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Festival internazionale del cinema e delle arti

Festival internazionale del cinema e delle arti · do a concentrare in un’unica sede permanente l’organizzazione dei servizi e delle attività del comparto, nella convinzione

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Festival internazionale del cinema e delle arti

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I mille occhiFestival internazionale del cinema e delle artiX:VertigoTrieste, 16‡24 settembre 2011proiezioni al Teatro Mielaincontri antemeridiani ed esposizione di decennale X:1000 in Stazione Rogers

realizzato da Associazione Anno uno

con il contributo di

Premio Anno uno realizzato con il contributo di

main partnersCineteca del Friuli; FIAF – Archivio Cinema del Friuli Venezia Giulia, GemonaCentro Sperimentale di Cinematografia –Cineteca Nazionale, RomaGoethe-Institut Triest

Associazione culturale Anno uno

PresidentePaolo Bertagni

Vicepresidente, coordinamentoMila Lazić

DirettoreSergio Grmek Germani

ConsiglieriRoberto CocchiChiara LamonarcaOlaf Möller

in copertina Kim Novak in una foto di scena di The Legend of LylahClare (Quando muore una stella) di Robert Aldrich.

CINETECA D.W. GRIFFITH

comune di trieste

assessorato alla cultura

project partnersRipley’s Film, RomaL’Officina Filmclub, RomaCineteca D.W. Griffith, GenovaWerkstattkino, MünchenNomadica – Festival del cinema e delle artiLa furia umana. Trimestrale multilingue online di storiae teoria del cinema, filosofia, vampate, fantasticherieFuori orario, RomaArchivio Storico del Cinema Italiano, RomaJMN&DY Product Placement, Lecco-Milano-Roma

con collaborazione di Cineteca del Comune di BolognaArchivio Nazionale Cinema d’Impresa, Ivrea Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza,TorinoFondazione Ansaldo, TorinoDeutsche Kinemathek, BerlinTanztheater Wuppertal Pina Bausch StoehrMedien, KielFilm Flamme, MarseilleSlovenska kinoteka, LjubljanaArhiv Republike Slovenije – Slovenski filmski arhiv,LjubljanaMinistrstvo za kulturo Republike Slovenije, LjubljanaRadiotelevizija Slovenije, LjubljanaArsmedia, Ljubljana Cinemaniac, Pula MMC LUKA, Pula Pula Film Festival, Pula Jugoslovenska kinoteka, BeogradBiblioteka Matice srpske, Novi SadZadužbina Ive Andrića, BeogradBHRT, Sarajevo Comunicarte Edizioni, Trieste Stazione Rogers, TriesteBonawentura - Teatro Miela, TriesteSSLMIT (sezione di tedesco), Università di Trieste

fuori orariocose (mai) viste

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ideazione, ricerche e messa in scena Sergio Grmek Germani

con la collaborazione artistica di Fulvio Baglivi, Chiara Barbo, CristinaD’Osualdo, Beatrice Fiorentino, Livio Jacob,Enrico Lancia, Mila Lazić, Dario Marchiori, Olaf Möller, Domenico Monetti, Jackie Raynal,Federico Rossin, Roberto Turigliatto

coordinamento e budgetMargherita Peverecon la supervisione e consulenza diPaolo Bertagni, Mila Lazić, Tania PiccolipromozioneIvan Bormannufficio stampaCristina Borsatticon la collaborazione diTanja Zorzut consulenza comunicazione webSilvia Tarquinisito internetZenmultimedia

ospitalitàMara Guerrini movimentazione Pietro Crosillaaccoglienza e collaborazione operativaGabriele Bernabei, Line Bekono, Enniomaria Politoallestimento esposizione X:1000 e Teatro MielaChiara Lamonarcacon la collaborazione di Neva Gasparo, Mila Lazić, Margherita Pevere

catalogo a cura di Simone Starace, Sara Leggi con contributi diBranka Benčić, Sergio Grmek Germani, Mila Lazić, Dario Marchiori, Olaf Möller grafica e impaginazione Cristina VendraminstampaPoligrafiche San Marco, Cormonstraduzioni Mariana Campagnolo, Giulia Deana, Martina della Porta, Mila Lazić, Marta Penso,Margherita Pevere, Giulia Rigo, Simone Starace,Tanja Sternad, Maristella Tubia

main partnersCINETECA DEL FRIULI – ARCHIVIO CINEMA DEL FRIULIVENEZIA GIULIA

direttore Livio Jacobservizio film Elena Beltrami, Alessandro De Zansi ringraziano per la collaborazione Piera Patat,Giuliana Puppin, Ilaria Cozzutti, Ivan Marin,Marco Bosco, Federica Dini

CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA –CINETECA NAZIONALE

direttore generale Marcello Foticonservatore Enrico Magrellidiffusione culturale e programmazione LauraArgentosi ringraziano per la collaborazione Juan Del Valle, Domenico Monetti, LucaPallanch, Annamaria Licciardello, Fulvio Baglivi,Silvia Tarquini, Franca Farina, Roberto Taruffi

GOETHE-INSTITUT TRIEST

direzione Alexandra Hagemann

project partners e collaboratoriAngelo S. Draicchio, Cristina D’Osualdo diRipley’s FilmAlba Gandolfo di Cineteca GriffithBernd Brehmer, Wolfgang Bihlmeir diWerkstattkinoGiuseppe Spina di NomadicaToni D’Angela di La furia umanaenrico ghezzi, Donatello Fumarola, LorenzoEsposito, Fulvio Baglivi, Roberto Turigliatto diFuori orarioGraziano Marraffa di Archivio Storico delCinema ItalianoMartin Koerber, Anke Hahn, Dirk Förstner diDeutsche KinemathekLojze Tršan, Marta Rau di Arhiv RepublikeSlovenijeBojan Boštjančič , Aleksander Lavrenčič, TanjaPrinčič, Jani Virk di TV SlovenijaIvan Nedoh, Marjan Rozman, Metka Dariš, JurijMeden, Staš Ravter, Darko e Bojana Štrukelj diSlovenska kinotekaPeter Sotošek Štular, Andrej Šprah, MihaHočevar, Ciril Oberstar Zoran Pistotnik di SvetSlovenske kinotekeRobert Nagy, Gabor Pintar, Judith Szep, TiborTsige di Magyar Film LaboratoriumSead Bajrić di BHRTPaola Olivetti di Archivio NazionaleCinematografico della Resistenza

Sergio Toffetti, Elena Testa di Archivio NazionaleCinema d’Impresa

si ringraziano inoltre Gabriele Albanesi, Adriano Aprà, GiovanniBarbo, Maurizio Luigi Cabona, DubravkaCherubini, Piero Colussi, Gerardo Corti, Biljana Dordević Mironja, Žaneta Dukić Perišić, Saša Erdeljanović, Diana e John Fregonese,Maddalena Giuffrida, Giorgio Grava, MassimoGreco, Daniela Kermeci, Lea Sophie LazićReuschel, Francesca Locci, Alessandro Malcangi,Giacomo Marsi, John Oliver, Francesco Perini,Rosella Pisciotta, Azzurra Proietti, CarmenProkopiek, Maurizio Radacich, Saša Radojević,Otto Reuschel, Massimiliano Schiozzi, GianniTorrenti, Luisa Tortolina, Lara Ušić, BaldoVallero, Giovanni Valmastrie in particolare Debora Viviani

eNH Hoteles - JollyHotel ContinentaleHotel Savoia Hotel FiloxeniaBed&Breakfast Svevo e JoyceAffittacamere all'AcquedottoOstello TergesteBuffet da RobyBuffet RudyRistorante FiloxeniaPizzeria Ristorante Al BarattoloRistorante Antico PanadaCaffé Vittorio Veneto

proiezioni e revisione copie Paolo Venier

sottotitoli Edward Catalini, Claudia Teresa Pezzutti

premio anno uno realizzato da Stefano Coluccio, Canestrelli - Venice Mirrors

selezioni di vini alla serata inaugurale e omaggi agli ospiti offerti daPuiatti - Tenimenti Angelini

media partnersRadio Fragola, Radioincorso, Fucinemute

si ringraziano per la loro collaborazioneInformatica center, Libreria In der Tat, LibreriaMinerva, Libreria Lovat, Mondolibri – Il libraiodi Cavana, Caffè Verdi

Si ringraziano

tutti i cineasti e i produttori dei film inprogramma,tutti gli autori e gli editori dei testi pubblicati,tutti i partecipanti agli incontri,

gli enti sostenitoriREGIONE AUTONOMA FRIULI VENEZIA GIULIA

PROVINCIA DI TRIESTE

COMUNE DI TRIESTE

la sede delle proiezioniTEATRO MIELA – COOPERATIVA BONAWENTURA

la sala espositiva e luogo degli incontriantemeridianiSTAZIONE ROGERS

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Nel ricco panorama delle iniziative cinematografiche che si svolgono in FriuliVenezia Giulia, I mille occhi - Festival internazionale del cinema e delle arti diTrieste si distingue per la sua caratteristica interdisciplinare: gli eventi cinemato-grafici, infatti, sono accompagnati e integrati da incontri con rappresentanti delmondo delle scienze, delle arti, della letteratura e delle discipline più diversifica-te. Oltre a ciò, esso prevede l’assegnazione del Premio Anno uno (realizzato conil contributo della Provincia di Trieste) a un cineasta del nostro tempo che, purnella sua originalità, abbia in Rossellini un punto di riferimento.Ecco allora che il festival unisce lo sguardo sul �nuovo� nel cinema con l’atten-zione che si deve a chi è nella storia del cinema e che ha contribuito a renderquella storia sempre più ricca e affascinante.Ed ancora il tema, Vertigo, mi induce a pensare a una profusione di visioni chesfida la vertigine: è quanto cade nell’occhio, ovvero nei mille occhi di un pub-blico curioso di scoprire sguardi nuovi sul cinema.Infine, mi fa piacere che questo festival sappia dialogare e collaborare con altrerealtà, in particolare con La Cineteca del Friuli, depositaria della conservazione diquanto di cinematografico esiste nel Friuli Venezia Giulia: oggi la rete e la siner-gia sono indispensabili fra tutti coloro che intendono operare nella cultura conmezzi sempre più sacrificati, ma con tanta volontà di crescere e di migliorare gra-zie a progettualità e professionalità.Auguro ogni successo a I mille occhi, buon lavoro agli organizzatori ed un pia-cevole divertimento al pubblico che seguirà le tante proposte.

Elio De AnnaAssessore alla Cultura

Regione autonoma Friuli Venezia Giulia

Vertigo si intitola la decima edizione de I mille occhi ed è realmente da vertigineil cartellone proposto quest’anno al pubblico, per varietà e qualità di film epellicole di respiro europeo e non solo. Difficile entrare nel dettaglio dellaprogrammazione che spazia dall’Italia alla Germania, la Slovenia, la Croazia e siavvale della competenza degli organizzatori e della collaborazione di cinefiliappassionati. Ancora una volta l’ideatore del festival, Sergio Germani, raccoglien-do spunti e idee dall’immenso panorama cinematografico internazionale, è riusci-to a costruire un’offerta ricca di opere e autori di assoluto rilievo, di film rari oritrovati, di proiezioni dai linguaggi non stereotipati, di veri e propri eventi unici.C’è un ideale filo conduttore che lega gli appuntamenti della rassegna ed èl’amore, la passione per l’arte cinematografica. Per una settimana il Teatro Mielaper le proiezioni e la Stazione Rogers per le iniziative collaterali diventerannopunto di riferimento per tutti coloro che sono innamorati del grande schermo eintendono godere di un programma raffinato e prestigioso nel pur ricco panora-ma nazionale e internazionale. Trieste – come osservano gli organizzatori – sarà meta di artisti e appassionati,facendo da festivo sfondo, come nei set, alle proiezioni e agli incontri con l’au-tore e contribuendo a consolidare l’immagine di una tra le città più dinamiche evive in questo settore. Con il progetto Casa del Cinema, l’amministrazione provinciale sostiene e valorizza questa naturale vocazione del territorio, puntan-do a concentrare in un’unica sede permanente l’organizzazione dei servizi e delleattività del comparto, nella convinzione che il cinema sia una ricchezza per laprovincia, una peculiarità che con fermenti e nuovi stimoli fornisce un preziosocontributo all’attività culturale della nostra comunità.

Maria Teresa Bassa PoropatPresidente e Assessore alla Cultura

Provincia di Trieste

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alla dea chiamata Dorian Gray

Nessun merito hanno I mille occhi di quel che riescono eventualmente a fare. Osemmai hanno quello di cogliere quanto nel rapporto tra le cose (film e quanti lifanno) si costruisce offrendosi alla visione. Il demerito dei Mille occhi è di riusci-re a raccogliere insufficientemente questi rapporti, subendo limiti economici, abi-tudini demotivate di consumo, pigrizie o inesistenze delle politiche culturali. Ma,poiché anche a tutto ciò si è cercato di rispondere con la costruzione del pro-gramma, passiamo direttamente ad esso senza dilungarci oltre.Benché tante cose si siano rinviate per necessità ad altre occasioni, quanto sitrova ora nel programma del festival sopporta a difficoltà “strategie comunicati-ve” del tipo “sezioni maggiori” o “programmi collaterali”, e vorrebbe essere coltonell’insieme degli intrecci e delle presenze. Ciascuno di noi (direttore, curatori,spettatori...) ha preferenze fortissime ma esse resterebbero opzioni private se nonfacessero parte di quell’organismo che vuole essere il programma, nel quale devesuccedere quanto avviene nelle epoche migliori della produzione cinematografi-ca, dove individualità anche distanti creano rimandi tra loro.Ciò che è meno appariscente non è secondario, allo stesso modo che nel cine-ma di oggi gli autori emarginati dal mainstream rivelano ciò che conta nel rap-porto tra realtà e immagine. In un momento in cui i film e i loro autori non siriferiscono più a un organismo, restando delle monadi dentro una produzionetroppo calcolata (come non lo era la fabbrica del cinema in altri momenti), è forseil più generale universo delle immagini oltre il cinema a delineare ancora orga-nismi dentro i quali le opere e i loro autori hanno consapevolezza anche se nonpotere.

Brama di vivere(Lust for Life)

di Sergio Grmek Germani

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Esprimo il mio più vivo apprezzamento al festival I mille occhi che quest’annofesteggia il decimo anniversario. Un festival che si caratterizza per l’interdiscipli-narietà, non a caso nel sottotitolo si legge “Festival internazionale del cinema edelle arti”, e per il gusto della riscoperta.Questa manifestazione, ideata a diretta da Sergio Grmek Germani con il quale micomplimento, ha la sua cifra proprio nel riportare alla luce film rari, copie di pel-licole perdute e di proporli ai cineasti, agli appassionati e al grande pubblico. Il titolo di quest’anno è particolarmente suggestivo “Vertigo”. Un rimando chiaroal capolavoro di Alfred Hitchcock, conosciuto da noi come La donna che vissedue volte, ma è anche un invito, io credo, a lasciarsi cogliere dalla vertiginedavanti ai film che saranno proposti quest’anno.I mille occhi è un’iniziativa che si inserisce nella ricca offerta festivaliera che lanostra città propone, e che conferma quella tradizione di amore per il cinema checaratterizza la cultura triestina, una città che ebbe le sue prime sale cinematogra-fiche pochi mesi dopo Parigi, dove la settima arte nacque, e che ha dato al cine-ma attori, registi, sceneggiatori e oggi si offre anche come set cinematografico,molto apprezzato.Buon compleanno dunque a I mille occhi e fervidi auguri a Sergio Grmek Ger -mani.

Andrea MarianiAssessore alla Cultura

Comune di Trieste

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Sono Straub, Rousseau (vedi in Festival il geniale inserirsi della televisione – dicui ogni casuale e ottuso frammento di dialogo assume valenze perentorie: «loso, forse comincio a credere in Dio», «ma l’amore sì... mistero dei misteri»), ilWildenhahn attualissimo anche se non gira film da un decennio, il Gianvito danoi premiato anni fa e i cui film stanno alla storia americana come quelli diWildenhahn alla storia europea; ma anche Coppola e quanti nel cinema ameri-cano di oggi proseguono una fertilità sottratta ai calcoli; il Klopčič capace di rive-lare quanto il superamento dei socialismi ha voluto nascondere: sono costoro anon lasciarci nell’ottusità di fronte ad altre immagini che sembrano nascere senzapassione. Non c’è dubbio che quest’anno il vero mainstream cinematograficosono stati il campo senza controcampo di Obama e del suo gabinetto che guar-dano l’azione della cattura di Osama, e l’immagine vera/finta di costui che siriguarda in televisione. È il vuoto di queste immagini a farci capire perché tantiBlack Swan che simulano passione ne sono privi. Meglio allora una qualsiasiimmagine hard da internet che può diventare il punctum di una scelta di visio-ne, di proiezione, di eiaculazione. E poiché di fronte a qualche catalogo delle edi-zioni precedenti anche amici e amiche si irritarono a leggere nomi e cognomi diprotagoniste dei gossip politici elette a icone, qui eviteremo per gentilezza diaggiornare nominazioni ma vogliamo quantomeno sottrarci alla simulazione delleindignazioni, incapace di riferirsi alla presenza reale dei corpi che invece il ci -nema coglie. Nel programma di quest’anno I prosseneti di Brunello Rondi dicegià tutto sui fatti di cronaca su cui negli ultimi mesi ci si stava diffondendo senzarivelare nulla di noi stessi (unico modo – come può insegnare Wildenhahn – perrivelare qualcosa anche del mondo). Quel film corona una rassegna che vuolecontraddire il politicamente corretto della “responsabilità di fronte alla crisi”, della“crisi che è sotto gli occhi di tutti” e così via: mentre i film che presentiamo eranocapaci di capire che nulla è sotto (o sopra) gli occhi di tutti. E, poiché non sonoinclusi tra i ringraziamenti in colophon, voglio aggiungere qui il ringraziamento,per averne usato i nomi, alle agenzie di rating Moody’s e Standard & Poor’s: que-st’ultimo nome in particolare, per il suo oscillare tra parodia e insolenza, ci sem-bra ben prestarsi a un programma di film che ritenevano di poter guardare la real-tà umana e sociale oltre il dualismo di quei termini.Sarei restio a indicare troppe piste per seguire il programma dei Mille occhi, per-ché non sarebbero mai abbastanza: conta ciò che nasce di volta in volta nel rap-porto tra ciascuno spettatore e le immagini che vede. Perché, se ci fa piacere il

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dal film Lust for Life (1956)

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primo omaggio, in particolare Aldo De Benedetti, il cui omaggio proseguirà giàalle amiche e contigue Giornate del Cinema Muto, con la proiezione di La gra-zia, unica sua regia conservatasi, la cui genialità di messinscena rivela che nonera stato un extracinematografico inventore di intrecci di puro impianto teatrale(e anche lì sottovalutato, salvo studiosi come Antonucci e un convegno organiz-zato a Trieste dal Teatro La Contrada) ma anche un vero cineasta: i suoi intrecci,come abbiamo visto per quelli di Dario Niccodemi rispetto a Bianchi l’anno scor-so (e rivediamo quest’anno con lo splendido La maestrina), come forse coglie-remo in futuro per Alessandro De Stefani, come già sappiamo per Siro Angeli,sono stati essenziali per il cinema italiano anche quando qualcuno (Camerini peresempio, a differenza di De Sica) ha preferito riscriverli. Certamente tra questiinventori di intrecci De Benedetti è stato anche un cineasta e non solo un ispira-tore di cineasti, o qualcuno attratto dal cinema senza abbandonarvisi fino infondo: come Pirandello o Longanesi o il Flaiano che non ha collaborato solo conFellini come da vulgata, ma anche con l’edizione dell’unica regia longanesiana, econ Romolo Marcellini che la produsse e le cui regie, che prima o poi vorremmoprogrammare, si avvalgono talvolta della collaborazione di Flaiano alla sceneg-giatura o al commento. E ancora una volta nei ruoli di Cottafavi si scopre un’im-pronta seconda solo a Rossellini per il cinema italiano.Il che ci porta alla disseminazione cottafaviana nel programma e alla rassegna deisuoi film tratti dai due Dumas. Se il programma non avesse inevitabili limiti quan-titativi, che già forziamo al massimo, volentieri avremmo abbinato L’anglaise et leduc di Rohmer a Il cavaliere di Maison Rouge di Cottafavi, come pure La prise dupouvoir par Louis XIV di Rossellini a Il prigioniero del re di Rivalta. Questo film,su cui ci soffermiamo dentro il catalogo, è una punta nascosta del programma, erende la collezione cui appartiene davvero notevole, insieme a La spada imbat-tibile di Fregonese, film di cui non sono accreditati gli sceneggiatori ma che purcontiene invenzioni (che la splendida regia esalta) notevoli, dal finale dichiarata-mente aperto a battute come quella sui filologi che nemmeno Gianfranco Continiavrebbe saputo inventare meglio.Questi e altri film italiani in programma sono oltretutto reinventati da quella zonadi creatività cinematografica italiana che solo la competenza di Enrico Lancia hasaputo mettere in luce adeguatamente: il territorio delle voci di doppiatori, checreano in quasi tutto il cinema italiano una felice e persistente mostruosità. Equando il “Wurdalak” Boris Karloff ci parla in I tre volti della paura con la voce

calore del pubblico, non ci dimentichiamo che lo sguardo di ogni spettatore èdiverso dagli altri, e il fatto che essi possano incontrarsi sulla stessa immagine èogni volta un miracolo. Voglio tuttavia qui aggiungere che, se percorsi come Giullari di Dio e Standard &Poor sono anche quantitativamente essenziali nel programma, gli altri ne rivela-no cose altrettanto indispensabili.Vivere ancora (o Dieci minuti di vita), La vita ricomincia, Il canto della vita, Lagrande aurora, Il fantasma della morte: sono i titoli di alcuni film italiani delperiodo 45/48, uno dei grandi momenti della storia del cinema al di là di quan-to se ne è giustamente affermato: Paisà o i primi De Sica postbellici soprattutto.Il fatto è che il cinema sapeva essere un organismo senza annullare le individua-lità, e film che si sono talvolta contrapposti fino agli anni a seguire (Visconti e ilcinema dei «cadaveri», Camerini e Freda, Roma ore 11 e Tre storie proibite,Fiamma che non si spegne e il cinema amato da quanti lo fischiarono, revenantsdella Scalera e di Cine-Giudecca e altri fantasmi del mare, apparizioni e riappa-rizioni di Amedeo Nazzari...), tutto ciò si offre oggi come un discorso di vita cheben giustifica il titolo del presente testo, naturalmente in omaggio (legato allarecente personale di Locarno) a Vincente Minnelli, che (come capirono da subi-to Domarchi e Douchet, come colse la passione di Tailleur, come capimmo dasubito con Nina, come ribadiscono le liste dei top di Vecchiali e di altri critici nonovvi) non è certo «il regista della fabbrica hollywoodiana» o «della factory M-G-M»di certi luoghi comuni (senza nulla togliere a Freed, Berman, Houseman,Ruttenberg e così via) che resterebbe racchiuso in uno sterile dualismo sogno-realtà, ma è invece uno dei grandi cineasti del reale di cui il sogno è parteattiva. Insomma, The Clock non è mimetismo neorealistico, ma rivela che, primadell’incontro dichiarato con Rossellini in A Matter of Time, già Bells Are Ringingdiventa un catalogo di presenze reali più audace che in Warhol, che il movimen-to finale verso il cielo di Some Came Running ha la forza di Ordet e di Queiloro incontri, che The Cobweb è con Lilith il film definitivo sull’America, cheBrigadoon è una storia vera. La rassegna Viaggio in Italia 45/48 di cui si stava dicendo (titolo che ancora unavolta omaggia Rossellini, massimo titolista – basta scorrerne la filmografia – delcinema italiano) rivela una capacità di uscire dai traumi bellici che quel cinemaaveva e da cui c’è molto da imparare. Ed è significativa la vitalità e libertà con cuisi presenta il tema ebraico, con alcune figure di cineasti cui rendiamo solo un

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dello stesso Aldo Silvani che è il genio del male di Paolo e Francesca (ma ancheperdentemente umanizzato in 4 passi fra le nuvole di Blasetti, per esempio) pos-siamo cogliere come il cinema italiano, finché esisteva, sapeva essere tutto e ilsuo contrario senza che ciò si risolvesse in magma inerte ma diventando forzafilosofica; sapeva violare la morale del cinema nell’essere l’impronta di qualcosadi reale senza che ciò facesse smarrire la pluralità di quell’impronta. La genialitàdi Minnelli è confermata una volta di più dall’importanza con cui si rappresentail procedimento italiano del doppiaggio in Two Weeks in Another Town (Due set-timane in un’altra città).E poiché doppiaggio rimanda a doppio, il cinema italiano sa essere splendidareinvenzione di doppi, come quelli su cui si scambiarono palle De Benedetti,Camerini, Palermi, De Sica, Bianchi e altri. Giorgio Venturini, doppio produttivodi Cottafavi e altri cineasti (dagli esordi con un’Ultima cena già fotografata daGallea e musicata da Nascimbene, fino agli eccessi di Il sesso degli angeli diLiberatore e al Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento ultimo filmper il cinema di Cicero), reinventa in Il prigioniero del re la storia del doppiodumasiano del Re Sole, doppio dalla Maschera di Ferro che si avvicina al Re Solecome presentendovi la morte (dato che nessuno dei due si può fissare con losguardo, come dice il finale di Rossellini e come evoca in un suo testo PaulMorand). Non sappiamo quanto Rossellini avesse letto Dumas ma certo gli haaffidato una parte importante in Viva l’Italia dove lo interpreta Philippe Arthuys,creatore degli effetti sonori del film, e dove ci si fa vedere che Garibaldi lo nomi-na sovrintendente alle belle arti: e basterebbe ciò a porlo a un livello inarrivabi-le per qualsiasi politico dell’Italia odierna.Varrà la pena qui di segnalare che l’Associazione Anno uno, pur avendo al cen-tro della sua attività I mille occhi, la prolunga sia con una permanente attivitàd’archivio (ora operante dentro la Casa del cinema di Trieste), sia con iniziativenel corso dell’anno in cui prosegue l’attenzione verso il cinema italiano. E negliultimi mesi si è appunto realizzata per il Comune di Trieste una rassegna di filme opere televisive su Cavour, comprendenti Ottocento (1959) di Majano tratto daGotta e sceneggiato da De Stefani, e Vita di Cavour (1967) di Schivazappa sce-neggiato da Prosperi, in cui le scene delle battaglie garibaldine sono riprese inbiancoenero dal film di Rossellini. Si è realizzata inoltre una rassegna in omaggioa Kezich (sulla cui figura di scrittore western e d’avventura, come lo fu ancheTino Ranieri, si è prodotto un saggio in progress); e un omaggio a Pier Antoniodal film Il boia di Lilla

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Quarantotti Gambini, iniziato due anni fa dentro il festival con il film di Autant-Lara e che auspicabilmente proseguirà l’anno prossimo nel festival stesso a parti-re da Zurlini (che gli dedicò Seduto alla sua destra, film intrecciato agli esorditelevisivi di Wildenhahn come cronista dal Congo, che sarebbe bello vedere insie-me ai suoi tardi film da Mostar).Senza voler toccare i vari percorsi del programma ad uno ad uno, non va certa-mente trascurato quello dantesco. Dei due film di Freda e Matarazzo si era per-cepita solo la presunta volgarizzazione, anziché la sottolineatura passionale per-fettamente consona al grande poeta. Sul quale bisognerebbe non affidarsi allesole lezioni di Benigni e altri eventi mediatici. I mille occhi aprono una dantescaricca di sorprese, nella consapevolezza che il sommo (di cui naturalmente, spa-zio permettendo, avremmo incluso la Vita televisiva di Cottafavi e Prosperi) avevala mente del cinema: il suo far rinascere poeticamente tutte le presenze reali dellasua vita e della sua epoca era appunto la sostanza di ciò che si costituisce a cine-ma, arte di presenze reali. Ancora una volta proviamo un immenso affetto perBlasetti, di cui si racconta con ironia che un giorno si avvicinò trionfalmente auna compagnia di cinematografari per rivelare che c’era un grande poeta da sco-prire: «Dante! Dante Alighieri!».I due cerchi infernali dei film che presentiamo si uniscono alla perfezione (oltreche all’omaggio al dantista Scialom) a molte altre zone del programma, che nona caso si apre con La porta del cielo, passa attraverso alcuni giullari di Dio e siconclude (prima della desiderata rinascita di Il boia di Lilla) con Il mistero dellaSindone, film che solo Alberto Farassino vide scrivendone anche sulla rivista checreammo a Trieste, «La cosa vista», uno di quegli atti che smentiscono le falsità diquanti credono che I mille occhi abbiano solo dieci anni, e quanto li precedette,anche solo restando a Trieste, non appartenesse alla loro stessa storia. Mi riferi-sco a vicende dimenticate come il Nuovo CUC o Movie Club 77, alle monografiesull’Onda nera e successive per Alpe Adria Cinema, o alla rassegna L’unica gran-de passione, realizzata al Teatro Miela nel 1998, e che per l’icona da Gertrud pre-scelta, per PasaØerka e per l’unica proiezione mai avvenuta di pellicole dalla col-lezione Henriquez, fu la più pertinente delineazione dei Mille occhi.Ci soffermiamo poco sui Giullari di Dio nella convinzione che sarà una rassegnaben percepita. E che dimostrerà come I mille occhi non temano di far propriecose conosciute (si era già visto l’anno scorso con Liliana Cavani) nella convin-zione che anche lì molte scoperte vadano fatte, che i film si possano vedere al didal film Triptih Agate Schwarzkobler

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L’anno che ci divide dalla edizione precedente del festival è stato particolarmen-te traumatico, per chi scrive (ciao Iolanda, ciao Mirjam, ciao Franca), per gli amicidel nostro festival (Thomas Harlan, Nico Papatakis), per i vuoti creatisi nel cine-ma con quello della nostra dedicataria: Blake Edwards cui dedichiamo il segno Xdella nostra edizione, Raul Ruiz, Roy Ward Baker, Ingrid Pitt, Susannah York,Hélène Surgère, Caterina Boratto, Maria Schneider, Tura Satana, Carla Del Poggio,Maria Mercader, Hideko Takamine, Anne Francis, Jill Haworth, Jane Russell,Marie-France Pisier, Catherine Jourdan...

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fuori delle gerarchie consolidate. L’anno scorso la proposta della trilogia dellaCavani andò fin oltre l’investimento di partenza e rivelò in Interno berlinese, nellanuova stampa che valorizzava la fotografia di Dante Spinotti e la forza di regia,un film davvero sottovalutato. Nell’attesa di proseguire l’omaggio con una buonacopia di La pelle con Liliana Tari che è anche la Teresa di La voce di Rondi, in-cludiamo i due “Franceschi” della regista tra i Giullari, inaugurandovi anche unpercorso di Fuori campo (oltre a quello a noi consueto delle Convergenze paral-lele). La rassegna, prima parte di un viaggio tra Profeti e messia nascosti del ci-nema italiano, apre un percorso che ci consente di occuparci di cineasti italianianche affermati (Squitieri, generoso ospite del festival e generoso uomo di cine-ma), e di divi dello spettacolo oltre il cinema e trasversalmente politici (Grillo,Celentano...), di toccare – in ben due percorsi del programma – sia Comenciniche Olmi, quest’ultimo in coincidenza con un ritorno alla regia collegato sia alsuo cinema industriale all’EdisonVolta che ai temi spirituali (sempre anche socia-li ed estetici) di tutta la sua opera.Ci fa piacere inoltre ricollegarci alla prima edizione del nostro festival, dove lapersonale completa di Massimo Troisi contenne Le vie del Signore sono finite,splendida decantazione di questa rassegna in progress.Che ci auguriamo coinvolga spettatori credenti (di tutte le fedi) e non. Anche per-ché, insegna Jean-Claude Rousseau intervistato da Cyril Neyrat (e Rousseau ha unparticolare talento da intervistato, come conferma la recente conversazione nelvolume curato da Roberto Turigliatto su Godard): «... la storia è sempre santa. Perquel bisogno di credere che fa dei film un atto di fede. C’è di che superare ladistinzione tra documentario e finzione. È questo il cinema».Si diceva del Fuori campo, figura cinematografica originaria che rende fondativii film di Griffith. E che fa capire come il cinema non sia mai solo cinema. È nellavita di tutti i giorni che viviamo Fuori campi e talvolta li subiamo, talaltra ritenia-mo di sceglierli.I mille occhi partono da scelte inclusive che sembrano far precipitare vertigino-samente dei Fuori campi dentro il campo.Ma, rispetto al discorso economico dominante che rende la morte uno strumen-to di controllo della ricchezza sociale, il punto di riferimento resta il discorso divita del Vampyr di Dreyer, e poi di Ordet.Sterili sogni del cinema? mentre nella vita sarebbe vero che, alla fine, «qui non cisono né bambini né cani»?

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Matjaž Klopčič, fiori d’autunno /

cvetje v jeseni

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L'ATTESA DEL FILM PIÙ AMATO

di Sergio Grmek Germani

Sabato mattina è morto a Lubiana, po chigiorni dopo aver compiuto 73 anni, ilmaggior regista sloveno Matjaž Klopčič:colui che ha davvero portato il cinemasloveno “in Europa”, mentre in questigiorni di vigilia della caduta dei confinisi arriva al paradosso che una notiziacome questa non è ancora arrivata anessuno dei giornali italiani del FriuliVenezia Giulia. Klopčič era stato tra iprotagonisti del maggior momento delcinema jugoslavo, quando alla metà de -gli anni ’60, da una cinematografia giàgrande, scattava l’“onda nera” di cinea-sti nel loro momento di grazia (Pavlović,Makavejev, Petrović, Popović, Antić, Žil -nik, Rakonjac, Babaja, Hladnik, Martinaccol ringiovanimento dei già attivi Djor -dević, Živanović, Pogačnik, Jože Babič,Golik...).Dopo la stretta censoria del ’72 le ci -nematografie jugoslave non tornerannomai più a queste punte assolute, nem-meno cogli internazionalmente celebratiKusturica, Paskaljević ecc., e i momen-ti di brillio di Šijan e qualcun altro sonolegati alle loro radici in quel periodo.Mentre Pavlović esordiva nel lungome-traggio lo sloveno Klopčič faceva il ser-vizio militare a Belgrado, e fu tra i pre-senti all’unica proiezione del film Gradpoi proibito. Portò Pavlović a Lubianaper realizzare un capolavoro di cinemaapolide (serbo? sloveno? espressionistatedesco?), Neprijatelj.Tra i due cineasti entrambi ora scom-parsi, si costituisce la polarità degliestremi del cinema jugoslavo, l’appa-rente durezza di Pavlović e l’apparente

dolcezza di Klopčič. Quando poi anchequesti esordisce nel lungometraggio sa -rà lui a realizzare una delle opere piùradicali, Zgodba, ki je ni. Anche se nonresteranno sempre in sintonia (Klopčičnon amava il capolavoro di Pavlović Letmrtve ptice), il destino del loro cinemaè legato. L’ultimo sfortunato film delregista serbo, Država mrtvih, è l’operapiù vicina all’ultimo lungometraggio diKlopčič, Ljubljana je ljubljena (2005),rifiutato da tutti i festival maggiori ein Italia proiettato solo a Procida e aTrieste (I mille occhi, con replica alKinoatelje di Gorizia). Insieme all’ultimofilm di Karel Vachek dedicato alla “ce -coslovacchitudine”, si tratta delle opereche con maggior genialità rilanciano ipathos nazionali verso una nuova di -mensione apolide.Figlio del poeta Mile Klopčič, il registasloveno ha creato nel cinema un corpuspoetico intimamente sloveno e insiemecosmopolita (c’è anche un suo film am -bientato in Italia, Iskanja, mentre l’ulti-mo è una chiosa a Le plaisir di Ophüls,come l’ultimo Pavlović chiosa la Jeanned’Arc di Dreyer).Regista di affascinanti personaggi fem-minili, interpretati da Snežana Nikšić,Mi lena Zupančič, Nataša Barbara Grač­-ner, Iva Kranjc..., seppe realizzare colsuo ultimo film, oltre che una summa didediche femminili, anche il più intran -sigente rovesciamento delle mitologieslovene, culturali, religiose e politiche.È proprio dal tempo di Let mrtve pticeche nel cinema sloveno non si vedevauna rappresentazione così dura dell’i-conografia cattolica, con le torture chesi infligge Barbara Cerar, con quel luo -go di peccato chiamato Purgatorio e

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con la scena definitiva della protagoni-sta che, alla soglia dell’ingresso in chie-sa, può ottenere dal montaggio solo ilvuoto di uno stacco. Chi scrive sta cer-cando da tre anni di ottenere che inSlovenia si editi finalmente a 35mm ilcapolavoro assoluto del regista, TriptihAgate Schwarzkobler, produzione tele-visiva mai proiettata in sala. Sarà possi-bile ora che Klopčič non potrà piùvederlo?

P.S: Questo articolo è stato pubblicatosu «il manifesto» il 18 dicembre 2007.Dopo altri quattro anni l’auspicio finalesi può realizzare a I mille occhi X.

TRIPTIH AGATE SCHWARZKOBLER[TRITTICO DI AGATA SCHWARZKOBLER]Regia: Matjaž Klopčič; soggetto: dal ro -manzo di Rudi Šeligo; sceneggiatura:M. Klopčič, con la collaborazione diR. Šeligo; fotografia: Tomislav Pinter;musica: Lojze Lelič; interpreti: NatašaBarbara Gračner, Judita Zidar, MarušaOblak, Barbara Cerar, Polde Bibič, An -ton Petje, e brani da Sedmina (1969) diKlopčič con Snežana Nikšić; produzione:Franci Zajc per Arsmedia/RTV Slovenije;origine: Slovenia, 1997; formato: 16mm,col; durata: 80’.Prima copia 35 mm (da 16mm) deposi-tata a La Cineteca del Friuli, restauratadalla stessa con Slovenska kinoteka,con la collaborazione di Arhiv Republi -ke Slovenija - Slovenski filmski arhiv,Ministrstvo za kulturo Republike Slo -venije, RTV Slovenije, Arsmedia.

Serata inaugurale in anteprima mondia-le alla presenza della vedova del regi-

sta Anamarija Klopčič, della figlia AnaRahela Klopčič e della protagonista delfilm Nataša Barbara Gračner.

