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1 © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS www.edatlas.it IL MONDO GLOBALE TRA SFIDE E PROBLEMI GEOLETTURE on line IL MONDO GLOBALE TRA SFIDE E PROBLEMI IL MONDO GLOBALE TRA SFIDE E PROBLEMI Migrare per vivere L’olocausto dei migranti Schiavi bambini I diritti dei popoli indigeni La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli Indigeni L’America restituisce le terre agli indigeni delle Hawaii La restituzione delle terre ancestrali ai Boscimani/San Il risarcimento ai Nativi americani Un mondo senza poveri Incontrare l’altro: la sfida del nostro tempo

GEOLETTURE on line IL MONDO GLOBALE TRA ... · Avevo un buon lavoro nel mio Paese, ma il mio salario non era sufficiente a sfama-re la mia famiglia. ... Mia madre si prende cura dei

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IL MONDO GLOBALE TRA SFIDE E PROBLEMI

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IL MONDO GLOBALETRA SFIDE E PROBLEMIIL MONDO GLOBALETRA SFIDE E PROBLEMI

• Migrare per vivere

• L’olocausto dei migranti

• Schiavi bambiniI diritti dei popoli indigeni

• La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli Indigeni

• L’America restituisce le terre agli indigeni delle Hawaii

• La restituzione delle terre ancestrali ai Boscimani/San

• Il risarcimento ai Nativi americani

• Un mondo senza poveri

• Incontrare l’altro: la sfida del nostro tempo

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Che cosa spinge milioni di persone a lasciare le proprie case e i propri affetti? A trasferire le loro vite e i loro sogni in luoghi sconosciuti e lontani? Ad affrontare lo scoglio di un’integrazione spesso irrealizzabile? Il brano che segue (tratto da un reportage realizzato per il sito Internet della BBC) presenta la testimonianza diretta di una migrante filippina, che ha deciso di lasciare il proprio Paese per garantire un futuro ai suoi figli. Josie Pingkihan racconta perché ha deciso di lasciare i suoi figli nelle Filippine per prendersi cura del figlio di qualcun altro a Hong Kong.

MIGRARE PER VIVERE

BBC News Online

Avevo un buon lavoro nel mio Paese, ma il mio salario non era sufficiente a sfama-re la mia famiglia. Così ho deciso di partire e di venire qui. Mi prendo cura di una bambina di nome Lam tutto il giorno e vivo nella sua casa. Ma in ogni momento penso “Quando tornerò a casa mia?”.

L’arrivo ad Hong KongHo deciso di cercare lavoro a Hong Kong nel 1996. C’erano numerose agenzie che cercavano nannies (baby sitter) e nel giro di poco tempo sono stata contattata.Quando sono arrivata a Hong Kong la prima volta non sapevo che cosa mi atten-deva. Avevo sentito molte storie di immigrati filippini sfruttati e maltrattati. Quan-do ho incontrato il mio datore di lavoro, mi sono messa a piangere dalla gioia per la fortuna che avevo avuto. Essendo una mamma che era tutto il giorno fuori casa e che, quindi, non poteva stare con la figlia, era piena di comprensione per la mia situazione e il mio stato d’animo.

La “seconda mamma” di Sei LamLa bambina di cui mi prendo cura si chiama Sei Lam. Ora ha nove anni ma bado a Lei da quando aveva appena un anno. Questo è il motivo per cui mi è così affezio-nata e mi considera la sua seconda mamma. In effetti lei sta con me tutto il tempo, dal momento che la madre esce presto al mattino e ritorna molto tardi alla sera, quando Sei Lam è già a letto.

Immagini di casaLa mia famiglia mi manca moltissimo. Ho due figli: Christian Carlo, che ho adotta-to, e Ramon Joseph. Ero sposata, ma mi sono separata poco prima di partire per Hong Kong. Mia madre si prende cura dei miei figli per qualche ora della giornata, ma siccome ha più di 80 anni per lei è molto difficile. Per questo motivo ho assunto un aiutan-te: mentre io mi prendo cura di un altro bambino qui, un’altra persona si prende cura dei miei figli a casa.La maggior parte del mio salario la spedisco nelle Filippine. Guadagno circa 470 dollari al mese e ne mando 390 alla mia famiglia. Se non inviassi questo denaro, i miei figli non potrebbero frequentare la scuola. A meno che non ci sia una situa-zione di emergenza, telefono a casa una volta alla settimana. Torno a casa una volta all’anno, è l’unico periodo di ferie cui ho diritto.

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GEOLETTURE on lineGuardando al futuroSe i miei figli vogliono andare all’università, penso che dovrò restare qui altri anni. Fino a che il governo filippino non adotterà serie riforme economiche, il mio Paese non si risolleverà mai. Non so proprio che cosa accadrà al mio ritorno. Sarò vecchia e i miei figli saranno diventati quasi degli estranei per me. Quando sono tornata a casa pochi anni fa, mio figlio mi ha chiamato “zia”, e questo è davvero duro da sopportare per una madre.

Liberamente tradotto e adattato da Photo Journal: filipino nanny, in BBC News Online, In pictures, 2004

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Goffredo Buccini

Il Mediterraneo, il mare che ha visto nascere e svilupparsi alcune delle più impor-tanti civiltà della storia, si sta trasformando negli ultimi decenni in un vero e proprio cimitero. Dal 1998 ad oggi oltre 15 000 migranti hanno trovato la morte cercando di raggiungere l’Europa a bordo di fatiscenti barconi in partenza dalle coste africane. Di oltre la metà di queste vittime della migrazione non sono stati recuperati neppure i corpi e non si conoscono neppure i nomi. “Estremo oltraggio” questo al loro dolore, come ha scrit-to Claudio Magris, commentando una delle ultime tragedie, avvenuta nelle acque di Lampedusa. L’isola di Lampedusa, estremo lembo d’Ita-lia, è diventata il terminale di queste rotte della speranza e della di-sperazione. Qui sono diretti la maggior parte dei barconi stipati di migranti. In prossimità delle sue coste, nell’aprile del 2011, oltre 250 persone sono scomparse inghiottite dalle onde. Ecco la cronaca di questa ennesima ecatombe mediter-ranea.

L’OLOCAUSTO DEI MIGRANTI

Alle dieci di sera, il vento fa ancora ballare la motovedetta della guardia costiera. Solo il vento è rimasto stanotte. Tra il poliambulatorio, l’ex base Loran1 e il porto nuovo, cala il silenzio, ma nessuno può dormire davvero. Lo stesso silenzio inson-ne scende su tutta l’isola, in questa notte stellata di morte e di maestrale, «una notte lunghissima anche per noi di Lampedusa», sospira qualche vecchio della marina con la faccia storta e dignitosa. «Ne vedremo molte altre, mi sa, di notti così», ha mormorato il comandante Rifiorito, che col peschereccio «Cartagine» ha strappato all’ inferno d’ acqua tre dei migranti.

Molte notti così le hanno già viste, qui fuori, nel cimitero Mediterraneo, dove per ogni cento che toccano terra cinque ne affogano senza lasciare traccia di sé: ottocento o mille morti, chissà, su quasi ventiduemila poveri cristi2 sbarcati da gennaio. Quindicimila negli ultimi dieci anni, dicono: quasi una guerra. Non ci si abitua mai, almeno quello è impossibile: «Già facevano pena buttati nelle tende, adesso sapere che ci sono quei corpi a mare...», sussurra Rosaria, che in tutti questi giorni di caos ha fatto la volontaria, portato pane, acqua e sorrisi al popolo delle tende. […] Restano poche centinaia di disperati nel centro d’ accoglienza forse fino a domani.

I morti e i sopravvissutiE resta la morte. È una notte che comincia e non finisce, questa, coi corpi dei bam-bini ancora non recuperati, i corpi dei vivi che sembrano zombie3 dentro i fogli dorati dei teli termici4, «volevamo vivere, grazie Italia», e adesso sono divisi tra l’ ospedale e la vecchia base militare, chi ha bisogno di cure e chi solo d’ un poco di calore e di umanità. Via Roma prova a far finta che sia una notte qualsiasi, tiene accese le luci dei bar, ma la gente s’ è ritratta. […]Qui lo sanno tutti che «succede ogni tanto», si muore a mare, quel tanto che basta a ricordarci di questi poveracci che ballano tra lo status di clandestino e quello di profugo5 a bordo delle loro illusioni, imbarcando acqua e paura. A Chaffar, spiaggia storica delle partenze dei barconi per Lampedusa, te lo dicono ridendo: «Esistono solo due tipi di tunisi-

1. ex base Loran: base navale dimessa utiliz-zata per alloggiare in modo provvisorio i mi-granti in arrivo sull’iso-la di Lampedusa.2. poveri cristi: perso-ne disperate e sventu-rate. 3. zombie: morti vi-venti, persone in un tale stato di privazione e decadimento fisico e psichico da sembrare quasi dei cadaveri.4. teli termici: teli uti-lizzati per soccorrere persone rimaste a lun-go all’addiaccio e al freddo.5. clandestino … profugo: clandestino viene considerato chi entra in Italia senza re-golare visto di ingresso; profugo è la condizio-ne generica del mi-grante che ha lasciato il suo Paese d’origine per sfuggire a guerre o persecuzioni; il profu-go può richiedere che gli venga riconosciuto lo status di rifugiato.

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GEOLETTURE on lineno, amico: quelli che sono emigrati in Italia e quelli che vorrebbero emigrarci». I tunisini sono dieci milioni, due conti danno i brividi, certo. Ma non è notte da trattative e da questioni diplomatiche, questa, con quei corpi che galleggiano qua fuori nel nulla e coi lampedusani che parlano sottovoce della loro stessa rabbia, di quella protesta che era diventata questione nazionale6, «ci state rovinando, ci lasciate alla fame! Blocchiamo il porto!».

Le rotte della speranza e della morte Niente di tutto questo, tutto è lontano, insensato, in questa prima notte di nuovo consegnata alla morte, come due anni fa, come dieci anni fa, come sempre. La morte, e la speranza, che le fa compagnia su questi barconi, corre lungo due o tre rotte, sempre le stesse: fino a luglio dell’ anno scorso molto battuta era quella tra Tripoli e Zuwarah, poi rimpiazzata da quella sul litorale tunisino tra Sousse e Mo-nastir. Sfruttando il conflitto libico, i trafficanti di uomini si sono ripresi le spiagge di Gheddafi e infatti questi fantasmi avvolti nei teli dorati, che ci guardano come salvatori, proprio da Zuwarah arrivavano, senza nemmeno lo scafista, con un Gps7 puntato sui gradi giusti e che Dio li assista. I fantasmi di questa notte possono es-sere fratelli dei morti del 12 e del 13 febbraio, davanti a Girgis, Tunisia: un barcone inghiottito dai flutti e 29 cadaveri passati quasi sotto silenzio. Vittime di frontiera. Senza nome. Con lenzuola e teli stesi come vele, come i disperati del barcone albanese Kader I Rades che a marzo del ‘97 affondò scontrandosi con una nostra motovedetta. Senza acqua né cibo, «bevendo la nostra urina, sentendo solo le onde e i pianti di chi ha paura», come raccontò Habeton, uno dei superstiti dell’ agosto di due anni fa, in 78 su una barca alla deriva per ventitré giorni, senza che nessuno li soccorresse. Habeton ha un nome perché l’ ha scampata, e ha potuto raccontarla proprio qui, sul molo del porto nuovo.

6. protesta… que-stione nazionale: la vocazione turistica di Lampedusa si scontra con le problematiche legate allo sbarco e all’accoglienza delle migliaia di migran-ti che approdano sull’isola. Ciò ha dato vita a numerose pro-teste, per chiedere che l’isola non fosse lascia-ta sola ad affrontare questa situazione.

7. Gps: sigla per Glo-bal Positioning System (Sistema di Posizio-namento Globale); si tratta di un sistema di navigazione satellitare.

