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Giuseppe Trevisan ANNOTAZIONI SUI LAGER NAZISTI Estratti dal libro “Memorie di guerra 1943-45. I lager nazisti” di Giuseppe Trevisan

Giuseppe Trevisan · 2015-04-18 · Estratti dal libro “Memorie di guerra 1943-45. ... uno era l’interprete, ... fu sempre la speranza di una vicina sconfitta hitleriana

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Giuseppe Trevisan

ANNOTAZIONI SUI LAGER NAZISTI

Estratti dal libro “Memorie di guerra 1943-45. I lager nazisti” di Giuseppe Trevisan

Stampati nell’Aprile 2014 a cura dell’ Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, Sezione di Monselice-Padova

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ANNOTAZIONI SUI LAGER NAZISTI

Premessa

La Germania, uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale del 1914-18, subì per oltre un decennio un continuo aggravarsi dell’inflazione che scardinò la struttura dell’economia paralizzan-do alla fine anche la stessa democrazia. In quel difficile contesto, dopo il 1930, cominciò una progressiva affermazione del partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. I principi fondamentali, prop-agandati da Hitler, accesero gli animi del popolo tedesco perché erano contro i dettami del trattato di pace, imposto alla Germania dai vincitori. In politica estera, il nazionalsocialismo era fautore di una totale e assoluta intransigenza contro gli accordi stipula-ti dopo la guerra 1914-18; in politica interna, perseguiva finalità antidemocratiche contro coloro che non avevano saputo o potu-to raddrizzare le sorti della Germania. Fu così che il 6 novembre 1932 il corpo elettorale premiò Hitler che, nel successivo 26 mar-zo 1933, divenne Cancelliere, cioè primo ministro. Subito Hitler istituì ufficialmente il suo primo lager a Dachau, presso Monaco di Baviera, per la rieducazione politica degli avversari. Tra costoro c’erano i dirigenti e i funzionari dei partiti comunista, socialde- mocratico, cristiano e anche parecchi religiosi. Fu l’inizio di una lunga e numerosa serie di lager nazisti, tanto che, se prima la pa-rola significava luogo di raccolta, accampamento, magazzino, in seguito si diffuse per indicare campi di violenza e sfruttamento, ed ora lager è sinonimo di luogo di annichilimento della persona umana.Hitler poi, nell’agosto del 1934, ridusse la Germania a uno sta-to totalitario, retto dal suo partito nazionalsocialista, escludendo ogni altra rappresentanza politica: egli divenne per tutti i tedeschi il Führer. Nel 1936 rimilitarizzò la Renania, contravvenendo al

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trattato di pace; nel marzo 1938 occupò l’Austria e sollevò il prob-lema dei Sudeti, una regione incorporata nel nuovo stato della Ce-coslovacchia ma abitata da oltre tre milioni di tedeschi. Si mosse allora la diplomazia europea la quale, col trattato di Monaco, as-segnò i Sudeti alla Germania, col beneplacito di Francia, Inghil-terra e con l’aiuto dell’Italia. Nel marzo 1939 Hitler fece una nuova aggressione alla Cecoslovacchia riuscendo a creare un protettora-to su Boemia e Moravia.A settembre dello stesso anno, infine, invase la Polonia, per annet-tersi il corridoio di Danzica. Questo era stato costituito col trat-tato di pace della guerra 1914-18 ed era formato da una larga fas-cia di territorio, tolto alla Prussia tedesca e dato alla Polonia, per permetterle uno sbocco sul mar Baltico. La Francia e l’Inghilterra, legate alla Polonia da un trattato di sicurezza, non accettarono l’invasione e dichiararono guerra alla Germania: fu l’inizio della lunga seconda guerra mondiale che durò fino al 1945. La Germa-nia, nell’invasione della Polonia, fu aiutata dalla Russia di Stalin e, col trattato dei ministri degli esteri dei due paesi, Ribentropp e Molotov, quella Nazione fu divisa in due parti.Le armate tedesche poi, nella prima metà del 1940, occuparono la Francia, il Belgio e l’Olanda, costringendo nel contempo le truppe inglesi, dislocate nel continente, a rientrare in patria. Mussolini considerò questi brillanti risultati apportatori di una vicina vitto-ria dei nazisti e, pensando di partecipare alla spartizione del bot-tino nel prossimo armistizio, dichiarò guerra alla Francia e all’In-ghilterra: era il 10 giugno 1940.Mentre le armate tedesche spadroneggiavano in buona parte dell’Europa, il 22 giugno 1941 Hitler scatenò una guerra d’inva-sione contro la Russia. All’inizio fu un’impresa bellica strepitosa con tanti successi. I tedeschi fecero prigionieri milioni di soldati russi, rastrellarono nella loro avanzata milioni di donne e giovani per farli lavorare nei lager nazisti: lager in parte già pronti, altri

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sorti per l’occasione. Nell’inverno 1942-43, però, per Hitler e Mus-solini iniziarono le sconfitte e i ripiegamenti. Per noi italiani il 1943 fu l’anno dei grandi sconvolgimenti: perdita totale della Lib-ia, invasione della Sicilia, caduta di Mussolini e armistizio dell’8 settembre. L’armistizio smobilitò il nostro esercito, mentre la Ger-mania continuava la guerra.Il bollettino della resa italiana fu vago per quanto riguardava il destino di noi soldati, in armi nei vari fronti, creando una enorme confusione. I vari milioni di soldati italiani che si trovavano dis-locati in Patria, nei Balcani e nell’Egeo, non ricevendo ordini, si comportarono a seconda delle circostanze in cui si trovavano. Una parte si unì agli americani, altri combatterono contro i tedeschi (da ricordare i 5.000 caduti di Cefalonia), una piccola schiera ac-cettò di porsi sotto la Repubblica mussoliniana di Salò, 640.000 furono fatti prigionieri dai tedeschi e inviati nei lager: io sono sta-to fra questi ultimi. È per questo motivo che, avendo visto e cono-sciuto da vicino i lager, ritengo di poter parlare con cognizione di causa dei campi nazisti.

