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Giolitti, giolittismo, antigiolittismo Come abbiamo detto la scorsa volta, con la caduta di Crispi le leve di comando passano al marchese di Rudinì, il quale mette in campo una alternativa che porterà il sistema ad avvitarsi su se stetto, incapace di dare una risposta alle nuove esigenze di un tessuto sociale che non è più quello dei primi decenni post-unitari. Abbiamo visto come quello di Crispi era stato anche un tentativo, seppure contraddittorio, di dare un nuovo slancio all'Italia, soprattutto da un punto di vista istituzionale, ma anche un tentativo di portare avanti una politica di sviluppo in cui gli interessi meridionali non fossero piegati alle esigenze del settentrione d'Italia. Di Rudinì inaugurò una politica prudente di chiusura dell'avventurismo coloniale e di riavvicinamento alla Francia con la quale fu firmato nel 1898 un nuovo trattato commerciale, sebbene non si fuoriuscì dallo schema protezionistico. Allo stesso modo non riuscì modificato lo schema triplicista, sebbene è da questi anni che la nostra diplomazia tenta di ammorbidirlo, ne vuole dare una interpretazione più elastica ritenendo ciò più confacente alle nuove esigenze. É con tutta evidenza un periodo in cui il sistema politico liberale vive una crisi, periodo caratterizzato da un ampio dibattito su temi di natura istituzionale. Le istituzioni si sentono in qualche modo assediate, è vero che la legislazione antisocialista crspina viene abrogata, ma si continua a temere per la crescita delle forze che a quel sistema si opponevano da sempre, come abbiamo visto, cattolici da una parte e socialisti dall'altra. La Chiesa ufficiale, nonostante la sempre presente linea conciliatorista, aveva irrigidito le proprie posizioni con Crispi al potere sebbene nel 1891 era stata emanata la Rerum Novarum da parte di Leone XIII, che sanciva un maggiore impegno del mondo cattolico in capo economico e sociale, definendo la posizione della Chiesa sulle questiono che lo sviluppo economico aveva posto sul terreno e che era senza dubbio, come già abbiamo visto, il tentativo di competere con le forze crescenti del socialismo italiano. É in questa fase che avviene un processo di organizzazione di leghe sindacali, società cooperative, casse rurali per un maggior radicamento del fattore cattolico nel mondo del lavoro. Ma è vero che le istituzioni vivono una situazione di “assedio” e per tuti gli anni

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Giolitti, giolittismo, antigiolittismo

Come abbiamo detto la scorsa volta, con la caduta di Crispi le leve di comando

passano al marchese di Rudinì, il quale mette in campo una alternativa che porterà il

sistema ad avvitarsi su se stetto, incapace di dare una risposta alle nuove esigenze di

un tessuto sociale che non è più quello dei primi decenni post-unitari. Abbiamo visto

come quello di Crispi era stato anche un tentativo, seppure contraddittorio, di dare un

nuovo slancio all'Italia, soprattutto da un punto di vista istituzionale, ma anche un

tentativo di portare avanti una politica di sviluppo in cui gli interessi meridionali non

fossero piegati alle esigenze del settentrione d'Italia. Di Rudinì inaugurò una politica

prudente di chiusura dell'avventurismo coloniale e di riavvicinamento alla Francia

con la quale fu firmato nel 1898 un nuovo trattato commerciale, sebbene non si

fuoriuscì dallo schema protezionistico. Allo stesso modo non riuscì modificato lo

schema triplicista, sebbene è da questi anni che la nostra diplomazia tenta di

ammorbidirlo, ne vuole dare una interpretazione più elastica ritenendo ciò più

confacente alle nuove esigenze.

É con tutta evidenza un periodo in cui il sistema politico liberale vive una crisi,

periodo caratterizzato da un ampio dibattito su temi di natura istituzionale. Le

istituzioni si sentono in qualche modo assediate, è vero che la legislazione

antisocialista crspina viene abrogata, ma si continua a temere per la crescita delle

forze che a quel sistema si opponevano da sempre, come abbiamo visto, cattolici da

una parte e socialisti dall'altra. La Chiesa ufficiale, nonostante la sempre presente

linea conciliatorista, aveva irrigidito le proprie posizioni con Crispi al potere sebbene

nel 1891 era stata emanata la Rerum Novarum da parte di Leone XIII, che sanciva un

maggiore impegno del mondo cattolico in capo economico e sociale, definendo la

posizione della Chiesa sulle questiono che lo sviluppo economico aveva posto sul

terreno e che era senza dubbio, come già abbiamo visto, il tentativo di competere con

le forze crescenti del socialismo italiano. É in questa fase che avviene un processo di

organizzazione di leghe sindacali, società cooperative, casse rurali per un maggior

radicamento del fattore cattolico nel mondo del lavoro.

