e

incoraggiati ad ogni loro passo dalle loro madri (Aiutanti, Donatori, Mentori e, in

realtà, co-protagoniste a tutti gli effetti) che, attraverso il sacrifico e l’attenzione

quotidiana profusa nei confronti dei loro piccoli, aiutano quest’ultimi a superare le

delusioni, gli scoraggiamenti, gli ostacoli (anche logistici), le ferite (anche fisiche)

e tutte le difficoltà che incontrano sul proprio cammino da giovani atleti (le quali

rappresentano, metaforicamente, l’Antagonista).

Dopo i tanti anni di “gavetta” e di allenamenti duri e, dall’altra parte, di

insegnamenti, cure ed affetto da parte delle loro madri (in qualche modo una

Fornitura del Mezzo Magico ), i giovani finalmente arrivano a gareggiare nella

massima competizione sportiva, ritrovandosi dalle palestre e dai campetti di casa a

calcare i palcoscenici più importanti a livello mondiale (un vero e proprio

Trasferimento tra due reami). A questo punto gli atleti, sulla scorta della lunga e

sofferta preparazione, sfoggiano finalmente la loro performance in gara (ossia la

Lotta sportiva), trionfano con grande gioia ed esuberanza (Vittoria) e corrono

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202

sugli spalti ad abbracciare le loro madri, a cui è dedicata la vittoria stessa. Tale

commosso ricongiungimento può essere letto come un Ritorno metaforico alla

dimensione affettiva e domestica (gli atleti “tornano” letteralmente tra le braccia

delle madri, le stesse braccia che da piccoli li sollevavano dal letto per prepararli

ad uscire) laddove, in seconda battuta esso è un coronamento delle Nozze, in senso

lato, tra mamma e figlio, stretti – e il caso di dirlo – in un amore perenne che non

conosce confini.

4.8. “Silénziati o diva”: i limiti del corporate storytelling

Come si è evinto dalla panoramica fin qui tracciata sullo storytelling d’impresa,

esso rappresenta una tecnica che incorpora numerosi e considerevoli vantaggi e

che permette alle imprese di comunicare con i loro pubblici di riferimento

attraverso uno strumento antico quanto efficace: le storie. Esistono, però,

all’interno di alcuni contesti di impresa e di mercato, dei casi in cui il corporate

storytelling, risulta essere inefficace o, al peggio, addirittura controproducente349

.

Alvesson, a tal proposito, esprime forti perplessità a monte sull’efficacia del

corporate storytelling notando come “la capacità di una storia di rispecchiare

l’organizzazione […] è tutta da determinare”350

in quanto spesso le storie

diventano visioni strettamente parziali ed artefatte che esprimono soltanto il punto

di vista dei soggetti organizzativi che le producono e le diffondono.

349

Da un punto di vista strettamente manageriale Andrea Fontana riassume in 3 punti le

precondizioni organizzative che permettono allo storytelling di essere efficace ed evitare i rischi di

fallimento della comunicazione. A parere di Fontana, infatti, per un corretto e proficuo utilizzo

dello storytelling d’impresa c’è bisogno di: “’Sponsorship istituzionale “medio-forte”. Il

management, infatti, deve impegnarsi in prima persona nelle attività e diffondere gli eventuale

istrumenti. Il top manager deve sponsorizzare continuamente l’iniziativa e il middle manager deve

farla vivere concretamente sul campo e nelle varie funzioni.

Comunicazioni di supporto parallelo. Lo storytelling interno ha bisogno di continuo supporto,

soprattutto le prime volte che si introduce in un’impresa. Non ha nessun sesno generare un

bellissimo piano di employer branding usando logiche di programmazione narrativa per poi non

diffondere l’iniziativa anche con tutti gli altri strumento di comunicazione classici.

Il momento giusto per la giusta cultura d’impresa. Lo storytelling è un approccio che può essere

applicato a qualsiasi cultura d’impresa; è importante però saper collocare una storytelling

operation nel momento giusto, quando il pubblico è abbastanza maturo da voler partecipare agli

eventi interni. Prima sarebbe una forzatura percepita negativamente.” A. FONTANA, Manuale di

Storytelling, cit., p. 54. 350

M. ALVESSON, Prospettive culturali per l’organizzazione, Guerini e Associati, Milano, 1993,

p. 83.