Capitolo primo

Quando noi italiani arrivammo in Germania, trovammo l’or-ganizzazione dei lager già sviluppata come una tela di ragno sul territorio del Gross Reich, cioè sul suolo propriamente tedesco, su quello annesso e, in parte, su quello occupato. I lager erano diversificati con nomenclature particolari, a seconda della loro struttura e finalità. Qualche anno fa ho letto in un prontuario ben cinquantadue termini diversi per indicare le varie tipologie dei campi e, come permette la lingua tedesca, tutti incorporavano la parola lager.Ora non pretendo di fare una disamina di tutti i tipi di campi, ma penso di rivolgere la mia attenzione solo a quelli che hanno rac-

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colto milioni di persone e che io conosco, direttamente o indiret-tamente, perché sono quei lager dove anche noi italiani abbiamo patito.Nonostante le varie finalità, essi avevano una organizzazione di base simile: baracche costruite in zone defilate, filo spinato di de-limitazione, guardiani. Il tutto era rapportato alla quantità e qual-ità dei reclusi e, nel contempo, anche alla divisione per nazionalità e sesso.A seconda del tipo di internati (lavoratori, prigionieri di guerra, persone da punire o eliminare) il servizio di vigilanza e custodia era svolto dalla gendarmeria locale, dalla Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco, oppure dalle SS, la milizia nazista corrispond-ente alla mussoliniana MVSN, Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.Ogni lager era comandato da un tedesco che chiamava come aiutanti almeno due dei reclusi: uno era l’interprete, l’altro il re-sponsabile dell’ordine e della disciplina delle baracche. Purtrop-po quest’ultimo, chiamato da tutti kapò, invece di essere di aiuto ai compagni, spesso ne diventava l’aguzzino per ottenere dai te-deschi qualche privilegio. Parecchi di questi kapò furono uccisi appena arrivarono i liberatori, altri furono processati. Il cibo per tutti, prigionieri o lavoratori, era al limite della sopravvivenza. Al mattino un bicchiere di acqua calda nera, chiamato te, benché si trattasse di un semplice infuso di erbe; a mezzogiorno un litro di zuppa vegetale acquosa; alla sera la stessa zuppa accompagnata da una fetta di pane scuro, normalmente di due etti e mezzo; a volte quindici grammi di margarina vegetale oppure un cucchiaio di marmellata, un pizzico di pesciolini salati o di altri prodotti ali-mentari. Sovente la dieta era però variata, e sempre in meno, per punizioni o per cattiveria.Il primo doloroso impatto con l’organizzazione nazista era rap-presentato dal trasporto nei vari lager. I tedeschi approntavano,

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nei principali nodi ferroviari, lunghi treni merci dove dovevano salire le grandi masse dei prigionieri e dei rastrellati, condotti fin là a piedi. Erano colonne formate da persone impaurite e stanche, fra le quali anche ammalati e feriti, scortate da soldati senza pietà che uccidevano a fucilate chi tentava di scappare o non riusciva più a camminare.Alcuni miei commilitoni, che l’otto settembre 1943 si trovarono in Jugoslavia, mi hanno raccontato delle loro lunghe marce, anche di due giorni interi, mangiando solo quello che trovavano lungo la strada e bevendo nei pozzi. I soldati venivano sostituiti dopo una mezza giornata di servizio, i prigionieri invece dovevano camminare e camminare. Mi fu raccontato anche un particolare agghiacciante. Alla fine di ogni colonna, c’erano alcuni autoblindo che servivano a controllare i partigiani titini, ma anche per rac-cogliere gli uccisi. Chi era in fin di vita, infatti, riceveva un colpo mortale, il cadavere veniva caricato su un automezzo per essere poi gettato in una fossa comune scavata da altri prigionieri: era questa la disumana soluzione nazista praticata ovunque.Il successivo viaggio in treno era un tormento e rappresenta un ricordo incancellabile per tutti quelli che l’hanno subito.Essere stipati in una cinquantina in un carro bestiame, senza ac-qua e cibo, impossibilitati a muoversi e a respirare a pieni pol-moni (i portelloni erano infatti chiusi dall’esterno e l’aria arrivava da finestrelle poste in alto), non conoscere i luoghi attraversati, sentendo solo l’ossessivo tran-tran delle ruote, era un estenuante tormento, che durava vari giorni e per alcuni durò anche una set-timana.Arrivati nei campi, ai patimenti fisici si sommava l’angoscia mo-rale legata all’incertezza circa il proprio destino: dove ci avrebbe-ro mandato i tedeschi? Al lavoro nelle cave, nelle miniere o nelle officine?Prima di conoscere la nostra destinazione si doveva passare at-