Ma è vero che le istituzioni vivono una situazione di “assedio” e per tuti gli anni

Ottanta e Novanta la teoria politica si era interrogata sulla necessità di preservare il

sistema, addirittura di blindarlo. Il Torniamo allo Statuto di Sonnino, pubblicato nel

1896 è indicativo di questo dibattito. Cosa era? Era un articolo in cui proponeva di

restituire al re quel ruolo centrale che la lettera dello Statuto gli aveva assegnato, cioè

in sostanza un nuovo arresto al processo di parlamentarizzazione che aveva messo in

atto Cavour e che guardava al modello tedesco del cancellierato, che infatti si era

mostrato efficiente per reprimere la SPD.

Siamo in anni in cui vengono messe a punto anche teorie antiparlamentari e il

problema del parlamentarismo, come degenerazione del sistema, viene affrontato

attraverso prospettive anche differenti da quelle dei partiti, si pensi alle teorie di

Mosca e di Pareto, che spostano il punto di osservazione dal partito alla classe

politica. Nella sua “Teorica dei governi” Mosca affermava che la corruzione non era

un effetto patologico del sistema parlamentare, determinato da una anormale

ingerenza dei partiti nella Pubblica amministrazione (Minghetti), ma proprio un

aspetto fisiologico del sistema parlamentare. La Camera era il luogo di una

rappresentanza fittizia del Paese, perchè escludeva alcune forze vive (comprese

quelle popolari). Per cui il sistema parlamentare secondo Mosca era il peggior

sistema di reclutamento della classe olitica e una sorta di paravento dietro il quale

operavano interessi settoriali, di gruppo, che potevano essere anche politicamente

irresponsabili. Quindi Mosca non criticava il sistema parlamentare, ma addirittura ne

metteva in questione l'esistenza, anche se successivamente Mosca rivide alcuni

giudizi troppo radicali e con l'avvento del fascismo divenne poi un suo difensore. Di

Domenico Zanichelli abbiamo già parlato, ma ricordiamo come più o meno nello

stesso periodo egli si poneva in una posizione contraria a coloro che imputavano tutte

le degenerazioni del sistema alla mancanza di partiti strutturati e regolati, come

elementi di razionalizzazione della vita politica. Zanichelli infatti preferiva la

situazione che in Italia si era venuta a creare a partire dall'unificazione, laddove la

paura dei partiti “ordinati” aveva impedito la loro formazione. Queste forze infatti

avevano stentato a trasformarsi in forti e organizzati elementi di distruzione del

sistema.

Furono soltanto alcune delle soluzioni proposte, fatto sta che tutti i limiti vennero alla

luce in occasione appunto dei moti di fine secolo, quando non ci fu alcuna risposta

adeguata ed al passo con i tempi alle richieste provenienti dal basso: l'unica risposta

fu una politica reazionaria che ebbe esiti tragici, ricordando come Pelloux, esponente

della sinistra, fu colui che, dopo la caduta di Di Rudinì in seguito all'ondata di

repressione della protesta che percorse l'Italia, portò all'approvazione della Camera

misure drastiche di contenimento delle opposizioni, soprattutto sicialiste, con

strumenti giuridici permanenti di natura repressiva, contro le associazioni considerate

sovversive e di controllo preventivo della stampa.

E questo fu percepito dalla classe politica più liberale come un attacco alle libertà

statutarie, spingendo leader come Giolitti e Zanardelli all'opposizione e favorendo la

convergenza su posizioni di avversione alla politica di Pelloux di componenti del

mondo liberale e di quello socialista.

In questo senso, la svolta liberale rappresentata dal Governo Zanardelli-Giolitti di

inizio secolo costituisce una strategia diversa: il rinnovamento sarebbe stato affidato

ad un disegno riformistico diretto ad inglobare le ali moderate dell'opposizione

socialista e cattolica.

Ma quello che dobbiamo chiederci è, al momento dell'ascesa di Giolitti al potere, a

che punto è la parlamentarizzazione del sistema politico italiano. É una domanda alla

quale possiamo rispondere guardando a quello che successe proprio dopo il convulso

periodo di fine secolo, quando Vittorio Emanule III, pur in presenza di una

maggioranza di destra, in coerenza con il suo proclama alla Nazione in occasione

della morte del padre - Umberto primo era stato ucciso a Monza nel luglio del 1900

per mano dell'anarchico Gaetano Bresci – proclama nel quale aveva appunto preso

l'impegno di inaugurare un nuovo corso liberale, non dette l'incarico a Sonnino, ma al

capo della sinistra democratica che era erede diretto della sinistra storica, e cioè

