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Gaetano Filangieri e l’Istituzionalismo economico Maria Silvia Balzano e Gaetano Vecchione IPE Working Paper N. 4 June 8, 2015 ISSN 2284-1229 Online at www.ipeistituto.it

Gaetano Filangieri e l'Istituzionalismo economico Maria Silvia

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Page 1: Gaetano Filangieri e l'Istituzionalismo economico Maria Silvia

Gaetano Filangieri e l’Istituzionalismo

economico

Maria Silvia Balzano e Gaetano Vecchione

IPE Working Paper

N. 4

June 8, 2015

ISSN 2284-1229

Online at www.ipeistituto.it

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Gaetano Filangieri e l’Istituzionalismo economico

Maria Silvia Balzano1 e Gaetano Vecchione2

June 8, 2015

Abstract

L’obiettivo di questo lavoro è duplice. Da un lato si vogliono rintracciare nello studio

compiuto da Filangieri elementi rivelatori di un suo precoce approccio istituzionalista,

soprattutto attraverso il confronto tra le tesi avanzate da Filangieri e quelle di Douglass North,

uno dei capiscuola dell’istituzionalismo economico contemporaneo.. Dall’altro, si mira ad

analizzare le differenze tra le vicissitudini economico-sociali che sfociarono nella Glorious

Revolution nell’Inghilterra del XVII secolo e le vicende che portarono alla Repubblica

napoletana nel 1799 e all’immediata riaffermazione della monarchia borbonica sul Regno

delle due Sicilie. Il lavoro giunge alla conclusione che Filangieri, nella sua profonda lettura

della società europea del XVIII secolo, ha avanzato una proposta interpretativa di forte

impianto liberal-egualitario che presenta importanti parallelismi con la corrente

contemporanea dell’istituzionalismo economico e soprattutto manifesta ancor oggi un

significato importante e drammaticamente attuale.

Keywords: Filangieri, Istituzionalismo economico

JEL classification A130, B150, B310, B520

1 Laureata in Organizzazione e Gestione del Patrimonio Culturale e Ambientale, Università degli Studi Federico II di Napoli. 2 Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Scienze Politiche, Caserta, Italia & IPE – Istituto per ricerche e

attività educative, Napoli, Italia. E-mail: [email protected]

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Finché i mali che opprimono l’umanità non saranno guariti;

finché gli errori ed i pregiudizi che li perpetuano troveranno de’ partigiani;

finché la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla più gran parte del genere

umano;

finché apparirà lontana dai troni;

il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, d’illustrarla.

Se i lumi che egli sparge, non sono utili per il suo secolo e per la sua patria,

lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese.

Cittadino di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte le età,

l’universo è la sua patria, la terra è la sua scuola,

i suoi contemporanei ed i suoi posteri sono i suoi discepoli.

Gaetano Filangieri, La scienza della legislazione, pag 117.

1. Introduzione

Nei decenni a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, Napoli, la capitale del Regno delle due Sicilie era

la terza città più popolata d’Europa dopo Londra e Parigi (Malanima, 2006). A partire dai

primi decenni del XVIII secolo e fino alla fine del XIX, a Napoli nacque e si sviluppò una scuola

di intellettuali che, seppur improntata ad una matrice giuridica, mostrò una inaspettata e

notevole apertura a un nuovo approccio alle scienze sociali, sviluppatosi soprattutto in

Francia e fortemente influenzato dalle scienze naturali e dai suoi metodi sperimentali. I più

importanti studiosi di diritto iniziarono così a cimentarsi nello studio della scienza politica,

del commercio e dell’economia negli stessi anni nei quali, dall’altra parte dell’Europa, Adam

Smith pubblicava l’opera madre della scienza economica moderna “Ricerche sopra la natura e

le cause della ricchezza delle nazioni” (Amatucci, 2010). Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri,

Giacinto Dragonetti, Ferdinando Galiani sono alcuni degli studiosi che resero la Napoli del

tempo un vivace laboratorio di idee dal forte tratto liberal-egalitario. Come è noto furono

questi stessi studiosi a dare vita alla cosiddetta scuola dell’economia civile.

In questo periodo, tra le opere più importanti, spicca senza dubbio La scienza della

legislazione scritta dal nobile giurista e filosofo napoletano Gaetano Filangieri tra il 1780 ed il

1788 durante la reggenza di Ferdinando IV re di Napoli.

Il fervore illuminista, che in quegli anni dilagava in tutte le nazioni europee e che toccò anche

la capitale del Regno delle due Sicilie, ispirò l’Autore nel suo tentativo di redigere un testo

dalle caratteristiche semplici e chiare, capace di indirizzare i monarchi di tutta Europa verso

la produzione di norme e codici rispondenti alle reali necessità dei propri regni. La

individuazione degli ostacoli al raggiungimento della “fiducia pubblica”, ossia, di una

interazione positiva tra manovre del governo e risposta della popolazione e la descrizione

delle riforme necessarie ad ottenerla, è la molla che spinse Filangieri sin dalla gioventù

all’arduo tentativo di scrivere un’opera dalle caratteristiche universali, valida, almeno nelle

sue intenzioni, per ogni regno e per ogni tempo. Si può sostenere che, in qualche modo, i

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cinque libri che compongono La scienza hanno ispirato alcuni tra i più importanti avvenimenti

di carattere socio-politico di fine XVIII secolo, quali la Dichiarazione d’Indipendenza delle

tredici colonie americane, la Rivoluzione francese e, anche se per breve tempo, il governo

della Repubblica napoletana del 1799, proprio grazie all’universalità dei concetti ivi espressi.

La scienza si palesò da subito come un’opera complessa e multiforme per il suo impianto

multidisciplinare. L’argomento principale sulla legislazione europea, infatti, si interseca e si

rapporta ripetutamente nel testo con vere e proprie rilevazioni empiriche sulle condizioni

della popolazione del Regno delle due Sicilie. Focalizzandosi sullo status della comunità

partenopea in particolare, Filangieri denunciò la marcata discrepanza presente tra le

necessità della stragrande maggioranza dei cittadini e le inadatte soluzioni proposte dalla

legge, sviluppando una critica razionale e costruttiva contro l’inefficacia della governance

borbonica, incline al mantenimento di pratiche arcaiche ed anacronistiche (Ferrone, 2003). La

sua formazione giuridico-filosofica, alimentata anche dagli insegnamenti di Antonio Genovesi,

condusse l’Autore a profonde considerazioni su temi allora assai delicati, quali il feudalesimo

e i donativi ecclesiastici, rivelando il suo approccio singolare, innovativo, ma soprattutto

modernamente liberale (Pecora, 2008), nei confronti delle problematiche politiche e sociali

della Napoli di fine Settecento. Non ci è parso azzardato accostare le modalità di indagine e di

ricerca del Filangieri a quelle dell’istituzionalismo economico. Filangieri, come North,

Acemoglu, Robinson e altri autori contemporanei, riconduce continuamente il suo pensiero

alla “fiducia pubblica” che può essere interpretata come la condizione necessaria in grado di

instaurare quel giusto ed equo impianto di norme, abitudini e comportamenti che sono alla

base di qualsiasi società organizzata. Utilizzando un termine introdotto da North, potremmo

affermare che Filangieri, attraverso i suoi insegnamenti e ammonimenti, è stato uno tra i

primi autori a interessarsi delle istituzioni informali, delle cosiddette “regole del gioco”.