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Il principale “lato oscuro” del corporate storytelling, segnatamente per quel

concerne quello di tipo management, risiede proprio nel fatto che esso spesso

riflette una temperie proveniente da una minoranza organizzativa, oppure è

studiato a tavolino con l’unico scopo – in questo senso “propagandistico” - di

rafforzare l’ideologia dominante. Essendo le storie d’impresa legate, come è

ovvio, strettamente ai soggetti che le diffondono (la coalizione dominante) essa

riflettono la loro cultura e i loro valori e, per tale motivo, possono risultare

eccessivamente prescrittive e “calate dall’alto” anziché interattive e foriere di

confronti e dialettiche interne tra dipendenti e organo di governo

dell’organizzazione. La storie in sé, d’altronde, essendo una costruzione fantastica

e soggettiva, si espongono a tutti i rischi di parzialità e distorsione, edulcorazione

e nascondimento della realtà nell’ottica di orientare - leggi manipolare - gli

atteggiamenti e i comportanti altrui.351

Si è già fatta menzione in precedenza, poi, del diffuso scetticismo che ancora

regna in buona parte della classe dirigente facente capo alle organizzazioni

odierne a proposito dell’impiego di strumenti “alternativi” di corporate identity

come può essere quello dello storytelling; essi, di fatto, alimentano la credenza

secondo la quale l’oggettività debba prevalere su ogni aspetto dell’impresa, dal

momento che “quando si sostiene una ragione occorre basarla sui dati di

fatto”352

anche se si ha a che fare con elementi inquantificabili come il capitale

intellettuale. Stesso criterio è applicato, in quest’ottica, alla gestione e alla

trasmissione delle informazioni all’interno dell’organizzazione, quest’ultime

concepite come “un immenso database” il cui possesso della chiave è condizione

necessaria e sufficiente “per raggiungere un sapere definitivo”353

. Le narrazioni,

invece, basandosi sostanzialmente sulla comunicazione di valori ed emozioni e

necessitando di un’interazione e della partecipazione attiva costante da parte dei

diversi attori organizzativi, provocano un’instabilità e un’insicurezza di fondo,

351

A proposito è interessante lo spunto fornito da Lars von Trier, celebre regista cinematografico

danese, il quale dichiara in maniera radicale che: “le storie sono il nemico […] un modo per

presentare al mondo un puzzle già risolto”.

http://cerca.unita.it/ARCHIVE/xml/280000/278823.xml?key=Wu+Ming&first=1&orderby=0&f=f

ir. 352

J. ALLAN, G. FAIRTLOUGH, B, HEINZEN, The Power of the Tale: Using Narrative for

Organizational Success, John Wiley & Sons, 2001, trad. it., a cura di M. GAIARIN, Raccontare in

azienda. Storie e saghe nelle organizzazioni, ETAS, Milano, 2002, p.4. 353

Ibidem.

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204

con il rischio di cadere nella continua, e perciò sterile ed asfittica, rielaborazione

dei fatti di impresa e delle esperienze personali ad essa legati.354

Secondo il già citato “decano” Steve Denning, infine, i casi in cui non è

inopportuno impiegare le storie nella comunicazione d’impresa sono diversi.

Prima di tutto, secondo lo studioso australiano, le storie non vanno raccontate

“quando l’audience non vuole una storia”; in particolare, quando ci si trova

davanti ad una comunicazione che deve essere imprescindibilmente informativa, e

ai racconti e alle emozioni ad esse legate, devono essere preferiti grafici, matrici

ed evidenze tangibili dei dati rilevati, laddove la loro assenza causerebbe scarsa

consistenza della comunicazione e farebbe nascere il sospetto di un premeditato e

scaltro nascondimento. A tal proposito, però, come ricorda lo stesso Denning,

“non bisogna dimenticare che spesso una storia può anche aiutare a comprendere i

numeri”, ossia rappresentare un valido supporto all’esposizione tecnico-oggettiva

delle informazioni, seppur non potendo sostituirsi completamente a quest’ultima

355. Nessuna storia, poi, deve essere raccontate se essa “non è positiva” ovvero, se

è costruita a partire da una realtà di impresa non buona che tradisce diversi

“scheletri nell’armadio” dell’organizzazione in termini di condotta: il tentativo

nascondimento o la distorsione di eventi e comportamenti da parte dell’impresa

può essere accolta, infatti, come un’operazione particolarmente detestabile da

parte dei pubblici di riferimento. Non è opportuno, inoltre, procedere ad un

racconto se esso “non è pronto”: questo assunto si traduce nel fatto che, prima di

utilizzare una storia, essa deve “maturare” all’interno dell’organizzazione, essere

credibile e aderente ai suoi valori-guida, e soprattutto essere testata in maniera

fattiva attraverso feedback diretti da parte degli attori coinvolti. Infine, secondo

Denning lo storytelling non va utilizzato laddove le storie che si andrebbero a

raccontare risulterebbero ingannevoli per gli stakeholder di riferimento.