Zanardelli. Vari commentatori coevi avevano notato questa discrepanza, nel senso che

correttezza costituzionale avrebbe suggerito un incarico a destra, perchè quella era la

maggioranza uscita dalle urne. Questo è un fatto indicativo dell'influenza che la

corona continua ad esercitare nei confronti dei governi: ad esempio l'opera di

fiancheggiamento della corona nei confronti di Giolitti è palese. La scelta di Giolitti

dopo Zanardelli fu chiaramente politica e andava in direzione di un consolidamento

del nuovo corso liberale. In questo senso, Giolitti era il vero continuatore ideale della

politica di Zanardelli. Si trattò di scelte che formalmente non sono affatto rispettose

delle maggioranze parlamentari, ma che andavano incontro alle aspirazioni

dell'opinione pubblica (Mussolini) e che nello stesso tempo erano funzionali “a

corte”, erano gradite al re e rispondevano a determinati disegni di casa Savoia. Nella

nomina di Zanardelli, ad esempio, più di un osservatore aveva visto un gesto

simbolico di svolta anche in politica estera, di maggiore distanza nei confronti della

Triplice Alleanza, perchè Zanardelli ricordava con la sua esperienza politica troppo

da vicino il Risorgimento e in particolare la lotta contro l'Austria. Giolitti era

particolarmente gradito a corte perché piemontese, proveniente da quella “provincia”

di Cuneo che aveva storicamente fornito gran parte dei quadri della burocrazia

savoiarda. Perchè burocrate egli stesso, dai modi sobri, borghesi e rispondente al

disegno di Vittorio Emanuele III di maggiore colleganza con i ceti medi. La corona

condizionava ancora fortemente il governo per ciò che riguardava il mantenimento

delle spese militari e la continuità della politica estera con la nomina di ministri tutti

graditi a corte, ciò che in qualche modo bisogna dire che limitò il carattere della

svolta liberale. Pensiamo per esempio alla nomina di Tittoni a ministro degli esteri,

che era un nome molto gradito a Vittorio Emanuele III, che aveva avuto modo di

conoscere Tittoni in qualità di prefetto di Napoli. Questa fiducia di Vittorio Emanuele

III nei confronti di Giolitti non venne mai meno, sino alla crisi dell'intervento.

Dunque il governo Zanardelli-Giolitti (con Giolitti ministro degli interni) si forma nel

1901, mentre Giolitti forma il suo secondo governo come presidente del consiglio

nell'ottobre 1903. Due parole su Giolitti: egli si era laureato a Torino in

Giurisprudenza in quella che fu la fucina del diritto nazionale. Di famiglia borghese

del cuneese, il padre era un cancelliere del Tribunale e la madre apparteneva alla

piccola nobiltà di origine francese, aveva avuto una rapida carriera nella magistratura

finanziaria. Nel 1870 era stato capo-sezione con Sella al ministro delle Finanze, poi

Segretario della corte dei conti e poi Consigliere di Stato, cariche e posizioni grazie

alle quali aveva acquisito una grande conoscenza della macchina dello stato,

soprattutto in materia finanziaria. La sua carriera politica come deputato inizia con la

XV legislatura, quella della nuova legge elettorale allargata e bisogna dire che già nel

suo programma di deputato veniva riconosciuto il problema dell'apertura alle classi

popolari. Da un punto di vista di schieramento parlamentare, inizialmente lo troviamo

tra i sostenitori di Depretis, per poi passare ala sua opposizione in contrasto con la

“finanza allegra” del ministro Magliani. Cioè Giolitti pensava che una rigorosa

politica di bilancio avrebbe permeso di realizzare una più adeguata e moderna

politica sociale. Questa opposizione lo porta a convergere con lo schieramento

crispino, un passaggio importante perxhè gli fa guadagnare degli amici sia nella

sinistra anti-trasformista (Crispi), sia nella destra, dove veniva apprezzato il suo

interessamento per una politica di rigore di bilancio. Il suo primo incarico

ministeriale arriva infatti con Crispi quando avrà l'incarico al Tesoro nel 1889. Il

solito attaccamento al rigore del bilancio lo fa progressivamente allontanare dalle

posizioni crispine e da qui il suo appoggio a Di Rudinì in funzione anti-crispina. Il

suo primo governo (maggio 1892-dicmbre 1893) viene investito dallo scandalo del

Banco di Roma, dal quale comunque Giolitti uscì pulito, nel senso che fu scagionato

da ogni accusa di aver favorito il governatore Tanlongo.

