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Gli Italiani - il meglio di - dal 28 settembre al 3 ottobre 2010

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Newsletter 28 settembre/ 3 ottobre 2010

IL MEGLIO DELLA SETTIMANA

La fine di un ciclo? No-B-Day2, fra vecchia politica e slogan da osteriaE ancora: Grillo e dintorni, No Ponte, la politica dei palazzi e la guerra “calda” fra Fini e Berlusconi, la nuova Dc, P3, i giornalisti minacciati, allarme sale parto, elezioni e colpi di

stato falliti in America latina, territori e lavoro. E tanto e tanto altro ancora

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2 28 settembre/ 3 ottobre 2010

La fine di un ciclo? No-B-Day2, fra vecchia politica e slogan da osteriadi Sebastiano Gulisano

Caro Popolo Viola,

un anno fa mi avete emozionato, oggi mi avete intristito.

Chi vi scrive – consapevole che un movimento è un soggetto assai composito e non monolitico – è un cittadino di 52 anni che di movimenti, dagli anni 70 in poi ne ha visti tanti, molti ne ha attraversati, vissuti, partecipati e qualcuno, da giornalista, l’ha anche raccontato. Ma lasciamo stare il giornalista, oggi c’ero da cittadino, come un anno fa; da cittadino stufo – e non da ora – di questo ceto politico. Pensate che ho aderito persino al primo V-Day di Grillo: sebbene detesti il personaggio, sentivo il bisogno di gridare un liberatorio «vaffanculo» e mi sono aggregato.

Oggi mi è sembrato di essere ancora al «vaffanculo», come se questi tre anni fossero trascorsi inutilmente. Oggi ero a disagio in un corteo che aveva come parole d’ordine «Berlusconi pezzo di merda» e «chi non salta Berlusconi è». Certo, qua e là ho anche sentito «dimettiti», «resistenza resistenza» «uno due tre dieci cento passi» «l’Italia è nostra e non di Cosa Nostra» e persino «la Costituzione non si tocca, ce la riprenderemo con la lotta». Ma il leit-motif era, appunto, «Berlusconi pezzo di merda». Deprimente.

Così com’è deprimente ritrovarsi dal mezzo milione dell’anno scorso ai cinquemila di oggi. E, forse, altri cinquemila andati direttamente a San Giovanni. Ma sono di manica larga. Parimenti deprimente è vedere Di Pietro e i suoi seguaci ripetere il giochetto di un anno fa, abbandonare il corteo dopo un pezzo di strada e precipitarsi a San Giovanni per andarsi a piazzare sotto il palco. Piccinerie di chi va in cerca delle telecamere. Peccato che le telecamere fossero alle loro spalle e hanno dovuto ammainare le bandiere per consentire le riprese televisive.

Ero triste, oggi, e lo sono ancora. Perché oggi ho toccato con mano il fatto che vi siete fatti contagiare dalla stessa malattia che caratterizza le

opposizioni che ho conosciuto da quando ho un minimo di coscienza: la divisione. Divisi prima della manifestazione – una parte di voi ha scelto un’altra data – e divisi nel corteo, con un’altra parte che ne ha conquistato la testa, posizionandosi davanti al cordone dell’inutile servizio d’ordine (termine obsoleto, lo so, ma continuo a chiamarlo come allora) per rimarcare non ho capito quale diversità. Ho provato a chiederlo a uno dei vostri leader (?), ma mi ha risposto, contro ogni evidenza, che non c’era alcuna divisione. Non ho insistito e non ho provato con altri, ché se quello con cui ho parlato, col quale ci conosciamo da una ventina d’anni, m’ha risposto a quel modo, figurarsi come m’avrebbe risposto chi non mi conosce.

Da cittadino, prendo atto delle divisioni e di quello che mi pare anche l’esaurimento di un ciclo iniziato un anno fa.

Certo, oggi c’era anche fantasia, nel corteo, musica, allegria, colori e tanta speranza, voglia di futuro. Di un futuro senza Berlusconi e la sua cricca. Però, scusate se mi permetto, non è con slogan da osteria e divisioni da vecchia politica che il futuro sarà migliore.