Klopčič sapeva di aver realizzato conquesto film un capolavoro (ce ne testi-monia anche Lorenzo Codelli che lovide col regista, appena finito, nellaproiezione da 16mm doppia banda allaViba film di Lubiana: rara proiezione supellicola in un formato poco diffondi-bile, con la speranza dell’autore di tra-sferirlo in una copia 35mm, desiderioche si realizza solo oggi, dopo che peranni la limitata circolazione del filmavveniva o per trasmissione televisiva oin videoproiezione), e quando alcunianni dopo realizzò il suo ultimo lungo-metraggio Ljubljana je ljubljena lodedicò allo scrittore Šeligo e vi ripresele due attrici Gračner e Cerar. I due filmsono molto legati, ma lo sono anchecon altri nell’opera dell’autore: Sedminadi cui si riprendono brani (in qualchemodo il primo film autunnale del regi-sta ancora giovane, dopo i tesamentegiovanili Zgodba, ki je ni in Na papir-natih avionih), il Cvetje v jeseni ispiratoall’Ivan Tavčar narratore “autunnale”, alcui personaggio di Agata Schwarzkoblerin Visoška kronika si è ispirato Šeligo;e, per la costruzione del titolo, VdovstvoKaroline Zašler. Tutti film, come anchealtri del regista (Strah con il ruolo diprostituta “mulatta” Neda Spasojević,già crna devojka in un film serbo)segnati da splendide presenze femmini-li. Triptih in ciò è una punta indubbia:Nataša Barbara sguardo e corpo di raraflagranza, che ci si rivolge (anche nelfinale) guardandoci dallo schermo, e

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Corrieri diplomatici del cinema, I.

Ivo Andric

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tolica nell’ultimo lungometraggio), na -zionalità (presenze di attrici serbe invari suoi film) e regimi politici e sociali.Un cineasta oltre le età, di cui il cinemasloveno (e non solo sloveno) di oggi habisogno come non mai. (s.g.g.)

che il regista guarda nelle sue sinuoseforme carnali... figura di strega dreye-riana (ma già Tavčar la vide così) cheattraversa tutta la storia del socialismojugoslavo e del postsocialismo slovenoevocante pathos nazionali di cui – ci di -ce il regista – solo quella presenza dicorpo è un dato reale (e non certo nelsenso in cui si parlava di “socialismoreale”)... Nataša Barbara nelle sceno-grafie di un ufficio burocratico con ri -tratti di Prešeren e di Tito alle pareti, indialogo con due colleghe (Judita Zidar,Maruša Oblak) e con superiori maschi-li, prima di arrivare alle scene a duecon Barbara Cerar, intensamente eroti-che senza necessità di esplicitarlo per-ché è la compresenza in campo delledue “mattatrici” a renderle tali. E comein altri film, se il corpo femminile sfidale ferite (si pensi al martoriarsi dellaCerar in Ljubljana je ljubljena), quellomaschile è sfidato da un destino di mo -struosità, che in questo film il grandeBibič assume sul corpo come in unodei tardi capolavori di Terence Fisher.Nell’ultimo lungometraggio il personag -gio di Bibič si chiamerà Martin Krpan,toccando con Fran Levstik un altro mitoletterario nazionale reinventato. Ricordoche Klopčič insegnante di cinema sep -pe anche riconoscere in Oda Prešernudi Martin Srebotnjak un film raramente«autentico» (così lo definì) del nuovocinema sloveno.Prešeren, Levstik, Tavčar, visti attraversoŠeligo e il pathos del proprio cinema:Klopčič ci si rivela l’Oliveira della slo-venità, e come per il lusiade anche perlui le presenze femminili contemplatedal cinema sono creature che trascen-dono fedi (lo sfondo di iconografia cat-

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vincerlo ad approvare la sceneggiaturadi un suo racconto, dicendogli esplici-tamente: «Pervić [lo sceneggia tore, ndr]non ha tradito né Voi né se stesso...»;Andrić gli rispose: «Anche io dalla let -tura della sceneggiatura di Pervić hoavuto un’impressione favorevole. Cisono anche sostanziali mancanze, chegli farò notare nel corso del nostro col-loquio. Ma il mio scetticismo sulla pos-sibilità di un film purtroppo non si èdissipato, bensì rafforzato: e proprionelle parti migliori della sceneggiaturail mio dubbio per la realizzazione erapiù forte... [...] Sapete quanto io stimi equanto mi sia caro quell’uomo. Se nonfosse così, non mi occuperei mai e innessun caso né della sceneggiatura nédel film...»Il film non fu mai realizzato.Le opere letterarie di Andrić suscitava-no spesso l’interesse delle produzionicinematografiche e le richieste eranocontinue. Andrić riusciva, tuttavia, adignorarle quasi tutte, persino quella diAndrzej Wajda.Leggendo il frequente scambio di lette-re tra Andrić e i potenziali sceneggiato-ri, registi e produttori, notiamo che nonaveva tempo, energie ed interesse peroccuparsi degli adattamenti dei propritesti e che non se la sentiva di affidarlialle interpretazioni altrui, nonostante lasua scrittura fosse caratterizzata proprioda suggestive descrizioni, molto vicineal linguaggio cinematografico.Fino al 1975, l’anno della sua morte, so -no stati realizzati solo sei progetti divaria durata, fra i quali un unico lungo-metraggio (Anikina vremena di Vladi -mir Pogačić del 1956). Grazie all’attenta ricerca del biografo di

Andrić, il giornalista belgradese Rado -van Popović (Andrić�eva prijateljstva,Službeni Glasnik, Belgrado, 2009, diprossima uscita in Italia: ComunicarteEdizioni, Trieste), abbiamo reperito que -ste poche ma preziose informazioniriguardo al rapporto di Andrić con lasettima arte. Sarebbe tuttavia vano cer-care nei suoi taccuini annotazioni eosservazioni sui suoi gusti cinematogra-fici, perché non ha lasciato alcuna trac-cia scritta.È sempre vivo l’interesse per Andrić, ilsofisticato e pedante intellettuale eu -ropeo. Le sue opere, illuminanti e vi -sionarie, vengono spesso proposte daintellettuali e studiosi contemporanei diogni genere per decodificare e analiz-zare le complesse e complicate situa-zioni geopolitiche dei Balcani e delMediterraneo (es. Predrag Matvejević,Marija Todorova). Le sue impronte so -no indelebili. Le sue riflessioni e le suescelte suscitano approvazioni e polemi-che tra i critici, letterati, storici e lingui-sti di tutta la Regione.Riproporre Andrić oggi significa ossige-nare l’area culturale, donarle un brio diaria fresca. L’editoria ha trovato il mododi rilanciarlo in una veste nuova e in vi -tante, ma non si è assottigliato «lo scu do»che lo ha sempre protetto dal «minac-cioso schermo». La Fondazione Ivo An -drić, che detiene i diritti di tutte le sueopere, è particolarmente attenta e cautanell’avventurarsi in azioni che non ga -rantiscano un risultato potente quantola sua parola scritta. Sembra che oggi il muro cominci a pre-sentare delle piccole crepe: nel 2006, lagiovane regista svizzera Andrea Štaka

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IVO ANDRIć

(Dolac vicino a Travnik, Imp. Austro-un -garico, 1892 - Belgrado, Jugoslavia, 1975)Nel 1947, sette anni dopo l’ultima mis-sione diplomatica, quattro anni dopo ilvolontario isolamento creativo (1940-1944) che ha prodotto i romanzi La cro-naca di Travnik e Il ponte sulla Drina(per il quale, nel 1961, riceverà il pre-mio Nobel), seguiti dal romanzo breveLa signorina (1945), un altro gioiellodella letteratura, Ivo Andrić scrive la suapri ma sceneggiatura. L’incarico lo ricevedal presidente del Consiglio per l’Edu -cazione e la Cultura della Repub blicaPopolare della Serbia, Mitra Mitrović. Larichiesta è di preparare “i materiali perun film culturale” sulla vita di Vuk Ste -fanović Karadžić (1787-1864), il gran delinguista ed etnologo serbo, figura diestrema importanza per la conservazionedelle origini della cultura nazionale.Affidandogli il compito di scrivere su unpersonaggio di tale spessore, i verticidel governo dimostrano tutta la fiduciae il riconoscimento delle capacità arti-stiche e personali di Andrić, che in quelperiodo non faceva ancora parte delpartito comunista. La sceneggiatura, intitolata Tri slike izživota Vuka Karadžića [Tre immaginidella vita di Vuk Karadžić], è il frutto diun accurato e attento studio del periodo,della personalità e delle opere di VukKaradžić ed è caratterizzata dallo stilenarrativo di Andrić, originale, vivo, caricodi immagini. La produzione viene affi-data all’Avala film, ma il film non fu mairealizzato per mancanza dei fondi. Nel 1950 Andrić diventa membro delCon siglio culturale del Comitato per laCi nematografia della Repubblica Popo -

la re Federale Jugoslava, un’esperienzache Andrić non volle più ripe tere. Annidopo rifiuta le candidature alle giurie divari festival prestigiosi, come quello diPola, la più importante rassegna delleproduzioni della Repubblica SocialistaFederale di Jugoslavia.Sosteneva di essere onorato dalle pro-poste, ma le ragioni, come cercava di(non)spiegare giustificando la sua pocapresenza nel mondo cinematografico,erano «molto complesse» per cui erameglio «non iniziare ad elencarle».Nel 1963, alla richiesta di Meša Selimo -vić, amico e noto scrittore bosniaco, diautorizzare le riprese per tre cortome-traggi tratti dai suoi racconti, Andrićrisponde: «Sono molto grato a Voi pervoler dedicare la Vostra attenzione e ilVostro interesse ai miei racconti, cosìcome alla Sutjeska film che vorrebbeoccuparsi della lavorazione. Però le co -se stanno in questo modo: nell’ultimoperiodo ho rifiutato tre offerte da par-te di nostri sceneggiatori e di nostreaziende cinematografiche, semplicemen -te perché non ho né tempo né forzeper occuparmi, oltre al resto del lavoro,anche di problemi cinematografici. Per -ché, se anche la cosa venisse realizzata,so che non sarei in grado di rimanerecompletamente in disparte da una simi-le impresa e non sono né nelle condi-zioni psichiche né in quelle fisiche perprendermi nuovi impegni, oltre agliincarichi e ai lavori già assunti, per dipiù in un campo che mi è così lontanoe sconosciuto...»Qualche anno dopo, Aleksandar Vučo,l’amico scrittore e poeta, legato al mon -do del cinema da numerose esperienzeproduttive, gli scrive cercando di con-

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Stati generali del cinema italiano, I.

Jean-Claude Rousseau nell’Italia senza festival

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FUORI CAMPOTri slike iz života Vuka Karadžića pro -getto non realizzato per il cinema di IvoAndrić.

Vedi saggio introduttivo di Mila Lazić.

ha realizzato un lungometraggio ispi -rato al romanzo La signorina e attual-mente, in un pezzo della terra bosniacacosì cara ad Andrić, è in corso la costru-zione di Kamengrad [città di pietra], laricostruzione degli ambienti del Pontesulla Drina, la probabile scenografia diuno dei prossimi film di Kusturica. (m.l.)

LETOVANJE NA JUGU[LE VACANZE AL SUD]Regia: Matjaž Klopčič; soggetto: dallanovella di Ivo Andrić; sceneggiatura:Bojana Andrić, M. Klopčič; fotografia:Ivica Rajković; montaggio: JadrankaPerišin; scenografia: Kemal Hrustanović;musica: Ernest Chausson; interpreti:Boris Buzančić, Svetlana Bojković,Stevo Žigon, Marjeta Gregorac, DraganSaković, Angelca Hlebce; produzione:Senad Zvizdić per Radiotelevizija Sara -jevo; origine: Jugoslavia, 1980; formato:16mm, col; durata: 51’.Copia 16mm originale da RadiotelevizijaBosne i Hercegovine.

Uno studioso viennese e la moglie deci -dono di trascorrere le vacanze al maree approdano in un’isola del sud. Hainizio un percorso sentimentale e filo -sofico inaspettato, in forte contrasto conle loro vite. Nell’atmosfera del Mediter -raneo che risveglia i sensi, affiorano leinquietudini nascoste dell’anima e leincognite si moltiplicano. Un’eccellentelettura di Andrić.

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Giullari di Dio (Profeti e messia nascosti del cinema italiano, I.)

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SENZA MOSTRA

Regia: Jean-Claude Rousseau; origine:Francia, 2011; formato: video digitale;col; durata: 10’.Copia DigiBeta da autore.

FESTIVALRegia: Jean-Claude Rousseau; origine:Francia, 2010; formato: video digitale,col; durata: 80’.Copia DigiBeta da autore.

Si rimanda al saggio di Cyril Neyrat,L’Épreuve de la disparition, nell’edizio -ne on-line del catalogo.

«Se mi esprimessi alla maniera di Go -dard, che fa sì che le idee si fondono inpoche parole direi che montaggio miricorda inevitabilmente catena di mon-taggio, e dunque forse il rifiuto dellaparola è dovuto a ciò che implica alivello di raccordo. Perché montare unfilm comunemente significa raccordare,mentre per me nel raccordo si perdel’immagine. Ora, del montaggio possia-mo anche dire che è l’accostamentodelle immagini, e il fatto che esse si po -sizionino dove loro piace, che si regga-no insieme perché stanno bene là dovesi trovano. Ed è vero naturalmente chein qualsiasi modo esse si posizioninoce ne sarà una che precede e un’altrache segue. Quel che rifiuto nella paro-la montaggio è l’atto volontario che con -siste nel legare, ri-legare e dunque rac-cordare delle immagini per dire qualco -sa, per conferire loro, bloccandole, unasignificanza, in ogni caso perché l’im-magine significhi quel che si vuol dire.L’immagine non può essere domata in

questo modo. [...] Non mi piace, non miconviene potrei dire, che si faccia unatale differenza tra ciò che oggi vienefatto in film su pellicola e ciò che vienefatto in video digitale. Naturalmente ve -do la differenza, non fosse che a livellodi luce, il che è evidentemente fonda-mentale, ma per me la differenza deter-minante è la durata delle inquadrature,che è senza limite, mentre – senza par-lare del 35 o 16mm – per me la pelli-cola era la piccola cartuccia Super8 disoli due minuti e mezzo, che costituivauna specie di unità, di mattone, mi pia-ceva dire un tatami, a partire dal qualesi poteva edificare il film. Dunque il vi -deo è completamente differente a livel-lo di durata, ma per il resto non ho maiutilizzato gli artifici resi possibili da esso,il trattamento dell’immagine. Straub direcente ha fatto dei grandi film in video».

Jean-Claude Rousseau a Roberto Turigliatto ne L’uomo vergine., in R.

Turigliatto, Passion Godard. Il cinema(non) è il cinema, Il Castoro, Milano, 2011

FUORI CAMPOFuori orario: notte televisiva a cura diRoberto Turigliatto.Raitre, venerdì 16 settembre, ore 1.45.

LES ANTIQUITÉS DE ROMERegia: Jean-Claude Rousseau; origine:Francia, 1984-1989; formato: 16mm, col;durata: 105’.

LA VALLÉE CLOSE

Regia: Jean-Claude Rousseau; origine:Francia, 1995; formato: 16mm, col; du -rata: 144’.

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di Francesco e in particolare all’espe-rienza di combattente nella guerra fraAssisi e Perugia, decisiva per la suamaturazione spirituale. Molto diversosembra invece il taglio di un’altra stesu-ra, presumibilmente successiva, riela-borata per il regista da Vittorio Cottafavie Stefano Landi: «Secondo noi infatti [...]la santità era il peccato mortale massi-mo, altissimo, sommo: cioè chi vuoleessere santo è già condannato. E comeci si salva, essendo santo, dalla con-danna? Perseverando nel peccato, cioèperseverando nella santità sino al limi-te estremo. San Francesco noi lo facem-mo perseverare nel peccato, cioè nellasantità, sino al punto in cui non lavuole più, la rifiuta; ed è allora che lasantità gli giunge con le stimmate. Inaltre parole la santità è la grazia che ladà, l’uomo non può pretenderla néconquistarla. In questo senso era abba-stanza interessante impostare la vita diSan Francesco; ma era un’impostazioneche non piacque a Genina, tanto chequando ebbimo finito la sceneggiaturafummo liquidati, e seppi poi che Ge -nina aveva passato il copione ad altrisceneggiatori, probabilmente per rive-derlo, filtrarlo, castrarlo» (V. Cottafavi inGianni Rondolino, Vittorio Cottafavi. Ci -nema e televisione, Cappelli, Bologna,1980).Il soggetto, nonostante le difficoltà eco-nomiche e il costante processo di ri -scrittura, continua comunque ad affa-scinare il regista, che non smette dilavorarci per tutto il decennio, anche inprevisione dell’Anno Santo 1950. Sap -piamo, in particolare, di un’ennesimariscrittura in collaborazione con OresteBiancoli e Riccardo Bacchelli, a cui si

FUORI CAMPOSan Francesco progetti non realizzati scrit-ti da Vittorio Cottafavi e Alberto Savinio perAugusto Genina

SAN FRANCESCOAugusto Genina inizia a pensare a unsuo Francesco già durante gli anni dellaguerra, tanto che il primo annuncioufficiale risale all’estate 1945, quando ilprogetto sembra nel complesso ormaiben delineato. A questa prima sceneg-giatura, conservata presso il Fondo Au -gusto Genina della Cineteca del Friuli,partecipa con entusiasmo Alberto Savi -nio, che prevede nel frattempo di rica-varne anche una versione romanzata,anch’essa poi rimasta irrealizzata. L’im -postazione del racconto, che segue lavita del santo dalla giovinezza fino allamorte, è ben sintetizzata in una brevenota degli autori intitolata Messaggio diSan Francesco: «Il messaggio del filmdato attraverso San Francesco è questo:la guerra è la conseguenza di tutti i no -stri errori quotidiani quindi ciascuno dinoi deve pesare ogni gesto, ogni paro-la, secondo la coscienza. Costantemen -te, altrimenti la guerra ritornerà comebrucerà la casa di colui che butta sem-pre fiammiferi sul pavimento. Così diceFrancesco nel discorso della spada,nella predica di San Rufino e nelle pa -role ai crociati. È il messaggio che dà almondo: siate migliori ed eviterete laguerra» (A. Genina, A. Savinio, Materia -li per «San Francesco», in Sergio GrmekGermani, Vittorio Martinelli, Il cinemadi Augusto Genina, Biblioteca dell’Im -magine, Pordenone, 1989). Il trattamen-to pubblicato in volume non a casoconcede ampio spazio alla giovinezza

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zione: Giuseppe Amato per Rizzoli Film;origine: Italia, 1950; formato: 35mm, b/n;durata: 75’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Se, come vogliono alcuni, si può par-lare di un mio cinematografico itinera-rio spirituale, direi che Germania annozero è il mondo arrivato ai limiti delladisperazione per la perdita della fede,mentre [Stromboli] Terra di Dio è ilritrovamento della fede. Andando oltre,veniva spontanea la ricerca della formapiù compiuta dell’ideale di Cristo; iol’ho trovata nell’ideale francescano. Ma,accostandomi alla figura di Francesco,non ho preteso di dare una vita delSanto. In Francesco giullare di Dio, ionon racconto né la sua nascita né la suamorte; né ho preteso di raggiungere l’e-sposizione completa del messaggio edello spirito francescano o di accostar-mi direttamente alla formidabile e com-plessa personalità dei suoi seguaci, fra iquali, pertanto, hanno acquistato gran derilievo frate Ginepro e frate Gio van ni ilsemplice, che rivelano fino al parados-si lo spirito di semplicità, di innocenza,di letizia che dallo spirito di Francescopromanano. In sostanza, co me già diceil titolo, il mio film vuol essere l’esposi-zione dell’aspetto giullaresco del france -scanesimo, di quella giocosità, di quel-la “perfetta letizia”, della liberazioneche lo spirito trova nella povertà, nel-l’assoluto distacco dal le cose materiali.E questo aspetto particolare del grandespirito francescano io ho pensato diridarlo sulla falsariga dei Fioretti dove,secondo me, si conserva intatto il pro-fumo del francescanesimo primitivo.Storicamente, la serie di fatti narrati nel

sarebbe accompagnato anche un fervi-do lavoro di pre-produzione, testimo-niato da una mostra del 1949 con i boz-zetti elaborati da Virgilio Marchi e Da -rio Cecchi, nonché dai ricordi dell’aiutoregista Giorgio Capitani. Il progetto,come dichiara la vedova Genina, nau-fragherà definitivamente soltanto all’an-nuncio del film di Rossellini: «Ci lavoròa lungo, e ci tornò sopra nel ’48, facen-do una bellissima sceneggiatura conBacchelli, con altri, sempre per il pro-duttore Bàssoli. Poi, a un certo momen-to – la preparazione era già parecchioavanti, Vagnetti aveva disegnato i co -stumi, Augusto aveva già fatto dei pro-vini per gli attori (Mariella Lotti dovevaessere Santa Chiara, De Lullo dovevaessere San Francesco) – venne fuori im -provvisamente che l’avrebbe girato Ros -sellini, il quale si era messo d’accordocon Bàssoli» (Betty Ferraris Genina inFrancesco Savio, Cinecittà anni Trenta.Parlano 116 protagonisti del secondocinema italiano 1930-1943, a cura diTullio Kezich, Bulzoni, Roma, 1979).

FRANCESCO GIULLARE DI DIO

Regia: Roberto Rossellini; soggetto: R.Rossellini, ispirato a I fioretti di SanFrancesco d’Assisi; sceneggiatura: Fe -derico Fellini, padre Félix Morlión, pa -dre Antonio Lisandrini, Brunello Rondi;fotografia: Otello Martelli; montaggio:Jolanda Benvenuti; scenografia: VirgilioMarchi; musica: Renzo Rossellini; in -terpreti: fra’ Nazario Gerardi (voce PinoLocchi), Arabella Lemaitre, Aldo Fabrizi(voce Mario Besesti), Peparuolo, Gian -franco Bellini (voce narrante); produ-

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taglio secco, con inquadrature essen -ziali, senza compiacimenti calligrafici».

Ugo Buzzolan, «La Stampa», 7 maggio 1966

FRANCESCORegia, soggetto: Liliana Cavani; sceneg-giatura: Roberta Mazzoni, L. Cavani; fo -tografia: Giuseppe Lanci, Ennio Guar -nieri; montaggio: Gabriella Cristiani;scenografia: Danilo Donati; musica:Vangelis; interpreti: Mickey Rourke,Helena Bonham Carter, Fabio Bussotti,Mario Adorf, Paolo Bonacelli, AndréaFerréol, Riccardo de Torrebruna, Alek -sander Dubin, Edward Farrelly, StankoMolnar, Hanns Zischler, Paco Reconti,Diego Ribon; produzione: Karol Film/Rai Uno/Istituto Luce/Royal Film; ori -gine: Italia/RFT, 1988; formato: 35mm,col; durata: 150’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Anche se il tema è il medesimo, Fran -cesco non è un remake. È nato in undiverso momento della mia vita e quin-di anche da una diversa ispirazione.Oggi inoltre che ho maggiore esperien-za ho potuto parlare di più dell’amoredi Francesco per la vita e per le creatureanche perché io stessa ho imparato conil tempo ad amare di più. Mickey Rourkecredo che sia l’unico attore in grado og -gi di poter interpretare una figura comequella di S. Francesco. Rourke è unattore di grande istinto e professione,ricco di possibilità. Dal punto di vistaumano convivono in lui le più diversesfumature di carattere. Inoltre per il suoaspetto, e la sua sensibilità, per i suoi

slanci e le sue incertezze e forse ancheper la sua storia personale mi è sem-brato davvero necessario per il miofilm. Senza di lui per me sarebbe statoun guaio... [...] Ho detto già anni fa che si potrebbealmeno ogni dieci anni reinterpretarenuovamente la storia di S. Francesco eogni volta scoprirvi qualcosa di diverso.Io stessa se dovessi re alizzare un terzoFrancesco certamente non mi annoie-rei. Comunque, pure es sendo stataattenta a delineare alcuni eventi parti-colarmente significativi nella storia delsanto, ho voluto raccontare il film inmaniera libera, sciolto da legami trop-po storicistici in modo tale da creareuna storia attuale e comprensibile intutti i sensi. Il titolo inizialmente è natoin modo provvisorio. Poi abbiamo ri -tenuto opportuno mantenerlo perchénel film raccontiamo l’esperienza diFrancesco prima della canonizzazione.Quello che colpisce in Francesco è l’assoluta mancanza di retorica, di qual-siasi giudizio critico nei confronti dichi è diverso da lui o non ne condividele scelte. Ne viene fuori un’immaginedi grande libertà che mi pare molto si -gnificativa. Un secondo aspetto di Fran -cesco che mi piace ricordare è quellorelativo alla sua capacità di cambiare.Caratteristica media della gente è pro-prio l’impossibilità di cambiare, succu-be com’è del background, dell’insiemedi situazioni e circostanze da cui la lorostoria proviene. Francesco, al contrario,vive in un continuo cambiamento, cheè anche continua evoluzione. La sua èuna ricerca incessante, tesa a valorizza-re al massimo i significati della vita. [...]Incontrare Francesco diventa un grande

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film si inquadra fra due momenti fonda -mentali: quello del ritorno di Francescoda Roma dopo aver avuto dal SignorPapa il permesso della predicazione, equello dell’inizio della predicazione.Geograficamente il centro dell’azione èla Porziuncola. Per completare quantomanca e per introdurre il pubblico nel-l’atmosfera dei Fioretti, il film ha unprologo [oggi perduto]: un breve rac-conto detto da uno speaker mentre sul -lo schermo passano gli affreschi famosidei primi pittori che narrarono di Fran -cesco. Riproporre og gi certi aspetti delfrancescanesimo primitivo mi pare siala cosa che meglio risponda alle aspira-zioni profonde e ai bisogni dell’umani-tà che, per aver di menticato la lezionedel Poverello, schiava dell’ambizione diricchezza, ha perduto persino la gioiadi vivere».

Roberto Rossellini, Il messaggio di «Francesco», «Epoca»,

18 novembre 1950

FRANCESCO D’ASSISIRegia: Liliana Cavani; sceneggiatura: L.Cavani, Tullio Pinelli; fotografia: Giu -seppe Ruzzolini; montaggio: LucianoGigante; scenografia: Ezio Frigerio;mu -sica: Peppino De Luca; interpreti: LouCastel, Marco Bellocchio, RiccardoCucciolla, Giancarlo Sbragia, LudmillaLvova, Maria Grazia Marescalchi, Ken -neth Belton; produzione: Leo Pescaroloper Clodio/RAI; origine: Italia, 1966;formato: 16mm, b/n; durata: 124’.Copia 16mm da Cineteca Nazionale.

Trasmesso sul Nazionale in due punta-

te, il 6 e 8 maggio 1966, e uscito poi alcinema nel 1972.

«In modo reciso (e rischioso, molto ri -schioso) il film ha messo in piedi unafigura di Francesco “uomo”. Lasciamostare il fatto degli accenni alla vita dis-sipata della giovinezza che è uno deipunti fondamentali – stavamo per direuno dei luoghi comuni più facili e piùad effetto – illustrati e sottolineati daqualsiasi libretto biografico su SanFrancesco. Vogliamo invece alludere aquella che ci è sembrata la sostanza delracconto (almeno di questa prima par -te): Francesco si allontana dalla casa,dall’esistenza borghese della famiglia,dalle ricchezze, dagli agi non perché adun certo momento sia stato folgoratoda una rivelazione celeste o abbia datoascolto a voci soprannaturali ma per-ché, appena fuori della soglia, si vedecircondato dalla miseria, dalla brutalità,dall’ingiustizia, dalle malattie: un mondodi reietti che la società ignora, respinge,quando addirittura non perseguita,come gli eretici e i lebbrosi. Il contattodiretto con una spaventosa realtà è l’i-nizio, in Francesco, di un graduale mu -tamento, di una presa di coscienza,d’una rivolta che lo porterà a credere inuna sola legge, la legge dell’amore edella fratellanza. Prima ab biamo parla-to di rischio: in effetti ci sarà stata dellaperplessità nel settore meno preparatodel pubblico: un santo presentato nel-le vesti di un ragazzo inquieto, estre -mamente ancorato alla terra, privo di esteriori crisi mistiche... Qualcuno saràrimasto deluso. Ma non chi ha coltolo spirito anticonformista del racconto,condotto dalla valente regista Cavani con

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Inoltre essa giudicava il film “una falsi-ficazione della personalità e della vitadi Camilo”. Il regista italiano ha così re -plicato alla lettera della madre di Cami -lo Torres: “Il mio film non vuole essereuna biografia di Torres, ma rispecchia-re le riflessioni di un europeo sui si -gnificati dell’esistenza e dell’opera diCamilo. Nel film il cognome di Torresnon viene mai pronunciato. Era previ-sto che l’unica a pronunciarlo fosse lamadre di Camilo, raccontando in varimomenti del film episodi veri della vitadi suo figlio: in modo da stabilire cosìun confronto tra la realtà e la finzionecinematografica. La signora Torres halet to il soggetto, e subito si è opposta.Come ogni madre, ha un’immagine mol -to individuale del figlio: per lei CamiloTorres è una specie di Gesù Cristo. Se -condo lei, per esempio, Torres non hamai imbracciato il mitra: mentre è notoche nel periodo della guerriglia, Camiloha combattuto e ucciso come tutti isuoi compagni. Ab biamo offerto alla si -gnora Torres la possibilità di esprimereil suo dissenso addirittura all’inizio diImmortalità: il film poteva cominciareproprio con lei che lo criticava e ne in -dicava difetti e falsificazioni. Ha rifiuta-to la proposta”».

IO E DIO

Regia, sceneggiatura: Pasquale Squi -tieri; fotografia: Eugenio Bentivoglio;montaggio: Manlio Vianelli; musica:Manuel De Sica; interpreti: José Torres(voce Ferruccio Amendola), SalvatoreBilla, Sandra Palladino, Salva tore Pun -tillo, Anna Orso, Bernard Faber, Nicole

dono, quello della vicinanza con unoche aveva il contatto con Dio».

Liliana Cavani in G.L., La Cavani ed ilpoverello, «Stampa Sera», 6 agosto 1988

IMMORTALITÀ(PER CAMILO TORRES PRETE GUER-RIGLIERO)Regia, sceneggiatura: Paolo Breccia; fo -tografia: Luigi Verga; musica: a cura delmaestro Fischietti; interpreti: FelipeEscobar, Maria Victoria Uribe, NatanaelDiaz, Jesus Loto, Magola Cogollos; pro-duzione: Leonardo Palmieri; origine:Italia/Francia, 1969; formato: 35mm, col;durata: 57’.Copia BetaSP (da 35mm) da CinetecaNazionale.

Dal press-book: «Paolo Breccia [...] harealizzato questo suo primo film ispi-randosi alla vita e alle idee del sacerdo -te-guerrigliero Camilo Torres. Ambien -tato interamente in Colombia doveBreccia si è fermato molto tempo con isuoi collaboratori, il film ha suscitato –ancor prima di essere presentato alpubblico – molte polemiche. In parti-colare la madre di Camilo Torres hapreso posizione contro il film del gio-vane regista italiano. In una letterainviata ad un settimanale milanese, lasignora Isabel Restrepo de Torres soste-neva che il soggetto del film utilizzavala vita e le idee di suo figlio “in unamaniera che offende il rispetto chemerita il suo nome e l’affetto che ipopoli dell’America Latina, il popolocolombiano e la gioventù di tutto ilmondo hanno per la sua memoria”.

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re centrale, al potere opprimente di unVaticano eccessivamente ortodosso».

Pasquale Squitieri a Paolo Toccafondi e Tommaso Santi, nel DVD Cecchi Gori, 2008

POVERO CRISTORegia, sceneggiatura: Pier Carpi; foto-grafia: Guglielmo Mancori; montaggio:Daniele Alabiso; scenografia: MarioGiorsi; musica: Mario Migliardi; inter-preti: Mino Reitano, Rosemarie Dexter,Raoul Grassilli, Curd Jürgens, EvelynStewart, Edmund Purdom, Franco Res -sel, Paolo Gozlino, Roberto Brivio, Cor -rado Brusatori, Giancarlo Badessi, SoniaViviani; produzione: Nordfilm; origine:Italia, 1975; formato: 35mm, col; dura-ta: 95’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«La trama è importante, d’accordo, ma ècome viene realizzata cinematografica-mente che è determinante. Le sceno-grafie, gli ambienti, i costumi: tutte coseinventate, per dare l’idea di una socie-tà senza tempo, una società alternativa,nella quale credo. Gli esseri del miomondo hanno rinunciato al superfluo:dai frigoriferi alle amanti, dalle pellicceai televisori, dal calcio a tutte le formedi evasione che servono al potere percrearci false necessità che ci rendonosubdolamente schiavi. E ritrovano lalibertà, quella autentica, nella povertàcome scelta, non come imposizione. [...]Naturalmente, il potere è in lotta controquesta “rivoluzione spirituale”. E in que -sto mondo senza tempo agisce il prota-gonista del mio film, il giovane Giorgio

Le Bourg, Gloria Selva, Paola Natale;produzione: Vittorio De Sica per PAC/Vulgo; origine: Italia, 1970; formato:35mm, b/n; durata: 81’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Un giorno in redazione mi arriva unatelefonata di Manuel De Sica [...]: “Miopadre ha letto questo tuo copione chegli ha dato Zavattini e vuole vederti”.[...] Mi fiondo all’Aventino e mi apre laporta lui, Vittorio De Sica. [...] Mi dice:“È un bellissimo copione, però ti dicoche questo film non te lo farà fare nes-sun produttore. Io voglio provarci. Cela fai a iniziare questo film con 2 milio-ni?” [...] Finito il primo montaggio delfilm, si offrì lui di farmi il direttore didoppiaggio. [...] In quegli anni la Chiesaera un po’ al centro del dibattito mon-diale. [...] Ricordo bene che Pasolini,che era un po’ al centro di questo gran-de dibattito, continuava a ripeterci chela rivoluzione così come il partito co -munista ce l’aveva fatta intendere perdecenni avrebbero potuto farla in Italiasoltanto i cattolici. Avevamo degli esem -pi di preti sudamericani come CamiloTorres, che addirittura avevano preso ilfucile, come si diceva allora. “Mai piùsenza fucile”. Avevamo degli esempidella Chiesa di liberazione in alcunistati sempre del Sud America, che poiho visitato molto più tardi. E quindinacque l’idea di questo film, di questi“cani della Chiesa”, come venivano chia -mati questi preti del Sud, che continua-vano a predicare un Vangelo inattuabi-le praticamente, perché il senso dellagiustizia era stato oramai travalicato intutte le direzioni. E quindi questi canidella Chiesa che si ribellavano al pote-

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certamente uno dei più affascinanti esollecitanti per chi si occupi di immagi-ni. E infatti, come accade appunto inquesti casi, Il mistero della Sindone misi rivelò inferiore alle attese, così dacostringermi poi, oggettivamente, a“sopravvalutarlo” nella segnalazione [suIl Patalogo tre, 1981], per ribadirecomunque l’esistenza e il fascino di unaquestione (e di un mistero) sindone-cinema. Tanto è vero che del film in sénon mi restano quasi più ricordi e perricostruirne trama e cast devo andarea controllare sulle Segnalazioni delCentro Cattolico Cinematografico, stru-mento d’altronde mai così attendibile, oper lo meno omologo al film, come inquesto caso. Queste ne riassumono ilsoggetto raccontando semplicemente lavicenda storica del sudario di Cristoconservato a Torino, da quando fu, se -condo la tradizione, recuperato daldiscepolo Nicodemo fino all’ultima“ostensione” pubblica. “Gli autori – com -menta il CCC – si sono valsi di ricostru-zioni sceniche o di pezzi di repertorio,contrassegnate da evidente religiosità.Nella seconda parte, facendosi docu-mentario, il lungometraggio si soffermasugli impressionanti fenomeni di devo-zione popolare avveratisi in occasionedell’ostensione pubblica del 1978” [...]».

Alberto Farassino, Sindonologia del cinema, «La Cosa Vista», n. 2, 1985

CERCASI GESÙRegia: Luigi Comencini; soggetto: L. Co -mencini, Massimo Patrizi; sceneggiatu-ra: L. Comencini, M. Patrizi, AntonioRicci; fotografia: Renato Tafuri; mon-

Cavero, che non riesce a inserirsi nelmondo del lavoro. Licenziato, decide,per follia, di fare l’investigatore privato,scontrandosi con la polizia, che vuoleimpedirglielo. Quando sta per rinuncia-re, gli si presenta un misterioso clien-te che gli offre cento milioni e gli dàdue mesi di tempo per trovargli, comedetective, la prova autentica dell’esi-stenza di Cristo. Il film è la storia diquesta indagine, serrata a ritmo di gial-lo fantastico, che ho definito “giallo-religioso”, tra lotte, contrasti, delusionie rivelazioni, tutta colpi di scena. [...] Inquanto al finale, debbo tenerlo segreto,perché si tratta pur sempre di un “gial-lo”. Posso soltanto dire che il mio gio-vane detective alla fine troverà la provadell’esistenza di Cristo».

Pier Carpi a Elisabetta Orlando, nel press-book del film

IL MISTERO DELLA SINDONERegia, sceneggiatura, fotografia, mon-taggio: Salvatore Cerra; musica: Corio -lano Gori; interpreti: Miki Malla, RenatoLiprandi, Roberto Maestri, Patrizia Steni,Paolo Romano, Enzo Zamuner; produ-zione: Cerra; origine: Italia, 1979; for-mato: 35mm, col; durata: 80’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Come accade a volte nella pratica del-l’andare al cinema e del giudicarlo, ave -vo già deciso che il film sarebbe statonotevole prima ancora di averlo visto,promuovendo a privilegio la “rarità” diquella visione. Ma soprattutto esercitan-do un atto di fede cieca nelle virtùmiracolistiche del suo soggetto, che è

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l’arco del racconto, per la recitazionemai prevaricante di un giovane e tal-volta geniale attor comico di nomeBeppe Grillo. Cercasi Gesù, nel pano-rama del cinema italiano popolato di“pierini” e di “fichissimi”, è un fattoanomalo, un film decisamente contro-corrente che rinverdisce il genere dei“Fioretti” con le storie di un bizzarropersonaggio che potrebbe essere uscitodalla penna di Chesterton o del BruceMarshall dei tempi felici. È il ritratto diun anti-eroe, di un “buono” che cerca difar prevalere le ragioni del cuore con-tro la logica dell’egoismo e dell’indiffe-renza. È una parabola dal sapore evan-gelico che ha al suo centro un uomocapace ancora di stupirsi, un innocenteimmune dal cinismo della cosiddettagente di mondo che, come direbbeG.K.C., non capisce nulla del mondo».