L’obiettivo di questo lavoro è dunque duplice. Da un lato si vogliono rintracciare nello studio

compiuto da Filangieri elementi rivelatori di un suo precoce approccio istituzionalista

soprattutto attraverso il confronto tra le tesi avanzate da Filangieri e quelle di uno dei

capiscuola dell’istituzionalismo economico contemporaneo, Douglass North. Dall’altro si

vogliono analizzare le differenze tra le vicissitudini economico-sociali che sfociarono nella

Glorious Revolution nell’Inghilterra del XVII secolo, descritte magistralmente in North e

Weingast, (1989) e le vicende che portarono alla Repubblica Napoletana nel 1799 e

l’immediata riaffermazione della monarchia borbonica sul Regno delle due Sicilie. L’intento è

di mettere in risalto come l’intellettuale e il personaggio storico Filangieri, leggendo nel

profondo le caratteristiche e le contraddizioni della società del XVIII secolo, abbia intravisto

soluzioni ai problemi di quella società dal potente impianto liberal-egualitario, anticipando di

circa due secoli la corrente di pensiero dell’istituzionalismo economico.

Il lavoro è così organizzato: nella parte che segue, si delineerà una breve biografia di Filangieri

e della sua opera principale; la sezione 3 illustrerà gli aspetti principali del pensiero

dell’autore in chiave istituzionalista con un riferimento agli scritti di North; la sezione 4

presenterà, invece, un parallelo tra le vicende che portarono alla Repubblica di Napoli del

1799 e a quelle della Glorious Revolution dell’Inghilterra del XVII secolo; la sezione 5

concluderà.

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2. Gaetano Filangieri e La scienza della legislazione: tra

biografia e contesto storico

Terzogenito di una nobile e antica famiglia di origine normanna, Gaetano Filangieri (Cercola,

1752- Vico Equense, 1788), pur ricevendo una rigida istruzione militare come voleva la

tradizione per i figli cadetti dei nobili, si accostò giovanissimo allo studio del diritto, della

filosofia e della politica. Nel 1774, a soli 22 anni, pubblicò alcune riflessioni in merito a

questioni di politica interna. L’accuratezza dell’esposizione gli suscitò approvazioni e consensi

da più fronti, in Italia come all’estero (Ferrone, 2003); molte furono infatti le voci che si

levarono ad acclamare la precoce arguzia del figlio del principe di Araniello. La molteplicità

degli elogi indirizzati alla figura di Filangieri attirò l’attenzione della corte borbonica e nel

1777 egli venne nominato per volontà reale Maggiordomo di settimana e Gentiluomo di

camera, nonché Ufficiale del Real Corpo de ‘volontari di marina al servizio di re Ferdinando IV

di Borbone, figlio del re di Spagna Carlo III (Filangieri, 2003).

Durante gli anni in cui il pensiero di Filangieri andava formandosi, le monarchie e i principati

europei erano in pieno fervore per le idee di liberalismo e democrazia promosse dai luminari

dell’epoca. Dalla Svezia al Granducato di Toscana, dalla Russia della zarina Caterina all’Austria

dell’imperatrice Maria Teresa D’Asburgo, ovunque era visibile come le diverse reggenze

stessero cercando di metabolizzare il pensiero di autori inglesi come Locke, Hume e

Blackstone che aveva fecondato le menti di filosofi francesi quali Montesquieu, Rousseau e

Diderot per poi estendersi a parte rilevante del resto d’Europa. Definiti dalla storia in seguito

come Despoti illuminati, i sovrani di fine XVIII secolo si distinsero per le loro idee riformiste,

in cui l’abbandono dei dogmi legati alla corona e alla Chiesa e le teorie a favore della ratio

allontanavano dall’ormai anacronistico retaggio medievale. Sotto questi auspici di rinnovo

delle alte sfere, spinto dagli insegnamenti di Antonio Genovesi e dagli ideali di rinascita

sociale nel segno dei lumi democratici e liberali, Filangieri intraprese l’opera La scienza della

legislazione (d’ora in poi La scienza), in cui le parole degli illuministi europei ma soprattutto,

come napoletano, di pensatori vicini al suo vivere quotidiano, come Giambattista Vico e

Bernardo Tanucci, vennero a fondersi con l’esperienza concreta alla corte dei Borbone.

Il suo ingresso nell’entourage della famiglia reale lo portò al centro dell’artificioso mondo

cortigiano, in stretto contatto con la grande corruzione orbitante intorno alla corona

borbonica.

La mancanza di una stabile classe borghese nella Napoli di metà Settecento (Cuoco, 1980)

rendeva palpabile il distacco tra il nobile e il cittadino medio, tra l’interno dei palazzi nobiliari

e la miseria delle strade cittadine. Tutto questo, unito alle vistose condizioni di degrado che

potevano constatarsi sia internamente che al di fuori della capitale del regno, consolidò

l’approccio critico della sua missione letteraria. Nel 1780 vennero pubblicate le sezioni iniziali

de La scienza (Filangieri, 2003).

L’abnegazione di Filangieri a un ideale nato in giovane età e portato avanti con costanza,

dovette purtroppo presto fare i conti con una salute che si manifestò sempre più cagionevole

man mano che il tempo passava. Nel 1783, il suo matrimonio con la contessa Carolina Fremdel

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da Presburgo, venuta a Napoli al seguito della regina Maria Carolina d’Austria, gli permise di

stabilirsi nella quiete di Cava dei Tirreni, dove poter riposare, lontano dalla mondanità

cortigiana. Durante la sua lontananza dalla corte borbonica, Filangieri continuò inflessibile

l’elaborazione di nuove parti dell’opera, giungendo al completamento del terzo e del quarto

libro, senza però rinunciare alla compagnia di amici e stimatori, rendendo la piccola Cava una

mèta di pellegrinaggio intellettuale (D’Alessandro, 1994).

Gli impegni di Corte lo strapparono dalla solitudine di Cava, riportandolo a seguito del

sovrano in modo permanente nel 1787, per partecipare al Supremo Consiglio delle Finanze.

Fu quindi costretto a ritornare nuovamente nel palazzo del fratello maggiore Cesare, nel cuore

della Napoli antica.

Purtroppo la sua salute non sostenne i ritmi del gravoso lavorìo di Palazzo. Decise pertanto di

richiedere un permesso reale nel 1788 e di recarsi a Vico Equense nel castello della sorella

Teresa, dove poter godere della salubrità del posto. La sua salute non trovò il giovamento

sperato nel riposo e nell’aria della penisola sorrentina. Il 21 giugno dello stesso anno, pochi

mesi dopo il suo arrivo, morì in quello stesso castello, a soli 35 anni di età.