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traverso una trafila di controlli che mettevano sempre più paura e ci davano la sensazione fisica di un ingranaggio che mordesse la nostra vita con la stessa inflessibilità con la quale i tedeschi erano determinati a vincere la guerra. A darci la forza per sopravvivere fu sempre la speranza di una vicina sconfitta hitleriana. Tuttavia, l’enfasi della propaganda nazista ravvivava nei tedeschi la convin-zione della sicura vittoria e, quando questi momenti di esaltazione penetravano nella nostra officina, il chiacchiericcio si calmava e si faceva triste. Eravamo tutti consapevoli delle terribili conseguen-ze che ciò avrebbe comportato per molte nazioni europee e per noi stessi. Fortunatamente la sorte favorì noi oppressi.

Capitolo secondo

Personalmente ritengo che i vari tipi di lager si possano raggrup-pare in tre categorie ben distinte: campi per prigionieri di guerra, campi per lavoratori coatti e, infine, campi di annientamento per l’eliminazione dei dissenzienti e di quanti considerati nemici del Reich.Per i prigionieri di guerra, i Kriegsgefangenen, brevemente KGF, i nazisti avevano approntato un centinaio di grandi lager, ove tutti i prigionieri, al loro arrivo, venivano censiti, fotografati e immatri-colati: erano i campi base.Il prigioniero di guerra, come documento di riconoscimento, riceveva una piastrina di zinco divisibile in due parti: una serviva in caso di morte, da porre nel tumulo, l’altra per cucirla sulle vesti. In ognuna erano impressi la sigla del campo e il numero di matri-cola: in pratica ogni prigioniero era un numero.Sicuramente già prima dell’inizio della guerra, i tedeschi, per or-ganizzare questi lager, avevano suddiviso il loro territorio in di-ciannove distretti, dando a ognuno un numero romano progres-sivo, partendo dalla Prussia a nord e finendo con l’Austria a sud.

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Quando poi occuparono la Polonia, ripartirono con la numerazi-one da Danzica al nord per arrivare, al sud, oltre Auschwitz.I campi base avevano come indirizzo postale il numero romano del distretto con l’aggiunta di una lettera latina maiuscola: A se vi era solamente un campo, B se ve ne erano due, e così via.Questi lager, che divennero i punti di riferimento di ogni prigion-iero militare, erano composti da molte costruzioni, anche una cinquantina, che ospitavano le diverse funzioni necessarie alla vita quotidiana di una cittadella. Vi erano dormitori (talvolta formati anche da grandi tende), magazzini, ambulatori, ospedale, labora-tori, cucine, locali per la disinfestazione e per i corpi di guardia. Queste strutture erano cintate con alti cavalli di frisia e control-late notte e giorno da sentinelle, poste su torrette e fornite oltre al fucile anche di mitragliatrici e fari. Le grandi baracche adibite a dormitori avevano lunghi corridoi con, a destra e a sinistra, i let-ti formati da tre tavolati sovrapposti, leggermente inclinati verso la parte dei piedi. I corridoi erano interrotti al centro dai locali dell’entrata e dei servizi igienici.I campi-base erano principalmente di due tipi: Stammlager, ab-breviato Stalag, per i soldati e graduati di truppa, Offlager per gli ufficiali. La suddivisione era dovuta al fatto che gli ufficiali non lavoravano, mentre la truppa veniva subito smistata nei campi di lavoro, gli Arbeitslager.Gli ufficiali non lavoravano perché anche i nazisti rispettavano il trattato di Ginevra, stipulato dopo la guerra 1914-18, che proibi-va il lavoro per gli ufficiali prigionieri. Tuttavia i nazisti facevano propaganda affinché anche gli ufficiali accettassero di lavorare e diversi lo fecero per non rimanere nell’inerzia del campo a discu-tere fra compagni e a sperare nel ritorno a casa. Nei campi-base sostarono, talvolta senza uscirne, milioni di soldati prigionieri di varie nazioni (specialmente russi); per ultimi arrivammo noi 640.000 italiani.

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Assimilabili ai campi sopra ricordati ve ne erano altri chiamati campi speciali che erano di supporto ai campi base; io ho sentito parlare di almeno altri tre tipi. Gli Strafflager, campi di punizione, dove venivano mandati a scontare le punizioni i prigionieri riottosi o colpevoli anche di piccole infrazioni e dove chi vi entrava mori-va per le sevizie o ne ritornava debilitato. Vi erano poi i Lazarett - qualcuno li chiamava anche Kranklager - riservati ai prigionieri invalidi o ammalati cronici: l’assistenza in questi campi era svolta da infermieri e medici prigionieri, però sprovvisti di presidi med-ico-chirurgici e con l’aggravante di cibo scarso per tutti (così ho letto nel libro Il tempo di Zeithain 1943-1944 della crocerossina Maria Zeme, che parla di duemila italiani morti nel Lazarett dove prestava assistenza). Infine vi erano i Wehrmachtlager, prigioni riservate ai soldati che avevano subito una condanna dai tribunali militari ed erano adibiti ai lavori pericolosi. Fra questi carcerati vi furono anche quattromila italiani condannati come disertori dai tribunali fascisti (e tra loro mio fratello, disperso a Lipsia).Secondo una ricerca dell’ANEI (Associazione Nazionale ex Inter-nati) furono complessivamente circa cinquantamila i soldati ital-iani morti o dispersi in Germania.