Quando dunque arriva al suo incarico con Zanardelli e poi al suo primo governo,

Giolitti ha fama di democratico, di essere uomo cioè favorevole al dialogho con le

forze popolari, socialisti da una parte e cattolici dall'altra, e interprete insenso

progressista del sistema parlamentare. In che senso? Nel senso che in età giolittiana è

vero che ci sarà una evoluzione verso una forma parlamentare del sistema. Ora, la

nascita di un governo era determinata da un decreto di nomina, anche se esso non

poteva vivere senza contare sulla fiducia delle camere. Prima che si stabilisse una

prassi di richiesta esplicita della fiducia alle camere, si trattava di una fiducia

implicita, che risultava indirettamente dal voto popolare ad inizio legislatura e

dall'approvazione dell'indirizzo di risposta al discorso della corona oppure

dall'assenza di un voto si sfiducia su un importante provvedimento del governo. La

richiesta di un voto di fiducia non era prevista dallo Statuto: una prassi in tal senso si

ebbe solo a partire dal 1903, con il II governo Giolitti, che può essere assunto a

momento che segna il passaggio pieno da un governo costituzionale ad un governo

parlamentare. Già nel 1892, in quella parentesi “crispina” in occasione del suo primo

governo, Giolitti aveva chiesto ed ottenuto una fiducia parlamentare, ma fu un caso

isolato. Una vera prassi si stabilisce soltanto dopo la crisi di fine secolo, quindi a

partire dal II governo Giolitti si ebbe sempre un voto di fiducia, sino al I governo

Mussolini, che, va ricordato, si costituì su un voto di fiducia del Parlamento.

Dal punto di vista del sistema dei partiti, il sistema giolittiano può essere definito

come un bipolarismo a geometria variabile. Giolitti è il primo presidente del consiglio

a non portare sulle spalle il peso della rivoluzione risorgimentale, è erede di quella

tradizione, ma ne è anagraficamente escluso (nato nel 1842). Nel suo approccio

iniziale, Giolitti tra l'altro mosse anch'egli dall'assunto della “maturità dei tempi”, per

cui il paese fu giudicato pronto quasi automaticamente per compiere il grande balzo

da un sistema di repressione e contenimento della questione sociale ad un sistema di

sua libera esplicazione. Ciò che in realtà corrispondeva ad una sorte di allucinazione,

come disse Giustino Fortunato. Giolitti riteneva che il problema del governo fosse

soltanto quello del controllo del livello profondo dell'ordine pubblico, per il resto

l'equilibrio andava cercato lasciando libertà allo scontro tra le varie istanze sociali, in

un'ottica autenticamente liberale. Si trattava di una fiducia astratta nell'evoluzione

naturale delle cose, ma le conseguenze negative di questo atteggiamento non furono

poche, sebbene non fossero poche nemmeno quelle positive. Da un lato, questa

libertà di movimento significò una grande emancipazione delle classi lavoratrici, pur

all'interno di un sistema di controllo formale di esse, dall'altro questo improvviso

protagonismo sgomentò la borghesia d'ordine, che fu spinta verso posizioni

conservatrici. Secondo molti storici il 1904, al tempo delle agitazioni socialiste, segna

il corto circuito della politica giolittiana, in cui essa cioè viene messa di fronte alla

realtà delle cose. Il Psi infatti era lungi dall'essere quello strumento di incanalamento

delle turbolenze sociali che Giolitti si era immaginato: al congresso del Psi di Imola

del 1902 vi è la constatazione formale dell'esistenza ormai di due anime contrapposte,

una riformista, una socialista rivoluzionaria, che al congresso di Bologna del 1904

sarà capace di mettere in crisi l'egemonia socialista turatiana (al congresso i riformisti

vanno in minoranza). In quell'occasione i socialisti furono incapaci di scegliere

veramente ed a prevalere fu una corrente di mezzo, ben rappresentata da Enrico Ferri,

che costituiva la prova più evidente di come il partito non riuscisse a qualificarsi “nè

come rivoluzionario, né come evoluzionista”. Nel dibattito entrarono poi anche i

sindacalisti-rivoluzionari, cioè quella componente di intellettuali che ritenevano le

lotte del lavoro come l'asse portante della politica e vedevano nello sciopero generale

lo strumento di palingenesi capace di rompere l'equilibrio ingiusto del capitalismo.

Ma è indubbio che le agitazioni gonfiano le file dell'estrema sinistra, prende piede

l'idea che con un solo sciopero si riesce ad ottenere più che con una intera legislatura.