2.1 La Scienza della Legislazione

La scienza è un’opera nata con il fine di aiutare monarchi e principi di tutta Europa

nell’esercizio del loro potere. Il progetto iniziale prevedeva sette volumi. Cause contingenti,

invece, portarono all’attuale strutturazione in cinque libri: i primi quattro furono pubblicati

dallo stesso Filangieri tra il 1780 ed il 1785, mentre il quinto uscì nel 1788 dopo la morte

dell’autore, grazie all’interessamento dell’amico marchese Donato Tommasi. Gli ultimi due

volumi, invece, furono dispersi durante i disordini del ’99, quando palazzo Filangieri, sito nel

cuore della Napoli greco-romana, fu saccheggiato e dato alle fiamme (Filangieri, 2003).

La pubblicazione delle prime parti de La Scienza, suscitò numerosi consensi, ma riuscì anche a

destare le ire delle alte sfere della società napoletana, quali i feudatari e gran parte della

nobiltà e della classe ecclesiastica.

Le sue considerazioni contrarie ai donativi riservati alla chiesa, insieme alla violenta polemica

sull’anacronistico perseverare della legge feudale, causarono non poche problematiche a

Filangieri dal 1784, anno che vide la pubblicazione del quarto libro e l’intero lavoro inserito

nell’Indice dei libri proibiti (Ferrone, 2003; Ruggiero, 1999).

Filangieri, dal canto suo, non mostrò mai di sentirsi minacciato o leso da tali ostacoli. Fedele

alla causa, lasciò che la sua stessa opera parlasse contro le calunnie e le azioni lesive a lui

indirizzate. Perseverò nella scrittura, nella pubblicazione, nella traduzione e nella

divulgazione dell’opera sia in Italia e sia all’estero, stringendo forti legami ovunque, dalla

Francia agli Stati Uniti, come testimonia la folta corrispondenza tra il giurista napoletano ed il

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patriota americano Benjamin Franklin3. La corrispondenza tra lui e Filangieri sopravvissuta

all’incendio doloso del palazzo in cui dimorava il filosofo partenopeo nei disordini del ‘99,

testimonia infatti il legame affettivo e politico che i due condivisero sino alla morte del filosofo

napoletano (D’Alessandro, 1994; Pera et al, 2011).

L’esperienza dell’amico americano nella colonia di Pennsylvania fu uno dei moventi più forti

alla stesura dell’opera, incoraggiando Filangieri a sostenere la causa liberal-democratica

anche in Europa. Operando all’ombra dell’assolutismo borbonico, l’autore de La scienza non

nascose la sua speranza di contribuire alla formazione di un governo rappresentativo e

democratico, ispirato al modello americano, anche nel Vecchio Continente. In un frangente

storico in cui la messa in discussione dell’imperialismo britannico poneva sotto i riflettori le

manovre inique dei governi, aprire le porte a possibili ripensamenti sulle azioni dei potenti

era sentito come fattibile, oltre che necessario, e Filangieri trovò nel Regno di Napoli un

ambiente intellettuale già pronto grazie soprattutto alle prammatiche di Bernardo Tanucci e

agli insegnamenti di Antonio Genovesi (Ferrone, 2003).

La minuziosa indagine compiuta da Filangieri, soprattutto nei primi tre libri che costituiscono

il cuore dell’intera opera, rende evidente i limiti di un ordinamento non concepito per le

necessità dei cittadini, rintracciandone i macroscopici problemi presenti in quasi tutti i Regni

europei del Settecento. Nel caso specifico del Regno di Napoli, l’accentramento delle ricchezze,

gli ostacoli al libero commercio, la vessazione fiscale del popolo, uniti ai privilegi delle classi

ricche, alla facilità della corruzione, allo strapotere dei feudatari, si dimostrarono quali

conseguenze di un assetto istituzionale sostenuto da codici superati, del tutto inappropriati

alle esigenze di una nazione moderna (Ferrone, 2003; Filangieri, 2003).

Secondo Filangieri, la conservazione e l'applicazione di tali norme avvantaggiavano soltanto

una piccola parte della popolazione. Accentrando il potere e il controllo in un numero ristretto

di soggetti, soprattutto perpetuando l’usanza presente in tutta Europa di cedere tutti i beni

familiari al solo figlio primogenito, si ostacolava, di fatto, una più giusta ed equa distribuzione

dei beni4. Il perpetuarsi di tale pratica fu letto dal giurista napoletano (sicuramente toccato in

prima persona dalla situazione, essendo terzogenito) quale dimostrazione concreta di come

nel fulcro più interno della società, l’istituzione familiare, si potesse riconoscere un errore

fatale. Un padre che vede nella numerosità della prole un peso, i figli secondogeniti che

guardano con invidia colui che per diritto di nascita li priva di ogni bene, presentava la

riproduzione in nuce del comportamento all’interno della società europea, in cui una

3 Liberale convinto, partecipò attivamente alle mediazioni tra madrepatria e colonie americane negli anni

Cinquanta del XVIII secolo, e sostenne attivamente negli anni a seguire tutte le politiche necessarie alla

liberalizzazione delle tredici colonie nord americane dal predominio inglese. Nel 1776 partecipò alla stesura

della Dichiarazione di Indipendenza americana e nel 1785 divenne presidente dello stato di Pennsylvania.

4 Si veda su questo argomento Kuran (2003) che mette in luce le differenze tra la religione ebraico-cristiana e

quella islamica in tema di successione ereditaria per giustificare, almeno in parte, la crisi commerciale dei paesi

islamici e quindi i sostenuti tassi di crescita economica dei paesi cosiddetti occidentali e il lento declino di quelli

medio-orientali.

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legislatura parziale favorita dai governi -padri- agevolava il solo nobile o il solo ecclesiastico, il

“primogenito” per ceto.

La particolare difficoltà affrontata da Filangieri nell’elaborazione della sua opera è insita

nell’approccio critico da lui assunto verso alcune istituzioni fondanti la medesima società su

cui e per cui scriveva. La visione mercantilista dell’economia, la pressione di leggi dispotiche

ma soprattutto l’ingerenza e l’anacronismo del feudalesimo, rappresentavano problemi

comuni a gran parte d’Europa. Fedele al metodo scientifico, favorevole alla concretezza delle

dimostrazioni, illustrando l’incongruenza insita in tali istituzioni, l’autore espresse le

riflessioni più acute ed attuali, rivelando un approccio complesso e multidisciplinare che

prestava particolare attenzione al concetto di “fiducia pubblica” già richiamato e che avremo

modo di riprendere in seguito.

Al centro della critica filangeriana è l’istituzione del feudalesimo che rappresentava per

l’autore il principale freno allo sviluppo economico e sociale nazionale. Palesemente in

contrasto con il concetto di bene pubblico, l’istituzione feudale lasciava nelle mani dell’elite

baronale la gestione e l’amministrazione di persone, terre e cose. La portata del potere dei

nobili sul contesto sociale da loro gestito, era fonte e ragione di numerose problematiche,

prima tra tutte la piaga della corruzione, evidente soprattutto in ambito giudiziario. Sono

molti i casi in cui Filangieri rileva il peso della volontà e dell’ arbitrio del ceto nobiliare

durante l’iter di una grande quantità di processi, (Ferrone, 2003; Filangieri, 2003). Un vero e

proprio abuso di potere, che da tempo giuristi e pensatori cercavano di arginare; già da un

decennio, infatti, ai fini di attribuire un maggior potere alle leggi in ambito giudiziario,

l’interpretatio dei togati veniva denunciata perché operante fuori il controllo del diritto, in

favore della dimostratio delle sentenze, nella ricerca di una soluzione allo strapotere dei

magistrati e alla loro corruttibilità per mano della volontà dei baroni (Ferrone, 2003).