Capitolo terzo

La seconda categoria di lager era formata dagli Arbeitslager, cam-pi per l’alloggio di operai e operaie. Avevano una quantità lim-itata di baracche sempre cintate da filo spinato e il responsabile era un civile tedesco che doveva rendere conto alla gendarmeria, alle autorità militari e ai dirigenti delle officine. Questi campi era-no di modesta ampiezza perché ognuno raggruppava personale dello stesso sesso e anche della stessa provenienza. Erano posti lontani fra loro e dalla fabbrica dove veniva svolto il lavoro. Penso che fosse per rendere più facile il controllo e anche per evitare le

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comunelle. Per esempio, dove mi trovavo a lavorare io, per quasi tremila operai stranieri c’erano una decina di campi di lavoro. Ho sentito dire anche che, se i lavoratori erano pochi e c’era diversifi-cazione di nazionalità e sesso, tutti dormivano nello stesso campo, ma in baracche diverse, e con l’assoluto divieto di commistione: ed era pericoloso disobbedire!Noi prigionieri italiani arrivammo nei campi da lavoro a scaglioni, a partire dal 1943 e, man mano che venivamo censiti negli Stalag, ci mescolarono con altri lavoratori stranieri; non godevamo però della semilibertà che questi avevano. Loro erano controllati dalla gendarmeria, noi dall’esercito. Erano i soldati della Wehrmacht che ci scortavano quando, a piedi, si andava al lavoro, contandoci e ricontandoci, anche alla sera, prima di chiudere le porte con luc-chetti esterni. I nostri campi erano controllati di notte con i fari.Tutti i soldati italiani erano per l’autorità tedesca degli IMI: mili-tari italiani internati. Questa definizione era per noi penalizzante perché non potevamo essere considerati come prigionieri di guer-ra a tutti gli effetti, e di conseguenza la Croce Rossa Internazion-ale non ci forniva pacchi di viveri e vestiario come faceva invece per i soldati degli eserciti alleati: eravamo dei dimenticati da tutti.Anche per quanto riguarda la posta la nostra condizione era diver-sa da quella dei lavoratori stranieri. Essi usavano la posta normale e per loro gli indirizzi (nome di luoghi e persone) erano nominali. Per noi posta in franchigia (con stampato, in tedesco e italiano ”Prigioniero di guerra”) e, a identificare il luogo di detenzione e noi stessi, dei numeri (il mio era: Stammlager XVII A, matricola 140.298, campo di lavoro K 851a/gw). Pure la remunerazione era diversa: ai lavoratori stranieri una paga in marchi correnti, per noi tagliandi del valore di pochi centesimi di marco, spendibili solo nei campi-base.Lo status di prigionieri militari costretti a lavorare (IMI) durò cir-ca un anno, poi fummo considerati dai tedeschi dei liberi lavora-

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tori.In quel primo anno di prigionia ci furono distribuiti sei stampati per corrispondere in franchigia coi parenti: quattro lettere e due cedole per pacchi. Io ebbi la fortuna di riuscire a procurarmi con il baratto alcune decine di questi stampati, che divennero una manna, sia perché i pacchi ricevuti mi aiutavano in modo deter-minante a vivere, sia perché la corrispondenza mi infondeva cor-aggio e volontà di lottare per sopravvivere.Il fatto era che parecchi miei commilitoni originari del Meridione ritenevano impossibile che la loro posta, entrando nel nord Italia, comandata dalla Repubblica di Mussolini, venisse poi inoltrata nel sud occupato dagli Angloamericani: il duce del fascismo ci aveva totalmente abbandonati perché avevamo scelto la prigionia piuttosto che combattere sotto le sue bandiere.Io ormai avevo finito di vendere tutto quello che possedevo di non strettamente indispensabile (ricordo, per esempio, che avevo ven-duto a un russo la mia stilografica per diciotto marchi), quando, fortunatamente, arrivò il primo di una dozzina di pacchi. Con la prima lettera a casa avevo fatto intendere che (anche se non fu-mavo) mi servivano sigarette e/o tabacco, perché avevo constatato che in Germania v’era scarsità di questi beni voluttuari. Fu così che divenni commerciante di sigarette e di pizzichi di tabacco, che vendevo a uno o due marchi a seconda della qualità, usando poi questi marchi per comperare il pane.Mentre io badavo ai miei affari con i molti fumatori stranieri che lavoravano con me, mi accorsi che i miei commilitoni avevano anch’essi cominciato a escogitare ed attuare sistemi creativi per procurarsi del cibo extra. L’inventiva degli amici mi stupì franca-mente, perché arrivava dove non avrei mai immaginato. Si tratta-va di idee brillanti per superare le diffidenze tedesche, di soluzioni pratiche che andavano incontro alle richieste degli stranieri: da noi, per esempio, fu organizzata un’officina segreta per produrre

