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NUMEROSEI SPECIALE ALTERNATIVE LENDING UFO Unconventional Financial Overview

Financial Overview - DLA Piper

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NUMEROSEI

SPECIALE ALTERNATIVE LENDING

UFO

Unconventional Financial Overview

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UFO UNCONVENTIONAL FINANCIAL OVERVIEW

La Redazione

CoordinamentoUgo Calò, responsabile del sector Financial Services – DLA Piper Italia

Capo redattoreDanilo Quattrocchi

Comitato di redazioneMartina Antoniutti Carlotta Benigni Alessandro Ferrari Vincenzo La Malfa Francesco Macrì Riccardo Pagotto Giampiero Priori Danilo Quattrocchi Claudia Scialdone Eusapia Simone Federico Strada

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In Questo NumeroLa Redazione 02

EDITORIALE a cura di Nino Lombardo 05

INTERVISTA A DIEGO NAPOLITANO – UBI BANCA a cura di Ugo Calò 07

INTERVISTA A ALESSANDRO ESPOSITO – SC LOWY a cura di Ugo Calò 09

INTERVISTA A ANTONELLA PAGANO – INTRUM a cura di Ugo Calò 11

INTERVISTA A ROBERTO IPPOLITO – RIVERROCK a cura di Ugo Calò 13

REOCO: NOVITÀ NEL DECRETO CRESCITA a cura di Carlotta Benigni and

Tempo di lettura: 5 minuti 15

LE NUOVE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI CDO a cura

di Roberto Trionte e Edoardo Brugnoli 17

Il “CONTRATTO” DI AMMINISTRAZIONE a cura

di Federico Strada e Tommaso Erboli 22

LA PRODUCT GOVERNANCE ARRIVA IN BANCA a cura

di Danilo Quattrocchi e Alessandra Pasticci 24

FINTECH: LE OPPORTUNITÀ OFFERTE DAI “SANDBOX”

a cura di Alessandro Ferrari e Ludovica Mosci 27

NUOVO REGIME DI INCOMPATIBILITÀ PER GLI ESPERTI INDIPENDENTI

a cura di Edoardo Campo e Ludovico Di Nardo 31

IL DECRETO LEGISLATIVO 107/2018: NOVITÀ IN MATERIA

DI “DOPPIO BINARIO SANZIONATORIO” E NE BIS IN IDEM

a cura di Francesco Lalli e Paolo Torsello 33

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Tempo di lettura: 3 minuti

Tipicamente, quando ti viene chiesto di scrivere qualcosa il tuo interlocutore presume tu abbia qualcosa di nuovo da dire. “Puttroppamente”, come direbbe il geniale Cetto La Qualunque, no poiché mi trovo sempre di più a guardare il vecchio che si ripete.

La crisi che a partire dal 2008 ha incominciato ad erodere in maniera significativa gli attivi delle banche nasceva da lunghi anni di grandissima disponibilità di liquidità sui mercati e da una globalizzazione che aveva esteso gli impieghi degli enti finanziari globalizzandone domanda e offerta. L’aria era poi cambiata e il rilievo di consistenti insussistenze negli attivi delle banche hanno portato un terremoto sul sistema bancario mondiale cui i governi hanno risposto con le modalità più diverse: chi investendo ingentissime risorse – si veda per tutti il bail in del governo US – chi invece, meno ricco senz’altro, ma anche privo del necessario piglio e della auspicabile lungimiranza da statista di prima grandezza, ha modificato una serie di norme della legge fallimentare, tra l’altro non in maniera sistematica, scaricando sulle banche il costo degli interventi di salvataggio del sistema industriale.

Peccato che ci si è fatti folgorare dal sogno del bail in a costo zero senza comprendere che le banche, abbattendo parte dei loro attivi anche per effetto delle rigidità introdotte dal soggetto titolare

dei poteri di vigilanza prudenziale, distruggevano valore (a volte l’intero salvadanaio) dei cittadini che nelle banche avevano investito e che hanno continuato ad investire. Salvo adesso pagarne il conto, peraltro con un clamore mediatico che sa un po’ di strumentalizzazione.

Oggi invece? Tutto bene, Abbiamo imparato a vendere e comprare gli NPLs, abbiamo capito che la cessione/acquisto degli UTPs non è assimilabile agli NPLs e che occorrono presidi, strumenti e skills completamente diversi da quelli utilizzati nel modello degli NPLs ma realmente abbiamo risolto il problema del credito problematico (espressione ormai desueta)? Abbiamo compreso realmente come gestire e, soprattutto, come evitare che l’importante operazione di destocking effettuata con costi enormi non debba essere ripetuta alla luce di un nuovo accumulo di stock?

La risposta all’ultima domanda sembra non trovare il conforto che tutti auspichiamo.

Le banche, sempre di meno e sempre più globali, lottano in un mercato in cui l’offerta di denaro con finanza bancaria o strutturata sembra essere diventata una commodity e quindi si discute solo di condizioni economiche, spread e commissioni o meglio di sconti su condizioni economiche, spread e commissioni. Gli imprenditori approfittano di questa situazione per riallineare la maturity attesa degli investimenti con quella

dei finanziamenti al fine di ottenere, con maggiore grado di probabilità, risorse adeguate per il servizio del debito; e fin qui si tratta di razionalizzazione. A queste sacrosante richieste se ne aggiungono altre meno sensate: drammatiche riduzioni dei margini, anche sotto i livelli di costo medio del denaro di tesoreria, alleggerimento di covenants, clausole che riducono la capacità dell’ente finanziatore di intercettare, in termini anticipatori e con poteri di intervento di una qualche rilevanza, i segnali di una problematica di servizio del debito.

Al di la di numeri e statistiche un paio di esempi:

Un amico banchiere mi avvicina poche settimane fa per chiedermi di redigerli un parere che si esprimesse, fornendo indicazioni pratiche, sull’annoso tema dell’eterogestione dell’impresa da parte dell’istituto di credito e se non sarebbe più prudente, come sostengono alcuni colleghi brillanti, astenersi dall’imporre covenants positivi e negativi nei contratti di finanziamento.

Più o meno ti do i soldi per farci quello che vuoi (e cosa l’intermediario dovrebbe professionalmente verificare in termini prospettici per determinare il merito del credito??) e me li ridarai alle scadenze concordate, fermo restando che se non ce la fai (i) lo scoprirò l’ultimo giorno e (ii) potrei trovare una azienda sostanzialmente diversa da

Editorialea cura di Nino Lombardo

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quella originariamente finanziata. Ovviamente non dubiterete sulla conclusione del mio parere…

Un amico imprenditore, seduto sulla tolda di comando di un solido gruppo industriale della logistica, l’altro ieri mi diceva che lui riteneva che la causa della crisi del suo mercato erano i covenants misti basati anche su elementi reddituali (per esempio PFN/Ebitda), “che insomma non ha senso misurare durante la vita del finanziamento se l’impresa produce cassa perché altrimenti le si limitano le scelte imprenditoriali e non si da libero sfogo al coraggio delle decisioni imprenditoriali. Lasciamo solo covenants patrimoniali”.

Decidiamo quindi di dimenticarci che per ripagare i finanziamenti, salvo che non siano bridge verso altre operazioni, occorre che le aziende producano cassa libera e che la stessa sia canalizzata a servizio del debito al fine di ridurre l’indebitamento o comunque assicurarsi di servirlo? Decidiamo quindi di dimenticare che l’equilibrio tra visione entusiastica imprenditoriale e analisi del credito hanno costituito per lungo

tempo la spalla forte del sistema industriale. Decidiamo quindi – in una semplicistica affermazione fatta solo per la presa come slogan che questa può avere su chi ascolta – di dimenticarci che il valore di mercato, e quindi poi riflesso nei bilanci, dei beni posti a servizio dell’impresa è funzione del flusso di ricavi e margini che questi esprimono.

Entrambi gli esempi fatti non sono altro che espressione di correnti culturali tese a mettere in crisi la strategia dei controlli sul mercato, a fare ritenere le verifiche e le stringenti disposizioni di autorità regolatorie di mercato come lacci e lacciuoli di un sistema “antiliberista”.

Sarebbe bello vedere un mercato che si autoregola e auto disciplina, ma lo sappiamo tutti … non è così. Non possiamo prescindere da rigorosi processi di verifica del merito creditizio, non possiamo dimenticarci che le aziende sono entità viventi che cambiano nel tempo che pertanto occorre avere un cockpit che consenta alle aziende di credito di monitorare con regolarità il rispetto degli impegni. Non è nell’interesse di nessuno dare di nuovo vita ad una stagione

di crediti incagliati e di problemi senza soluzioni che distruggono valore sia per i creditori che per gli azionisti. I controlli e i covenants non sono buoni o cattivi in valore assoluto devono essere tagliati sulla produzione di cassa dell’azienda valutata al momento della concessione del credito in termini prospettici: non sono lacci e lacciuoli e nella mia esperienza non è mai capitato che le banche si siano arroccate dietro il testo contrattuale in presenza di nuove prospettazioni, anche non consentite dai contratti di finanziamento.

Di converso, se si pretende di avere mano libera facendo leva su mezzi di terzi (anche in presenza di mezzi propri non adeguati all’azienda) si sta chiedendo di fare assumere agli enti finanziatori un rischio non valutabile e pertanto contrario alle norme sulla vigilanza prudenziale in materia creditizia.

Credetemi non è sostenere una posizione ma il sincero augurio di non dovere trovarsi davanti ad una nuova crisi: non vorrei trovarmi nella posizione scomoda di dover dire “lo avevo detto io …”.

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Intervista a Diego Napolitano – UBI Bancaa cura di Ugo Calò

Tempo di lettura: 3 minuti

Diego Napolitano, Co-Head Structured Finance – Corporate & Investment Banking – Ubi Banca

Q. Alcuni fondi di private debt stanno sbarcando in Italia ed alcune SGR italiane hanno strutturato nuovi fondi di investimento qualificati per concedere finanziamenti. Questi operatori possono rappresentare dei veri competitor per le banche italiane? Oppure potrebbero rappresentare ulteriori player di mercato con cui strutturare operazioni di finanziamento congiunto banche / fondi?

A. Possono rappresentare dei competitor nella misura in cui riescono ad abbassare gli obiettivi di rendimento (al momento ed in generale hanno target di rendimento più alti), altrimenti la competizione è e sarà circoscritta a profili di rischio più alti (ad esempio operazioni di LBO). In ogni caso, ci sono e ci sono state operazioni in cui alcuni fondi di debito sono stati più competitivi delle banche. Possono anche rappresentare dei player con cui condividere operazioni di finanziamento, anche se al momento non ci sono stati molti casi di questo genere. In sintesi, possono essere sia competitor sia partner, ma molto dipende dal profilo di rischio / rendimento e anche dall’interesse / necessità della società finanziata di aprire a finanziatori terzi (esiste un trade-off tra finanziamento bancario e istituzionale).