Se il grande obiettivo della “fiducia pubblica” porta con sé l’abolizione dell’ideologia della

nobiltà ereditaria, introducendo al suo posto quella del “nobile meritocratico”, non più

sostenuto dal potere ma dall’onore e dalla giustizia delle sue azioni, non è difficile

comprendere perché Filangieri professasse a chiare lettere la necessità di abbattere

l’istituzione feudale, portatrice di iniquità e ingiustizia. Attraverso le riforme da lui suggerite

ne La scienza, dal libero mercato all’introduzione di un apparato legislativo democratico, dalla

caduta delle dogane alla necessità di infrastrutture favorevoli al commercio extramoenia,

l’Autore tentò di porre le basi per la creazione di una nazione coesa grazie ad un potere

centrale in grado di rappresentare i singoli soggetti con leggi ed azioni a favore di una crescita

diffusa, delineando una nuova società, nata dal basso, e con una forte connotazione liberale e

democratica (Filangieri, 2003).

3. Filangieri e l’istituzionalismo

La scienza della legislazione di Filangieri indaga sulle conseguenze generate dalla mancata

costruzione di “fiducia pubblica” tra governante e governati. Il significato del legame fra

popolazione e governo, perno della sua discussione sulla qualità della legislazione europea di

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fine XVIII secolo, risulta particolarmente attuale se messa in relazione agli studi compiuti

dagli economisti moderni che fanno riferimento alla corrente di pensiero istituzionalista. La

natura delle argomentazioni utilizzate da Filangieri, sviluppate in un contesto storico molto

lontano e molto differente da quello attuale, rivelano una inaspettata modernità, soprattutto

con riferimento al suo concetto di fides pubblica.

Douglass North, premio Nobel per l’economia nel 1993, nel suo celebre articolo Costitutions

and commitment: the evolution of institutional governing public choice in seventeenth-century

England, pubblicato con B. R. Weingast sulla rivista di The Journal of Economy History nel

1989, illustra le cause sia politiche sia sociali a monte della Glorious Revolution inglese del

1688 e gli effetti positivi che ne scaturirono. Contraddistinta per la sostanziale assenza di

scontri e battaglie, la Glorious Revolution segnò il passaggio dell’Inghilterra dalla monarchia

assoluta di Giacomo II Stuart alla monarchia costituzionale di Guglielmo III di Orange che

dovette firmare per salire al trono la dichiarazione dei diritti (the bill of rights, ), nata sul

modello della Magna Charta redatta tre secoli prima, in cui vi si affermava la superiorità del

potere delle leggi comuni sull’arbitrio del Re (Duroselle, 1991).

All’interno dell’articolo, North si focalizza sulle cause politiche ed economiche che

agevolarono la deposizione di Giacomo II e che avviarono l’Inghilterra sui binari della

democratizzazione. Nella sua indagine, l’economista americano mette in chiaro quanto

l’interazione tra le istituzioni formali e informali gestite dalla governance arbitraria della

monarchia degli Stuart e la reazione della società inglese e del Parlamento in particolare, agli

albori della Glorious Revolution, abbia giocato un ruolo di primissimo piano nel determinare le

scelte politiche successive all’instaurazione della monarchia costituzionale, proiettando la

società inglese verso una serie di trasformazioni che poi favorirono il progresso industriale

del secolo successivo. Secondo North e Weingast furono proprio questi mutamenti delle

istituzioni informali a modificare gli assetti delle istituzioni formali nell’Inghilterra del XVII

secolo e, in seguito, ad avviare quei processi economico-politici e di formazione di “fiducia

pubblica” che hanno liberato poi le forze generatrici della prima rivoluzione industriale.

L’assolutismo degli Stuart, sul trono d’Inghilterra a partire dal 1603, minò nelle fondamenta

ogni diritto di proprietà e culminò nella totale perdita di fiducia degli investitori, per nulla

tutelati durante le loro transazioni, mentre confische e tasse intaccarono anche la fiducia di

piccoli e grandi possidenti. Il crescente stato di insicurezza portò sempre di più verso un

generale regresso dell’attività commerciale, facendo tornare indietro il paese di almeno due

secoli. Il Parlamento inglese, consapevole dei pesanti effetti del dispotismo monarchico,

comprese di dover intervenire sulle norme formalmente costituite dalla corona. La

contrapposizione tra gli interessi rappresentati dal Parlamento e le pretese della monarchia

andò ad amplificare la frattura nel governo tra i due detentori del potere. Nonostante molti

parlamentari appartenessero alla classe borghese e mercantile manifestando vicinanza non

poca assonanza alle manovre degli Stuart, l’assolo generale per una maggiore tutela dei diritti

di proprietà, contribuì alla fusione dei risultati storico e politici culminanti con il The Bill of

Rights.

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Il cambiamento istituzionale che avvenne con la caduta della dinastia Stuart, influì

enormemente sull’evoluzione della società inglese. Il The Bill of Right si rivelò una

dichiarazione dei diritti assai ben congegnata, capace di raggiungere l’obiettivo di rafforzare la

fiducia pubblica. Un maggior potere delle leggi comuni rispetto alle leggi emanate dal Re

limitò l’arbitrarietà delle sue pretese. L’effetto del controllo sui regnanti fu quasi immediato:

si riattivarono gli investimenti nazionali e le concessioni di prestiti alla corona. Sapendo dei

limiti legislativi sulle decisioni dei monarchi, non si ebbe più timore che l’arbitrio del re

andasse contro gli impegni presi, minando così la certezza del diritto. La certezza dei contratti

stipulati con la corona inglese abbassò il tasso d’interesse nell’arco di soli nove anni dalla

Rivoluzione Gloriosa. La netta crescita dei prestiti concordati, accompagnati dal declino dei

tassi, indicò che il complessivo rischio associato al comportamento del governo diminuì

considerevolmente rispetto all’enorme crescita del debito che venne a formarsi dopo il 1689.

Nemmeno il forte indebitamento in seguito alla guerra contro la Francia intrapresa da

Guglielmo III minò la fiducia generale nei comportamenti inglesi, oramai rassicurati dalla

presenza di una costituzione. Inoltre, seguirono il cambiamento positivo, le trattative

finanziarie private, incentivate dal miglioramento della situazione pubblica. Numerosi, infatti,

furono i prestiti concordati per attivare nuove industrie sul territorio, agevolate dalle

richieste non troppo gravose degli istituti bancari (North e Weingast, 1989).