Pietro Pisarra, «Rivista del Cinematografo», aprile 1982

JOAN LUI – MA UN GIORNO NEL PAESEARRIVO IO DI LUNEDÌ

Regia, sceneggiatura, montaggio: Adria -no Celentano; fotografia: Alfio Contini;scenografia: Lorenzo Baraldi; musica:Pinuccio Pirazzoli, Ronald Jackson, A.Celentano, Gino Santercole; interpreti:A. Celentano, Claudia Mori, FedericaMoro, Marthe Keller, Edwin Marian,Gianfabio Bosco, Mirko Setaro, Haru -hiko Yamanouchi, Piero Nuti, André dela Roche, Rita Rusic, Sal Borgese; pro-duzione: Mario e Vittorio Cecchi Goriper CG Silver/Extrafilm ProduktionGmbH; origine: Italia/RFT, 1985; for-mato: 35mm, col; durata: 146’.

taggio: Antonio Siciliano; scenografia:Ranieri Cochetti; musica: Fiorenzo Car -pi; interpreti: Beppe Grillo, MariaSchneider, Fernando Rey, AlexandraStewart, Ornella Pompei, GiuseppeCederna, Nestor, Memè Perlini, DanieleMansi; produzione: Achille Manzottiper Intercontinental Film Company/Sociéte Nouvelle Cinévog; origine: Ita -lia/Francia, 1982; formato: 35mm, col;durata: 109’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«La vocazione di Comencini è quella,un po’ “demodé”, del “moralista” cheosserva il costume della società e il flui-re della vita e ne descrive le miserie ogli slanci di generosità, sempre conun’aria svagata e pur senza sciatteria,con una sorta di distratta ma soffertapartecipazione. A lui, più che a ognialtro, si potrebbe applicare il precettodi Hitchcock: “il cinema non è una fettadi vita, ma una fetta di torta”. Le suestorie hanno il sapore delle torte fattein casa, alla buona, con pochi ingre-dienti, in cui l’antico neo-realismo d’im-pronta zavattiniana e desichiana vienediluito nell’intimismo, quando non sitrasforma rapidamente in garbato boz-zetto. Per questo, quasi mai, a proposi-to delle sue opere, si parla di “capola-voro” e quasi sempre di “dignitoso pro-dotto”, abbondando in vezzeggiatividalle forme più strane. Per CercasiGesù, ultimogenito del regista di Pane,amore e... fantasia, le reazioni nonsono state diverse, anche se alcuni nonhanno saputo nascondere lo stuporeper la freschezza e il lindore dellamessa in scena, per l’ironia e i para-dossi disseminati con sapienza lungo

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frameOFF è un gruppo aperto per laricerca nel cinema e nella fotografia, uncrocevia di esperimenti soggettivi e col-lettivi che si incrociano e si intrecciano.Attraverso l’incontro tra differenti lin-guaggi di espressione visuale e la ricer-ca “sul campo”, racconta la comunitàgirovaga dei “Caminanti”, residenti aNoto (Sicilia) da oltre 60 anni e porta-tori di “estraneità” antropologiche, cul-turali, figurative, simboliche.

[FANTASMI] LA MEDIUM

Regia: Roberto Palma; soggetto: SimoneStarace; sceneggiatura: S. Starace, R.Pal ma; fotografia: Emanuele Zarlenga;montaggio: Andrea Gagliardi; sceno-grafia: Marco Rea; musica: Federico DiMassimo; interpreti: Anna Maria TeresaRicci, Claudia Fratarcangeli, Daniel Ter -ranegra, Franco Bertelli, Anna MariaPietracatella; produzione: Gabriele Al -banesi; origine: Italia, 2011; formato:4k, col; durata: 14’.Copia DVD (da 4k) da produzione.

Fantasmi – Italian Ghost Stories è unhorror composto da cinque episodi,tut ti affidati a giovani esordienti esupervisionati da Gabriele Albanesi. Iltema comune è quello tradizionale del -la ghost story, declinato però in chiavemoderna e post-moderna, secondo lesensibilità dei diversi autori. Gli altriepisodi sono: 17 novembre (TommasoAgnese), Offline (Andrea Gagliardi), Fia - ba di un mostro (Stefano Prolli), Urla incollina (Omar Protani & Marco Farina).

C’erano due modelli, diversissimi fra lo -ro, che avevo in mente per La medium.

CONVERGENZE PARALLELEStati generali del cinema italiano, II.

ALPINIRegia, fotografia: Jean-François Neplaz;sceneggiatura: J.-F. Neplaz, Elisa Zurlo;montaggio: Caroline Beuret; interventi:Mario Rigoni Stern, Lina Tommasella,Luca Magonara, Maurizio Magonara, Er -manno Olmi, Claudio Cristofolini, Ma -rio Brenta, Walter Ronzani, ClaudioCristofolini; produzione: Shellac Sud/Film flamme/Route one; origine: Italia/Francia, 2010; formato: Super16 mm/DVCam, col; durata: 60’.Copia BetaSP da autore.

La storia tormentata del XX secolo del -l’Italia del Nord è la “visione” che mag-giormente nutre l’opera dello scrittoreMario Rigoni Stern. In questa ultimatestimonianza (è deceduto nel giugnodel 2008), accompagna il nostro cam-mino attraverso l’immaginario dei “mon -tanari” di Asiago. La posizione dell’uo-mo nel cuore della natura così comenel cuore della guerra, si mescola allavoce dello scrittore. Qui il territorio èuna frontiera, il fascismo è un passato-presente, la guerra è scritta sotto unapace di neve. E l’uomo è là.

CAMINANTERegia, riprese, ricerca, montaggio:frameOFF; origine: Italia, 2011; forma-to: HDV/HD, col; durata: 18’.Estratti di montaggio dal progetto.fermo.mosso.caminante,Copia DVD (da riprese HDV/HD) daNomadica.

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«L’ho già dichiarato da tempo: primaancora di iniziare le riprese sapevo chequesto sarebbe stato il mio ultimo filmnarrativo di messa in scena. Continueròa fare documentari come quando hocominciato, più di cinquant’anni fa. [...]Ma cosa significa sapere che stai facendouna cosa per l’ultima volta? Innanzituttola consapevolezza che l’ultimo atto rias-sume il senso di tutta la tua esistenza. Ein questo caso, la domanda fondamen-tale che mi sono posto è stata: cosa rac-conto? Di cosa parlo? Soprattutto, di CHIparlo? Ogni storia deve avere un prota-gonista che diventi il nostro modelloideale: uomo o donna, nelle passioni a -morose come nei grovigli dell’odio, nelbene o nel male. Nel dramma o nellacommedia: non fa differenza. Dunque,CHI raccontare? CHI ho conosciuto nel -la folla dei Grandi della Storia che han -no segnato la mia vita? CHI ricordarefra tanti come esempio assoluto di uma -nità cui poterci riferire nei momenti buiper trovare sostegno e speranza? È scon -tato dire “il Cristo”? Sì: il Cristo Uomo,uno come noi, che possiamo ancoraincontrare in un qualsiasi giorno dellanostra esistenza: in qualsiasi tempo eluogo. Il Cristo delle strade, non l’idolodegli altari e degli incensi. E neppurequello dei libri, quando libri e altaridiventano comoda formalità, ipocritaconvenienza o addirittura pretesto disopraffazione. Parole dure, esagerate?Eppure giungono da ogni parte grida diguerra e di dolore quasi fossero un tri-buto da pagare a un Dio assurdo di di -struzione, che semina odio fra gli uomi-ni. Dov’è il Dio di pace?»

Ermanno Olmi, nel press-book del film

Copia 35mm da Cineteca Nazionale del -la prima versione distribuita.

Chi farebbe un film simile oggi? Unmusical sperimentale, mostruosamentecostoso, follemente inventivo, sulla Se -conda Venuta di un Cristo che arriva inun mondo di violenza, corruzione eipocrisia (un mondo che somiglia sor-prendentemente all’Italia di oggi), i cuiapostoli sono estremisti di ogni gene-re, e che canta e balla insieme al Malein persona pur di salvare l’umanità dalde stino che in fondo meriterebbe, ep-pu re... Soltanto durante il decennio ca-lante dell’enlightainment ci si potevaper mettere qualcosa del genere, e soloa patto di essere l’ultima vera star eu-ropea, un assioma pop, un one-man-industry/genre. All’epoca Joan Lui sirivelò un fiasco commerciale di propor-zioni uniche, e non parliamo poi deicritici da sempre troppo asettici per ilgenio flamboyant di Adriano Celentano:auteur hors-les-norms; oggi si guarda ilfilm e per tutto il tempo si rimpiange lagrandezza e il piacere che furono. (Om)

CENTOCHIODIRegia, sceneggiatura: Ermanno Olmi;fotografia: Fabio Olmi; montaggio: Pa -olo Cottignola; scenografia: GiuseppePirrotta; musica: Fabio Vacchi; interpre-ti: Raz Degan (voce Adriano Gianni-ni), Luna Bendandi, Amina Syed (voceClaudia Catani), Michele Zattara (voceOmero Antonutti); produzione: LuigiMusini, Roberto Cicutto per Cinema11 -undici/Rai Cinema; origine: Italia, 2007;formato: 35mm, col; durata: 93’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

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Vent’anni dopoCottafavi nel nome diDumas padre e figlio

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Il primo, credo abbastanza evidente, èl’episodio intitolato La goccia d’acquane I tre volti della paura di Bava.Ricordo che nella prima stesura del trat-tamento, in un eccesso di zelo filologi-co, avevo persino incluso una nota incui spiegavo esplicitamente che il fina-le andava inteso come omaggio a Bava,ma per fortuna Roberto Palma ha avutoil buon gusto di sorvolare e girare lascena senza ingombranti note a piè dipagina. Il secondo rimando, più sottile,voleva invece essere al cinema diCottafavi e, nello specifico, a Il boia diLilla. Quel che mi ha sempre entusia-smato in quel film è infatti l’idea che laprotagonista, con le sue ciniche men-zogne, non faccia che mettere in scenadei micro-racconti costruiti ricalcandotutti i cliché pseudo-dumasiani dell’e-poca (la povera orfanella, l’innamora-ta sfortunata, l’avventuriera libertina),ed è un meccanismo analogo a quelloche (rapportato al filone “soprannatura-le”, e con risultati casomai modesti) hocercato di riproporre nella mia sceneg-giatura. Un cinema di genere che siaanche coscienza critica del genere stes-so. (Simone Starace)

I TRE VOLTI DELLA PAURA

Regia: Mario Bava; soggetto: raccontiapocrifi di Čechov, Tolstoj, Maupassant;sceneggiatura: Marcello Fondato, Al -berto Bevilacqua, M. Bava; fotografia:Ubaldo Terzano; montaggio: Mario Se -randrei; scenografia: Giorgio Giovanni -ni, Riccardo Dominici; musica: RobertoNicolosi; interpreti: Boris Karloff (voceAldo Silvani), Michèle Mercier (voce Lu -

cia Catullo), Lydia Alfonsi, Mark Damon,Susy Andersen (voce Gabriella Genta),Glauco Onorato, Jacqueline Pierreux(voce Adriana De Roberto), Milly Monti(voce Lia Curci), Harriet Medin; produ-zione: Emmepi/Lyre/Galatea; origine:Italia/Francia, 1963; formato: 35mm, col;durata: 92’.Copia 35mm da Cineteca Griffith.

«L’antico operatore Mario Bava, da qual -che anno passato alla regia, ha volutointrodurre nel nostro cinema le storieorrorifiche sadiche misteriche di cui èricca la tradizione anglosassone. Il risul-tato è apparso soprattutto apprezzabilene I tre volti della paura, un film chel’eleganza descrittiva, la morbidezza deicolori, la fluidità del ritmo narrativorendono degnissimo di competere conle pellicole dei riconosciuti maestri in -ternazionali del brivido, da Hitchcockin giù (o in su). Com’è ovvio siamo nelcampo del divertimento puro. Ma l’o-pera di Bava presenta un interesse chesupera il momento tecnico formale. Ildivertimento offerto da I tre volti dellapaura è infatti puro da qualsiasi scoriasentimentale o moralistica: morboso ecinico sin che si vuole, ha il merito dibuttare all’aria il castello di buoni sen -timenti lasciatici in retaggio dal filan -tropismo edificante ottocentesco. E ciòsignifica contribuire ad una fra le prin-cipali battaglie che il nostro cinema de -ve ancor oggi sostenere».

Vittorio Spinazzola, Cinema italiano 1963, in V. Spinazzola (a cura di), Film 1964, Feltrinelli, Milano, 1964

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Leo Benvenuti, Giuseppe Mangione, F.Cerchio; fotografia: Arturo Gallea; mu -sica: Ezio Carabella; interpreti: RossanoBrazzi, Milly Vitale, Simone Renant,Antoine Balpêtre, Vittorio Sanipoli,Gabrielle Dorziat, Nerio Bernardi, NicoPepe, Raymond Cordy; produzione:Giorgio Venturini per ProduzioneVenturini; origine: Italia, 1952; formato:35mm, b/n; durata: 85’.

IL CAVALIERE DI MAISON ROUGERegia: Vittorio Cottafavi; soggetto: dalromanzo e dal dramma di AlexandreDumas père; sceneggiatura: AlessandroFerraù, Giuseppe Mangione; fotografia:Arturo Gallea; montaggio: Loris Bellero;scenografia: Giancarlo Bartolini Salim -beni; musica: Ezio Carabella; interpreti:Armando Francioli (voce Paolo Ferrari),Yvette Lebon (voce Adriana De Rober -to), Luigi Tosi (voce Otello Toso), RenéeSaint Cyr (voce Gianna Piaz), AlfredAdam, Olga Solbelli, Vittorio Sanipoli,Franca Marzi; produzione: Giorgio Ven -turini per Produzione Venturini; origi-ne: Italia, 1953; formato: 35mm, b/n;durata: 96’.Copia 16mm (da 35mm) da CinetecaGriffith.

«Il cavaliere di Maison Rouge è uno deipeggiori romanzi di Dumas padre, mapiaceva molto ai coproduttori francesi,che me lo imposero... In ogni caso mipiaceva molto uno dei personaggi, ilgenerale Santerre, che si arrabbiava dicontinuo e gettava a terra la parrucca, eche finisce per provare simpatia per ilsuo nemico, il cavaliere di Maison Rouge.

prepara la sua uscita dal convento,lavorando sia sul corpo (si fustiga dasola, per convincere il militare dei mal-trattamenti subiti) che sui suoni (fuggedi nascosto, ma stando bene attenta chein convento se ne accorgano, così avràuna scusa per non tornare); quando re-inventa, a uso di De La Fère, la storiad’una nobildonna ormai decaduta (unaltro classico del melò...); o ancora quan -do, quasi come in un radiodramma,inganna il prigioniero inglese per intro-dursi in territorio nemico (recitando adalta voce, con tanto di copione e “spal-la”, nella tenda accanto). Diversamentedalla Susana buñueliana, Milady nonricorre tanto al suo sex-appeal quantopiuttosto alle sue capacità di affabu -latrice [...], attingendo gioiosamente alpatrimonio del melodramma e delromanzo in costume. Esattamente ciòche, si suppone, dovrebbe fare un re -gista di cappa e spada “serio” alle presecon Dumas e che, a sorpresa, il “me -stierante” Cottafavi si rifiuta di fare: ilsuo spettatore, vedendosi raddoppiatosullo schermo nella forma dell’ingenuopuntualmente turlupinato, non può fa rea meno di prendere coscienza, critica-mente o magari anche soltanto ironica-mente, della funzione cui, con malcelatocinismo, il cinema culinario normalmen -te assolve» (Simone Starace, 2007).

FUORI CAMPOSet parallelo

IL FIGLIO DI LAGARDÈRERegia: Fernando Cerchio; soggetto: dalromanzo di Paul Feval; sceneggiatura:

Venturini/Atlantis; origine: Italia/Francia,1952; formato: 35mm, b/n; durata: 85’.Copia 35mm da Cineteca Lucana.

Girato nell’estate del 1952, utilizzandogli stessi set del film gemello Il figlio diLagardère, sempre prodotto da GiorgioVenturini alla FERT di Torino.

«I film di Cottafavi, l’abbiamo visto giàcon I nostri sogni (la serata al night,quasi una parodia di quella in Angel diLubitsch) e persino con Una donna haucciso [...], presentano spesso un altogrado di consapevolezza metalinguisti-ca. Ebbene, è proprio in questa chiavedi lettura che Il boia di Lilla diventaun’opera notevolissima (nonché un al -tro passo verso la modernità): il film ètutto costruito giocando sugli effettistra nianti ottenuti raddoppiando sulloschermo le funzioni comunicative di“autore” e “spettatore”. Già l’avvio delflash-back (persino questo, volendo, unracconto nel racconto) è incentrato, iro-nicamente, su una voce fuori campo(che scopriremo poi diegetica) che rias-sume brevemente quello che potrebbebenissimo essere lo svolgimento di unqualsiasi melò in costume, mentre visi-vamente abbiamo il contrappunto diAnna che, straccio alla mano, ironizzasulle sacre rappresentazioni davanti aisuoi occhi. Ma non è che una premes-sa, una prima strizzata d’occhio, perchéil meglio verrà dopo, quando, per rag-giungere i propri cinici scopi, la prota-gonista vestirà di volta in volta pannidiversi e, assumendo/raddoppiando ilruolo normalmente riservato all’autore,darà vita a delle vere e proprie messin-scene: la si guardi ad esempio quando

«Ognuno di noi registi ha dei brutti filmda salvare. Ora sotto quale luce possia-mo dire è “da salvare”? Se individuiamoil segno, allora va letto non solo perquello che narra. Un Dumas padre vie -ne lasciato in seconda categoria, per-ché? C’è in Dumas il segno del grandescrittore? E allora deve restare in biblio-teca accanto a Proust. Perché Balzac sìe Dumas no? Quando ad esempio ne Ilvisconte di Bragelonne ha una impo-stazione di critica sociale molto moder-na fondata su una visione ironica delre, della corte, del comportamento deigran di, un’ironia amara e un po’ mali-gna che si precisa nell’uso di certi ag -gettivi nel descrivere uomini ed eventicon dichiarata ambiguità; insomma conun “segno” tipicamente suo».

Vittorio Cottafavi in Edoardo Bruno, Fabio Ferzetti (a cura di), Conversazione

con Vittorio Cottafavi, «Filmcritica», n. 322, febbraio-marzo 1982.

IL BOIA DI LILLA(LA VITA AVVENTUROSA DI MILADY)Regia: Vittorio Cottafavi; soggetto: libe-ramente ispirato ai capitoli 65 e 66 delromanzo Les trois mousquetaires diAlexandre Dumas père; sceneggiatura:Siro Angeli, Riccardo Averini, GiorgioCapitani, Vittoriano Petrilli; fotografia:Vincenzo Seratrice; montaggio: RenzoLucidi; scenografia: Giancarlo BartoliniSalimbeni; musica: Renzo Rossellini;interpreti: Yvette Lebon (voce GiannaPiaz), Rossano Brazzi, Armando Fran -cioli (voce Paolo Ferrari), Maria GraziaFrancia, Jean-Roger Caussimon, Massi -mo Serato, Raymond Cordy; produzio-ne: Giorgio Venturini per Produzione

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queste costrizioni. Nelle sceneggiature,le peripezie erano banali, ma ciò checontenevano di straordinario, ciò chevolevo liberare era la partecipazioneumana alla sofferenza. Tentavo di farlosoprattutto con i personaggi di donne:l’anima di una donna mi interessa dipiù, è più sensibile, più capace dipenetrare il dolore, e in ogni caso piùcapace di arrivare nel dolore all’esaspe-razione totale. È per questo che abbia-mo deciso di trasformare Traviata 53,che era tratto dalla Signora delle came-lie, di trasportarlo nell’Italia industrialedi oggi. Il problema del denaro vidiventava più importante, c’erano gros-si interessi alle spalle [...]. Questo ren-deva più credibile il soggetto e mi per-metteva di scavare di più nell’interiori-tà di una donna. Una donna che, inca-pace di imporsi altrimenti che con lasua bellezza, subisce la violenza dellasocietà che la circonda, degli uominiche vogliono utilizzarla come uno stru-mento di potere».

Vittorio Cottafavi, in Bertrand Tavernier (a cura di), Entretien avec Vittorio

Cottafavi, «Positif», n. 100-101, dicembre 1968-gennaio 1969

«Il film è del genere di quelli che cattu-rano l’interesse degli spettatori, ma dicui i critici, se pur li vedono, dannoconto con la morte nel cuore. Fille d’a-mour [titolo francese], tuttavia, è l’ecce-zione che conferma la regola, visto chesi tratta, in fin dei conti, di uno deimigliori film italiani apparsi quest’annosugli schermi parigini. Gli autori, che glihanno dato come sottotitolo Traviata53, non si preoccupano minimamentedi nascondere il fatto che il loro film

costituisce un plagio di uno dei massimiesempi della nostra letteratura romanti-ca. Ma questa storia, ai nostri giornipriva di senso, inverosimile e melo-drammatica, Vittorio Cottafavi ha saputorenderla sensata, verosimile e realmen-te drammatica. Messa al servizio di unaaffabulazione di maggiori pretese, lamessa in scena del film, ricercata e unpo’ scolastica, richiederebbe qualche ri -lievo, ma in un contesto così melo-drammatico la cura, l’applicazione, laricerca di buon gusto costituisconoinvece testimonianza di un’ambizionepiù che lodevole. Se il cinema italianodi qualità è infatti caratterizzato dall’ori-ginalità dei soggetti guastati dallamediocrità della tecnica, si capirà alloracome questo film, che è l’esatto contra-rio, risulti mille volte più interessanteda vedere che quelli di De Santis,Lattuada, Germi, Visconti e di tanti regi-sti esageratamente lodati dagli intendi-tori. Imbroglio teorico se mai ce ne fu,La Dame aux camélias, sorta di Fedradei poveri, trova qui, nei suoi minimidettagli, una verità, un’umanità nuova,grazie alla continua invenzione nellarecitazione degli attori, nei loro atteg-giamenti, i loro gesti, i loro sguardi. Lascelta degli esterni, degli interni dalvero, delle scenografie si confermainfatti come il contrassegno del buongusto degli attori. Barbara Laage trovaqui la sua migliore parte, liberandosidalle eccessive riserve delle sue prece-denti interpretazioni. Un’ombra sulloschermo: la musica, che pur essendo diqualità, resta tuttavia invadente e ina-deguata. Perfetta invece la fotografia.La produzione italiana, come quellaamericana, si appresta dunque in futu-

I personaggi erano semplici e simpatici,la storia molto dinamica, costruita suitempi forti, al contrario di Traviata 53,dove tutto si basava sulla preparazio-ne degli stati di violenza, sui tempideboli».

Vittorio Cottafavi in José Luis Guarner (acura di), Entrevista con Vittorio Cottafavi,

«Film Ideal», n. 183, 1 gennaio 1966

«Il film, della durata standard di 90 mi -nuti circa, [...] utilizza tutti i procedi-menti abituali degli adattamenti dicappa e spada:1. l’accuratezza nella ricostruzione sto-rica: Cottafavi ha girato negli studi tori-nesi della FERT utilizzando scenografiee costumi molto studiati, tanto che ilfilm non appare poi troppo poverorispetto alle produzioni americane delperiodo. Non ha però avuto a disposi-zione, per ragioni economiche, uno deimezzi più preziosi di questi ultimi, ilcolore.2. la semplificazione della storia origi-nale, in particolare del complotto, gra-zie anche alla riduzione del numero deipersonaggi. Così Lorin, l’amico devotodi Maurice Lindey che muore ghigliotti-nato con lui, figura chiave nel romanzodi Dumas, sparisce, mentre il suo nomediventa uno pseudonimo per... MaisonRouge! Il male è personificato nellafigura del calzolaio Simon, custode delDelfino. Maria Antonietta, invisibile perragioni politiche nell’adattamento tea-trale di Dumas, è invece qui il fulcrodell’intera sceneggiatura.3. il ritmo sostenuto e l’abbondanza discene d’azione, annunciate fin dalla lo -candina. [...]4. il lieto fine: certo, Maison Rouge

muore, ma come nella versione teatra-le e al contrario del romanzo, i dueamanti Margot e Maurice sfuggono allaghigliottina e, con grande gioia deglispettatori, prendono il volo».

Denis Saillard, Le Chevalier de MaisonRouge à l’écran: deux adaptationsparadoxales (Vittorio Cottafavi et

Claude Barma), in Jacques Migozzi (a cura di), De l’écrit à l’écran,

Université de Limoges, Pulim, 2000

TRAVIATA 53Regia: Vittorio Cottafavi; soggetto: TullioPinelli, Federico Zardi, liberamente ispi -rato al romanzo La Dame aux caméliasdi Alexandre Dumas fils; sceneggiatura:T. Pinelli, Siro Angeli; fotografia: ArturoGallea; montaggio: Loris Bellero; sceno-grafia: Giancarlo Bartolini Salimbeni;musica: Giovanni Fusco; interpreti: Bar -bara Laage (voce Rina Morelli), ArmandoFrancioli (voce Giuseppe Rinaldi), Ga -brielle Dorziat (voce Giovanna Scotto),Eduardo De Filippo (voce Giulio Panica -li), Marcello Giorda, Carlo Hintermann;produzione: Giorgio Venturini perFilms Venturini/Synimex; origine: Italia/Francia, 1953; formato: 35mm, b/n; du -rata: 95’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale, perconcessione Ripley’s Film.

«Volevo, a partire da uno schema accet-tato dal pubblico italiano, interiorizzarela storia; non i dati della storia, bensì lereazioni di certi personaggi davanti aidati del dramma. Le storie erano un po’idiote, oppure godevano di meccanismigarantiti dai risultati di altri film dellostesso genere. Io non lottavo contro

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«Il fatto è che La signora delle cameliedi Dumas, in questi casi, non è maistata considerata nella dimensione po -lemica e sociale, ma soltanto ed esclu-sivamente come un irresistibile cavallodi battaglia per strappare la lacrima alpubblico, come una sorta di supremoesame di bravura per una prima attriceche si rispetti, che so, un qualcosa dinon molto diverso dal finale dellaSonata a Kreutzer di Beethoven per unviolinista di cartello. Proseguendo nelclima di rispetto, diciamo che la rap-presentazione di ieri non ci è parsa sco-starsi dalla linea di cui sopra, anche sele parole di presentazione di Maria Bel -lonci potevano far pensare a un’altraimpostazione. A questo punto prendia-mo atto che un’attrice dalla molteplice,fruttuosa e acclamata attività, RossellaFalk, ha ritenuto opportuno, seguendole orme delle più illustri glorie del pas-sato, affrontare la fatica e l’impegno diuna parte classica del teatro ottocente-sco: lodiamola per tale fa tica e impe-gno. Quanto alla commedia, ci perdonidalla tomba lo stimabilissimo Dumasfiglio, ma vista così – con l’unione ma -ledetta troncata da una mor te provvi-denziale che rimette tutto nell’ordine ela “ribellione” del giovane eroe che poisi getta nelle braccia del padre, un vec-chio cretino e insopportabile – ci parevain definitiva una Love Story del secoloscorso».

Ugo Buzzolan, “Morir sì giovane!...”,«La Stampa», 25 settembre 1971

ro ad ammannirci simili sorprese? Nonci resta davvero che augurarcelo».

François Truffaut, «Arts-Spectacles», n. 461, 28 aprile 1954

LA SIGNORA DALLE CAMELIE

Regia: Vittorio Cottafavi; soggetto: dallacommedia di Alexandre Dumas fils;sceneggiatura: Massimo Franciosa; foto-grafia: Vincenzo Seratrice; scenografia:Giorgio Aragno; musica: Rino De Fi -lippi; interpreti: Rossella Falk, MassimoFoschi, Antonio Pierfederici, ClaudioGo ra, Arturo Dominici, Dino Peretti, El -sa Albani; produzione: RAI; origine:Italia, 1971; formato: video, b/n; dura-ta: 103’.Copia BetaSP da Fuori orario.

«Feci una versione della Signora dellecamelie attualizzata al 1953 per il ci -nema (Traviata 53) ed era chiaro chedovevo farla ricollocandola nel giustoperiodo storico. In questa occasione po -tei contare su un’attrice eccellente perquesto ruolo, Rossella Falk, molto pro-fessionale, molto alta, che assomigliacome “tipo” a Greta Garbo. Per me ilvalore di questa opera risiede nel fattoche è il perno che ha dato una svolta alteatro: finiva il teatro romantico, finivail teatro tragico e cominciava il teatroborghese. L’importanza del teatro bor-ghese mi pare ovvia, quando viene fat -to con amore, passione e interesse».

Vittorio Cottafavi in José Luis Guarner (a cura di), Televisión, in AA.VV.,

Vittorio Cottafavi, Filmoteca National de España, Madrid, 1980

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L’avventura della collezione, I.

Film italiani mai visti dal Fondo Katholische Filmwerk Filmothek

acquisito da Daniela Bartoli alla Cineteca del Friuli

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tolineando quella ricerca dell’avventu-ra, che, come nella produzione lettera-ria nasce spesso da un sogno di viagginel tempo e nello spazio (da Verne aSalgàri), nel cinema nasce da un sognodi mondi (o corpi) mai posseduti ma dicui l’immagine si fa la traccia di unapresenza che ne compensa la perdita.Le copie, a parte la riduzione a 16mm,presentano probabili riduzioni legate ascelte censorie da circuito parrocchiale,e lacune da usura. Tuttavia conservanomediamente un buon grado di proietta-bilità e seguibilità, per cui (con la col-laborazione di Paolo Venier che ne hacurato la revisione) si è deciso per ilfestival di proiettarle da supporto ori-ginale, scelta naturalmente eccezionalein particolare per i film di cui non risul-ta al momento diversa conservazione.Ma è una scelta che andava fatta in uncontesto da festival, e che ci auguriamodi proseguire in futuro con altri sotto-gruppi della collezione. Il senso di pre-senza che dà la proiezione da pellicolaè insostituibile (e non per manie fetici-stiche) rispetto a duplicazioni video.Perché se c’è qualcosa che la pellicolareca in misura incomparabile con altreimmagini (anche se ogni immaginepostfotografica ne contiene ancora qual -che traccia che permette di non perde-re del tutto il transito di corpi reali inquesto mondo), esso è la sua naturafisica, la flagranza del reale.Dei quattro film in programma, mentreA fil di spada di Bragaglia e il fran-co-italiano Il visconte di Bragelonne diCerchio sono interessanti e basta, Il pri-gioniero del re di Rivalta e Pottier, e Laspada imbattibile di Fregonese si rive-lano tasselli fondamentali della vitale

storia del cinema italiano. Se del registaargentino si era messa già in luce dapiù parti (da Jacques Lourcelles aLorenzo Codelli) la ricchezza di valorida scoprire, questo film dumasiano,che in base a informazioni secondarieappariva un derivato di una deboleserie televisiva, si rivela un felicissimowestern noir. Ancora maggiore la sor-presa del “figlio di nessuno” che è l’al-tro film, chiosa ante litteram al rosselli-niano La prise du pouvoir par Louis XIVnonché prologo perfetto ai Cottafavidumasiani: come se il suo produttoreVenturini/Rivalta vivesse verso la regiala stessa ossessione da doppio del redel personaggio condannato a una ma -schera di ferro di cui Dumas ha rac-contato la storia qui ripresa.La raccolta contiene anche altri filmitaliani non conservati dalla CinetecaNazionale:Don Vesuvio (Il bacio del sole), 1958, diSiro Marcellini;Il cielo brucia, 1957, di Giuseppe Masi -ni, con Amedeo Nazzari, sceneggiatoda Siro Angeli;Il conte Ugolino di Riccardo Freda (filmpresente tuttavia in copia 35mm – conlacune – e 16mm nell’Archivio Storicodel Cinema Italiano, vedi scheda in ca -talogo);La ragazza di Piazza San Pietro, 1958,di Pietro Francisci;La paura fa 90, 1951, di Giorgio Simo -nelli;Perfide ma belle, 1958, di Giorgio Simo -nelli;Porta un bacione a Firenze, 1956, diCamillo Mastrocinque;Serenata a Maria, 1957, di Luigi Ca -puano;

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A COME ANATOMIA (OLTRE CHE ARCHIVIO,AVVENTURA ECC.) DELLA COLLEZIONE

La Cineteca del Friuli, che oggi gestisceanche l’istituzionale Archivio Cinema delFriuli Venezia Giulia (in cui confluisconole collezioni su pellicola e le macchinedell’ex Servizio di Cineteca Re gionale,la cui emeroteca e biblioteca conflui-scono invece nella Mediateca della Ca -sa del Cinema a Trieste, che riunisce ifestival, la Film Commission e Bona -wentura), è nata – come Cinepopola re –a seguito del terremoto che aveva di -strutto Gemona, fondata da Livio Jacobe Piera Patat. Oltre che di proiezioniambulanti e della costituzione di unabiblioteca di cinema, si è subito occu-pata della costituzione di un archivio dipellicole, con la fertile e appassionatasinergia di Angelo Raja Humouda, fon-datore della Cineteca Griffith di Genova.Mentre inizialmente le raccolte attinge -vano all’ancora ricco mercato collezio -nistico a 16mm dagli Stati Uniti, e conla nascita e lo sviluppo delle Giornatedel Cinema muto (create appunto dal-la CdF con Cinemazero di Pordenone)hanno sviluppato anche un archiviocomplementare alle scelte di quel festi-val, nel tempo vi sono confluite alcunepreziose collezioni private: dall’Italia peresempio quelle di Attilio Giovannini eAldo Predonzan; dall’estero, anche co -me prezioso documento della circola-zione internazionale del cinema italiano,alcuni fondi di film talvolta non pre-senti nelle cineteche italiane. Se dalSudafrica e dalla Germania (Hunsrück)sono pervenute consistenti raccolte dicopie 35mm, di diversa qualità e com-pletezza, comprendenti ti toli di tutto ildopoguerra ma con prevalenza degli

anni ’70, un tassello in qualche modoimprevisto è quello di una collezionedi copie 16mm, ancora di provenienzatedesca ma dal circuito parrocchialedella Katholische Filmwerk Filmothek,per la precisione dalla sua sede diRuttenburg am Neckar, in provincia diTubingen. Diciamo imprevisto perchéla cessione è avvenuta attraverso unamediazione italiana che forse volevacostituire inizialmente una collezioneprivata ma ha poi preferito cederla allaCdF. In ogni caso alla signora DanielaBartoli delle Valli del Pasubio (Vicenza)va questo merito, e d’ora in poi la rico-noscenza di molti appassionati del ci -nema italiano.Purtroppo la CdF è nata tardi per poterintercettare preziose collezioni localicome quella di Attilio Cappai di Cone -gliano Veneto, dispersasi con la suaeredità. Mentre quella di uno dei mag-giori cinefili italiani, Piero Tortolina diPadova, ha preso la direzione dellaCineteca di Bologna (dove attende tut-tora una valorizzazione, come peraltrola collezione del torinese Baldo Valle -ro). Insieme ai depositi della RegioneVeneto e ai fondi di molti autori trive-neti donati alla CdF, la raccolta Bartoliè una traccia delle disperse e vitali pas-sioni cinematografiche di questo estre-mo lembo d’Italia.Benché il fondo possa essersi costituitoanche per assenza di scelte, per inclu-sioni casuali, scorrendone i titoli si per-cepiscono interessanti linee che fannointuire una scelta: e il gruppo di filmdumasiani è tra le linee più appariscen-ti, ed è anche perciò (oltre che per l’in-crocio con Cottafavi) che si è fatta peril festival la scelta di partire da qui, sot-

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migliorata, per ché anche Renoir avevaesigenze che risultarono assai dispen-diose. E allora si rivolse a me. Io glidissi che c’era una sola soluzione: uti-lizzare le scenografie esistenti e realiz-zare un secondo film di recupero. Pro -posi di girare A fil di spa da [...]. Dopouna settimana dall’inizio delle ripreseero molto più avanti di quanto previstonel piano di lavorazione ed ero costret-to ad attendere che Renoir liberasse gliambienti. Diabolica mente, proposi difare un terzo film, ambientato al tempodelle guerre di Indipendenza. ChiamaiAge, Scarpelli e Continenza, parlai conloro del film che intendevo realizzare eil risultato fu Il segreto delle tre punte,con Massimo Girotti, Luciana Vedovelli,Umberto Spadaro. Non ci fu il tempo discrivere una vera sceneggiatura e pro-cedemmo con una scaletta. Di mattinagiravo le scene di A fil di spada neicostumi del ’700. Lo facevo dopo avertelefonato ai miei collaboratori e conloro, di volta in vol ta, discutevo i testi ei dialoghi delle sequenze da filmare.Nel pomeriggio giravo il secondo filmnei costumi dell’800».

Carlo Ludovico Bragaglia in LambertoAntonelli (a cura di), Vita con i fratelli, in L. Antonelli, Ernesto G. Laura (a cura

di), Nato col cinema. Carlo LudovicoBragaglia. Cent’anni tra arti e cinema,

ANCCI, Roma, 1992

FUORI CAMPOSet paralleli

LA CARROZZA D’ORORegia: Jean Renoir; sceneggiatura: J.Renoir, Renzo Avanzo, Giulio Macchi,

Jack Kirchland; fotografia: Claude Re -noir; musica: Gino Marinuzzi jr. da An -tonio Vivaldi; interpreti: Anna Magna-ni, Odoardo Spadaro, Nadia Fiorelli,Georges Higgins, Duncan Lamont, PaulCampbell, Riccardo Rioli, William Tubbs,Jean Debucourt; produzione: FrancescoAlliata per Panaria Film/Hoche; origi-ne: Italia/Francia, 1952; formato: 35mm,col; durata: 101’.

IL SEGRETO DELLE TRE PUNTE

Regia: Carlo Ludovico Bragaglia; sce-neggiatura: Age, Furio Scarpelli; foto-grafia: Mario Albertelli; montaggio:Roberto Cinquini; scenografia: GianniPolidori; musica: Alessandro Cicognini;interpreti: Massimo Girotti, Roldano Lu -pi, Luciana Vedovelli, Umberto Spada -ro, Tamara Lees, Piero Pastore, ArturoBragaglia; produzione: Francesco Al lia -ta per Panaria; origine: Italia, 1952; for-mato: 35mm, b/n; durata: 75’.

IL PRIGIONIERO DEL RE

Regia: Richard Pottier, Giorgio Rivalta[Giorgio Venturini]; soggetto: liberamen-te ispirato alla raccolta Crimes celèbrese al romanzo Le Vicomte de Bragelonnedi Alexandre Dumas père; sceneggiatu-ra: Giuseppe Mangione, Alessandro Fer -raù, Dominique Vincent, Jacques Viot;fotografia: Arturo Gallea; montaggio: Lo -ris Bellero; scenografia: Giancarlo Bar to -lini Salimbeni; musica: Ezio Carabella;interpreti: Pierre Cressoy (voce Gual -tiero De Angelis), Andrée Debar (voceRosetta Calavetta), Armando Francioli(voce Giuseppe Rinaldi), Nerio Bernar -

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Sette canzoni per sette sorelle, 1957, diMarino Girolami.Il fondo si completa con alcuni film ita-liani presenti anche altrove, ma di cuiin certi casi andrebbe fatta una colla-zione con le altre copie esistenti, e conalcuni film stranieri in versione italiana,di cui in certi casi andrebbe verificatal’unicità della conservazione in versio-ne italiana (significativa, come sappia-mo, per le presenze vocali dell’epocad’oro del doppiaggio italiano):Gli angeli del quartiere, 1952, di CarloBorghesio;Atollo K (Atoll K), 1951, di Léo Joannone John Berry, con Stan Laurel e OliverHardy;Il ferroviere, 1956, di Pietro Germi;Ho scelto l’amore, 1953, di Mario Zampi;Natale al campo 119, 1947, di PietroFrancisci;Due cuori fra le belve (Totò nella fossadei leoni), 1943, di Giorgio Simonelli;Violette imperiali (Violettes impériales),1952, di Richard Pottier;Anche oggi è primavera (The Run -around), 1947, di Charles Lamont;Il mostro del pianeta perduto (TheDay the World Ended), 1956, di RogerCorman;Precipitevolissimevolmente (Trouble inStore), 1954, di John Paddy Carstairs;Il re d’Israele (Sins of Jezabel), 1953, diReginald Le Borg;La regina delle nevi (Snežaja koroleva),1957, di Lev Altamanov, copia b/n;La rivolta del West (titolo da identifi-care);Siberia anno 50 (Der Teufel spielteBalalaika), 1961, di Leopold Lahola;Terra di conquista (American Empire[?]), 1942, di William McGann;

Il tesoro sommerso (Underwater), 1955,di John Sturges;Tobor (Tobor), 1953, di Lee Sholem;La tragedia del Silver Queen (Five CameBack), 1939, di John Farrow.(s.g.g.)