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Alla memoria del migrante ignotoPerché altrimenti rischia di essere fatta solo di numeri questa Spoon River8 del mare. Così le parole di chi è scampato sono due volte importanti, in se stesse e perché restituiscono un volto e una storia a questa moltitudine da mille dollari a imbarco. Nel giugno 2003, in 189 morirono al largo della Tunisia, e Mohamed, somalo, 20 anni, nuotò per 5 ore per salvarsi e raccontarlo. Il 20 ottobre 2003, 13 morti su una nave alla deriva per venti giorni nel mare di Lampedusa: Ahmed Osman, un papà, narrò tra le lacrime di come dovette gettare in mare i corpi dei suoi bambini, morti già da due giorni. I numeri in fila si ripetono e non danno il senso delle cose, trasmettono una monotonia oscena: agosto 2006, 10 morti e quaranta dispersi; settembre 2006, 17 morti tra cui cinque donne e tre bambini; e ancora nel 2007, nel 2008, altri numeri con una regolarità impressionante, con l’ ipocrisia […] di chiamare «dispersi» quelli che non troveremo mai più. Si diventa statistiche quando non si ha la fortuna di diventare scoop9e sopravvivere, come gli uomini-tonno fotografati mentre stavano aggrappati disperatamente alle gab-bie per la pesca delle tonnare10. Ancora nel giugno di tre anni fa, di quei quaranta morti e cento dispersi su una barca partita da Zuwarah e affondata nel solito brac-cio di mare maledetto non ricordiamo neppure un nome. Come delle due donne incinte morte ad agosto del 2007 o del bambino annegato a luglio, in mezzo a un popolo dolente di vittime come loro: sappiamo il genere, neppure le età. Ferdinando Camon11 ha descritto l’ immagine di un migrante annegato spiegando che sta agli altri suoi compagni morti come il milite ignoto12 sta ai caduti di tut-te le battaglie: li simboleggia tutti. Ed è vero. Ma stanotte proviamo ad ascoltarle bene, le storie che raccontano a fatica quei fantasmi13 avvolti nei teli termici. Da loro viene l’ unico rimedio a questo che narreremo un giorno come un olocau-sto14: la memoria.

Rid. da Corriere della Sera, 7 aprile 2011

8. Spoon River: l’An-tologia di Spoon River è una famosa raccolta di poesie pubblicata tra il 1914 e il 1915 dallo scrittore statuiniten-se Edgar Lee Masters (1869 - 1950) nella quale lo scrittore im-magina che i defunti della cittadina imma-ginaria di Spoon River raccontino la loro vita sotto forma di epitaffio (iscrizione sepolcrale).

9. scoop: colpo gior-nalistico, notizia sensa-zionale.

10. tonnare: serie di recinti costituiti da rete metallica utilizzati per la cattura dei tonni.

11. Ferdinano Camon: scrittore ed editoriali-sta italiano contempo-raneo.

12. milite ignoto: l’es-pressione si riferisce all’anonimo combat-tente della Prima Guer-ra Mondiale, simbolo di tutti i caduti della guerra, inumato nel 1921 nell’Altare della Patria, al Vittoriano di Roma.

13. fantasmi: coloro che sono sopravvissuti alla traversata e al nau-fragio sono talmente malridotti da essere quasi ombre di loro stessi, irriconoscibili.

14. olocausto: la scom-parsa delle decine di migliaia di migranti viene paragonata alla distruzione e allo ster-minio di intere popo-lazioni, come quello degli Ebrei attuato dai nazisti durante la seconda Guerra Mon-diale.

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Tutti i bambini del mondo dovrebbero andare a scuola, giocare, avere tempo per riposare. Invece, come denunciano l’UNICEF e l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (ILO), nel mondo oltre 200 milioni di bambini e bambine (soprat-tutto in Africa e in Asia, ma anche nell’Europa dell’Est) sono costretti a lavorare: nei campi, nelle discariche, nelle concerie, davanti ad un telaio, sulla strada, nei lavori domestici, ovunque vi siano opportunità di guadagnare qualcosa per aiutare se stessi e la propria famiglia a sopravvivere. Il lavoro minorile, che spesso si associa a forme di vera e propria schiavitù, costituisce ancora oggi “una del-le pagine più oscure della civiltà umana”.Il brano che segue tratta del traffico di piccoli schiavi impiegati nelle piantagioni di cacao africane.

SCHIAVI BAMBINI

BBC News Online

Nessuno sa quanti siano i bambini africani che muoiono a bordo delle navi in pes-sime condizioni che li portano nelle piantagioni di cacao dell’Africa Occidentale. Quel che si sa è che quei viaggi avvengono in condizioni spaventose. I soprav-vissuti raccontano che durante le traversate i passeggeri ricevono solo qualche manciata di cibo e sono costretti a bere acqua sporca per parecchi giorni.Casi come quello della Mv Etireno, la nave nigeriana sospettata di trasportare cen-tinaia di schiavi bambini, si ripetono costantemente in Africa Occidentale. In que-sta parte del mondo la schiavitù infantile è molto diffusa: secondo le Nazioni Unite sarebbero circa 200 mila i bambini che lavorano come schiavi nella regione.Da anni le carrette del mare fanno la spola lungo la costa occidentale del conti-nente, portando i loro carichi di bambini a faticare nelle piantagioni di cacao o a lavorare come servi [...] nelle case dei ricchi. Molti di loro vengono dal Benin, dove sono caricati nel porto di Cotonou, in pas-sato centro fiorente della tratta degli schiavi. Oggi vendere bambini è illegale, ma non insolito. I mediatori girano il Paese per convincere i genitori a separarsi dai loro figli per pochi dollari e in cambio della promessa che riceveranno un’istru-zione o manderanno a casa dei soldi. In questo modo migliaia di bambini, quasi tutti sotto i 12 anni, finiscono, invece, per essere spediti nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio e del Gabon.Quattro anni fa le autorità gabonesi trovarono 400 ragazzini in attesa di essere caricati su una nave ancorata nel porto. In generale, però, i governi chiudono un occhio e il traffico prosegue indisturbato. C’è una lunga storia di lavoratori bam-bini che si spostano su e giù per l’Africa Occidentale. Ma secondo Esther Guluma, la rappresentante beninese all’UNICEF, negli ultimi anni la situazione ha assunto caratteri allarmanti.“Dobbiamo distinguere tra la situazione attuale e i modelli tradizionali di lavoro infantile, che erano positivi, dato che riguardavano bambini prelevati dalle aree ru-rali e mandati a lavorare nelle case dei parenti in città perché ricevessero un’istru-zione e avessero una vita migliore”, spiega la Guluma. “Ma il peggioramento della situazione economica negli ultimi anni ha provocato un aumento del traffico di bambini, che vengono sottoposti ad abusi terribili. Le grandi piantagioni di cacao, in particolare, hanno bisogno di molta manodopera a buon mercato e i bambini sono perfetti per questo scopo. Lavorano sodo tutto il giorno, vengono pagati

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poco e non si lamentano. Sono sottoposti a un duro lavoro fi-sico, sono sradicati dalle loro famiglie e non hanno alcun accesso all’istruzione. Questo si ripercuote sul loro sviluppo fisico e mentale” […].In molti Paesi questo commer-cio si svolge praticamente alla luce del sole. Ad Abidjan, in Costa d’Avorio, c’è un mercato all’aperto dove le don-ne vanno a comprare i bambini per “aiutare nelle faccende domestiche”. Mercati analoghi esistono anche a Lagos: nel 1996 nella città nigeriana sono state scoperte decine di bambini malnutriti, nelle mani di trafficanti in attesa di trovare dei compratori.Le ragazze del Benin e del Togo sono particolarmente richieste a Lagos, dove sono portate nelle case di persone relativamente agiate e costrette a lavorare per una miseria […].La maggior parte dei bambini, comunque, è destinata alle piantagioni. Anche se sopravvivono al lungo viaggio per arrivarvi, dopo alcuni anni sono considerati troppo logorati e vecchi per continuare a lavorare e vengono mandati via.Secondo l’UNICEF, molti finiscono per ingrossare i ranghi dei poveri. E la maggior parte non riuscirà mai a ritrovare la strada di casa.

Rid. e adatt. da Chris McGreal, I piccoli schiavi, in The Guardian, pubblicato su Internazionale n.382, 20 aprile 2001

Manifesto per la campagna contro il lavoro minorile

della Confederazione Sindacale Internazionale

(ICFTU).

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La sensibilità verso i popoli indigeni e i loro diritti è cresciuta notevolmente negli ultimi decenni. Seppur faticosamente e con numerose battute d’arresto molti Paesi hanno intrapreso iniziative concrete per il riconoscimento dei dirit-ti dei popoli indigeni. A testimoniare la difficoltà di questo cammino è il lungo iter (ben 22 anni) per l’approvazione da parte delle Nazioni Unite della Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni, proclamata il 13 settem-bre 2007. Nonostante queste importanti dichiarazioni di principio e alcune storiche vittorie, la strada per il pieno riconoscimento dei diritti delle comunità indigene è ancora lunga.

I DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI

LA DICHIARAZIONE DELLE NAZIONI UNITE SUI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENIL’adozione di questa dichiarazione da parte delle Nazioni Unite costi-tuisce una pietra miliare nelle storia del diritto dei popoli, anche se non costituisce un documento vincolante. Essa riconosce il diritto alla proprietà della loro terra e a vivere come de-siderano. Essa afferma, inoltre, che i popoli indigeni non possono essere sfrattati dai loro territori senza il loro consenso.

L’ASSEMBLEA GENERALE

[…]

Proclama solennemente la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, il cui te-sto segue qui sotto, come un ideale da perseguire in uno spirito di collaborazione e mutuo rispetto:

Articolo 1

I popoli indigeni, sia come collettività sia come persone, hanno diritto al pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali così come sono riconosciuti nella Carta delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e nella legislazione internazionale sui diritti uma-ni.

Articolo 2

I popoli e gli individui indigeni sono liberi ed eguali a tutti gli altri popoli e individui e hanno diritto a non essere in alcun modo discriminati nell’esercizio dei loro diritti, in particolare per quanto riguarda la loro origine o identità indigene.

Articolo 3

I popoli indigeni hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di tale diritto essi determinano libe-ramente il proprio statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.

Articolo 4

I popoli indigeni, nell’esercizio del loro diritto all’autodeterminazione, hanno diritto all’autonomia o all’autogoverno nelle questioni riguardanti i loro affari interni e locali, come anche a disporre dei modi e dei mezzi per finanziare le loro funzioni autonome.

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Articolo 5

I popoli indigeni hanno diritto a mantenere e rafforzare le loro particolari istituzioni politiche, giu-ridiche, economiche, sociali e culturali, pur mantenendo il loro diritto a partecipare pienamente, se scelgono di farlo, alla vita politica, economica, sociale e culturale dello Stato.

Articolo 6

Ogni persona indigena ha diritto ad una nazionalità.

Articolo 7

1. Le persone indigene hanno diritto alla vita, all’integrità fisica e mentale, alla libertà e alla sicurezza personale.

2. I popoli indigeni hanno il diritto collettivo a vivere in libertà, pace e sicurezza come popoli distinti e non devono essere soggetti ad alcun atto di genocidio o qualsiasi altro atto di violenza, ivi compreso il trasferimento forzato di bambini dal gruppo di appartenenza ad altro gruppo.

Articolo 8

1. I popoli e gli individui indigeni hanno diritto a non essere sottoposti all’assimilazione forzata o alla distruzione della loro cultura.

2. Gli Stati devono provvedere efficaci misure di prevenzione e compensazione per:

(a) Qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di privarli della loro integrità come popoli distinti, oppure dei loro valori culturali o delle loro identità etniche;

(b) Qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di espropriarli delle proprie terre, territori e risorse;

(c) Qualunque forma di trasferimento forzato della popolazione che abbia lo scopo o l’effetto di vio-lare o minare quale che sia dei loro diritti;

(d) Qualunque forma di assimilazione o integrazione forzata;

(e) Qualunque forma di propaganda volta a promuovere o istigare la discriminazione razziale o etnica nei loro confronti.