354

Altri autori, inoltre, hanno evidenziano il rischio che l’impresa-cantastorie si trasformi in una

sorta di “parco divertimenti a tema” ovvero un sistema chiuso, autosufficiente, avulso dalla realtà,

dalle sue problematiche e dalle sue fitte dialettiche: in altre parole “una condizione di equilibrio

entropico, che esclude per principio ogni sbocco sull’altrove”. G. QUALIZZA, Lo storytelling

nella comunicazione d’impresa, in “Tigor”: rivista di scienze della comunicazione , n.2 luglio-

dicembre 2009. 355

A tal proposito sono esemplari le lezioni di Hans Rosling, medico, professore e divulgatore

svedese che, sul sito della BBC sul suo canale YouTube fornisce uno sfoggio di come le

informazioni più tecniche e “fredde” possono essere, con l’ausilio della tecnologia digitale,

trasformate in storie appassionanti e memorabili. http://www.bbc.co.uk/programmes/b00wgq0l

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Quantunque si tratti di uno strumento potente, in grado di esprimersi attraverso le

emozioni, le suggestioni e le note più disparate, esso non deve rappresentare,

ancora una volta, un modo per edulcorare oltremodo la realtà delle cose o, peggio

ancora, distorcerla. Il concetto di autenticità, accennato a proposito

dell’organizational storytelling, vale, in realtà, per tutte le aree di comunicazione

dell’organizzazione, dal momento che i racconti destinati ai vari pubblici di

interesse, seppur acquistando necessariamente un carattere favolistico e

finzionale, devono obbligatoriamente rispettare la verosimiglianza e la plausibilità

del discorso che si porta avanti. Un comportamento menzognero in effetti,

potrebbe in un primo momento dare facili e subitanei vantaggi nel breve periodo -

laddove si va ad “ammaliare” lo spettatore/consumatore con fatti e promesse

scarsamente aderenti alla realtà del brand, - ma, allo stesso tempo, esso potrebbe

rivelarsi nel medio e nel lungo termine un pericoloso “boomerang” in termini di

fiducia da parte dei portatori di interesse sell’impresa356

.

Il monito di Denning è quello di non considerare “lo storytelling come una

panacea” ma di pianificare e controllare il flusso narrativo sulla scorta della storia

e della cultura aziendale e in base a precisi obiettivi strategici dell’impresa,

tenendo presente che la falsità e l’eccessiva manipolazione dei messaggi finisce a

lungo termine per intaccare la credibilità e fiducia che i pubblici nutrono nei

confronti dell’organizzazione stessa. A tal riguardo è di fondamentale importanza

il fatto che le storie, senza il traino delle azioni concrete dell’impresa, rischiano di

tramutarsi in chiacchiere vacue che non fanno altro che irritare – o quantomeno

annoiare – i pubblici di riferimento e screditare coloro che se ne rendono

protagonisti e narratori. Raccontare l’identità di un’organizzazione, ed insieme ad

essa i valori-guida, gli ideali, la mission e la vision ad essa collegate, risulta del

tutto inutile se ai racconti non fanno seguito – o se non hanno fatto seguito in

passato – fatti concreti ed accertati in tal merito. Come afferma Gagliardi, infatti,

diventa cruciale “bilanciare gli ideali presentati nelle storie con la pratica

356

Si pensi, ad esempio al recente fenomeno del “greenwashing”, ovvero dell’appropriazione

indebita da parte di enti e imprese del valore, oggi sempre più determinante, della sostenibilità,

laddove azioni ed eventi inerenti all’organizzazione stessa vanno nella direzione opposta,

smentendo, nei fatti, le virtù e le buone azioni millantate all’interno della sua comunicazione (la

quale risulta essere soltanto affabulatoria e menzognera).

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206

concreta”357

, per evitare il rischio di un gap tra gli impegni promessi dall’impresa

e le azioni concrete poste in essere; una distanza, che, specie per quel che riferisce

ai valori etici - CSR, sostenibilità ambientale su tutte -, può rappresentare il vero

discrimine tra un’organizzazione e l’altra presso i pubblici di riferimento, sempre

più sensibili alle questioni emergenti collegate alla sfera sociale. In altre parole il

rischio - serissimo - è quello di danneggiare la corporate reputation, ormai

divenuta la risorsa più importante per le imprese che operano nel mercato odierno,

e resa sempre più precaria dalla complessità esponenziale dello scenario

economico e dall’esplosione del Web 2.0.

