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GIULIANO PUGOLOTTI CORRERE NEL NULLA - giunti.it · diventare vita, passione e storia. Eppure è così che ho cominciato: con un’illusione, o forse meglio, con un miraggio

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GIULIANO PUGOLOTTI

CORRERE NEL NULLA

Le sfide, le emozioni, le paure e le lezioni di vita che ho imparato dal deserto, proprio là dove la vita

sembra non esserci.

www.giunti.it

© 2018 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Prima edizione: aprile 2018

A Tiziana e Giulia

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Deserti

Cos’è per me un deserto? Una cartolina dietro il bancone di un bar con l’immagine delle

dune e i dromedari sullo sfondo? Una tenda berbera sulla sabbia infuocata all’ora del tè?

Quel luogo che a ognuno di noi fa subito pensare a un posto isolato e infinito è per me molto di più che un’oasi con la palmetta, una meta da vacanza esotica, una fantasia da screensaver: è una parte della mia vita. A quei luoghi che ho attraversato è legata per sempre una parte della mia storia. È là che ho lasciato seppellita una parte di me. È là che ho combattuto battaglie pazzesche non so se contro il deserto o contro me stesso. Correre nel perfetto nulla sul confine di tutto mi ha insegnato molto sulla vita, e non mi riferisco a quella da atleta, ma soprattutto a quella di un uomo. È là che la mia anima di esploratore, quella che mi faceva sognare da bambino di andare chissà dove in Africa, in Asia o al Polo Nord è venuta fuori in tutta la sua naturalezza.

Dopotutto è facile sognare di partire o sognare di trovarsi in un luogo lontano da tutto e da tutti. Ben più difficile è realizzare quel progetto che hai dentro. Solo a poco a poco il sogno può diventare vita, passione e storia. Eppure è così che ho cominciato: con un’illusione, o forse meglio, con un miraggio. Quella lunga strada che attraversa chilometri e continenti l’ho vissuta prima nella mia mente, da casa.

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Correre nel nulla

Per essere un uomo del deserto devi prima di tutto rompere le regole del pensare comune. Per chi, come i tuareg nel Sahara, è abituato sin da piccolo a vivere nel nulla, senza limitazioni né punti di riferimento, è certamente un gesto naturale. Per me, af-frontare il Sahara è stato molto più complicato. Nove milioni di chilometri quadrati con al centro niente. E a farmi compagnia solo quel miraggio.

Ricordo che molti anni fa una mia carissima zia con semplicità assoluta mi disse: «Ma cosa vai a fare là dove ci sono solo mucchi di sabbia e niente da vedere?». La banalità di quella domanda mi colse impreparato. Non ero pronto a tanta superficialità dopo che avevo costruito nella mia mente un bellissimo castello di sabbia fatto di mille torrette e spigolature.

Come fai a rispondere a una domanda così? È come dire a chi va per mare che è tutta acqua. O a chi scala montagne che è tutta roccia verticale con niente di niente sulla vetta. È talmente facile essere banali che a volte non ci sono le parole per rispondere. Io penso che nel mare, nella roccia e nel deserto ci sia la stessa essenza di cui sono fatti il giorno e la notte. Il sole e la luna. Il vento e la bonaccia. È la vita di cui siamo fatti che trovi in quei luoghi che per natura sono ostili all’uomo.

Alla fine l’effetto che hanno avuto tutte quelle corse intermina-bili nei deserti è stato di allontanarmi più dai luoghi comuni che dal luogo in cui vivo. Ed è lì che ho imparato a cancellare dalla mia mente le cartoline con i saluti dal Sahara.

Ricordo che durante giorni di allenamento intensi, nelle ore in cui il sole è più alto, in un piccolo deserto di Fuerteventura nelle Canarie, conobbi dei turisti che scalavano con immensa fatica una piccolissima duna per una foto ricordo. Le pose sempre le stesse. La foto con il gesto della sete e dell’arsura, la mossa dello stare con-

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Deserti

trovento. Eppure nessuno aveva bisogno di bere perché il piccolo deserto si trovava praticamente a lato del mare e, di vento, a quell’ora, ce n’era ben poco. Luoghi comuni, banalità da inviare sui social a mezzo mondo in attesa di un commento, un like, un cuoricino. Ecco, questo è per me il nulla vero. Non è il vento che ti spazza via in una notte di tempesta e ti fa chiedere “Ma dove ti sei cacciato, caro mio?”, non sono la temperatura rovente del Dasht-i Lut o la carenza d’ossigeno che si patisce sul Tetto del mondo, a far vacillare il mio pensiero, ma le banalità che tutto depredano e appiattiscono.

Nel visionario che cerca di camminare su un filo sospeso a un’altezza vertiginosa non c’è un esibizionista in cerca di popola-rità, ma un uomo che sonda i propri limiti superando la paura di cadere. E così credo che sia per me correre nei deserti. Chi pensa che là ci sia solo un uomo che corre per giorni senza pensare al rischio di perdersi non ha colto l’essenza.