I monopoli furono affidati nelle mani del parlamento, togliendo alla corona il principale

strumento con cui per anni era andata arricchendosi senza nessun controllo. La legge sulla

libertà di presentare petizioni, infine, permise al popolo inglese di intervenire più attivamente

sulle argomentazioni parlamentari, coinvolgendolo nelle decisioni governative su tematiche

economiche e politiche.

La presa di coscienza del governo di assicurare un buon comportamento nei confronti dei

diritti privati, sollevò il commercio da uno stato di immobilità ed incentivò gli investimenti su

suolo inglese.

La spartizione del potere politico apportata dalla riforma istituzionale inglese fu seguita da un

aumento esponenziale della fiducia verso la nuova governance. A differenza del precedente

periodo assolutista, le istituzioni economiche regolate dal parlamento avviarono l’Inghilterra

verso un processo di crescita generalizzato, in cui le ricadute delle nuove istituzioni

apportarono benefici a tutta la società. Un secolo dopo, il percorso di crescita e progresso

favorito dalle istituzioni successive alla caduta di Giacomo II, culminò nella Rivoluzione

industriale. Furono stravolte, così, forme normative da secoli affermatesi tra la corona e la

popolazione d’Inghilterra, e che pian piano consolidarono una sempre più netta ripartizione

del potere.

Gli economisti Daron Acemoglu e James Robinson (2012), nel trattare l’argomento della

Glorious Revolution riconoscono come sia stata di fondamentale importanza la presenza

d’istituzioni politiche ed economiche di tipo inclusivo nell’Inghilterra del XVII secolo, ossia di

matrice democratica e liberale, che operando a favore della crescita, costituirono la base della

nuova strada evolutiva nazionale, ribaltando totalmente la precedente tipologia di

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governance5. L’introduzione della costituzione nell’apparato politico inglese permise di

garantire un certo grado di ordine legislativo, arginando l’arbitrarietà della corona in materia

finanziaria e decisionale, distribuendo tale potere tra i membri della società. Congiunti con gli

interessi mercantili della borghesia presente nel parlamento, gli sproni per l’imprenditoria

pubblica e privata e la successiva crescita verso l’industrializzazione furono più che agevolati

dalle ripercussioni del ribaltamento politico del 1688.

Un confronto tra l’analisi di North e il metodo utilizzato da Filangieri durante la sua anamnesi

sulla legislatura europea del XVIII secolo, potrebbe rivelare l’attualità delle sue considerazioni

sulla stretta relazione tra potere e società, scritte nell’epicentro di uno stato Assolutista come

quello di Ferdinando IV di Borbone e riportate ne La scienza della legislazione.

La similitudine dei paradigmi teorici utilizzati dagli autori menzionati si evidenzia soprattutto

nella loro descrizione dei sistemi gestiti dall’assolutismo: la monarchia degli Stuart e quella

dei Borboni, sono tutti e due esempi di governi che hanno operato attraverso l’uso di

istituzioni estrattive, per rimanere nella definizione proposta da Acemoglu e Robinson. In tutti

questi governi si presenta una bassa, se non assente, collaborazione tra popolazione e

governo, dovuta all’assenza di fiducia tra le due parti. Il peso della credibilità della corona

anglosassone nell’opinione pubblica, che in seguito sostenne ed incentivò l’immissione della

monarchia costituzionale, non sembra essere dissimile dalla filangeriana fiducia pubblica.

North, economista moderno, nella sua esposizione dei fatti culminanti nella Glorious

Revolution inglese, palesa quanto profonde possano essere le conseguenze a seconda della

condotta assunta dai governanti, e quanto queste possano determinare un ribaltamento nella

linea di condotta politico-economica nazionale (North e Weingast, 1989). L’indissolubile

rapporto tra governo e società, tra legittimazione del primo attraverso l’approvazione del

secondo è forse la leva principale di Filangieri per attirare l’attenzione della corona borbonica

sulle problematiche sociali dell’allora attivo apparato legislativo. Nelle sue considerazioni

sulla relazione tra il potere e i bisogni sociali nel Regno delle Due Sicilie, chiama più volte in

causa il diritto naturale che esplicitamente rivendica l’assonanza tra potere e popolo. L’autore

partenopeo, memore dell’atto rivoluzionario dei coloni americani verso la ex-madrepatria

britannica, pone l’accento su quanto fosse importante per le reggenze assolute europee

ottenere riscontri positivi dalla società, avere piena legittimazione del proprio operato. Al fine

di conseguire risultati concreti, Filangieri spinge i monarchi del XVIII secolo a considerare

come obiettivo ineludibile l’allineamento delle necessità nazionali con gli strumenti da loro

5 Con questa teoria i due autori hanno tentato di spiegare le ragioni alla base della differente modalità di crescita presente tra nazione e nazione. Dove infatti sono presenti istituzioni inclusive, la società stessa è spronata a partecipare alla crescita economica nazionale, perché agevolata e tutelata da politiche affini alle loro esigenze, a garanzia della libertà di scelta. Inoltre, in tale assetto governativo, la popolazione è protetta da leggi imparziali, grazie alla quale la discrezionalità comportamentale è circoscritta e amministrata in conformità con il vivere nel sociale. Il comportamento delle istituzioni operanti sotto la reggenza dei monarchi inglesi, come anche dei Borbone all’epoca di Filangieri, mostra invece caratteristiche di stampo estrattivo, dove con questo termine i due economisti intendono proprio l’atto di togliere, di spostare ricchezze, potere e libertà decisionali nelle sole mani del monarca. Per far questo, essi non disprezzano di imporsi con la forza, di eliminare qualsiasi elemento nemico, di lasciare nella povertà e nell’arretratezza i propri sudditi, ma, soprattutto, di ostacolare ogni tipologia di innovazione tecnica o ideologica. Formate a loro immagine, le istituzioni economiche di matrice estrattiva escludono dalle ricadute positive tutti quelli che non appartengono all’elite al comando, a discapito del resto della popolazione (Acemoglu e Robinson, 2012).

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adoperati nell’esercizio del potere e nella gestione della res pubblica. Proprio come fa North

nell’articolo considerato, il giurista napoletano indaga sulle sottese manifestazioni di dissenso

che emergono dalla cattiva gestione degli affari pubblici, considerando la deficienza delle

istituzioni quali campanelli d’allarme di un malgoverno arrivato al suo apice. L’arbitrio del

sovrano, l’arretratezza economica e commerciale, l’eccesso della povertà, le troppe tasse,

potrebbero essere accostati ai dati riportati da North nell’Inghilterra pre-Glorious Revolution,

che infine implose e sradicò la tirannide della dinastia stuartiana. Se North sottolinea quanto

risultò importante per la credibilità della corona inglese l’introduzione della costituzione, in

quanto garanzia della preservazione dei diritti di proprietà della popolazione (North e

Weingast, 1989), Filangieri ne La scienza incita più volte alla realizzazione di un corpo

legislativo capace di arginare gli arbitrii dei togati, dei feudatari ed in primis della stessa

monarchia, senza mai però sfociare nella piena opposizione all’assolutismo della corona.