357

P. GAGLIARDI, (a cura di), Le imprese come culture, Isedi, Torino, 1995, p. 277.

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Conclusioni

Giunti alla fine della nostra analisi, possiamo trarne le dovute conclusioni. La

prima parte del lavoro, incentrata doverosamente su di un robusto ed articolato

impianto teorico, ci ha condotti dalle lande sconfinate e turbolente della psiche

umana alle forme primigenie che caratterizzano i suoi processi immaginativi,

giungendo, in ultimo, alla descrizione delle strutture fondamentali e ricorrenti

della narrazione, attitudine innata dell’essere umano che affonda le sue radici

nella notte dei tempi.

Il concetto junghiano di archetipo, ovvero di “rappresentazione collettiva

primordiale”, declinato in tutte le sue forme ed accezioni, ci ha permesso così di

operare un interessante raccordo tra gli strumenti teorici di cui sopra - inerenti a

discipline quali la psicologia, l’antropologia, la filosofia, la storia dell’arte ecc. –

ed il campo ben più recente, ma altrettanto complesso e stratificato, della

comunicazione d’impresa (la corporate communication).

In particolare, per ciò che concerne il nostro tentativo di indagine sulla presenza

degli archetipi nella comunicazione esterna d’impresa - segnatamente quella

inerente alla comunicazione pubblicitaria il cui strumento è lo spot e i cui canali

sono la Rete e soprattutto la Tv – è emerso, attraverso una ricca e dettagliata

analisi, come essa risulti diffusa e tentacolare. Come abbiamo avuto modo di

notare, infatti, circa uno spot su tre presenta delle immagini che rimandano a

specifici archetipi e ciò rappresenta un dato molto significativo se si considera la

grande quantità di commercial che per dare forma ai propri contenuti, fa appello

alla ricostruzione di ordinarie e comuni slice of life e routine quotidiane popolate

da stereotipi, all’ironia o al richiamo a sé stante dell’istinto sessuale. Un impiego,

quello dei simboli archetipici all’interno degli spot pubblicitari che, come

abbiamo visto, non conosce limiti temporali o spaziali, attraversando cinque

continenti e altrettanti decenni di trasmissioni televisive e riproduzioni on-line per

una casistica che non stentiamo ad immaginare sterminata. È da prendere per

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vero, dunque, alla luce di quanto emerso dalla nostra ricerca, il fatto che gli

archetipi nei commercial rappresentano senza dubbio una delle principali vie a

disposizione delle imprese (e delle istituzioni pubbliche) per comunicare i propri

messaggi, siano essi inerenti ai prodotti o servizi offerti, oppure

all’organizzazione in sé.

D’altronde, essendo gli archetipi presenti in maniera marcata e viscerale

all’interno della vita di ogni uomo e nelle sue manifestazioni intellettuali ed

emotive, sarebbe stato inverosimile il contrario; è difficile, infatti, in una

comunicazione audiovisiva mediale come quella degli spot pubblicitari, non

affidarsi - in maniera volontaria o meno - a quell’eco universale ed atavica che

rimbomba da millenni attraverso l’umanità e che indirizza da sempre la nostra

psiche entro i canali innati e fondanti della nostra stessa materia.

Nello specifico, riferendoci prettamente alla realizzazione degli spot pubblicitari,

è noto che le aziende si affidano alla figura dei creativi pubblicitari e ai

professionisti dell’audiovisivo, siano essi interni o esterni all’impresa stessa.

Quest’ultimi, in quanto esseri umani depositari e ricettori di forme primarie legate

all’inconscio collettivo, e siccome alle prese con la costruzione articolata di un

messaggio destinato al circuito mediale (ed artistico) come quello della

comunicazione pubblicitaria, si ritrovano ad essere - insieme con i loro

committenti che forniscono loro le opportune linee guida - veri e propri costruttori

ed “amplificatori” di archetipi. L’uso massiccio che essi ne fanno è dettato, come

sottolineato più volte, non necessariamente dalla loro intenzionalità e

consapevolezza sulla natura, sul ruolo o sulla presenza degli archetipi stessi, anzi.

Il più delle volte i creativi pubblicitari si trovano ad usare in maniera funzionale

simboli archetipici facendo appello, piuttosto, al bagaglio impersonale ed

universale che portano alla base della loro psiche: un appello che sappiamo essere,

di per sé, involontario ed istintuale. Ciò detto, è indubbio che un loro uso

consapevole può costituire un considerevole vantaggio per le imprese e per gli

autori di spot stessi che si ritroverebbero, in questo modo, a governare e

centellinare - per quanto possibile - a seconda dei loro obiettivi comunicativi,

quell’universo simbolico straordinario che prende il nome di “archetipi”. Nelle

loro mani, attraverso l’utilizzo di quest’ultimi, essi possono recare il mistero e la

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forza millenaria dell’umanità, distribuendola e incanalandola in specifici flussi

comunicativi, quasi come se dall’imperscrutabile disegno dell’universo si

potessero isolare e raccogliere forme finite ed armoniose pregne di vita e di senso.