Nei deserti ho trovato tanto di me. Forse tutto. La sensazione che ho provato non è mai stata quello dello smarrito e del perso. È proprio esplorando me stesso che sono riuscito a trovare risorse che mai e poi mai avrei pensato di avere. Questa penso sia l’essenza dell’uomo che va incessantemente alla scoperta, facendo del cercare di conoscersi il motore delle proprie giornate.

Ed è qui che rispondo finalmente alla mia carissima zia. Quei mucchi di sabbia per me sono capolavori della natura modellati dal vento. Si chiamano dune. Quell’uomo che solca un deserto non è altro che un esploratore di se stesso. Ho imparato che den-tro ognuno di noi c’è davvero tanto di inespresso dietro al muro dell’ovvio e del banale. Il “fanno tutti così” è un confine molto più chiuso della dogana del Turkmenistan. Se non avessi corso tutti questi rischi, non avrei mai capito che sono portato per sopportare il caldo dell’inferno. Che sono portato naturalmente per correre le

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Correre nel nulla

lunghe distanze. Che posso orientarmi senza un GPS in un deserto aperto come il Sahara. Che si può benissimo parlare e comunicare nei posti più remoti del mondo senza sapere la lingua di chi li abita.

Ho preso in mano la mia vita e ogni volta che sono tornato su quelle dune è stato bellissimo scoprire cose nuove di me e capire punto per punto una logica che mi era sconosciuta. Anche al prez-zo di insuccessi e batoste. Si va avanti pur sempre per tentativi e quando si cerca l’impresa si può cadere. L’uomo sin da bambino prova e riprova a fare cose imparando dagli errori. Ogni volta che ho sbagliato strada sono ritornato con umiltà sui miei passi ripartendo di nuovo. Non ho mollato. Non mi sono fermato. A differenza della mentalità comune ho imparato che le sconfitte non sono altro che suggerimenti, un incitamento a rifare e a ripartire con maggiore sicurezza.

Un giorno ho letto un discorso che aveva fatto nel 2009 Obama, allora presidente degli Stati Uniti d’America, agli studenti a inizio anno scolastico. Sottilineava che è dalle sconfitte che si impara davvero, provando ad affrontare le insidie, le preoccupazioni che la vita ti mette davanti. Senza sottrarsi alla fatica quando la strada è troppo lunga o impervia. Senza deviare su tragitti apparentemente convenienti e più facili.

Michael Jordan, il più grande cestista della storia, è stato escluso dalla prima squadra di basket del suo liceo. Ha subito la delusione dell’esser messo da parte. Ha dovuto rivedere ogni sua certezza. Ha conosciuto le sconfitte e da lì è ripartito. Ha messo fiducia, cuore, passione e tutto l’ottimismo che può avere un uomo quando va incontro alla propria sorte.

Ecco, spesso così mi sono sentito io nei deserti. Spogliato di ogni cosa di fronte al destino. Stanco, piagato, prosciugato. Ma me stesso. E vivo, infinitamente vivo.

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Corri

Perché corro?Non è un elenco e neppure un bilancio. Alla corsa sono eter-

namente grato e riconoscente. Lo sarò per sempre. Nella mia per-sonale partita del dare e dell’avere sono in debito. In grande debi-to. Devo alla corsa moltissimo. Senza di lei sarei indubbiamente un’altra persona. Non so se migliore o peggiore, ma certamente un altro. Mi ha insegnato tanto e mi ha dato fiducia. Mi ha insegnato, la corsa, l’importanza e la bellezza del sudore e della fatica.

Quando in qualche giornata per mancanza di voglia sono tornato dall’allenamento con la canottiera asciutta non mi sono piaciuto. Anzi, ho ingannato me stesso, e nella corsa non puoi raggirarti. Se non sudi e non fatichi, non corri per nessun tra-guardo e neppure per te stesso. La fatica è compagna fedele e non la puoi tradire.

Con la corsa di lunga distanza ho imparato ancor più l’im-portanza della solitudine. Quando corri per ore nel silenzio di te stesso trovi equilibrio, pace e a volte persino saggezza. Vedi tutto da un punto di vista diverso.

Spesso corro nella mia ora di pausa a metà giornata. Nella vita faccio il pubblicitario, un lavoro che richiede costantemente il confronto con gli altri, e che certamente genera molti conflitti e tensioni. Eppure, dopo una bella corsa ritorno sempre più sereno, rilassato e obiettivo.

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Correre nel nulla

Pensare, correre e scaricare la tensione è una sensazione bellis-sima. Il vivere continuamente in contatto con altre persone non è mai semplice. E la corsa richiede certamente un sacrificio minore del sopportare il quotidiano. Senza saperlo mi ha costretto a fare rinunce che in realtà sono diventate negli anni privilegi. Ho ri-nunciato a mangiare schifezze di ogni genere. Non mi sono mai ubriacato e non ho mai fumato neppure una sigaretta nella mia vita. Non ho mai toccato un alcolico di nessun genere. Figurarsi poi le droghe. Quella è roba che ti uccide per sempre. Solo con i dolci e la torta al cioccolato ho avuto un rapporto difficile, e ho dovuto imparare a limitarne le dosi. Poi, con il tempo, anche quello non mi è più pesato.