Avendo sotto i suoi occhi gli avvenimenti delle colonie in America, il giurista napoletano capì

che le vicende d’oltreoceano, culminanti nella Dichiarazione dei Diritti, potevano riproporsi

anche in Europa, anche nelle due Sicilie, proprio grazie alle manifeste dimostrazioni di una

crisi del potere allora in atto.

Similmente a come viene presentata da North la dinastia reale degli Stuart, ne La scienza i

monarchi europei, seppure menzionati in virtù dell’apertura mentale dimostrata, restano

comunque fautori di un autoritarismo implementato da istituzioni estrattive, del tutto in

antitesi con la necessaria diffusione della ricchezza. Gli ostacoli evidenziati da Filangieri,

imposti dai governi dispotici nei confronti del progresso economico e sociale nell’Europa di

fine Settecento, potrebbero dimostrarsi analoghi alla denuncia compiuta dall’economista

americano sulle istituzioni estrattive stuartiane. Logorando la nazione, le istituzioni che

operavano sotto le direttive della reggenza dispotica di Carlo I prima e di Giacomo II poi,

incrementarono l’ideologia di accentrare nelle mani dei pochi sia potere che ricchezze (North

e Weingast, 1989). La frattura apportata dall’insurrezione coloniale nell’America

Settentrionale, accentuò la speranza, sia di Filangieri che di tutti i democratici europei, di un

prossimo cambiamento socio-politico favorevole all’immissione di istituzioni democratiche e

liberali, come riportato ampiamente nel secondo libro dell’opera. Il clima di trasformazione in

cui si trovò a scrivere, lo spinse a denunciare all’ombra del trono di Ferdinando IV le

inadempienze reali verso il proprio regno, il proprio popolo. I donativi di immobili e terreni

alla Chiesa e la pratica del vassallaggio vennero attaccati dal giurista e accusati di essere tra le

cause dell’immobilità e della povertà sociale, sia sul piano effettivo che su quello ideologico,

rappresentando simbolicamente il retaggio di una tirannide nella tirannide, che da sé palesava

l’incongruenza con il presente ed aumentava la distanza tra il sovrano ed i suoi sudditi più

bisognosi.

Nell’esporre le forze utilizzate dai regnanti inglesi nell’esercizio del loro potere assoluto, un

ruolo di primo piano viene rivestito dalle leggi. Come messo in luce da North, la legislazione in

vigore nell’Inghilterra del XVII secolo permetteva svariati escamotage, utilizzate dagli Stuart

per raggiungere il proprio vantaggio economico e politico. La possibilità di aggirare la

convocazione del parlamento, il maggior valore dato ai proclami reali rispetto alle norme

comuni, erano solo alcune falle di un sistema normativo debole e ancora acerbo che i regnanti

adoperarono in loro favore (North e Weingast, 1989). Analogo il discorso di Filangieri sulla

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questione giuridica, dove lo strapotere baronale, la facilità della denuncia, la predisposizione

alla corruzione della classe togata, erano rese possibili da codici eludibili e incongruenti con le

effettive necessità della popolazione. Non era possibile per il giurista napoletano concepire la

durata eccessiva dei processi, la parzialità dei magistrati e lo strapotere della volontà del

barone, piaghe note nel regno ma non adeguatamente disciplinate dall’apparato normativo,

troppo debole per combattere consuetudini nocive radicatesi nella società. In virtù della

drammatica situazione giuridica, Filangieri evidenzia nel terzo libro della sua opera il bisogno

urgente di modificare l’unico strumento capace di favorire la giustizia, le leggi appunto, in

modo da garantire un più giusto ed imparziale iter processuale. Tale azione avrebbe, inoltre,

permesso di rafforzare la giustizia, permettendole di scontrarsi contro il predominio della

volontà baronale, del sovrano tirannico e della parzialità riservata ai soli potenti, per liberare

la verità dall’oppressione della paura e dal settarismo di potere.

Se l’economista americano nel suo articolo riporta quanto costò all’economia d’Inghilterra

l’arbitrarietà della gestione stuartiana (North e Weingast, 1989), ne La scienza Filangieri tenta

di rivelare gli effetti negativi del protezionismo commerciale dei monarchi europei attraverso

argomentazioni oggettive, statistiche diremo oggi, che comparano le aspettative di vendita e la

realtà dei fatti, ai fini di avvalorare la libertà commerciale e agricola, attraverso una minore

ingerenza della legislatura. North, nello spiegare quanto effettivamente pesasse sulla società

la gestione assolutista dei monarchi del XVII secolo, porta dati oggettivi del valore delle loro

azioni; la gestione dispotica delle proprietà private inglesi, l’uso arbitrario dei monopoli, la

totale dissonanza con il parlamento inglese, la chiusura del libero mercato, sono esaminati in

virtù delle loro ripercussioni negative sull’opinione pubblica. Esaminando le entrate e le

uscite durante la reggenza degli Stuart, l’economista evidenzia quanto maggiori fossero le

uscite rispetto alle entrate, cosa che “giustificò” la loro perenne ricerca di capitali, anche a

danno della proprietà privata e tramite coercizione (North e Weingast, 1989). Filangieri

combatte nella sua trattazione contro l’ideologia contraria al libero mercato, che, pensando di

agevolare la ricchezza nazionale, aiuta solo ad agevolare i soliti noti, nobili e corona, lasciando

il resto della popolazione nella statica povertà. Non potendo riferirsi direttamente ai regnanti

nella sua denuncia, il giurista partenopeo descrive però minuziosamente le ripercussioni

negative del comportamento mercantilista sostenuto dalle loro leggi, e ne palesa di rimando

quelle positive del libero mercato. Fautore di una globalizzazione ante litteram, promotore di

azioni positive nel lungo periodo, Filangieri si palesa conoscitore delle più interessanti

cognizioni di economia politica di allora, nel mentre definisce quanto effettivamente

pesassero le dogane d’entrata e d’uscita per i commercianti, le regole contro la libertà di

azione nei propri possedimenti, il reale rapporto tra carestia naturale e carestia commerciale.

Osservando i fatti e le dinamiche sociali ed economiche del Regno delle due Sicilie e dei Regni

dell’Europa del tempo, Filangieri, guidato dall’impianto liberale e profondamente riformatore

del suo pensiero, denunciò le divergenze tra la legge e le effettive necessità del regno, ideando

La scienza per colmare quelle distanze che dividevano la cognizione delle cose dei sovrani

dalla realtà della situazione.

Facendo nostra la definizione proposta da Acemoglu e Robinson (2012), Filangieri nella sua

opera racconta di monarchi, a dispetto delle manifeste aperture alle nuove ideologie

illuministe, ancora artefici di un autoritarismo implementato da istituzioni estrattive.

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Ancorando le nazioni all’immobilità, le istituzioni che operavano sotto le direttive delle

reggenze dispotiche, erano figlie di quell’ideologia estrattiva a favore del potere accentrato

nelle mani dei pochi, nella costante ricerca di rendite di cui arricchirsi (Acemoglu, Robinson,

2012).