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anelli, collane, coltellini ed altri oggetti molto ricercati dai russi, che li comperavano con i marchi della loro paga.Quando tornai a casa ebbi occasione di parlare con ex deportati di altri Stammlager, venni a sapere che tutti avevano escogitato soluzioni per ottenere del cibo che rimpinguasse lo scarso rancio (un esempio è narrato, in questo libro, nel racconto del fante Do-menico Tiengo).Credo che noi italiani riuscimmo da subito a mettere in atto la nostra inventiva perché il nostro inserimento nella folla multi-etnica dei lavoratori fu assai facilitato dai russi. In particolare gli ucraini (allora russi a tutti gli effetti) ci adottarono, indicandoci e spiegandoci i vari pericoli. Solo i soldati prigionieri francesi ci erano ostili, per via della pugnalata inferta da Mussolini alla Fran-cia il 10 giugno 1941, quando, dichiarandole guerra, aveva aperto per i francesi un secondo fronte a sud-est mentre a nord essi sta-vano combattendo contro i tedeschi.Tutti i nostri sforzi erano dunque finalizzati all’ottenimento dei marchi necessari all’acquisto dei ticket validi per una pagnotta da un chilogrammo: la fetta inclusa nel rancio era infatti assoluta-mente insufficiente per tutti.Ah il pane! Fu il centro motore di ogni interesse di noi italiani du-rante i diciannove mesi che rimanemmo con i tedeschi. Tutti noi celebravamo giornalmente il rito del pane, cioè la sua spartizione che era per noi un momento solenne. Alla sera ci veniva data una pagnotta da un chilo da dividere per quattro: si dovevano tagliare delle fette di peso uguale. Per ottenere una spartizione giusta, che poi non producesse recriminazioni, si usava un bilancino fatto con stecche di legno e gancetti di ferro. Era il sistema usato quasi da tutti, tanto che almeno due reduci hanno regalato il bilancino, portato a casa per ricordo, al museo del Tempio di Terranegra di Padova dedicato all’Internato Ignoto. Adesso, mentre scrivo, sor-rido ricordando il rito della spartizione, ma in prigionia era una

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cosa seria che assorbiva tutta la nostra attenzione.L’acquisto del pane col ticket era per me una faccenda inspiega-bile. Nelle fabbriche giravano indisturbati dei tizi, lavoratori li-beri, che in modo furbesco offrivano, a sette marchi l’uno, degli scontrini rosso cupo, sui quali era scritto in tedesco che valeva-no un chilogrammo di pane. Costoro dicevano di comprarli nel-la vicina città al mercato nero, pagandoli sei marchi. Mi lasciava perplesso il fatto che quei venditori cambiassero continuamente e di non averli mai visti lavorare. Ad ogni modo con quei ticket si poteva comprare liberamente in qualsiasi negozio una pagnotta con sessantasette Pfennig, centesimi di marco. Facendo un rapi-do conteggio noi stranieri pagavamo il pane 7,67 marchi, quasi dodici volte più dei residenti. Mi sono sempre chiesto perché la onnipresente Gestapo - la polizia nazista - non stroncasse quel mercato nero.Il motivo lo capii quando, poco prima che finisse la guerra, mi capitò un fatto che mi sconvolse.Verso il 20 aprile 1945 arrivarono nella mia zona le armate russe e noi passammo sotto la loro giurisdizione. Sulle prime, i Russi non badavano agli stranieri e noi ne approfittavamo per andare nei paesi vicini a procurarci cibo e vestiti. Presto, di quell’esercito imparammo a distinguere arma e grado (almeno fino a quello di colonnello), anche se la divisa era identica per tutti. Le uniche in-dicazioni erano date dalle spalline, per il grado, e dal colore della copertina del berretto, per le diverse armi.Altrettanto presto, noi italiani fraternizzammo con i soldati russi, usando, per farci intendere, i gesti e le poche parole che avevamo apprese lavorando fianco a fianco con i prigionieri dell’est Europa, però stavamo alla larga dai militari con la copertina verde, perché il colore identificava la polizia militare, da noi subito battezzata GPU, di staliniana memoria.Un giorno di prima mattina mi stavo recando tutto solo verso il

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centro della cittadina dove avevo lavorato, in cerca di viveri. Mi fermò un soldato russo che, qualche giorno prima, mi aveva offer-to della minestra e che si mise a parlottare con un civile al suo fi-anco. Questi, esprimendosi in tedesco, mi disse che dovevo andare in un ufficio vicino dove degli ufficiali mi avrebbero interrogato sul trattamento ricevuto da parte dei tedeschi. Andai tranquillo. Dopo una breve conversazione, venni perquisito e nelle tasche mi fu trovato l’orologio, che con molta fatica ero riuscito a salvare dalla vendita, e delle carte scritte a mano in tedesco. A causa di questi ritrovamenti, e per altre loro deduzioni, mi incolparono di aver collaborato con i nazisti nella compravendita dei ticket del pane e di avere fatto la spia a danno degli stranieri. Spiegai che le carte le avevo prese nell’ufficio di un lager distante circa un chilometro, dove mi ero fatto un letto stendendo sul tavolac-cio parte dei documenti trovati sugli scaffali e che altri ne avevo presi per i bisogni corporali. Precisai che avevo usato l’ufficio per tenere possibilmente lontani i parassiti che infestavano tutti i letti a castello delle camerate e che già in passato mi avevano punto, procurandomi eruzioni cutanee.Subii tre interrogatori successivi senza mangiare e bere. Alla sera, il capo, un tenente, volle controllare dove dormivo e se vi erano altre carte simili a quelle sequestrate. Le trovò e a mezzogiorno dell’indomani ero libero (il processo l’ho descritto dettagliata-mente nel mio libro di memorie del 2006: “Stammlager XVII A - Ricordi dei 733 giorni da prigioniero in Germania”, che si può trovare al seguente indirizzo: http://www.provincia.padova.it/co-muni/monselice/archivio/archi- vio%20pdf/stammlager.pdf ).Quel processo mi fece intendere come funzionava il mercato dei ticket del pane: era gestito dalla Gestapo stessa, con l’aiuto di collaboratori, generalmente dell’est Europa, ed aveva lo scopo di recuperare il contante in marchi che veniva dato come paga agli stranieri, o che derivava dal commercio nascosto che gli stessi te-