La corsa per tanti anni mi ha insegnato l’importanza del cibo. Non si mangia per sfizio, o ancora peggio perché non sai cosa fare. Questa è una regola che ho imparato per bene, perché ogni volta che sbuffi e soffri su una salita interminabile ti ricordi di cos’è il cibo.

La corsa mi ha insegnato a credere, ad avere fiducia in me. Fatichi, vai avanti in silenzio. Continui a fare, dare e impegnarti – sempre in silenzio, perché niente ti è dovuto senza fatica.

Questa è la fiducia. Andare avanti senza certezze. Questo è credere. Questo è vivere.

La corsa mi ha insegnato a non sottovalutare nessuno, anche quando non combatti per la vittoria. Non appena pensi che un avversario non valga nulla, quello ti ha già superato. Ho imparato a puntare tutto su di me perché l’avversario, che sia un uomo o un deserto, non puoi cambiarlo. Non puoi gestirlo. Puoi lavorare solo su di te, e finché la convinzione ti sostiene non sarai mai veramente sconfitto.

La corsa mi ha anche fatto portare alla luce la cattedrale di

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Corri

stupidaggini che avevo costruito nella mia mente. Negli anni, com-plice la storia clinica di parenti e qualche apprensione di troppo, mi ero convinto di avere tanti motivi per non affrontare sforzi fisici eccessivi: pressione alta come fattore congenito, predisposizione ereditaria alla sciatalgia e al mal di schiena, agli infortuni ai tendini e tanto altro. Tutte balle. In più di vent’anni di corsa non ho mai avuto uno solo di questi problemi.

La corsa mi ha assorbito tempo e negli anni ho smesso di fre-quentare bar o circoli. Dall’esterno questa può apparire una vita sociale povera, ma non è così. Ho conosciuto centinaia di persone in giro per il mondo che non avrei mai incontrato stando al bar del paese. Senza la corsa non sarei mai andato su e giù per questo pianeta. Non avrei visto l’aurora boreale, la tempesta nel Sahara, le aquile del Pamir. Mille altri sogni sarebbero rimasti lì, sospesi tra la notte e il giorno. Ho perfezionato le lingue, ho conosciuto popoli, ho viaggiato. L’avrei fatto senza la corsa?

La lista delle cose che mi ha tolto è talmente misera e strimin-zita che faccio fatica a compilarla. Qualche domenica di troppo dedicata a correre che ha fatto alterare mia moglie e mia figlia. E spesso mi ha angosciato il pensiero di lasciare nella paura la mia famiglia durante le mie avventure. Poco altro.

Devo tanto alla corsa e ogni volta che posso cerco di comunicare il mio amore per essa.

Non è facile trasmettere tutto questo: far diventare bellezza la fatica, rinuncia il piacere. È una cosa che richiede fede. Non si misura, non sai definirla la fede. Non la puoi scrivere e neppure disegnare. Eppure muove milioni di persone. Non è un fatto di traguardi, di risultati, di soldi, di ambizioni. È la corsa, la corsa e null’altro, quella che nella mia mente scrivo con la C maiuscola.

Andrei nelle scuole, nelle piazze, nei cinema, negli stadi, andrei

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Correre nel nulla

nei supermercati e, invece di promuovere una merendina qua-lunque, metterei un bel banco e un’insegna semplice con scritto: “Corri se ti vuoi bene”. In basso, come sottotitolo: “Non chiederti troppo. Non chiederti nulla. Corri”.

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Estremo

Che cos’è l’estremo?Ho conosciuto luoghi dove l’uomo ha dimostrato tutta la for-

za di adattamento di cui è dotato. Alle isole Svalbard, l’ultimo posto abitato più a nord del pianeta, nel Mar Glaciale Artico, è notte per più di sei mesi all’anno. L’uomo può vivere al buio con temperature di 40 gradi sottozero. Si è adattato fino a quel limite. In Africa i tuareg, i beduini e i berberi si spostano e vivono con pochissima acqua a temperature che superano di parecchio i 50 gradi. Si sono adattati anche a quel limite. In Iran, dove si trova il luogo più caldo della Terra, la distesa desertica del Dasht-i Lut, e la NASA ha calcolato 70,7 gradi di temperatura massima, non vive nessuno. Nessun uomo, nessun animale. Solo ai bordi di quell’im-menso nulla si possono incontrare le prime forme di vita. L’uomo ha fissato lì il suo limite.

Ho conosciuto in Pamir popoli che vivono a quasi 4.000 metri, dove l’ossigeno scarseggia e il freddo raggiunge meno 58 gradi nel lungo inverno.

Ecco, questi luoghi per me sono l’estremo. È la capacità massi-ma dell’essere umano di adattarsi a un ambiente ostile. Di questa attitudine unica e incredibile, che permette di sopravvivere alle condizioni limite della vita, la natura ha fatto dono a tutti.