Con affetto

2 ottobre 2010

Questa mattina mi son svegliato e ho trovato la Dc. E altre storiedi Pietro Orsatti

Casini, Fini e Rutelli. Per ora. E qualcosa di più di un ammiccamento da quei giovanotti che si stanno agitando nel Pd. Senza poi parlare di Lombardo e dei suoi autonomisti (magari) del Mpa. Ecco disegnata la probabile futura Dc, che si chiamerà Centro, o grande Centro, o Centrino fate voi. Ma manca un dettaglio. Il neo potere padronale. Quello fintamente liberal di Marchionne che politicamente si materializzerà, è solo una questione di tempo, in Luca Montezemolo. Ma Luca Cordero è pronto, da tempo. Sta solo aspettando il momento giusto (e i segnali li sta lanciando) e arriverà. Non temiamo. Ieri i primi tre (Casini, Rutelli e Fini) si sono visti in azione al meeting “Security, Development and Democracy”, promosso dall’Alliance of Democrats. Primo incontro, grandi sorrisi, Rutelli e Casini in grande

spolvero. Se sono rose fioriranno. Lo dice anche Fioroni. Che lo sappia Walter? Intanto in Sicilia si sperimenta, attorno all’ennesimo governo Lombardo, con un pezzo di Udc senza Cuffaro, i finiani, il Pd e quel pezzo di ex-Pdl che fa riferimento a Micciché che nell’isola tutti sanno essere alleato di Dell’Utri. Esordio con visita della polizia alla redazione della testata giornalistica Sud, per una controllatina ai contenuti dell’ennesima puntata (attesissima) dell’inchiesta sugli affari del governatorissimo Lombardo. Si, è proprio la vecchia Diccì. Una nuova, fino a un certo punto, Balena Bianca che tutto contiene e tutti garantisce. Esultano i nostalgici dorotei.

Ma andiamo a raccontare altre storie. Mento polverose. Sorvolando sugli abituali crolli di credibilità del nostro premier che continua a raccontare barzellette sconce e blasfeme, attaccare i giudici, fare battutacce razziste, etc etc. Parliamo di roba seria, che ci tocca.

Oggi a Messina una grande manifestazione di popolo contro il Ponte sullo Stretto. Chiedono che i soldi per questa faraonica inutilità vengano destinati alla difesa e messa in sicurezza del territorio. Un territorio che frana, che non ha infrastrutture e servizi. Chiedono civiltà, quelli che oggi urleranno No al Ponte. Sacrosanto.

E sempre oggi No B Day 2 a Roma, con una coda di scazzi che non ci piace per nulla. Polemiche interne al movimento, accuse incrociate, personaggi come Paolo Flores D’Arcais, che molto sostenne il Popolo Viola, che si sfila. Una roba che non ci piace e che, peggio, fa preoccupare. Alla manifestazione ci saremo, la racconteremo. Per rispetto alle migliaia di persone che verranno a Roma spinti dalla necessità di dichiararsi contro questa italietta volgare e furba che ci ha regalato il berlusconismo. Non certo, però, per chiudere gli occhi su veti incrociati e gli incrociati settarismi che sembrano caratteriizare questa nuova edizione del movimento.

Qui è necessario ragionare, e di corsa, su quello che sta succedendo. Perché il rischio è di mandare all’aria il lavoro di migliaia di persone per bene che stanno cercando di rimettere in piedi un senso diffuso di civiltà in questo Paese. Un lavoro che rischia di essere mandato in malora. Non siamo davanti a “un primo scazzo” occasionale, superato, superabile. Siamo davanti all’ennesimo episodio di scontro devastante e non più occultabile. La cosa va affrontata. Ora.