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deschi facevano per ottenere le cose di valore possedute dagli stra-nieri. Anche se ogni lavoratore straniero riceveva pochi marchi di moneta corrente, il fatto era che parecchi milioni di loro, alla fine, detenevano milioni di marchi, e questo non era accettato dai nazisti perché poteva creare difficoltà allo stesso Reich tedesco.Poco dopo che noi italiani eravamo arrivati nei Lager, i nazisti in-iziarono a propagandare l’adesione alla Repubblica mussoliniana di Salò. Questa attività, fatta da gruppetti di fascisti sempre con la presenza di un tedesco, fu portata avanti continuativamente per un anno nei numerosissimi campi di internamento e di lavoro per ottenere consensi, adducendo soprattutto motivi patriottici: le adesioni furono però sempre poche. Chi aderiva doveva sotto-scrivere la seguente dichiarazione: “Aderisco all’idea repubblicana dell’Italia fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a com-battere con le armi nell’esercito italiano del Duce, senza riserve, anche sotto il Comando supremo tedesco, contro il comune ne-mico dell’Italia repubblicana fascista, del Duce e del Grande Reich Germanico”. Come ho già detto, noi italiani, dopo un anno da pri-gionieri di guerra IMI, diventammo liberi lavoratori. Il cambia-mento fu solo burocratico, perché il trattamento e la pesantezza del lavoro restarono quelli di prima. Solo i controlli di sicurezza si allentarono un po’; non fu però sostituito il capo campo, un maresciallo maggiore dei carabinieri, che anche precedentemente si era comportato in modo impeccabile sia con noi prigionieri che con i tedeschi. Furono cambiate le modalità del nostro riconosci-mento per la posta: anziché sigle e numeri ricevemmo l’Ausweis, il certificato del datore di lavoro che era una tessera con foto, generalità del lavoratore e conteneva anche i dati precisi di chi la emetteva. Era sottoscritta dall’operaio intestatario e tutti doveva-no averla sempre con sé.Furono trasformati anche gli indirizzi: come per gli altri prigion-ieri stranieri, dai numeri si passò ai nomi dei luoghi. Il mio nuo-

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vo recapito diventò Italianer Lager Grillenberg (la frazione dove abitavamo), Berndorf (il comune dove lavoravamo), con la pre-cisazione “Bei Wien” (cioè vicino a Vienna); il tutto completato da Deutschland (Germania). Così pure il mio ex campo base ebbe il nome del paese Kaisersteinbruch. Questo cambio di indirizzo creò in parecchi di noi prigionieri un po’ di confusione. Al ritor- no a casa molti hanno indicato solamente i nomi dei luoghi dove erano stati in Germania, dimenticando in particolare la sigla dei campi base, sigla di rilevante importanza per significare lo stato di prigionia e per distinguersi dagli altri che erano al lavoro in Germania in condizioni diverse.I milioni di lavoratori chiamati dalla propaganda nazista “liberi” erano nella realtà tutti coatti, cioè obbligati a lavorare. Erano uomini e donne rastrellati nell’Europa dell’est dalle truppe te-desche, a cui si aggiungevano poi coloro che avevano preferito lavorare in Germania, piuttosto che essere soldati in patria sotto un governo filotedesco, e quelli spinti dalla fame che imperversa-va nel loro paese; c’eravamo, infine, noi 640.000 italiani. Preciso che, fra quelli che avevano preferito lavorare in Germania piutto-sto di fare il soldato in patria, c’erano soprattutto giovani francesi che avevano ripudiato il loro governo presieduto dal maresciallo Pétain e dal politico Laval.La vita negli Arbeitslager era regolata da rigide norme: obbligo di lavorare comunque, rancio limitato, come già precisato, essere presenti durante la notte nei campi. Quando di domenica non si lavorava si potevano fare gitarelle, sempre provvisti dell’Ausweis, stando attenti a non richiamare l’attenzione dei gendarmi. Si po-teva anche andare al cinema pomeridiano, naturalmente pagando il biglietto. Ho notato che nei primi mesi del 1945 qualche mio compagno non dormiva più nel campo, pur essendo presente al lavoro: veniva ospitato da una fidanzata tedesca che si era assunta ogni responsabilità presso il datore di lavoro e la gendarmeria.

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Per me quei sei mesi e mezzo di semilibertà furono una parentesi di intensa corrispondenza con i familiari, perché potevo spedire a piacimento le cartoline postali ordinarie che acquistavo con gli spiccioli che ricevevo come paga del lavoro.