Q. In altri paesi europei l’attività dei fondi di private debt rappresenta una delle principali fonti di finanziamento in ambito acquisition financing e leverage finance sia per la flessibilità operativa che per la propensione al rischio. In Italia i limiti normativi alla relativa operatività sembra non facilitarne l’azione? Dal tuo punto di vista quale sarà il trend nel prossimo futuro?

A. I fondi di debito sono attivi in Italia ed hanno già finanziato alcune operazioni in ambito acquisition / leverage finance (Fintyre, OCS, BIP, Twinset, Casa.it, ecc.). I casi sono ancora relativamente pochi ma sempre più spesso le banche sono messe in competizione con tali fondi (il trade-off è principalmente costo vs. flessibilità/leva).

Come lending diretto (fatto nel formato di Note/Bond/UniTranche) non ci sono particolari limitazioni; i limiti maggiori sono nel caso di finanziamenti bancari sindacati in cui la maggior parte dei fondi esteri non può fare lending diretto (sono ancora molto pochi quelli autorizzati da Banca d’Italia).

È da valutare bene l’opportunità di aprire maggiormente ai fondi di debito, trovando il modo per agevolarne l’operatività, in quanto se da un lato porterebbero maggiore liquidità nel sistema, a vantaggio

(forse) delle imprese, dall’altro vanno considerati i potenziali rischi annessi in termini sia di maggiore competizione per il sistema bancario sia di maggiore propensione al rischio dei fondi; da ultimo, ma non per importanza, va tenuto conto che ridurrebbero il rischio sistemico delle banche (a differenza di altri Paesi, in Italia il rischio di credito e quindi di default è concentrato nella banche, mentre in USA è di fatto il contrario).

Il trend sarà anche funzione del costo del denaro per le banche che sta aumentando (causa anche l’instabilità politica e l’aumento dello spread); maggiore è il costo del denaro per le banche più probabile è che i fondi di debito possano prendere quote di mercato.

In generale credo che sia positivo che ci siano operatori qualificati con cui confrontarsi, sia che siano concorrenti sia potenziali partner. L’ideale forse sarebbe trovare il modo affinché vengano intermediati più possibile dalle banche, cercando di creare un sistema virtuoso in cui possano coesistere i due mondi (per esempio, l’emissione di un Bond pubblico deve essere “curata” da banche sebbene poi sia collocata interamente ad investitori istituzionali).

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Q. Il mercato del c.d. bonis appare in controtendenza rispetto al passato, con una apparente maggiore disponibilità degli istituti di credito a concedere nuova finanza. E’ effettivamente cosi? O gli istituti di credito tenderanno a concentrare i propri investimenti su più selezionati deal e borrower?

A. C’è sicuramente maggiore liquidità e maggiore disponibilità a concedere nuova finanza, guidata però anche da un favorevole 2018, in cui ci sono state più operazioni della media. Il 2019 sembra decisamente in rallentamento rispetto al 2018.

Mio padre diceva che le banche ti danno l’ombrello quando non piove e te lo tolgono quando piove! Significa, ed un po’ è vero (almeno in alcuni momenti / casi), che in bull market le banche sono in generale più propense al rischio (anche perché lo percepiscono minore) ma, quando il mercato gira e il ciclo diventa negativo, le banche diventano forse fin troppo selettive (alcune banche internazionali hanno deciso di chiudere del tutto l’attività in Italia o di “frizzare” il lending in alcuni momenti o di scaricare più velocemente e più possibile il rischio sull’Italia).

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Intervista a Alessandro Esposito – SC Lowya cura di Ugo Calò

Tempo di lettura: 3 minuti

Alessandro Esposito, Head of Investments – SC Lowy Milan

Q. Il restructuring nel corso dell’ultimo anno ha subito una significativa evoluzione. Da un lato gli effetti degli interventi di bilancio adottati dagli Istituti di credito, da un altro lato la ridotta crescita del settore industriale italiano in termini di posizionamento nel mercato internazionale e di contendibilità delle aziende italiane nel panorama internazionale, sembrano aver aperto il campo ad operatori internazionali attivi negli investimenti nel settore c.d. “distress”. Dal tuo punto di vista, quali saranno le principali direttrici che guideranno nel prossimo triennio lo scenario per tali operatori?

A. Ultimamente tutti sembrano parlare di UTP, ma è importante fare una distinzione a riguardo. Noi per esempio ci focalizziamo principalmente su UTP single name garantiti da navi e real estate, che sono competenze specifiche della nostra società (siamo stati votati per tre anni di fila nella top 10 Lloyds’s List shipping financiers per esempio). Per quel che riguarda il settore corporate le cose sono molto più complicate visti i rischi di recessione del Paese,

le scarse capacità manageriali presenti nelle aziende familiari italiane e le rigidità del sistema che non favoriscono le azioni di tournaround che andrebbero necessariamente prese (penso al mondo del lavoro e alla lentezza delle procedure di ristrutturazione finanziaria previste dalla LF italiana). Inoltre va a mio avviso menzionato il fatto che viste le complicazioni sopra menzionate, in moltissimo casi ha senso impegnarsi per “risolvere” una determinata situazione di crisi aziendale solo se la dimensione e quindi il valore estraibile lo giustificano. Non capisco infatti come si possa parlare di portafogli di UTP corporate con posizioni molto frammentate poiché il costo necessario per la ristrutturazione di molte pratiche sarebbe assolutamente proibitivo. Senza contare che oggi anche i servicers anche più evoluti non hanno le competenze, ben più costose e scarse, per fare ristrutturazioni aziendali complesse. Quindi in molti casi gli investitori a mio avviso non stanno facendo altro che comprare portafogli di futuri NPLs, pagandoli molto di più e con una recovery time molto più lunga.

Q. I fondi di investimento internazionali oltre a investire in portafogli di NPLs rappresentano ora anche possibili “partner” funzionali alla risoluzione di complesse situazioni di sovra-indebitamento e di ristrutturazione. Quale è dal tuo punto di vista circa le relazioni con gli istituti di credito?

A. Ovviamente io posso parlare solo per SC Lowy anche perché noi abbiamo perseguito una strada abbastanza singolare in Italia in quanto abbiamo un ufficio stabile a Milano con un sourcer e 4 analisti e in più abbiamo anche fatto un investimento strategico acquistando una banca locale. Di conseguenza SC Lowy è in Italia per restarci e anzi c’è la volontà di usare l’Italia come ponte per fare investimenti in Europa tramite la banca. Il nostro obiettivo è sempre quello di agire da tramite tra banche e debitori, cercando di utilizzare le nostre skills nel valutare collaterali e situazioni “difficili” per risolvere situazioni complesse. Per esempio nel caso di Fratelli D’Amato, abbiamo lavorato con la società e le banche per risolvere una situazione che avrebbe altrimenti visto le banche perdere tutto il loro collaterale con il conseguente fallimento della società.

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Q. La normativa italiana ha le adeguate flessibilità che il mercato internazionale richiese o presenta a tuo avviso ostacoli al percorso di investimento di fondi d investimento in ambito provate debt o distressed?

A. La normativa sulle cartolarizzazioni e la le modifiche apportate negli ultimi anni alla LF hanno sicuramente fatto dei passi in avanti. “Tuttavia, le nuove previsioni normative in materia di cartolarizzazioni recentemente introdotte sembrano aver aperto nuovi interessanti scenari sia con riferimento al trattamento fiscale delle operazioni delle Reoco sia con riferimento alla flessibilità riconosciuta ai veicoli ex L. 130/99 nell’acquisizione di asset immobiliari.

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Intervista a Antonella Pagano – Intruma cura di Ugo Calò

Tempo di lettura: 3 minuti

Antonella Pagano, Managing Director di Intrum Justitia e Lindorff in Italia

Q. Il restructuring nel corso dell’ultimo anno ha subito una significativa evoluzione. Da un lato gli effetti degli interventi di bilancio adottati dagli Istituti di credito, da un altro lato la ridotta crescita del settore industriale italiano in termini di posizionamento nel mercato internazionale e di contendibilità delle aziende italiane nel panorama internazionale, sembrano aver aperto il campo ad operatori internazionali attivi negli investimenti nel settore c.d. “distress”. Dal tuo punto di vista, quali saranno le principali direttrici che guideranno nel prossimo triennio lo scenario per gli operatori bancari?

A. Penso che l’interesse degli investitori internazionali verso aziende italiane in situazione di distress – i ben noti UTP (“Unlikely To Pay”) – con sottostante interessante sia destinato a crescere nel corso dei prossimi 2-3 anni. Quando parlo di sottostante mi riferisco in primo luogo ad asset immobiliari, sui quali già esiste un tangibile interesse da parte di diversi operatori che si è concretizzato nell’acquisto di single positions o portafogli composti da una aggregazione di posizioni singole con una ottica di gestione e valorizzazione del bene. Situazione differente è quella delle aziende

con un sottostante industriale: fino ad oggi gli investitori si sono concentrati su un numero relativamente limitato di posizioni di grandi dimensioni (indebitamento nell’ordine della centinaia di milioni). Ritengo che ciò sia legato alla complessità del mettere a terra operazioni di investimento di questo tipo (due diligence sulla target con informazioni spesso non complete, interazione con l’imprenditore, i creditori e tra creditori spesso complessa, tempi e meccanismi delle procedure concorsuali…) che l’investitore è pronto ad affrontare solo per investimenti consistenti. Penso però che nei prossimi anni aumenteranno i player dotati di organizzazioni strutturate in grado di affiancare gli investitori sia nella fase di scouting ed execution del deal sia nella fase di valorizzazione post acquisizione. In questa prospettiva apportare competenze di industry oltre che di processo sarà molto importante. Questo consentirà di abbassare la soglia dimensionale di rilevanza per gli investitori, che verosimilmente opereranno a vari livelli della capital structure (equity, nuova finanza super senior…). L’aspetto del financing è particolarmente interessante e critico allo stesso tempo in quanto le società in ristrutturazione sono vive e per operare hanno bisogno

di finanziare anche il capitale circolante, bisogno che spesso si scontra con la difficoltà delle banche ad aumentare l’esposizione verso prenditori non in bonis con il conseguente assorbimento patrimoniale penalizzante. Penso che ci saranno opportunità interessanti per operatori specializzati nel financing in contesti di ristrutturazione che riescano a selezionare efficacemente i target ad alto potenziale; già alcuni player si stanno muovendo in questa direzione.

Q. Le nuove misure in corso di adozione da parte di BCE potranno aprire nuove opportunità? O si leggono nel solco di una continuità col passato?

A. Ritengo che rappresenteranno un incentivo per le banche ad accelerare e potenziare il processo di gestione dei crediti deteriorati, con un maggiore ricorso all’outsourcing con operatori specializzati nelle diversi classi (granulari, con sottostante immobiliare etc.) e la definizione di processi strutturati di vendita di portafogli. In un certo senso penso si ricalcheranno dinamiche già vissute con le sofferenze.