L’uso degli archetipi negli spot televisivi, con la loro presa “ancestrale” sulla

parte più profonda della psiche, rappresenta uno strumento straordinariamente

efficace poiché capace di coinvolgere e toccare nel profondo coloro che vi si

imbattono. Come afferma Cicalese, infatti, “l’archetipo in pubblicità […],

ricordando all’inquieto inconscio ostacoli e soluzioni già vissute dagli avi, può

riproporre cammini già percorsi ed andati a buon fine, rassicurando e confortando

lo spettatore anche a sua insaputa”358

. Quella archetipica, pertanto, rappresenta

un’arma debordante, quasi divina – o “diabolica”, se si preferisce - in mano ai

creatori di commercial per coinvolgere e tirare a sé i propri pubblici di

riferimento; un’arma che, se maneggiata con sapienza e precisione, può facilitare

in maniera esponenziale i loro scopi. Con gli archetipi è possibile, in qualche

modo, “scavalcare” ed osservare dall’alto la condizione umana tutta, pur

rimanendo contemporaneamente coi piedi ben piantati alla sua base: essi

rappresentano, in ultima analisi, quanto di più afferente all’umano si possa

immaginare e, allo stesso tempo, una facoltà che sembra aver a che fare piuttosto

con una dimensione celeste o comunque ultraterrena.

Aspetto da non tralasciare, però, come accennato all’inizio del presente capitolo, è

il fatto che, nell’uso opinato e consapevole degli stessi archetipi, coloro i quali che

li adoperano debbono cercare di rispettare i termini correnti della relazione tra

significante e significato in modo che gli spettatori possano facilmente rintracciare

le isotopie ad essi collegati, pena il serio rischio di non venire compresi o, peggio

ancora, di venire fraintesi. È ancora Cicalese, a tal proposito, a notare che

“L’archetipo non si esprime […] attraverso simbolismi immediatamente

riconoscibili ma secondo il grado di coscienza culturale cui si è giunti in un dato

momento storico”, dal momento che “resta, in linea di principio, che il processo

che lo trasforma in forma leggibile e sensibile si basa su una similitudine

comprensibile solo se si riconoscono i termini della relazione o se si conosce a

358

A. CICALESE, Fatti di consumo. Noi tra gli spot e le marche, cit., cap. II, “Archetipi ed

immagini collettive”, p. 35.

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priori la relazione già stereotipata”359

. Particolarmente delicato, dunque, risulta il

compito delle imprese e dei creativi pubblicitari nel ritrovare, all’interno della loro

contemporaneità e del discorso pubblicitario che di volta in volta vanno

imbastendo, quelle forme particolari in grado di ricollegarsi opportunamente ai

motivi universali, ossia a quell’energia primordiale, a quel “magma” perenne che,

da tempo immemore, spinge contro la superficie della materia sensibile.

In ogni caso, al di là della già discussa questione sulla volontarietà del suo utilizzo

e delle condizioni necessarie perché essa sortisca gli effetti desiderati, quella degli

archetipi risulta essere, e Jung docet, non soltanto, nei fatti, una strada preferibile

ma, - citando senza timore di “eresia accademica” anche Brad Pitt nell’ultimo spot

preso in analisi dalla nostra ricerca - “inevitabile”. Per questo motivo, che siano

essi intenzionali ed accorti o meno, gli archetipi continueranno per sempre a

germinare all’interno della comunicazione d’impresa – così come all’interno di

molte altre manifestazioni psichiche dell’uomo - mantenendo intatto il loro

fascino e la loro sotterranea ed atavica potenza.

In riferimento al paradigma dell’Archetypal Branding, il quale si sostanzia, come

evidenziato, in una prospettiva “archetipica” al governo della personalità e

dell’identità d’impresa, esso si conferma essere una delle tendenze più accattivanti

ed originali del corporate management. Attraverso la descrizione di 12 differenti

archetipi d’impresa - i “tipi”, utilizzando la terminologia di Carl Gustav Jung - il

framework si propone come un insieme di linee guida fondamentali che,

ricollegandosi alla dimensione universale ed ancestrale dell’essere umano, sono in

grado di fornire un valido ausilio ai manager d’impresa nell’ottica di un più

agevole raggiungimento dei propri obiettivi di allineamento tra brand personality,

brand identity, brand image e brand reputation. Avere a disposizione, infatti, un

semplice ed immediato schema di riferimento per quanto concerne valori,

comportamenti e comunicazione pianificata d’impresa – è il caso della

comunicazione pubblicitaria - è di sicuro un supporto aggiuntivo che può rivelarsi

utile in una duplice prospettiva, sia interna che esterna all’organizzazione. Il

modello, tuttavia, oltre a presentare numerosi vantaggi e possibilità di

applicazione, mostra il fianco a diverse, e in alcuni casi piuttosto limitanti,

359

Ibidem.