Capitolo quarto

La terza ed ultima categoria di lager era formata da una decina dei famigerati campi di sterminio, denominati dalle località in cui si trovavano. I più noti ritengo siano: Dachau, presso Monaco di Baviera, Mauthausen in Austria e Auschwitz presso Cracovia in Polonia. Erano controllati dalle SS naziste, che applicavano sevi-zie d’ogni genere e che uccidevano senza pietà. Quei campi erano riservati a persone che il nazismo considerava nemiche e che era-no rastrellate in tutta Europa. Quei poveretti venivano vestiti con una casacca a righe larghe bianche-blu, nelle quali erano impressi triangoli equilateri di vario colore, a seconda del motivo del loro internamento.Il triangolo rosso indicava i politici, il verde i delinquenti comu-ni, il nero gli asociali, il blu scuro gli apolidi, il viola i testimoni di Geova, il rosa gli omosessuali, il rosso tenue gli zingari, infine il giallo gli ebrei. Per questi però erano frequenti due triangoli sovrapposti, che formavano la stella di Davide a sei punte. Ad Auschwitz veniva anche tatuato il numero di matricola negli arti superiori degli uomini, delle donne e dei bambini.In questi campi c’erano anche i forni crematori usati per distrug-gere le prove dell’esistenza di tanti poveri morti. Su questi campi c’è una vasta e precisa letteratura di testimonianza, che particolar-mente riguarda gli oltre cinque milioni di ebrei uccisi nei campi di sterminio. Al riguardo vi sono anche parecchi filmati nei quali gli ex prigionieri, o studiosi di storia, descrivono quegli orren-di luoghi di morte. Da prigioniero ero venuto a conoscenza di

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qualche cosa, non ben precisato, relativo a quei campi, riferitomi dai giovani lavoratori francesi, non certo dai tedeschi perché tutti loro tacevano su di essi, moltissimi per paura, pochissimi perché non ne erano a conoscenza. Solamente nel febbraio 1945 ho visto a Berndorf, dove lavoravo, una lunga fila di derelitti, vecchi donne e bambini, infagottati in abiti di varia provenienza sui quali era appuntata la stella gialla di Davide, che, scortati dalle S.S., strasci-cavano lentamente le loro macilente membra. Rimasi sconcertato e anche avvilito, capendo subito che si trattava di ebrei maltrattati. Chiesi informazioni specie ai tedeschi che vedevano quella pro-cessione vicino a me: nessuno volle darmi una spiegazione. Solo più tardi, quand’ero a casa, venni a sapere che quegli ebrei erano certamente una colonna di sfollati dal campo di Auschwitz, vicino a Cracovia, occupato dall’armata russa il 27 gennaio 1945.Personalmente mi sono documentato su quei campi con letture e visite a Dachau e Auschwitz. Nel 1961 in corriera andai a Monaco di Baviera per il Congresso Eucaristico europeo. In una mezza giornata di pausa decisi di andare da solo a visitare il campo di Dachau. Arrivai sopra un poggio e vidi sotto di me l’insieme delle baracche, disposte su file, divise da vialetti. Rimasi a scrutare bene il tutto, indeciso se passare da solo fra quelle stradine, giacché non si vedeva anima viva. Mentre pensavo, sentii un vocio lontano; mi guardai intorno ma non vidi che vegetazione, comunque mi avviai verso il luogo da dove provenivano quelle voci. Dopo gli al-beri vidi due fabbricati a un piano e un gruppetto di sacerdoti con la tonaca nera, allora indumento abituale, che circondavano un prelato che aveva la tonaca orlata di rosso. Avvicinatomi, ascoltai. Capii che erano sacerdoti veneti con il vescovo di Venezia, il car-dinale Piazza, che conoscevo di nome e sapevo presente al con-gresso eucaristico: parlava della sua vita di prigioniero a Dachau quando non era ancora vescovo. Mentre spiegava conduceva i suoi ascoltatori da una parte all’altra. Io li seguivo in silenzio. Ci

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portò nel primo fabbricato di cemento armato, formato da due vani grandi e uno piccolo: i due grandi erano uno spogliatoio e un locale docce; quello piccolo serviva per il corpo di guardia. Lo spogliatoio era privo di arredo ed era diviso dalle docce da un muro in calcestruzzo che aveva nel mezzo una pesante porta in-sonorizzata a due ante, con due piccoli oblò di controllo, ognuno formato da due vetri spessi. Chiusa la porta, il locale docce era davvero impermeabile ai rumori e all’aria. Entrati nel locale delle docce il prelato ci fece osservare il soffitto dove c’erano una quar-antina di bocchette d’acqua. Spiegò che i condannati arrivavano credendo di fare la doccia, perché così era stato detto dai tedeschi. Si spogliavano ed entravano. Dopo un po’ di acqua calda veniva diffuso il gas mortale. E qui capii due cose nefande e nel contempo disgustose. I tedeschi prima escogitavano continue nuove bugie per convincere quei poveri diavoli ad andare alle docce senza re-calcitrare, e anche per rendere impossibile divulgare quelle morti, poi con grande disumanità osservavano l’andamento dei decessi attraverso gli spioncini: era una catena di nefandezze che scosse tutti i presenti. Quando quelle misere persone rinchiuse erano morte, i controllori chiamavano all’opera una squadra di depor-tati che doveva prendere i cadaveri e portarli nel fabbricato poco lontano, dove c’erano i forni. Finita la cremazione, il cardinale doveva trasportare le ceneri con la carriola nel retro, luogo che ci fece vedere. Quelle spiegazioni e poi quella visita ci commosse: avevamo gli occhi gonfi di lacrime. Questo fatto è stampato nella mia mente e nel mio cuore più di qualsiasi altra mostruosità patita o vista.Andai anche ad Auschwitz con amici nel 1990, poco tempo dopo la caduta del muro di Berlino. Trovai un lager ben ordinato dove gruppetti di persone si aggiravano fra gli edifici in muratura. Reg-nava un silenzio rotto qua e là dal chiacchiericcio dei vari cicero-ni che parlavano in diverse lingue. Ovunque vidi oggetti che mi