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Cerco di spiegarmi. Di episodi simili, con veti incrociati, accuse, polemiche, litigi, negli ultimi mesi se ne sono verificati troppi. Ne ricordo uno a luglio (e subito prima, purtroppo) in occasione dell’anniversario dell’attentato di via D’Amelio e della manifestazione a Palermo delle Agende Rosse. Da quella manifestazione molta gente si è allontanata con la bocca amara. Troppi litigi, troppi protagonismi, troppo settarismo. “Noi e loro”. Così. Senza l’ascolto, il dibattito, il confronto e il patto fra simili anche se diversi. Le famose “pettorine” del movimento ostentate quasi come una divisa, come a dire “noi siamo le Agende Rosse, solo noi” e quel brav’uomo, e amico, di Salvatore Borsellino a cercare di limare uno scontro prima larvato e poi spesso palese che ha solo un nome e una definizione. Settarismo. L’appartenenza che diventa protagonismo. Spesso con l’urlo, l’accusa, l’esclusione. Tutto il contrario di quello che dovrebbe essere un movimento aperto (questo da sempre il desiderio di Salvatore) e democratico.

E in molti zitti, a cercare di tenere sotto traccia questa metodologia discriminante. Escludente. Per non creare problemi a un sacrosanto movimento di opinione che chiede Verità e Giustizia. Ma che è un modo di fare diffuso e in esponenziale crescita. Anzi, è un metodo. Un metodo di fare politica dal basso creando immediatamente micro nuclei di potere contrapposti. E urlanti.

Un metodo che ha un’origine. L’esasperazione della solitudine. Un’esasperazione nata dallo svuotamento della partecipazione politica. Dalla distanza indiscutibile che c’è fra politica e popolo, fra cittadino e rappresentanza. E quando non si ha più abitudine e prassi politica e democratica chi urla più forte e chi ha più muscoli occupa tutto lo spazio possibile.

Di questo metodo, dello strillo sordo e del settarismo escludente, c’è chi ne ha fatto uso scientifico e teoria in questi anni. Basti guardare ai commenti, agli attacchi, alle accuse e agli insulti e ai toni utilizzati dai tanti urlatori (della Rete e no) del movimento di Grillo nei confronti di chiunque non si unisca al coro o abbia dubbi, cerchi di capire. O si “osanna” il “leader spirituale” (la definizione non è mia) o si è immediatamente catalogati come nemico e come tale trattato. Il “vaffa” urlato, la negazione dell’altro (“io sono vivo tu sei morto”) e il rifiuto del confronto sociale e politico (“io sono oltre”). Un mix devastante di populismo e totalitarismo camuffato da democrazia diretta. Senza neanche sapere cosa sia,

anche lontanamente, la democrazia diretta o rappresentativa. Con la democrazia, appunto, e il dibattito ridotti a chi urla più forte. E chi non si unisce al coro si ritrova a fare la lepre nella caccia alla volpe. Se poi uno va a guardare i programmi (e quindi l’oggetto dello “strillo”) si trova davanti a una stringata lista della spesa che vede tutti d’accordo. Perché parziale e buonista, superficiale e utopica. E soprattutto banalizzata. “Bene comune”. Ormai è la parola d’ordine. Ma capiamoci bene di che cosa si tratta. Cosa è “Bene” e soprattutto che cosa si intenda per “Comune”.

Spero davvero che oggi ci sia tanta gente sia a Messina che a Roma. Gente che non si è autonominata chierichetto. Che è lontana da questi metodi e scazzi. Lo spero davvero, anche perché comincio davvero ad allarmarmi. Perché mentre assistiamo all’agonia di Berlusconi, ma non del berlusconismo, già vediamo quello che si sta preparando per il nostro futuro. E ha la forma di una paciosa e terribile Balena Bianca.

Buone manifestazioni a tutti e soprattutto impedite che ci siano guru e urlatori professionisti che coprano la vostra voce.

2 ottobre 2010

Grillo e la scuola. Quasi quasi, Gelli…di Michele Maggino – MEGACHIP.

La manifestazione di Cesena del 25 e 26 settembre 2010 promossa da Beppe Grillo e dal suo movimento è stata un grande successo. Qualcuno ha parlato di entrata diretta nell’arena politica da parte di Beppe Grillo. In realtà chi, come me, segue le mosse di Grillo da molto tempo, sa benissimo che il Movimento 5 Stelle è nato come movimento politico nel significato più autentico del termine, un movimento che vuole agire sulla realtà che ci circonda per modificarla. E il Movimento 5 Stelle non è certo nato il 25 settembre 2010.