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ambiguità e punti di debolezza che vanno dal rischio di eccessiva fissità e

monotonia dell’identità d’impresa (in particolare per quel che concerne la

comunicazione) alla non mutua esclusività di alcune delle sue classi. Esso viene a

configurarsi, in definitiva, come il prodotto di una disciplina ancora in nuce che si

trascina dietro varie imprecisioni e semplicismi i quali però, pur indebolendo in

maniera importante la sua validità e la sua applicabilità al governo d’impresa, non

ne minano del tutto il fascino le potenzialità future. Ciò è vero, in particolar modo,

se ci si limita considerare il framework come un basico, ma al contempo solido

dispositivo per promuovere la coerenza all’interno e all’esterno

dell’organizzazione, un supporto prezioso che, sostenuto dall’“energia

archetipica” di cui sopra, si trascina dietro una sempiterna eco.

Infine, giungendo all’ultima parte del lavoro, quella incentrata sulla tecnica dello

storytelling d’impresa, abbiamo visto come “l’arte di raccontare storie” possa

rappresentare un utile strumento a disposizione dell’organizzazione per

promuovere e presidiare la personalità, prima, e l’identità poi, sia all’interno, sia

all’esterno di essa. Per quanto concerne la comunicazione interna, si è evidenziato

come quest’ultima debba mirare alla partecipazione attiva ed autentica degli attori

interni nell’ottica di una reale co-creazione delle storie e, per estensione, del

portato di senso relativo all’impresa stessa. Il suo impiego, allo stesso tempo, non

può prescindere da una preparazione rigorosa da parte del management, il quale è

chiamato a ridefinire la sua sfera d’azione all’interno dell’azienda, assurgendo al

ruolo di vero e proprio “stratega mediatico”, capace di indirizzare, promuovere,

orientare e gestire il flusso comunicativo, sia esso interno od esterno

all’organizzazione. Lo storytelling – e questo parrà chiaro – non si improvvisa;

piuttosto, esso deve essere pianificato ed implementato con attenzione,

soppesando di volta in volta le potenzialità ed i rischi legati al suo utilizzo. In

riferimento alla comunicazione esterna, infine, si è detto della necessità stringente

delle imprese odierne di fare leva sugli aspetti intangibili legati ai loro prodotti e

servizi, puntando, nella fattispecie, sul coinvolgimento affettivo ed emozionale

che solo i racconti sono in grado di imbastire tra il brand ed si suoi pubblici di

riferimento. A tal proposito, le strutture fondamentali ed ataviche della narrazione,

con il loro corollario di emozioni, colori, suggestioni ed esperienze rappresentate

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e adattate alle tendenze della contemporaneità, vengono a costituire un volano

decisivo per l’immedesimazione ed il coinvolgimento del consumatore/spettatore:

il grimaldello universale che spalanca le porte della sua psiche.

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Bibliografia

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Narrative for Organizational Success, John Wiley & Sons, 2001, trad. it., a cura

di M. GAIARIN, Raccontare in azienda. Storie e saghe nelle organizzazioni,

ETAS, Milano, 2002.

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222

Sitografia corpus della ricerca

Num.