A FIL DI SPADA

Regia: Carlo Ludovico Bragaglia; sogget-to: Age, Furio Scarpelli; sceneggiatura:Age, F. Scarpelli, Leo Benvenuti; foto-grafia: Mario Albertelli; montaggio:Roberto Cinquini; scenografia: GianniPolidori;musica: Gino Marinuzzi jr.; in -terpreti: Frank Latimore (voce GiulioPanicali), Milly Vitale, Pierre Cressoy (vo -ce Emilio Cigoli), Doris Duranti (vo ceTina Lattanzi), Peter Trent, Arturo Bra -gaglia, Enrico Glori, Franca Marzi, JohnKitzmiller (voce Cesare Polacco), Dag -mar Marina Klesczewski; produzione:Delphinus/Panaria; origine: Italia, 1952;formato: 35mm, b/n; durata: 89’ (72’).Copia 16mm (da 35mm) da La Cinetecadel Friuli.

«La storia di questa avventura, che esal-tò le mie doti di organizzatore e veloceesecutore di film, dipende dal fatto cheLa carrozza d’oro era un film concepi-to per la regia di Luchino Visconti, male sofisticherie, le ambizioni, le pretesedi questo straordinario regista avevanofatto salire il preventivo a un costo esa-gerato. [...] Alliata [il produttore] si trovònella necessità di cercare un altro regi-sta. La scelta cadde su Jean Renoir, chegodeva presso il pubblico italiano di ungrande prestigio. Ma Alliata si accorseben presto che la situazione non era

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«Desunto il più liberamente possibiledal noto romanzo di Dumas padre, ter -zo, dopo I tre moschettieri e Vent’annidopo, della trilogia illustrante le gesta diD’Artagnan, Il visconte di Bragelonne,diretto a colori da Fernando Cerchio, èun onesto film di cappa e spada cherisente dei più popolari motivi delgenere storico-avventuroso, dai duellialle imboscate, alle sostituzioni di per-sona, agl’intrighi di Corte, agli equivocisentimentali e via dicendo. Un reperto-rio, più che un film organico; doveDumas è mandato a braccetto con labaronessa Orczy e dietro ai due spuntaSabatini, secondo il metodo conciliativodei centoni hollywoodiani. La vicendagioca sullo sfortunato amore di Raoul,visconte di Bragelonne, figlio di Athose discepolo di D’Artagnan, per la bion-da Luisa de La Vallière, favorita di ungiovane Re Sole ancora annuvolato dal -la presenza del Mazarino; amore chesarà poi facilmente scacciato da quellodi una bella inglesina che da tempospasimava per il bel giovanotto. Ma piùci ha parte l’intrigo della cosiddetta Ma -schera di ferro, il fratello gemello diLuigi, che perfidi seguaci del Cardinale,all’insaputa di lui morente, sbastiglianoe tentano di sostituire al re vero; ma ilgioco di questi augusti bussolotti è ap -punto impedito dal prode Raoul, checoll’aiuto di D’Artagnan e dei suoi baldimoschettieri rimette a forza di spada lecose a posto. Si nota un buon uso de-gli “esterni”, qualche sequenza animo-sa, proprietà di costumi e di ambienti,e una recitazione corretta».

Leo Pestelli, «La Stampa», 29 maggio 1955

LA SPADA IMBATTIBILE

Regia: Hugo Fregonese; soggetto: libe-ramente ispirato alla trilogia dei mo -schettieri di Alexandre Dumas père;fotografia: Pier Ludovico Pavoni; musi-ca: Mario Nascimbene; interpreti: Jef -frey Stone (voce Pino Locchi), PaulCampbell (voce Renato Turi), SebastianCabot (voce Carlo Romano), DomenicoModugno (voce Gianfranco Bellini),Peter Trent (voce Augusto Marcacci),Enzo Fiermonte (voce Gualtiero De An -gelis), Edmon Ryan (voce Giorgio Ca -pecchi), Victor De La Posse, Irene Papas(voce Dhia Cristiani), Sue Ellen Blake;produzione: Thetis; origine: Italia,[1954-]1957; formato: 35mm, b/n; dura-ta: 83’ (74’).Copia 16mm (da 35mm) da La Cinetecadel Friuli.

Il film, non iscritto al PRC e distribuitonel 1957, nasce come compendio di unadelle primissime serie televisive trasmes -se dalla RAI, I tre moschettieri (1955).Girata in Italia nel 1954, la serie erastata prodotta dalla Thetis Film pensan-do al mercato internazionale e coinvol-gendo quindi in prevalenza attori eregisti americani. Dal materiale giratoper questi 26 episodi da mezz’ora, pub-blicizzati come «esclusivamente per laTelevisione» («La Stampa», 9 giugno 1955),sono stati inoltre ricavati otto lungome-traggi cinematografici “gemelli”, distri-buiti in un secondo momento nelle saleitaliane (e, pare, tedesche): I cavalieridella regina (l’unico iscritto al PRC, acolori, firmato dall’aiuto regista MauroBolognini ma diretto in realtà da Jo -seph Lerner, visto censura del dicem-

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di (voce Giorgio Capecchi), Xenia Val -deri (voce Lidya Simoneschi), Luigi Tosi(voce Carlo Romano), Olga Solbelli, A -dolfo Geri, Marcello Giorda, Sergio Ber -gonzelli, Enzo Fiermonte (voce EmilioCigoli); produzione: G. Venturini perVenturini Films; origine: Italia, 1954; for -mato: 35mm, col; durata: 81’ (68’).Copia 16mm (da 35mm) da La Cinetecadel Friuli.

Il film, progettato come coproduzioneitalo-francese, è stato formalmente rea-lizzato come sola produzione italiana acausa del parere contrario espressodalla Direzione Generale dello Spetta -colo. La regia è firmata nell’edizioneitaliana da Giorgio Rivalta, pseudonimodel produttore Giorgio Venturini, masembra che il lavoro vada piuttostoascritto al supervisore francese RichardPottier.

«Il prigioniero del re è il film grandiosocui Venturini affida un bel mazzo di spe -ranze, fondate sullo sforzo produttivoin un momento di difficili vicende orga-nizzative, finanziarie e tecniche. Ma ilsoggetto francese – dal romanzo di Du -mas padre – ispirato alla Maschera diferro, garantisce un buon apporto diVachsberger [co-produttore francese]. Ilregista, innanzitutto, Richard Pottier.Non si creda infatti al coregista italiano:Giorgio Rivalta è in realtà lo pseudoni-mo di Venturini, ed è inserito per evi-denti ragioni di nazionalizzazione delfilm. E poi gli attori: Pierre Cressoy èstato Giuseppe Verdi di Matarazzo, unmiliardo di incasso con lire del ’53.André Debar è stata la bionda Porzia deIl mercante di Venezia, ed ha lavorato

con Rossellini nei Sette peccati capitali;e inoltre il bravo Armando Francioli.Intorno tutti i migliori comprimari e tec-nici. Luigi Tosi e Nerio Bernardi, fra iprimi; Gallea, Carabella, Bartolini Sa -limbeni, i Bigazzi, fra i secondi. Non hopiù rivisto il film dal ’54. Ne conservovagamente il ricordo di alcune sceno-grafie sontuose. E Vieri Bigazzi mi con-ferma un’impresa significativa. Il Palaz -zo Reale (o il Castello del Valentino) furicostruito alla FERT per l’incendio fina-le. Non un modellino, dunque, ma unabella costruzione».

Lorenzo Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT

(1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992

IL VISCONTE DI BRAGELONNELE VICOMTE DE BRAGELONNE

Regia: Fernando Cerchio; soggetto: dalromanzo di Alexandre Dumas père;sceneggiatura: Claude Boissol, Alexan -dre Astruc, Roland Laudenbach; foto-grafia: Lucien Joulin; montaggio: Léo -nide Azar; scenografia: Roland Quignon;musica: René Sylviano; interpreti:Georges Marchal (voce Mario Colli),Dawn Addams (voce Gabriella Genta),Florence Arnaud, Jacques Dumesnil,Robert Burnier, André Falcon, PhilippeOlive, Jean Tissier (voce Michele Mala -spina), Nico Pepe, Franco Silva (voceNino Dal Fabbro), José Quaglio; produ-zione: Robert De Nesle per CFPC/Orso/Iris; origine: Francia/Italia, 1954;formato: 35mm, col; durata: 94’ (80’).Copia 16mm (da 35mm) da La Cinetecadel Friuli.

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bre 1954 ma uscito a Roma solo nelsettembre 1955), Le avventure dei tremoschettieri (Lerner, 1957), La spadaimbattibile (1957), Le imprese di unaspada leggendaria (Nathan Juran/FrankMcDonald, 1958), Gli sparvieri del re(Lerner, 1958), Mantelli e spade insan-guinate (Juran/McDonald, 1959), Lequattro spade (Juran/McDonald, 1960)e Criniere e mantelli al vento (Lerner,1962). Non è facile, allo stato attuale,ricostruire elenco completo e creditsdegli episodi televisivi, ma quelli attri-buibili a Fregonese e confluiti ne Laspada im battibile dovrebbero essere tre:La spa da guascone (trasmesso il 3 mag-gio 1955), La diligenza di Parigi (9 lu -glio 1955) e La freccia di fuoco.

«Nel maggio 1954 venni incaricato dallaThetis Films di preparare un repertoriomusicale per una serie di 66 episodi[sic] per la televisione americana ispira-ti alle avventure de I tre moschettieri; lemusiche avrebbero dovuto essere pre -incise in modo da poter sincronizzareogni episodio appena montato. Prepa -rai un piano di lavoro di tipo industria-le, che prevedeva 75 temi in 400 varian-ti, per oltre 13 ore di musica. [...] Dopoun massacrante periodo di lavoro, spre-mendo le meningi, succhiando dallafantasia ogni frammento, ogni briciolamusicale, riuscii a preparare l’immensamole di partiture per le composizionirichieste. Così in piena estate, con uncaldo massacrante [...], nel cinefonico diCinecittà Franco Ferrara iniziò a regi-strare i milioni di note che avevo stesosul pentagramma».Mario Nascimbene, Malgré moi, musicista,

Edizioni del Leone, Spinea, 1993

CONVERGENZE PARALLELE Uno per tutti, tre per mille

IL SOGNO DI D’ARTAGNANRegia, animazione: Mac. Alessio; pro-duzione: Studio Car.an; origine: Italia, ?[anni ’30?]; formato: b/n; durata: 7’.Copia 16 mm muto (da 35mm sonoro)da Collezione Paolo Venier.

Per un personaggio, quello del quartodei tre moschettieri, che è il più pre-sente nel ciclo romanzesco dumasianoben oltre il primo e più noto dei ro -manzi, ed è anche il più presente nellemolteplici versioni cinematografiche(incluso il film di Fregonese che nelladidascalia iniziale fa riferimento a luipiù che alla compagnia), è interessantescoprire questa versione animata italia-na di cui poco si sa, proveniente da unadelle preziose collezioni private triesti-ne, dove si è conservata in formato ri -dotto, mutizzata e col finale sospeso. Ilche non impedisce di goderne le in -venzioni quasi parodistiche, come certicartelli indicatori in italiano (“Parigi”con freccia che indica la direzione, “Sar -to dei moschettieri” ecc.). E con la figuradel sogno, richiamata dal titolo stesso,che è connaturata all’invenzione duma-siana (dopotutto Il boia di Lilla è ungrande incubo, di Milady che sin dallasequenza pretitoli sente il fiato minac-cioso del boia, e di chi l’amò di frontealla sua morte finale). (s.g.g.)

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Viaggio in Italia 45/48Lo sbaglio di essere vivo,

ovvero Gli ebrei nella realtà e fuori della realtà

(Dedicato ai cineasti italiani Emanuele Caracciolo, Kurt Gerron,Max Neufeld, Aldo De Benedetti, e al cinema fuori del tempo)

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rigerà in altri film di grande successo −La casa del peccato (1938), La primadonna che passa (1940) e La canzonerubata (1941). Arrivato in Spagna nel1942 per dirigere il film di co-produ-zione Buongiorno, Madrid!, trascorrequi il periodo più duro della guerra(1943-1945); poi ritorna in Italia e ri -prende la sua attività dirigendo tra glialtri Il tiranno di Padova (1946) e Unuomo ritorna (1946).

ALDO DE BENEDETTI

(Roma, 1892-1970)Cresciuto in una famiglia dedita allacultura, ancora liceale inizia a compor-re opere drammatiche e poemi in versi.Tornato dalla Grande Guerra, dove si èarruolato come volontario, scrive nu -merosi soggetti che diventano quasitutti delle sceneggiature. Il cinema, delresto, è uno dei primi amori di De Be -nedetti: il soggetto di Arabesca, così co -me quello de L’amore stanco risalgonoal 1920. L’anno successivo è la volta diIncatenata, diretto da Giuseppe Ric -ciotti, mentre nel 1923 collabora allasceneggiatura de Il corsaro di AugustoGenina e nel 1927 a quella del FrateFrancesco di Giulio Antamoro. Intantonel 1922 ha esordito alla regia con unMarco Visconti e nel 1927 dirige il per-duto Anita o il romanzo d’amore del-l’eroe dei due mondi (Garibaldi o l’eroedei due mondi), cui segue nel 1929 LaGrazia, tutti lavori che ottengono undiscreto successo di pubblico.Ritorna al teatro e inizia una brillantis-sima carriera di commediografo. I titolipiù noti di questo periodo sono La resadi Titì (1931), Non ti conosco più (1932),

Milizia territoriale (1933), L’uomo chesorride (1935), preludi al suo testo for-se più importante: Due dozzine di rosescarlatte, scritto nel 1936 e rappresen-tato molto anche all’estero. Con l’av-vento del sonoro si riavvicina al cinema,sia per adattare con successo alcune sueopere (per lo più commedie sentimen-tali) sia per sperimentare nuovi ge neri.Firma così commedie garbate come Gliuomini, che mascalzoni... (1932) diMa rio Camerini e Non ti conosco più(1936) di Nunzio Malasomma.Poiché di origine ebraica, dopo la pro-mulgazione delle leggi razziali, il suonome scompare dai titoli, come autoredelle sceneggiature o dei soggetti deifilm, né vengono più rappresentate suecommedie. Continua però a lavorareintensamente e nel 1942, sviluppandoun trattamento di Piero Tellini e di Ce -sare Zavattini, scrive uno dei suoi piùgrandi successi: 4 passi tra le nuvole diAlessandro Blasetti (nei titoli di testacompare come responsabile del tratta-mento il solo Peppino Amato, che è inrealtà una curiosa figura di produttore-autore). Prima di essere blasettiano, ilfilm è un perfetto mix tra le atmosferesentimentali di De Benedetti e il reali-smo fantastico zavattiniano. Nel frattempo procede però inesorabilela macchina persecutoria: in tutti i paesioccupati il nome di De Benedetti vienefatto oggetto di scherno e di censura.L’umiliazione è grande, ma De Bene -detti rinuncia all’esilio volontario negliStati Uniti e continua clandestinamentela sua attività, lavorando tra l’altro allasceneggiatura di Taverna rossa (1940)di Max Neufeld, Una famiglia impossi-bile (1940) di Carlo Ludovico Bragaglia,

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EMANUELE CARACCIOLO

(Tripoli, 1912 - Roma, 1944) Dopo gli studi al Centro Sperimentaledebutta professionalmente in cinemanel 1937, occupandosi all’inizio di sce-nografia e sceneggiatura. Il suo unicofilm da regista è Troppo tardi t’ho cono-sciuta (1939), girato alla FERT di Torinoe per molti anni considerato perduto,fino al suo ritrovamento nel 2003. Sitratta di una commedia ispirata a Il divodi Nino Martoglio, supervisionata daCarmine Gallone e interpretata fra glialtri da Dino De Laurentiis. La carrieradi Caracciolo, però, si interrompedrammaticamente nel 1944: arrestato infebbraio dai nazisti, viene prima incar-cerato a Regina Coeli e poi ucciso nel-l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

KURT GERRON

(Berlino, 1897 - Auschwitz, 1944) Già volontario e medico durante la Pri -ma guerra mondiale, a partire dagli anni’20 si afferma rapidamente come attoree regista. In teatro, in particolare, appa-re nel primo allestimento dell’Opera datre soldi di Brecht (1928), mentre al ci -nema partecipa a Der Blaue Engel diJosef von Sternberg (1930). Dal 1933,però, le leggi razziali gli impedisconodi lavorare in patria e lo costringono aemigrare prima in Francia, poi in Olan -da e quindi in Italia, dove nel 1937 diri-ge in doppia versione italo-olandese Itre desideri, co-firmato da Giorgio Fer -roni. Internato durante la guerra nel cam -po di concentramento di Theresienstadt,viene costretto a girare un film di propa -ganda, Theresienstadt. Ein Dokumentar -film aus dem jüdischen Siedlungsgebiet,

in cui appunto dipinge il campo comeun luogo confortevole e ben organiz -zato. Il film, terminato nel 1944 e so -pravvissuto solo in frammento, non gligarantisce però la salvezza sperata:Gerron viene deportato ad Auschwitz,dove muore. La sua figura, anche con-troversa, è al centro di due recenti docu -mentari, Kurt Gerrons Karussell (1999)e Prisoner of Paradise (2002).

MAX NEUFELD

(Guntersdorf, 1887 - Vienna, 1967)Austriaco, da giovane studia recitazionee inizia a lavorare come attore al Josef -städtertheater, a quei tempi diretto daJosef Jarno. Negli anni dell'immediatodopoguerra passa al grande schermo e,come attore giovane, diviene uno deipri mi divi del cinema austriaco, acqui-stando grande popolarità con una se-rie di commedie interpretate insieme aLiane Haid. Si appassiona pe rò aglistudi di sceneggiatura e regia e abban-dona l’attività recitativa. Acquisita un’e-sperienza tecnica di prim’ordine, lavoraun po’ dappertutto in Europa, specializ -zandosi nelle commedie comico-senti-mentali che sono tanto in voga neiprimi anni del sonoro, raccontando convivacità storie improbabili, ricche di sor-prese, equivoci e contrattempi. Per uncerto periodo vive in Germania, ma ècostretto ad abbandonare il paese nel1933, all’avvento del nazismo, perchédi origine ebraica. Si trasferisce a Roma,dove scrive varie sceneggiature per pas -sare poi alla regia e diventare uno deimaggiori protagonisti del cinema deglianni ’30, con titoli come Mille lire al me -se (1938), con Alida Valli − attrice che di -

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direttore di produzione, di fede profon-damente fascista, mi chiedeva: “Allora,De Sica, cosa hai deciso per Venezia?”.Ed io, regolarmente, rispondevo: “Devofinire prima di dirigere il film che mi hacommissionato il Vaticano, dal titolo Laporta del cielo”. Questo film è stato lasalvezza per me e per i miei compagniattori, che tutti, o quasi tutti, avevanovoluto che io li scritturassi anche perpiccolissime parti. La sua lavorazionedurò quasi un anno. [...] Giravamo nellecantine di una chiesa, al quartiere Sala -rio. Anzi, siccome c’era il pericolo deirastrellamenti tedeschi, avevamo pen-sato di rinchiuderci là sotto, portandocon noi lenzuola e vitto. [...] Non poten -do andare a Loreto per girarvi l’ultimasequenza del film, chiesi al vescovoparroco della Basilica di San Paolo semi consentiva di girare la scena nellasua basilica. Me lo concesse, a pattoche mi rendessi responsabile del com-portamento serio e rispettoso del foltonumero di comparse di cui la scenaaveva bisogno. Come avrei potuto otte-nere da quei duemila scalmanati, male-ducati, il rispetto del luogo dove avven-nero scene disgustose? [...]. Una voltaliberata Roma, il film La porta del cieloera pronto per la proiezione. Questofilm non fu gradito al Centro CattolicoCinematografico perché non risponde-va alla pura ortodossìa cattolica. I mira-coli avvenivano negli animi dei fedeli,nella forza di persuasione del Credo.Una donna che guariva di una paralisialle gambe, conseguenza di un fattoisterico, e la rinuncia di uno dei prota-gonisti, interpretato da Roldano Lupi,che depositava sull’altare la rivoltellacon la quale avrebbe voluto suicidarsi,

erano considerati non completamenteortodossi dai cattolici».

Vittorio De Sica, La porta del cielo.Memorie 1901-1952, Avagliano,

Cava de’ Tirreni, 2004

FUORI CAMPOSet parallelo

I DIECI COMANDAMENTIRegia: Giorgio W. Chili; soggetto: padreC.V. Vanzin; sceneggiatura: G.W. Chili,Pietro Germi, Enrico Ribulsi, C.V. Van -zin; fotografia: Sergio Pesce; musica:Ezio Carabella; interpreti: Marina Berti,Rossano Brazzi, Vera Carmi, ElisaCegani, Andrea Checchi, Valentina Cor -tese, Mario Ferrari, Adele Garavaglia,Massimo Girotti, Claudio Gora, MariellaLotti, Roldano Lupi, Amedeo Nazzari,Carlo Ninchi, Assia Noris, Carlo Tam -berlani, Otello Toso, Amedeo Trilli;produzione: Profir; origine: Italia, 1944;formato: 35mm, b/n; durata: 102’.

«Correva l’anno di disgrazia 1943, XXIIdell’era cosiddetta fascista: tedeschi eitaliani bastardi braccavano la cittàpronti a cogliere qualsiasi cenno disospetto: la gente si nascondeva comemeglio poteva, evitando i brutti ceffiche vagavano per Roma; i cinemato-grafari tremavano di paura. In mezzoa tanta paura, ad alcune teste caldevenne un’idea: “giacché dobbiamo sta -re alla macchia – si dissero – perchénon proviamo a fare un film?”. Bellaidea, non c’è dubbio, che nessuno, cer-tamente, avrebbe presa sul serio. Ma ilregista G.V. Chili, un pazzo della scuo-

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Maddalena zero in condotta (1940) diVittorio De Sica e, sempre per De Sica,rivede quella di Teresa Venerdì (1941).Tra il 1941 e il 1942 collabora intensa-mente anche con Mario Mattòli a Lucenelle tenebre, Ore 9 lezione di chimicae Stasera niente di nuovo, sodalizio cheproseguirà poi in altri sette film. A guerra conclusa torna la firma di DeBenedetti su un lavoro teatrale: è Losbaglio di esser vivo (1945). Ma qualco-sa nel nostro autore è cambiato: al di làdell’utilizzo di tecniche compositiveinnovative, come il flash-back mutuatodalla cinematografia, già dal titolo diquesta nuova commedia emerge tuttala disincantata amarezza mutuata inquegli anni di emarginazione. L’opera èla denuncia sofferta della condizione diebreo dell’autore, il lamento struggentedelle violenze subite durante la guerra.E in questi anni scrive, sotto lo pseu-donimo di Benedetto Laddei, anche unlibro in cui torna sulla sofferta condi-zione del popolo semita: Gli ebrei nellarealtà e fuori della realtà ripercorre lagenesi del sionismo da Teodor Herzlfino al 1946, affrontandolo in manieracritica e perciò rilevandone anche glieccessi, ma soprattutto si dilunga sul-l’ingiusta discriminazione del popoloebraico di cui egli si sente pienamentepartecipe, avendola subita in primapersona. In campo cinematografico, lavora anco-ra a commedie come Mio figlio profes-sore (1946) di Renato Castellani e aquasi tutti i film di Raffaello Matarazzo,di cui esaspera la vena melodrammatica,tra cui Catene (1950), Tormento (1951)e I figli di nessuno (1952). Prosegue an -che la sua attività a teatro, con comme-

die di stile pirandelliano: L’armadiettocinese (1947), Gli ultimi cinque minuti(1951), Buonanotte Patrizia (1956), Il li -bertino (1960). Negli anni ’60 i suoi lavo -ri non riscuotono però più il successodi un tempo: vengono considerati trop-po leggeri e la sua opera appare inade-guata a una società inquieta e intrisa diforti connotazioni ideologico-culturali.Stanco, sfiduciato e caduto in depressio -ne, il 19 gennaio 1970 si toglie la vita.

LA PORTA DEL CIELO

Regia: Vittorio De Sica; sceneggiatura:Cesare Zavattini, Diego Fabbri, V. DeSica, Adolfo Franci, Carlo Musso; foto-grafia: Aldo Tonti; montaggio: MarioBonotti; scenografia: Salvo D’Angelo;musica: Enzo Masetti; interpreti: MariaMercader, Marina Berti, Elli Parvo, Mas -simo Girotti, Roldano Lupi, Carlo Nin -chi, Giovanni Grasso, Elettra Druscovich,Annibale Betrone, Giuseppe Forcina,Enrico Ribulsi, Vittorio Cottafavi; pro-duzione: Orbis; origine: Italia, 1944; for -mato: 35mm, b/n; durata: 84’.Copia 35mm della Cineteca Nazionale.

«Il ministro Goebbels, tramite il suo am -basciatore a Roma, mi fece chiamareper invitarmi a dirigere la cinematogra-fia tedesca a Praga. Nello stesso tempo,l’allora ministro della Cultura PopolareMezzasoma m’invitava a dirigere la ci -nematografia della Repubblica Socialea Venezia. Ero terrorizzato. A Roma c’erail coprifuoco, e alle cinque del pome-riggio si stava tutti chiusi in casa. Allediciassette e cinque in punto, squillavail telefono e regolarmente Cocco, un

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«Non ricordo quale comandamento fa -cessi nei Dieci comandamenti. Ricor -do, però, che nessuno prese una lira. Ilbuono era che ci diedero una tesseradel Centro Cattolico Cinematograficocon la quale evitavamo le retate, per-ché si girava al Brancaccio, dove arri-vavamo in bicicletta, a piedi, col tram».

Amedeo Nazzari in Franca Faldini,Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosastoria del cinema italiano, Cineteca di

Bologna, Bologna, 2009

«La persona che ricordo con maggioremozione è il Papa, Pio XII. Mi ricevet-te in udienza privata per ringraziarmi diavere fatto un film, I dieci comanda-menti, in un momento in cui i tedeschiavevano proibito di “girare”».

Assia Noris a Ornella Ripa, «L’Europeo»,circa 1969, cit. in Franca Faldini,

Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosastoria del cinema italiano, cit.

DUE LETTERE ANONIME

Regia: Mario Camerini; soggetto: Ivo Pe -rilli, Aldo De Benedetti (non accredita-to); sceneggiatura: M. Camerini, CarloMusso, Vittorio Nino Novarese, I. Pe -rilli, Turi Vasile; fotografia: MassimoTerzano; montaggio: Baccio Bandini;scenografia: Gastone Medin; musica:Alessandro Cicognini; interpreti: ClaraCalamai, Andrea Checchi, Otello Toso,Carlo Ninchi, Dina Sassoli, GiovannaScotto, Vittorio Duse, Heinrich Bode;produzione: Carlo Ponti, Franco Piper -no per Lux/Ninfa; origine: Italia, 1945;formato: 35mm, b/n; durata: 86’.Copia BetaSP (da 35mm) da CinetecaNazionale.

la di Blasetti, si affezionò all’idea. Disseche la proibizione di girare a Roma loeccitava e convinse i suoi produttoriche avrebbe realizzato un film a lungometraggio facendo a meno del regolarepermesso ministeriale, dei teatri di posae di tutto l’apparato pubblicitario cheaccompagna – di solito – la realizzazio-ne di un film. Chili sapeva lui comeoccultare l’iniziativa, come occultare isuoi aiutanti, i suoi attori, le sue mac-chine agli occhi dei tedeschi. E il filmclandestinamente ebbe inizio. In con-trasto con l’atmosfera atea e secessioni-sta che i tedeschi avevano creato intor-no alla Chiesa cattolica in quei giornidell’occupazione, il film s’ispirò ai Diecicomandamenti. Per un eccesso di co -raggio che rasentava l’incoscienza, ilregista Chili scelse come aiuto un gio-vane di razza israeliana, Franco Piper -no, mentre tra gli sceneggiatori figura-vano il comunista Enrico Ribulsi, il de -mocristiano Pietro Germi e padre V.CVanzin. [...] Ma fuorilegge furono anchegli operai, i truccatori, gli architetti, glioperatori, le macchine da presa, le lam-pade, i generici e i quarantadue artistidi primo piano, non tutti simpatici alMinistero della Cultura Popolare che liaveva replicatamente invitati a trasferir-si nel territorio della Repubblica Sociale[...]. Come riuscirono il regista e il diret-tore di produzione Franco Leone anascondere tante persone, alcune dellequali sospette, e come tutte queste per-sone poterono tranquillamente girareun film di circa 4000 metri senza esse-re scoperti, Dio solo lo sa».

Anonimo, Dieci comandamenti e quarantadue attori alla macchia,

«Star», 26 maggio 1945

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il massimo segno di quella cecità criti-ca che porterà a stravolgere Fiammache non si spegne di Cottafavi».

Sergio Grmek Germani, Le trincee delCarso, il disco rotto di Giovinezza, i veli di

Anna Karenina e Madame Bovary, inArnaldo Colasanti, Ernesto Nicosia (a curadi), [Mario Camerini], Gli Archivi del ’900,

Roma, 2011, in via di stampa

FRANCO PIPERNO«Io abito al settimo piano [...] in un pa -lazzo di via Beccaria, famoso fra l’altroper l’eccezionale numero di personeche, sotto falso nome, nascose e ospitòdurante i novi mesi. Ebbene, propriol’altro giorno, mi capitò l’occasioned’incontrare e finalmente conoscere,sen za travestimenti, quel signore distin-to e un po’ preoccupato che a quel tem -po viveva (a somiglianza di Ercole Patti)bloccato in una stanza del terzo piano.È, questi, Franco Piperno; e fui ben lie -to di rallegrarmi con lui per lo scampa-to pericolo e di apprendere che, passa-ta la paura e riacquistata la libertà, egliaveva iniziato una sua attività di produ-zione cinematografica con una nuovasocietà chiamata Ninfa, ricca di mezzi edi buone intenzioni e con un program-ma – mi disse – molto serio e abba-stanza interessante. Un simile discorso,a dire il vero, l’avevo già sentito fareanche da altri produttori. Ma il Pipernonon esagerò in superlativi né in entu-siasmi, parlò anzi con discrezione equasi con timidezza, il che mi sorpresee mi piacque in un produttore al suoprimo film. Di questo suo primo film,intitolato Due lettere anonime e direttoda Mario Camerini, si è già data notizia

«Uno dei film più coraggiosi di tutta lastoria del cinema italiano, film senzapadrini o partiti alle spalle, testimonedella Resistenza senza esserne celebra-zione. Evocato anche di recente in unromanzo di Lenzi, resta una di quellezone veramente segrete del cinema ita-liano, uno di quei fili del rapporto traVaticano e mondo ebraico, oltre le di -spute storiche su Pio XII o su figurecontroverse come Eugenio Zolli, e chetocca episodi cinematografici come Laporta del cielo di De Sica e l’opera diRomolo Marcellini, ma in primis una fi -gura come Franco Piperno che ottenneprotezione dal cineasta vaticano ufficia -le Giorgio W. Chili e contemporanea-mente impiantò la produzione di que-sto film di Camerini. Il quale ha sempreeluso le ipotesi sulle proprie originiebraiche, aggirando ogni legge razzialeben prima della sua promulgazione:semplicemente per un carattere da apo-lide anche verso il mondo che i nazio-nalisti etichettarono apolide. Col citatofilm di De Sica e con Lo sconosciuto diSan Marino di Cottafavi e Waszynski, èil film della vera controstoria italiana. Èanche il punto d’arrivo delle frequenta-zioni giornalistiche del cinema cameri-niano, ponendo al centro della vicendala tipografia che stampa clandestina-mente. Solo un cineasta segnato dall’e-sperienza delle guerre poteva compiereun tale atto sovrano verso il suo tempo,che non teme di essere pessimista nelmomento dei domani che cantano.L’aver rifiutato questo film e aver impe-dito a Camerini (“regista ormai fuoridalla storia” secondo la formula di raraottusità di Aristarco) di realizzare pro-getti sul dopoguerra come Il maestro, è

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Achille Milo; produzione: Villani e NinoCampomizzi per CSG; origine: Italia,[1945-]1946; formato: 35mm, b/n; dura-ta: 82’.

Riunite in una fattoria della giunglamalese, nove persone sono improvvisa-mente minacciate da un pericolo mor-tale, che ne lascia emergere gli istintipiù segreti.

VIVERE ANCORA

Regia: Leo Longanesi/Nino Giannini;sog getto: L. Longanesi; sceneggiatura: L.Longanesi, Ennio Flaiano, Steno/OrsolaNemi, N. Giannini, Paola Ojetti; fotogra -fia: Aldo Tonti/Domenico Scala; sceno-grafia: L. Longanesi/Luigi Ricci;musica:Pippo Barzizza; interpreti: GualtieroTumiati, Giuseppe Pierozzi, Gino Cer-vi, Aldo Fiorelli, Lida Baarova, VirgilioRien to, Irma Grammatica, Andrea Chec -chi, Nuto Navarrini, Tito Schipa, Rol da -no Lupi, Alfredo Varelli, Guido Barba -risi, Anna Capodaglio, Aldo Grimaldi,Tina Maver, Felice Minotti, Dino Peretti,Fausto Tommei; produzione: RomoloMarcellini per ACI/Serafino TrabaldoTogna per Norditalia; origine: Italia,1943/1945; formato: 35mm, b/n; dura-ta: 66’ (frammento: 34’).Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

Il film venne iniziato a Roma da Lon ga -nesi nel luglio del 1943 ma fu interrot-to dopo l’8 settembre. Ripreso a Torino,sotto il regime della Repubblica SocialeItaliana, fu ultimato da Nino Gianninicon nuovi attori e una sceneggiatura inparte riscritta.

su questo giornale. Quanto al program-ma della nuova Società, che per la dis-tribuzione fa capo alla Lux e per l’orga-nizzazione generale a Carlo Ponti, essoprevede nel mese di novembre la lavo-razione del film di Renato Castellani giàannunciato col titolo di Avatar che, pernon smentire la tradizione, è stato mo -dificato in quello (fra parentesi, abba-stanza brutto) di Capriccio tragico. Unracconto fantastico sceneggiato daFlajano e Moravia; una specie di DottorJekyll, che sarà girato a Venezia, tuttodal vero, con molta nebbia e, come sidice sempre in questi casi, con molta“atmosfera”. Come protagonista si è giàscritturato Andrea Checchi, mentre perl’attrice principale mi raccontano chehanno già telegrafato a Parigi per chie-dere se eventualmente Irasema Dilian(l’ex privatista di Maddalena, zero incondotta) sarebbe disposta a tornare inItalia. [...] Inoltre, la Ninfa ha acquistatola sceneggiatura (dicono molto bella) diRomanticismo, film che avrebbe dovutodirigere il povero Poggioli e che, a mar -zo, dovrebbe finalmente essere realizza -to con la regìa dello stesso Castellani».

Silvano Castellani, Girano tutti vorticosamente, «Star», 1 settembre 1945

FUORI CAMPO

IL FANTASMA DELLA MORTE

Regia: Joseph Glavany [Giuseppe Gua -rino]; soggetto: Vittorio Calvino; sceneg-giatura: V. Calvino, Anton Giulio Maja -no; musica: Franco Casavola; interpreti:Marina Berti, Claudio Gora, GuglielmoBarnabò, Lia Orlandini, Guido Notari,

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stava già lavorando a Si chiude all’alba[...]. Di certo, il film in 6 episodi è pron-to a marzo del ’45 ed il 7 aprile esce alVittoria di Torino con il definitivo titoloVivere ancora. Annunciato come “unsoggetto decisamente insolito nel qualesi allacciano vicende ora comiche oradrammatiche... Ossessionante o faceto,grottesco od ir reale, un film d’assolutaoriginalità”».

Lorenzo Ventavoli, Longanesi, Flaiano,Steno..., «Immagine», n. 37, inverno 1996

FUORI CAMPO

LA GRANDE AURORA

Regia: Giuseppe Maria Scotese; sceneg-giatura: Edoardo Micucci, G.M. Scotese,Cesare Zavattini, Giovanna Soria, Mas -simo Ferrata; fotografia: Otello Martelli;musica: E. Micucci; interpreti: RossanoBrazzi, Renée Faure, Pierino Gamba, Mi -chele Riccardini, Fausto Guerzoni, Gio -vanni Grasso, Dante Maggio; produzio-ne: Scalera; origine: Italia, [1944-]1948;formato: 35mm, b/n; durata: 85’.

Un giovane compositore sfortunato ab -bandona l’Italia per lavoro, lasciandosidietro la moglie e il figlio. La donna,per curare il bambino malato, tornaallora nella casa paterna, di cui i duedevono accettare la rigida disciplina.

LA VITA RICOMINCIA

Regia: Mario Mattòli; soggetto: Aldo DeBenedetti; sceneggiatura: A. De Bene -detti, M. Mattòli, Steno; fotografia:Ubaldo Arata; montaggio: Fernando

«Nel dicembre ’43 o gennaio ’44, il gio-vane Trabaldo Togna, erede di unafamiglia di industriali e finanzieri bielle-si [...] fonda la Norditalia, con capitale2.000.000 forniti dal padre e si ponesubito alla ricerca di un soggetto, gui-dato da Rino Rolando e MaggiorinoCanonica. [...] Trabaldo Togna incontraPiero Rosi, collaboratore fisso diCamillo Mastrocinque in scenografiema anche in organizzazioni produttive.Piero Rosi informa dell’esistenza dimateriale girato a Roma di 10 minuti divita. La lettura della sceneggiatura ge ne -ra subito un notevole interesse, comepuò facilmente dedursi trattandosi di trepenne d’eccezione, e cioè Leo Longa -nesi, Ennio Flaiano e Steno, tutti e treper vari versi in anticipo sui tempi.Determinante risulta infine la visionedel materiale girato che consisteva intre episodi completi più scene dellacornice che inquadrava gli episodi stes-si. Tratto da un soggetto originale diLonganesi dal titolo La follia di FilippoCatoni, il film narrava gli ultimi minutidi vita degli inquilini di uno stabile chela notte di Natale vengono informati daun anarchico pazzo d’una bomba da luidisposta a minare la casa e quindi tuttilegati da un’imminente tragica fine. [...]Decisa l’utilizzazione del materiale di -sponibile, la ricerca del regista porta ascegliere un vecchio mestierante, one-sto e modesto, e cioè Nino Gianniniche, dopo un buon lavoro ai tempi delmuto ed un impegno nel doppiaggio,era ricomparso per dirigere Se quell’i-diota ci pensasse e L’invasore [...]. Lalavorazione fu rapida e, iniziata nell’e-state, era conclusa già in autunno, poi-ché a gennaio del ’45 Nino Giannini

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Cassino in un film è un atout interna-zionale. La città di Cassino, infatti, èsfortunatamente divenuta di fama mon-diale ed è oggi la più tragica testimo-nianza di ciò a cui può arrivare la guer-ra. Nessuna rovina è più “vera” e nellostesso tempo più “cinematografica” diquella di Cassino».