Ci sono macchine da corsa che sono progettate e attrezzate appositamente per affrontare il caldo della Dakar o resistere agli

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Correre nel nulla

urti e alle condizioni di un rally sul ghiaccio. L’uomo invece è l’unico prototipo in grado di adattarsi a climi e condizioni così diversi senza attrezzatura né accessori.

Come si spiega altrimenti che anche un uomo della tranquilla Pianura Padana come me abbia potuto correre in questi posti impensabili?

Ho corso nei luoghi limite senza farmi troppe domande. Al-cune volte il mio fisico ha lanciato segnali di grande sofferenza, in altri casi sono arrivato vicino al punto oltre il quale non puoi andare e neppure ritornare. Senza dubbio sono rimasto affascinato dai posti che ho attraversato, ma l’esplorazione delle mie risorse fisiche e mentali mi ha svelato uno spettacolo della natura al pari di un tramonto nel Sahara.

Ognuno di noi è talmente inesplorato che risulta come un piccolo pianeta a sé stante. Persi nelle nostre piccole questioni quotidiane, nella routine e nella monotonia, finiamo per smarrire tutte le nostre capacità e la nostra grandezza. Oggi noi abbiamo tutto, e quello che eventualmente manca lo avremo di sicuro tra poco. Eppure si può riuscire a vivere in una tenda quasi senz’acqua, con una manciata di cibo.

Ci ricordiamo della natura e della sua forza solo quando c’è un evento straordinario; un terremoto, un’alluvione, un tifone, un’ondata di caldo o di freddo eccezionale. Abbiamo modificato tutto quello che si poteva modificare con l’illusione di governare il pianeta a nostro piacimento e neppure ce ne accorgiamo. Eppure esistono luoghi dove è l’uomo che si è completamente adattato alla natura e non viceversa.

Nella vita di tutti i giorni non siamo che abitanti distratti di noi stessi. Ecco perché scoprire il proprio corpo o andare nei luoghi limite diventa un’esperienza unica. Per far questo la

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Estremo

corsa, gesto naturale e primordiale, è stata per me lo strumento più adatto.

Non c’è mai stato in me il desiderio di correre lunghissime distanze e centinaia di chilometri a vuoto solo per dimostrare agli altri quello che posso fare. Mai. E neanche mi ha affascinato l’idea di correre solo per far dire “Wow” a chi ti osserva. Più chilometri più “Wow”. C’è tutt’altro dietro. Mi ha sempre affascinato la ri-cerca del limite. Fosse quello di una prestazione sportiva o quello di un luogo inaccessibile. Il desiderio di capire fin dove avrei po-tuto correre, nel posto più caldo della Terra, in quello più alto e in quello più ostile, mi ha portato dove non avrei mai pensato di poter arrivare, mi ha mostrato davvero di cosa l’uomo può essere capace, al di là delle latitudini e delle temperature. È questo il senso vero di tutto il mio andare.

L’estremo è un termine che può essere interpretato in tanti modi. Questo è il mio.

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Ora

Qual è l’età giusta per iniziare un nuovo sport?Iniziare una nuova avventura a 45 anni conviene? 42 chilometri e 125 metri, questa la durata di una maratona.

Ne avevo fatte di gare del genere in passato – avevo iniziato an-che in questo caso tardi, a 32 anni – al prezzo di grandi sforzi e allenamenti. Ma correre anche solo per più di 50 chilometri mi sembrava una cosa da pazzi.

Senza voler trovare per forza una risposta ho deciso di intra-prendere una seconda vita sportiva. Ripartendo daccapo.

Era un pomeriggio del 2005, quando guardando la TV mi sono fermato su un canale, RTL Television. Rimasi rapito, a bocca aperta: in diretta c’era la Libyan Challenge, una gara di ultrarunning nel deserto. E sullo schermo c’erano quei tipi di corsa sulla sabbia, sotto il sole cocente. Ho visto quei pazzi, e con il coraggio dell’inco-scienza mi sono detto: “Perché allora non posso provarci anch’io?”.

Tempo quindici giorni ed ero partito. Ero in Tunisia, alla “100 km del Sahara”.

Contro ogni aspettativa sono diventato ultrarunner di punto in bianco senza avere mai fatto più di una maratona, senza pro-grammi, diete o allenamenti speciali. Mai, neanche una prova.

Ho iniziato a correre nei deserti così, a un’età in cui altri smet-tono di farlo.

Il deserto, poi, io non l’avevo mai visto prima di allora. Anzi,

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Ora

ero convinto di non sopportare granché il caldo. Eppure questa è la dimostrazione che tutti i luoghi comuni sono spesso solo teoria e più in generale aria fritta.

Ho imparato così a 45 anni che se vuoi fare qualcosa che fa bene a te, è bene farla, senza star dietro a cosa dicono gli altri. Senza se e senza ma. Ricordo il dissenso di chi mi dava consigli tra i miei vecchi compagni di corsa. Troppo tardi, non c’è tempo per adattarsi, non c’è questo, non c’è quello. Tutte cose inutili. Quando devo dare un consiglio a chiunque si avvicini al mondo dell’ultrarunning, dico di provare sempre a fare ciò che si sente, ascoltando i segnali del proprio fisico e della propria mente. Nes-suno conosce meglio di se stesso il proprio corpo, i propri desideri e i propri limiti.