All'interno del mondo socialista e democratico, ma anche e soprattutto in quello

liberale, si apre tra l'altro un'altra questione relativa alle drammatiche condizioni del

meridione d'Italia, nei confronti del quale prevale un atteggiamento di sfiducia da

parte di Giolitti tendenzialmente assecondato dai socialisti. Negli ambienti di governo

prevale quella idea di cui abbiamo parlato a proposito del momento unitario e cioè la

convinzione che sia assente una classe dirigente locale degna di questo nome, ciò che

giustifica l'uso della forza per la repressione delle agitazioni sociali (Puglia). Ma vi è

anche altro: una volta al governo Giolitti inaugura una prassi differenziata per quanto

riguarda i rapporti con il mondo operaio e la gestione dell’ordine pubblico. Egli farà,

infatti, una distinzione tra gli scioperi nell’industria ed anche dei contadini

organizzati del Nord e le agitazioni agrarie in Puglia ed in Sicilia, che davano luogo a

tumulti spesso sediziosi. Nei confronti dei primi, egli riconobbe il diritto di astenersi

dal lavoro per sostenere le legittime richieste di miglioramenti salariali e degli orari di

lavoro, salvo la salvaguardia di quello che egli considerava “diritto al lavoro” di

coloro che non intendevano associarsi a questa forma di lotta ed intendevano lavorare

(le Camere del Lavoro e le Leghe invece consideravano il lavoro durante gli scioperi

crumiraggio). G. , tuttavia, non intendeva consentire lo sciopero nei servizi pubblici e

lo sciopero generale perché aveva, secondo lui, carattere politico.

Da parte sua il Partito socialista riteneva invece prioritariamente di rafforzarsi là dove

il terreno di reclutamento è già stato dissodato, prima di procedere alla

politicizzazione di terreni vergini che rischiano di assorbire ogni energia del

movimento. Si pensava cioè che una volta cresciuto il movimento al nord questo

avrebbe assolto ad una funzione di traino anche nei confronti del sud, ma così non fu

ed anzi si generò una sorta di aristocrazia operaia socialista di natura prevalentemente

settentrionale, poco attenta ai problemi del Mezzogiorno. Se ne accorse Salvemini

che abbandona il partito in questi anni per iniziare un percorso molto critico nei

confronti sia di Giolitti che del PSI.

Momento topico abbiamo detto è il 1904, in occasione dello sciopero generale,

quando Giolitti ricorre a quello che diventerà uno strumento particolare per stabilire il

suo potere: lo scioglimento delle camere e le elezioni anticipate, laddove il governo

poteva ricorrere alla sua ragnatela di controllo dei collegi elettorali. In conseguenza

dell'inasprimento dello scontro sociale nel 1904, i cattolici sono in qualche caso

autorizzati da Pio X a rompere il non expedit per impedire vittorie socialiste, ciò che

significò un incremento della partecipazione elettorale ed una larga vittoria del fronte

elettorale. Questo primo apparire dei “cattolici deputati” - come vennero chiamati, e

non deputati cattolici – era il segno evidente di quanto essi fossero ormai pienamente

entrati nel sistema politico del paese.

Ma non ci sono soltanto neri e rossi, per così dire, nel senso che Giolitti si trova a

governare una intera società in crescita che impone al governo di allargare le basi del

consenso ai tanti ceti medi interessati allo sviluppo ed alle riforme. La

politicizzazione della classe media è uno dei fattori più evidenti di questi anni, al

declino inesorabile della piccola borghesia rurale corrisponde una dilatazione dei

settori legati all'industria in espansione e al pubblico impiego, che cresce a dismisura

anche in relazione alla crescita dello Stato, sempre più attivo nel processo economico.

Da un punto di vista politico questa nuova media borghesia trova i suoi punti di

riferimento ideali e politici nel liberalismo, nel cattolicesimo, nel radicalismo e

persino nel socialismo riformista. I ceti medi che ripongono la loro fiducia nel Partito

Radicale e nel socialismo riformista rappresentano le fasce più avanzate e

progressiste, interessate alla costruzione di una società moderna capace di offrire pari

opportunità a tutti i cittadini. Attenzione: non si tratta di una conversione al

marxismo, perché è il socialismo positivista, gradualista, evoluzionista a conquistare

questa borghesia del Nord, ma anche del Sud, soprattutto quella più urbana. Questo

spiega la crescita elettorale poderosa del PSI dal 1897 al 1900, una crescita che

tuttavia si arresta in occasione delle elezioni del 1904 e non casualmente, visto che

l'ascesa delle correnti estreme che mettono in minoranza Turati allontana questo ceti

piccolo e medio borghesi dal Partito socialista. La propaganda socialista

rivoluzionaria che rifiuta ogni mediazione con lo stato borghese capitalistico, una

propaganda che è anche antinazionale e antipatriottica non piace alla borghesia

progressista che invece crede nello sviluppo del sistema. C'è un tentativo in questi

anni di dare una risposta politica alla domanda proveniente da questi ceti, che si

concretizza con la nascita dei Blocchi popolari, i cartelli tra radicali, socialisti e

repubblicani che conseguono anche una buona affermazione elettorale nelle elezioni

amministrative di alcune grandi città. Costituisce cioè il tentativo di costruzione di un

partito democratico, che però fallisce, a dimostrazione di un indiscutibile ritardo del