Articolo 9

I popoli e gli individui indigeni hanno diritto ad appartenere ad una comunità o nazione indigena, in conformità con le tradizioni e i costumi della comunità o nazione in questione. Dall’esercizio di que-sto diritto non deve derivare alcuna discriminazione di alcun tipo.

Articolo 10

I popoli indigeni non possono essere spostati con la forza dalle loro terre o territori. Nessuna forma di delocalizzazione potrà avere luogo senza il libero, previo e informato consenso dei popoli indigeni in questione e solo dopo un accordo su di una giusta ed equa compensazione e, dove possibile, con l’opzione del ritorno.

Articolo 11

1. I popoli indigeni hanno diritto a seguire e rivitalizzare i loro costumi e tradizioni culturali. Ciò comprende il diritto a mantenere, proteggere e sviluppare le manifestazioni passate, presenti e future della loro cultura, quali i siti archeologici e storici, i manufatti, i disegni e i modelli, le cerimonie, le tecnologie, le arti visive e dello spettacolo e la letteratura.

2. Gli Stati dovranno provvedere a un risarcimento per mezzo di meccanismi efficaci – che possono implicarne la restituzione – messi a punto di concerto con i popoli indigeni, per quanto riguarda i beni culturali, intellettuali, religiosi e spirituali che siano stati loro sottratti senza il loro libero, previo e informato consenso oppure in violazione delle loro leggi, tradizioni e costumi.

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Articolo 12 1. I popoli indigeni hanno diritto a manifestare, praticare, promuovere e insegnare le loro tradizioni spirituali e religiose, i loro costumi e le loro cerimonie; hanno diritto a preservare e proteggere i loro siti religiosi e culturali e ad avervi accesso in forma riservata; diritto all’uso e al controllo dei loro og-getti cerimoniali; e diritto al rimpatrio delle loro spoglie.

2. Gli Stati devono cercare di consentire l’accesso e/o il rimpatrio degli oggetti cerimoniali e delle spoglie in loro possesso per mezzo di meccanismi giusti, trasparenti ed efficienti stabiliti di concerto con i popoli indigeni in questione.

Articolo 13

1. I popoli indigeni hanno diritto a rivitalizzare, utilizzare, sviluppare e trasmettere alle future gene-razioni le loro storie, lingue, tradizioni orali, filosofie, sistemi di scrittura e letterature, e a designare e mantenere i loro nomi tradizionali per le comunità, i luoghi e le persone.

2. Gli Stati adotteranno misure adeguate per assicurare il rispetto di questo diritto e per garantire che i popoli indigeni possano comprendere ed essere compresi nei procedimenti politici, giuridici e am-ministrativi, provvedendo quando necessario ai servizi di interpretariato o ad altri mezzi adeguati.

Alcuni componenti della tribù dei Penan protestano contro la deforestazione del Borneo che minaccia la loro sopravvivenza.

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GEOLETTURE on lineArticolo 14 1. I popoli indigeni hanno diritto a istituire e controllare i loro propri sistemi e istituzioni educativi impartendo l’istruzione nelle loro lingue, in una maniera consona con i propri metodi culturali d’in-segnamento e apprendimento.

2. Le persone indigene, in particolare i bambini, hanno diritto di accedere a tutti i livelli e le forme di istruzione pubblica senza discriminazioni.

3. Gli Stati, di concerto con i popoli indigeni, adotteranno misure adeguate a far sì che le persone indigene, in special modo i bambini, ivi compresi quelli che vivono fuori dalle loro comunità, abbiano accesso, quando possibile, all’educazione nella propria cultura, fornita nella propria lingua.

Articolo 15

1. I popoli indigeni hanno diritto a che la dignità e la diversità delle loro culture, tradizioni, storie e aspirazioni si rispecchino in modo adeguato nell’educazione e nella pubblica informazione.

2.Gli Stati adotteranno misure adeguate, in consultazione e cooperazione con i popoli indigeni in que-stione, per combattere il pregiudizio ed eliminare la discriminazione e per promuovere la tolleranza, la comprensione e i buoni rapporti tra i popoli indigeni e tutti gli altri settori della società.

Articolo 16

1. I popoli indigeni hanno diritto a istituire i loro propri media nelle proprie lingue e ad avere accesso a tutte le forme di media non-indigeni senza alcuna discriminazione

2. Gli Stati adotteranno misure adeguate a garantire che i media pubblici rispecchino nel modo dovu-to la diversità culturale indigena. Gli Stati, senza pregiudicare la garanzia della piena libertà d’espres-sione, dovranno incoraggiare i media privati a rispecchiare in modo adeguato la diversità culturale indigena.

Articolo 17

1. Gli individui e i popoli indigeni hanno diritto a godere pienamente di tutti i diritti stabiliti dal diritto vigente sul lavoro nazionale e internazionale.

2. Gli Stati, in consultazione e collaborazione con i popoli indigeni, devono prendere misure specifi-che atte a proteggere i bambini indigeni dallo sfruttamento economico e da qualsiasi lavoro che possa risultare pericoloso o interferire con l’educazione del bambino, o nuocere alla salute del bambino, o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale, tenendo presente la particolare vulnerabilità dei bambini e l’importanza dell’educazione nella loro piena realizzazione.

3. Le persone indigene hanno diritto a non essere soggette ad alcuna condizione discriminatoria di lavoro e, in particolare, di impiego o salario.

Articolo 18 I popoli indigeni hanno diritto a partecipare nei processi decisionali sulle questioni che possono riguardare i loro diritti, attraverso dei rappresentanti scelti tra loro in accordo con le loro proprie pro-cedure, come anche a mantenere e sviluppare le loro proprie istituzioni decisionali indigene.

Articolo 19

Gli Stati devono consultarsi e cooperare in buona fede con i popoli indigeni interessati tramite le loro proprie istituzioni rappresentative in modo da ottenere il loro libero, previo e informato consenso prima di adottare e applicare misure legislative o amministrative che li riguardino.

Articolo 20

1. I popoli indigeni hanno diritto a mantenere e sviluppare i loro sistemi o istituzioni politici, econo-mici e sociali, a disporre in tutta sicurezza dei propri mezzi di sussistenza e di sviluppo e a dedicarsi liberamente a tutte le loro attività economiche tradizionali e di altro tipo.

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2. I popoli indigeni spogliati dei propri mezzi di sussistenza e sviluppo hanno diritto a un indennizzo giusto ed equo.

Articolo 21

1. I popoli indigeni hanno diritto, senza discriminazione, al miglioramento delle loro condizioni eco-nomiche e sociali, inclusi, fra gli altri, gli ambiti dell’educazione, occupazione, formazione e riqualifi-cazione professionale, alloggio, igiene e assistenza sanitaria e sociale.

2. Gli Stati dovranno prendere misure efficaci e, dove è opportuno, misure speciali per assicurare il continuo miglioramento delle loro condizioni economiche e sociali. Un’attenzione particolare deve essere rivolta ai diritti e ai bisogni particolari di anziani, donne, giovani, bambini e disabili indigeni.

Articolo 22

1. Nell’attuazione di questa Dichiarazione si dovrà prestare un’attenzione particolare ai diritti e ai bisogni particolari di anziani, donne, giovani, bambini e disabili indigeni.

2. Gli Stati, di concerto con i popoli indigeni, adotteranno delle misure atte ad assicurare che le donne e i bambini indigeni godano di una piena protezione e di ogni garanzia contro ogni forma di violenza e discriminazione.

Articolo 23

I popoli indigeni hanno diritto a determinare ed elaborare le priorità e le strategie al fine di esercitare il proprio diritto allo sviluppo. In particolare, i popoli indigeni hanno diritto a partecipare attivamente all’elaborazione e alla definizione dei programmi relativi a salute, alloggio e altre questioni economi-che e sociali che li riguardano e, nella misura del possibile, hanno diritto ad amministrare tali program-mi mediante le loro proprie istituzioni.

Articolo 24 1.I popoli indigeni hanno diritto alle proprie medicine tradizionali e a mantenere le proprie prati-che di guarigione, compresa la conservazione delle loro piante medicinali, animali e pietre di vitale interesse. Le persone indigene hanno inoltre diritto all’accesso, senza alcuna discriminazione, a tutti i servizi sociali e sanitari.

2. Le persone indigene hanno pari diritto a godere del livello più alto possibile di salute mentale e fisica. Gli Stati compiranno i passi necessari per portare progressivamente questo diritto alla sua piena realizzazione.

Articolo 25

I popoli indigeni hanno diritto a mantenere e rafforzare la loro specifica relazione spirituale con le terre, i territori, le acque, le zone marittime costiere e le altre risorse tradizionalmente di loro pro-prietà o altrimenti occupati e utilizzati, e a tramandare alle generazioni future le loro responsabilità al riguardo.

Articolo 26 1. I popoli indigeni hanno diritto alle terre, territori e risorse che tradizionalmente possedevano o occupavano oppure hanno altrimenti utilizzato o acquisito.

2. I popoli indigeni hanno diritto alla proprietà, uso, sviluppo e controllo delle terre, dei territori e delle risorse che possiedono per motivi di proprietà tradizionale oppure di altre forme tradizionali di occupazione o uso, come anche di quelli che hanno altrimenti acquisito.

3. Gli Stati daranno riconoscimento e protezione legali a queste terre, territori e risorse. Questo riconoscimento sarà dato nel dovuto rispetto dei costumi, delle tradizioni e dei regimi di proprietà terriera dei popoli indigeni in questione.

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GEOLETTURE on lineArticolo 27

Gli Stati avvieranno e realizzeranno, di concerto con i popoli indigeni in questione, un processo equo, indipendente, imparziale, aperto e trasparente, che dia il dovuto riconoscimento alle leggi, alle tradizioni, ai costumi e ai regimi di proprietà terriera dei popoli indigeni, allo scopo di riconoscere e aggiudicare i diritti dei popoli indigeni riguardanti le loro terre, territori e risorse, ivi compresi quelli che erano tradizionalmente in loro possesso o altrimenti occupati o utilizzati. I popoli indigeni avran-no diritto a partecipare a questo processo.

Articolo 28

1. I popoli indigeni hanno diritto alla restituzione o, quando questa non sia più possibile, ad un equo risarcimento per le terre, i territori e le risorse che tradizionalmente possedevano, oppure in altra for-ma occupavano o utilizzavano e che sono stati confiscati, presi, occupati, utilizzati oppure danneggiati senza il loro libero, previo e informato consenso.

2. A meno che non vi sia un diverso accordo stipulato liberamente con i popoli in questione, il risarci-mento sarà costituito da terre, territori e risorse di pari qualità, estensione e regime giuridico oppure da un indennizzo pecuniario o da altro tipo di risarcimento adeguato.

Articolo 29 1. I popoli indigeni hanno diritto alla conservazione e protezione dell’ambiente e della capacità pro-duttiva delle loro terre o territori e risorse. Gli Stati devono avviare e realizzare programmi di assisten-za ai popoli indigeni per assicurare tale conservazione e protezione, senza discriminazioni.

2. Gli Stati devono adottare misure efficaci per assicurare che nessun tipo di stoccaggio o smaltimen-to di sostanze pericolose abbia luogo sulle terre o territori dei popoli indigeni senza un loro previo, libero e informato consenso.

3. Gli Stati devono anche adottare misure efficaci per assicurare, qualora sia necessario, che vengano debitamente realizzati dei programmi di monitoraggio, prevenzione e recupero della salute dei popoli indigeni, cosi come sono stati concepiti e realizzati dai popoli colpiti da tali sostanze.

Articolo 30 1. Sulle terre o territori dei popoli indigeni non potrà avere luogo alcuna azione militare, a meno che sia giustificata da rilevanti motivi di interesse pubblico o nel caso vi sia il consenso o la richiesta da parte dei popoli indigeni in questione.