Quando una persona vuole provare ma non ha il coraggio, trova mille scuse. Non sono in forma, lo farò più avanti, adesso non è il momento. Ci penso ancora un po’. Nel frattempo tutto passa.

Ricordo che sul breve volo Roma-Djerba che mi avrebbe por-tato in Tunisia conobbi una persona di 42 anni che non aveva l’aspetto del corridore, considerando il sovrappeso e la scarsa pre-senza sportiva. Veniva da Torino e immancabilmente mi spiegò che lavorava per un’azienda che produceva accessori per auto.

Perché era su quel volo tra tanti podisti smaniosi di perfor-mance e di battere un avversario nel deserto? Il fratello di Mario, questo era il suo nome, aveva avuto molti problemi di cuore negli anni. Un paio di interventi, continui monitoraggi. Al cospetto delle traversie del fratello, Mario aveva finito per sentirsi a quel tempo incredibilmente fortunato. Mi disse che doveva approfittare della propria condizione di salute per fare qualcosa di importante. Aveva iniziato con la corsa per perdere un po’ di peso senza troppi risultati e poi via, subito una sfida nel deserto.

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Correre nel nulla

Mario in realtà partecipava alla 100 km del Sahara come cam-minatore e non come corridore. Ma poco cambia. Quel salto nel vuoto mi parve davvero enorme, così come la sua voglia di mettersi in gioco. Non era un atleta, nemmeno un amatore, non aveva fatto chissà quale preparazione e si era avvicinato a quel mondo così, senza farsi problemi. È partito, lui che aveva la salute per fare.

Quella sua filosofia mi colpì, perché in realtà per molti aspetti corrispondeva alla mia. Certo, io avevo una storia podistica alle spalle, ma quel suo provare senza porsi ostacoli mentali corrispon-deva al mio modo di ragionare. Mario è poi riuscito con tantissime difficoltà e certamente molto dolore fisico a completare la 100 km del Sahara dei camminatori. L’ha dedicata al fratello e ricordo che sul traguardo dell’oasi di Ksar Ghilane si è commosso come un bambino. È riuscito a coronare il suo sogno, e ogni sogno raggiunto è un grande traguardo. Ci siamo abbracciati mentre le lacrime scendevano sui nostri volti segnati dalla fatica e dalla sabbia.

Bravo Mario, senza saperlo sei stato un grande esempio, perché la semplicità è una dote rara che se vera può insegnare molto e dare fiducia. Come nel mio caso. Durante quella mia prima corsa pensai tante volte a Mario, soprattutto nei momenti di grande difficoltà. È stato così che ho dimenticato tutti gli ostacoli: gli anni sulle spalle, i luoghi comuni, il fatto di essere uno che af-frontava per la prima volta il deserto. Mi ero imbarcato in quella impresa che a tutti sembrava senza speranza, ma Mario con il suo spirito mi aveva confermato che si poteva inseguire un sogno con umiltà e che, se anche avessi fallito, avrei comunque imparato tantissime cose.

Ecco perché penso che l’età non sia un ostacolo per chi ha uno spirito libero. Mi sembrava di essere un ingenuo quando mi sono avvicinato al mondo dell’ultrarunning con quello che avevo.

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Ora

Nessuna esperienza e nessun allenamento particolare alle spalle. “Che male c’è?” mi sono detto. “Mi piace, lo faccio.”

Ho imparato poi negli anni che questo mio approccio è pro-babilmente una delle mie migliori peculiarità. Il provarci sempre, a prescindere, è un po’ il mio marchio di fabbrica.

Lasciare ancor prima di aver tentato è qualcosa che mi ha sem-pre dato un grande senso di vuoto e di rassegnazione. È l’esame a cui pensi di non essere mai preparato quello più difficile e ostico da superare. Ho conosciuto, negli anni, atleti che si sono allenati mesi e mesi per eventi a cui non hanno poi partecipato. Dicevano di non essere pronti, che non era il momento giusto, non era il percorso giusto, non era l’età migliore. In quel non era c’è tutto il mondo delle occasioni perse.

Solo luoghi comuni, solo pensieri inutili senza darsi da fare. L’occasione è ora.

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Tortelli emiliani

Cos’è che mi motiva nei momenti più difficili?La differenza principale tra correre una gara su strada o una ma-

ratona rispetto a correre nel deserto risiede prima di tutto nell’ap-proccio mentale e nel modo di intendere la distanza. È quando si superano i duecento chilometri che si esplorano confini sconosciuti delle proprie capacità. Resistere alla fatica è un’attitudine che un po’ si impara e un po’ semplicemente si ha per abitudine, predi-sposizione genetica e chissà cos’altro. Per sapere se si possiede questa dote non ci sono né test né prove virtuali. Bisogna venire qui, nel deserto, e capire.