paese e del sistema politico italiano ad avviarsi sui binari della democrazia. I motivi

di questo fallimento sono da ricercarsi intanto, lo abbiamo detto, nella messa in

minoranza delle correnti riformiste nel PSI, poi nella mancanza da parte di radicali e

repubblicani, che sono gli eredi della tradizione mazziniana e garibaldina, di un

centro decisionale e di una struttura organizzativa a livello nazionale (per i

repubblicani esisteva, ma aveva carattere “regionale”). Nel 1904 nasce il Partito

radicale, ma il problema non viene risolto: i radicali vengono inseriti nel sistema

giolittiano, ma ciò non rinvigorisce il partito, gli dà soltanto maggior consistenza

elettorale, ma non lo rafforza perchè i radicali vengono risucchiati dalla prassi

giolittiana, trasformistica o in ogni caso incapace di influenzaare il governo verso una

linea più rispondente alle esigenze del Paese, con il risultato di indebolirsi e

soprattutto di offuscare la propria immagine agli occhi dei potenziali elettori, e cioè i

ceti medi, tra i quali cominciano ad affiorare, già alla metà del primo decennio del

Novecento, inquietudini e sofferenze di un certo rilievo. La storiografia parla di un

“malessere borghese” che ha origine in questi anni e l'assenza di un partito

democratico capace di convogliarne la domanda politica in direzione delle istituzioni

lascerà alla deriva istanze, richieste, suggestioni che non nascono con un marchio

politico predeterminato.

L'espressione più netta del giolittismo si ha nel lungo ministero che va dal 1906 al

1909. Secondo i detrattori di Giolitti, si trattò di un riformismo senza riforme, è vero

però che ci furono dei miglioramenti legislativi, come la conversione del debito

pubblico nel 1906, che però non rimanevano legati ad un disegno riformatore di

grande respiro, il tutto tra l'altro collocato in un quadro sociale che non era per niente

tranquillizzante.

A livello di sistema politico, con il progressivo affermarsi della presenza socialista e

con la sempre più ampia partecipazione dei cattolici alla lotta elettorale si produce

una spinta per una convergenza al centro di tutti gli elementi liberali, quasi come se

fosse una scelta obbligata. Giolitti, abbiamo detto, non ostacola direttamente lo

sviluppo del movimento socialista, ma in qualche modo cerca di controllare gli esiti

di questo sviluppo, cointeressando le organizzazioni operaie alla gestione della cosa

pubblica. In questo senso, il suffragio universale, che viene concesso nel 1912 e

sperimentato per la prima volta alle elezioni politiche del 1913, apparve a Giolitti

come qualcosa di necessario, al fine di dare una soluzione adeguata alla questione

sociale e di integrare il movimento operaio nello stato. Giolitti pensava che con il

suffragio universale lo stato avrebbe trovato una maggiore stabilità, perché le masse

sarebbero state guadagnate ad una politica riformista che le avrebbe immunizzate

dalle contaminazioni anarcoidi e rivoluzionarie. Lo sguardo di Giolitti ai socialisti, i

suoi tentativi di coinvolgerli nelle compagini di governo rispondevano proprio a

questo “sentire”. Poi le cose andarono diversamente, tanto che Giolitti si trovò alleato

ai cattolici. I socialisti infatti votarono il programma di governo che prevedeva

l'allargamento del suffragio elettorale e la creazione del monopolio delle assicurazioni

sulla vita, ma non vollero partecipare al governo. Gi eventi della guerra di Libia

radicalizzarono poi le posizioni interne al partito socialista e contribuirono alla

conquista della maggioranza da parte dei massimalisti guidati da Serrati, Lazzari e

Mussolini nel 1912.

Può essere utile dare uno sguardo ai risultati elettorali di età giolittiana che danno

un'idea della mobilità del sistema: nel 1904 le elezioni si tengono in un clima di

accesa tensione politica: si ha un forte incremento di partecipazione elettorale

(62,7%) e una chiara vittoria liberale: 339 seggi tra conservatori e democratici

ministeriali, 3 cattolici (cattolici-deputati, senza alcuna copertura istituzionale), 37

radicali, 24 repubblicani, 29 socialisti. Alle elezioni del 1909 ci fu una conferma della

crescita delle ali estreme del sistema a danno del centro del sistema, che veniva

corroso: una forte partecipazione, che si assesta al 65%, a dimostrazione di un clima

di mobilitazione politico-sociale; i liberali passano da 407 a 372 seggi, con perdita sia

dei ministeriali, sia della opposizione costituzionale, i cattolici hanno 18 deputati che

fanno capo all'Unione elettorale cattolica, che è un coordinamento di natura elettorale

di area, i socialisti crescono da 26 a 41 seggi; i repubblicani da 19 a 23 seggi; i