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Q. I fondi di investimento internazionali oltre a investire in portafogli di NPLs rappresentano ora anche possibili “partner” funzionali alla risoluzione di complesse situazioni di sovra-indebitamento e di ristrutturazione. Dal punto di vista quale è il sentiment del mondo bancario verso l’approccio di questi operatori?

A. Penso che le banche vedano positivamente qualunque tipo di soluzione che porti a un deleverage sul credito problematico, purché avvenga a condizioni eque. Particolarmente gradite saranno soluzioni in grado di combinare la derecognition del credito con la minimizzazione delle minusvalenze all’atto della cessione e la partecipazione all’upside generato. La difficoltà è trovare l’equilibrio tra i diversi interessi in gioco.

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Intervista a Roberto Ippolito – Riverrocka cura di Ugo Calò

Tempo di lettura: 3 minuti

Roberto Ippolito, Managing Partner RiverRock – Italian Hybrid Capital Fund

Q. Alcuni fondi di private debt stanno sbarcando in Italia ed alcune SGR italiane hanno strutturato nuovi fondi di investimento qualificati per concedere finanziamenti. Tra questi operatori ci siete voi che ne rappresentate una delle eccellenze. Come vedi il panorama del mercato italiano in questo ambito e quali e principali opportunità nel breve?

A. Il mercato del private debt italiano sta finalmente raggiungendo dimensioni di una certa significatività: secondo i dati AIFI, infatti, dal 2014 al 2018 gli operatori hanno investito quasi 2,7 miliardi di Euro in 278 società. Nel 2018 è continuato il trend positivo degli anni precedenti, con oltre 1 miliardo di Euro investito in 142 operazioni .

Tale trend è destinato a continuare per effetto di una dinamica favorevole sia della domanda che dell’offerta. I principali driver di crescita sono rappresentati, dal lato dell’offerta, da dinamiche del mercato bancario (mole degli NPL) e da cambiamenti regolamentari (accordi di Basilea) che limitano la crescita dei prestiti bancari.

Dal lato della domanda, l’avvento delle tecnologie informatiche e la velocità del cambiamento geo-politico ed economico rendono indispensabile la capacità di reagire in tempi rapidi ai cambiamenti del sistema. Le esigenze di investimento in attivo immateriale (ai fini di mantenere elevato il livello di

competitività aziendale) sono infatti poco supportate dal sistema bancario in quanto tali asset sono poco o per niente utilizzabili come garanzia per il sistema finanziario tradizionale.

L’incertezza macroeconomica inoltre determina un’elevata volatilità che impone una struttura finanziaria solida e quantitativamente adeguata, in grado di fare da “cuscinetto” a tutti gli scenari.

Penso quindi che continuerà il focus dei fondi di private debt in generale sulle operazioni di LBO e dei fondi di minibond sui rifinanziamenti e crescerà il peso sulle operazioni sponsorless (più rischiose ma anche più profittevoli) a supporto della crescita.

Q. In altri paesi europei l’attività dei fondi di private debt rappresenta una delle principali fonti di finanziamento in ambito acquisition financing e leverage finance sia per la flessibilità operativa che per la propensione al rischio. In Italia i limiti normativi alla relativa operatività rappresentano un ostacolo allo sviluppo del relativo business o le strutture tecniche utilizzate consentono in ogni caso la necessaria flessibilità operativa per seguire il trend degli investimenti?

A. Il leverage e acquisition finance sono, in tutto il mondo, gli ambiti di operatività preferiti dai fondi di private debt per i seguenti motivi: a) ridotto

costo di coverage del cliente b) elevata standardizzazione dei contratti c) standard legali internazionali (es LMA standard) che riducono le barriere ed i rischi per i fondi stranieri.

L’Italia ha raggiunto un livello di maturità del private equity ed offre una varietà e profondità di strutture legali e prodotti che la rendono un paese attrattivo anche per gli investitori internazionali.

In tal senso, ritengo che la presenza di operatori di private debt a supporto delle operazioni di LBO sia destinato ad aumentare per la flessibilità nelle strutture di finanziamento e rapidità decisionale dei fondi rispetto alle banche.

Q. Quali aree industriali vedi con maggiore interesse in questo momento?

A. L’Italia è un paese che vanta leadership in un’ampia varietà di settori industriali e di servizi. In tal senso, è possibile trovare opportunità per tutti i gusti!

L’operatività del nostro fondo è a supporto di PMI e manager che promuovono progetti di crescita. Nell’ambito dei progetti di build up, RiverRock Italian Hybrid Capital Fund offre finanziamenti o una combinazione di finanziamento e equity tale da non diluire (o diluire il meno possibile) l’azionista.

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Ritengo che, nel caso la volatilità dovesse aumentare, il focus degli investimenti sarà su settori che possono abbinare una certa resilienza del cash flow (contratti a lunga durata, stickyness dei clienti, ecc.) con opportunità di crescita. In tal senso, l’elevata frammentazione (e necessità di consolidamento) nel food & beverage, ICT, manufactuting li rendono settori particolarmente interessanti per sia per gli operatori di private debt “tradizionali” che per quelli con maggior vocazione al rischio.

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Il Decreto Crescita ha introdotto, inter alia, modifiche alle disposizioni di carattere tributario della Legge sulla Cartolarizzazione relative alle ReoCo, che dovrebbero definitivamente porre fine alle restrizioni ai benefici fiscali applicate dall’Agenzia delle Entrate alle ReoCo.

Le società Reoco sono state disciplinate nel nostro ordinamento dal D.L. 24 aprile 2017, n. 50 (art. 60-sexies, comma 1, lett. b)), che ha introdotto nella Legge sulle cartolarizzazioni (L. 30 aprile 1999, n. 130) l’art. 7.1. rubricato “cartolarizzazione di crediti deteriorati da parte di banche e intermediari finanziari”. L’intervento normativo, volto a promuovere nuove soluzioni per la gestione e lo smaltimento dei crediti c.d. non performing (o NPL) da parte delle banche, era teso ad allineare il sistema italiano alle best practice europee, fornendo un supporto normativo alla prassi del mercato che già ne prevedeva l’utilizzo da qualche tempo.

Le Reoco operano tipicamente a supporto delle operazioni di cartolarizzazione aventi per oggetto NPL, acquisendo la titolarità giuridica degli immobili (o dei beni mobili registrati) posti a garanzia dei crediti deteriorati, ad esempio intervenendo nelle relative aste giudiziarie.

Con le Risposte ad Interpello 2019, l’Agenzia delle Entrate stabiliva che l’esenzione da imposte sul reddito già garantita alle SPV di cartolarizzazione non potesse essere estesa anche alle ReoCo, poiché la Legge sulle Cartolarizzazione non aveva esteso a crediti e attività finanziarie detenuti dalle ReoCo la definizione di “patrimonio separato”, né aveva introdotto alcun richiamo alla disposizione di cui all’art. 3, comma 2, della Legge sulla Cartolarizzazione che definisce tale il patrimonio della SPV.

Per effetto di ciò, l’Amministrazione finanziaria aveva preteso il versamento dell’IRES e dell’IRAP sui proventi finanziari attivi delle ReoCo in costanza di cartolarizzazione. Tale posizione dell’Amministrazione finanziaria aveva suscitato dubbi interpretativi tra gli operatori del settore, soprattutto alla luce della circostanza che l’art. 7.1, comma 4, in tema di ReoCo prescriveva lo stesso vincolo di destinazione previsto per le SPV, da cui deriva l’indisponibilità dei flussi finanziari attivi e l’assenza di possesso degli stessi in capo alla ReoCo.

Il Decreto Crescita ha modificato la formulazione dell’art. 7.1, comma 4, in tema di Reoco, stabilendo espressamente che i beni, i diritti e le somme rinvenute in costanza di cartolarizzazione costituiscano “patrimonio separato a tutti gli effetti”. Come chiarito anche dalla relazione illustrativa, tale modifica dovrebbe consentire di applicare l’esenzione da IRES e IRAP dei proventi percepiti dalle ReoCo in costanza di cartolarizzazione, applicando un regime di neutralità fiscale.

Reoco: novità nel Decreto Crescita a cura di Carlotta Benigni Tempo di lettura: 5 minuti

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Inoltre, la Legge sulla Cartolarizzazione, nella formulazione pre-modifiche, aveva previsto l’estensione del trattamento fiscale agevolato ai fini delle imposte indirette per le società di leasing ai trasferimenti di immobili realizzati da ReoCo. In particolare, le società di leasing sono assoggettate a imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa di Euro 200 ciascuna (indipendentemente dal valore dell’immobile trasferito) per le cessioni di immobili rinvenienti da contratti di locazione risolti per inadempimento dell’utilizzatore.

Parte della dottrina e degli operatori ritenevano che tali agevolazioni fossero applicabili a tutte le cessioni di immobili effettuate dalla Reoco e non solo a quelle relative a immobili oggetto di locazione finanziaria. Tale previsione sembrava infatti “aggiuntiva” rispetto alla prima parte del comma 5 che già equiparava il trattamento fiscale delle Reoco a quello delle società di leasing, dato

che se fosse stata limitata solo a tale tipo di immobili, la specificazione apportata dall’ultimo periodo citato sarebbe stata inutile e ridondante.

Anche in questo caso, tuttavia, l’Agenzia delle Entrate aveva adottato un approccio restrittivo, stabilendo che l’applicazione delle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa sarebbe stata applicabile unicamente ai trasferimenti di immobili effettuati da ReoCo e rinvenienti da contratti di locazione risolti per inadempimento dell’utilizzatore, applicandosi invece le imposte ordinarie per i trasferimenti di immobili diversi effettuati dalle ReoCo.

Il Decreto Crescita ha ora introdotto i commi 4-bis, 4-ter e 4-quater all’art. 7.1 della Legge sulla Cartolarizzazione, estendendo l’applicazione dell’imposta di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa pari a Euro 200

ciascuna: (i) a qualsiasi trasferimento di immobili a favore della ReoCo; e (ii) a qualunque successiva cessione di immobili da ReoCo nei confronti di (i) soggetti che svolgono attività d’impresa, a condizione che gli stessi trasferiscano nuovamente gli immobili nei 5 anni successivi alla data di acquisto e (ii) individui che non esercitano attività d’impresa a condizione che gli stessi possano beneficiare dei requisiti per l’agevolazione “prima casa” e che detengano tali immobili per almeno 5 anni.

L’introduzione di tali ulteriori previsioni dovrebbe superare definitivamente l’interpretazione restrittiva adottata dall’Agenzia delle Entrate, consentendo l’estensione del trattamento fiscale agevolato ai fini delle imposte indirette a tutti i trasferimenti di immobili realizzati da ReoCo (con l’unico limite derivante dal periodo dei 5 anni).