Che fossi portato per le lunghe distanze l’ho saputo in Tu-nisia la prima volta che ho affrontato il deserto nella storica 100 chilometri del Sahara. Gara facile vista con l’esperienza di oggi. Impegnativa e faticosissima allora. Mi accorsi in quell’occasione che più correvo e più il mio fisico rispondeva in modo corretto allo sforzo. Più faticavo e più la mia mente recuperava energie pulite utili a motivarmi per spingermi verso il traguardo.

Al di là di ogni predisposizione, però, arriverà sempre un mo-mento in cui ti sembrerà di non farcela, e vorrai gettare la spugna. Il deserto ti fiacca nell’anima, ti sfibra, ti distrugge; e allora, da solo con te stesso e col tuo sforzo, una volta finite le energie, è solo ciò che hai dentro a motivarti e a farti andare avanti. Per quanto mi riguarda, ho sempre trovato poco utili gli sproni verbali, le esortazioni da mental coach e i consigli motivazionali.

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Tortelli emiliani

Ricordo che al mattino della prima gara che ho affrontato nel deserto, la 100 km del Sahara, prima del via di ogni tappa, l’orga-nizzatore cercava di essere sempre più incoraggiante nei confronti della “truppa” mano a mano che ci avvicinavamo al traguardo e le forze scarseggiavano. Un po’ come un generale con i suoi soldati, usava voce, tono e parole per riuscire a motivare il più possibile i concorrenti allo sforzo della giornata. Un training di gruppo a cui la maggior parte dei concorrenti aderiva senza chiedersi il perché. Non so per quale motivo concreto, ma ricordo che non trovavo utili queste dimostrazioni di unione e di forza collettive e cercavo sempre di isolarmi qualche minuto e trovare concentrazione e soprattutto serenità per affrontare l’impegno giornaliero. Ognuno di noi reagisce in modo diverso nel momento di preparare l’attacco all’obiettivo.

Quando sono molto stanco cerco spesso di richiamare alla men-te quanto amo quello che faccio. Ripenso a quando mia moglie, scorrendo alcune foto delle maratone a cui avevo partecipato anni fa, un giorno mi disse: «… ma che espressione sofferente che hai in questa foto!». E io un po’ sorpreso: «Per forza, ero alla fine della gara e stavo faticando tantissimo…». La risposta di mia moglie fu semplicissima: «Nessuno ti obbliga a fare fatica. Quando sei là, stai facendo quello che più ti piace. Quindi, sorridi». Sono parole semplici queste, che non hanno in apparenza niente di speciale, eppure le ho ricordate sempre in questi anni, specie nei momenti più difficili durante una traversata. «Stai facendo ciò che più ti piace. Sorridi.» È così che affronto ogni volta le avversità e gli ostacoli. Sorridendo, almeno dentro di me. Anche se sono mezzo morto dalla fatica conservo questo modo di pensare.

È una considerazione a metà tra filosofia spicciola ed esperienza di vita. Niente di che forse, ma su di me ha sempre funzionato.

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Correre nel nulla

Un’altra cosa che mi ha aiutato tantissimo facendomi ritrovare energie impensate è un concetto che ho imparato da un podista che non aveva pretese di prestazioni e vittorie, ma aveva la corsa come unico piacere personale.

La lunga carriera di podista in apparenza non doveva aver riser-vato a Carlo, questo è il suo nome, niente di particolare. Mille gare di paese, risultati scarsissimi nonostante gli estenuanti allenamenti quotidiani. Semplicemente la natura non l’aveva dotato di nessuna capacità podistica particolare. Correva, e questo gli bastava. Una volta lo incontrai al termine di uno dei tanti allenamenti, mentre mi stavo cambiando vicino alla mia macchina, e ci mettemmo a fare due chiacchiere prima di tornare a casa. Carlo mi disse: «Per me non è importante la fatica che faccio durante una corsa. Il mio pensiero fisso è la soddisfazione che proverò tagliando un traguar-do…». Me lo sono ripetuto cento, mille e più volte nei momenti di maggiore fatica quando ti si annebbia la vista e i pensieri non si infilano uno dietro l’altro con la stessa facilità di tutti i giorni. «Non è importante la fatica che fai, ma la gioia che proverai ta-gliando il traguardo…»

È un bel modo di pensare quello di Carlo, e senza saperlo quel podista che pure non faceva tempi o prestazioni da guin-ness mi ha dato un aiuto pazzesco e unico nei momenti più neri. Altro che il sermone dell’organizzatore prima del via, altro che la pacca sulla spalla di un altro concorrente per esorcizzare l ’angoscia di non arrivare in fondo. Quelle parole sono state per me, con quelle di mia moglie, una colonna sonora di tutta la mia storia di corsa.

C’è un altro episodio, a dire il vero, da cui ho imparato molto su come approcciare le mie sfide e lo scoraggiamento indotto dalla fatica.