radicali da 40 a 48 seggi, sia ministeriali che di opposizione. Alle elezioni del 1913,

che si svolgono a suffragio universale maschile, con un aumento del corpo elettorale

di quattro milioni e mezzo di unità, i liberali escono sconfitti passando da 370 a 307

deputati, di cui 21 facevano parte del vecchio centro sonniniano, 30 del partito

costituzionale democratico (sinistra liberale) e 6 erano nazionalisti, gravitanti

soprattutto attorno a Salandra; i repubblicani scesero da 23 a 17 deputati; i socialisti

crescono da 26 a 52 membri; i riformisti del PSRI da 15 a 20; poi entrarono 7

sindacalisti o socialisti indipendenti; i radicali passano da 51 a 73 deputati, i cattolici

da 19 a 29 deputati. Un quadro cambiato rispetto alle elezioni del 1904, nel senso di

una maggiore scomposizione delle forze, di un rafforzamento è vero delle ali estreme,

ma ancora di una sostanziale tenuta delle forze liberali. L'area governativa è ben salda

e sarà questa maggioranza liberale, radicale, socialista-riformista a gestire il conflitto

mondiale, dalla quale l'Italia uscì vittoriosa.

Certo questi risultati elettorali danno il senso di un profondo cambiamento dal punto

di vista politico, ma non bisogna dimenticare che Giolitti non dovette affrontare

soltanto le trasformazioni di una società politica che vede l'affermarsi dei partiti

popolari e del movimento operaio, ma anche di nuovi attori economici e sociali legati

ad uno sviluppo impetuoso, il primo, del sistema capitalistico italiano. Per realizzare

il suo programma di inserimento di un ventaglio di forze sociali più ampio di quello

tradizionale nel sistema politico Giolitti ricorre ad una continua mediazione, arte di

cui si mostra abilissimo, forse troppo abile perché ogni strumento di persuasione

viene considerato lecito, pur di giungere ad un compromesso. É indubbio che ci sia

una perdita di trasparenza e di visibilità nei processi di composizione dei conflitti in

Parlamento, si smarrisce il filo dell'identità politica della maggioranza che Giolitti

riesce a costruirsi, una maggioranza costruita smantellando progressivamente il fronte

dei conservatori liberali, che era ancora fortissimo al tempo della sua prima nomina a

capo del governo. Giolitti è capace di volgere a suo favore gli equilibri parlamentari

dotandosi di una maggioranza di fedelissimi che gli permise di governare per più di

un decennio il paese, un record di stabilità politica nella storia italiana. Una politica

di compromesso permanente sia a destra che a sinistra con effetti che sono

sicuramente positivi per il paese, che vive una fase di vistoso sviluppo senza grandi

traumi, meno positivi per il sistema politico che non si incammina sui binari di una

moderna democrazia, ma alla fine rimane ingabbiato. Giolitti insomma cercò di

assimilare quanto di nuovo proveniva dalla società in trasformazione senza

squilibrare tuttavia il sistema: rossi e neri, nuovi e vecchi interessi economici in

qualche modo divisero l'azione di Giolitti, che cercò di operare ispirandosi al buon

senso, pensando appunto che l'azione di un governo dovesse essere come quella di un

sarto che ha da vestire un gobbo e che “se non tiene conto della gobba non riesce”.

Non possiamo concludere il discorso su Giolitti senza far riferimento al giudizio

ambivalente che ha generato la sua opera di governo. Se si può parlare di giolittismo,

sappiamo anche che ci fu una intensa corrente di antigiolittismo “coeva”, delle più

svariate connotazioni politiche, ma essenzialmente di natura liberale e democratica.

Ora, ad opporsi a Giolitti era la destra liberale, di cui Sonnino fu espressione a livello

parlamentare, e di cui Luigi Albertini, il grande direttore del CdS fu espressione a

livello di opinione pubblica. Antigiolittiano di ferro fu il già citato Gaetano

Salvemini, che aveva coniato l'epiteto di “ministro della malavita” e antigiolittiana fu

tutta la scuola liberista che faceva capo a Antonio De Viti De Marco, alla quale

guardava con interesse anche Luigi Einaudi, che fu anche lui un antigiolittiano

convinto, che scriveva appunto sul Corriere della Sera e sulla Riforma sociale, che