4. Forze e debolezze della Repubblica partenopea

Undici anni dopo la morte di Filangieri, Napoli fu teatro di una catena d’eventi che

culminarono con la proclamazione della Repubblica napoletana. Nel Regno delle due Sicilie

l’ultima decade del XVIII secolo si svolse all’insegna della paura. Dopo gli avvenimenti

sanguinosi della Rivoluzione francese, il clima nella Napoli di Ferdinando IV cambiò

sensibilmente. Gli anni delle riforme e delle logge liberali giunsero al termine con la

decapitazione del re di Francia e della sua consorte, Maria Antonietta, sorella della regina

Maria Carolina. Sequestri di materiale sovversivo, incarcerazioni e condanne si moltiplicarono

in tutto il regno, rendendo palpabile il drastico cambiamento ideologico dei sovrani

napoletani, in favore di un cieco e fanatico assolutismo.

Dopo la caduta di Luigi XVI e famiglia, i cittadini del regno borbonico furono soffocati da

politiche repressive e conservatrici, atte a smantellare qualsiasi fonte di pericolo per il potere

monarchico, fomentando una generale insofferenza. Quando le vicende belliche in corso tra gli

stati italiani e la Francia rivelarono prossimo l’arrivo a Napoli delle truppe francesi, il re

abbandonò la capitale insieme alla sua famiglia e fuggì a Palermo nel dicembre del 1798.

L’arrivo dei francesi con a capo il generale Championnet, sostenuto dai repubblicani presenti

nella capitale, consacrò Napoli alla repubblica, che fu proclamata il 23 gennaio del 1799

(Cuoco, 1980). Tutto sembrò favorire la causa dei patrioti napoletani, ma in realtà troppe e

troppo evidenti si rivelarono le carenze organizzative del giovane governo democratico, privo

come era sia del potere che dell’ingegno politico necessario per una svolta istituzionale in

armonia con i precetti di Filangieri e degli altri autori illuminati.

Nell’Inghilterra del XVII secolo, la proclamazione della monarchia costituzionale inglese si

rivelò una vera e propria vittoria della classe borghese, seppure non nei termini con i quali noi

oggi potremmo definirla. La natura per lo più borghese della fazione parlamentare dei Whigs,

con i suoi interessi commerciali, era fortemente motivata a contrastare l’ala nobiliare

d’accordo con l’assolutismo decisionale di Giacomo II, ed usò tutte le sue abilità politiche per

raggiungere tale scopo. Ottennero in tal modo l’appoggio di tutto il settore mercantile

nazionale, rispecchiantesi più nelle ragioni dei parlamentari reazionari che in quelle della

controparte monarchica. La consapevolezza dei soprusi sui diritti di proprietà, lo stato

d’incertezza vissuto dalla popolazione per le proprie ricchezze, insieme all’indirizzo cattolico

degli ultimi due sovrani, causa di persecuzioni religiose sempre più estese, contribuirono alla

fuga prima e alla deposizione poi di Giacomo II di Stuart, con la conseguente incoronazione di

Guglielmo III di Orange, sotto la guida di una Costituzione dei Diritti (North e Weingast, 1989).

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A Napoli la borghesia non si era formata forte come in Inghilterra6; dalle parole dello stesso

Filangieri, si deduce quanto fosse rigida la legislazione borbonica riguardante il commercio,

che non lasciò prosperare il settore nel regno. Tra le file dei repubblicani che sostennero la

causa del ‘99, si riconoscevano in prevalenza giovani esponenti della classe nobiliare, alcuni

appartenenti alle più antiche famiglie del regno, che fino a qualche anno prima frequentavano

la corte di Ferdinando IV (Croce, 1912).

La lotta da loro intrapresa contro i Borbone avvenne come una fortuita conseguenza degli

avvenimenti storici, precipitati dopo la fuga della famiglia reale, eccitata dall’ammirazione

verso l’esempio francese e dalla speranza di poter avverare quelle riforme sulla giustizia e

sulla libertà che formavano il corpus del loro idealismo filosofico (Croce, 1912), sostenuto

anche da La scienza. I paragoni con la svolta avvenuta in Inghilterra si assottigliano nel mentre

si rintracciano le radici stesse del movimento repubblicano napoletano. Il Direttorio francese

ebbe voce in capitolo su tutte le decisioni prese dal nuovo governo instaurato a Napoli; in

concomitanza alle sue dichiarazioni sulla libertà della capitale borbonica, lo stesso affermava i

suoi diritti di proprietà sui territori del regno. Un simile clima di tensione rese difficili gli

accordi tra le parti, rallentando così tutte le più importanti riforme inserite nella Costituzione

della Repubblica napoletana, redatta dalla Commissione legislativa, e necessarie alla

sopravvivenza del nuovo governo (Cuoco, 1980).

Rispetto alla fiducia che seppe generare il the Bill of Right nella realtà anglosassone, l’assetto

delle riforme nella neonata repubblica ebbe un iter travagliato e un’attuazione talmente

complicata, da considerarsi nulla. Anche se nuove leggi erano state varate, i patrioti della

Repubblica Napoletana non riuscirono a sopprimere i tributi baronali e statali ovunque, a

causa della cattiva comunicazione con le province, né furono in grado di applicare le norme

per controllare i prezzi nella capitale, come richiesto dalla popolazione urbana. La difficile

situazione finanziaria lasciata dal re una volta fuggito a Palermo, premeva il Governo

Provvisorio a ricercare soluzioni funzionali per il proprio sostentamento e quello della

popolazione. Tuttavia, come per l’epoca degli Stuart, gli investitori del regno si dimostrarono

incerti nei confronti del governo e auspicate manovre risolutive, come la vendita delle

proprietà ecclesiastiche, non ottennero il successo sperato. La fiducia nel ritorno della corona

borbonica, unita all’ingerenza degli interessi francesi sul territorio, rese inutile ogni tipo di

garanzia fornita dal governo repubblicano, considerato solo come un temporaneo effetto della

dominazione straniera. Fu impossibile convincere i baroni e i grandi possidenti ad immettere

il proprio denaro in circolazione, indispensabile elemento capace di riattivare l’economia

nazionale. I feudatari, infatti, contrari sin dalle prime battute sia alle riforme sull’agricoltura-

che prevedevano di limitare drasticamente e senza remora alcuna il loro strapotere- sia alla

svolta repubblicana della capitale partenopea, si mostrarono ostinatamente riluttanti a

investire il proprio denaro durante la breve esperienza democratica. In attesa che re

Ferdinando riprendesse il controllo della situazione, sia loro che la nobiltà fedele ai Borbone

contribuirono a tenere la liquidità in circolo ai livelli minimi, indebolendo in tal modo

6 Malanima (2006) rileva che nel periodo 1695-1699 la cosiddetta classe media in Inghilterra costituiva il 12,3%

circa della popolazione attiva mentre nel 1814 (non molti anni dopo la stesura de La Scienza di Filangieri) la

classe media del Regno di Napoli non superava il 6%.

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dall’interno le spinte indipendentiste dei patrioti contro il dominio francese (Cuoco, 1980). Ma

la vera sconfitta della repubblica napoletana venne dalla mancata osmosi tra i patrioti ed il

popolo, ennesimo esempio negativo dell’assenza di fides pubblica così come illustrata da

Filangieri.