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Le nuove disposizioni in materia di CDOa cura di Roberto Trionte e Edoardo Brugnoli

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1. IntroduzioneLa Legge 130/1999 sulla cartolarizzazione dei crediti (la “Legge sulla Cartolarizzazione”) è stata negli ultimi anni oggetto di numerose modifiche da parte del legislatore, volte principalmente a prevedere nuove tipologie di operazioni di cartolarizzazione. Queste nuove strutture, che si affiancano allo schema tipico della cessione dei crediti oggetto di cartolarizzazione, ben si adattano alla realtà economica italiana degli ultimi anni, caratterizzata (da una parte) da una notevole presenza di non-performing loans e (dall’altra) dalla difficoltà per le piccole e medie imprese di ottenere nuova finanza tramite il tradizionale canale bancario.

Tra le nuove tipologie di operazione previste dai recenti interventi normativi volti anche ad aprire nuove modalità di funding, una delle più rilevanti è sicuramente il c.d. collateralized-debt-obligation (CDO). Infatti, analogamente a quanto avviene sui mercati anglosassoni, è stata introdotta la possibilità di cartolarizzare (non solo crediti pecuniari, ma) anche obbligazioni e titoli similari.

Nonostante le recenti previsioni e l’interesse che è stato generalmente manifestato verso questa nuova struttura, ad oggi il mercato dei CDO ha assistito alla realizzazione di poche operazioni, e la maggior parte di queste hanno coinvolto principalmente players presenti nel settore energy. Una delle ragioni principali è stata la presenza nel nostro ordinamento di ostacoli di natura giuridica, che hanno notevolmente limitato la diffusione di tale strumento.

Il legislatore sembra ora aver accolto le esigenze (e le richieste) espresse dagli operatori di mercato, inserendo l’art. 1, co. 1090 nella L. 145/2018 (la “Legge di Bilancio”), attraverso cui ha modificato la Legge sulla Cartolarizzazione1 e, inter alia, semplificato le operazioni di CDO, agevolandone ulteriormente il possibile sviluppo sul mercato.

In particolare, le nuove previsioni hanno rimosso alcuni dei principali ostacoli alla diffusione di tali tipologie di operazioni, consentendo alle piccole e medie imprese la possibilità di accedere a canali di finanziamento diversi ed innovativi, e creando nuove opportunità per gli investitori.

1 In particolare, la Legge di Bilancio ha modificato l’art. 1, co. 1-bis della Legge sulla Cartolarizzazione come segue: “La presente legge si applica altresì alle operazioni di cartolarizzazione realizzate mediante la sottoscrizione o l’acquisto di obbligazioni e titoli similari ovvero cambiali finanziarie, esclusi comunque titoli rappresentativi del capitale sociale, titoli ibridi e convertibili, da parte della società di cartolarizzazione. Nel caso di operazioni realizzate mediante sottoscrizione o acquisto di titoli, i richiami ai debitori ceduti si intendono riferiti alla società emittente i titoli. Nel caso in cui i titoli emessi dalla società di cartolarizzazione siano destinati a investitori qualificati ai sensi dell’articolo 100 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, i titoli di debito destinati ad essere sottoscritti da una società di cartolarizzazione possono essere emessi anche in deroga all’articolo 2483, secondo comma, del codice civile e il requisito della quotazione previsto dall’articolo 2412 del medesimo codice si considera soddisfatto rispetto alle obbligazioni anche in caso di quotazione dei soli titoli emessi dalla società di cartolarizzazione”.

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2. Panoramica della normativa italiana in materia di CDO e delle modifiche della Legge di BilancioNORMATIVA ITALIANA DI RIFERIMENTOLa disciplina dei CDO è contenuta nell’art. 1, co. 1-bis, della Legge sulla Cartolarizzazione, introdotto con decreto legge del dicembre 2013 (convertito in legge nel febbraio del 2014). In particolare, ai sensi di tale disposizione, le operazioni di cartolarizzazione possono essere realizzate “mediante la sottoscrizione o l’acquisto di obbligazioni e titoli similari ovvero cambiali finanziarie […]” da parte delle società di cartolarizzazione (“SPV”).

Tale normativa andrebbe letta congiuntamente alla disciplina dei c.d. minibond, che ha facilitato, attraverso semplificazioni dal punto di vista fiscale e civilistico, l’emissione di obbligazioni da parte delle piccole e medie imprese in Italia.

La combinazione di queste due discipline apre la strada ad una nuova, e per certi versi innovativa, fonte di finanziamento delle piccole e medie imprese nel mercato italiano.

NUOVE PREVISIONI DELLA LEGGE SULLA CARTOLARIZZAZIONE IN MATERIA DI CDO INTRODOTTE DALLA LEGGE DI BILANCIO

Fino ad oggi, però, questo meccanismo di finanziamento era di fatto accessibile (quasi) esclusivamente alle società per azioni (S.p.A.). Infatti, la disciplina del codice civile (art. 2483 c.c.) relativa all’emissione di titoli di debito da parte delle società a responsabilità limitata (S.r.l.) ha finora costituito un limite intrinseco alla realizzazione di cartolarizzazioni aventi ad oggetto tali titoli di debito. L’ostacolo più grande era costituito dalla previsione secondo cui tali titoli di debito potessero essere sottoscritti esclusivamente da “investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali”, dal momento che le SPV – pur essendo investitori qualificati – non rientrano in questa definizione.

Le nuove disposizioni introdotte dalla Legge di Bilancio hanno previsto un’eccezione alle rigide disposizioni codicistiche, stabilendo che nel caso in cui i titoli emessi dalla SPV (ossia i CDO) siano destinati a investitori qualificati ai sensi dell’articolo 100 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF), i

titoli di debito destinati ad essere sottoscritti da tale SPV nell’ambito (e per la realizzazione) della cartolarizzazione possono per l’appunto essere emessi anche in deroga all’articolo 2483, secondo comma, del codice civile2. È quindi ora consentito alle SPV realizzare operazioni di cartolarizzazione mediante la sottoscrizione di titoli di debito.

In aggiunta a quanto sopra, sempre nel caso in cui i titoli emessi dalla SPV siano destinati a investitori qualificati, è stata inserita un’ulteriore semplificazione che interessa le S.p.A., applicabile alle cartolarizzazioni CDO aventi ad oggetto obbligazioni in particolare, è stato previsto che il requisito della quotazione stabilito dall’articolo 2412 c.c..

3. Principali impatti delle ultime evoluzioni normative in materia di CDOI recenti interventi normativi sopra descritti potranno avere impatti rilevanti per le società italiane e per lo sviluppo dei CDO in Italia.

2 Secondo cui “I titoli emessi ai sensi del precedente comma possono essere sottoscritti soltanto da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali. In caso di successiva circolazione dei titoli di debito, chi li trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali ovvero soci della società medesima.”

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SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATAInnanzitutto, è consentito ora anche per le S.r.l. emettere titoli di debito destinati ad essere sottoscritti da SPV nell’ambito di operazioni di CDO e, pertanto, accedere ad un canale alternativo di finanziamento.

Fino ad oggi, questo non era possibile ed era precluso alle S.r.l. prendere parte a queste tipologie di operazioni. Alternative erano le conversione della società da S.r.l. a S.p.A., ovvero la strutturazione dell’operazione da un punto di vista legale in modo tale da consentire – al ricorrere dei relativi presupposti – l’applicazione di determinate discipline speciali (si pensi ad esempio alla normativa in materia di project bond).

SOCIETÀ PER AZIONIPer quanto riguarda le S.p.A., l’impatto della nuova normativa ha (almeno) una duplice portata.

In primo luogo, soprattutto nei CDO aventi ad oggetto diverse (e numerose) obbligazioni, le nuove previsioni consentono un risparmio in termini di costi e tempistiche (non essendo più necessaria la quotazione di tutte le obbligazioni sottostanti).

In secondo luogo, la possibilità di emettere obbligazioni non quotate oltre i limiti quantitativi previsti dal codice civile (purché, come detto, i relativi titoli emessi dalla SPV siano invece quotati e destinati a investitori qualificati) consente di superare un disallineamento che si era creato tra la disciplina nazionale e quella comunitaria.

In particolare, le nuove previsioni adottate attraverso il Regolamento (UE) 2017/2402 del Parlamento Europeo e del Consiglio (il “Regolamento STS”) in tema di, inter alia, cartolarizzazioni semplici, trasparenti e standardizzate (c.d. “cartolarizzazioni STS”) hanno previsto che, ai fini della qualifica “STS” (e dei benefici che ne derivano), le cartolarizzazioni siano garantite da esposizioni sottostanti che “non comprendono valori mobiliari […], fatta eccezione per le obbligazioni societarie non quotate in una sede di negoziazione”.

È evidente che, in mancanza delle nuova disposizione introdotta dalla Legge di Bilancio, sarebbe stato possibile partecipare a CDO “STS” soltanto per quelle S.p.A. che (non quotando le relative obbligazioni) avessero emesso sotto ai limiti codicistici o che fossero

riuscite a rientrare in un’altra fattispecie di esenzione. Questo aveva un impatto (negativo) sia in termini di dimensione delle S.p.A. possibilmente interessate a questa tipologia di operazioni, sia in termini di size dell’operazione CDO.

A seguito delle nuove previsioni, pertanto, è stato notevolmente ampliato il novero delle S.p.A. a cui è consentito prendere parte in operazioni di CDO che siano anche conformi ai requisiti “STS”.

OPERAZIONI DI “BASKET BOND”Introducendo vantaggi sia per le S.p.A. che per le S.r.l., le nuove previsioni aprono la strada e facilitano la realizzazione di operazioni più complesse., fra cui (tra le più interessanti) vi è il c.d. “basket bond”.

Il primo basket bond in Italia è stato realizzato nel dicembre 2017, nell’ambito del quale la relativa SPV ha emesso un CDO avente come sottostante dieci prestiti obbligazionari con caratteristiche simili tra loro, emessi da società italiane aderenti alla piattaforma di Borsa Italiana denominata ELITE.

Grazie alle nuove disposizioni, sarà possibile realizzare con più facilità operazioni di questa tipologia.

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QUOTAZIONE DEI CDO SU MERCATI REGOLAMENTATICome detto, per le S.p.A. è stato previsto che il relativo requisito codicistico si considera soddisfatto rispetto alle obbligazioni (sottoscritte dalla SPV nell’ambito di una cartolarizzazione) anche in caso di quotazione dei soli titoli CDO emessi da tale SPV.

Questa fattispecie potrebbe avere come effetto quello di favorire e incentivare la quotazione dei CDO in mercati regolamentati, inclusi (auspicabilmente) anche i mercati nazionali.

il mercato regolamentato di Borsa Italiana destinato alla quotazione di, inter alia, asset backed securities (ABS) è il Mercato Telematico delle Obbligazioni (MOT); sono previsti, tra l’altro, i seguenti requisiti di quotazione3 :

(i) requisiti degli emittenti ABS (i bilanci degli emittenti ABS quotate devono essere corredati di un giudizio espresso da un revisore legale o una società di revisione);

(ii) requisiti delle ABS (devono (a) essere oggetto di valutazione da parte di almeno un’agenzia di rating, (b) avere un valore nominale residuo di almeno 50 milioni di euro, (c) essere diffuse presso gli investitori in misura ritenuta adeguata da Borsa Italiana per soddisfare l’esigenza di un regolare funzionamento del mercato).