Einaudi dirige dal 1908. La polemica di Einaudi è interessante perchè ci dà qualche

elemento di comprensione in più della storia dell'Italia liberale. Einaudi attacca la

politica protezionista di Giolitti, ma non tutta la strategia di protezione doganale che

l'Italia aveva adottato sin dal 1878. Quando la classe di governo della sinistra storica

si era incamminata sulla via del protezionismo, determinando una inversione di rotta

rispetto alla politica liberista che aveva la sua matrice in Cavour, lo aveva fatto per

proteggere il giovane tessuto industriale italiano, per metterlo al riparo dalla

concorrenza dei sistemi inglesi e francesi, molto più forti di quello italiano. Einaudi

rimane sempre un convinto liberista, ma in quel caso la scelta poteva essere

giustificata, anche se doveva essere temporanea. In età giolittiana ogni protezionismo

appariva ormai ingiustificato e si spiegava soltanto attraverso il ricorso a logiche

clientelari, a favoritismi politici, a concessioni a fini legittimanti, che tra l'altro

trovava del tutto passivo se non accondiscendente il Partito socialista, semplicemente

preoccupato esclusivamente dal crescere del movimento operaio al riparo della

grande industria protetta. Non bisogna dimenticare che in Einaudi anti-giolittismo e

anti-socialismo sono le due facce di una stessa concezione autenticamente liberale,

che metteva al centro del discorso i diritti dell'individuo, della persona umana e le sue

possibilità di elevazione economica e morale, e l'iniziativa privata e il mercato.

Un altro fenomeno che trovava in Einaudi un accanito censore è quello della crescita

esponenziale della burocrazia, fenomeno tipico dell'Italia giolittiana, tanto che al

1911 l'impiego pubblico riguardava ormai quasi due milioni di persone, cioè il 5/6%

della popolazione, che viveva di quelle che lui chiamava “paghe di stato”. Ora, questa

crescita a dismisura dello Stato per Einaudi, che derivava appunto dalla tendenza

inarrestabile a statizzare ogni settore, comportava il rischio di scivolamento

inconsapevole verso un regime di organizzazione sociale collettivistico, coercitivo di

ogni libertà e iniziativa individuale.

Questi ed altri aspetti della politica di Giolitti vengono aspramente criticati da

Einaudi e tale rimarrà sempre il suo giudizio: nelle prefazioni ai volumi II e III delle

Cronache economiche e politiche di un trentennio, scritte tra il 1959 ed il 1960, cioè

poco prima della sua scomparsa, Einaudi ribadiva che in materia economica e sociale

l'azione del governo non era stata feconda e ricordava i principali “passaggi” di una

politica incerta, a volte rinunciataria, tendente a rinviare le questioni, ciò che se a

volte evitava «soluzioni affrettate e dannose», in altri casi provocava danni peggiori.

C'è però nell'ultima fase della biografia intellettuale di Einaudi una maggiore

disponibilità a valutare l'opera di Giolitti nel quadro di una situazione generale.

D'altronde, spiegava Einaudi, così come un governo non è mai il solo artefice di ciò

che succede nel bene, non lo è nemmeno per gli errori e le deficienze. Quello che va

messo in evidenza in queste “ultime” pagine dell'economista piemontese è soprattutto

il tentativo di comprensione dell' “uomo”. Una essenza positiva del giolittismo veniva

ora restituita attraverso l'esposizione di quelle che erano le principali doti dell'uomo

di governo: esatta conoscenza e opportuna scelta degli uomini, saperli “dominare”

con fermezza e cortesia, conoscenza precisa della pubblica amministrazione,

regolarità nel lavoro, assiduità e perizia nei lavori parlamentari, chiarezza e brevità

nei discorsi, saper ridurre al nocciolo le questioni più complicate, vita morigerata. Ciò

che oggettivamente non sembra essere poco. Einaudi poi filtrava il suo giudizio

attraverso quello che era avvenuto dopo: ricordava infatti che negli anni di Giolitti

una opposizione si faceva sentire alle camere, i giornali potevano liberamente

criticare l'operato del governo. Certo, ricordava anche come ogni volta che sembrava

che l'opposizione dovesse spuntarla, la maggioranza «silenziosamente votava»,

nonostante l'efficacia delle argomentazioni contrarie. Una maggioranza giolittiana per

la quale Einaudi ricorreva alla efficace immagine di una «palude», caratterizzata da

«sudditanza volontaria», ossequio «per favori chiesti», riconoscimento «della

capacità del capo di saper governare gli uomini», soddisfazione delle parti avverse.

Una situazione che tra il 1910 e il 1914 sembrava al riparo da ogni pericolo. Nessuno

cioè avrebbe immaginato che sarebbe arrivato un tempo in cui quella palude avrebbe

«tutto sommerso e si sarebbero visti, nell'aula di Palazzo Madama, senatori piegare il

ginocchio quando passavano davanti al seggio del duce impassibile». Così come

nessuno avrebbe immaginato che dopo il fascismo, di paludi ce ne sarebbero state tre

o quattro, con deputati e senatori che «avrebbero disciplinatamente votato […] al

cenno venuto da un segretario di partito, estraneo come tale al parlamento», scriveva