In effetti devo dire che seguo Grillo da molto tempo: a parte gli inizi da comico (famosa la sua battuta sui socialisti in Cina che gli costò cara…), ho seguito i suoi spettacoli posteriori alla sua cacciata dalle televisioni, quegli spettacoli che apparivano ed erano veri momenti di rottura con il linguaggio e i temi che passavano (a passano tuttora…) nella “scatoletta incantafessi” (era così che mia nonna definiva la televisione già più di 30 anni fa).

Ho seguito Grillo da quando spaccava i computer sul palcoscenico fino a quando ha cominciato invece a magnificare le doti e le possibilità di internet.

La lettura dei suoi commenti sul suo sito rappresenta per me un obbligo quotidiano nonché un piacere. A chi, come me, da adolescente negli anni ’70 del secolo scorso, parlava e trattava argomenti come l’energia solare (qualcuno ricorda le prime spillette del “sole che ride”?) si apre il cuore a sentire parlare Grillo di ambientalismo vero, concreto. Tutto questo per dire che, se devo rivolgermi una critica preliminare, forse nel considerare il cosiddetto “fenomeno Grillo” io parto da un pre-giudizio positivo.

Ecco allora che nel suo post del 26 settembre 2010 (“SIAMO VIVI! SIAMO VIVI! SIAMO VIVI!”) leggo: «Il movimento coincide con le sue proposte, con le sue azioni, con il suo programma. Chi dice che facciamo proteste e non proposte è in malafede o un imbecille inconsapevole». Aria nuova! Linguaggio diretto, semplice! Finalmente!

Ora, io sono un modesto e umile maestro elementare (oggi si dice: docente di scuola primaria) e sono nel mondo della scuola, come insegnante, da quasi 30 anni. La scuola è stata ed è la mia vita (professionalmente parlando): credo di conoscere molto bene tutte le sue varie sfaccettature: dagli aspetti filosofico/pedagogici, alle problematiche didattico/metodologiche, ai temi di natura politico/amministrativa, alle piccole questioni di pratica quotidiana. Mi è allora sorta spontanea una curiosità: il Movimento 5 Stelle che cosa propone al riguardo? Su un tema così fondamentale (e ripeto fondamentale) per il futuro di una nazione, un movimento politico non può non avere le idee chiare; un movimento poi che vuole cambiare lo stato delle cose esistente deve per forza avanzare delle proposte concrete inserite in un quadro più generale lucido e di spessore.

Il PROGRAMMA DEL MOVIMENTO 5 STELLE c’è già: c’è un continuo richiamo da parte di Beppe Grillo a leggerlo e diffonderlo. È chiaro che non è un programma definitivo: è, immagino, una prima piattaforma e come tale lo considero, ovvero una prima solida base a cui eventualmente aggiungere altri elementi. E allora, andiamoci a leggere il programma del Movimento 5 Stelle relativo all’Istruzione (è proprio questo il termine usato come titolo nel testo del programma).

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Per cominciare, vedo che è riassunto in 13 punti. Benissimo, mi dico. Massima sintesi, poche parole ma chiare: dopo i programmi mastodontici ed enciclopedici del Partito Democratico ci voleva un po’ di semplificazione! Quindi passo a leggere i contenuti e a questo punto tutto il mio slancio positivo subisce una brusca battuta d’arresto.

La partenza è sicuramente un po’ banale: “Abolizione della legge Gelmini”. D’accordo, sono d’accordo, ma non considero questo un punto fondante per costruire qualcosa di nuovo. Mmm, partenza con un orizzonte un po’ ristretto. Comunque, procediamo: “Diffusione obbligatoria di internet nelle scuole con l’accesso per gli studenti”; “Graduale abolizione dei libri di scuola stampati, e quindi la loro gratuità, con l’accessibilità via internet in formato digitale”; “Insegnamento a distanza via internet”; “Accesso pubblico via internet alle lezioni universitarie”. Credo di aver capito: sintetizziamo questi quattro punti con una sola parola: Internet.