2. Prima di utilizzare le loro terre o territori per delle azioni militari, gli Stati dovranno avviare reali consultazioni con i popoli indigeni in questione, per mezzo di procedure appropriate e in particolare con le loro istituzioni rappresentative.

Articolo 31

1. I popoli indigeni hanno diritto a mantenere, controllare, proteggere e sviluppare il proprio patri-monio culturale, il loro sapere tradizionale e le loro espressioni culturali tradizionali, così come le ma-nifestazioni delle loro scienze, tecnologie e culture, ivi comprese le risorse umane e genetiche, i semi, le medicine, le conoscenze delle proprietà della flora e della fauna, le tradizioni orali, le letterature, i disegni e i modelli, gli sport e i giochi tradizionali e le arti visive e dello spettacolo. Hanno anche dirit-to a mantenere, controllare, proteggere e sviluppare la loro proprietà intellettuale su tale patrimonio culturale, sul sapere tradizionale e sulle espressioni culturali tradizionali.

2. Di concerto con i popoli indigeni, gli Stati devono adottare misure atte a riconoscere e a proteggere l’esercizio di questi diritti.

Articolo 32 1. I popoli indigeni hanno diritto a definire ed elaborare le priorità e le strategie per lo sviluppo o l’utilizzo delle loro terre o territori e delle altre risorse.

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GEOLETTURE on line2. Gli Stati dovranno consultarsi e cooperare in buona fede con i popoli indigeni in questione, tra-mite le loro istituzioni rappresentative, in modo tale da ottenere il loro libero e informato consenso previamente all’approvazione di qualsiasi progetto che influisca sulle loro terre o territori e sulle altre risorse, in modo particolare per quanto concerne la valorizzazione, l’uso o lo sfruttamento delle risorse minerarie, idriche o di altro tipo.

3. Gli Stati dovranno provvedere dei meccanismi efficaci per un giusto ed equo indennizzo per qua-lunque delle sopraccitate attività, e si dovranno approntare misure adeguate per mitigare un impatto nocivo a livello ambientale, economico, sociale, culturale o spirituale.

Articolo 33

1. I popoli indigeni hanno diritto a definire la propria identità o appartenenza in conformità con i propri costumi e tradizioni. Ciò non pregiudica il diritto delle persone indigene ad ottenere la cittadi-nanza degli Stati in cui vivono.

2. I popoli indigeni hanno diritto a definire le strutture delle loro istituzioni e a selezionarne la com-posizione in conformità con le proprie procedure.

Articolo 34

I popoli indigeni hanno diritto a promuovere, sviluppare e mantenere le loro strutture istituzionali e i loro propri costumi, spiritualità, tradizioni, procedure, pratiche e, laddove esistano, i loro sistemi o

Articolo 35

I popoli indigeni hanno diritto a definire le responsabilità individuali all’interno delle loro comunità.

Un gruppo di Yanomami, una delle tribù indios più numerose dell’Amazzonia.

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Articolo 36

1. I popoli indigeni, in particolare quelli che si trovano divisi da frontiere internazionali, hanno dirit-to a intrattenere e sviluppare, attraverso tali frontiere, i contatti, le relazioni e la cooperazione – ivi comprese le attività che hanno scopi spirituali, culturali, politici, economici e sociali – con i propri membri così come con altri popoli.

2. Gli Stati, in accordo e cooperazione con i popoli indigeni, dovranno adottare misure atte a facilitare l’esercizio di questo diritto e ad assicurarne l’applicazione.

Articolo 37

1. I popoli indigeni hanno diritto al riconoscimento, all’osservanza e all’applicazione dei trattati, degli accordi o delle altre intese stipulati con gli Stati o con i loro successori, e hanno altresì diritto a che gli Stati onorino e rispettino tali trattati, accordi o altre intese.

2. Nulla di quanto contenuto in questa Dichiarazione può essere inteso come idoneo a limitare o ne-gare i diritti dei popoli indigeni che figurano nei trattati, negli accordi o nelle altre intese.

Articolo 38

Gli Stati, di concerto e in cooperazione con i popoli indigeni, devono adottare le misure adeguate, ivi comprese quelle legislative, per la realizzazione dei fini di questa Dichiarazione.

Articolo 39

I popoli indigeni hanno diritto a ricevere assistenza finanziaria e tecnica, da parte degli Stati e nel qua-dro della cooperazione internazionale, per il godimento dei diritti contenuti in questa Dichiarazione.

Articolo 40

I popoli indigeni hanno diritto ad avere accesso a procedure giuste ed eque – e a ottenere per loro mezzo rapide decisioni – per la risoluzione dei conflitti e delle controversie con gli Stati o altre parti, come anche a rimedi efficaci per tutte le violazioni dei loro diritti individuali e collettivi. Ogni decisio-ne dovrà dare la debita considerazione ai costumi, tradizioni, regole e sistemi legali dei popoli indigeni in questione e alle norme internazionali relative ai diritti umani.

Articolo 41

Gli organi e le istituzioni specializzate del sistema delle Nazioni Unite e delle altre organizzazioni intergovernative devono contribuire alla piena attuazione delle disposizioni contenute in questa Di-chiarazione attraverso il ricorso, fra le altre cose, alla cooperazione finanziaria e all’assistenza tecnica. Dovranno essere stabiliti i modi e i mezzi per assicurare la partecipazione dei popoli indigeni nelle questioni che li riguardano.

Articolo 42

Le Nazioni Unite, i suoi organi, ivi compreso il Forum Permanente per le Questioni Indigene, le isti-tuzioni specializzate, comprese quelle a livello nazionale, e gli Stati devono promuovere il rispetto e la piena applicazione delle disposizioni contenute in questa Dichiarazione e sorvegliare l’efficacia di questa Dichiarazione.

Articolo 43

I diritti riconosciuti nella presente Dichiarazione rappresentano il livello minimo necessario per la sopravvivenza, la dignità e il benessere dei popoli indigeni del mondo.

Articolo 44 Tutti i diritti e le libertà riconosciuti in questa Dichiarazione sono egualmente garantiti a tutte le per-sone indigene, maschi e femmine.

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Articolo 45

Nulla di quanto contenuto in questa Dichiarazione può essere inteso come tale da ledere o annullare i diritti che i popoli indigeni hanno ora o potranno acquisire in futuro.

Articolo 46

1. Nulla di quanto contenuto in questa Dichiarazione può essere inteso come tale da implicare per qualsivoglia Stato, popolo, gruppo o persona il benché minimo diritto a intraprendere una qualsiasi attività o a compiere un qualsiasi atto in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite, né può essere inteso come tale da autorizzare o incoraggiare una qualsiasi azione volta a smembrare o intaccare, in parte o in toto, l’integrità territoriale o l’unità politica di Stati sovrani o indipendenti.

2. Nell’esercizio dei diritti enunciati nella presente Dichiarazione, si dovranno rispettare i diritti uma-ni e le libertà fondamentali di tutti. L’esercizio dei diritti stabiliti in questa Dichiarazione deve essere soggetto solo alle limitazioni che sono stabilite dalla legge e conforme agli obblighi internazionali in materia di diritti umani. Qualsiasi limitazione di questo genere dovrà essere non-discriminatoria e strettamente necessaria al solo scopo di garantire il riconoscimento e il rispetto dovuti per i diritti e le libertà degli altri e per corrispondere ai giusti e più vincolanti requisiti di una società democratica.

3. Le disposizioni enunciate in questa Dichiarazione dovranno essere interpretate in conformità con i principi di giustizia, di democrazia, di rispetto dei diritti umani, di eguaglianza, di non- discriminazio-ne, di buon governo e di buona fede.

da http://www.un.org/esa (traduzione italiana a cura di Emanuela Borgnino e Giuliano Tescari)

Bambini indios dell’Amazzonia.

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L’AMERICA RENDE LE TERRE AGLI INDIGENI DELLE HAWAII Approvata una legge per la semi-indipendenza dei Kanaka maoli.

Dopo 112 anni, il governo americano, che rovesciò il regno delle Hawaii e le oc-cupò militarmente, si dice pronto a concedere una sovranità limitata agli abitanti delle isole, sul modello dei Pellerossa e degli Eschimesi/Inuit continentali. Desti-natari i Kanaka maoli: 250 mila persone, il 21 per cento della popolazione delle Hawaii, più altre 400 mila nel resto degli Stati Uniti. I Kanaka maoli sarebbero liberi di gestire i terreni demaniali, quasi un quinto del totale, e di darsi una propria amministrazione, come gli Indiani delle riserve e quelli dell’Alaska. Mesi fa la Camera approvò una legge in merito e nelle prossime settimane dovrebbe farlo anche il Senato. Sole limitazioni richieste dal governo: leggi speciali a tutela delle forze armate americane nelle Hawaii e divieto di aprire casinò. Come ricordano i media in vista del di-battito al Senato, la disponibilità di Washington- che nel centenario dell’annessione, nel 1993, presen-tò scuse formali ai Kanaka maoli e destinò loro il demanio- ha divi-so America e Hawaii. Le isole, dal 1959 il cinquantesimo Stato ame-ricano, sono il paradiso degli USA, meta di turisti e studiosi. A 5 ore di volo da Los Angeles, sono an-che il ponte con l’Asia, un pilastro strategico dell’impero americano, come dimostrò l’attacco giappo-nese a Pearl Harbour nel 1941. La frattura tra i fautori e i critici della semi-indipendenza si riflette nel dibattito al Congresso. I due senatori delle Hawaii Daniel Aka-ka e Danile Inouye, democratici, la definiscono “una giustizia del-la storia”. Il senatore dell’Arizona Jon Kyl, repubblicano, la giudica “un errore politico”. Ad allarmare i critici, mentre a Honolulu co-mincia la solita invasione straniera dell’estate, è lo spettacolo della se-cessione o della frammentazione delle Hawaii. “Le isole - protesta Kyl - sono uno dei grandi succes-si del crogiolo razziale americano.

Ennio Caretto

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Perché fare dei Kanaka maoli un popolo separato? Significherebbe generare ten-sioni tra le etnie e rafforzare i secessionisti. Dai sondaggi, la maggioranza degli Stati Uniti è contraria a questo passo”. Kyl sottolinea che esiste già un’Agenzia degli affari hawaiani diretta da una Kanaka maoli, Haunani Apolonia, che cura gli interessi degli indigeni. Ma Linda Lingue, il primo governatore repubblicano delle Hawaii, dal 1962 caldeg-gia l’approvazione della legge: “è ora di riconoscere i diritti di questo popolo da noi conquistato”.Tra i Kanaka maoli c’è però chi ritiene insufficiente la sovranità limitata. Kekuni Blaisdell, leader dei gruppi separatisti, ex professore di medicina all’università di Honolulu, insiste che “bisogna porre fine all’occupazione americana”. “Abbiamo una storia millenaria, non siamo nati con lo sbarco di James Cook e del-la reale marina inglese nel 1778 né con il golpe militare USA”, proclama. Tennis Kanahele, uno dei suoi luogotenenti, che fa sventolare dai pennoni la ban-diera delle Hawaii alla rovescia in segno di dissenso, rifiuta l’analogia con i Pel-lerossa e gli Eschimesi: “Siamo una nazione distinta, lo evidenzia anche la nostra geografia”. I separatisti affermano che con loro le Hawaii rimarrebbero legate agli Stati Uniti da trattati di difesa, commerciali e così via, ma riacquisterebbero la pro-pria eredità storica. È l’inizio del riesame di un capitolo dell’America che fu esalta-to anche da Hollywood (tra gli altri, un film con Charlton Heston sulla caduta della monarchia hawaiana: Il Re delle isole), ma che oggi odora di colonialismo. Un riesame che non si concluderà con l’approvazione della legge: già si annuncia-no ricorsi ai tribunali federali.

da Corriere della Sera, 18 luglio 2005

Due tipiche danze hawaiane: la danza del fuoco e la “hula”.