Steno, La vita ricomincia senza telefoni bianchi, «Quarta

parete», n. 1, 4 ottobre 1945

«Gli è che i problemi come quelli cheMattòli ha creduto di dover e poter af -frontare sono problemi grossi e veri (edoggi ad uno stato acutissimo) per esse-re avvicinati con la melodrammatica egrossolana superficialità, con la stuc-chevole mediocrità di schemi, col faci-le cattivo gusto che contraddistinguonoMario Mattòli. [...] E non c’è lenocinio,non c’è dispiegamento di abilità, nonc’è ripiego di sperimentata efficacia,non c’è visione di Cassino o di Napolidirute, non c’è riferimento alla presen-te situazione italiana, alla borsa nera, ainuovi ricchi, alle bische clandestine oalle prostitute modelli 1945, che valga arendere credibili e viventi e attuali efuori dal generico limbo delle cosefalse e mancate, una vicenda comequella che Mattòli e Aldo De Benedettihanno confezionato. Sicché le tiratesulla umanità della giustizia, sull’amoree sulla fedeltà coniugale che segnano inodi drammatici del film hanno tuttal’aria dell’appiccicaticcio predicatorio egli spettatori, invece di parteciparedirettamente a quella vicenda cheavrebbe dovuto ricostringerli nella quo-tidianità della vita, hanno trovato scam-po alla noia solo nelle facili risate che

Tropea; scenografia: Gastone Medin;musica: Ezio Carabella; interpreti: AlidaValli, Fosco Giachetti, Eduardo DeFilippo (voce Giulio Panicali), CarloRomano, Aldo Silvani, Nando Bruno,Maurizio Ceselli, Maria Donati, AnnaHaardt; produzione: Excelsa; origine:Italia, 1945; formato: 35mm, b/n; dura-ta: 87’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Il titolo di questo nuovo film di MarioMattòli, casualmente, si adatta anche al -la ripresa, timida ma decisa, della pro-duzione cinematografica italiana. La vi tadel cinema italiano ricomincia. E ri co -min cia senza telefoni bianchi. Per chéquesto pare sia il nuovo imperativocategorico che tutti i nostri registi inblocco si sono tacitamente impegnati dirispettare. Registi al di qua e al di là delfilm d’Arte, registi commerciali e deca-denti, registi con stivaloni o semplice-mente con completo da passeggio, lohanno giurato. [...] Il regista Mattòli –che pure non fu mai uno dei principa-li avversari del telefono bianco, tantoche l’Alta Corte dell’ACCI pensò benedi accusarlo perfino di aver mantenutoin vita i telefoni bianchi con atti rile-vanti – ha voluto addirittura andareoltre. Per evitare di cadere in una diquelle vicende che si svolgono inambiente topograficamente e temporal-mente vago, di quelle vicende di comi-co-sentimentale-ungherese memoria,ha deciso di ambientare la primasequenza del film tra le rovine dellacittà di Cassino. Alla quale idea, il pro-duttore Mosco ha subito aderito conentusiasmo perché oggi, dal punto divista di interesse commerciale, avere

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Irma Gramatica; produzione: GianPaolo Bigazzi per Film Gamma; origi-ne: Italia, [1946-]1948; formato: 35mm,b/n; durata: 79’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Benché i titoli de Lo sconosciuto di SanMarino lo indichino solo come sceneg-giatore, Cottafavi partecipò come co-re -gista anche alle riprese vere e proprie,probabilmente in virtù delle sue passa-te collaborazioni con De Sica (qui inter-prete) e Zavattini (autore). Tutto ciòovviamente non fa che complicare ilquadro, rendendo assai approssimatival’attribuzione dell’opera: se il soggettoappartiene chiaramente al lato fiabe-sco-spirituale di Zavattini (L’angelo e ildiavolo, Miracolo a Milano), lo svilup-po propone temi cari anche a Cottafa-vi (soprattutto la santità); se ancheWaszynski firma ufficialmente la regia,alcune soluzioni (la carrellata “sculto-rea” del prologo, le crisi femminili fil-mate secondo quella che più tardiMourlet chiamerà “nozione di invasio-ne”) richiamano alla memoria momentisimili ne La rivolta dei gladiatori e Ilboia di Lilla. [...] Il tema più interessan-te del film, come dicevamo, è infattiquello della santità, che si sposa peròqui strettamente con la situazione mo -rale del dopoguerra. Il personaggio mi -sterioso (smaccatamente cristologico),che appare dal nulla e insegna nuova-mente l’amore a un’umanità ormai ab -brutita, recupera però assai drammati-camente nel finale la sua dimensioneterrena e, fattosi soltanto uomo, devetornare a far i conti col suo passato e lesue responsabilità morali: e i suoi “mi -racoli” varranno allora comunque o

commentavano le uscite, non tutte dav-vero di buona lega, messe in bocca alpersonaggio comico (Eduardo DeFilippo)».

Antonio Pietrangeli, «Star», 10 novembre 1945

FUORI CAMPOProduzione parallela

IL CANTO DELLA VITA

Regia: Carmine Gallone; soggetto: dallacommedia di Gherardo Gherardi; sce-neggiatura: G. Gherardi, C. Gallone; fo -tografia: Ubaldo Arata; musica: EttoreMontanaro; interpreti: Alida Valli, CarloNinchi, Roberto Bruni, Luigi Almirante,Maria Mercader, Mario Pisu, Dina Ro -mano; produzione: Excelsa; origine:Italia, 1945; formato: 35mm, b/n; dura-ta: 74’.

Una ragazza di campagna aiuta giova-ne di buona famiglia a nascondersi dairastrellamenti nazisti. Quando lei restaincinta, però, lui si rifiuterà di sposarla.

LO SCONOSCIUTO DI SAN MARINO

Regia: Michal Waszynski [Michał Wa -szyÒski], Vittorio Cottafavi; soggetto: Ce -sare Zavattini; sceneggiatura: V. Cot -tafavi, Giulio Morelli, C. Zavattini; foto-grafia: Arturo Gallea, Gabor Pogany[Gábor Pogány]; montaggio: MarioSerandrei; scenografia: Boris Bilinski;musica: Alessandro Cicognini, GiulianoConte; interpreti: Aurel M. Millos,Vittorio De Sica, Anna Magnani, MariaRenata Bogdanska, Antonio Gandusio,

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cammino è breve ormai, ma tu cammi-nerai nei secoli dei secoli finché la veri-tà non è discesa in te”. Un altro saltotemporale, questa volta al 1940, e tro-viamo Matteo che da fortunato ban-chiere lascia Parigi e i suoi privilegi perunirsi invece alla sua gente in uncampo di concentramento senza nome,dove organizzerà una rivolta e una fugacon la sua amata, la bella e virtuosaEsther. Nel finale, Matteo deciderà disacrificare la propria vita per salvarequella di centinaia di altri prigionieritenuti in ostaggio. Le sue ultime parole“Il mio cammino è finito” richiamano laprofezia di Gesù lungo la Via Crucis,segnando la riparazione dell’ebreo er -rante per la colpa di non aver accettatola salvezza in Cristo».

Millicent Marcus, Italian Film in theShadows of Auschwitz, University

of Toronto, Toronto, 2007

HANS HINRICH

(Berlino, 1903-1974) Regista e attore tedesco di origine ebrai -ca, attivo in Germania e Austria fino aitardi anni ’30 ma costretto poi a ripie-gare in Italia. Anche qui però le leggirazziali gli impediscono di firmare apieno titolo i film che gira, tanto che ilsuo nome (italianizzato in GiovanniHinrich) è accompagnato quasi sempreda quello di un co-regista italiano:Tullio Covaz per Il re del circo (1941),Ivo Illuminati per Il vetturale del SanGottardo (1941), Aldo Frosi per Tenta -zione (1942). Nebbie sul mare (1944),girato ormai durante l’Occupazione,vie ne inoltre abbandonato per motivipolitici ed esce più tardi completato e

firmato dal solo Marcello Pagliero. Do -po la guerra la sua attività di regista siarena, ma fiorisce invece, sempre inItalia, quella di attore specializzato inparti da villain. Da ricordare, fra gli al -tri, i ruoli sostenuti in due film di Ric -cardo Freda, I miserabili e Il cavalieremisterioso (entrambi 1948). In Germa nia,dove torna negli anni ’50, si afferma in -fine come doppiatore di film americani.

FANTASMI DEL MARE

Regia: Francesco De Robertis, VittorioCottafavi; sceneggiatura: Giorgio Pasti -na, Nicola Morabito, F. De Robertis;fotografia: Carlo Bellero; montaggio: F.De Robertis; musica: Mario Nascimbe -ne; interpreti: Raf Pindi, Carlo Giusti-ni, Gaby Sylvia, Anna Arena, AllegraSander, Bianca Doria, Lucia Brusco, N.Morabito (voce Guido Notari), UmbertoRaho, Renato De Carmine, Nino Mi la -no, Celso Carlini, Sandro Morabito,Raoul Grassilli; produzione: CCI; origi-ne: Italia, 1948; formato: 35mm, b/n;durata: 95’.Copia 16mm (da 35mm) da CinetecaGriffith.

«Fantasmi del mare – ultimo della serie– è ancora un film didattico e, senz’al-tro, il più difficile di tutti; perché nonera davvero semplice còmpito dimostrare – in clima non più rovente – ilciclone che sconquassò gli animi diquanti erano isolati, in mare, l’infausto8 settembre. Il “recensore” ne convienealmeno? Bene. Io ho accettato – quelcòmpito – come un ultimo atto di ob -bedienza, di dovere, e anche di gratitu-

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andranno riconsiderati alla luce dellasua vera personalità? Sarà preferibilel’oblio (ma le scene del passato cheritorna sono tutte a contatto col croci-fisso, come fossero illuminazioni cele-sti) o il peso delle proprie responsabili-tà (che nel finale conducono il prota-gonista alla morte e che, proprio perquesto, il prete sente il dovere di na -scondere alla folla di fedeli)? Come sivede, sono tutti interrogativi inquietan-ti su ciò che può essere la coscienzaumana e sulla possibilità di una ricostru -zione morale dopo l’Orrore della guer-ra e dello sterminio. Certo il pubblicodell’immediato dopoguerra, lo stessoche aveva condannato Due lettere ano-nime di Mario Camerini e premiato Lavita ricomincia di Mario Mattòli, nondoveva esser pronto a un colloquiotanto spietato con la propria cattivacoscienza (men che mai, poi, se essoveniva proposto sotto forma di spetta-colo spesso spiazzante per i rapidi saltidi registro), ma è singolarmente ingiu-sto che, a sessant’anni ormai di distan-za, il film non abbia ancora riguada-gnato la stima che senz’altro merita».(Simone Starace, 2007)

L’EBREO ERRANTE

Regia: Goffredo Alessandrini; soggetto:Giambattista Angioletti, liberamenteispirato al romanzo di Eugène Sue; sce-neggiatura: G. Alessandrini, FlaminioBollini, Ennio De Concini, Guido DeLuca, Enrico Fulchignoni, Anton GiulioMajano; fotografia: Vaclav Vich; mon-taggio: Otello Colangeli; scenografia:Arrigo Equini; musica: Enzo Masetti;

interpreti: Vittorio Gassman (voce San -dro Ruffini), Noèlle Norman, ValentinaCortese (voce Rina Morelli), Harry Feist(voce Augusto Marcacci), Inga Gort,Hans Hinrich; produzione: GiuseppeFatigati per CDI; origine: Italia, 1948;formato: 35mm, b/n; durata: 103’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Significativamente, il primo film italianoche affronta l’Olocausto, L’ebreo errante,rappresenta l’identità ebraica come in -trinsecamente nomade e sradicata, ecosì facendo assolve il paese che liospita dalle responsabilità verso questistranieri girovaghi. Ancor più disturban -te è il collegamento che questo filmpro pone fra la Shoah e le accuse di deicidio che avevano dato una giustifi-cazione pseudo-teologica all’antisemi -tismo. Secondo la leggenda evocato neltitolo del film, la diaspora sarebbe infat-ti vista come una punizione divina peraver preso parte alla condanna e allacrocifissione di Cristo: un crimine chel’Olocausto sarebbe servito a espiare,se non per l’intero popolo ebraico al -meno per il protagonista, la cui storiachiaramente si identifica con l’interavicenda della dispersione degli israelitidalla Terra santa. Ambientato a Franco -forte nel 1935, il film si apre con un mi -sterioso viandante, Matteo, che visita lacasa del rinomato dottor Lukas Epsteinnella speranza di trovare la cura peruna malattia che è innanzitutto metafi-sica. Un lungo flash-back ci riporta cosìalle origini di quest’uomo, ricco finan-ziere dell’antica Gerusalemme che ave -va insultato Gesù lungo la Via Crucis,ricevendo la condanna che risuoneràlungo tutto il resto del film: “Il mio

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giatura: Gino De Santis, Antonio Pie -trangeli, C. Mastrocinque; fotografia:Giuseppe La Torre; musica: Franco Ca -savola; interpreti: Walter Chiari, MedySaint Michel, Ernesto Almirante, CesareBettarini, Franco Coop; produzione: Fer -dinando Briguglio per Briguglio Film;origine: Italia, 1950; formato: 35mm,b/n; durata: 95’.

Un giornalista, inviato in Palestina, de -cide di simularsi morto per tornare poiin patria da eroe miracolato.

FORTINI/CANIRegia: Jean-Marie Straub, Danièle Huil -let; soggetto: dal libro I cani del Sinai diFranco Fortini; fotografia: Renato Berta,Emilio Bestetti; interventi: Franco Lattes[F. Fortini], Luciana Nissim, Adriano Aprà;produzione: Straub-Huillet per RAI/INA/Polytel/Artificial Eye/New Yorker;origine: Italia/Francia/RFT/Regno Uni -to/USA, 1976; formato: 16mm, col; du -rata: 83’.Copia 16mm da Cineteca di Bologna(Fondo Straub-Huillet).

«I cani del Sinai è stato scritto con ira, amuscoli tesi, con rabbia estrema. La suadisperazione è ancora giovanile: ma -schera malamente la speranza. In vero,intorno a quella estate 1967, la situazio -ne era – per dirla cinese – “ec cellente”.Le borghesie filoisraeliane, cioè filoim-perialiste, dell’Occidente applaudiva-no a grandi grida Dayan e i suoi ma giàsi era avviato, in Francia Italia Ger -mania, quel sollevamento giovanile chein tutto l’anno seguente – accompagna-

israeliano a cui è stato assegnato ilcompito di condurre i rifugiati in TerraSanta. [...] Il film di Coletti idealizza ecritica al tempo stesso il sogno sionista.Canti ebraici, balli folcloristici e unsenso di abbondanza circondano l’arri-vo dei migranti. Quando il capitanodella nave ammira i frutti offerti da unadeliziosa fanciulla del posto, in rispostariceve un resoconto dei successi diIsraele. “Mille tonnellate di frutti l’an-no”, si vanta un giovane, “Cinque annifa, quando mio padre e io siamo arri-vati, non erano nemmeno cinque ton-nellate”. [...] Ma il sogno sionista non èprivo di risvolti da incubo. Quando ildottor Tannen entusiasta ammette“Com’è tutto bello e buono qui. Adessocapisco il sogno di mio figlio”, sta rive-lando esattamente che cosa ostacolaquesto sogno: la militanza violenta diDavide e i suoi compagni. Il ruolo dicomando di George Birkmore nell’eser-cito di occupazione britannico personi-fica questo conflitto e svela gli effettidel fanatismo estremista. Dei tre amiciche celebrano il momento utopicodella Liberazione, soltanto Ari sopravvi-ve, e con lui il film omaggia l’attivismodi chi rifiuta la violenza e ascolta il“grido della terra” lasciando cadere laproverbiale spada nel solco dell’aratro».

Millicent Marcus, Italian Film in the Shadows of Auschwitz, cit.

FUORI CAMPOFilm parallelo

QUEL FANTASMA DI MIO MARITO

Regia: Camillo Mastrocinque; sceneg-

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CONVERGENZE PARALLELEUn epilogo

IL GRIDO DELLA TERRA

Regia: Duilio Coletti; soggetto: Maria R.Berardi, Tullio Pinelli; sceneggiatura:Lewis F. Gittler, Carlo Levi, GiorgioProsperi, Alessandro Fersen; fotografia:Domenico Scala; montaggio: Mario Se -randrei; scenografia: Ottavio Scotti, A.Fersen; musica: Alessandro Cicognini;interpreti: Marina Berti (voce LydiaSimoneschi), Andrea Chec chi (voceEmilio Cigoli), Vivi Gioi (voce DhiaCristiani), Carlo Ninchi, Peter Trent,Filippo Scelzo, Luigi Tosi (voce GiulioPanicali), Elena Zare schi, CesarePolacco, A. Fersen; produzione: AlbertoSal vatori per Lux/Salvatori; origine:Italia, 1949; formato: 35mm, b/n; dura-ta: 84’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Ne Il grido della terra la diaspora èvista come ingiustizia storica che puòessere riscattata tramite un viaggio col-lettivo verso la terra d’origine del popo-lo ebraico. Il film è il più apertamentesionista del periodo e, sebbene i prota-gonisti siano soprattutto ebrei tedeschie combattenti israeliani, la storia iniziaproprio in Italia e anzi assegna unruolo fondamentale agli italiani checonducono la nave verso la Terra pro-messa. Il film inizia infatti nel 1947 inun campo profughi dell’Italia del sud.Tra i personaggi presentati subito cisono il dottor Tannen, un ebreo so -pravvissuto ad Auschwitz, Dina, fidan-zata di suo figlio Davide (emigrato inPalestina prima della guerra) e Ari, un

dine verso la Marina; e devo supporreche Guido Aristarco abbia intuito qual-cosa del genere, visto che mi riconosceuno “spirito di corpo” e “una fedeltà al -l’arma”. (Della qual cosa io lo ringraziodichiarandogli che, un tale elogio, mi fapiù piacere espresso da un critico cine-matografico che dallo stesso Capo diStato Maggiore della Marina.) Però, il “re -censore” ha trovato, nel film, tali mon -tagne di errori, da dovergli appiopparela melanconica, piccola e solitaria stel-letta dei film sbagliati».

Francesco De Robertis, Libertas, Unitas,Caritas, «Cinema», n. 7, 30 gennaio 1949

«Ho conosciuto Giorgio Venturini subi-to dopo la guerra, lui aveva avuto unaserie di noie per aver fatto parte dellaCinematografia durante la Repubblica diSalò, ma ne era uscito pulito, un po’compromesso politicamente ma nei li -miti dell’accettabile. Aveva in cantiereFantasmi del mare, un film sulla con-segna agli alleati della nave GiulioCesare, dopo l’armistizio, diretto dalcomandante De Robertis. Io dirigevostranamente la seconda unità, cui eranoaffidate le riprese in navigazione, stra-namente perché De Robertis avevamolta più esperienza di navigatore, eanche più vocazione, di quanta potessiaverne io. Ma aveva preferito seguireda vicino gli attori, quasi tutti non pro-fessionisti».

Vittorio Cottafavi in Sergio Toffetti (a cura di), “Non esiste ritorno...”

Conversazione con Vittorio Cottafavi, in Lorenzo Ventavoli, Pochi, maledetti e

subito. Giorgio Venturini alla FERT(1952/1957), Museo Nazionale

del Cinema, Torino, 1992

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Standard & PoorLa rivoluzione industriale,

ovvero La penisola del desiderio(Moody’s Movie.

Cinema ed economia: due finzioni allo specchio, II.)

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to, almeno in Italia, da quello operaio –avrebbe indotto un mutamento cosìprofondo degli equilibri che un decen-nio ci sarebbero voluto perché i poteripolitici, i partiti, le istituzioni, cavalcan-do la crisi economica, riprendessero fia -to. E oggi molti di noi accettano invecel’immagine del caos e della insensatez-za. Per non aver saputo dare, in passa-to, alla nostra ragione la flessibilità del-l’acqua e dell’erba, oggi ci tocca subiregli stomachevoli fumi mistici, iniziatici,ermetici, desideranti e “trasversali” chesi levano dalle cerimonie intellettuali,editoriali e bancarie. [...] Tutto questo ènitidamente previsto nel film di Straub-Huillet. Naturalmente non posso identi-ficarmi alla interpretazione critica, anzialla ge niale interpretazione, che essihanno data del mio testo. Quel che hoscritto, nel bene e nel male, è lì, nellapagina di quell’opuscolo, nella suapunteggiatura e nel suo ritmo. Né ioche ho scritto e qui scrivo sono quelsignore che nei fotogrammi di Straub-Huillet cova in se stesso una esistenzasconfitta e legge, quasi incredulo, quelche un altro se stesso ha scritto, conuna enfasi riverbata dai silenzi e dai fra-gori del presente circostante. In alcunefondamentali immagini del film, aperta-mente allusive ad un passato che potràessere anche futuro se qualcuno sapràvolerlo (le montagne pacificate, l’olean-dro fiorito, il panorama di Firenze, lacollina del finale) c’è un continuo scam -bio fra “rinuncia” e “promessa”. La rinun -cia, la Entsagung, si converte, anche, inpromessa».

Franco Fortini, Una nota 1978 per Jean-Marie Straub, in Id., I cani del Sinai, Einaudi, Torino, 1979

SCHAKALE UND ARABERRegia: Jean-Marie Straub; soggetto: dalracconto di Franz Kafka; fotografia:Christophe Clavert; interpreti: BarbaraUlrich, Giorgio Passerone, Jubarite Se -maran [J.-M. Straub]; produzione: BelvaGmBh; origine: Svizzera, 2011; forma-to: video, col; durata: 11’.Copia DigiBeta da produzione.

«Il testo viene da un racconto di Kafka,su un europeo che attraversando l’Ara -bia incontra degli sciacalli che parlanola sua lingua. Gli sciacalli raccontano alviandante di quanto disprezzino gli ara -bi, chiedendo all’europeo di ucciderli.Come allegoria, il racconto è stato lettoin molte chiavi (sionismo vs ebraismoortodosso, arabi vs ebrei) e l’approcciodi Straub rispetta queste moltepliciaperture. Paradossalmente, mentre al -cuni dei testi filmati da Straub non sononecessariamente ambientati in esterni,come il magnifico dialogo da Pavesede L’inconsolabile [...], Schakale undAraber è ambientato nel deserto arabo,eppure Straub filma gli attori BarbaraUlrich, Giorgio Passerone e Jubarite Se -maran in un vecchio salotto illuminatoattraverso le finestre dalla luce naturale.Dal momento che lo spazio fisico rico-pre un ruolo così cruciale in tutti i suoifilm, la scelta per il testo di Kafka è par-ticolarmente misteriosa e aperta all’in-terpretazione. È come se, dislocandola inun interno tipicamente europeo, Straubriportasse l’ambientazione araba alla fon -te stessa di tutti i problemi, l’Europa».

Robert Koehler, Locarno 2011. Old andNew Straub, «Notebook», 9 agosto 2011

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vigenti e schiavizzarci approfittando del -la nostra ignoranza; Erich Fromm; il de -siderio di tornare nell’utero maternoaderendo a una qualche organizzazio-ne; come l’umanesimo liberale è statoridotto a commercio e politica; la natu-ra della rivoluzione; l’empirismo ingle-se e il dogmatismo; l’interdipendenzadi esercito e industria; come la sepa-razione fra arte e scienza ha condottol’arte di oggi verso la politica; come ilromanticismo ha cercato di diffonderela speranza ma è stato capovolto dallarivoluzione francese e dal trionfo delcapitalismo» (Tag Gallagher, Les aventu-res de Roberto Rossellini, Léo Scheer,Parigi, 2006).Sulle pagine della rivista «Arts», il registala definisce «un poco come La lottadell’uomo per la sua sopravvivenza.Anch’essa durerà dodici ore, perché èuna serie molto ampia, molto estesa. Sitratta proprio dell’inizio di un cambia-mento totale del mondo, è la nascitadel mondo moderno. Comincia con bre -vi scene del Medio Evo, perché bisognapartire sempre da un punto molto pre-ciso. Nel Medio Evo si sviluppò un tipodi civiltà completamente verticalizzata,con valori molto ben definiti e unaforma di pensiero chiaramente stabili-ta». E prosegue: «Bisogna spiegare qualera la vita quotidiana degli artigiani,delle arti e delle corporazioni. Da que-ste brevissime scene si passa alla sco-perta della tecnica, che fu l’originedella Rivoluzione Industriale e che, per -tanto, è legata a una serie di fenomenicome la colonizzazione, la nuova orga-nizzazione sociale e tutte le idee politi-che nuove» (Roberto Rossellini, in «Arts»,1-7 aprile 1969).

FUORI CAMPOLa rivoluzione industriale e Karl Marx(Lavorare per l’umanità) progetti nonrealizzati di Roberto Rossellini

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Tra i progetti rosselliniani rimasti incom -piuti, troviamo La storia della rivolu -zione industriale: sopravvive un lungotrattamento, che alterna segmenti pro-priamente narrativi ad altri di caratterepiù saggistico, come spesso Rosselliniamava fare per i suoi lavori televisi-vi. Così Tag Gallagher ne riassume lastruttura: «Inizia dipingendo le squalli-de condizioni di vita del XVIII secolo:l’alimentazione povera, le abitazionimisere e la mancanza di fognature;Edward Gibbons che racconta comesuo padre avesse chiamato tutti i suoifigli Edward, in modo che almeno unosopravvivesse per perpetuarne il nome.Poi arrivano le prime innovazioni tecni-che: la spoletta volante, 1733; il motorea vapore, 1795. William Lee inventa iltelaio meccanico e viene denunciato co -me fosse una trovata in malafede perprivare gli operai del pane. Ma la pro-duzione di massa intanto abbassa i prez -zi e la popolazione aumenta. “Nessunaarte ha cantato le grandi conquiste rag-giunte dall’uomo durante la rivoluzio-ne industriale”, sottolinea Rossellini. [...]Seguono discussioni su Adam Smith;Aquino e Lutero sull’interesse; la sinte-si medievale delle due città; l’orgogliomedievale contro l’avidità rinascimenta-le; le cause del nostro secolo di geno-cidi; la tendenza di ogni società a sta-bilizzare le proprie strutture attraversoviolenza ed educazione; il tentativo deimass media di consolidare le strutture

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Rossellini sta lavorando anche alla sce-neggiatura di un film sulla vita e sulpensiero di Karl Marx, cui dà il titolo diLavorare per l’umanità. Secondo le pa -role dello stesso Rossellini «questo eral’ideale di Karl Marx da quando era ra -gazzo. È un film che racconta dell’uo-mo, del suo ambiente, dei suoi amori,della sua vita (tra gli anni 1835 e 1848)ma racconta anche come “si diventa KarlMarx”. A questo film faranno seguito deiprogrammi televisivi che copriranno tut -to il resto della sua vita e del suo pen-siero».Il progetto rimase tale per l’improvvisamorte del regista, avvenuta il 3 giugnodello stesso anno. Curiosamente il filmvenne allora proposto proprio ai fratel-li Taviani, i quali però rifiutarono direalizzarlo. Di seguito riportiamo ampistralci della premessa al trattamento,pubblicata sulle pagine di «Paese Sera»un paio di giorni dopo la scomparsadel regista: «Il marxismo ha diviso ilmondo in due. Una parte di esso con-sidera Karl Marx la guida che condurràl’umanità verso un avvenire migliore;l’altra parte un demone, il nemico dellaciviltà. Gli uni lo considerano il genioed il campione del riscatto e della liber-tà; gli altri uno schiavista, un tirannoliberticida. Il mondo così si è diviso indue. Questa divisione fa proliferare odie violenze. Perché questa disgregazio-ne? Marx è considerato dai suoi avver-sari un eretico perché ha introdotto esviluppato una nuova visione del mon -do; una differente immagine d’assiemedella natura e dell’uomo con tutte lesue conseguenze. Questa nuova ideadel mondo è una “teoria” che implicaun’azione. Nella concezione, marxista,

Il progetto rimase però incompiuto. An -cora Gallagher ne spiega i motivi: «At -traverso la mediazione di Gian VittorioBaldi, la televisione canadese sembravaun sostenitore ideale per la Rivoluzioneindustriale. Baldi era un cineasta bolo-gnese con un forte indirizzo politico eun background nel documentarismotelevisivo. [...] Alla fine [nel 1965] riu -scirono a vendere L’età del ferro e astipulare un accordo produttivo per laRivoluzione industriale con Max Ca -pocardo, direttore del Canadian Broad -casting, e Pierre Juneau, che presiedevala sezione cinematografica del CBC;entrambi erano partner del NationalFilm Board di John Grierson e del suoprogramma documentario. Si incontra-rono tutti al Lac Quereau per firmare icontratti. [...] Ma i canadesi pretesero chela serie fosse diretta da Roberto in per-sona e non dal figlio Renzino, e Ro -berto allora esplose, strappò il contrattoe abbandonò l’incontro. Quella sarebbestata la fine della Rivoluzione indu-striale, anche se Roberto se ne sarebbepentito per il resto della sua vita» (TagGallagher, Les aventures de Roberto Ros -sellini, cit.).

KARL MARX (LAVORARE PER L’UMANITÀ)I primi mesi del 1977 sono mesi moltointensi per Roberto Rossellini: a Parigiesce per la Fayard il suo secondo libro,Un esprit libre ne doit rien apprendreen esclave; a maggio accetta con gran-de entusiasmo di presiedere la giuriadel Festival di Cannes, dove convincegli altri giurati a premiare un film diprovenienza televisiva, Padre padrone,diretto da Paolo e Vittorio Taviani. Ma

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tesca esplosione di violenza. Ma chipotrà o vorrà conoscere Marx si rende-rà conto se egli dice di fare la rivolu-zione per fare degli uomini oppure faredegli uomini per rivoluzionare tutto.Egli comunque sostiene che la lotta ri -voluzionaria presuppone che il proleta-riato cosciente di sé diventi una classecostituendo il suo proprio pensiero, isuoi gruppi di intellettuali, i suoi propri“valori”, i suoi propri “modelli cultura-li” per opporli a quelli della borghesia.Il comunismo, per Marx, non deve es -sere una generalizzazione ed una glori-ficazione della condizione proletaria,ma l’abolizione di questa condizioneperché la sua meta è appunto l’aboli-zione delle classi: “un’associazione incui il libero sviluppo di ciascuno è con-dizione del libero sviluppo di tutti” (DalManifesto del Partito Comunista). Altraespressione che terrorizza è “Dittaturadel proletariato”. Marx dice che la bor-ghesia con i suoi rapporti di produzionee commercio fa nascere una superstrut-tura giuridica e politica: uno Stato. Maogni Stato, qualunque siano le sue ap -parenze d’“indipendenza” di fronte alla“società” è sempre lo “Stato” della classedominante. Non c’è bisogno di arrivarealle esecuzioni capitali, ai campi di con -centramento, alle deportazioni; in real-tà la dittatura di una classe si può an -che realizzare con altre forme politiche:la repubblica, la democrazia borghesesono probabilmente anche le formemigliori di “dittatura della borghesia”.Allora per contrapporsi a questa ditta-tura, come mezzo di transizione si puòanche stabilire la dittatura del proleta-riato che Marx ha inteso – come si vedenei suoi scritti sulla Comune di Parigi –

del mondo l’azione si deve definire“razionalmente” e deve far nascere unnuovo programma politico. Marx hasuscitato scandalo ed ira così comealcuni secoli fa ha suscitato dissidio esdegno Galileo sostenendo e dimo-strando esatte le teorie copernicane chepiazzavano il Sole al centro di un grup-po di pianeti, uno dei quali, il nostro, laTerra, non si trovava più così al centrodell’Universo. Queste collere non sononuove nella storia degli uomini: ci sia -mo indignati e scandalizzati quando siè detto che la Terra non era piatta marotonda; quando il fisiologo Harvey harivoluzionato le leggi della circolazionedel sangue; quando abbiamo sposta-to la sede dei sentimenti dal cuore alcervello; e via dicendo. Le concezionimarxiste hanno esasperato moltissimima quel ch’è peggio hanno fatto preci-pitare moltissimi altri in speranze fanta-stiche. Ma queste intemperanze, comedice chiaramente Marx, non portanoalla salvezza ma possono determinarela perdita di tutti quelli che soffrono.[...] La confusione sulle idee di Marxtrova anche alimento negli eventi poli-tici già realizzati nel mondo da forzepolitiche con etichetta marxista. Cer -tamente lo erano ma come dice Marxstesso “i metodi attraverso i quali sioperano i cambiamenti saranno pro-fondamente differenti nei differentipaesi” (Discorso di Amsterdam, 8 set-tembre 1872). [...] Ma nella pratica quo-tidiana sappiamo che la maggiore con-fusione sul marxismo deriva dal signifi-cato che si dà a certe parole. Una diqueste è “la rivoluzione”. Comunemen -te le si dà il significato stereotipato dicolpo che frantuma tutto in una gigan-

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«Perché l’età del ferro? Perché la nostraetà storica è chiamata L’età del ferro.Era veramente una delle prime cose datoccare, no? Se bisogna cominciare ascrivere l’alfabeto, bisogna cominciarea stabilire quali sono le vocali. QuindiL’età del ferro può stabilire quali sonole vocali, poi si proseguirà. Sono pro-grammi che bisognerebbe svilupparecon metodo molto rigoroso, per avereanche efficacia pedagogica, per avereun valore educativo. Io mi sono fattoun certo schema, che poi risponde mol -to più all’itinerario delle mie scoperte.Siccome questo itinerario è servito aordinare una parte delle mie idee, beh,come è servito a me può servire ad al -tri. Ecco il sistema pedagogico che iouso. Non mi metto al di fuori per anda-re a pensarlo in modo astratto. No, ri -peto le esperienze che io ho passato.[...] Io sfuggo sempre dalle idee pre-concette. Non è che io mi prefiggo unostile. No, bisogna adottare tutto quelloche può essere più utile per raggiunge-re lo scopo. Quindi si salta, si passa dapezzi di repertorio a storie ricostruite. [...] Il quinto episodio è il tentativo difinire con un discorso poetico su ciòche è questa nostra civiltà fatta di mac-chine, di ferro, di acciaio. C’è moltaroba girata da noi ma anche molta robadi repertorio. Sa, quando lei si docu-menta, si documenta in tutte le manie-re. Se esiste un materiale che la illumi-na e le offre una possibilità di impiego,lo riadopera, no? [...] Quello che appartiene alla storia è di -ventato semplice, dominabile. Il mondoin cui viviamo non lo dominiamo, lo sivede tutti i giorni. E invece dobbiamoarrivare a dominarlo. L’idea di progres-

come la massima espansione della de -mocrazia. È importante comunque, perarrivare alla meta dell’abolizione delleclassi, che il proletariato, quando avràcostituito il suo proprio pensiero, di ven -ti egemone. Nell’ambito delle operazio-ni di informazione e di educazione (dipromozione a pensare) che perseguoda 15 anni, avvalendomi del cinema edella televisione, penso sia giunto iltempo di occuparmi di Karl Marx. Nonper propagandarlo ma per farlo cono-scere (così com’è obiettivamente) allemasse che si fronteggiano perché sonopro o contro di lui» («Paese Sera», 5 giu-gno 1977).

L’ETÀ DEL FERRO

Regia: Renzo Rossellini jr.; soggetto, su -pervisione: Roberto Rossellini; sceneg-giatura: R. Rossellini, Marcella Mariani;fotografia: Carlo Carlini; montaggio:Da niele Alabiso; scenografia: Gepy Ma -riani;musica: Carmine Rizzo; interpreti:Evaristo Maran, Francesca Bartolomei,Walter Zappolini, Alberto Barberito,Pasquale Campagnola, Walter Maestosi,Osvaldo Ruggieri, Giulio Biagini, Ar -noldo Dominici, Giovanni Giannotti,Alessandro Lombardi, Evaldo Mancuso,Giancarlo Sbragia (voce narrante); pro-duzione: Tullio Kezich e Alberto Sof -fientini per 22 dicembre/Istituto Luce/Italsider/RAI; origine: Italia, 1965; for-mato: 35mm, b/n; durata: 277’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

Trasmesso sul Secondo Canale, in cin-que puntate, il 19 e 26 febbraio e 5, 12e 19 marzo 1965.

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problematica l’attuazione. [...] Con An -no uno Rossellini riprende il filo di undiscorso interrotto molti anni fa conRoma città aperta e Paisà. Un filo chesi riannoda agli stessi atti di allora: laguerra, l’occupazione tedesca, le soffe-renze del popolo italiano, la sua digni-tà e tenacia, la Resistenza, l’unità anti-fascista, la speranza in un domani mi -gliore. Anzi alcune sequenze di Announo, come quelle di una Roma tetra espettrale, livida di paura e di sgomento,o come quella delle vittime del bom-bardamento estratte dalle macerie, oancora come quella dell’arrivo degliamericani a Roma, sembrano pagineuscite direttamente dal Rossellini delneorealismo. Rossellini torna dunque aispirarsi al nostro passato prossimo, allastoria più recente e ancora viva, forsetroppo viva nel ricordo di ciascuno dinoi. E questo probabilmente è il moti-vo di un certo “rifiuto” dimostrato neiconfronti del film. Un rifiuto che nascedal preconcetto, dall’incapacità di spo-gliarci di tutte le stratificazioni sedi-mentate nella nostra memoria, di tuttele passioni e di tutte le emozioni. Evi -dentemente siamo ancora troppo im -mersi nella nostra storia recente peraccettare di riviverla con i criteri pro-posti da Rossellini: gli stessi criteri dellastoria riscritta con il linguaggio dellacronaca che invece ci avevano fattoaccettare pienamente La presa del pote-re da parte di Luigi XIV. Il fatto è cheper La presa del potere da parte di LuigiXIV, così come per Blaise Pascal e perL’età di Cosimo, non avevamo bisognodi entrare nella camera di decompres-sione in quanto ci accostavamo a perio-di storici a noi completamente estranei.

so in fondo è poco diffusa: chi denun-cia, per es., si pone in una posizione re -triva. Le immagini del quinto episodiodel resto non sono mai né celebrativené illustrative. Nell’ultima inquadraturasi vedono soltanto degli uomini chepossono stare insieme, non c’è più diquesto. È un dato di fatto, verificabilenella realtà. Si tratta di gente che tornadal lavoro e ognuno se ne va a casapropria, non si mettono mica a cantarecanzonette in coro. Questa è la realtà».