4. Principali vantaggi dei CDO per le società italiane e gli investitoriAnche alla luce delle modifiche introdotte dalla Legge di Bilancio, i CDO potrebbero comportare diversi benefici, sia per le società emittenti che per gli investitori, come di seguito brevemente riportato.

VANTAGGI PER LE SOCIETÀ EMITTENTI ITALIANE Alcune società potrebbero ottenere finanziamenti anche nei casi in cui, trovandosi in una situazione di indebitamento o per altri motivi, non riescano a fornire direttamente agli investitori idonee garanzie. Gli investitori, infatti, potrebbero fare affidamento sulle garanzie connesse all’intera struttura della cartolarizzazione, circostanza ben diversa rispetto alle esposizioni esclusivamente verso la singola società emittente.

VANTAGGI PER GLI INVESTITORIAlcuni investitori istituzionali, come grandi fondi di investimento stranieri, interessati ad investire nei minibond emessi da società italiane troverebbero più semplice (e potenzialmente meno rischioso) esporsi in una singola e più grande transazione di CDO, invece di procedere a direct lending verso le singole società sottoscrivendo i relativi prestiti obbligazionari.

3 Per l’elenco esaustivo dei requisiti (nonché delle informazioni sull’operazione da comunicare a Borsa Italiana), si rinvia al Regolamento dei Mercati organizzati e gestiti da Borsa Italiana S.p.A. e alle relative Istruzioni.

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5. Principali tematiche legali nelle operazioni di CDOLe operazioni di CDO presentano alcune caratteristiche da un punto di vista legale di cui bisogna tenere conto nella realizzazione dell’operazione.

NUMERO DI PARTI COINVOLTEIn considerazione del fatto che diverse società possono essere raggruppate ai fini della realizzazione di un CDO (si pensi ad esempio ai basket bond), queste operazioni possono essere caratterizzate da un elevato numero di emittenti (a differenza di una tipica operazione di cartolarizzazione in cui il cedente è generalmente una singola entità o pochi soggetti); questo può comportare una maggiore complessità (soprattutto in termini di tempi e negoziazioni) nell’operazione.

SECURITY PACKAGEIn considerazione della natura del soggetto originator (ossia le società emittenti ivi incluse, potenzialmente, piccole e medie imprese), un aspetto fondamentale delle operazioni di CDO è la realizzazione di un idoneo set di garanzie (c.d. security package).

In aggiunta alle tradizionali modalità di garanzia prestate in operazioni di cartolarizzazione, un ulteriore (e peculiare) strumento a beneficio dei portatori dei titoli potrebbe essere la costituzione di forme di garanzia reciproche tra le varie società emittenti le obbligazioni (e da oggi anche i titoli di debito).

In particolare, si può prevedere che tali società emittenti depositino parte dei proventi derivanti dalle emissioni (ossia il prezzo di sottoscrizione corrisposto dalla relativa SPV) come cash reserve. I minibond oggetto delle predette

emissioni rappresentano dunque il “collaterale” dell’operazione, coprendo le potenziali perdite inerenti alla stessa. Pertanto, nel caso in cui una delle società emittenti i minibond sottostanti non riesca ad effettuare uno o più pagamenti ai sensi del relativo prestito obbligazionario, la SPV sarà legittimata ad attingere dalla cash reserve depositata dalla società inadempiente. Laddove anche gli importi di questa cash reserve siano insufficienti, la SPV potrà, pro rata, attingere dalle cash reserve delle altre società emittenti le obbligazioni (o i titoli di debito) sottostanti all’operazione di cartolarizzazione, in conformità alle previsioni della documentazione legale relativa all’operazione.

DOCUMENTAZIONE DEI PRESTITI OBBLIGAZIONARI SOTTOSTANTIUn altro aspetto fondamentale di tale tipologia di operazione è la necessità di coordinare e allineare i termini e le condizioni dei minibond con quelli propri dei CDO.

APPLICAZIONE DELLA REGOLAMENTAZIONE EUROPEA IN TEMA DI CARTOLARIZZAZIONESi segnala infine che le (nuove) operazioni di CDO, al ricorrere di determinati requisiti (in primis il tranching del relativo rischio creditizio), sono soggette a partire dal 1 gennaio 2019 (al pari delle altre operazioni di cartolarizzazione) alle previsioni del Regolamento STS in materia di, inter alia, retention rule e requisiti di due diligence.

Talei previsioni non troveranno applicazione esclusivamente laddove non ricorrano i presupposti richiesti dal Regolamento STS, ovvero la relativa operazione ricada in una delle fattispecie di esenzionie ivi previste.

6. ConclusioneLe operazioni relative ai CDO rappresentano strutture finanziarie che consentono alle società italiane (incluse, in particolare, le piccole e medie imprese) di accedere ad un canale di finanziamento alternativo e innovativo. Considerando i recenti sviluppi normativi e l’interesse mostrato dagli operatori di mercato su tali operazioni, è plausibile prevedere una costante e crescente diffusione dei CDO in Italia.

Dal punto di vista dei players coinvolti (società emittenti e investitori), i CDO consentirebbero di beneficiare di molti vantaggi e costituiscono un efficace strumento per superare alcuni limiti – giuridici e/o operativi – ai fini dell’ottenimento di nuova finanza.

Va tuttavia rilevato che tali operazioni di cartolarizzazione presentano diverse peculiarità ed elementi critici, sia a livello giuridico che operativo, che il relativo arranger e consulente legale dovranno necessariamente tenere in considerazione nella fase di strutturazione del CDO.

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Parlare di contratto, oggi, come strumento per la gestione del rapporto tra la società e il proprio amministratore significa addentrarsi su di un terreno reso scivoloso dalla recente evoluzione giurisprudenziale.

Ed in effetti, due anni fa, con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 1545/2017, la Corte di Cassazione ha sconfessato la propria precedente giurisprudenza (SS. UU. n. 10680/1994) e negato la natura contrattuale del rapporto che lega amministratore e società, ponendo così gli interpreti in una inaspettata situazione di incertezza.

Nel ritenere infatti che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente, tra i due soggetti intercorra solamente un rapporto di tipo societario, la Cassazione ha escluso ogni dualità fra amministratore e società, così negando alla radice la possibilità di regolare per contratto i reciproci obblighi e diritti di società e manager.

Ciò ha portato i primi commentatori ad affermare che, per disciplinare la posizione degli amministratori, si potrebbero utilizzare esclusivamente gli strumenti tipici del diritto societario, ossia le delibere del consiglio di amministrazione o, se del caso, lo stesso atto di nomina dell’amministratore da parte dell’assemblea.

Deve però osservarsi che, nonostante l’intervento della Suprema Corte, la prassi imprenditoriale non si è discostata dal ricorso al service (o directorship) agreement per la regolazione del rapporto tra amministratore e società.

Ecco allora che attraverso il directorship agreement (che, dal punto di vista giuridico, assume generalmente la struttura della promessa del fatto del terzo – art. 1381 c.c. – ) l’organo esecutivo o il rappresentante legale della società si impegnano a far sì che la società, per il tramite dei propri organi collegiali, garantisca all’amministratore l’applicazione di determinate condizioni (in senso lato, “lavorative”) cristallizzate nel service agreement.

Ci riferiamo, per esempio, a particolari obblighi di stabilità, riservatezza, esclusiva e non concorrenza; alla previsione di eventuali golden parachutes; alla tipizzazione delle ipotesi di good e bad leaver; all’inserimento di penali per predeterminare il risarcimento dovuto in caso di inadempimento dell’accordo o, infine, per prevedere meccanismi di arbitrabilità delle controversie tra società e manager.

È davvero difficile, oggi, pensare a forme alternative al contratto per la gestione di tutti questi aspetti, così delicati, del rapporto tra manager e società, accumunati tra loro dal solo fatto di non attenere immediatamente al mandato gestorio (nomina, conferimento

Il “Contratto” di Amministrazionea cura di Federico Strada e Tommaso Erboli

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dei poteri …) ma di riguardare, piuttosto, gli obblighi accessori che le parti inevitabilmente assumono nell’ambito di un rapporto di durata.

Inoltre, nel caso in cui l’amministratore sia anche dirigente della società, il directorship agreement potrà contenere previsioni di raccordo tra la carica societaria e il rapporto di lavoro subordinato introducendo, ad esempio, l’automatico venir meno della prima in caso di cessazione del secondo.

Non dimentichiamo poi che il manager, attraverso la stipulazione del service agreement, riceve un’importante tutela in quanto, in caso di violazione dell’accordo, la Società comunque risponderà contrattualmente degli impegni assunti in proprio con la sottoscrizione dell’accordo.

E la possibilità di attivare tale tutela gioco un ruolo fondamentale ogniqualvolta una società si trovi a voler attrarre una nuova risorsa sul mercato: difficilmente, infatti, un

manager già legato ad una società lascerà la realtà in cui è impegnato senza aver preventivamente firmato alcunché con la nuova società.

Per quanto riguarda il rapporto di amministrazione, insomma, la “morte del contratto” pare ancora lontana.

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La Banca d’Italia attua gli orientamenti EBA in materia di dispositivi di governance e di controllo sui prodotti bancari al dettaglio

Dando attuazione agli Orientamenti EBA in materia di dispositivi di governance e di controllo sui prodotti bancari al dettaglio (product oversight and governance), la Banca d’Italia ha pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 19 dicembre 2018, n. 294 il Provvedimento con cui sono state apportate integrazioni e modifiche alle disposizioni di vigilanza in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari e correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti, adottate il 29 luglio 2009.

Le modifiche si sostanziano nell’introduzione, nella Sezione XI delle richiamate disposizioni, di un nuovo paragrafo 1-bis, dedicato alle procedure di governo e controllo sui prodotti bancari e finanziari. Vengono inoltre apportate limitate modifiche di coordinamento ad altri paragrafi delle Sezioni XI e VIII.

Le disposizioni di recente introduzione sono applicabili a partire dal 1 gennaio 2019 quanto agli intermediari di maggiori dimensioni e a partire dal 1 gennaio 2020 quanto agli intermediari di minori dimensioni e alle BCC e riguardano, in estrema sintesi l’adozione di:

a) procedure in materia di elaborazione (ivi incluse le attività di creazione, sviluppo, combinazione o modifica sostanziale), monitoraggio e revisione dei prodotti bancari e finanziari;

b) procedure e misure organizzative in tema di distribuzione dei medesimi prodotti.