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LA RESTITUZIONE DELLE TERRE ANCESTRALI AI BOSCIMANI⁄SAN I discendenti dei Boscimani/San, uno dei più antichi popoli africani, dopo anni di esilio hanno ottenuto il diritto di rientrare nelle loro terre (dalle quali erano stati sfrattati dopo la scoperta di giacimenti di dia-manti), grazie ad una sentenza del 2006. Ciononostante, il governo del Botswana, ha continuato la sua politica per scoraggiare il rientro dei Boscimani/San, impedendo, ad esempio, l’accesso ai pozzi d’acqua men-tre ha concesso nel 2010 il permesso di realizzare un villaggio turistico di lusso all’interno della loro riserva.

L’Alta Corte di Giustizia del Botswana ha emesso un verdetto storico a favore dei Boscimani. La sentenza stabilisce che centinaia di persone, costrette a lasciare il Parco naturale del Kalahari centrale (Ckgc), potranno tornare nella loro terra an-cestrale. “È un loro diritto costituzionale”, spiega l’avvocato Gordon Bennet, che ha rappresentato 239 Boscimani. “Dovranno soltanto trovare un accordo con il governo per definire modi e tempi del loro rientro”.Allontanati con forza in tre successive campagne – nel 1997, nel 2002 e nel 2005 – i Boscimani sono stati sistemati in alcuni campi desolati a molti chilometri dal par-co. Il governo del Botswana aveva deciso di trasferirli già nel 1986, subito dopo la scoperta di depositi di kimberlite (un’importante roccia diamantifera) nella zona, ma non era riuscito a trovare un luogo in cui reinsediarli. Negli anni precedenti al trasferimento, le autorità avevano costretto i Boscimani ad abbandonare gradualmente il loro stile di vita tradizionale di cacciatori-raccoglitori, ritirando le licenze di caccia e vietan-do loro di coltivare piante e pascolare bestiame nel parco.

KwaneleSosibo

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Pressioni e intimidazioniIn base alla sentenza della corte, il governo di Gaborone non è tenuto a fornire i servizi essenziali ai Boscimani che tornano nelle loro terre. Secondo Survival International, un’organizzazione non governativa che difende i diritti dei popoli indigeni, si tratta di un modo per scoraggiare il rientro: “Il governo fornisce servizi essenziali ad altre comunità che vivono in aree remote”, spiega Fiona Watson, coordinatrice delle campagne dell’organizzazione. “E in passato garantiva ai Boscimani del Kalahari assistenza sanitaria, pensioni e istruzione. Ma da quando ha deciso di cacciarli, ha cominciato a eser-citare ogni forma di pressione e intimidazione, per esempio interrompendo il rifornimento di acqua”. Roy Se sana, capo del gruppo First People of Kalahari e portavoce dei Boscimani al processo, so-stiene che il suo popolo può fare a meno dell’assistenza statale: “Sono stati proprio i loro servizi a farci cacciare dalla nostra terra”, spiega, alludendo alla tesi del governo secondo cui il trasferimento serviva a promuovere lo sviluppo dei Boscimani. Per l’ong Sur-vival International la decisione del governo in realtà era dovuta alla presenza di vasti giacimenti di diamanti della regione. Ma l’avvocato Bennet non nasconde il proprio scetticismo: “Noi pensia-mo semplicemente che non si possono allontanare delle persone dalla propria terra senza il loro consenso. E la corte ci ha dato ragione. Non so dire se il trasferimento fosse collegato all’estra-zione dei diamanti, anche se in effetti la misura è stata presa dopo la scoperta della kimberlite nell’area”. Per ora Gaborone non ha commen-tato la sentenza, ma un funzionario - che vuole restare anonimo - sostiene che se il governo non fornirà nessun servizio difficilmente i Boscimani torneranno nel parco. Inoltre chi rientrerà potrà cacciare solo se dimostrerà che lo fa unicamen-te per garantire il proprio sostentamento. Senza contare che le leggi sulla proprietà della terra hanno poche probabilità di cambiare nel futuro prossimo.

da Mail & Guardian, pubblicato su Internazionale n. 673, 22 dicembre 2006

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IL RISARCIMENTO AI NATIVI AMERICANI Nel 2011 un giudice statunitense ha approvato un risarcimento a favore di un popolo nativo, quello dei Piedi Neri (Blackfeet/Blackfoot): una sen-tenza storica resa possibile dal sostegno di Barack Obama, che durante la campagna elettorale del 2007 aveva promesso di chiudere la batta-glia legale condotta da Elouise Cobell, discendente di un capo tribù dei Blackfeet.Un risarcimento con il quale il governo statunitense inizia a rendere giustizia alle decine di nazioni indiane (Natives) derubate delle loro ter-re e della loro identità.

È il più grande risarcimento finora deciso contro il governo degli Stati Uniti, quello approvato ieri dal giudice federale Thomas Hogan. Il caso, storico e destinato a co-stituire un precedente, è quello di Cobell contro Salazar, una azione legale collet-tiva condotta da Elouise P. Cobell per conto di migliaia di membri dei Blackfeet (Piedi Neri), popolo nativo americano stanziato nello Stato del Montana. Il giu-dice Hogan ha stabilito che il governo degli Stati Uniti dovrà versare ai Blackfoot 3,4 miliardi di dollari come risarcimento di almeno cento anni di cattiva gestione delle risorse del territorio della tribù: petrolio, gas naturale, pascoli, fonti d’acqua. La causa non riguarda solo le tribù della confederazione Blackfeet (Ojibaw in algonchino), ma un totale di 500 mila persone appartenenti a vari popoli nativi americani.Alla fine dell’espansione dei bianchi verso ovest, il governo statunitense creò dei fondi fiduciari per l’amministrazione dei beni delle tribù sconfitte, considerate troppo «incapaci» di gestire le ricchezze dei territori che gli erano rimasti. Per quindici anni, Elouise Cobell, laureata in economia e fondatrice della Banca

JosephZarlingo

Elouise Cobell

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GEOLETTURE on linecentrale del popolo Blackfoot, ha cercato di dimostrare che anziché la gestione oculata e attenta ai bisogni dei popoli indigeni che per legge il governo federale statunitense avrebbe dovuto avere, i fondi sono stati usati per speculazioni e sac-cheggi legalizzati, responsabili in parte della situazione di estrema povertà in cui versano la maggior parte dei nativi nordamericani negli USA.Il meccanismo, creato con il Dawes Act del 1887, prevedeva la partizione delle terre tribali in lotti individuali per trasformare gli indigeni in agricoltori e legarli alla proprietà individuale della terra, un concetto estraneo alla cultura della mag-gior parte delle tribù nordamericane. Dopo 25 anni, i lotti individuali sarebbero stati soggetti a tassazione e in caso di inadempienza degli assegnatari, requisti e messi a disposizione del governo federale. Questo meccanismo apparve quasi subito del tutto inadeguato e allo-ra vennero creati dei fondi fiduciari per amministrare le proprietà che venivano trasmesse per via ereditaria. Solo che, fare testamento non era – e non è tuttora – cosa molto comune tra i popoli indigeni nordamericani, con la conseguenza che la proprietà dei lotti originari e delle terre comuni è diventata nel tempo pratica-mente indecifrabile.Le conseguenze economiche di questa situazione sono state pesantissime per ol-tre cento anni, fino al punto da creare un reticolo di microproprietà senza valore commerciale e impossibili da gestire. Le terre amministrate dai fondi fiduciari controllati dal governo federale coprono un territorio pari a due terzi dell’Italia.Il giudice Hogan è d’accordo: “Il governo federale ha gestito i fondi fiduciari in un modo smaccatamente inefficiente – ha detto commentando la sua decisione – . E anche se questo risarcimento non copre oltre cento anni di saccheggio, almeno darà a un po’ di persone una qualche certezza per il proprio futuro”.Cobell, discendente di uno dei grandi capi Blackfeet del XIX secolo, riceverà 2 milioni di dollari, mentre i risarcimenti individuali vanno dai 200 mila dollari a poco più di mille dollari. L’idea di Cobell, però, è quella di usare almeno una parte dei fondi ottenuti per progetti di sviluppo per il suo popolo, in modo da creare le premesse per una rinascita collettiva e non solo per la ricchezza individuale. Dei 3,4 miliardi di dollari, 1,5 andrà ai risarcimenti individuali, 1,9 invece servirà a riscattare proprietà collettive delle tribù sminuzzate nel corso dei decenni in piccole proprietà individuali impossibili da gestire. Altri 60 milioni di dollari, poi, serviranno a creare borse di studio per i giovani studenti nativi.La decisione del giudice Hogan è stata in realtà il sigillo formale su un accordo che i legali di Cobell e quelli del governo avevano già raggiunto a dicembre 2009. L’accordo è stato poi approvato dal Congresso federale, competente in materia di rapporti con i popoli nativi, e trasformato in legge dal presidente Barack Obama alla fine del 2010, dopo quattordici anni di battaglie legali tra le corti del Montana e quelle federali.Nella sua vittoriosa campagna elettorale, Obama aveva promesso che il caso sareb-be stato chiuso e dopo la notizia il presidente statunitense ha commentato che la sentenza del giudice Hogan «rappresenta un altro importante passo in avanti nelle relazioni tra il governo federale e le nazioni indiane».La qualità di queste nuove relazioni sarà subito messa alla prova nella procedura per individuare le terre da riscattare e la loro destinazione nell’interesse degli in-digeni, per la prima volta in quasi un secolo e mezzo.

Da Joseph Zarlingo, USA, risarcimento miliardario per i nativi americani, in Lettera 22, 21 giugno 2011

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Annalisa Monfreda Jürgens Schaefer

Perché nell’era in cui l’uomo ha raggiunto grandiosi traguardi nel campo scientifico-tecnologico milioni di persone, soprattutto bambini, continuano a morire di fame? Perché nonostante proclami, dichiarazioni, stanziamen-ti di aiuti, i bambini dell’Africa subsahariana faticano a raggiungere i 5 anni di vita? Quale sistema economico potrebbe debellare la povertà?Secondo uno dei maggiori economisti mondiali la povertà potrebbe essere eliminata dal mondo estendendo alle aree sottosviluppate il modello economico che ha consentito all’Occidente di diventare ric-co e prospero. Dall’altra parte del mondo, però, la storia viene letta in modo diverso: l’Occidente ha prosperato sfruttando le ricchezze del sud del mondo; benessere e povertà assumono significati di-versi, così come sono diverse le soluzioni proposte per lasciarsi alle spalle la vergogna di morire per fame all’alba del XXI secolo.

UN MONDO SENZA POVERI

I POVERI NON SIAMO NOI Chi sono i poveri? Quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno, dice la Banca Mondiale.Eppure, quando un gruppo di sociologi ha posto questa domanda ai contadini del Burkina Faso e del Congo, la risposta è stata un po’ diversa: “È povero chi non ha amici, chi non ha famiglia, chi è solo”. Insomma, l’individuo isolato che si confron-ta con la propria impotenza, per dirla con il sociologo Serge Latouche.

Un modello economico alternativoCon meno di un dollaro al giorno, nel Sud del mondo si può vivere. E anche bene. Non perché il costo della vita sia basso, ma perché qui esiste un meccanismo in-visibile all’occhio occidentale che si chiama economia informale. Ossia il riciclag-gio dei materiali di scarto, l’agricoltura e l’allevamento di sussistenza, il piccolo commercio delle eccedenze1 e la solidarietà reciproca. Sono attività che sfuggono ai “ragionieri” del pianeta, ma che tengono in vita milioni di persone nel mondo. Un’arte di arrangiarsi, insomma. Che non è un’economia primitiva, né tantomeno illegale e sommersa. Ma per alcuni studiosi come Latouche è addirittura un mo-dello alternativo a quello capitalistico. Il suo segreto? “È una strategia razionale per soddisfare bisogni economici ma anche culturali e spirituali”, dice l’africanista Patrick Chabal. Esattamente ciò di cui avrebbe bisogno la società occidentale.