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Tortelli emiliani

Durante una delle mie ultime maratone su strada vidi alla par-tenza un concorrente disabile che aveva in programma di com-pletare tutti i 42 chilometri e 195 metri utilizzando le stampelle. Aveva una gamba abbastanza efficiente, la sinistra, e l’altra bloccata nella caviglia da un tutore di acciaio. Non scorderò mai il rumore di quel tutore che sbatteva contro la stampella. Steng, steng, steng. A ogni movimento l’urto era inevitabile tra caviglia e stampella. Steng, steng, steng. Quel rumore cadenzato e ritmico dell’urto mi è rimasto impresso per sempre come una lezione speciale. Mi ha insegnato l’orgoglio e la determinazione di chi, pur menomato, prova a non rassegnarsi di fronte all’avversità. Steng, steng, steng.

Quello sfregare tra tutore e stampella e quel rumore mi hanno aiutato tantissimo nei momenti difficili. Quando ho toccato il fondo ho ripensato ogni volta a quella scena. È stata una lezione importante. Unica. Quell’uomo con le stampelle certamente non si sarebbe arreso davanti a una distorsione. Avrebbe continuato diritto, senza lamentarsi e senza piangersi addosso, con lo sguardo altero e la dignità di chi sopporta tutto quello che la vita gli riserva, senza se e senza ma.

Ecco, in questi tre elementi c’è tutto ciò a cui ripenso e che mi anima nei momenti difficili: il sorriso di chi non è obbligato a fare una cosa, ma la fa per sé e il suo piacere. La soddisfazione personale che passa attraverso mille sforzi e fatiche, senza le quali non conosci la vera sfida. E l’avversità come motore di nuova forza, che risveglia ogni volta energie che non pensavi di avere.

Non importa se la sfida è rappresentata dal lungo periodo di allenamento, dall’ostilità o se si tratti più semplicemente di una gara. Importa l’approccio e la convinzione nei propri principi.

Non è una cosa facile da capire per chi tutto questo non lo vive dal di dentro.

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Correre nel nulla

Ricordo che quando al termine di una serata in cui avevo par-lato a appassionati o semplici spettatori delle mie avventure un signore mi disse: «Be’, in fondo anch’io provo un po’ le stesse emozioni che provi tu. Quando alla fine di una dura giornata di lavoro mangio un piatto di tortelli preparati da mia moglie provo probabilmente lo stesso piacere che provi tu nel tagliare un traguar-do…». Mah, che strano modo di comparare le cose aveva questo signore, di cui non ricordo il nome. Barattare tutta la vita che c’è dentro a una sfida con un piatto di tortelli emiliani…

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Scoprire

L’uomo è viaggiatore non solo nell’anima. È viaggiatore nel suo gesto così primordiale e concreto di andare, conoscere e scoprire. Siamo nati per spostarci. Sono cambiati modi, costumi e confini, ma niente mi appaga più del conoscere luoghi inesplorati e sco-nosciuti. Penso da sempre che la natura ci abbia concepito così.

Non siamo stati creati per abitare fissi in una scatola di pochi metri quadrati con un balcone, e poi prenderci una boccata d’aria inquinata ogni tanto. Ci siamo adattati.

Abbiamo una grande predisposizione alla fatica fisica e siamo dotatissimi per questo. Non siamo stati concepiti per telecoman-di, cellulari e ascensori. I tasti da schiacciare non fanno parte del nostro DNA. Ci siamo adattati.

I nostri sensi ci forniscono tutti i dati che servono per capire la realtà che ci circonda. Non c’è bisogno di affidarsi a un computer per comprendere quello che possiamo scoprire da soli. Ci siamo adattati.

Non siamo nati per vivere continuamente connessi l’uno all’al-tro, sorvegliati, spiati e controllati. Ci siamo adattati anche a questo.

Questa trasformazione è stata talmente veloce da averci fatto dimenticare da dove veniamo e di cosa siamo capaci.

Ricorderò sempre come, durante la mia prima 100 km del Sahara in Tunisia, un beduino al seguito della gara che stavo af-frontando si trovò con un cammello azzoppato. L’animale non

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voleva saperne di muoversi e così Samir, questo era il suo nome, dovette farsi 42 chilometri della tappa a piedi. Non aveva alcuna attrezzatura speciale, ma solo due lise calzature di pannetto, da cui fuoriuscivano le dita dei piedi, e le sue gambe. Ci impiegò certamente molto più tempo di me, ma partì e arrivò alla fine facendo il mio stesso percorso senza alcun problema. Non era certo un atleta Samir, almeno nel nostro modo di intendere quel termine, eppure era dotato di una resistenza naturale che da noi deve essere allenata per poter raggiungere quello stesso livello. Chi abita in quei luoghi affronta con assoluta facilità sforzi che a noi sembrano sovrumani. Per noi questo è inconcepibile.

Andando nei posti più sperduti del mondo capisci di quanti servizi siamo contornati. Eppure la nostra natura non è questa. Ci siamo adattati in fretta alle comodità dell’artificiale diventandone parte.

Mille regole, ovunque. In fondo sarebbe tutto semplice. La vita è semplice. Correre è semplice. Viaggiare è semplice. Basta andare. Nella pratica quotidiana in realtà non è più così. Se non hai documenti o visti, dove richiesti, non puoi oltrepassare i confini di Stato. Se non porti con te mezza casa nei bagagli preparati per un viaggio ti senti nudo. Se tutto non è organizzato nei minimi dettagli ti senti perso.