Nonostante gli Orientamenti facciano esclusivo riferimento ai prodotti destinati ai consumatori, la Banca d’Italia ha ritenuto di ampliare il perimetro soggettivo delle nuove disposizioni all’intera clientela al dettaglio. In tal modo, oltre i

La product governance arriva in Bancaa cura di Danilo Quattrocchi e Alessandra Pasticci

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consumatori rientrano nel suddetto perimetro soggettivo anche le persone fisiche che svolgono attività professionale o artigianale, gli enti senza finalità di lucro e le micro-imprese.

Ulteriore differenza rispetto a quanto precisato dagli Orientamenti – che prevedono un’elencazione puntuale dei “prodotti” cui le nuove norme trovano applicazione – l’Autorità ha inteso indirizzare genericamente le nuove disposizioni a tutte le operazioni e servizi che ricadono nell’ambito di applicazione del titolo VI del TUB.

I destinatari delle norme sono: i) le Banche autorizzate in Italia e succursali italiane di banche comunitarie; ii) gli intermediari finanziari ex art. 106 TUB; iii) Poste Italiane S.p.A., per le attività di bancoposta iv) gli IMEL italiani, istituti di pagamento autorizzati in Italia e succursali italiane di istituti di pagamento e di IMEL comunitari.

Lo scopo degli Orientamenti e, quindi, delle modifiche e delle integrazioni apportate, è quello di rafforzare la tutela dei destinatari di servizi/prodotti bancari, attraverso un insieme di regole che disciplinano il processo d’offerta, dalla fase di ideazione del prodotto/servizio (product design) fino alla strutturazione delle fasi distributive, in modo da garantire la correttezza dei comportamenti in tutte le fasi della relazione con la clientela.

Allo scopo di presidiare la correttezza delle relazioni con i clienti, le nuove disposizioni impongono in particolare agli intermediari di porre in essere accorgimenti di carattere

organizzativo atti a garantire che in ogni fase dell’attività di intermediazione sia prestata costante e specifica attenzione alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei comportamenti, così da assicurare che l’offerta dei prodotti bancari e finanziari sia rivolta alla sola tipologia di clientela ritenuta idonea.

A tal fine vengono imposte:

• l’adozione di procedure relative all’elaborazione, monitoraggio e revisione, nonché di procedure e misure organizzative relative alla distribuzione dei prodotti bancari e finanziari;

• il riesame periodico delle politiche aziendali adottate sottoposte ad approvazione del Consiglio di Amministrazione;

• il monitoraggio e valutazione periodica delle procedure da parte delle Funzioni di Compliance e Risk Management;

• l’adozione di procedure di “product testing” per valutare gli impatti che l’offerta o la modifica del prodotto può avere sul mercato di riferimento;

• l’istituzione di Comitati Interfunzionali per la valutazione della struttura dei prodotti offerti;

• l’adozione di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione del personale e dei terzi addetti alla rete vendita: i) coerenti con gli obiettivi e i valori aziendali; ii) ispirati a criteri di correttezza con la clientela; iii) non legati esclusivamente a obiettivi commerciali.

Nelle fasi relative all’elaborazione, monitoraggio e revisione dei prodotti bancari e finanziari gli intermediari sono chiamati ad

adottare procedure interne in grado di assicurare che per tutto il ciclo di vita dei prodotti siano presi in considerazione: i) gli interessi, gli obiettivi e le caratteristiche dei clienti; ii) i rischi tipici dei prodotti che possono determinare pregiudizi per i clienti; iii) i possibili conflitti di interesse, al fine di favorirne il presidio e, ove possibile, il contenimento.

È inoltre previsto che gli intermediari che elaborano i prodotti e ne curano la distribuzione (c.d. distribuzione diretta) nonché gli intermediari che provvedono alla distribuzione dei prodotti per conto di intermediari committenti (c.d. canali di distribuzione indiretti) debbano assicurare modalità di distribuzione adeguate rispetto alle caratteristiche del mercato di riferimento e alle caratteristiche dei prodotti e idonee a consentirne l’offerta corretta.

A tal fine, gli intermediari che elaborano i prodotti e quelli che provvedono alla loro distribuzione per conto di committenti terzi adottano e applicano procedure interne idonee ad assicurare nel continuo che: a) i canali distributivi selezionati offrano i prodotti solo a clienti appartenenti al mercato di riferimento ed eventuali eccezioni siano opportunamente motivate dal canale di distribuzione sulla base degli interessi, degli obiettivi e delle caratteristiche del cliente; se l’offerta è effettuata tramite canali distributivi indiretti, le motivazioni sono trasmesse agli intermediari; b) i canali distributivi diretti e indiretti abbiano livelli di conoscenza e competenza adeguati per stabilire se un cliente appartenga o meno a uno specifico mercato di riferimento e per offrire correttamente ciascun prodotto.

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I mediatori rientrano nella nozione di “canali di distribuzione indiretti”, pertanto la sezione VIII delle Disposizioni è stata modificata per prevedere che essi osservino gli obblighi in materia di distribuzione dei prodotti precisati nel paragrafo 1-bis.2 della Sezione XI.

I mediatori sono, a tal fine, tenuti a rispettare gli obblighi sopra menzionati con specifico riguardo a:

• offerta dei prodotti solo sul mercato di riferimento individuato dall’intermediario produttore, salvo eccezioni opportunamente motivate;

• capacità di stabilire se un cliente appartiene a un determinato mercato di riferimento;

• possesso di un’adeguata conoscenza del mercato di riferimento;

• svolgimento dell’attività di monitoraggio sui prodotti distribuiti; osservanza degli obblighi da parte di dipendenti e collaboratori;

• formalizzazione e documentazione delle azioni intraprese.

Infine, le nuove disposizioni prevedono che l’individuazione e l’aggiornamento del mercato di riferimento, l’elaborazione e l’offerta di prodotti adeguati e coerenti per la clientela possa avvenire attraverso l’adozione di strumenti “anche informativi” che consentano di verificare la coerenza tra il profilo del cliente e i prodotti allo stesso offerti.

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Fintech: le opportunità offerte dai “sandbox”a cura di Alessandro Ferrari e Ludovica Mosci

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“Sandbox”, il recinto di sabbia dove giocano i bambini, è oggi un termine usato nel gergo informatico per indicare l’area di test dove gli sviluppatori provano i nuovi programmi prima della fase finale di deployment, ossia del lancio definitivo online del programma.

Cosa hanno a che fare i sandbox con la finanza tecnologica? Si potrebbe pensare che essi abbiano a che fare con tutto ciò che c’è di “tech” nel settore, e che si tratti quindi di una nuova tecnologia di supporto al fintech, al pari di blockchain o dei registri distribuiti (c.d. Distributed Ledger Technologies o DLT).

Nulla di tutto ciò: i Sandbox hanno a che fare con il profilo prettamente giuridico e regolamentare relativo al fintech. Si parla infatti di “Regulatory Sandbox”.

1. L’importanza della regolamentazioneLe questioni regolamentari costituiscono il nodo centrale dello sviluppo del fintech. La vera sfida per il pieno sviluppo di questo mercato si gioca infatti in ambito normativo, prima ancora che tecnologico ed economico.

Le innumerevoli opportunità offerte dal fintech sono ormai note. Si va dall’equity crowd-funding alle ICO, dai pagamenti elettronici ai bitcoin, dal trading online fino ad arrivare alla robo-advisory. Ma se l’avvento di questi nuovi servizi è stato caratterizzato dalla non regolamentazione, che ha dato un impulso all’innovazione e generato una vera e propria disruption nel mondo finanziario, è ormai sempre più evidente che tutti servizi e le società legate al fintech, prima o dopo, dovranno percorrere la strada della regolamentazione.

I servizi di pagamento elettronico, ad esempio, sono già rientrati nell’orbita della regolamentazione, grazie all’adozione della Direttiva (UE) 2015/2366 sui servizi di pagamento (la c.d. “PSD2” ) che ha rafforzato la trasparenza e la sicurezza nel mercato unico dell’Unione Europea. Oltre alla normativa specifica di settore, il Regolamento Generale Europeo sulla Protezione dei Dati n. 679/2016 (“GDPR”) e la nuova direttiva antiriciclaggio “AML5”, che ha esteso la sua applicazione alle valute virtuali, hanno aggiunto ulteriori tasselli al complicato quadro.

L’Italia – con la recentissima approvazione del Decreto Semplificazioni (D.L. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito in legge con L. 11 febbraio 2019, n. 12) – è invece tra le prime ad introdurre una definizione di blockchain e smart contract, che costituiranno il prossimo grande passo in avanti per rendere il settore fintech più efficiente e trasparente, eliminando alcuni passaggi nella catena di intermediazione mobiliare e rendendo obsolete alcune fattispecie giuridico-economiche. Sempre l’Italia, fu tra i primi paesi a dotarsi di un portale speciale regolamentato CONSOB per l’equity crowd-funding.

Tuttavia, molti servizi fintech non sono ancora sotto la lente della regolamentazione, né in Italia né all’estero. Questo è il caso, ad esempio, delle criptovalute e delle Initial Coin Offering (ICO), che – salvo alcune regole o linee guida ancora in una fase embrionale (ad esempio la guida pratica della FINMA del 16 febbraio 2018 o la proposta di Regolamento Europeo sull’ equity crowdfunding e le ICO) – non sono ancora regolamentate.

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La necessità di una regolamentazione è però evidente: i servizi fintech possono essere soggetti a frodi, attacchi informatici, e riciclaggio. Ma, soprattutto, vista la loro natura speculativa, essi richiedono sicurezza e trasparenza. Non ci si può nascondere dietro al fatto che solo la mancanza di regole può portare al pieno sviluppo del fintech. Le grandi crisi finanziarie sono state proprio determinate dalla mancanza di regole! L’eventuale fallimento di alcune realtà fintech non vigilate potrebbe inoltre avere effetti dirompenti anche sui mercati regolamentati e minare la fiducia anche di intermediari vigilati. L’incertezza del quadro normativo, inoltre, non può che disincentivare i potenziali investitori. La scorsa estate, ad esempio, il Tribunale di Brescia non ha riconosciuto un aumento del capitale sociale di una s.r.l. in valuta virtuale, proprio in considerazione della sua volatilità e della mancanza di un mercato regolamentato.

Chiare regole porterebbero dunque a un aumento degli investimenti, della competizione e al conseguente innalzamento della qualità dei servizi.

E’ altrettanto chiaro, però, che tutto ciò non può esser realizzato mediante una semplice estensione delle regole valide per la finanza tradizionale alla finanza tecnologica. La domanda che ancora resta aperta nella maggioranza dei settori legati al fintech è: “Sì alle regole, ma quali regole?”.