Spot

Brand Link Youtube

1 Hugo Boss http://www.youtube.com/watch?v=fe3yIXWrjhM

2 Morris http://www.youtube.com/watch?v=5TwOc62YXJc

3 Fakro http://www.youtube.com/watch?v=mhorwG2Ae3g

4 Fiat 124 http://www.youtube.com/watch?v=PNd1droDz2c&feature=ends

creen

5 Alfa Romeo http://www.youtube.com/watch?v=wvhWZmJCOIc

6 Università di

Nicosia

http:// www.youtube.com/watch?v=ZVwX-XtiiTw

7 Lancôme http://www.youtube.com/watch?v=vFgD5-X7_zQ

8 Aspirina http://www.youtube.com/watch?v=IQfQvWpQ9cI

9 Mercedes

Benz M

Class

http://www.youtube.com/watch?v=jOpQb4uPC3g

10 Mulino

Bianco

http://www.youtube.com/watch?v=667A0mD1hVc

11 Dnb http://www.youtube.com/watch?v=C_8TGTKdrlY

12 Fiat 131 http://www.youtube.com/watch?v=BwgUpq_OMfA&feature=en

dscreen

13 Nari Vetrerie http://www.youtube.com/watch?v=CANlz-VMO60

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223

14 Barilla http://www.youtube.com/watch?v=oQofe4B1u_I

15 Caribbean

Bay

http://www.youtube.com/watch?v=VteDC2M6vFM

16 Lavasbianca

Fantasmatico

http://www.youtube.com/watch?v=iLhJDo7ijlw

17 Peugeout http://www.youtube.com/watch?v=0eyzW5rQH24

18 Zuegg http://www.youtube.com/watch?v=oQofe4B1u_I

19 Nivea http://www.youtube.com/watch?v=VY3iZverZYY

20 Telefunken http://www.youtube.com/watch?v=Vzr9jhwF-xg

21 Fiat Gucci http://www.youtube.com/watch?v=Wq_8Ty7aVkg

22 Grana

Padano

http://www.youtube.com/watch?v=yxI-hNgDrAI

23 Volkswagen

Passat

Alltrack

http://www.youtube.com/watch?v=IKyCt2Fpy4M

24 Martini http://www.youtube.com/watch?v=254716eydUs

25 Siemens http://www.youtube.com/watch?v=P9FAe-8Qf38

26 Esercito del

Bangladesh

http://www.youtube.com/watch?v=M8x_O0j8eOI

27 Orzo Bimbo http://www.youtube.com/watch?v=U_Pow6dyN60&list=PL0Z31

kxVito9RTEmWk8JVAfqdvv-sslOg

28 Axe http://www.youtube.com/watch?NR=1&v=I9tWZB7OUSU&feat

ure=endscreen

29 Mulino

Bianco

http://www.youtube.com/watch?v=tRNoBN5zjKw

30 Lindt http://www.youtube.com/watch?v=sZa8iBDIBHw

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224

31 Morris 1100 http://www.youtube.com/watch?v=qiO_Q4ykLVQ

32 Buscopan http://www.youtube.com/watch?v=P9FAe-8Qf38

33 Coca Cola http://www.youtube.com/watch?v=fEAKmP7lehE

34 Banco de la

Nacion

Argentina

http://www.youtube.com/watch?v=t4EvD84hn2Q

35 Gucci Guilty

Black

http://www.youtube.com/watch?v=LP99AOpcE30

36 San

Benedetto

http://www.youtube.com/watch?v=61CXeu3DJnE

37 Dior (J'adore) http://www.youtube.com/watch?v=JZlTQZVn6Hc

38 Selenia http://www.youtube.com/watch?v=Ia5GhWObOos

39 Fernet

Branca

http://www.youtube.com/watch?v=JZlTQZVn6Hc

40 Opel Corsa http://www.youtube.com/watch?v=wR1oPPKC9A8

41 Splugen http://www.youtube.com/watch?v=oQofe4B1u_I

42 Brooklyn http://www.youtube.com/watch?v=VyMJimX1XY4

43 Volvo V40 http://www.youtube.com/watch?v=mjwkpfmZ7z0

44 Impulse http://www.youtube.com/watch?v=zxokStX9HtA

45 Pan di Stelle

Mulino

Bianco

http://www.youtube.com/watch?v=5IxOBqHhCRw

46 Bulgari http://www.youtube.com/watch?v=SYfJ1EoIyNY

47 Green Da-ka-

ra

http://www.youtube.com/watch?v=vNd-xdN7hQE

48 Lines http://www.youtube.com/watch?v=ymKhPsUcMnI

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225

49 Bebat http://www.youtube.com/watch?v=fuu3T9UqknE

50 Svelto http://www.youtube.com/watch?v=m1y9x5TxQdE

51 Nivea http://www.youtube.com/watch?v=t7-LBxYxxiA

52 Armani

Acqua di

Gioia

http://www.youtube.com/watch?v=KGDVY_jyfDM

53 Passaia http://www.youtube.com/watch?v=5pXs7eDgLYY

54 Nike http://www.youtube.com/watch?v=MVHfRrQLpxM

55 Nurofen http://www.youtube.com/watch?v=EF bh-9fO-rcj4

56 Allianz http://www.youtube.com/watch?v=AwgKJogsNW0

57 Coca Cola http://www.youtube.com/watch?v=61CXeu3DJnE

58 Skandia http://www.youtube.com/watch?v=nuwWJ-OpVcM