La lotta alla povertà, una moda occidentaleOggi, la lotta alla povertà è trendy2: “sfila” sulle passerelle d’alta moda e viene ur-lata dai palcoscenici dei concerti rock. Liberare il mondo dalla povertà è la nuova grande impresa dell’uomo bianco. Alla quale vogliono legare la propria memoria i miliardari del pianeta, da Bill Gates a George Soros, fino a Warren Buffett.Calcolatrice alla mano, uno dei massimi economisti mondiali, Jeffrey Sachs, diret-tore dell’Earth Institute della Columbia University, ha messo a punto un progetto per sconfiggerla definitivamente nel giro di 20 anni. Il suo pensiero è spiegato nell’articolo sulla piccola Fatima, ma in sostanza dice questo: poche generazioni fa, anche il Nord del mondo era povero, poi la rivoluzione industriale lo guidò verso

1. eccedenze: quanto viene prodotto in più rispetto al fabbisogno.

2. trendy: alla moda, di tendenza.

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GEOLETTURE on linenuove ricchezze ma il Sud fu lasciato indietro. Compito del Nord è aiutare il Sud a percorrere la sua stessa strada, ma in minor tempo. In che modo? Moltiplicando gli aiuti e concentrandoli su sanità, istruzione e infrastrutture. Il dottor Sachs ha appena somministrato questa medicina miracolosa a 79 “villaggi del millennio” in Africa.

Non siamo poveri, siamo impoveriti In attesa di vedere i risultati, un coro di voci si solleva per contestare la sua “sto-ria della povertà”. “ I poveri non sono coloro che sono stati “lasciati indietro”, sono coloro che sono stati derubati. La ricchezza accumulata dall’Europa e dal Nord America è largamente basata sulle ricchezze prese dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina”, scrive la scienziata indiana Vandana Shiva3. “Ricrediamoci: non siamo poveri, siamo impoveriti”, dice la maliana4 Aminata Traorè.E poi, esiste davvero una sola strada? “Oggi i dirigenti occidentali invitano l’Africa a fare come loro. Ma se così fosse l’ecosistema planetario crollerebbe per sovra-consumo di energia”, scrive lo storico burkinabè5 Joseph Ki- Zerbo. Forse la cosa giusta sarebbe chiedere ai “poveri” che cosa significa per loro benessere. E non stabilire un obiettivo con criteri puramente occidentali, ossia l’accumulo di ric-chezze e beni materiali.Uno studente senegalese disse una volta a Ki-Zerbo: “Sa, professore, quello che cer-chiamo non è lo sviluppo, è la felicità”.

Basta con gli aiuti Che dire poi del mezzo che Sachs propone per raggiungere il suo obiettivo? Già decine di anni fa, lo studioso franco-ungherese Tibor Mende paragonava gli aiuti internazionali a un carciofo: piacevole quando è in fiore, ma poi spinoso e mangia-bile solo in minima parte. E in effetti, 2300 miliardi di dollari sono stati dispensati6 negli ultimi 50 anni ai Paesi in via di sviluppo e qual è stato il risultato? “I Paesi che hanno ricevuto maggiori aiuti non hanno avuto la crescita economica prevista”, dice William Easterly dell’università di New York. “Basta con gli aiuti”, implora l’eco-nomista keniota James Shikwati: “Se l’Occidente li interrompesse, nessuno in Africa se ne accorgerebbe, eccetto i funzionari”.Ma allora come può l’Occidente contribuire alla lotta contro la povertà? Vandana Shiva non ha dubbi: “Il punto non è quanto le nazioni ricche possono dare, ma quanto meno possono prendere”. Insomma, Occidente, fatti da parte.

da Geo, dicembre 2006

3. Vandana Shiva: ambientalista e atti-vista politica indiana, fortemente critica ver-so i processi di globa-lizzazione economica, considerati la causa della povertà nel sud del mondo.

4. maliana: originaria dello Stato africano del Mali.

5. burkinabè: origina-rio dello Stato africano del Burkina Faso.

6. dispensati: distri-buiti, elargiti.

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FATIMA, 2 ANNI, UCCISA DALLA FAME E DA UN PERVERSO MECCANISMO ECONOMICO Questa mattina è iniziata con 13 piccoli miracoli: i 13 bambini ricoverati nelle tende d’emergenza hanno superato la notte e sono ancora vivi.Non accadeva da settimane che non morisse nessuno, ed è per questo che Chan-tal Umutoni, 34 anni, dottoressa dal Ruanda per l’associazione Medici senza Frontiere1,rivolge una preghiera al cielo e inizia la sua giornata con un sorriso.Dai tetti di Maradi, nella parte meridionale del Niger, ai confini della Nigeria, si ode il richiamo del muezzin2. E mentre nella moschea i contadini in ginocchio implorano un po’ di pioggia, i commercianti spingono carriole piene di sacchi da 100 chili di cereali e riso basmati. È l’11 luglio del 2005 e in questi giorni il grano vale quasi quanto l’oro. Dai villaggi la gente si riversa per le strade della città in cerca di cibo; sono in molti a non mangiar nulla da giorni.Fatima ha solo due anni ed è distesa a braccia aperte su una branda. Ai piedi del letto, con il capo chino, siede Saniba Idrissa, 20 anni, sua madre. Una fievolissima palpitazione nel petto di Fatima lascia intendere che la bambina è ancora viva, ma molto vicina alla morte. Migliaia di bambini in Niger non sopravvivranno a quell’estate del 2005; migliaia di quei sei milioni di bambini sulla Terra che ogni anno muoiono di fame. E dal 2005 nulla è cambiato.

La ricetta dell’economista occidentale Jeffrey SachsUna decimazione che si potrebbe evitare, afferma l’economista statunitense Jeffrey Sachs, 51 anni, incaricato dall’ex segretario dell’ONU Kofi Annan di ricercare, con una task force di 250 studiosi, soluzioni al fine di liberare un miliardo di persone dal-la miseria. Il suo progetto è ambizioso: estirpare entro il 2025 la povertà dal mondo.Come? Devolvendo ogni giorno il corrispettivo del prezzo di una tazzina di caffè.“Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita che garantisca la salute e il benessere proprio e della sua famiglia”, promette dal 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite. Ma ancora oggi un sesto della popolazione mondiale vive con meno di un dollaro al giorno e 852 milioni di persone sono denutrite. Benché il mondo sia in grado di sfamare 12 miliardi di persone, come ha dimostrato una ricerca della FAO, ogni anno otto milioni muoiono di fame. Si-gnifica che in una settimana la fame miete più vittime di quante ne fece la bomba atomica a Hiroshima3, in due settimane più di quelle dello tsunami4.Una miseria dalla quale è possibile uscire, afferma Jeffrey Sachs. Un tempo anche l’Europa e l’America erano altrettanto povere: i contadini coltivavano la terra in maniera primitiva ed epidemie e carestie uccidevano anche i loro figli. Nell’Otto-cento la speranza di vita in Europa si aggirava attorno ai 40 anni. Poi arrivò l’indu-strializzazione e nel raggio di due secoli le popolazioni europee si affrancarono5 dalla loro desolata esistenza. Uno sviluppo simile, spiega Sachs, potrebbe avvenire anche in Africa, ma in un lasso di tempo inferiore rispetto all’Europa, perché oggi l’umanità dispone del sapere e dei fondi sufficienti a eliminare la povertà: moder-ne tecniche agrarie, medicinali a basso costo e ingenti aiuti economici da parte dei Paesi ricchi sarebbero in grado di porre fine alla miseria nella quale sono co-stretti a vivere Fatima, Saniba e, con loro, più di un miliardo di persone.L’International Food Policy Research Institute (Ifpri) di Washington, appog-giato dall’Unicef e dalla Banca Mondiale, valuta la necessità di investimenti in

1. Medici senza Fron-tiere: organizzazione umanitaria non gover-nativa che presta soc-corso alle popolazioni in zone di guerra o vittime di emergenze sanitarie.

2. muezzin: nella reli-gione islamica il muez-zin è colui che chiama i fedeli alla preghiera cinque volte al giorno.

3. Hiroshima: cittadi-na giapponese colpita insieme a Nagasaki dal lancio della prima bomba atomica nel 1945, che provocò la morte di decine di mi-gliaia di persone, uc-cise dall’esplosione o successivamente dalle radiazioni.

4. tsunami: il tremen-do maremoto (9° gra-do della scala Richter) che nel dicembre 2004 ha devastato il Sud -Est asiatico e l’Ocea-no Indiano, causando la morte di centinaia di migliaia di persone. È stata una delle peg-giori catastrofi naturali a memoria d’uomo.

5. si affrancarono: si liberarono.

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Africa attorno ai 303,3 miliardi di dollari: un terzo andrebbe per la costruzione di strade, un quarto per la formazione e il resto per l’irrigazione, l’approvvigio-namento idrico e la ricerca nel campo delle sementi. Così facendo, nei prossimi 20 anni l’Africa avrebbe 30 milioni di bambini in meno che patiscono la fame. Per diminuire il tasso di mortalità infantile, poi, non basta vaccinare i neonati, ma garantire loro cibo a sufficienza per nutrirsi, acqua potabile da bere e zanzariere. Se più ragazze frequentassero la scuola, nel raggio di pochi anni si ridurrebbe anche il tasso di natalità. L’economista calcola che, per un simile progetto, sareb-bero necessari 100 dollari a persona l’anno: i soldi dovrebbero essere stanziati da quei 22 Paesi il cui reddito pro capite supera i 10 mila dollari l’anno, e che fanno parte dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Nel 2015, si arriverebbe a raccogliere 195 miliardi di dollari l’anno.

Il silenzio assordante dei Paesi sviluppatiDurante la grande carestia del 2005 sarebbero bastati 16 milioni di dollari per salvare la vita di Fatima e di migliaia di altri bambini in Niger. Già da aprile Medici senza Frontiere fa sforzi disperati per attirare l’attenzione sul Paese, ma invano. In maggio le organizzazioni umanitarie lanciano un appello a tutti i membri delle Nazioni Unite, chiedendo di fornire aiuti alimentari: “800mila bambini patiscono la fame e 150mila di questi evidenziano già gravi segni di denutrizione”.