Se, infatti, il parlamento inglese riuscì a riflettere nelle sue riforme le comuni necessità della

nazione, il messaggio democratico dei patrioti napoletani venne costantemente osteggiato. La

passività con cui la popolazione del regno appoggiò i rivoluzionari fu solo comparabile con

l’ostilità che la plebe napoletana dimostrò per la democrazia di stampo giacobino. Il popolo si

dimostrò diffidente verso il movimento patriottico per tutta la durata dell’occupazione

francese, sia nei loro riguardi che verso la Repubblica. Seppure sono noti i tentativi di

risvegliare l’interesse popolare alla causa democratica, la matrice straniera alla base degli

sconvolgimenti politici e il patriottismo nato nei salotti nobili non riuscì ad accostare il

movimento dei repubblicani napoletani alle reali necessità della plebe, così da rendere

vacillante ogni pretesa omologazione di classe (Cuoco, 1980). Sentendosi traditi dai loro stessi

concittadini, il popolo manifestò la sua contrarietà al nuovo governo, palesando apertamente

di riporre la propria fiducia solo in Ferdinando IV e Maria Carolina, simboli riconosciuti delle

proprie radici, della propria religione (Croce, 1912).

Questo clima, insieme alla penuria di viveri causata dall’embargo reale e al crescente

malcontento causato dalle vessazioni e dai dazi francesi (questi ultimi addirittura peggiori di

quelle sopportati durante la monarchia), non poté che favorire la nascita di insurrezioni e

rivolte, che scoppiarono subito dopo la ritirata della Francia dal territorio borbonico. Quando,

infine, le truppe francesi abbandonarono definitivamente Napoli e province alle sole deboli

forze repubblicane, si manifestò in tutta la sua forza la fragilità dei patrioti e della stessa

Repubblica, incapaci i primi di affrontare costruttivamente i problemi interni senza le

direttive degli invasori, e vulnerabile la seconda all’imminente rivalsa borbonica proveniente

da Sud, non avendo nessun esercito a difenderla (Cuoco, 1980).

Il 21 giugno i repubblicani, assisterono impotenti all’ingresso a Napoli dell’esercito

filoborbonico con a capo Fabrizio Dionigi Ruffo (San Lucido, 16 settembre 1744 – Napoli, 13

dicembre 1827) e firmarono la resa in cambio di aver salva la vita. Ma poco dopo il loro

ritorno a Napoli, i monarchi sciolsero i patti stipulati da Ruffo e avviarono processi ed

esecuzioni capitali per tutti coloro che attivamente o meno, parteciparono alla parentesi

democratica. Per l’enorme quantitativo di condannati al boia, Ferdinando IV di Borbone e

Maria Carolina d’Austria sono stati annoverati tra i tiranni più crudeli della storia di Napoli. La

serie di eventi politici, economici, bellici e sociali che precedettero e seguirono la fuga del re

da Napoli, non raggiunse gli auspicati cambiamenti del partito repubblicano, così che i

Borbone riuscirono a riprendere il controllo dei propri dominii, resistendo al potere per altri

sessantadue anni.

Anche se la proclamazione della repubblica può essere considerata come il preambolo per

l’inserimento di un nuovo governo sorretto da istituzioni più democratiche, favorevoli al

libero mercato come lo furono gli anni precedenti la Glorious Revolution, la mancata assonanza

politica e sociale, insieme all’abitudine popolare alla dominazione assolutista e all’ingerenza

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straniera negli avvenimenti napoletani, consegnarono all’insuccesso le speranze dei

repubblicani napoletani. Queste e altre simili circostante furono tra le maggiori cause che

segnarono la vita delle così dette Repubbliche sorelle instaurate in Italia dai giacobini francesi

capitanati da Napoleone Bonaparte e seguaci, con la collaborazione dei rivoluzionari locali. I

tempi, maturi per la Francia, non si dimostrarono della stessa foggia per gli stati italiani del

Nord, e nemmeno per la Napoli di fine secolo, rigidamente controllata da una famiglia reale

spaventata dagli eventi esteri. I precetti francesi di “Liberté, Égalité, Fraternité”, appetibili da

tutti i liberali presenti nelle monarchie europee, non erano tuttavia conformi alle peculiarità

di ciascuna nazione, e le varie realtà politiche nate sotto l’influenza francese, con la loro breve

vita e i numerosi effetti collaterali, ne dimostrarono l’errata tempistica e applicazione, frutto

della frenesia rivoluzionaria attivatasi in seguito alla caduta dei monarchi francesi e non

supportata adeguatamente né dalla fazione dei repubblicani e, tantomeno, dal resto della

popolazione.

5. Conclusioni

L’opera di Filangieri si ispirava ad ideali democratici che puntavano a dare maggiori poteri

politici alla popolazione, all’abolizione del mercantilismo, ad un più giusto metodo di

proporzione tra le sentenze e le pene, tendente al miglioramento delle infrastrutture del

territorio, al potenziamento del commercio intra ed extra moenia, alla caduta del feudalesimo

e ad una più giusta esazione fiscale. Le riforme da lui concepite potrebbero essere identificate

come l’audace richiesta di aiuto di un uomo a stretto contatto con la fonte di potere,

indirizzando tale messaggio a chi aveva il potere – e soprattutto il dovere- di mutare il volto

delle politiche economiche e pubbliche, per far fronte in maniera efficace ai reali bisogni della

propria nazione.

I presupposti punti di contatto tra il lavoro di Filangieri e la contemporanea scuola

istituzionalista potrebbero essere rintracciati nella ricerca di quegli elementi che allontanano

o avvicinano i governi alla fiducia pubblica, ovvero a quel commitment tra l’azione politica e il

comportamento dei cittadini, degli agenti economici. Sia che ci si riferisca al passato

dell’Inghilterra, sia che si parli dal di dentro della monarchia borbonica, le considerazioni di

North e Filangieri partono dall’assunto che la forza di governi duraturi è rintracciabile in

quelle soluzioni politiche ed economiche in cui è possibile creare un legame tra governo e

cittadini.

Aggiungendosi al suo indiscusso merito di aver analizzato la società della sua epoca con

occhio critico ma costruttivo, in armonia con il filone ideologico settecentesco, l’ipotesi di un

Filangieri precursore dei tempi, capace di rintracciare già due secoli addietro l’indissolubile

interazione tra istituzioni informali e sviluppo economico, tra governance e feedback sociali,

che regge oggi le teorie dell’istituzionalismo economico contribuirebbe ad ampliare il

messaggio di un’opera che, oltre due secoli addietro, riuscì a rappresentare tutti gli uomini

liberi sottomessi all’autoritarismo estrattivo del potere, da Napoli a Parigi, dall’Inghilterra

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all’America, sostenendo alcuni grandi cambiamenti storici. Ancora oggi le parole di Filangieri

risulterebbero capaci di dimostrarsi adatte alla società attuale, confermando la riuscita della

sua ambiziosa speranza di essere “contemporaneo di tutte le età” in cui “i posteri sono i suoi

discepoli”.

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