Il Piano d’Azione Fintech 2018 della Commissione Europea offre una panoramica di quali siano le questioni da tenere in considerazione nell’adozione di nuove normative. Il legislatore dovrà

cercare di mantenere un approccio veloce, globale e proporzionato. Un eccesso di regole, non al passo coi tempi e frammentate, porterebbe infatti allo stallo del sistema. Le regole dovranno inoltre esser progettate per consentire la c.d. “interoperability” tra i settori, ormai sempre più frequente (come sta ad esempio accadendo tra il settore finanziario e quello assicurativo con l’avvento dell’insurtech). Sarà inoltre di fondamentale importanza superare la frammentazione del sistema legislativo all’interno dell’Unione Europea, per frenare il c.d. “forum shopping” da parte delle imprese fintech (ossia lo spostamento verso i mercati “di favore”) e favorire l’espansione cross-border di prodotti fintech innovativi. Il principio della tutela del consumatore finale, infine, dovrà permeare tutte le iniziative legislative.

La Commissione Europea, così come l’EBA nel suo “Roadmap on Fintech” del 2018, vedono nei c.d. Regulatory Sandbox la risposta a molte delle questioni sopraesposte.

2. I Regulatory Sandbox: cosa sono, come funzionano e come dovrebbero evolvereCome per l’informatica, si tratta di ambienti strutturati di test dove le innovazioni fintech possono esser testate in collaborazione con le autorità di vigilanza, che mantengono un margine di discrezione e flessibilità nell’adozione delle regole, oltreché in una sorta di collaborazione con una ristretta cerchia di clienti finali, che vengono resi edotti del fatto che i prodotti fintech da loro utilizzati sono in fase di “sperimentazione”.

Non si tratta di meri c.d. “innovation hub”, ossia di canali di comunicazione con le autorità dove le fintech possono ottenere linee guida e chiarimenti sulla regolamentazione (ad esempio sulla compatibilità di una data tecnologia alla normativa esistente). Nel Sandbox nuovi prodotti e nuove regole (o adattamenti di vecchie regole) vengono sviluppati all’unisono dalle imprese fintech, siano esse start-up o realtà consolidate, e dalle autorità di vigilanza, a seconda delle specifiche esigenze.

Due sono quindi le principali utilità dei Sandbox: i) consentono alle fintech di conoscere e applicare le regole esistenti ai loro nuovi modelli di business; ii) fanno in modo che le autorità vengano a conoscenza di tali nuovi modelli in tempo reale, stiano al passo con l’evoluzione della tecnologia e possano così proporre nuove regole in linea con le esigenze degli operatori, o al contrario proibire quei servizi che presentano rischi troppo alti per il mercato finanziario. Il tutto in un area protetta che consente alle imprese fintech di testare il prodotto su scala ridotta, godendo eventualmente di alcune deroghe normative per un periodo transitorio e potendo riadattare i propri prodotti secondo quanto emerso durante il test, primo del vero e proprio lancio sul mercato su scala allargata.

Una terza, ma non meno importante utilità, è infine costituita dalla forte attrattiva che questi “recinti di sabbia” sicuri possono avere per gli investitori. Grazie ai Sandbox, infatti, le imprese fintech i cui servizi non rientrerebbero in un’ attività vigilata e che verrebbero quindi tagliati fuori da un percorso regolato e

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meno rischioso, possono così fregiarsi del “marchio di fiducia UE” e raggiungere una più ampia scala di investitori, oltreché di clienti.

È bene sottolineare, tuttavia, che lo stesso Sandbox può necessitare di una specifica “approvazione” da parte del legislatore: la costituzione di un Sandbox da parte di un’autorità potrebbe infatti fuoriuscire dai poteri quest’ultima.

In Italia, il governo precedente cominciò a parlare dell’introduzione di un Sandbox per il fintech, coordinato da Banca di Italia, Consob e Mef. Tuttavia, finora, l’unico vero esempio di Sandbox italiano si ha in ambito assicurativo, dove è stato costituito un Sandbox controllato dall’IVASS per promuovere lo sviluppo di prodotti assicurativi basati sulla blockchain.

In Europa, come spesso accade, il primo vero precursore a costituire un Sandbox per il fintech è stato il Regno Unito. Dal 2016, la FCA, l’autorità di vigilanza inglese, consente alle imprese bancarie e finanziarie di testare nuovi prodotti o servizi per un periodo di tempo limitato, godendo di alcune deroghe regolamentari, pur nel rispetto di norme a tutela dei consumatori e di alcune ulteriori salvaguardie.

Lo scorso 7 gennaio, l’ESA (“European Supervisory Authority”) che riunisce le autorità di vigilanza europee del settore finanziario (ossia l’EBA, l’ESMA e l’EIOPA), dietro la spinta del Piano d’Azione Fintech 2018 della Commissione Europea, ha pubblicato un report sui Regulatory Sandbox e gli innovation hubs adottati in Europa, che consente di conoscere nel dettaglio come funzionano e cosa ci si auspica in relazione agli stessi. Al momento, oltre al Regno Unito, solo altri quattro paesi europei hanno

adottato un Regulatory Sandbox per il fintech. Si tratta della Danimarca, della Lituania, dell’Olanda e della Polonia.

I Sandbox europei analizzati dall’ESA hanno molti elementi in comune. Tutti sono aperti a start-up, ma anche a realtà già consolidate sul mercato, come banche e big tech, purché promuovano servizi innovativi. I Sandbox europei, inoltre, interessano tutti i settori del fintech, ossia quello bancario, finanziario e assicurativo. Nel recinto del Sandbox non vengono testati solo prodotti finanziari, ma anche prodotti correlati alla finanza, come le tecnologie blockchain o le c.d. soluzioni regtech. In questi casi, se, ad esempio, una start-up intende fornire un servizio “correlato” che sia di supporto a un’attività vigilata finanziaria o bancaria, allora la stessa startup dovrà accordarsi con un’istituzione finanziaria per entrare nel Sandbox insieme, in modo tale che l’autorità possa rivolgersi a tale istituzione per l’applicazione delle regole finanziarie o bancarie. E’ inoltre necessario essere in possesso di determinati requisiti e passare una prima fase di screening. E’ ad esempio richiesta un’ amministrazione societaria solida, un valido business plan relativo al prodotto da testare, una forte componente innovativa del prodotto e la necessità che lo stesso sia testato nel Sandbox perché difficilmente incanalabile nell’attuale framework normativo, e così via. Infine, caratteristica di tutti i Sandbox europei, è che le regole non vengano mai disapplicate, ma, se mai, applicate in maniera “proporzionata”. Se ad esempio è necessaria un’ autorizzazione per una data attività, tale autorizzazione deve esser stata comunque rilasciata prima di poter esser ammessi al Sandbox.

Le fasi di un Sandbox sono tipicamente le seguenti. Vi è una prima fase di ammissione in cui si verifica la presenza dei requisiti di ingresso. Vi è poi una fase preparatoria in cui l’autorità indica ai partecipanti quali siano le regole applicabili (ad esempio quali tra quelle esistenti siano estendibili al nuovo prodotto oggetto di test); specifica i parametri applicabili alla fase di test (e.g. il numero e il tipo di clienti che si potranno coinvolgere); delinea il piano di incontri e di scambio di informazioni tra l’autorità e i partecipanti al Sandbox; chiarisce quali siano le comunicazioni da fornire ai consumatori finali riguardo a tale partecipazione (ad esempio rimanendo trasparenti sul fatto che la partecipazione al Sandbox non significa che il prodotto fintech in questione sia definitivamente approvato dall’autorità); ed infine stabilisce i c.d. piani di “exit” dal Sandbox, con i rimedi, anche risarcitori, a tutela della clientela che dovesse subire un qualche danno determinato dall’insuccesso della fase di test. La vera e propria fase di sperimentazione ha poi una durata che può andare dai sei mesi ai due anni, in cui le società e l’autorità interagiscono e valutano la necessità di modificare i prodotti da un lato e la regolamentazione dall’altro. Se, in questa fase, i partecipanti oltrepassano i limiti stabiliti nella fase preparatoria, l’autorità riacquista pieni poteri di controllo e sanzionatori.

Nella fase di valutazione finale le autorità, infine, approvano il nuovo prodotto fintech e definiscono quali siano le regole già esistenti applicabili allo stesso.

Parallelamente a tutte le suddette fasi, inoltre, il Sandbox può portare alla proposizione di nuova regolamentazione. Anche

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i Sandbox presentano però difficoltà al pari di un processo di legislazione tradizionale. Dal report ESA, emerge che i partecipanti al Sandbox, vista l’interdisciplinarità del fintech, spesso hanno necessità di interloquire non solo con le autorità di vigilanza del settore finanziario, ma anche con altre autorità, come ad esempio i Garanti Privacy. Un ampliamento della platea delle autorità partecipanti al Sandbox è dunque uno dei suoi possibili e

auspicabili sviluppi futuri. E’ inoltre di fondamentale importanza un coordinamento tra autorità a livello europeo. Una start-up che ha compiuto con successo un percorso all’interno di un Sandbox di un dato paese, deve infatti poter lanciare il proprio prodotto in altri paesi dell’Unione Europea senza ulteriori ostacoli. L’ESA, dunque, incoraggia fortemente la costituzione di un “network” di “innovator facilitator” tra le autorità europee che hanno

adottato i Sandbox o innovation hub, per raggiungere approcci univoci e standard.

L’auspicio è che il legislatore italiano promuova quanto prima la costituzione di un Sandbox fintech, così che le autorità italiane possano esser parte attiva dei dialoghi e le iniziative del network europeo di innovator facilitator!

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Nuovo regime di incompatibilità per gli esperti indipendentia cura di Edoardo Campo e Ludovico Di Nardo

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Modifiche all’art. 16 del D.M. 5 marzo 2015. n. 30 in materia di esperti indipendenti

Rispondendo alle istanze da tempo presentate da diversi operatori del settore, la Legge di Bilancio per il 2019 (Legge 30 dicembre 2018, n. 145) ha finalmente novellato l’art. 16 del D.M. 5 marzo 2015, n. 30, in tema di esperti indipendenti.

Le modifiche introdotte sono funzionali all’attuale configurazione dell’attività degli esperti indipendenti che, sulla base della precedente normativa, si trovavano ad affrontare limiti molto pervasivi (soprattutto per società appartenenti a gruppi polifunzionali). L’intervento del

legislatore rende la disciplina meno rigida, di fatto eliminando i problemi connessi al precedente regime delle incompatibilità.

Come contraltare, il legislatore ha introdotto alcuni vincoli procedurali, soprattutto a carico degli esperti indipendenti, che, tuttavia, andranno in ogni caso definiti sulla base del principio di proporzionalità.