Roberto Rossellini in Adriano Aprà,Maurizio Ponzi (a cura di), Intervista

con Rossellini, «Filmcritica», n. 156-157,aprile-maggio 1965

ANNO UNO

Regia: Roberto Rossellini; sceneggiatu-ra: Marcella Mariani, R. Rossellini; fo to -grafia: Mario Montuori; montaggio: Jo -landa Benvenuti; scenografia: Giusep peMangano; musica: Mario Nascim bene;interpreti: Luigi Vannucchi, DominiqueDarel, Rita Calderoni, Valeria Sabel,Gianni Rizzo, Carlo Bagno, Tino Bian -chi, Paolo Bonacelli, Carlos De Car -valho, Camillo Milli, Nicola Morelli,Stavros Tornes, Omero Antonutti; pro-duzione: Rusconi; origine: Italia, 1974;formato: 35mm, col; durata: 123’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Nel ventesimo anniversario della morteDe Gasperi torna di moda. Certamenteper obbligo e per convenienza rievoca-tiva, ma anche perché con tutta proba-bilità è arrivato il momento di riscrive-re la storia sfrondata da tutte le passio-ni che ancora fino a poco tempo fa nerendevano impossibile o per lo meno

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no dei nostri emigrati alla fine del seco-lo è una assoluta novità per il nostrocinema, che non era uscito finora dal-l’ambiente italiano ben sapendo la dif-ficoltà che implica un tale tentativo.L’opera è tutta pervasa di un tono com-mosso e sincero che prende dalleprime scene dell’imbarco fino allamorte del figlio di Casati, volontarioalla grande guerra. Alcune scene comequelle del tabarin dove Maria (IsaMiranda) tremante e smarrita canta perguadagnarsi la vita dopo la morte delpadre, o come quella brevissima chesintetizza la morte del volontario conun elmetto che cade dopo la scarica diuna mitragliatrice, sono di una forzache commuove e fa ammirare. [...] Laregia di Brignone benché si valga trop-pe volte di dissolvenze incrociate spes-so inutili e inespressive e riveli qualcheaccento pabstiano e conwayano è sem-pre di tono nobilissimo e riesce a fon-dere armonicamente tutti gli attori. Fraquesti eccelle la Miranda che ha mo -menti di una intensa espressività spe-cialmente nelle scene di dolore e checon questa interpretazione si pone inprimissimo piano fra le pochissime at -trici italiane».

Alberto Lattuada, Festival veneziano del cinema (II), «Libro e Moschetto»,

31 agosto 1935

OPERAZIONE RICCHEZZA

Regia, sceneggiatura, montaggio: Gual -tiero Jacopetti; fotografia: GianfrancoFormichi Moglia; musica: Bruno Am -brosi De Magistris; voce narrante: Ser -gio Rossi; produzione: Benvenuto Bar -

Anzi, in quei casi la cronaca ci facilita-va la conoscenza del personaggio, cifamiliarizzava con l’epoca in questione.La stessa cosa vale anche per Anno uno,dove la cronaca offre anche la lineadello stile: uno stile scarno, asciutto, se -vero, addirittura anonimo e uniforme inapparenza, proprio come la cronacasbrigativa dei quotidiani. Uno stile cherifiuta le convenzioni spettacolari, imeccanismi narrativi, le concatenazionidrammatiche, per un linguaggio che aprima vista può sembrare sciatto esmorto, ma che in realtà è un invito ariflettere, a meditare, a seguire critica-mente il discorso invece di lasciarsifuorviare dagli artifici dello spettacolo».

Gian Paolo Cresci, In difesa di Rossellinidopo le polemiche di “Anno uno”, «La Discussione», 9 dicembre 1974

PASSAPORTO ROSSO

Regia: Guido Brignone; sceneggiatura:Gian Gaspare Napolitano, Ivo Perilli;fotografia: Ubaldo Arata; montaggio:Giuseppe Fatigati; scenografia: GuidoFiorini; musica: Emilio Gragnani; inter-preti: Isa Miranda, Tina Lattanzi, OlgaPescatori, Filippo Scelzo, Ugo Ceseri,Mario Ferrari, Mario Pisu; produzione:Titanus; origine: Italia, 1935; formato:35mm, b/n; durata: 92’.Copia 35mm della Cineteca Nazionale.

«L’altra grande affermazione dell’Italia èPassaporto rosso [...], un bel film cherivela tutta una accurata preparazionetecnica e artistica all’altezza dellemigliori produzioni straniere. La tramache si svolge nell’ambiente sudamerica-

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«Tra coloro che dopo una forte base dipreparazione cinematografica svolta inprecedenza si accostano per la primavolta nella prova impegnativa dellaregia è Giorgio Bianchi, che attualmen-te si accinge nella trasposizione cine-matografica della nota e popolare com-media di Dario Niccodemi La mae -strina. Eravamo a colloquio con luipochi giorni or sono nel teatro n. 8 diCinecittà durante una pausa della lavo-razione [...]. Come egli stesso ci ha con-fessato, il suo esordio nasce sottobuona fortuna: nella trama della bellacommedia di Niccodemi da realizzareper il cinematografo egli ha trovato glielementi più rispondenti alla sua perso-nalità per quell’umanità, quel sentimen-to, quella forza drammatica che sonoinsiti nella commedia. [...] Innanzi tuttoquel che conta nel cinema è ciò che intermine abituale, a volte anche troppoabusato, chiamasi atmosfera e la preoc-cupazione maggiore, ci diceva GiorgioBianchi, è stata per lui di trovare l’am-biente adatto per lo svolgimento dellavicenda e il più idoneo a creare una piùspiccata emotività. In quanto alla loca-lità, dopo frequenti sopralluoghi nei piùcaratteristici paesi d’Italia, la scelta si èfermata su Orta, la cittadina dell’AltaItalia a specchio del suo placido lago,la quale più si prestava, nelle sue ordi-nate vie, nelle sue aperte piazzette, nelsuo aspetto di lindore, ad ospitare laumile candida e drammatica storia dellapiccola maestrina, ingannata e traditanella sua ingenuità, che cova nel pettol’appassionato amore di madre per labimba creduta morta e che ritrova inve-ce dopo tante vicissitudini [...]. Per unamaggiore aderenza alla vita psicologica

dei personaggi, si è pensato di trasferi-re la vicenda verso l’epoca del 1910,acquistando così il film un tono di colo-re che lo renderà anche più suggestivo.[...] Nel congedarci alla fine del nostrocolloquio, abbiamo voluto domandarea questo giovane regista se avesse giàdei progetti per altri film. Per lui havoluto rispondere il produttore Genesi,assicurandoci che egli ha già deciso diaffidare a Bianchi la realizzazione diun’altra commedia dello stesso Nicco -demi, La nemica».

Pifferi-Anzaldi, A colloquio con un nuovo regista. Giorgio Bianchi, «Cine Magazzino», 11 giugno 1942

LA STRADA DEI GIGANTI

Regia, soggetto: Guido Malatesta; sce-neggiatura: Arpad De Riso, G. Malate -sta; fotografia: Enzo Serafin; montag-gio: Gino Talamo; scenografia: SaverioD’Eugenio; musica: Guido Robuschi,Gian Stellari; interpreti: Don Megowan,Chelo Alonso, Hildegard Knef, Ivo Gar -rani, Dario Michaelis, Nerio Bernardi,Paul Müller, Amedeo Trilli, Alfio Cal-ta biano; produzione: Tiberius; origine:Italia, 1960; formato: 35mm, col; dura-ta: 100’.Copia 35mm da Archivio Storico del Ci -nema Italiano.

Il giudizio sul film secondo la revisionepreventiva del Ministero del Turismo edello Spettacolo, 11 dicembre 1959: «Illavoro – ambientato nel 1859 fra le AlpiApuane – è sviluppato attorno alla co -struzione della ferrovia locale che, perragioni strategiche, è fortemente osta-

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santi, Franco Biocchi, Carlo Kowalski;origine: Italia/Venezuela, 1983[-2009];formato: 35mm, col; durata: 74’.Copia DigiBeta (restauro da materialiinediti 35mm dell'autore) da Cinetecadi Bologna.

Girato nel 1983, il film è rimasto ineditofino al 2009, quando è stato recuperatoe restaurato da Cineteca di Bologna eNero Magazine.

«Il progetto affonda le radici addiritturanel dopoguerra, quando ci si arrangia-va per raggranellare un po’ di soldi eritrovare il proprio posto di lavoro. AViareggio, dove ho vissuto per un certoperiodo della mia vita, c’era una fami-glia, i Barsanti, che costruiva barche dapesca recuperando pezzi di lamieradagli aeroplani caduti in guerra. Poi siimbarcavano e andavano a venderle inVenezuela. Allora lavoravo per il “Cor -riere della Sera” e proposi al direttore diimbarcarmi con loro per realizzare unreportage. Fu un’avventura incredibile:si mangiava carne di delfino – imman-giabile, vi assicuro – perché non c’eraaltro, e alle Canarie raccogliemmo deiprofughi del regime di Franco e li im -barcammo con noi in cambio di lavoro.La traversata durò 27 giorni. Tornato inItalia, vendetti il pezzo e pensai che l’e-popea fosse finita lì. Dopo 50 anni miarriva invece una telefonata dall’inge-gner Barsanti senior, che con tonosevero mi dice: “lei ha cominciato, leideve finire. Sto morendo, ma ho fattotanti miliardi e voglio lasciare un segnodi me”. [...] Ai tempi l’azienda stavacostruendo la seconda diga più impor-tante dell’Orinoco. Era un lavoro im -

pressionante, ma tutto tecnica. Non sa -pevo come approcciare l’argomento...[...] Sono andato alle origini del fiume,che inizia con una cascata che vienegiù da una zona inesplorabile. Grazieall’influenza di Barsanti sull’esercito lo -cale siamo riusciti a salire sul passo conun elicottero speciale, e ci abbiamo tro-vato i resti del velivolo di Angel, unpilota americano che si era schiantatosul colmo della cascata. Lì ho capito chec’era materiale per un film. Un’operaindustriale ma soprattutto una storia sulfiume e sui suoi personaggi, come i cer -catori d’oro che ho incontrato. Vivonoin maniera improbabile, trovando ognitanto una pietra e componendo poesie.Molti sono italiani. Io questo film l’hovisto solo una volta per il controllo del -la copia alla Technicolor. Non mi ricor-do assolutamente il mio giu dizio».

Gualtiero Jacopetti in Andrea Guglielmino, Gualtiero Jacopetti: cane sciolto in un mondo cane,

«Cinecittà News», 25 novembre 2009

LA MAESTRINA

Regia: Giorgio Bianchi; soggetto: dallacommedia di Dario Niccodemi; sceneg-giatura: Augusto Mazzetti, G. Bianchi;fotografia: Mario Craveri; montaggio:Mario Bonotti; scenografia: Ottavio Scot -ti, Liub Christoff; musica: AlessandroCicognini; interpreti: Maria Denis, NinoBesozzi, Virgilio Riento, Elvira Betrone,Clara Auteri, Angela Lavagna, AmaliaBeretta, Umberto Sacripante, AnnibaleBetrone; produzione: Nembo Film; ori-gine: Italia, 1942; formato: 35mm, b/n;durata: 89’.Copia 35mm della Cineteca Nazionale.

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scrive il primo commento per il cine-ma: nell’Incontro con la Olivetti (1950),diretto da Giorgio Ferroni, descrive una“fabbrica-mondo” che sconfina daglistabilimenti per disegnare, attraverso iservizi e le strutture aziendali, tuttaIvrea, modellandone i rapporti sociali.Nell’ar co di una giornata di lavoro –dall’ingresso all’uscita di fabbrica – siripercorrono le fasi della produzione:progettazione, disegno, attrezzaggio,fonderia, montaggio, assemblaggio; se -guendo gli operai e i loro familiari inmensa, in biblioteca, nei parchi giochiper i bambini fino nel convalescenzia-rio aziendale».

Sergio Toffetti, Fortini e il cinema, nel programma della retrospettiva

Franco Fortini, storie di cinema tra lavoroe impresa, Torino, 16-17 novembre 2010

SCIOPERI A TORINORegia, fotografia, montaggio: Carla ePaolo Gobetti; commento: Franco For -tini; musica: Sergio Liberovici; voci: Li -no Biancolini, Iginio Bonazzi, AngiolinaQuinterno; produzione: Il Nuovo Spet -tatore Cinematografico; origine: Italia,1962; formato: 16mm, b/n; durata: 35’.Copia 16mm da Archivio Nazionale Ci -nematografico della Resistenza.

«Il breve documentario di Paolo e Car -la Gobetti sugli scioperi milanesi dellaLancia e della Michelin ha anch’essouna tesi: come esistesse a Torino unpotenziale di lotta operaia dai sindacatinon interpretato o interpretato solo inparte. Scritto dopo la straordinaria con-ferma offerta dallo sciopero FIAT delluglio 1962, il commento si era propo-

sto anche di suggerire i pericoli di invo-luzione e di collaborazione impliciti inogni lotta sindacale del nostro tempoquando la si voglia depurata da finalitàpolitiche; rammentare che il potere enon il contratto è il fine della lotta ope-raia; che “azienda di stato non vuol direazienda socialista” (parve allora a talu-no che avessi detto una mostruosa ere-sia estremista); e che d’altra parte è inu-tile che gli operai pensino di fare ameno dei loro sindacati se non hannonulla che li sostituisca. Occorre dire cheil film e il testo non ebbero, nella sini-stra ufficiale, buona stampa? Ma glioperai che l’han visto, hanno capito.Era stato scritto per loro; e quindi – perquanti siano i suoi difetti, e so che nonsono pochi – non sarà stato del tuttoinutile».Franco Fortini, Tre testi per film. “All’armisiam fascisti” (1961), “Scioperi a Torino”

(1962), “La statua di Stalin” (1963),Avanti, Milano, 1963

LE REGOLE DEL GIOCO

Regia: Massimo Magrì; soggetto: Ric -cardo Felicioli, Michele Pacifico; com-mento: Franco Fortini; fotografia: Vitto -rio Storaro; montaggio: Franco Gaieni;musica: Evasio Roncarati; produzione:Politecne per Olivetti; origine: Italia,1968; formato: 35mm, col; durata: 17’.Copia BetaSP (da 35mm) da ArchivioNazionale Cinema d’Impresa.

«Le regole del gioco di Massimo Magrì èinvece uno dei film “ideologici” tipicidella produzione Olivetti, che nonserve a pubblicizzare un prodotto, masintetizza una visione del rapporto tra

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colata dagli Austriaci in previsione dellaguerra col Piemonte. In questa cornicepolitica si snoda la vicenda che, oltre araffigurare la solita contrastata vicendasentimentale, punta su quella descrizio-ne avventurosa e drammatica di avve-nimenti – a base di sabotaggi, ribellionie lotte più o meno aperte – che hannofatto la fortuna di certi film americani asfondo pionieristico. Si può anzi direche questa iniziativa si presenti comeun tentativo di creare, nel nostro am -biente storico, un film che ricalchi leformule di quei film, ambientati per lopiù all’epoca della guerra di secessione.La sceneggiatura è costruita con unacerta intelligenza e non dovrebbe man-care ai preventivati risultati spettacola-ri, anche se forse – in sede artistica – latematica troppo simile a quella deiwestern nuoce a una più calibrata erispondente ricostruzione ambientale.Elemento positivo è la totale assenza dimotivi censurabili».

SOPRAELEVATA. UNA STRADA D’AC-CIAIO

Regia: Valentino Orsini, Lionello Mas-so brio; commento: Franco Fortini; foto-grafia: Erico Menczer, Gerardo Patrizi,Mario Volpi; produzione: RPR/CMF; ori -gine: Italia, 1965; formato: 35mm, col;durata: 19’.Copia BetaSP (da 35mm) da Fondazio -ne Ansaldo.

«Una strada d’acciaio è anche il lavoroche lascia avvertire con più chiarezza,nonostante l’apparente distanza dai te -mi più consueti della poesia fortiniana,

il proprio legame con i versi dell’autore.Il testo è organizzato per brevi blocchie propone, con un suo réfrain interno,una sorta di grande ballata me trica: allastruttura di acciaio e cemento che vienesvolgendosi sotto i nostri oc chi comeun paradosso fatto di pesantezza evelocità, aria e materia, corrisponde ladimensione del “discorso” le cui singo-le parti si dispongono dinamicamentein vista di un fine che ne compie il pro-getto: “Spazi ordinati, spazi mobili, ariada attraversare, da ordinare, da percor-rere, in blocchi, frazioni, frammenti,luci, lampi”. Si avverte nel rapporto tradecostruzione “sintattica” e costruzionearchitettonica, segmento o sintagma einsieme del discorso, anche l’eco di unluogo concettuale e poetico di primopiano nell’opera fortiniana, quello indi-cato dalla coppia Ordine/Disordine (siveda Questo muro); quasi una “firma”che suggerisce un approccio dialetticoal motivo del Progresso, perciò propriodell’oggetto del discorso ma ancheemblematico per gli anni del “boom”».

Luca Lenzini, Fortini e il cinema, «L’Ospite Ingrato», 16 dicembre 2010

INCONTRO CON LA OLIVETTI

Regia: Giorgio Ferroni; commento: Fran -co Fortini; fotografia: Giuseppe La Tor -re; musica: Virgilio Chiti; produzione:Olivetti; origine: Italia, 1950; formato:16mm, b/n; durata: 23’.Copia BetaSP (da 16mm) da ArchivioNazionale Cinema d’Impresa.

«Negli anni in cui è impiegato pressol’ufficio pubblicità dell’Olivetti, Fortini

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zione olivettiani, una scrittura ritmata,ricca di contrasti, di colori e con unaandatura che mima il montaggio deipezzi meccanici in linea che scorrononelle immagini. Si provino a rileggerecerte pagine, mettendole a confrontocon i testi pubblicitari dell’epoca, e sivedrà la differenza tra i due».

Oddone Camerana, Fortini, poeta a trazione anteriore,

«La Stampa», 16 novembre 2010

I FIDANZATIRegia, sceneggiatura: Ermanno Olmi;fotografia: Lamberto Caimi; montaggio:Carla Colombo; scenografia: EttoreLombardi; musica: Gianni Ferrio; inter-preti: Carlo Cabrini, Anna Canzi; pro-duzione: Goffredo Lombardo e TullioKezich per Titanus Sicilia/22 dicembre;origine: Italia, 1963; formato: 35mm,b/n; durata: 77’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

Trama del film trasmessa al Ministerodel Turismo e dello Spettacolo, 10 ago-sto 1962: «Queste righe che seguirannosono solamente un’indicazione dell’ideao meglio delle intenzioni che ci anime-ranno durante il nostro viaggio in Si -cilia. Non faremo comunque un film diviaggi. C’è un personaggio, Giovanni, elui sarà il motivo del nostro discorso.Lo seguiremo da vicino cercando divedere e raccontare le sue scoperte, lesue malinconie, le sue conquiste. E ditutto quello che incontrerà, quanto glipotrà servire lasciando dentro di luiuna traccia e quanto invece gli passeràvicino senza che lui se ne accorga. Ma

non sarà neppure un film inchiesta poi-ché non limiteremo a una segnalazionediligente della realtà che riterremo inte-ressante per noi, cercheremo soprattut-to di partecipare con Giovanni a questarealtà, attraverso le sue emozioni, i suoiricordi, il riaffiorare di certi suoi senti-menti e affetti e che pian piano torna ascoprire. Chi è Giovanni? Per ora nesappiamo ben poco: per lo più i suoicontorni fisici. È un operaio di estrazio-ne operaia: c’è ormai una razza conuna precisa eredità. Ha trentasei trenta-sette anni, e una fidanzata da quando èfinita la guerra e tornò dalla Greciadove era prigioniero. Fidanzata: la suadonna. Poi il padre, vecchio e in pen-sione. La madre morì qualche annoprima: si sentì male per la strada e laportarono a casa che era già spirata.Giovanni è uno dei tanti. Se lo mesco-lassimo a una folla anonima non losapremmo riconoscere. E così s’intendela sua intelligenza: come tanti. Si usadire “normale”. Gli propongono un tra-sferimento in Sicilia per quattro anni.Lo passeranno specializzato e questa èla massima aspirazione per un opera-io: diventare “specializzato”. Il film do -vrebbe cominciare durante il ballo inuna sala periferica. Si sta ballando “illiscio” che è un modo di ballare all’am-brosiana, con una grazia popolare checonferisce ai ballerini una certa elegan-za. Durante questo ballo alcune imma-gini inserite ci diranno chi è Giovanni,come lavora, Liliana e la sua ragazza etutta la premessa del racconto. Finito ilballo un aereo porterà Giovanni inSicilia. Prima una Sicilia industriale chesembra ancora Milano ma più caotica econvulsa e ancora pionieristica, poi la

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tecnologia e sviluppo. L’incipit riaffer-ma la fiducia nella capacità dell’uomodi stringere il futuro nelle proprie manie rifiuta ogni tentazione di arcadicafuga dalla modernità: “Dicono che affo-gheremo nella carta straccia [...], diconoche il profumo del carburante ha con-dannato l’odore di qualunque erba [...].Da trent’anni ci spiegano che la corsa alconsumo consuma ogni specie di cor -sa, che in fondo ai corridoi del super-mercato c’è un Minotauro a premi, chedal jet scendono con noi sopra e sotto-sviluppo, passato e futuro [...]. Ma aimali del presente si rimedia solo conun po’ più di presente. Le macchinevinceranno le macchine. Ecco tutto”».

Sergio Toffetti, Fortini e il cinema, cit.

DIVISIONE CONTROLLO NUMERICO

Regia: Aristide Bosio; commento: Fran -co Fortini; fotografia: Carlo Ventimiglia;musica: Piergiorgio Bosio; produzione:Olivetti; origine: Italia, 1968; formato:35mm, col; durata: 9’.Copia BetaSP (da 16mm) da ArchivioNazionale Cinema d’Impresa.

Filmato promozionale sulle macchineAuctor prodotte dalla Divisione Con -trollo Numerico della Olivetti nello sta-bilimento di San Bernardo d’Ivrea.

PROGETTO N. 128Regia: Valentino Orsini; commento:Franco Fortini (non accreditato); foto-grafia: Giuseppe Pinori, Claudio Ster -pone; montaggio: Osvaldo Marini; mu -sica: Benedetto Ghiglia; produzione:

CineFiat; origine: Italia, 1969; formato:35mm, col; durata: 28’.Copia 35mm da Archivio Nazionale Ci -nema d’Impresa.

«Torniamo indietro di una quarantina dianni e siamo nel 1969, anno importanteper la FIAT, Torino e i suoi stabilimentidi produzione, perché veniva lanciatala 128, nuova berlina 1100, categoriacen trale della gamma FIAT. [...] Si trat-tava di documentare la nascita di unprodotto mettendone in evidenza lequalità inedite prima che queste fosse-ro riconosciute dal pubblico. Un lavorodi documentazione, dunque, e non unospot pubblicitario. Compito difficile chenecessitava di un buon soggetto e di unbuon testo di supporto. Di qui la sceltada parte di Orsini di una personalitàdella cultura e della comunicazione co -me Franco Fortini, collaboratore dell’uf-ficio pubblicità della Olivetti. Sono pas-sati quarant’anni da questo episodio eoggi nel ricordarlo in occasione dellarivisitazione dei lavori di Fortini si tornaa parlare del fatto che quest’ultimo noncompare tra gli autori del documentariosulla 128, come se questa assenza fossedovuta a una sua volontà politica. Ilfatto è che, in quanto collaboratore del -la Olivetti, Fortini non se la sentiva diapparire come autore in un film com-missionato da un’altra industria dell’im-portanza della FIAT, quasi si trattasse diun conflitto di interessi. [...] I testi di Fortini sono un esempio discrittura ora descrittiva, ora evocativa,sempre sapiente, qua e là ammonitoriae profetica, incalzante, una scrittura cheriproduce l’esattezza delle inimitabilipagine dei manuali di uso e manuten-

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livelli, due temi. Quello principale eprivilegiato è l’incontro tra Nord e Sudcon tutti i contrasti di psicologia, usi ecostumi che implica; gli è subordinato,ma complementare, quello delle condi-zioni di lavoro in fabbrica. L’epilogo(melo)drammatico − ma che da Comen -cini è limato e assottigliato tanto da di -ventare quasi simbolico − sembra ed èla conseguenza del tema complemen -tare, ma, in una certa misura, derivaanche da quello principale. Delitto d’a-more è uno strano, ibrido film che re -spinge e avvince tanto riesce ora scon-tato, ora imprevedibile, ma soltanto unospettatore distratto e superficiale po -trebbe classificarlo con una “love story”proletaria sulla scia di Una breve va -canza di De Sica. Il primo impulso è disentenziare che quel che ha di positi-vo è merito della regia di Comencini,mentre il negativo è da addebitarsi aUgo Pirro sceneggiatore. Se ci si passala metafora enologica, diremmo che lanarrativa di Pirro fa pensare a certi vi-ni del Meridione di alto tasso alcolico,corposi e pesanti che danno alla testa,tagliano le gambe e rendono difficile ladigestione. Vini che hanno bisogno diessere “tagliati”, alleggeriti. È l’operazio -ne che ha fatto, riuscendovi soltanto inparte, Comencini».

Morando Morandini, Fabbrica d’amore e di delitto, «Tempo», 19 aprile 1974

I PROSSENETIRegia, sceneggiatura: Brunello Rondi;fotografia: Gastone Di Giovanni; mon-taggio: Marcello Malvestito; scenogra-fia: Elio Micheli; musica: Luis Enríquez

scoperta di un nuovo mondo e così via.Questo per ora è tutto. Sappiamo che èmolto poco, ma del resto non si puòdire di più di un film che “troveremo”pian piano lungo la strada».

DELITTO D’AMORERegia: Luigi Comencini; soggetto: UgoPirro; sceneggiatura: U. Pirro, L. Co -mencini; fotografia: Luigi Kuveiller;montaggio: Nino Baragli; scenografia:Dante Ferretti; musica: Carlo Rustichel -li; interpreti: Giuliano Gemma, StefaniaSandrelli, Brizio Montinaro, RenatoScarpa, Cesira Abbiati, Rina Franchetti,Emilio Bonucci, Antonio Iodice, PippoStarnazza, Walter Pinetti Valdi, BrunoCattaneo, Torquato Tessarini, MarisaRosales, Luigi Antonio Guerra, CarlaMancini; produzione: Gianni HechtLucari per Documento Film; origine:Italia, 1974; formato: 35mm, col; dura-ta: 102’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Il titolo dell’ultimo film di Luigi Co -mencini è, al tempo stesso, ironico epolemico. Delitto d’amore è quello checommette l’operaio milanese Nullodopo aver sposato “in articulo mortis”l’operaia siciliana Carmela: durante unosciopero di protesta contro le condizio-ni ambientali che hanno provocato lamorte della ragazza, Nullo si presentaai cancelli della fabbrica e spara alpadrone. È la scena che, con un tipicoprocedimento narrativo a modo diclausola, apre e chiude il film. Delittod’amore è una storia d’amore di am -biente operaio che sviluppa, a diversi

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il cast femminile non è da meno:Juliette Mayniel, Stefania Casini, SilviaDionisio, Consuelo Ferrara, SonjaJeanine, Ilona Staller, Gabriella Lepori,con piccoli ruoli di Sofia Dionisio eMarina Pierro. [...] Certe parole nel filmsembrano riassumere le ragioni negati-ve che gravano su tutto il cinema del-l’autore proprio perché sono dette dapersonaggi negativi e relativizzate conessi (“la donna va punita perché è lamediatrice tra noi e le forze diabolichedell’universo”, ed eccovi esplicitato Ildemonio), e quando Cuny, poco dopoaver evocato a Juliette Mayniel l’“infer-no” in cui vissero da poveri si lasciasfuggire un “la vita è un paradiso”, al-lora sentiamo che le frequentazioniprogressiste dell’intellettuale cattolicoRondi non furono tatticismi ma esigen-ze di sguardo sugli esseri. E quando ladebole Ferrara nel finale torna adobbedire ai padroni, il finale perdentedel film è tutt’altro che cinico e rinun-ciatario. Non è più la libertà possibile diPrigione di donne perché tutto il cine-ma di Rondi convive con ritorni di ti -rannia e di morte».

Sergio Grmek Germani, Esistenza delladonna e relazione del cinema, in Stefania

Parigi, Alberto Pezzotta (a cura di), Il lungo respiro di Brunello Rondi, Edizioni

Sabinae, Cantalupo in Sabina (RI), 2010

LA FOLLIA DI ALMAYERLA FOLIE ALMAYER

Regia: Vittorio Cottafavi; soggetto: dalromanzo di Joseph Conrad; sceneggia-tura: Louis Guilloux, Jean-Dominiquede la Rochefoucauld; fotografia: DenysClerval; montaggio: Roberto Albertazzi,

Bacalov; interpreti: Stefania Casini, AlainCuny, Juliette Mayniel, Silvia Dionisio,José Quaglio, Luciano Salce, IlonaStaller (voce Serena Verdirosi), JeanValmont, Consuelo Ferrara, Sonja Jea -nine, Gabriella Lepori, Sofia Dionisio,Marina Pierro; produzione: Helvetia;origine: Italia, 1976; formato: 35mm,col; durata: 101’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

«Il successivo I prosseneti non mantienela stessa tensione [di Prigione di don -ne], ma acquista una dispersione che lorende unico, sia nell’opera dell’autoreche più in generale nel cinema italiano.Forse è anche il primo film di Rondi,dopo quello d’esordio, in cui i perso-naggi femminili e quelli maschili sonougualmente interessanti: certo soprat-tutto per merito di Alain Cuny (di cui cisi dimentica la derivazione da La dolcevita); di un Salce davvero impagabilenel recitare La follia di Almayer (filmdunque da riproiettare insieme al Cot -tafavi) e interpretante un regista teatra-le che, ironizzando sia su se stesso chesu Brunello, instaura graduatorie conDe Lullo, Enriquez, Albertazzi, Bolchi eMolinari, in un felice delirio paratelevi-sivo; del José Quaglio tornante da Letue mani; di Jean Valmont che in unafigura di militare torturatore sembraanticipare pari pari un capolavoro del-l’eccesso come Gloria mundi (Tortura)di Papatakis (e nella sua affabulazionesulle fedine rese falsamente pulite sem-bra risolversi anche la frequentazionedelle oscurità semerariche, con estre-mismo anche superiore all’inclusioneesoterica di un “Espresso” dedicato aValpreda in Valeria dentro e fuori). Ma

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Isole dai mille occhiRéunion des amours, II.

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Jean-Yves Rousseau; scenografia: Jac -ques D’Ovidio; musica: Francois DeRoubaux; interpreti: Giorgio Alberazzi,Rosemarie Dexter, Paul Barge, AndreaAu reli, Abder Berkani, Laurence Bour -dil, Raymond Loyer, Annie Kerani, Gian -ni Rizzo; produzione: RAI/ORTF/ZDF/Telecip; origine: Francia/Italia/RFT,1972; formato: 16mm, col; durata: 92’.Copia BetaSP (da 16mm) da Fuoriorario.

«Più che sui rapporti del protagonistacon i suoi “persecutori” della marina econ i rivali indonesiani, il film prefe-risce soffermarsi sulla sua esitazionetra la ricerca di un tesoro e il desideriodi tornare in Europa con la figlia me-ticcia. Il contrasto razziale è contem-plato principalmente dal punto di vistadel conflitto affettivo risultante, quandola ragazza s’innamora di un principemalese. La narrazione, agilmente artico-lata intorno a un flashback, privilegia(come sempre in Cottafavi) i momentiforti. Onde un inizio sorprendente (iltentativo di fuga della moglie, storditada Almayer e riportata a riva dopo chelei si è buttata in acqua) e una ricchez-za di idee sui personaggi femminili (lamano inanellata del principe che all’ini-zio appare alla ragazza nascosta dietrouna tenda, la massa di capelli che na -sconde il loro bacio, la scena in cui leisi veste “all’orientale” su perfido con -siglio della madre). Giorgio Albertazzi èall’altezza del ruolo principale dall’ini-zio alla fine: in un registro dov’era faci-le cedere all’istrionismo, riesce invece atrasmettere la densità psicologica di unuomo incapace di liberare le sue pas-sioni contraddittorie, fino al terrore di

essere responsabile di un assassinio si -mulato. La fine del film – in cui impaz-zisce dopo aver ripudiato la figlia ecancella i passi della giovane coppiaprima di incendiare con movenze ludi-che la sua stessa casa – non solo è piùstraziante di quella piuttosto compassa-ta del racconto (il sultano malese veni-va a rendere omaggio al cadavere diAlmayer), ma come nei Cento cavalieriimplica una riflessione del regista sulleopere umane e sul loro possibile degra-do. Girato in Camargue, il film comuni-ca l’impressione costante di un “limiteestremo del mondo”, vi brante di caloree di umidità».

Gérard Legrand, Cottafavi (Télévision),«Positif», n. 144-145, novembre 1972

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lo spettatore per rilassarsi, lasciarsi an -dare e trarre un ingenuo piacere. Lamessa in crisi della postura etico-otticadello spettatore richiede un ritmo eduna tensione narrativo-drammatica inso -stenibile: l’obiettivo è uno shock conti-nuo che mini alla radice la tranquillitàdello spettacolo. I suoi film sono sempredei quadri spietati di rapporti di classee di genere: l’eterna lotta fra padroni eschiavi si declina sia come fenomenostorico legato al capitalismo e alla so -cietà borghese, sia come fenomenoquasi antropologico da cui liberarsi at -traverso un rovesciamento radicale edefinitivo di ogni legame, un rovescia-mento che passa attraverso la distruzio-ne completa, un rovesciamento di cuici è dato vedere solo la pars destruens.Per Papatakis la speranza è un’inven-zione dei padroni e il miglior giogo concui il potere ha costretto in schiavitù glioppressi. Anche i rapporti amorosi so -no innervati da questa visione spietatae radicale dell’esistenza: l’amore è vistocome una forza bruciante e come unaschiavitù, ma può anche essere talmen-te devastante da divenire forza propul-siva per un’insurrezione collettiva. La potenza del negativo è l’unico pro-pellente che può cambiare l’orizzontedegli eventi: la sovversione anarchicanon prospetta utopie realizzabili masolo una violenza radicale che facciapiazza pulita di ogni presente aprendocosi all’avvenire. Mentre Papatakis indi-ca la distruzione di una società realizzacontemporaneamente dei film in cui ar -riva alla distruzione stessa del cinema.Tutti i suoi film finiscono con una cata-strofe o un’esplosione: dalla constata -zione di questa fine devastante emerge

la speranza negativa che l’orrore nonpossa più aver luogo e possa coinvol-gere gli spettatori in una tensione versola rivolta, in un’azione diretta nella vitae nel presente. La catastrofe finale è ilmotore immobile di tutte le sue opere:ogni gesto e ogni azione la preparano eallo stesso tempo la incarnano. L’eccesso della recitazione che ha sem-pre cercato con i suoi attori viene para-dossalmente esaltato da una messa inscena scarna ed essenziale e la preci-sione quasi documentaristica di décorse ambienti si rivela essere l’altra facciadi una struttura mitologia che perPapatakis soggiace inevitabilmente alleazioni umane. Misura e dismisura, mitoe storia si rispecchiano e si combattonofra loro: l’opera è allo stesso tempo l’e-terna scrittura del mito e la sua distru-zione; il metteur en scène gioca con itòpoi della tragedia classica e del mitoesasperandone la portata supertempo-rale con il fine di smascherare l’orroredel nostro presente storico, e contem-poraneamente distruggere il mito perliberare la storia presente. Il naturalismoche Papatakis ha appreso seguendo icorsi di Lee Strasberg all’Actor’s Studiogli serve per destrutturarne i presuppo-sti e per lavorare sul gesto e la sua tra-sposizione, spostando sul piano delladanza e dell’artificio ciò che dovrebbesembrare naturale: ogni situazione èportata ad un livello di incandescenzaquasi irrazionale. I suoi personaggi so -no degli sradicati e dei fuori-norma chericercano con ogni mezzo un altroveirraggiungibile in cui realizzare una pie-nezza vitale che la società ha loro nega-to in ogni modo, gettandoli nella spaz-zatura dei senza-terra, dei senza-speran -

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LA TORTURAGLORIA MUNDI

Regia, sceneggiatura: Nico Papatakis;fotografia: Frédéric Variot; montaggio:Jean-Claude Bonfanti; scenografia: Ro -bert Voisin; musica: Bernard Parme -giani, Tassos Chalkias; interpreti: OlgaKarlatos, Michel Ruhl, Roland Bertin,Philippe Adrien, Armand Abplanalp,Doudou Babet, Jean-Louis Broust,Christiane Tissot, Mehmet Ulusoy; pro-duzione: N. Papatakis per Nico/CNC;origine: Francia, 1974; formato: 35mm,b/n; durata: 92’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale del -la versione italiana d’autore (1977).

Per un’antologia critica sul film si riman -da al catalogo dell’edizione 2009.

UN EQUILIBRISTA SULL’ABISSOdi Federico Rossin

Era nato in Etiopia nel 1918 – da padregreco e da una madre etiope, donna ecapo-partigiana contro l’invasione fasci-sta. Si è sempre autoescluso dal mondodel cinema e dei registi di professione:i suoi film sono nati da ragioni esisten-ziali che nulla avevano di ideologico nédi partitico e non sono stati concepiticome strumenti di persuasione ma dilotta individuale e di insurrezione col-lettiva. I suoi cinque film – Les Abysses(1963), Les pâtres du désordre (1967),Gloria Mundi (1975/2005), I Photogra -phia (1986), Les Équilibristes (1991) – so -no nati da intime e profonde necessità,strettamente collegate alle sue attività dimilitante e di uomo del suo tempo.Papatakis è sempre stato lontano da

qualsiasi identità costrittiva, rifiutato daogni potere in quanto ontologicamenteinappropriabile e resistente: l’erranza ela turbolenza politica vissute in gioven-tù hanno marcato il suo pensiero e lasua vita, rendendolo costituzionalmen-te dalla parte degli umiliati – ma senzaalcun populismo – e dalla parte deglisconfitti – ma senza vittimismo né pate-tismo. Fondatore del mitico cabaret d’arte LaRose rouge, intimo amico di Sartre e diGenet – di cui ha prodotto l’unico, ma -gnifico film, Un Chant d’amour –, so -dale di un altro cineasta d’origine greca,John Cassavetes – gli trovò l’argent perfinire il suo Shadows –, marito di attricistraordinarie – Anouk Aimée e OlgaKarlatos – è dal suo nome che la giova -ne modella Christa Paffgen ha trovatol’identità con cui l’abbiamo conosciuta.Papatakis è stato rivoluzionario non perprofessione ma per natura: contro Mus -solini in Etiopia, contro i nazisti in Gre -cia e nel maquis poi, contro i francesirazzisti con gli algerini insorgenti e con-tro tutti gli oppressori di ogni paese.Non ha mai cercato un tiepido uma -nismo per giustificare la lotta che havissuto, semmai ha incarnato le coeren-za spinta fino all’esasperazione, senzasperanza di riscatto nell’oggi e senza labuona coscienza degli intellettualisalottieri che teorizzano ma non agi-scono. Per questo ha praticato e maiteorizzato il cinema come arma e stru-mento di lotta nel presente, come bom -ba incendiaria, come violento ed esi-gentissimo atto di resistenza che spingagli spettatori alla rivolta. I suoi film sono costruiti come sinfonieparossistiche in cui non c’è tempo per

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Marc Scialom, lontano da Biserta

nella terra di Dante

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suoi amici di Mosca i più gelosi segretid’ambasciata. Poiché siamo durante laseconda guerra mondiale, non mancamateria alla nostra spia. Così, diventatoanche l’amico dell’addetto militare diHitler, riesce a sapere la data precisa incui il Führer scatenerà il suo attaccocontro i Russi: la quale saputa dagliinteressati li mette sull’avviso, con cartageografica spiegata davanti e bandieri-ne da collocare nei luoghi topici. Piùtardi al nostro informatore riesce un’al-tra clamorosa ciambella col buco: indo-vina la mossa di Pearl Harbour. Mainsomma, per quanto stupidi, quellidell’Ambasciata finiranno col capire, elo spione è preso e condannato all’im-piccagione. Morrebbe così obbrobrio-samente se la segretaria dell’ambascia-tore, perdutamente innamorata di lui,attraverso l’ultimo bacio non gli facesseavere una fialetta di potente veleno».