Ecco perché se impari a realizzare questi concetti capisci che niente appaga di più della fatica naturale abbinata alla scoperta di un luogo. È una libertà che mi riempie più del rischio che corro ogni volta. Un tempo i nostri antenati si muovevano per cacciare. Io oggi mi sento un cacciatore di quelle emozioni e di quella libertà che riesco a trovare solo in quel mondo dimenticato.

È di persona, sul posto, che ho imparato molto più di quanto si possa ricavare dal Web e da due parole digitate su un motore

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di ricerca. Prima di ogni gara o traversata non guardo mai, ad esempio, Google Earth, neppure per un istante. Lì, sullo schermo, di sicuro non tira mai il vento, non fa mai caldo e non rischio di cadere. È certamente uno strumento utile, ma racconta un mondo che in realtà non ha vita. Tutta teoria, nessuna pratica.

Strada facendo, in tutte queste avventure, mi sono stupito di vedere in me risvegliata una naturale capacità di orientamento. Non dico per dire, parlo in base alla mia esperienza diretta. È stato uno studio, attento, applicato. Credo che il nostro cervello sia dotato di un GPS talmente sofisticato e perfetto da lasciare davvero sbalorditi. Lo si sperimenta proprio in questi luoghi dove smarrire la direzione può rappresentare la fine. Non bisogna che allenarla questa capacità che abbiamo naturale di trovare la strada e la rotta in ogni posto e situazione. Certo, a volte anch’io uso il GPS, ma solo per sicurezza e per verificare la direzione che di volta in volta scelgo in base al mio orientamento. Cerco infatti di basarmi principalmente su ciò che ho imparato dai tuareg e dal loro modo di tracciare le rotte senza alcuno strumento. Devo molto a loro in questo senso.

È lunghissima la lista di ciò che ho imparato nel deserto, non solo dalle persone ma anche dal mondo animale. Per esempio, nello scegliere le scarpe più adatte per attraversare un deserto ho tratto ispirazione dalla forma del piede del cammello, con quella sua pianta larga che gli permette di galleggiare meglio sulla sabbia. Anche il tipo di corsa da seguire l’ho messa a punto modificando il mio stile originale improntato alla strada o al terreno duro. Ho osservato attentamente che il cammello lascia un’impronta com-pletamente liscia, senza nessun avvallamento dato dalla spinta. Anche quando corre. Così mi sono allenato sulla sabbia cercando di esaminare di volta in volta le mie tracce trovando il miglior com-

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promesso tra spinta e distribuzione del peso. Adesso per correre a lungo con il maggior risparmio di energie mantengo la base del piede piatta sulla sabbia cercando di distribuire il peso del corpo sulla pianta del piede in modo uniforme.

Da quei piccolissimi coleotteri neri a prima vista insignificanti, che si trovano quasi ovunque nei deserti, ho imparato invece la traiettoria ideale per salire una duna. Non c’è un loro movimento che sia inutile. Così, osservandoli attentamente ho scoperto la via più semplice e sicura per raggiungere la vetta. Nessuno conosce quel luogo meglio di loro. Lo stesso vale per i serpenti del deserto, rapidissimi sulla sabbia. Non seguono un percorso rettilineo, ma obliquo, adottando un movimento laterale ondulatorio che gli permette di durare la minor fatica a ogni spostamento.

Lì, dove il contatto con la natura è vero, capisci l’importanza del diventare tutt’uno con lo spazio che ti circonda, assorbendo quanto di buono e bello è stato creato.

Tempo fa ho rilasciato un’intervista a RAI Radio 1 e il cui tema era “Tra terra e cielo. L’estremo vissuto in punti opposti del no-stro pianeta”. In quel programma si è parlato di Angelo d’Arrigo, l’uomo che volava con i condor, purtroppo scomparso prematu-ramente in un incidente a Comiso, in provincia di Ragusa, su un Cessna durante una dimostrazione di volo. D’Arrigo era famoso per seguire le rotte degli uccelli migratori sul suo deltaplano senza motore. Aveva studiato le tecniche di volo dei grandi uccelli rapaci, tra cui i condor, cercando di capire come avvenisse la respirazione di quegli animali abituati a volare in altitudine. Di quello studio aveva fatto tesoro, affinando la capacità che ha anche l’uomo di poter controllare la respirazione traendone benefici in altitudine. Aveva insomma studiato il mondo animale per trarre preziose indicazioni e conoscenze sul volo.

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Tutto sommato questo corrisponde al mio modo di intendere il deserto.

Ho imparato molto e, certamente, anche dopo tutto quello che ho passato ho ancora parecchio da apprendere. È innegabile che abbiamo tanto, siamo più istruiti, più avanzati, più tecnologici. Ma in quel mondo che vive basandosi su leggi primordiali anche il più piccolo gesto di chi si muove in modo apparentemente semplice e a prima vista banale ha molto da insegnare. Ci mostra per contra-sto la ricchezza che abbiamo e le nostre incredibili conquiste. Ma anche quello che, purtroppo, stiamo perdendo per strada.