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lasciarono una profonda tristezza. C’erano piccoli mucchi di ma-teriali di ogni genere appartenuti a coloro che erano stati portati a morire; c’erano anche barattoli vuoti di quel veleno che veniva inalato nelle docce per uccidere: Auschwitz è il museo degli or-rori! Ho visto anche i forni crematori: erano visibilmente parte di una catena per trasformare i corpi in pugni di cenere: che orribile lavoro! Dopo quella visita ho avuto l’occasione di leggere la relazi-one scritta in carcere dall’ufficiale delle S.S. che aveva provveduto a trasformare quel lager in patibolo: fu una lettura sconvolgente. Era un memoriale dettagliato, assolutamente privo di sussulti morali; voleva difendersi dando la colpa al ministro suo superi-ore: ma da quella lettura si capiva che il nazismo era davvero una dottrina disumana.

“Destinato al forno crematorio”di Mardegan Bruno, 2008

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Capitolo quinto

Già nel libro citato sopra, oltre alle mie memorie di guerra, avevo riportato alcune notizie sui lager nazisti. Con le presenti anno-tazioni ho inteso dare una visione più ampia di come Hitler abbia trasformato i suoi lager in una potente arma di guerra. Essi furono usati in modo scellerato per due finalità: produrre armi ed elimin-are gli oppositori, veri o ritenuti tali. Nei campi di lavoro erano re-clusi milioni di schiavi costretti a produrre; in quelli di punizione e sterminio altri milioni destinati alla morte.Se è vero che la guerra abbrutisce gli animi nei campi di battaglia, i nazisti superarono questo limite, istituendo i lager e trasforman-doli in luoghi di angherie e morte. La loro storia racconta un per-iodo doloroso, che non può essere né dimenticato né giustificato.Purtroppo vi sono stati, ed ancora vi sono, taluni che disconos-cono le atrocità naziste; alcuni forse perché abbagliati dalle pos-senti ed ordinate parate del regime hitleriano, altri perché con-siderano la dittatura un genere di governo politico superiore alla democrazia.Ma il giudizio sulla dittatura nazista non può basarsi solo sulle formidabili rassegne militari, sulle vittorie lampo o sulla grande capacità di realizzare armi all’avanguardia: bisogna anche valutare quanta orrenda sofferenza il regime ha provocato nel mondo in-tero. Hitler non ha solo risollevato i tedeschi dalla sconfitta della prima guerra mondiale, ma ha anche causato a molti Stati e al suo stesso popolo enormi disastri: basti pensare ai milioni di morti tedeschi sui campi di battaglia o nei bombardamenti o, ancora, al drastico ridimensionamento dei confini della Germania in segui-to al trattato di pace.Per ricordare gli orrori della guerra di aggressione 1939-45, scat-enata dai dittatori Hitler e Mussolini, celebriamo la giornata della Liberazione il 25 aprile, che è per tutti noi italiani Festa Nazionale:

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in essa si rinnova la memoria degli ultimi giorni dell’aprile 1945, pieni di sollievo, gioia e speranza per la cacciata dei tedeschi dal suolo nazionale. Molti, poi, celebrano la Giornata della Memoria, il 27 gennaio, per rendere omaggio alle moltissime persone, di diverse etnie, uccise nei campi di sterminio e sepolte in fosse co-muni o cremate. Tra queste, oltre cinque milioni di ebrei. La data è stata scelta perché il 27 gennaio del 1945 l’Armata russa liberò il campo di sterminio di Auschwitz, luogo divenuto subito simbolo delle efferatezze compiute dalle S.S.: per gli Ebrei è il giorno della Shoha.La Repubblica italiana concesse a tutti i reduci dai lager la Croce di guerra al Valor militare e il titolo di “Volontari della Libertà”, perché, rifiutando di aderire alla repubblica mussoliniana di Salò, i 640.000 internati nei lager contribuirono a formare la resistenza passiva contro il duce.Il Governo, poi, nel 2006 attribuì ai reduci dei lager, sia a quelli ancora in vita che a quelli morti, la “Medaglia d’onore”, per sig-nificare il fatto che i soldati italiani deportati in Germania hanno manifestato apertamente la loro volontà di volere una Patria libera e democratica, come, sul suolo italiano, hanno fatto i Partigiani.

Punizione bestiale dei nazisti, che pretendevano anche la presenza degli altri prigionieri, per dimostrare come venivano trattati i disobbedienti.