Leo Pestelli, Uno sceriffo per burla e unasso dello spionaggio, «Stampa Sera», 28

febbraio-1 marzo 1957

«La cosa interessante è che, nonostantel’attivismo politico del figlio, Veit Harlanverso la metà degli anni ’50 lo con-vinse a scrivere insieme un copione. Eproprio allora il padre fu criticato peraver girato un film sotterraneamentefilocomunista, perché si trattava di unadelle poche opere che almeno in parteaffrontavano i crimini della Wehrmacht,e in cui russi e comunisti non eranoritratti solo come nemici. Da qui la stra-na accoglienza riservata al film».

Stefan Drössler, intervistato da FelixMoeller nel documentario Harlan –

Im Schatten von Jud Süss, 2008

za, dei senza-amore. Ogni film è cosìun’allegoria del cinema stesso: tutti ipersonaggi sono a loro volta registi diun destino di rivolta che minuziosa-mente decidono di mettere in pratica ein scena: ogni loro gesto, anche il piùapparentemente eccessivo, è frutto diun autocontrollo spietato, di una sceltaprecisa di cui sono i testimoni – i mar-tiri – e i protagonisti.

«il manifesto», 21 dicembre 2010

VERRAT AN DEUTSCHLANDBERLINO-TOKIO, OPERAZIONE SPIO-NAGGIO

Regia: Veit Harlan; sceneggiatura: Tho -mas Harlan, V. Harlan; fotografia: GeorgBruckbauer; montaggio: Walter vonBonhorst; scenografia: Hermann Warm;musica: Franz Grothe; interpreti: Kri -stina Söderbaum, Paul Muller, ValéryInkijinoff, Hermann Speelmans, Blandi -ne Ebinger, Wolfgang Wahl, Peter Arens,Koreya Senda, Yoko Tani, Yoshisisa Ta -kayama, Mamoru Kato, Yoshio Inaba;produzione: Divina-Film; origine: RFT,1955; formato: 35mm, b/n; durata: 109’.Copia DigiBeta (da 35mm) da Beta-Film.

«Berlino-Tokio, operazione spionaggio,diretto dal tedesco Veit Harlan, è, dicia-mo eufemisticamente, uno strano filmdi spionaggio che pretende di raccon-tare fatti veri. Sarà: ma come sono buffi,alle volte, i fatti veri! Un cittadino tede-sco di fede comunista, Richard Storge,è riuscito a carpire la fiducia dell’am -basciatore germanico a Tokio, e di qui,con l’aiuto d’un complice e un curio-so sistema di trasmissione, comunica ai

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LA PAROLE PERDUE

Regia, sceneggiatura, disegni, montaggio:Marc Scialom; produzione: Armorial;origine: Francia, 1969; formato: 16mm,col; durata: 8’.Copia 16mm da Film Flamme.

Il film nasce in memoria della battagliafranco-tunisina di Biserta (1961). La co -lonna sonora contrappone due voci, unamaschile e l’altra femminile. La donnasembra incitare l’uomo a confessarequalcosa che gli sta a cuore e lo oppri-me. L’uomo pare afasico, emette suoniinarticolati e sospiri, che nell’insiemerappresentano il rifiuto per la guerra ei suoi orrori. La colonna immagini pre-senta invece delle figure tracciate apennello che prendono forma: questidisegni di stampo espressionista evoca-no la gloria sinistra delle armi e i mas-sacri che ne costituiscono l’altra faccia.

LETTRE À LA PRISON

Regia, sceneggiatura, fotografia, montag -gio: Marc Scialom; musica: MohamedMatar, Mohamed Saada; interpreti:Tahar Aibi, Marie-Christine Lefort,Myriam Tuil, Marie-Christine Rabedon,Jean-Louis Scialom, Hamid Djellouli;produzione: Flamme/Polygone étoilé;origine: Francia, 1969[-2008]; formato:16mm, b/n e col; durata: 70’.Copia 35mm da Film Flamme.

Realizzato nel 1969 tra Tunisia e Marsi -glia, il film è rimasto inedito fino al 2008,quando la copia lavoro è stata ritrovatadalla figlia del regista, Chloe Scialom, erestaurata dalla Cineteca di Bologna.

«Lettre à la prison, quando l’ho girato,ha incontrato difficoltà che non miaspettavo, anche se era stato proble -matico fin dall’inizio, perché il copionenon aveva interessato nessuno e iom’ero deciso a girare coi miei soldi. Homostrato il film e non c’era nessunointeressato, così ha sonnecchiato in unarmadio per 40 anni. [...] Mi sembra diessere stato fedele al copione che ave -vo scritto. Ho sviluppato abbondante-mente l’aspetto politico della cosa. Manel film tutto è onirico e psicologico,anzi è proprio di questo che sono sta-to accusato da alcuni amici di ChrisMarker. Marker non mi ha detto niente,gli ho fatto vedere il film e gli ho chie-sto che cosa ne pensasse, ma non miha risposto. Alcuni compagni di Markermi hanno detto invece che non era “ab -bastanza politico”. In particolare, avreidovuto dare più importanza a questofratello cui Tahar scrive, e a quello chelui gli risponde. Se questo fratello unol’avesse visto a Marsiglia prima di anda-re a Parigi, il film avrebbe avuto un’al-tra dimensione, più precisamente po -litica. [...] Il film nasce soprattutto almontaggio. Durante le riprese avevogirato quel che potevo, ma sul montag-gio ho riflettuto a lungo, per moltotempo. Ho impiegato un anno a mon-tarlo, ma un anno di lavoro unicamentenotturno. Siccome non avevo più quat-trini, e la mia compagna dell’epoca,Simone, era montatrice, lei mi passavale chiavi della sua sala di montaggio. Eio ci andavo la notte, col fresco, senzanessuno in sala, montando a occhio suuna moviola Atlas».

Marc Scialom a Claude Martino, intervista nel press-book, 25 giugno 2008

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Nel mezzo del cammindi nostra vita, I.

Cinema italiano dall’inferno al paradiso

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Boccianti; musica: Alessandro Cico -gnini; interpreti: Carlo Ninchi, GiannaMaria Canale (voce Lydia Simoneschi),Peter Trent, Piero Palermini, Carla Calò,Luigi Pavese, Ugo Sasso, Ciro Berardi;produzione: R. Freda per Forum; origi-ne: Italia, 1949; formato: 35mm, b/n;durata: 89’.Copia 35mm da Archivio Storico del Ci -nema Italiano.

«La fonte è importante, ma il risultatodeve essere sempre un film d’azione.Prendi Dante, a lui si torna solo nelfinale de Il conte Ugolino, con i suoiversi recitati mentre la figlia scopre lamorte dei suoi. [...] Caino è certamentepiù simpatico di Abele. Il buono è unfregnone che rischia la vita o per salva-re una ragazza (e dopo è obbligato asposarla con conseguenze catastrofi-che) oppure per ricevere e far riceverealtre fregature. Il cattivo invece è Hitler,Caino. È Satana che si diverte e riesce acombinare tutti i disastri che vuole,mentre Dio non riesce nemmeno a cal-mare la Croazia. [...] Prendiamo Il conteUgolino, è un personaggio che ha lasua buona dose di ambiguità. È storica-mente controverso, io dico che è inno-cente ma chissà come sono andateveramente le cose: sta di fatto che lafamiglia dei discendenti mi inviò unbiglietto dicendomi: grazie, finalmenteil nostro avo è stato riabilitato. Anche inquesto film però c’è un cattivo notevo-le, il cardinale interpretato da PeterTrent che fa morire il Conte in modomolto poco cristiano» (R. Freda inEmanuela Martini, Stefano Dalla Casa, acura di, Riccardo Freda, Bergamo FilmMeeting, Bergamo, 1993). In questo

FUORI CAMPO

EXILSRegia, sceneggiatura, montaggio: MarcScialom; produzione: Argos/ORTF; ori-gine: Francia, 1966; formato: 35mm, b/ne col; durata: 18’.

In questo film ispirato alla Divina Com -media rivivono e s’intrecciano fram-menti di dialogo fra Dante e gli amiciincontrati lungo il viaggio nell’aldilà.Tutte le anime, sia all’inferno che inpurgatorio e in paradiso, hanno un trat-to in comune: vivono ancora nel ricor-do bruciante della loro vita sulla terra.Le immagini propongono intanto unapanoramica sulla pittura italiana dell’e-tà di Dante. Su due registri diversi,quindi, i dialoghi rievocano il passato eil presente delle anime, mentre le im -magini sono filmate ora a una distanzasufficiente per essere riconoscibili e oraa una distanza molto ravvicinata che nelascia affiorare la grana, la dimensio nedi pittura astratta al di là della superfi-cie figurativa. L’alternanza di bianco enero e colore complica e insieme scan-disce questo movimento di andata e ri -torno fra la terra natale e la nuova sededelle anime, metafora dell’esilio di Dan -te stesso.

IL CONTE UGOLINORegia: Riccardo Freda; soggetto: LuigiBonelli, liberamente ispirato al cantoXXXIII dell’Inferno di Dante Alighieri;sceneggiatura: Steno, Mario Monicel-li; fotografia: Sergio Pesce; montaggio:Roberto Cinquini; scenografia: Alberto

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all’infernale. A parte tale raccomanda-zione, il soggetto non presenta altririlievi».

PAOLO E FRANCESCALA STORIA DI FRANCESCA DA RIMINIRegia: Raffaello Matarazzo; soggetto: R.Matarazzo, liberamente ispirato al cantoV dell’Inferno di Dante Alighieri; sce-neggiatura: Vittorio Calvino, Liana Fer -ri, R. Matarazzo, Vittorio Nino Novarese,Guglielmo Petroni, Epaminonda Prova -glio; fotografia: Mario Montuori; mon-taggio: Mario Serandrei; scenografia:Ottavio Scotti; musica: Alessandro Ci -cognini; interpreti: Odile Versois (voceLydia Simoneschi), Armando Francioli(voce Giulio Panicali), Andrea Checchi(voce Emilio Cigoli), Aldo Silvani, DediRistori, Nino Marchesi, Roberto Murolo(voce Stefano Sibaldi), Enzo Musumeci;produzione: Valentino Brosio per Lux;origine: Italia, 1950; formato: 35mm,b/n; durata: 96’.Copia 35mm da Cineteca Nazionale.

Appunto dell’Ispettore Generale del Mi -nistero del Turismo e dello Spettacolo(25 gennaio 1950): «Assistendo alla revi-sione del film Paolo e Francesca dellaSoc. Lux, e ricordando il mediocre va lo -re artistico del Conte Ugolino della Soc.Forum, ci è venuto spontaneo conside-rare quanta poca fortuna ha avuto Dan -te nella trasposizione cinematograficache s’è fatta in Italia dei suoi personag-gi, rispetto a quella toccata a Shake -speare, nel cinema di lingua inglese,con la realizzazione filmistica dei suoiGiulietta e Romeo, Amleto, Enrico V.

senso, dopo l’esperienza scottante conIl cavaliere misterioso, l’opera di Danterappresenta per Freda anche un salva-condotto contro l’intervento della cen-sura, un utile paravento per poter con-tinuare indisturbato il proprio discorso:«Per Il conte Ugolino, la censura volevametterci i bastoni fra le ruote, ma allafine non ha potuto far niente. Le scenecontestate erano tratte direttamente daDante, e nessuno in Italia, statene purcerti, oserebbe toccare Dante. La cen-sura si sarebbe ritorta contro i censori»(R. Freda in Jacques Lourcelles, SimonMizrahi, a cura di, Entretien avec Ric -cardo Freda, «Présence du Cinéma», n.17, primavera 1963). In effetti leggendola revisione cinematografica preventiva(5 settembre 1949) ci si accorge che,quasi a malincuore, l’Ispettore Gene -rale del Ministero è costretto ad appro-vare il copione proprio in virtù dellasua ascendenza dantesca: «La condannafi nale dell’Arcivescovo Ruggeri da par -te del papa Nicolò VI (non sappiamoquanto di storico vi sia in tutto ciò)salva indubbiamente e ridona lustro aquella “dignità porporale” così abbon-dantemente offesa dalla condotta in -fernale dell’Arcivescovo. Questo per -sonaggio è quello che è né si puòmodificare essendo il suo volto di tradi-tore e di indegno porporato fissato persempre nel XXXIII canto dell’Inferno.Quello che si raccomanda al regista èdi non soffermarsi su certi atteggiamen-ti ieratici e mistici dell’arcivescovo(“Ruggeri è immerso nella preghiera”pag. 152) e ciò per ovvie ragioni: al finedi non marcare più del necessario ladoppiezza dell’indegno porporato eper non mescolare troppo il sacro

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Politica dei critici. Jean-Claude Biette, I.

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parvenza di dignità, ma ciò è dovuto inbuona parte alla fotografia dell’ottimoMontuori. Inadatti gli interpreti sceltiper i ruoli di Paolo e Francesca (A.Francioli e Odile Versois), appena con-vincente Andrea Checchi nel ruolo diGianciotto».

«Avvenimenti antichi visti dagli occhi diun uomo moderno, ecco cosa mi pia-cerebbe fare. E anche ritrovare quelloche c’è per noi di più straordinarionelle abitudini di quelle epoche. Peresempio, era del tutto normale che Lui -gi XIV ricevesse gli ambasciatori deglialtri paesi ed avesse con loro delle di -scussioni molto importanti, seduto sudi una sedia con un buco in mezzo.Op pure questa usanza del diritto del si -gnore feudale, il vecchio gentiluomoche si appresta a prendere le donnedella campagna e le sceglie sotto gli oc -chi dei mariti, che non possono di fen -dersi. In questo senso, considero TomJones un film molto riuscito. [Paolo eFrancesca] non credo che fosse riusci-to, c’era un budget piccolissimo. InveceLa nave delle donne maledette illustraciò che le stavo dicendo».Raffaello Matarazzo in Bernard Eisenschitz(a cura di), Intervista del critico BernardEisenschitz a R. Matarazzo, in AA.VV.,

Raffaello Matarazzo. Materiali, Movie Club, Torino, 1976

Ora, è vero che l’America e l’Inghilterradisponevano per queste opere di regi-sti ed interpreti particolarmente indica-ti [...], ma è pure vero che per l’Ugolinoe per Francesca da Rimini (e qui c’èandato di mezzo anche D’Annunzio) sisarebbe potuto ricorrere – ammesso chefosse stato indispensabile risvegliarnele ombre – a registi ed interpreti piùqualificati di quelli che invece sonostati scelti. Il fatto è che mentre le tra-gedie di Shakespeare sono state traspo-ste in film con i più seri intendimentid’arte, i personaggi di Dante sono statiinvece considerati alla stessa streguadegli eroi di qualsiasi romanzo d’ap-pendice e sono stati così utilizzati peruna produzione di nessun rilievo arti-stico e per scopi puramente commer-ciali. È serio tutto ciò? Per l’ultimo film,che abbiamo visto ieri, il rilievo assumecarattere di maggiore gravità, in quantoche la produzione è stata curata da unaimpresa che, tra le tante, gode del mag-gior prestigio: la Soc. Lux. Se, infatti,una delle migliori organizzazioni indu-striali del nostro cinema si prostituiscein questo modo, quale fondato rimpro-vero potrà rivolgersi a quei produttoriisolati che, coi pochi mezzi a loro di -sposizione, non possono certo affronta-re produzioni di molto impegno? Sipermette di esprimere, a titolo persona-le, il parere che in casi del genere, ilComitato Tecnico dovrebbe agire conrigore, soprattutto per quanto riguardail premio aggiuntivo 8%, e le sue deci-sioni dovrebbero essere tali da evitarein avvenire profanazioni della specielamentata. Premesso quanto sopra, di -ciamo che il film Paolo e Francesca,diretto da Raffaello Matarazzo, ha una

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Donne allo (nello) specchio, I.

Riflessi croati

«L’ho conosciuto nel 1965, quando sbar -cò a Roma senza una lira e con due nu -meri telefonici, quello di Gianni Amicoe il mio, passatigli dai “Cahiers du Ci -néma”, con i quali aveva cominciato acollaborare (memorabile la sua scoper-ta da Locarno, nel “petit journal” deldicembre 1965, di De Oliveira). [...] Con -vinsi [Gian Vittorio] Baldi, assai prete-stuosamente, a ingaggiare Jean-Claude,sia pure per due lire, come traduttorein francese da una lingua, l’italiano, chea mala pena parlottava ma di cui rapi-dissimamente si appropriò. Poi gli pro-dusse anche un paio di cortometraggiche vidi all’epoca e che sarebbe belloritirare fuori. [...] La forza della soprav-vivenza, ma anche la sua brillante in -telligenza, permisero a Jean-Claude dirivedere i sottotitoli in francese di Uc -cellacci e uccellini e di inventare il tito-lo, Des oiseaux, petits et gros, nonché difare da aiuto a Pasolini per l’Edipo Re inMarocco, e anche di rivestire la parte diun sacerdote in una scena assieme aPier Paolo. [...] Qualche anno dopo, erail 1977, riuscì a debuttare come registadi lungometraggio con Le théâtre desmatières, su cui scrisse un elogio sui“Cahiers” Serge Daney, e che non sonomai riuscito a vedere. Vidi invece il suc-cessivo Loin de Manhattan (1980), conla sua grande amica Laura Betti, e invi-tai entrambi nel 1981 al festival di Sal -somaggiore, dove partecipò a una bellatavola rotonda sul nuovo cinema deglianni ’60 assieme a Bargellini, Farassino,Gianni Amico, Stavros Tornes... (c’è unafoto di gruppo che li ritrae tutti assie-me). Devo ammettere che lo conoscomeglio come critico che come cineasta.[...] Ma come critico l’ho sempre trova-

to prezioso e imprevedibile. Pur appar-tenendo alla “scuola Cahiers”, le suepre ferenze per gli autori erano ecletti-che, e ancor di più quelle per i film ditali autori. Amava Rohmer e JacquesTourneur, Eustache e gli Straub, Pasoli -ni naturalmente e di recente, a sorpresa,Mario Soldati; e di Hawks, per esem-pio, preferiva Land of the Pharaohs(cioè La regina delle piramidi, 1955) apiù reclamizzati capolavori. Nell’insie -me aveva un gusto più marcatamenteclassico che moderno. Non ha maiscritto molto, e tuttavia doveva essereben co sciente del valore di ciò che scri-veva se ha sentito il bisogno (o altri perlui) di raccoglierlo in volume: Poétiquedes auteurs (1988) nelle edizioni dei“Cahiers du Cinéma”, poi di recente,per le edizioni POL di “Trafic”, Qu’est-ce qu’un cinéaste? (replica palese aBazin) e Cinémanuel».

Adriano Aprà, Lontano da Manhattan, «il manifesto», 13 giugno 2003

BIETTERegia e interviste: Pierre Léon; interven-ti: Jean-Claude Biette (repertorio), Ma -noel de Oliveira, Paul Vecchiali, LouisSkorecki, Bernard Eisenschitz, JeanNarboni, Sylvie Pierre, Micheline Presle,Valérie Jeannet, Jeanne Balibar, Marie-Claude Treilhou, riprese messinscenateatrale e girati inediti con Luis MiguelCintra e Isabel Ruth; produzione: LesFilms de la Liberté; origine: Francia,2011; formato: video, col; durata: 110’.Copia DigiBeta da produzione.

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(imag

es courtesy: Jag

oda Kaloper)

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made in montaggio parallelo, scene trat -te dai film si intersecano a riprese gira-te dall’autrice stessa, dove il suo voltosi mostra riflesso su differenti superfici.L’immagine della donna è così presen-tata e osservata attraverso diversi pianinarrativi e istituzioniali: il cinema, il si -stema dell’arte, i mass media, gli stereo -tipi culturali.Nel paradigma letterario, l’autoritratto siinterpreta comunemente quale autobio -grafia, dove l’autore è allo stesso tempol’oggetto e il soggetto. Quando, tramiteil modello autobiografico, le ar tiste han -no cominciato a lavorare sulla e con larappresentazione della figura femmi -nile, presentando se stesse, hanno de -stabilizzato le tradizionali relazioni delpotere e, di conseguenza, stravolto laconsueta relazione tra soggetto e ogget-to, modella e artista. La costituzione delsoggetto femminile si è formata comeatto performativo che posiziona l’autri-ce (Io) come modella (Altro).A partire dagli anni ’70, la teoria e lapratica dell’arte femminista, gravitanteprincipalmente attorno alla teoria delcinema, hanno iniziato la decostruzio-ne delle strategie della visione e dellosguardo. Questo nuovo punto di vistaha messo in discussione quello voyeu -ristico e feticista, che separa soggetto eoggetto della visione. La frattura dellatradizionale opposizione tra maschile efemminile, attivo e passivo, ha condottoa modifiche delle posizioni tradizionalidel potere. Il discorso teorico femmini-sta ha cercato di sottolineare come ilcorpo, percepito come immagine e rap-presentato sia in fotografia che nel ci -nema, fosse un campo iconico riserva-to allo sguardo maschile.

PUNTI DI VISTA / L’ARCHIVIO CINEMATOGRA-FICO PERSONALE DI JAGODA KALOPER

di Branka Benčić

In ambito croato ed ex-jugoslavo, l’in-dagine sulla rappresentazione del sé siè affacciata sulla scena dell’arte neglianni ’60 e ’70 attraverso le traiettoriedell’arte concettuale, sviluppate poi dal -la produzione contemporanea. Il ter -mine che descrive l’emergere di questacorrente degli anni ’70 è nova umjet-nička praksa [nuova pratica artistica],ad indicare uno snodo critico e politiconell’arte, in cui il discorso viene condot -to in prima persona. A partire da quelmomento, l’arte femminista e le prati-che concettuali pongono le basi e imodelli di riferimento per l’interpreta-zione delle opere contemporanee cheindagano problemi della rappresenta-zione del sé in contesti sociali, ideolo-gici, culturali ed emozionali, essendo lestrategie autoreferenziali, performativee il linguaggio del corpo parte impor-tante della creazione artistica odierna. Si dice che la relazione tra arte, tecno-logia e identità non sia mai stata esplo-rata ed espressa con tale intensità econtinuità come attraverso il mediumdel video. Costruita attraverso il linguag -gio e la rappresentazione, l’identità nonè un’unità stabile, ma un percorso va -riabile di soggetti e codici, incrocio didifferenti formazioni sociali e di storiepersonali.Žena u ogledalu [Donna allo/nello spec -chio] di Jagoda Kaloper è un film-colla-ge autobiografico in cui l’autrice com-bina estratti dai film che l’hanno vistaprotagonista o interprete negli ultimiquarantacinque anni. Usati come ready

dal film Žena u ogledalu

(imag

es courtesy: Jag

oda Kaloper)

montato e giustapposto a riprese videoprivate.Jagoda Kaloper si è formata all’Accade -mia di belle arti di Zagabria, sulla cuiscena artistica era attiva dagli anni ’70.Nello stesso periodo, ha interpretatoruoli di rilievo in numerosi film cult,molti dei quali si trovano nel suo col-lage, da Lisice [Le manette] di KrstoPapić, Kuća [La casa] di Bogdan Žižić,Kljuć [La chiave] di Vanča Kljaković,Gravitacija [Gravitazione] di BrankoIvanda, Pone djeljak ili utorak [Lunedì omartedì] di Vatroslav Mimica e W.R.Misterija organizma [W.R. I misteri del-l’organismo] di Dušan Makavejev. Per lasua interpretazione in Kuća di Žižić haricevuto il premio Golden Arena al PulaFilm Festival. Žena u ogledalu rappre-senta il grande ritorno di Jagoda Kalo -per sulla scena artistica croata.A differenza dei lavori di Cindy Sherman,che, nella serie fotografica Untitled FilmStills, assume ruoli di finzione usando ilmascheramento, mettendosi in posa eadottando una precisa scenografia – il -lu minazione, parrucche, costumi, truc-

Žena u ogledalu è un lavoro di ricerca,un film-saggio, in cui si intersecano li -velli privati e pubblici, messa in scenae documento, passato e presente, que-stioni identitarie, mondo dello spettaco-lo e sistema cinematografico. Intrecciadue punti di vista – quello interiore equello rivolto verso l’esterno. Tale ge -sto di appropria zione articola la storiadel cinema di una determinata cornicespazio-temporale, di cui Jagoda Kaloperera testimone e protagonista – una ci ne -matografia che nel suo lavoro di ventad’archivio, a servizio della memoria in -dividuale e collettiva.In Žena u ogledalu, Jagoda Kalopergiunge a un risultato complesso e inte-ressante: riscrive e passa in rassegna lasua vita privata e professionale ri-attra-versando i film in cui ha recitato. Il suolavoro può essere osservato da diversipunti di vista: co me ricerca identitaria,come studio esistenzialista, come tene-re il tempo, come tentativo di articola-re questioni private e spazio pubblico,comprensione, senso, passato, giovi-nezza. Un collage di spezzoni di film è

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Germania anno zeroViaggio nel cinema della

Repubblica Federale Tedesca, II.Germany Noir

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co – al fine di sovvertire gli stereotipifemmi nili degli anni ’50 e ’60, i ruoli diJagoda Kaloper sono reali e le scenenon sono “inscenate”, ma parti di filmche possia mo riconoscere, testimonian-za della vi ta professionale di Jagoda Ka -loper, donna e attrice. Žena u ogledaluci rivela co me la rappresentazione di unadonna funzioni nella cultura visiva ecome i mo delli rappresentativi strutturi-no e controllino la de finizione del sog-getto femminile nella società. I termi nispettacolo e spettatore condividono lastessa etimologia: dal lat. speculum,specchio.Manipolando materiali d’archivio e at -tra verso strumenti di elaborazione del-l’immagine, Jagoda Kaloper sembra as -sumere il controllo sulla sua esistenza esul suo passato. Le tecniche di montag-gio e di collage diventano strumenti diemancipazione, liberando i suoi perso-naggi e lei stessa dai vincoli della nar-razione.

ŽENA U OGLEDALU[Donna allo/nello specchio]

Regia: Jagoda Kaloper; origine: Croazia,2011; formato: video da vari formati,b/n e col; durata: 47’.Copia DVD da autrice, per concessionedi MSU Museum of Contemporary Art,Zagreb (Croatia).

Proiezione resa possibile grazie alla col -laborazione con CINEMANIAC, piatta-forma per l’esposizione di immagini inmovimento, programma parallelo alPula Film Festival ospitato da MMCLuka (Pula, Croatia), creato e curato daBranka Benčić.

CONVERGENZE PARALLELECorpi nel paesaggio

DONNE SOPRA, FEMMINE SOTTOKNOCKOUT

Regia, sceneggiatura: Barry Norton [Bo -ro Drašković]; fotografia: Tomislan Pin -ter; montaggio: Alberto Gallitti; musica:Franco Bixio; interpreti: Barbara Bou -chet, Margaret Lee, William Gale, Li -liana Krstic, Gabriele Antonini, MiljaVujanović, Jagoda Kaloper; produzio-ne: Bosnia/Roberto; origine: Jugoslavia/Italia, 1972; formato: 35mm, col; dura-ta: 91’.Copia BetaSP (da 35mm) da La Cinete -ca del Friuli.

«Marco è un playboy con il passato po -co pulito e una gran voglia di sistemar-si per tutta la vita. Ha conosciuto inAmerica una avvenente ereditiera chelo corrisponde con sincero affetto. Laporterà in Dalmazia fingendo passionimatrimoniali e ricchezze smisurate. Inrealtà il giovane non ha mestiere nésostanze (la sua famiglia è molto po -vera) e trova i pochi soldi con piccoliespedienti e prestazioni amorose a pa -gamento. Ma l’amore per la bella mi -liardaria richiede impegni economicitroppo forti, ed il playboy accetterà dicompiere “consegne” di stupefacentiper una banda locale. Il gioco è peri-coloso e Marco troppo sfortunato pertrarne i vantaggi che desidera. La ragaz-za scoprirà la malafede dell’innamoratoed i trafficanti la sua inefficienza sul “la -voro”. Tragica conclusione di una vita“balorda”».

s.c., «La Stampa», 7 febbraio 1973

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di verità. In Nachts, wenn der Teufel kamdi Siodmak si palesa nel duello tra ilcommissario della polizia criminale Ker -sten e il comandante delle SS Rossdorfl’assurdità della Ger mania nazista, ecc.Scissa appare nella maggior parte deicasi anche l’estetica delle opere: ele-menti espressionistici irrompono ri-petutamente nel biancore brutalmentesmorto, così tipico di tanti film di quel-l’epoca: Thom Andersen parlò in unaoccasione – riferendosi a M (1951) diJoseph Losey e ad altre opere – del filmgris come forma tardiva di noir dall’ac-centuato realismo e dalla nevrosi den-samente marcata.Un topos chiave del noir della RFTdivennero le basi militari alleate – intal caso il “genere” fu una delle pochepossibilità di parlare di questo tematendenzialmente spinoso: Die goldenePest (1954) di John Brahm, Stadt ohneMitleid / Town without Pity (1960) diGottfried Reinhardt, Schwarzer Kies diKäutner – tutti a suo tempo controver-si – rientrano tra i pochi film del do-poguerra ad essersi cimentati in modocostruttivo con la questione “Cosa fal’occupazione di questo Paese e il Pae -se di questa occupazione?”, portando inpiazza molti dei panni sporchi dellaGermania Federale. In tale contesto si ètentati di ricordare che, in linea con ciò,poco dopo la prima di Schwarzer Kies– e nello stesso anno del processoEichmann – scoppiò una controversia(giuridica) sul fatto se l’opera esprimes-se o meno tendenze antisemite. “No”,fu la risposta, eppure il film fu tagliatoper mantenere la calma nel Paese... Come “coda” a questi film si profila l’ul-tima opera cinematografica, poco no-

ta, di Wolfgang Staudte, Zwischengleis(1978), che può essere considerata unpunto finale della produzione postbel-lica, ancora una volta incentrato sugliultimi giorni di guerra e i primi annipostbellici, l’occupazione alleata e lesue conseguenze, in un tono che ricor-da Gertrud (1964) di Dreyer e SevenWomen (1966) di Ford. Zwischengleismostra che da molti punti di vista ilperiodo postbellico non è mai finitonella RFT e che nonostante il miracoloeconomico e i film della Giovane Ger -mania, il ’68, la Grande Coalizione, laRAF ecc. si era ancora – moralmente –radicati in quegli anni di carestia.

SCHICKSAL AUS ZWEITER HAND

Regia, sceneggiatura: Wolfgang Staudte;fotografia: Willy Winterstein; montag-gio: Alice Ludwig; scenografia: HerbertKirchhoff; musica: Wolfgang Zeller;interpreti: Ernst Wilhelm Borchert,Marianne Hoppe, Erich Ponto, HeinzKlevenow, Oskar Dimroth, AdalbertKriwat; produzione: Real-Film GmbH;origine: RFT, 1949; formato: 35mm, b/n;durata: 105’.Copia 35mm da Deutsche Kinemathek,per concessione NDR.

È un film innanzitutto avvincente, main secondo luogo anche rivelatore edidattico. Nel momento in cui oscuran-tisti di ogni credo, personaggi loschi,falsi astrologi, veggenti, profeti e fattuc-chiere pescano avidamente nell’igno-ranza, il film vuole invece farne piazzapulita attraverso un caso specifico. Ilracconto mette in evidenza come i ciar-

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ZOMBIE E DOPPI

di Olaf Möller

Nel nostro paese il film noir, pur nonavendo alcuna tradizione anteriore al’45, fu fortemente influenzato dal lavo-ro e dalla visione di autori di linguatedesca emigrati all’estero (o almeno,così si dice in genere). Il film gialloera stato fino ad allora principalmen-te pastiche e parodia, volutamente lon-tano da qualsiasi realtà quotidiana edai suoi problemi, laddove le eccezio-ni confermano com’è ovvio la regola:basti pensare, ad esempio, al tentativosorprendentemente sovversivo di WillyForst & Viktor Becker sulla doppia fac-cia della Germania nazista, Ich binSebastian Ott (1939), oppure al film“traboccante” di Hans Schweikhart, DieNacht der Zwölf (1944-48), in cui Fer -dinand “Süß l’ebreo” Marian recita neipanni di un truffatore che promette ma -trimoni e lentamente distrugge la suavita tra le varie identità. Furono anche gli emigrati di ritorno –come Robert Siodmak oppure JohnBrahm –, i registi in transito – come Ro -berto Rossellini, Victor Vicas oppureFrantišek Čáp – e gli eterni senza casa– come Peter Pewas – che negli annipost ’45 crearono il noir della RFT, nonun sottogenere, piuttosto un filone, unatendenza e anche un atteggiamento ver -so le cose, che non sfociò sempre e sol-tanto nei film gialli (Die Martinsklausedi Richard Häußler, Hanna Amon diVeit Harlan e Die Alm an der Grenze diFranz Antel & Walter Janssen, tutti –significativamente? – del 1951, sono adesempio film di cultura locale contami-nati dal noir, mentre Das ewige Spiel di

František Čáp, anch’esso realizzato nel1951, è un melodramma condito di mi -stero con tocchi noir; ecc.). In questopanorama il noir restò un’anomalia:nella RFT esso non prese mai piede, silimitò a comparire qua e là, lasciò delletracce, inquietò e per questo fu anchedi rado amato. Non esistette come puroesercizio di genere: nella RFT il noir siconiugò sempre con un interesse socia-le. Più in là di Čáp nessuno si avventu-rò nel mondo del puro cinema dellasuspence, ed egli stesso volle racconta-re principalmente una Germania lace-rata da tutti i punti di vista.Questa scissione è anche la chiave delnoir tedesco: in Schicksal aus zweiterHand di Staudte il protagonista condu-ce una doppia vita, di cui una da ciar-latano, che allude a figure come quelladell’allora popolarissimo guaritore dianime Bruno Gröning, il cui culto haesercitato un’ininterrotta attrazione an -che negli anni zero del nuovo millen-nio (un documentario su Gröning dicirca 5 ore, realizzato in circostanze ve -ramente oscure, ha avuto in quell’epo-ca un duraturo successo, riempiendoper anni le sale di alcune città della Re -pubblica Federale e dell’Austria, quanto -meno nelle matinée domenicali, anchese di questo fenomeno audiovisivo eso-terico-underground la stampa ufficialeha scritto poco o nulla). Hoesch, l’anta -gonista del Dr. Rothe nell’unico lavororegistico di Peter Lorre, Der Verlorene,rispunta nella vita di Rothe con il nomedi Nowak, come una sorta di zombie.Viele kamen vorbei di Pewas viene nar-rato da tre prospettive diverse, che fan -no man mano svanire ogni sensazione

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Kutz; musica: Herbert Trantow; inter-preti: Irina Garden, Gordon Howard,Kurt Meisel, Paul Bildt, Hans Nielsen,Heinz Engelmann; produzione: ArturBrauner per CCC-Film; origine: RFT,1952; formato: 35mm, b/n; durata: 89’.Copia 35mm da Deutsche Kinemathek.

«La produzione della CCC-Film DieSpur führt nach Berlin trovò alcuni serisostenitori a Wiesbaden [dove presso ilFSK – l’organo di autocontrollo dellacinematografia tedesca – il comitatoparitetico di selezione decideva qualefilm avrebbe rappresentato la Germaniaa Cannes], i quali ipotizzarono unabuona accoglienza a Cannes “poiché iltema sempre attuale di Berlino interes-sa gli stranieri”. La maggioranza ritenneinvece che il conflitto politico est-ovestfosse stato elaborato in modo troppolacunoso e lamentò che con una cacciaai colpevoli tra le macerie della ex capi-tale del Reich il problema di Berlinofosse stato tutt’altro che trattato esau-rientemente. Furono espressi dubbi sulfatto che la recitazione piuttosto gelidadella nuova stella Irina Garden, scoper-ta dal capo della CCC Artur Brauner,potesse conquistare i favori del viziatopubblico di Cannes. Ai fini del rifiuto fututtavia decisiva l’argomentazione di ungiurato che disse di avere visto una rap-presentazione migliore della caccia aicolpevoli in una città a quattro settoriin The Third Man (Il terzo uomo, 1949)di Carol Reed. “Non ci possiamo pro-prio permettere”, ammonì il consigliereministeriale Ernst Burkart, segretariogenerale del Ministero della Cultura,“che all’estero si dica: i tedeschi sannoimitare bene”. Quanto meno, si sareb-

be dovuto sviluppare ulteriormente iltema scelto».

«Der Spiegel», aprile 1953

«Il finale a ritmo velocissimo del film èimperniato sulla dura caccia congiuntamessa in atto dalla polizia di BerlinoOvest, degli alleati e persino di BerlinoEst attraverso le catacombe paurosa-mente impolverate e desolate tra il vec-chio Reichstag e la Reichskanzlei,lungo il confine tra i settori. Si tratta diuna tematica che Artur Brauner – uomoricco di idee – ha effettivamente letto“dalla strada”, una tematica attuale e in -teressante. [...] Tutto sommato: un nuovoparto della CCC che si colloca bensopra la media dei nostri film».

«Filmblätter», 5 dicembre 1952

VIELE KAMEN VORBEI

Regia: Peter Pewas; sceneggiatura:Gerhard T. Buchholz; fotografia: Klausvon Rautenfeld; montaggio: WolfgangPflaum; scenografia: Alf Bütow; musi-ca: Peter Sandloff; interpreti: HaraldMaresch, Frances Martin, ChristianDoermer, Heinz Schimmelpfennig, AlfMarholm, Rudolf Rhomberg; produzio-ne: Occident Film Produktion GmbH;origine: RFT, 1956; formato: 35mm,b/n; durata: 85’.Copia 35mm da Werkstattkino.