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GEOLETTURE on lineCifre registrate solo in Paesi in guerra! A quest’appello, il mondo reagisce con un “silenzio assordante”, come dice Jan Egeland, coordinatore dei soccorsi d’emer-genza dell’ONU.Nello stesso momento Gian Carlo Cirri, direttore del Programma Alimentare Mon-diale (PAM) a Niamey, ammette, deluso, che la sua operazione di emergenza avvia-ta tre mesi prima si è arenata: voleva distribuire almeno 7000 tonnellate di viveri ai poveri, ma per ora non è riuscito a smuovere neanche un chicco di miglio: “Alla nostra richiesta d’aiuto i donatori hanno risposto: un’altra emergenza - fame in Niger? E qual è la novità?”.A fine giugno 2005, i pascoli erano disseminati di carcasse di mucche e pecore. Finite tutte le scorte, non restava che preparare focacce di miglio con i preziosi chicchi di semente. E così Saniba è stata costretta a privarsi di quel poco che ha per nutrire sua figlia, ma questo non basta a evitare che Fatima s’indebolisca sem-pre più.Già nella Dichiarazione del Millennio, l’8 settembre del 2000, il mondo si era fatto una promessa: quella di non abbandonare più i poveri al loro destino. In quell’occasione l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva deliberato di dimezzare, entro il 2015, la percentuale di persone che vivono in condizioni di povertà estrema, dando a tutti i bambini la possibilità di frequentare una scuola elementare. Nonché di ridurre di due terzi la mortalità infantile e la mortalità delle madri, oltre a debellare6 l’AIDS e la malaria. Ma a sei anni da quella Dichiarazio-ne, la percentuale di persone affamate è addirittura aumentata. Solo cinque Paesi hanno (finora) mantenuto la parola: la Danimarca, l’Olanda, la Norvegia, il Lussem-burgo e la Svezia. I più tirchi sono gli Stati Uniti, l’Italia, l’Austria, il Giappone e la Germania.Oggi si parla di “affaticamento del donatore” per descrivere la fievole7 predispo-sizione a elargire sussidi umanitari. Spesso i donatori motivano questa loro reti-cenza8 con la paura di arricchire le tasche di un’aristocrazia corrotta. Eppure oggi gli Stati africani non sono più corrotti di altri Paesi altrettanto poveri. Anzi, nella graduatoria stilata da Trasparency International 10, il Botswana risulta di gran lunga più onesto di Italia, Sudafrica e Grecia. Inoltre pare che la corruzione osta-coli la crescita economica meno del previsto. Il Bangladesh, da anni un’economia politica di successo, sarebbe fra i più corrotti in assoluto, mentre un Paese come il Mali, ben più onesto, stenta a progredire. Inoltre, questi scrupoli moralistici non valgono per le donazioni a varie Repubbliche delle Banane: nel 2003 furono distribuiti in Albania 107 dollari a persona, oltre il doppio dei 44 dollari a testa destinati al Ghana. Eppure il Ghana è al 65esimo posto: di gran lunga più onesto dell’Albania, 126esima.Le persone indigenti non sono più le uniche beneficiarie degli aiuti umanitari. Dietro alle donazioni di viveri si nasconde spesso l’abbattimento delle eccedenze. E gli aiuti stanziati per la costruzione di dighe e aeroporti spesso non sono che tangenti11 per imporre le ditte dei Paesi donatori nei progetti di costruzione.

L’indebitamento dei Paesi poveri, un’arma di distruzione di massaPer non parlare del debito: la parziale cancellazione voluta dall’ultimo vertice dei G8 in Scozia, nel luglio 2005, non ha fatto che diminuire il carico di mezzo punto percentuale. Lo svizzero Jean Ziegler12, relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto dell’uomo all’alimentazione, definisce l’indebitamento dei poveri “un’arma

6. debellare: sconfig-gere definitivamente.

7. fievole: debole.

8. reticenza: esitazio-ne.

9. Transparency Inter-national: organismo non governativo che si propone di combat-tere la corruzione; ogni anno valuta il grado di trasparenza e di one-stà nel settore pubbli-co e della politica in genere, stilando una classifica.

10. indigenti: povere.

11. tangenti: denaro versato ( o richiesto) il-legalmente in cambio di favori, concessioni, ecc.

12. Jean Ziegler: noto sociologo ed economi-sta svizzero, noto per le sue denunce nei con-fronti delle politiche degli organismi eco-nomici internazionali.

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GEOLETTURE on linedi distruzione di massa”: “Al massimo un terzo del debito è giustificabile” scrive nel suo libro L’impero della vergogna. Il resto sarebbero crediti grazie ai quali i Paesi ricchi si sono insediati nei Paesi poveri, accaparrandosi il diritto alle materie prime.

La politica del Fondo Monetario InternazionaleIn questi giorni, gli ultimi per Fatima, la catastrofe in Niger è inarrestabile. La mattina del 10 luglio Saniba Idrissa aspetta pazientemente, assieme ad altre 200 madri, davanti al pronto soccorso di Maradi. I bambini di un anno sono così magri da pesare quanto un neonato, quelli di tre anni non hanno la forza di reggere la testa dritta. Ma la cosa più tremenda è il silenzio: dei 200 bambini presenti non si sente molto di più che un gemito. A 500 metri dall’ospedale, sulla piazza del mercato di Maradi, le mercanzie abbon-dano come non mai: galline variopinte, telefoni satellitari e pillole cinesi, mais e fagioli, legna da ardere. Nei magazzini dei commercianti i sacchi di miglio s’accumulano fino al soffitto: se a novembre del 2004 valevano otto euro, oggi costano sei volte tanto. Al con-tempo, crollano i prezzi di capre e mucche: cinque euro per uno zebù è un buon affare. Il bestiame, riserva d’emergenza per i contadini, non ha più valore.Di tutto ciò il presidente Tandja Mamadou ha colpa, ma il suo margine d’azione per regolare il mercato è limitatissimo. La politica economica del Niger non viene decisa da Niamey, bensì a Washington, nella 19esima strada, dove ha sede il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Che con il motto “Noi sogniamo un mondo senza povertà”, assieme alla Banca Mondiale mette a punto la politica economica di tutti i Paesi in via di sviluppo, escluso Cuba e la Corea del Nord. I Paesi come il Niger, con una debole economia

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GEOLETTURE on linee un alto tasso di debito, sono costretti a chiedere nuovi crediti. Per ottenerli, de-vono subordinare13 la loro politica economica alle richieste di Washington, ester-nate14 anni dopo in una “lettera di intenti”, corredata dai Programmi di adatta-mento strutturale (PAS), che devono aiutare i Paesi a non dipendere più dagli aiuti umanitari. Eppure, se fra il 1960 e il 1980 il tasso di crescita dei Paesi in via di sviluppo si aggirava attorno al 2,5 per cento, nei successivi 18 anni, a dispetto di questi severi programmi, è sceso allo 0 per cento.Nonostante ciò, il Fondo Monetario continua ad applicare in Niger la stessa po-litica. A luglio del 1998 chiede di privatizzare nuove aziende statali. Stabilisce che siano erogati i soldi per potenziare il sistema informatico. Ma nega l’assunzione di 520 nuovi insegnanti, consigliando di assumere volontari. Anche nel settore dei servizi sanitari è permesso assumere al massimo 260 nuovi colla-boratori l’anno, in un Paese dove almeno 100 mila persone sono sieropositive15 e dove dilagano malaria e tubercolosi16.A Maradi le conseguenze di questa politica sono devastanti. Una volta l’ufficio per la distribuzione dei viveri contava 500 collaboratori. Oggi sono 50. Il miglio della riserva d’emergenza non viene più distribuito gratuita-mente, ma viene venduto alla “moderata cifra” di 16 euro al sacco. L’abolizione dell’assistenza sanitaria gratuita è costata la vita a migliaia di persone. E quando nella primavera del 2005, su pressione della Banca Mondiale e del FMI, il governo decide di applicare per la prima volta le tasse sul latte e la farina, esplo-dono violente proteste. Jeffrey Sachs paragona le terapie delle due istituzioni con le cure drastiche del Settecento “quando i dottori salassavano con le sanguisughe17 talmente tanto san-gue ai loro pazienti, da farli morire”.

Fatima è morta “Sono escoriazioni18 che si è procurata per via della fame”, dice Chantal, che ha fasciato le mani della bambina affinché non se ne procuri più. I capelli, di natura neri e ispidi, sono diventati slavati19 e sottili come la seta, le gambe e i piedi si sono gonfiati. Quando la dottoressa preme con il pollice sul collo del piede della bambina, resta il segno: un edema della fame. Fatima è affetta dal morbo di Kwa-shiorkor, una rapida e progressiva forma di deperimento. Chantal si appoggia al lettino. La piccola, sdraiata alle sue spalle, emette un debole gemito. All’improvvi-so sentiamo singhiozzare Saniba Idrissa. La dottoressa si gira spaventata: Fatima è morta.A Niamey Gian Carlo Cirri, direttore del PAM, digita insistemente sulla tastiera del suo computer: spedisce appelli disperati per aggiudicarsi il riso che da settimane sta marcendo nei porti di Abidijan, Lomè e Accra20, bloccato da non si sa quali for-malità doganali21. “E comunque, gli aiuti non bastano a risolvere i problemi”, dice Jeffrey Sachs. Bisognerebbe investire nello sviluppo a lungo termine: “La doman-da non è se i ricchi possano permettersi di aiutare i poveri, piuttosto se possano permettersi di non aiutarli”.Saniba Idrissa esce per un attimo dalla tenda, per piangere da sola. Un’altra madre raccoglie i pochi averi della giovane donna in un fagotto. Quando Saniba rientra, due donne le avvolgono il corpicino senza vita di Fatima con un panno e glielo appendono alla schiena. Senza neanche girarsi, la giovane donna lascia la tenda, riportando a casa sua figlia morta.

adatt. da Geo, dicembre 2006

13. subordinare: far dipendere.

14. esternate: espres-se, manifestate.

15. sieropositive: por-tatori del virus del-l’AIDS.

16. malaria e tuber-colosi: gravi malattie diffuse nei Paesi in via di sviluppo.

17. salassavano con sanguisughe: pratica medica diffusa in pas-sato consistente nel sottrarre sangue da una vena periferica uti-lizzando dei parassiti.

18. escoriazioni: fe-rite.

19. slavati: di colore sbiadito.

20. Abidjan, Lomé, Accra: importanti città portuali affacciate sul Golfo di Guinea.

21. formalità doga-nali: le procedure con-nesse al controllo delle merci che transitano da uno Stato all’altro.

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Ryszard Kapuscinski

Ryszard Kapuscinski, uno dei maggiori giornalisti contemporanei scomparso di recente- autore di reportage da ogni angolo della Terra - riflettendo sulle scel-te che l’umanità ha fatto nel corso della storia ogni qualvolta ha incontrato l’altro (scontro, isolamento, incontro), conclude che la scelta della guerra e dello scontro rappresenta sempre una sconfitta della natura dell’uomo in quanto tale. Nella nostra epoca, caratterizzata dalla transizione dalla società di massa alla società planetaria, dalla multiculturalità, dalla presa di coscienza della propria identità da parte di un numero sempre maggiore di popoli, dall’emergere delle opposte tendenze della globalizzazione e dell’affermazione della propria unicità, l’in-contro l’ altro rappresenta la vera sfida del nostro tempo.

INCONTRARE L’ALTRO: LA SFIDA DEL NOSTRO TEMPO

Certe volte ripensando a tutti i miei viaggi, ho l’impressione che il problema prin-cipale non siano stati i confini, i fronti di guerra, le difficoltà e i pericoli, ma la continua incertezza su come sarebbe stato l’incontro con gli altri, con quelli che avrei trovato strada facendo. Ho sempre saputo che da questo elemento dipen-deva tutto, o quasi tutto. Ogni nuovo incontro era un’incognita1: come sarebbe cominciato, come si sarebbe svolto, come si sarebbe concluso?

L’esperienza universale e fondamentale dell’umanitàLa domanda in sé non è nuova. L’incontro con un altro uomo, con altri uomini, è da sempre l’esperienza universale e fondamentale del genere umano. Secondo gli archeologi i primi raggruppamenti umani erano piccole famiglie-tribù composte al massimo da una cinquantina di elementi […]. Dunque, la nostra piccola fami-glia-tribù si sposta alla ricerca di cibo. Ma improvvisamente si imbatte in un’altra famiglia-tribù. Che momento importante per la storia del mondo, che clamorosa scoperta: nel mondo ci sono altri uomini! Fino a quel momento i membri di uno di quei gruppetti di trenta o cinquanta confratelli potevano illudersi di conosce-re tutti gli uomini del mondo. Ora non possono più farlo; ora quest’uomo sa che al mondo ci sono altre creature simili a lui: altri esseri umani. Ma come reagire a questa rivelazione? Che fare, che decisione prendere?Aggredire i viandanti? Proseguire facendo finta di niente? Oppure cercare di co-noscerli e d’intendersi?La scelta davanti alla quale - migliaia di anni fa - si è trovato il gruppo dei nostri antenati si ripropone oggi a tutti noi, e con la stessa intensità: una scelta categori-ca e fondamentale. Come comportarsi con gli altri? Che atteggiamento avere nei loro confronti?