In estrema sintesi, le più significative modifiche all’art. 16 del DM n. 30/2015 riguardano:

• il comma 2, dove è stata inserita una specificazione a mente della quale, nell’affidamento dell’incarico, il gestore deve verificare che l’esperto non versi

in una situazione di conflitto di interessi relativamente al singolo Oicr. Rispetto alla precedente formulazione, dunque, lo spettro di verifica e quello delle incompatibilità rilevanti vengono significativamente ridotti: l’indipendenza e l’assenza di conflitti dovranno essere valutate caso per caso al momento in cui la SGR affida l’incarico relativo al singolo Oicr coinvolto;

• il comma 10, integralmente riformulato, impone all’esperto indipendente l’obbligo di astensione dalla valutazione nel caso in cui lo stesso versi direttamente in una situazione di conflitto di interessi. Inoltre, è

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stato posto in capo agli esperti indipendenti l’obbligo di adottare, nel rispetto del principio di proporzionalità (i.e. in base alla propria dimensione e realtà aziendale), presidi organizzativi e procedurali volti a individuare, monitorare e gestire i potenziali conflitti di interesse e a garantire l’autonomia e l’indipendenza del processo di valutazione. Tali presidi e procedure dovranno essere comunicati al gestore nell’ambito del conferimento dell’incarico. L’ambito dei conflitti rilevanti qui risulta essere più esteso rispetto ai soli conflitti che generano incompatibilità effettiva secondo l’attuale configurazione dell’art. 16. In altre parole, anche i conflitti che sono stati, per così dire, “declassati” e la cui esistenza non è più, per l’esperto indipendente, causa di incompatibilità con l’incarico (e che oggi vanno considerati come meri conflitti da gestire in modo idoneo) vanno inclusi nell’ambito applicativo di questa previsione;

• il comma 12, anch’esso integralmente riformulato, dispone che il gestore debba verificare che l’affidamento all’esperto indipendente (o a società ad esso direttamente o indirettamente riconducibili) di ulteriori incarichi non correlati a quello di valutazione di Oicr non pregiudichi l’indipendenza dell’incarico di valutazione e non determini l’insorgere di potenziali conflitti di interesse.

La sostituzione di un elenco preciso e tassativo di attività che comportavano l’obbligo di astensione con l’imposizione al gestore di effettuare una valutazione discrezionale, rende oggi più elastico il campo di applicazione di questa norma. La verifica da parte del gestore viene infatti semplificata dall’obbligo per l’esperto di comunicare al gestore, su richiesta di quest’ultimo, i presidi

adottati per garantire l’oggettività e l’indipendenza della valutazione. In ogni caso, la società di gestione si trova comunque a dover effettuare un processo valutativo che, almeno nel primo periodo di applicazione della norma, risulterà non semplice. Escluse, infatti, le fattispecie precedentemente elencate dalla precedente formulazione del comma 12 (i.e. verifiche e consulenza non direttamente connesse a valutazioni immobiliari; amministrazione di immobili; manutenzione ordinaria e straordinaria; progettazione, sviluppo e ristrutturazione immobiliare; intermediazione immobiliare), servirà del tempo per individuare con certezza le situazioni e le attività in presenza delle quali il gestore dovrà condurre un’analisi particolarmente accurata;

• il comma 15 è stato anch’esso interamente riformulato: l’attuale impostazione, nel regolare il rinnovo dell’incarico di valutazione dei beni relativi all’Oicr, conferma che il predetto incarico non può protrarsi per una durata superiore a tre anni e non può essere conferito nuovamente per gli stessi beni, salvo siano trascorsi almeno due anni dalla data di cessazione dell’incarico precedente.

La modifica normativa, come accennato, accoglie alcune riflessioni degli operatori di mercato, rendendo più elastica la disciplina e ampliando le possibilità di lavoro per gli esperti indipendenti, i quali non si trovano più costretti dalla precedente – e limitante – formulazione dello stesso articolo. Ciò offre interessanti opportunità anche per i gruppi che, nell’alveo della precedente formulazione, subivano forti limitazioni per via del precedente regime di incompatibilità.

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Il Decreto Legislativo 107/2018: novità in materia di “doppio binario sanzionatorio” e ne bis in idem a cura di Francesco Lalli e Paolo Torsello

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Con il recente D.Lgs. 107/2018, il Legislatore è intervenuto al fine di adeguare la normativa nazionale alle previsioni europee in materia di illeciti finanziari.

Tale adeguamento, è bene sottolineare, non ha interessato il complesso dei provvedimenti europei in tale materia.

Difatti, la Legge di delegazione europea 163/2017, che costituisce la fonte preposta all’attuazione delle disposizioni di matrice sovranazionale, richiama esclusivamente il Regolamento n. 596/2014, c.d. Market Abuse Regulation (MAR), escludendo, invece, la Direttiva n. 57/2014, ossia la c.d. Second Market Abuse Directive (MAD 2).

Regolamento e Direttiva citati rappresentano, complessivamente, un’importante innovazione nel contesto della lotta contro le manipolazioni che inficiano il normale svolgimento delle transazioni finanziarie, soprattutto al fine di tutelare il semplice risparmiatore, estraneo alle dinamiche che caratterizzano i “giochi economici” del mercato, o i grandi spostamenti di capitali.

Brevemente, per quanto riguarda la MAR – oggetto poi di integrazione con il D.Lgs. 107/2018 – le novità hanno riguardato innanzitutto le regole amministrative, ridisegnando l’abuso di informazioni privilegiate

e la manipolazione del mercato, nell’ottica di ampliarne i confini applicativi e aggravando la risposta sanzionatoria.

Con riferimento alla MAD 2, invece, la medesima ratio è stata declinata in un ambito più strettamente penale. In particolare, si pensi alla reintroduzione di una specifica fattispecie criminosa per le condotte poste in essere dall’insider secondario, ossia a colui il quale non è riconosciuto un accesso “qualificato” all’informazione (tipico, ad es. del broker), ma ne venga comunque a conoscenza per vie collaterali.

Tuttavia, la mancanza di uno specifico riferimento alla MAD 2 nella Legge 163/2017, ha determinato la sostanziale inefficacia della riforma europea, per quanto concerne i profili criminali della legislazione finanziaria comunitaria.

Il D.Lgs. 107/2018, quindi, ha apportato solo alcune scarne innovazioni di natura penale, con particolare riferimento ai reati ex artt. 184 e 185 del Testo unico finanziario (TUF) (rispettivamente, abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato), i quali risultano ora allineati agli standard europei, considerato che tengono conto sia dei mercati over the counter (c.d. OTC), sia della moderna ingegneria finanziaria.

Le modifiche introdotte dal D.Lgs. 107/2018 interessano, in prima battuta, alcune nozioni che costituiscono le fondamenta del TUF, ampliandone la portata. Si segnalano, tra le altre: (i) l’introduzione del concetto di “benchmark” (o “indice di riferimento”), a seguito del celeberrimo scandalo del LIBOR; (ii) la modifica della definizione di “informazione privilegiata”; (iii) la nuova definizione di “strumento finanziario”, che comprende strumenti negoziati in qualunque sede, nonché anche i mercati OTC.

Passando alle novità previste all’art. 184 TUF, la condotta illecita di tipping è ora integrata dalla possibilità che l’informazione venga comunicata nell’ambito di un “sondaggio di mercato”, previsto dal MAR (art. 11).

Inoltre, in linea con la novellata nozione di “strumento finanziario”, la specifica fattispecie contravvenzionale risulta applicabile a tutti gli strumenti negoziati su qualsiasi trading venue (o sede di scambio), nonché sui mercati OTC.

Il reato di manipolazione del mercato prevede, invece, un numero maggiore di modifiche. Innanzitutto, viene estesa l’applicabilità del reato sia agli ulteriori strumenti finanziari – sulla scorta della nuova definizione – sia ai benchmark (citati in precedenza).

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In secondo luogo, è bene rilevare l’introduzione del comma 1-bis, che dichiara non punibile «chi ha commesso il fatto per il tramite di ordini di compravendita o operazioni effettuate per motivi legittime e in conformità a prassi di mercato ammesse», sempre ai sensi del MAR (art. 13).

Infine, merita di essere ricordato come la novella legislativa in esame impatti, altresì, sul D.Lgs. 231/2001 in tema di responsabilità amministrativa degli enti. Se, da un lato, le innovazioni inerenti le condotte tipiche di “manipolazione del mercato” e “abuso di informazioni privilegiate” modifichino l’ambito di applicazione dell’art. 25-sexies, dall’altro lato viene anche rafforzato l’arsenale punitivo. A tal riguardo, le nuove sanzioni previste dal D.Lgs. 231/2001, risultando particolarmente afflittive e affiancandosi a quelle introdotte nel TUF con il D.Lgs. 107/2018, pongono serie questioni in tema di ne bis in idem, così come interpretato alla luce della giurisprudenza europea.

È proprio il ne bis in idem che costituisce il nodo problematico della nuova normativa qui analizzata. Il c.d. “doppio binario”, previsto pacificamente nel TUF, porta con sé, inevitabilmente, la annosa questione del bilanciamento tra sanzione amministrativa e sanzione penale, come costantemente sostenuto dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE).

In quest’ottica, si comprendono le ragioni che hanno spinto il Legislatore italiano a intervenire sull’art. 187-terdecies TUF (rubricato “Applicazione ed esecuzione delle sanzioni penali ed amministrative”).

Occorre rilevare come fosse ormai chiara l’inadeguatezza di tale disposizione. Difatti, esso prevedeva una forma di bilanciamento aritmetico esclusivamente tra sanzione pecuniaria amministrativa e pena pecuniaria penale, rimanendo, viceversa, del tutto esclusa la possibilità di operare allo stesso modo nel caso di condanna ad una pena detentiva.

Ad oggi, la suddetta disposizione è stata interamente sostituita, integrata da una previsione che, nelle intenzioni, dovrebbe coprire l’intero perimetro sanzionatorio disciplinato dal TUF. Nello specifico, la novità è costituita dalla interazione che dovrebbe crearsi tra le due Autorità, giudiziaria ed amministrativa, al fine di “tenere conto” delle misure punitive già scontate, al momento dell’irrogazione della sanzione di propria competenza.

È facilmente intuibile come sia proprio l’espressione «tengono conto» a risultare eccessivamente vaga e, secondo la dottrina, poco efficace in una prospettiva di riequilibrio del sistema del “doppio binario”.

Per quanto la finalità di conformare l’ordinamento interno alle nuove regole europee sia chiara, parimenti tale finalità non può dirsi soddisfatta, dato l’utilizzo di una clausola aperta che non specifica il perimetro entro cui muoversi in caso di doppia sanzione.

Indubitabilmente si sarebbe potuta sfruttare con maggiore profitto l’occasione offerta da MAD 2 e MAR di ripensare la “sanzione finanziaria”, oggetto di una diatriba che nasce da lontano. In ogni caso, l’attenzione riservata al problema con il D.Lgs. 107/2018 rivela una nuova consapevolezza, che lascia aperta la strada ad interventi normativi sempre più mirati nell’ottica di minimizzare le contraddittorietà che, inevitabilmente, il cumulo sanzionatorio comporta nell’ambito delle garanzie fondamentali riconosciute all’individuo.

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