59 Pilsner http://www.youtube.com/watch?v=L3Fmu14Vgb4

60 GDF Suez http://www.youtube.com/watch?v=Qs4g_7oAYP4

61 HPX http://www.youtube.com/watch?v=kgpfPCXmlxI

62 Balting http://www.youtube.com/watch?v=rVE1k-phVZU

63 Canguro http://www.youtube.com/watch?v=E8l1a2r-rIY

64 Rolls Royce http://www.youtube.com/watch?v=xqlOLav1LtA

65 Samsung http://www.youtube.com/watch?v=N0lFh2nUEu8

66 TV Sorrisi e

Canzoni

http://www.youtube.com/watch?v=wLkwd1-Mbl8

67 South

African

Airway

http://www.youtube.com/watch?v=McjuvuydWkA

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226

68 Audi Land of

4

http://www.youtube.com/watch?v=M5bRDYYKH18

69 Urban Street

Janga

http://www.youtube.com/watch?v=R8tyX5R-Mkw

70 Dash http://www.youtube.com/watch?v=KhXrxavqGWI

71 Dolce &

Gabbana

http://www.youtube.com/watch?v=kiN6pUrCzvs

72 Aluminios de

l'Uruguay

http://www.youtube.com/watch?v=npwqaSYsk98

73 Forum di

Istanbul

http://www.youtube.com/watch?v=7SqtOwDgSc8

74 Audi http://www.youtube.com/watch?v=7SqtOwDgSc8

75 Lancôme http://www.youtube.com/watch?v=znY4i_zXfUE

76 Mastro Lindo http://www.youtube.com/watch?v=oQofe4B1u_I

77 Mazda 6 http://www.youtube.com/watch?v=HM8TpvDUnqE

78 Nivea http://www.youtube.com/watch?v=m1y9x5TxQdE

79 Zucchetti http://www.youtube.com/watch?v=8Cfo06DvA5M

80 Nike http://www.youtube.com/watch?v=HEGczK70DNc

81 Moment Act http://www.youtube.com/watch?v=FoYBi-IeDsI

82 Nivea http://www.youtube.com/watch?v=SMVErGJu0LI

83 Seiko Kinetic http://www.youtube.com/watch?v=GOEwRaHXn3s

84 Baleno http://www.youtube.com/watch?v=udr8_MBNTQw

85 Herdez http://www.youtube.com/watch?v=KnBZNoHHzic

86 Eldorado

Calippo

http://www.youtube.com/watch?v=61CXeu3DJnE

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87 Ford Escort

Turbo

http://www.youtube.com/watch?v=kgpfPCXmlxI

88 Dalda http://www.youtube.com/watch?v=oK-AFGn869k

89 Manne

Hanke

http://www.youtube.com/watch?v=G0TJeMqjbuU

90 Bisolvon http://www.youtube.com/watch?v=mhYA2ji5xtA

91 Ignis Frost http://www.youtube.com/watch?v=mhYA2ji5xtA 3:18

92 Givenchy

Play

http://www.youtube.com/watch?v=W5pFQ7_Z-lw

93 Nivea http://www.youtube.com/watch?v=50JA4JaXvxw

94 Honda SH

Mode 125

http://www.youtube.com/channel/UCEIR3GF5KiYoOVLIWCT

nX-w

95 FAAC

Cancelli

automatici

http://www.youtube.com/watch?v=kgpfPCXmlxI

96 Chanel http://www.youtube.com/watch?v=sGtmjZ9Yuj0

97 Coca Cola http://www.youtube.com/watch?v=GQxRXt4ANJU

98 Ford Taunus http://www.youtube.com/watch?v=hf1Yu_qWqv8

99 Amstel http://www.youtube.com/watch?v=jvFfwsW5IoM

100 Vörður http: //www.youtube.com/watch?v=e4_16iMeKWE

101 Chanel N°5 http://www.youtube.com/watch?v=oF8NAyqxGfk

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Ringraziamenti

In primo luogo desidero ringraziare la professoressa Anna Cicalese, per gli

indirizzi necessari alla stesura della tesi e per la lettura critica del lavoro stesso: il

suo garbo e la sua professionalità sono stati fondamentali per la realizzazione del

mio percorso di studio.

Ringrazio il prof. Emilio D’Agostino per la supervisione dell’elaborato e per il

supporto professionale dedicatomi.

Ringrazio i miei compagni di studio: ognuno di loro rappresenta un tassello

importante nella mia - intensissima ed indimenticabile - esperienza universitaria.

Ringrazio i miei amici Mara e Raffaele, sempre e sinceramente presenti.

Grazie a Raffaella, la mia “Saggia” e la mia “Amante”, il mio “Angelo Custode” e

il mio “Giullare”, in altre parole, la mia compagna di vita senza la quale non

potrei mai essere così felice e sereno.

Grazie a mia madre, e qui ogni parola ulteriore risulterebbe superflua. Il tuo

orgoglio, mamma, è il minimo che io possa darti.

Grazie.