Scontrarsi, separarsi o incontrarsiSi può scegliere il duello, il conflitto, la guerra. Di eventi del genere conservano memoria gli archivi, i campi di battaglia, i resti di rovine sparse nel mondo intero. Sono testimonianze della sconfitta dell’uomo, della sua incapacità - o non volontà - d’intendersi con gli altri. Un tema al quale, nelle sue infinite varianti, si è ispirata la letteratura di ogni epoca e Paese.

1. incognita: situazio-ne imprevedibile.

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Ma può anche succedere che, invece di aggredire e combattere, la nostra famiglia-tribù decida di separarsi e isolarsi dagli altri. Un atteggiamento che nel tempo ha prodotto fenomeni sostanzialmente simili tra loro: la Grande Muraglia cinese, le porte di Babilonia, il limes2 romano e le mura di pietra degli Incas.Per fortuna, ci sono prove che il genere umano è capace anche di un altro atteggia-mento. Sono prove di collaborazione: resti di mercati, luoghi di sosta per rifornirsi d’acqua, dove si trovavano agorà3 e santuari, dove sorgono tuttora le sedi di anti-che università e accademie o dove ancora si conservano tracce di vie commerciali, come la via della Seta, dell’Ambra o del Sahara.Tutti luoghi dove la gente si è incontrata, ha scambiato idee e merci, ha fatto affari, ha stretto patti e alleanze, ha scoperto finalità e valori comuni. L’altro, il diverso, non era sinonimo di estraneità, ostilità ed eventuale morte. Ciascuno scopriva di avere in sé una piccola parte dell’altro, ci credeva e viveva con quella convinzione.Ogni volta che l’uomo incontra l’altro gli si presentano tre possibilità: fargli guerra, ritirarsi dietro a un muro, aprire un dialogo. L’uomo esita da sempre tra queste tre opzioni e - a seconda della situazione e della cultura - sceglie l’una o l’altra. Le sue scelte sono mutevoli: non sempre si sente sicuro. Quella della guerra è una scelta difficilmente giustificabile. Secondo me ne escono tutti perdenti, nel senso che la guerra rivela l’incapacità dell’uomo di capire, di immedesimarsi con l’altro, di mostrarsi buono e intelligente. In questo caso l’incontro con l’altro finisce sempre tragicamente, con il dramma del sangue e della morte.Nella nostra epoca è stata chiamata apartheid l’idea che ha portato l’uomo a in-nalzare muraglie e scavare profondi fossati per chiudersi dentro e isolarsi dagli altri. Anche se è stato attribuito solo al razzismo dei bianchi in Sudafrica, in realtà l’apartheid era stato già praticato in passato.

“(Riservato a) Africani/Neri, Meticci e Asiatici” recita l’insegna bilingue all’esterno di un edificio in Sudafrica: un’immagine emblematica della discriminazione razziale (apartheid) praticata

nella seconda metà del XX secolo nei confronti della popolazione “non bianca”.

2. limes: l’insieme del-le fortificazioni e linee difensive che presi-diavano e definivano i confini dell’Impero romano.

3. agorà: nel mondo greco l’agorà, la piazza, era lo spazio pubblico per eccellenza, luogo di riunione e di merca-to posto al centro della città.

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IL MONDO GLOBALE TRA SFIDE E PROBLEMI

GEOLETTURE on lineSemplificando, si tratta d’una tesi secondo cui chiunque non appartiene alla mia stessa razza, religione e cultura, è libero di vivere come gli pare, purché lontano da me. La cosa, però, non è così semplice. In realtà si tratta di un concetto basato sulla fondamentale e insanabile diseguaglianza che divide il genere umano. I miti di molte tribù e di molti popoli rivelano la profonda convinzione che gli uomini siamo noi - i membri del nostro clan e della nostra società - mentre gli altri, tutti gli altri, sono subumani o addirittura non umani […].

La lezione della Grecia omericaAppare molto diversa, invece, l’immagine dell’altro all’epo-ca delle credenze antropomorfiche4, secondo cui gli dèi po-tevano assumere sembianze umane e comportarsi come gli uomini. Era impossibile sapere se il viandante, il vagabondo, l’ospite fosse un uomo o un dio travestito da uomo. Questa incertezza […] è una delle fonti della cultura dell’ospitalità, che impone di accogliere il nuovo arrivato con la massima benevolenza possibile […]. Tra i Greci di Omero5 nessuno è mai considerato “l’ultimo degli uomini”: l’uomo è sempre il primo, ossia incarnazione del dio.[…] Grazie a questa interpretazione, cominciamo a vivere in un mondo non solo più ricco e vario, ma anche più ras-sicurante, nel quale noi stessi siamo disposti ad andare per primi verso l’altro.Emmanuel Lévinas definisce l’incontro con l’altro come un “evento”, anzi come “l’evento fondamentale”, quello più importante e che più si addentra nell’orizzonte dell’espe-

4. credenze antropo-morfiche: presso nu-merose civiltà, in par-ticolare presso quella dell’antica Grecia, si at-tribuivano alle divinità sembianze e compor-tamenti umani.

5. Omero: leggendaria figura di poeta greco, vissuto presumibilmen-te nell’VIII sec. a.C., cui si attribuiscono l’Iliade e l’Odissea, i due poemi che hanno fondato la letteratura occidenta-le e che costituiscono una sorta di “enciclo-pedia” della civiltà gre-ca delle origini.

Il muro israeliano nella West Bank (Cisgiordania) e quello costruito a Buenos Aires a difesa dei quartieri più ricchi (a destra).

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GEOLETTURE on linerienza. Lévinas appartiene al gruppo dei cosiddetti filosofi del dialogo, come Martin Buber, Ferdinand Ebner e Gabriel Marcel, ai quali più avanti si è unito anche Józef Tischner6.Con le loro riflessioni hanno sviluppato l’idea dell’altro - in quanto esistenza uni-ca e irripetibile - in contrapposizione più o meno diretta a due fenomeni del Novecento entrambi livellatori dell’identità del singolo: la nascita della società di massa7, che cancella la diversità individuale, e la diffusione delle devastanti ideo-logie totalitarie8. […].

La consapevolezza del valore della cultura “altra”Noi, invece, viviamo nella transizione dalla società di massa a quella planetaria. Molti fattori contribuiscono a questo passaggio: la rivoluzione elettronica, l’incre-dibile sviluppo delle comunicazioni, l’estrema facilità nel collegarsi e nello spo-starsi, oltre alla nuova consapevolezza, nata tra le giovani generazioni, del valore della cultura “altra” in senso lato.

6. Lévinas… Tischner: filosofi e pensatori eu-ropei del Novecento. Józef Tischner, sacerdo-te polacco scomparso nel 2000, è stato ami-co personale di Papa Giovanni Paolo II; dalle loro conversazioni sul-la storia del XX secolo è nato il saggio Memoria e identità.

7. società di massa: la società nata dalla diffusione della secon-da Rivoluzione indu-striale, che ha portato all’aumento della pro-duzione e alla nascita di un mercato di mas-sa alimentato dalla pubblicità. Fenomeni tipici della società di massa sono stati la ri-voluzione dei trasporti, la diffusione di nuovi mezzi di comunicazio-ne, dello sport e del divertimento in gene-re, nonché degli stili di vita consumistici.

8. ideologie totali-tarie: correnti di pen-siero sviluppatesi nel corso del Novecento che hanno determina-to l’avvento di regimi totalitari (Nazismo, Fascismo, Stalinismo). Questi sono stati carat-terizzati dallo stretto controllo esercitato dal potere centrale su ogni aspetto della vita socia-le e dalla repressione di ogni forma di libertà e di opposizione.

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GEOLETTURE on lineIn che modo cambierà il rapporto tra noi e i rappresentanti di un’altra o di altre culture? Come influirà sul rapporto “io-altro” nell’ambito della mia cultura, oltre che fuori di essa? Una domanda a cui è difficile rispondere in modo univoco e definitivo, poiché si tratta di un processo ancora in atto, nel quale siamo personalmente coinvolti e quindi privi della “distanza” necessaria per giudicare.[…]. La cultura diventa ogni giorno più ibrida ed eterogenea […]. Oggi ci sono vere e proprie scuole di filosofia, antropologia e critica letteraria che studiano questo processo di ibridazione, innesto9 e trasformazione culturale. È un processo in atto soprattutto nelle regioni dove i confini statali sono anche frontie-re tra culture (come quella tra America e Messico), o nelle gigantesche megalopoli (São Paulo, New York, Singapore) dove si mescolano razze e culture d’ogni genere. Quando si dice che il mondo è diventato multietnico e multiculturale, non è per-ché oggi ci siano più etnie e culture di prima, ma perché oggi esse parlano con voce più forte, autonoma e decisa, pretendendo di essere accettate, riconosciute e invitate alla tavola rotonda delle nazioni.La vera sfida del nostro tempo - l’incontro con la nuova alterità, diversa per etnia e cultura - deriva anche da un contesto storico più vasto, che ha visto, nella seconda metà del Novecento, i due terzi della popolazione mondiale liberarsi dalla dipen-denza coloniale e molti popoli acquisire gradualmente coscienza della propria identità, delle proprie radici e del proprio valore.Oggi sul nostro pianeta, abitato per secoli da un ristretto gruppo di gente libera e da larghe masse di prigionieri, emerge un numero sempre crescente di nazioni e comunità convinte di possedere un valore individuale […].

Verso un nuovo mondo e un nuovo “altro”Probabilmente ci stiamo inoltrando in un mondo così nuovo e diverso che le esperienze storiche attraversate finora si riveleranno insufficienti a capirlo e a muovercisi dentro […].Incontreremo continuamente il nuovo altro, che pian piano emergerà dal caos e dalla confusione del mondo contemporaneo. Forse questo altro scaturirà dalla fusione tra le due opposte correnti della cultura moderna: quella che tende a globalizzare la nostra realtà, e quella che conserva la nostra individualità e unicità. L’altro potrebbe essere il frutto e l’erede di queste due correnti. Ecco perché dovremmo cercare di stabilire con lui un dialogo e un’intesa. L’esperienza acquisita in lunghi anni di convivenza con altri mi ha inse-gnato che la benevolenza è l’unico atteggiamento capace di far vibrare nell’altro la corda dell’umanità.Chi sarà questo nuovo altro? Come si svolgerà il nostro incontro? Che cosa ci di-remo? In quale lingua? Riusciremo ad ascoltarci? Riusciremo a far risuonare ciò che - come dice Conrad10 - “suscita la nostra ca-pacità di provare meraviglia e ammirazione, il senso di mistero della vita, il nostro sentimento della pietà, del bello e del dolore, la segreta comunione con il mondo, la sottile ma indomabile certezza della solidarietà che unisce infiniti cuori umani, quell’identità di sogni, gioie, dolori, aspirazioni, illu-sioni, speranze e timori che accomuna l’uomo all’uomo e unisce l’intera umanità: i morti ai vivi e i vivi a chi non è ancora nato”?

Rid. e adatt. da Incontro di civiltà, in Gazeta Wyborcza, tradotto e pubblicato su Internazionale, n.567, 26 novembre 2004

9. ibridazione, in-nesto: a sottolineare questo processo di mescolamento delle culture, l’autore utiliz-za due termini presi in prestito dall’agricoltu-ra. L’ibridazione con-siste nell’incrocio di specie diverse vegetali e animali, che dà come risultato una varietà nuova; l’innesto con-siste nell’inserimento sopra una pianta della parte di un altro vege-tale, al fine di ottenere un prodotto diverso.

10. Conrad: Józef Con-rad (pseudonimo di Te-odor Józef Konrad Kor-zeniowski, 1857-1924), scrittore inglese di ori-gine polacca, viaggiò a lungo per mare prima di dedicarsi comple-tamente all’attività letteraria. Personaggio ricorrente nelle sue opere (Lord Jim e Cuore di tenebra sono le più note) è quello dell’eroe solitario che affronta con coraggio le prove del destino e della vita, che lo vedono solita-mente perdente.