Avvertimento e monito sono l’intento diquesto film, che narra di un tentativo diomicidio a sfondo sessuale ai bordi diun’autostrada secondo tre versioni: dalpunto di vista dell’omicida, della vitti-ma e di un commissario della polizia

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latani dell’occulto possono sopraffareuna persona, come gli uccelli del ma -laugurio del “sovrannaturale” riescanoa rabbuiare persino un giorno limpidoe avvelenare, oscurare ed ammorbarela vita, anche contro la volontà dellapersona coinvolta. La vicenda del filmappare credibile e i suoi sviluppi nonirrompono nella narrazione prematura-mente. Probabilmente Staudte avrebbepotuto rendere la sceneggiatura ancorapiù incisiva, costruendola con una pro-gressione più visibile. Ma il modo in cuicrea l’atmosfera, in cui azzecca e dipin-ge di volta in volta l’ambiente, il corag-gio con cui guida delicatamente la cine-presa e il suo slancio... tutto ciò si ritro-va in questo film e non facilmente inaltri. (Friedrich Luft)

DER VERLORENERegia: Peter Lorre; soggetto: Egon Ja -meson; sceneggiatura: P. Lorre, BennoVigny, Axel Eggebrecht; fotografia:Václav Vích; montaggio: Carl OttoBartning; scenografia: Franz Schroedter,Karl Weber; musica: Willy Schmidt-Gentner; interpreti: P. Lorre, Karl John,Helmut Rudolph, Renate Mannhardt,Eva-Ingeborg Scholz, Gisela Trowe; pro -duzione: Arnold Pressburger-Produk -tion; origine: RFT, 1951; formato: 35mm,b/n; durata: 98’.Copia 35mm da Goethe-Institut.

Una storia torbida, nero su nero: è lavicenda del sierologo Dr. Rothe, a cuiper interessi bellici viene “condonato”un omicidio, a cui la Gestapo cambiasemplicemente il nome in suicidio

(«...vogliamo che uno sia lasciato vive-re», afferma il delatore Hoesch, che neipanni di chimico sorveglia il suo capo,«e questo è lei»). In tal modo – cosìvuole il film – Rothe inizia a sprofon-dare nella demoniaca necessità di ucci-dere. Durante un allarme aereo stran-gola nella metropolitana una donna,che ai margini del terrore cerca ancoraun’avventura; una prostituta sfugge amalapena alle sue grinfie. Non voluta-mente, finisce coinvolto in un’azionedel movimento clandestino destinata afallire, ma esce illeso dagli ingranaggidella violenza. Vuoto, disgustato, privodi quella forza che unisce l’umanità,quest’uomo abbietto attraversa un mo -mento travagliato, che gli schiude tuttele vie verso la “libertà”, senza che eglilo chieda. In un campo profughi, allafine, si incontrano di nuovo, l’uomoperduto e il delatore di allora, incate-nati l’uno all’altro dal ricordo – e si levaun dialogo, cinico, sotto la maschera diuna sorridente impotenza, alla luce diterribili fuochi fatui, un palesamentodel male. Poi, all’alba, rimbomba lapistola di Rothe: per la terza volta que-st’uomo solitario uccide, non più pernecessità patologica bensì nella pienaconsapevolezza del gesto. Dopo di chevaga tra binari sterminati, fino all’arrivodi un treno diretto... (Walter Bittermann)

DIE SPUR FÜHRT NACH BERLINBERLINO POLIZIA CRIMINALE

Regia: Franz Cap [František Čáp]; sce-neggiatura: Paul Rameau; fotografia:Helmut Ashley; montaggio: JohannaMeisel; scenografia: Emil Hasler, Walter

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Robert Siodmak si profila per la secondavolta come una delle principali speran-ze del cinema tedesco. (Enno Patalas)

SCHWARZER KIESASFALTO NERO

Regia: Helmut Käutner; sceneggiatura:H. Käutner, Walter Ulbrich; fotografia:Heinz Pehlke; montaggio: Klaus Du -denhöfer; scenografia: Gabriel Pellon;interpreti: Helmut Wildt, Ingmar Zeis -berg, Hans Cossy, Anita Höfer, HeinrichTrimbur, Peter Nestler; produzione: UFA;origine: RFT, 1961; formato: 35mm, b/n;durata: 117’.Copia 35mm da Transit-Film.

La cinepresa spazia attraverso i fumi diun’osteria, ai cui tavoli siedono soldatiamericani e signorine. Dal juke-boxecheggia per alcuni minuti musica mili-tare a tutto spiano. Un contadino cheimbraccia un bastone da passeggio co -me se fosse un fucile marcia sul posto alsuono dei dischi, con la mente ingom-bra di ricordi. Alla fine l’oste ammoni-sce: «Ora cambia disco... Gli americanisi stanno già lamentando». Il contadinoreplica: «Gli americani mi possono...» Eallora l’oste si piega e stacca la presadalla spina. La musica si interrompe. Ilvecchio impreca: «sporco ebreo!»«Si diffondono silenzio e sbigottimento»,così descrisse «Die Welt» i secondi suc-cessivi del film, «che colgono anche chinon ha compreso né la situazione né leparole». L’oste volge lo sguardo sgo-mento dallo schermo verso la sala cine-matografica. E quando inserisce nuova-mente la spina nella presa, la macchina

da presa segue la sua mano. Immaginea tutto schermo: sul braccio è tatuato ilnumero del campo di concentramen-to. In seguito a questa scena del suofilm Schwarzer Kies il regista HelmutKäutner (Der Rest ist Schweigen, DasGlas Wasser) fu esposto nell’ultima set-timana delle proiezioni a un’accusa che,in concomitanza al processo Eichmann,sortì particolare scalpore: l’accusa diantisemitismo. Subito dopo la premieredel nuovo film di Käutner, il Consigliocentrale ebraico tedesco presentò infat-ti una denuncia penale contro il regista,il produttore Ulbrich e il capo dellasocietà che distribuiva il film (l’UFA)Theo Osterwind. Il promotore dell’ini-ziativa fu il Dr. van Dam, segretariogenerale del Consiglio centrale ebraico,secondo il cui parere il film contenevadiverse scene atte a offendere la comu-nità ebraica e a sminuirla agli occhi deiconcittadini: «Veniamo rappresentati inmodo ripugnante». Sebbene l’ente tede-sco di autocontrollo della cinematogra-fia FSK avesse approvato e ritenutoineccepibile Schwarzer Kies con il con-senso del suo membro israelitico, vanDam ritenne imprescindibile sollevareuna protesta contro «questo film dastriptease, dove tutti sono prostitute oprotettori»: «Giudico indegno il fatto checome rappresentante di una vittima deicampi di sterminio venga scelto il pa -drone di un bordello». Al tempo stesso,il segretario del Consiglio centrale for-mulò il parere che il film fosse «moltopiù antitedesco che antisemita». In ef -fetti, con la sua opera più recente ilregista Käutner si era riproposto di «col-pire tutti i tabù tedeschi». Egli aveval’intenzione di presentare una «fetta di

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criminale. In effetti, questo tema parti-colare non punta affatto a speculare sulsensazionalismo dell’ambiguo; il riser-bo benevolo nell’uso delle parole edelle immagini ci convince invece delleschiette intenzioni del produttore, tantopiù che Gerhard T. Buchholz, che hafirmato anche la sceneggiatura, si eragià dimostrato più volte (PostlagerndTurteltaube, Weg ohne Umkehr) per -sona responsabile. [...] Il regista PeterPewas ne ha tratto una delle operetedesche più interessanti del dopoguer-ra. Si colgono all’improvviso inquadra-ture di bizzarra bellezza e di suggestivaespressività. Con un montaggio duro eraffinate dissolvenze incrociate, il filmcrea associazioni suggestive. E se occa-sionalmente il regista tende a porre leg-germente in primo piano i simboli, lo sidimentica alla luce dell’eccellenza visivache non avrebbe necessitato del com -mento ampio e a tratti fin troppo loqua-ce di cui il film è corredato. Restanonella memoria le immagini notturne inautostrada, nelle quali il moto agitatodei fanali strappa dall’oscurità dettaglicaratteristici attraverso cui arriva allospettatore l’atmosfera opprimente dellavicenda con un’intensità quasi distur-bante. (Dieter Krusche)

NACHTS, WENN DER TEUFEL KAMORDINE SEGRETO DEL III REICH

Regia: Robert Siodmak; soggetto: da unarticolo di Will Berthold; sceneggiatu-ra: Werner Jörg Lüddecke; fotografia:Georg Krause; montaggio: Walter Boos;scenografia: Rolf Zehetbauer, GottfriedWill; musica: Siegfried Franz; interpre-

ti: Mario Adorf, Claus Holm, HannesMessemer, Peter Carsten, Werner Peters,Annemarie Düringer; produzione: KGDivina-Film; origine: RFT, 1957; forma-to: 35mm, b/n; durata: 105’.Copia 35mm da Goethe-Institut.

Si prospettavano diversi approcci per latrattazione cinematografica del caso diBruno Lüdke. Innanzitutto quello psi-copatologico: uno psicopatico uccideoltre un centinaio di donne delle piùvarie età (come non pensare qui a M);poi quello poliziesco: per dodici anni leforze dell’ordine non colgono alcunnesso fino a che un commissario nonscopre l’entità raccapricciante del caso;la lettura politica: la scoperta dell’omi-cida seriale avviene nel 1944 e l’Ufficiocentrale di sicurezza del Reich, gesti-to dalle SS, vi intravede la possibilitàdi giustificare l’eliminazione malati dimente; per contro, istanze più alte subo -dorano il rischio che incombe sul pre-stigio dell’ordine pubblico: l’omicidaviene quindi liquidato senza procedi-mento giudiziario e gli “informati deifatti” vengono allontanati o espulsi. [...]Il film ha considerevoli meriti dal puntodi vista formale. L’interpretazione deiprotagonisti, la realizzazione visiva, lamusica e i dialoghi meritano studi det-tagliati. Le luci riprendono la tradizionedell’Espressionismo, la cinepresa rag-giunge in singoli momenti una mobilitàespressiva che ricorda Rashomon, men-tre il montaggio integra senza soluzio-ne di continuità filmati reali di attacchiaerei. Tutte queste tendenze apparente-mente in contrasto sono coniugate inuna convincente armonia. Ventotto an -ni dopo il suo Menschen am Sonntag

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Premio Anno unovita» dell’autunno 1960 in Germania, «inmodo duro e diretto, con realtà eroti-che e brutali». Come cornice della vi -cenda egli scelse il paesino di Sohnen(in realtà Lautzenhausen) nel Hunsrück,dove imprese tedesche stavano instal-lando piste per i caccia della NATOsotto la vigilanza degli ufficiali ameri -cani. In questo «calderone di insanacongiuntura», trafficanti mungevano lamucca da latte più ricca del mondo: l’e-sercito statunitense. In questo rozzomilieu si svolge una vicenda fin troppopregna d’azione: un cinico camionistatedesco traffica con la ghiaia destinataalla costruzione delle piste e soffia adun maggiore statunitense la moglie te -desca, sua ex ragazza. La situazione sievolve incresciosamente: al termine fi -niscono sepolti sotto la ghiaia cinquemorti, quattro persone e un cane. Il regista Käutner si prodigò visibilmen-te per imprimere al suo film la durezzapessimista e la cupa energia di certithriller americani e francesi. La freneti-ca attività nel paesino del Hunsrück do -veva al contempo apparire come unospaccato dell’ibridità contemporanea. Ei cadaveri sotto la pista dei caccia pote-vano essere visti come un simbolodella minaccia incombente su quell’e-poca. Presentando un proprietario dibar ebreo, peraltro tratteggiato in modosimpatico, Käutner addossò però a que -sto film il fardello di un’inutile proble-matica. Al solo scopo di «stigmatizzarecerti residui di antisemitismo e di neona -zismo», innestò nel racconto il passag-gio in cui risuonano le parole «sporcoebreo». [...] Così il regista assegnò que-sta parte all’attore Max Buch sbaum, uncittadino israelitico che risiedeva a Ber -

lino e che ricorda: «Si voleva illustrarela vita quotidiana e nella vita quotidianaqualcuno qualche volta escla ma “spor-co ebreo”. Sull’espressio ne del mio vol -to gli spettatori avrebbero dovuto leg-gere l’interrogativo: “Deve cominciaretutto da capo?”» [...] L’UFA, che già peri suoi trascorsi nazionalsocialisti nonaveva alcun interesse a finire coinvoltain controversie di questo genere, sem-brò anche disposta a togliere la scena.Käutner temeva invece, a ragione, cheil fatto di cassarla sarebbe equivalsoall’ammissione di avere commesso ve -ramente delle mancanze antisemite. Ein conformità al contratto con il regista,l’UFA non poteva tagliare senza il con-senso di Käutner. La mattina del mer-coledì dell’ultima settimana si decisefinalmente che non si sarebbe svoltoun processo a Käutner: la Procura ge -nerale di Düsseldorf non vide il motivodi avviare un’istruttoria nella causaSchwarzer Kies. In questa situazione,Käutner e l’UFA – che stando al comu-nicato ufficiale si preoccupava «del pro-blema dei rapporti interpersonali» –vennero in contro al segretario generaledel Con siglio centrale ebraico: in cam-bio di una dichiarazione d’integrità afavore di Käutner, si dichiararono di -sposti a togliere dal film il passaggio cri-ticato. Tuttavia, all’estero il film dovevaessere proiettato in versione integrale.

«Der Spiegel», n. 18, 1961

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Nell’ampia produzione di Klaus Wildenhahn, la cui modestia di artigianodella televisione non cela la forza dell’artista, ogni film indica un percorsoenciclopedico: fu Germania anno zero di Rossellini tra le visioni che lo segnarono come spettatore. Alla rassegna dei Mille occhi, preceduta da un’altra di un festival amico (NodoDocFest), ne potrebbero seguire altre ancora. Ma già ciascuno dei film apre un percorso in cui la passione del cinema s’intreccia con l’ultimo secolo di storia, con le sue catene e con la bellezza delle sue invenzioni artistiche. Si scopre nella semplicità di questo cinema, per cui il documentario non è un recinto, quanto lounisce alla radicalità di Straub-Huillet, alla cultura di Kluge, alla sensualità di Schroeter, alla musicalità di Godard, all’ossessione del suono di Pagnol e Rousseau, al viaggio nell’immagine di Gianikian-Ricci Lucchi, trovando il faro nel cinema come scelta di vita in Dreyer. Tra i film in programma si è voluto unire il Premio alla proiezione di Reise nach Ostende dovepudore e trasparenza s’intrecciano, e lo specchiarsi dell’autore verso leorigini materne tratta di ciò che vi è opposto: la storia di guerre e di morti di questo secolo. La bellissima voce della cantante jazz Donata Höffer legge le struggenti lettere di Gertrud Kant a Max Kaus, artista nelle trinceefiamminghe come Erich Heckel e il “Golem” Paul Wegener. E My MelancholyBaby, che conclude il film sulla parola Love, e che fu scritta da ErnieBurnett, reduce di guerra che riacquisterà la memoria riascoltandola, fu la canzone di Bing Crosby, interprete di McCarey. Il Premio Anno uno vieneassegnato a Klaus Wildenhahn dalla città contigua alle trincee del Carso in cui perirono Scipio Slataper e Carlo Stuparich. Dalla città incapace direalizzare il museo di Diego de Henriquez con la forza della sua concezione.Dalla città che si rassegna alla fatalità di una via intestata al Cadorna chemise in scena il carnaio delle trincee carsiche. Il viaggio a Ostenda diWildenhahn è arrivato a Trieste.

Associazione Anno unosettembre 2011

Klaus Wildenhahn

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L’AMORE DELLA REALTÀ: IL CORPO, LA TRAC-CIA E L’INFORME

di Dario Marchiori

L’omaggio che dedichiamo a Klaus Wil -denhahn riprende e prolunga quellodel NodoDocFest triestino di quest’an-no, proponendo un percorso più atipi-co: da una docu-fiction di Egon Monksu un campo di concentramento per ilquale fu assistente-regista agli inizi del -la sua carriera, fino ad un recente, affet-tuoso ritratto realizzato da un’amicadocumentarista, un film del quale Wil -denhahn può essere considerato coau-tore. Riproponiamo inoltre il semprenecessario Heiligabend auf St. Pauli,l’esperienza più radicale di cinemadiretto compiuta da Wildenhahn, mar-cata da una fortissima unità di tempo edi luogo, e mostriamo il magnificoZwischen 3 und 7 Uhr morgens, il suoprimo film “personale”, girato anch’es-so nel quartiere di St. Pauli ad Amburgodove egli abitò a lungo. Due film not-turni e alcolici che trovano una nuovadeclinazione, “militante”, nel rarissimoe prezioso Tor 2, autoprodotto in Super8nell’urgenza di filmare uno sciopero perle 35 ore, la notte di Capodanno del1978. Tor 2 è inoltre l’unica eccezionein una carriera di produzioni o copro-duzioni televisive, e l’unico suo filmgirato in un formato “sub-standard” ri -spetto al 16mm televisivo.Completano l’omaggio due film deglianni ’80, particolarmente importanti persottolineare l’attenzione al montaggioda parte di un cineasta che ha semprepropugnato il cinema “diretto”: Was tunPina Bausch und ihre Tänzer in Wup -pertal? e Reise nach Ostende. Il primo,

sulla compagnia di Pina Bausch, assu-me oggi una triste attualità, negandosituttavia ad ogni tentazione agiograficaper esplorare la genesi del gesto deldanzatore e mostrarci il lavoro degli ar -tisti come tale, senza idealismi né su-bli mazioni. Reise nach Ostende è unosplendido ritratto di un luogo e di unperiodo (la zona di Ostenda durante laprima guerra mondiale), costruito in -trec ciando il passato e il presente se -condo la passione storico-critica e “car-tografica” di Wildenhahn. Ma il film èanche e soprattutto un viaggio a ritrosonel tempo sulle orme di sua madre, chepassò gli anni della guerra a Ostenda.Reise nach Ostende realizza la sintesitra la passione per la realtà, la ricercasulle tracce del passato e l’investimentopersonale del regista – riportandoci allaviolenza della guerra e alla durezzasanguinosa di Ein Tag di Egon Monk.Ovvero alla memoria di un’epoca, ilnazismo, che marchiò a fuoco la ge-nerazione di Wildenhahn. Entrambi ifilm, seppur con metodi molto diversi,esplorano la storia non scritta della vio-lenza quotidiana, vissuta da personequalsiasi.

Klaus Wildenhahn è uno dei rari docu-mentaristi ad aver affiancato prassi fil-mica e pensiero teorico, e anche perquesto occupa un posto fondamenta-le nella storia del documentario nellaRepubblica Federale Tedesca. Uomo ditelevisione capace di fare davvero“cinema”, Wildenhahn ha lavorato perl’NDR di Amburgo dal 1959 al 1995,quando è andato in pensione. Con unabreve interruzione, alla fine degli anni’70 (quando gira Tor 2), dopo le pole-

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miche provocate da una magnificaserie di film sugli operai della Volks wa -gen di Emden, minacciati da tagli delpersonale e dalla delocalizzazione dellafabbrica negli Stati Uniti. Questa seriemarca anche l’ultima collaborazione conGisela Tuchtenhagen, importante regi-sta di documentari che avremo l’onoredi ospitare a Trieste. Studentessa diWildenhahn (che dal 1968 al 1972 inse-gnò alla dffb di Berlino), Tuchtenhagenfu sua operatrice, collaboratrice e com-pagna per una decina d’anni.Wildenhahn è un autore che convocacon serena decisione e sviluppa con

costanza rivoluzionaria le potenzialitàdel cinema: registrazione e ripresenta-zione del suono e dell’immagine. Lastruttura forte, l’impianto razionale, l’in-tenzione comunicativa, la sintesi diamo re per la realtà e amore per la sto-ria – per un’altra storia, che i libri ditesto non restituiscono – rendono que-sti film un esempio di utopia televisivain grado di conciliare il primo e il se -condo Rossellini: non è un caso cheuno dei suoi film preferiti sia Germaniaanno zero. Eppure Wildenhahn radi -calizza Rossellini col suo amore per ilcinema diretto: se da un lato aggiunge

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dal film Zwischen 3 und 7 Uhr morgens

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una dimensione più fortemente criticae politica nei suoi film, dall’altro spa-lanca ancor più il suo cinema all’emo-zione del quotidiano, all’evento incon -trollato e imprevedibile, al dono delcaso. In questo senso, l’insegnamentoumanista del polacco Jerzy Bossak equello del cinema diretto dell’ingleseRobert Leacock (i suoi due maestri dicinema) sono per lui fondamentali. Lacinepresa 16mm mantiene sempre unacerta distanza dalla situazione, anchegrazie alle focali lunghe; non aggredi-sce ma osserva, mentre il suono direttopercorre lo spazio e talvolta entra nel-la “scena”, mantenendosi relativamenteautonomo dall’immagine.L’attenzione di Wildenhahn per la di -mensione sonora spiega tra l’altro il fat -to che sia diventato egli stesso il fonicodei suoi film, a cominciare da quell’inar -rivabile film “musicale” che è Heiliga -bend auf St. Pauli, girato la sera di Na -tale del 1967 (in questo caso, collaboraalla registrazione del suono il suo amicoHelmut Herbst, cineasta sperimentaledi Amburgo che gonfierà in 16mm Tor2). Le qualità formali del cinema diWild enhahn, la capacità di entrare inempatia con le persone al lavoro e congli esclusi dalla Storia, l’invenzione sot-tile che si dispiega nelle pieghe del-le inquadrature e nelle configurazionidel montaggio contribuiscono ulterior-mente a conferirgli un posto importantenel la storia del cinema non solo tede-sco. I suoi film richiedono di andar oltrelo schermo televisivo che li trasmisecon una certa riluttanza all’epoca: l’in-tempestività della proiezione cinemato-grafica rivela la loro forza e riduce infrantumi l’ideologia televisiva (ed eco-

nomica) ancor oggi dominante, quelladell’attualità, dell’utilità immediata.

EIN TAG. BERICHT AUS EINEM DEUT-SCHEN KONZENTRATIONSLAGER 1939Regia: Egon Monk; assistente alla regia:Klaus Wildenhahn; sceneggiatura: ClausHubalek, Gunther R. Lys, E. Monk; fo to -grafia: Walter Fehdmer; musica: HansDiestel; interpreti: Josef Fröhlich, Hart -mut Reck, Hans Stadtmüller, Heinz Gie -se, Ernst Ronnecker, Eberhard Fechner,Josef Schaper, Ernst Jacobi, Gert Hau -cke, Conny Palme; produzione: NDR;origine: RFT, 1965; formato: 16mm, b/n;durata: 90’.Copia 35mm da Deutsche Kinemathek(per concessione NDR).

Germania, 12 gennaio 1939, “rapporto”di una giornata qualunque: l’arrivo deiprigionieri in un campo di concentra-mento, la selezione, la violenza e laresistenza. Girato nell’inverno 1964-65per la televisione di Amburgo (NDR),Ein Tag è una docu-fiction che mesco-la ricostruzione e immagini d’archivioper raccontare l’orrore quotidiano (sul -la base dei ricordi di Gunter R. Lys, pri-gioniero politico a Sachsenhausen) eopporlo alla vita ordinaria di chi perse-guitato non era, o non ancora. La suastringente attualità viene proprio dallacapacità di spostare lo sguardo sul pas-sato da una visione grottesca del Nazi -smo al “fascismo ordinario”, alla “bana-lità del male”, alla tragica complicità frasopruso e felicità. Il film appartiene allatendenza della “scuola di Amburgo”, distampo brechtiano. «Se non si sta atten-

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ti, la situazione può diventare pericolo-sa», amava ripetere Egon Monk.

ZWISCHEN 3 UND 7 UHR MORGENS

Regia: Klaus Wildenhahn; fotografia:Karl Heinz Wulkow; suono: HerbertSelk; montaggio: Kirsten Wedemann;produzione: NDR; origine: RFT, 1964-1965; formato: 16mm, b/n; durata: 9’.Copia 16mm da Deutsche Kinemathek(per concessione NDR).

Girato nell’autunno 1964, un superbosaggio audiovisivo sulla solitudine e lafragilità dei sogni del signor Nessuno.Agli antipodi del modernismo delle “sin -fonie delle grandi città” degli anni ’20,che celebravano il dinamismo freneticodella modernità e la danza geometricadelle sue luci notturne, Wildenhahnfilma la parte d’ombra della città mo -derna: St. Pauli, il quartiere a luci rossedi Amburgo, “fra le tre e le sette di mat-tina”. La trama sonora crea una compo-sizione sperimentale, il montaggio pa -rallelo disegna un ritmo emotivo checoncilia la tradizione del documentariopolacco e la passione per il cinema di -retto statunitense. Alla fine del film, il so -le torna a brillare, la musica cambia, lametropolitana trascina i corpi stanchiverso il lavoro. Dopo una notte di di -sperata vitalità, ricomincia l’alienazione.

HEILIGABEND AUF ST. PAULIRegia: Klaus Wildenhahn; fotografia:Hans-Joachim Theuerkauf; suono: Hel -mut Herbst, K. Wildenhahn; montag-gio: Gisela Quicker; collaboratori: Fritz

Schult, Marie-Louise Schult; produzione:NDR; origine: RFT, 1967-68; formato:16mm, b/n; durata: 49’.Copia 16mm da Deutsche Kinemathek(per concessione NDR).

Notte di Natale in un bar di St. Pauli,quartiere a luci rosse di Amburgo, tra lesei di sera e le quattro di mattina. Wil -denhahn filma coi metodi del cinemadiretto gli esclusi di una festa obbligata:prostitute e camionisti, clienti abitu ali eoccasionali, un allenatore, un pugileama tore... alla ricerca disperata di unattimo di felicità, di tenerezza, di sesso.Ovvero: un inno all’alcool come solomezzo di sopravvivenza, e alle comuni-tà effimere create dal nostro bisogno dinon sentirci soli. In questo capolavorosconosciuto che ricorda fra l’altro il cine -ma di Cassavetes, l’imprevisto si trasfor -ma in splendida coincidenza, la gammadi tonalità delle immagini e dei suonicompone uno spartito indimenticabile,spalancato sull’abisso dell’Informe.

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dal film Heiliga bend auf St. Pauli

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«Ostenda: capolinea di un viaggio per-sonale»: Wildenhahn stesso ci offre lachiave di lettura di questo film dedicatoall’orrore della prima guerra mondialein Belgio, e alla cancellazione delle trac -ce del passato nella realtà contempora-nea (il film è girato nel 1989). Perché suamadre accorse ad Ostenda come infer-miera volontaria, per soccorrere i ferititedeschi, gli invasori del Bel gio, e viscoprì la necessità incrollabile del paci-fismo. Wildenhahn mantiene se grete leimplicazioni personali, e co strui sce unmagnifico film-saggio di storia “a con-tropelo” della Germania. «Un film turi-stico, storico e documentario» (K.W.).

KLAUS WILDENHAHN –DIRECT! PUBLIC AND PRIVATERegia, suono: Quinka F. Stoehr; foto-grafia: Stefan Grandinetti, Volker Tittel,Q.F. Stoehr; montaggio: Margot Neu -bert-Maric; collaborazione: Rainer Ko -mers; interventi: Klaus Wildenhahn,Horst Rothenstein, Arnold e GreteSaatorf, Peter Adena, Egon Netenjakob,Gisela Tuchtenhagen; produzione:StoehrMedien/ZDF/3sat/NDR/Filmför -derung Hamburg Schleswig-HolsteinGmbH/Filmstiftung Nordrhein-Westfa -len; origine: Germania, 2010; formato:video, col; durata: 84’.Copia DigiBeta da autrice.

Dopo il magnifico Ein Film für Bossakund Leacock (1983-1984), nel quale Wil -denhahn incontrava i due grandi docu-mentaristi per parlare del cinema e del -la vita, è lui stesso a lasciarsi ritrarre daun’amica, la regista Quinka Stoehr. La

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TOR 2Regia, suono: Klaus Wildenhahn; sog-getto: da un’idea di Jutta Uhl e K.Wildenhahn; fotografia (col): RainerKomers, Christoph Hübner; inserti foto-grafici (b/n): J. Uhl, Gabriele Voss;montaggio: J. Uhl; gonfiaggio in 16mm:Helmut Herbst; produzione: K. Wil -denhahn; origine: RFT [1978-]1979; for-mato: Super-8mm (gonfiato in 16mm),col e b/n; durata: 32’.Copia 16mm da Deutsche Kinemathek(per concessione Klaus Wildenhahn).

Capodanno 1978, dalle otto di sera allesette di mattino con gli operai dellaMannesmann in sciopero per ottenerele 35 ore, al Can cello n. 2 della fabbri-ca di Duisburg. Tor 2 disegna il ritrattovivido e sempre necessario di unacomunità di lavoratori che festeggianola felicità di stare assieme, impegnati inuna lotta comune. Anche se l’indomanisarà meno lieto, e l’arma sottile e affila-ta del compromesso ristabilirà l’ordine.Autoprodotto in Super8, «un film emo-tivo. Sentimenti e pensieri di una notteglaciale» (K.W.).

WAS TUN PINA BAUSCH UND IHRETÄNZER IN WUPPERTAL?Regia, idea, voce off, suono: Klaus Wil -denhahn; fotografia: Wolfgang Jost;montaggio: Petra Arciszewski; collabo-ratrice: Jutta Uhl; produzione: NDR/WDR; origine: RFT, 1982; formato:16mm, col; durata: 120’.Copia BetaSP (da 16mm) da DeutscheKi nemathek (per concessione Tanzthea -ter Wuppertal Pina Bausch).

dal film Reise nach Ostende

dal film Direct! Public and Private

Pina Bausch e il suo TanztheaterWuppertal al lavoro. Il principio delmontaggio di materiali spontanei edeterogenei praticato dalla coreografa siritrova nella costruzione del film, laddo -ve Wildenhahn non si limita all’osser-vazione propria del cinema diretto, mainstaura una costellazione di frammen-ti, mettendo ad esempio in parallelo illavoro dei danzatori e quello di un’ope -raia invalida alla catena di montaggio.L’amore per il dettaglio e per l’esperien -za quotidiana della Bausch si travasa esi amplifica nel film di Wil denhahn, checi restituisce il ritratto polimorfo di unacittadina tedesca all’inizio degli anni ’80.

REISE NACH OSTENDE

Regia, voce off, suono: Klaus Wilden -hahn; fotografia: Wolfgang Jost; produ-zione: NDR/WDR; origine: Bel gio/RFT,1989; formato: 16mm, col; durata: 126’.Copia 16mm da Deutsche Kinemathek(per concessione NDR).

difesa del cinema diretto non è soltan-to nelle parole, nei racconti, nelle con-ferenze e negli spezzoni di film diWildenhahn, ma trascolora la forma delfilm, grazie alla complicità giocosa ches’instaura fra i due e agli incontri congli amici di Wildenhahn, che decentra-no il “ritratto”, gli conferiscono una co -ralità emotiva e aprono il cinema direttoallo spessore della memoria.

FUORI CAMPOL’avventura della collezione, II. Viaggio aTrieste

Centro internazionale abolizione guer-re e per la fratellanza universale e perl’abolizione del male e della morte dalpassato e dal futuro, a mezzo dell’in-venzione del tempo quale conseguenzadello svincolamento dallo spazio-tempodi Diego de Henriquez, progetto nonrealizzato di un museo fatto della mate-ria del cinema. Incontro testimoniale,con la partecipazione dello storico del -la collezione Guido Botteri

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Reise nach Ostende di Wildenhahn,ritorno sui luoghi della prima guerramondiale nelle Fiandre, percorse dalricordo del primo romanzo di Simenon,dalle memorie di Paul Wegener inter-prete del Golem e da un canto corale diquella We’ll Meet Again che si ascoltaalla fine di Dr. Strangelove di Kubrick, eprima di tutto da una ricerca dei luoghimaterni, questo capolavoro del registacui assegnamo il Premio Anno uno, esi-geva che tornassimo ad occuparci dellacolpevolmente abbandonata collezionedi Diego de Henriquez. Certo, i Civicimusei cittadini se ne stanno occupandocon acribia, catalogando oggetti e pro-spettando siti cui destinarli, ma bastaleggere il nome che il creatore volevadare al museo per rendersi conto dellatragica sproporzione tra quanto si stafacendo e la lucida follia del progetto.Inoltre ci si dimentica che per Henri -quez il cinema, arte della pelle/pellicolaper dirla con Bazin, era non solo “stru-mento di documentazione” (così comea Wildenhahn mal si acconcia il bruttotermine di “documentarista”) ma luogoessenziale di svelamento della veritàdocumentata. Non solo perché i nume-rosi documenti cinematografici dellasua collezione, oggi abbandonati nell’i-nerte deposito all’Istituto LUCE a Roma,erano parte essenziale di essa e nondovrebbero migrare da quello che puòdiventare un museo fondato su ungenius loci triestino (come lo è MonteVerità ad Ascona). Ma anche perchétroppo spesso si dimentica la passioneda cinefilo selvaggio con cui Henriquez(come Joyce, Saba, Bazlen...) andavaal cinema. Guido Botteri, nel pregevo-le saggio pubblicato in «Archeografo

Triestino», Trieste 1941-1945 nei diaridi Diego de Henriquez (anche in estrat-to da Serie IV - 2010 - Volume LXX/2),rivela episodi esemplari di quella pas-sione: come quello di Henriquez che,nel suo rifiuto di cancellare le memoriein ogni forma e di qualsiasi segno (per-ché l’unico pericolo nel riferirsi a qual-siasi ideologia è di non volerne vederei segni), segnalò in Una piccola mogliedi Giorgio Bianchi (autore dei Milleocchi, e suo film oggi invisibile) alcunifotogrammi in cui sullo sfondo di unaparete l’immagine di Vittorio EmanueleIII risultava cancellata da una censurasulla superficie pellicolare.E poi, non si può dimenticare l’intensaattività di fotografo di Henriquez rispet-to agli eventi storici: senza nessuna ri -cerca di sintesi simboliche alla Capa maritenendo che ogni scatto avrebbe fer-mato il passaggio all’oblio. Né va di men - ticata la sua inventiva da caricaturistache si ritraeva in un’immagine tra KarlValentin e il Kaiser; o i suoi moltepli-ci disegni “osceni” d’intensa ossessionesca tologica verso il corpo femminile.Di fronte a tutta questa complessità delprogetto henriqueziano, unico al mon -do, volerlo risolvere in un museo dimemorabilia belliche è un atto di revi-sionismo forse inconsapevole ma cherivela l’irresponsabilità di una politicaincapace di pensare. (s.g.g.)

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La gaia scienza. Letture di visioni, II.

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Durante il festival si terranno alcuni incontri intitolati La gaia scienza. Letture divisioni II. alle ore 11.00 presso la Stazione Rogers. Qui di seguito il programma:

lunedì 19 settembreA NORDEST DEL CINEMA, I., incontro con Comunicarte (Massimiliano Schiozzi), e pre -sentazione volumi e progetti su Jole Silvani (a cura di Guido Botteri), Ivo Andrić (acura di Mila Lazić), dive jugoslave nel cinema italiano (a cura di Luciano Panella);incontro con Maurizio Radacich, e presentazione volume su Lia Franca (Edizioni ItaloSvevo), con testimonianza di Gianna Penso; incontro con Marina Silvestri su progettiriguardanti Silvio Benco critico cinematografico e Anna Gruber cineasta.

martedì 20 settembreRICERCHE RIVELATRICI SUL CINEMA ITALIANO, I., incontro con Enrico Lancia, e presenta -zione volume sul doppiaggio nel cinema italiano (Bulzoni Editore)CINEMA CHE NON È CINEMA, presentazione di Simone Starace dell’edizione italiana diThe Bear That Wasn’t (L’orso che non lo era, Donzelli Editore) di Frank Tashlin

mercoledì 21 settembreIL CINEMA DI PASQUALE SQUITIERI, incontro con il regista, con la partecipazione di Do -menico Monetti, e presentazione del volume da lui curato sul regista (Guida Editori)

giovedì 22 settembreRICERCHE RIVELATRICI SUL CINEMA ITALIANO, II., incontro con Antonella Ottai, e presen -tazione volume sulla commedia ungherese nel cinema (Bulzoni Editore); incontrocon Alessandra Cori, e presentazione volume su Romolo Marcellini (Le Mani Editore)

venerdì 23 settembreA NORDEST DEL CINEMA, II., incontro con Carlo Gaberscek, e presentazione saggi su setgiuliani, friulani, istro-dalmati e balcanici in «Segnâi di lûs» (Edizioni CEC Udine),rivista diretta da Fabiano Rosso, e in altre pubblicazioni del Friuli Venezia Giulia

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Viaggio in Italia 45/48. Lo sbaglio di essere vivo, ovvero Gli ebrei nellarealtà e fuori della realtà (Dedicato ai cineasti italiani EmanueleCaracciolo, Kurt Gerron, Max Neufeld, Aldo De Benedetti, e al cinemafuori del tempo)Fuori campo: Set paralleloFuori campoFuori campoFuori campo: Produzione parallelaConvergenze parallele: Un epilogo Fuori campo: Film parallelo

Standard & Poor. La rivoluzione industriale, ovvero La penisola deldesiderio (Moody’s Movie. Cinema ed economia: due finzioni allospecchio, II.)Fuori campo: La rivoluzione industriale e Karl Marx (Lavorareper l’umanità) progetti non realizzati di Roberto Rossellini

Isole dai mille occhi. Réunion des amours, II.

Marc Scialom, lontano da Biserta nella terra di Dante, a cura di Nomadica

Nel mezzo del cammin di nostra vita, I. Cinema italiano dall’inferno al paradisoFuori campo

Politica dei critici. Jean-Claude Biette, I., a cura di Jackie Raynal

Donne allo (nello) specchio, I. Riflessi croati, a cura di Branka BenčićConvergenze parallele: Corpi nel paesaggio

Germania anno zero. Viaggio nel cinema della Repubblica FederaleTedesca, II. Germany Noir, a cura di Olaf Möller

Premio Anno uno, VIII. Klaus Wildenhahn, a cura di Dario Marchiori

Fuori campo: L’avventura della collezione, II. Viaggio a Trieste

La gaia scienza. Letture di visioni II.

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Saluti istituzionaliElio De AnnaAssessore alla Cultura - Regione Friuli Venezia Giulia

Maria Teresa Bassa PoropatPresidente e Assessore alla Cultura - Provincia di Trieste

Andrea MarianiAssessore alla Cultura - Comune di Trieste

Brama di vivere(Lust for Life)di Sergio Grmek Germani

Matjaž Klopcic, fiori d’autunno / cvetje v jeseni

Corrieri diplomatici del cinema, I. Ivo Andric�, a cura di Mila Lazić

Fuori campo: Tri slike iz života Vuka Karadžića progetto nonrealizzato per il cinema di Ivo Andrić

Stati generali del cinema italiano, I. Jean-Claude Rousseau nell’Italia senza festivalFuori campo: Fuori orario: notte televisiva a cura di RobertoTurigliatto

Giullari di Dio (Profeti e messia nascosti del cinema italiano, I.)Fuori campo: San Francesco progetti non realizzati scritti daVittorio Cottafavi e Alberto Savinio per Augusto GeninaConvergenze parallele: Stati generali del cinema italiano, II.

Vent’anni dopo. Cottafavi nel nome di Dumas padre e figlioFuori campo: Set parallelo

L’avventura della collezione, I. Film italiani mai visti dal FondoKatholische Filmwerk Filmothek acquisito da Daniela Bartoli allaCineteca del FriuliFuori campo: Set paralleli Convergenze parallele: Uno per tutti, tre per mille

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Sommario

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L’Associazione Anno uno dà appuntamento per la XI edizione di

I mille occhifestival internazionale del cinema e delle arti

English version of the 2011 festival catalog on:www.imilleocchi.com