Andiamo avanti: “Insegnamento obbligatorio della lingua inglese dall’asilo”: in realtà si tratta di una proposta minima poiché l’inglese si insegna già obbligatoriamente come seconda lingua a partire dalle scuole primarie; si tratterebbe quindi di estenderlo solo alla scuola dell’infanzia (o forse all’asilo nido, non si capisce). Comunque, sintetizzo anche qui con una sola parola: Inglese.

Altro punto: “Integrazione Università/Aziende”. Ci sono: possiamo usare nuovamente una sola parola: Impresa.

A questo punto mi fermo un attimo: abbiamo già superato la metà del programma (7 punti su 13) ed ecco che mi assale un vago, spiacevole, fastidioso senso di déjà vu. Internet, Inglese, Impresa.

Sì, vi è tornato in mente anche a voi? Il programma/slogan di qualche anno fa di Forza Italia: le famose tre I!

Sono preso da un certo sconforto e scoramento … ma non demordo. Proseguo. Sicuramente, penso, il discorso si farà, come dire, più pregnante. Altro punto: “Risorse finanziarie dello Stato erogate solo alla scuola pubblica”. Oh, finalmente! Grande! Però, in effetti, non mi sembra ci sia niente di nuovo: credo di aver letto qualcosa di simile in un testo poco conosciuto e poco diffuso di questi tempi, mi sembra si intitoli: “Costituzione della Repubblica Italiana”. Comunque è bene averlo ribadito.

Mi sono un po’ ripreso. Posso allora proseguire nella lettura del programma. “Valutazione dei docenti universitari da parte degli studenti”; “Insegnamento gratuito della lingua italiana per gli stranieri (obbligatorio in caso di richiesta di cittadinanza)”; “Sviluppo strutture di accoglienza per gli studenti”. Anche qui, mi sembra che siano punti minoritari per chi vuole cambiare il mondo (o per lo meno la scuola): tra l’altro sono cose che in parte già si fanno.

Un ulteriore sconforto mi prende alla lettura del decimo punto: “Investimento nella ricerca universitaria”. È da quando ho il lume della ragione (o almeno così credo) che sento parlare i politici di tutte le “razze” (cosiddetta destra e cosiddetta sinistra, cosiddetta maggioranza e cosiddetta opposizione, al governo o no) di aumentare gli investimenti nella ricerca universitaria. Insomma: dov’è l’analisi sferzante, dove sono le proposte concrete, nuove, rivoluzionarie del Movimento 5 Stelle? Mi cascano le braccia! Ma devo reggermi forte, perché devo arrivare all’ultimo punto del programma, questa sì, finalmente, una proposta forte, di spessore, direi quasi letteralmente nevralgica, che può scalfire il sistema: “Abolizione del valore legale dei titoli di studio”.

Prima ancora, però, di cominciare ad analizzare la proposta (è positiva? è negativa?), mi assale nuovamente un senso di malessere, di fastidio, di … déjà vu (sì, le stesse sensazioni di prima). Ma chi avanzava, già in tempi non sospetti, questa proposta? Non ho una grande memoria, eppure anche stavolta un lampo mi illumina: “PIANO DI RINASCITA DEMOCRATICA”: sì, certo, proprio quello, il piano della Loggia Propaganda 2 di Licio Gelli! Vado a controllare: Sezione Programmi, Punto b1: “Abolizione della validità legale dei titoli di studio”.

Come un Barbapapà, rimango … di stucco: c’è forse un barbatrucco?

La base solida del programma del Movimento 5 Stelle che riguarda il rinnovamento di un settore vitale per la società, qual è quello della scuola, della formazione, dell’istruzione, è costituita da una serie di ovvietà, di proposte di piccolo cabotaggio, dalle famose tre I di Berlusconi e da un punto forte già avanzato dalla P2 di Gelli!!! Che delusione!

Certo, sul blog di Grillo ho letto qualcosa (qualcosina…) di più interessante, ma resta il fatto che il Movimento 5 Stelle (non chiamiamolo

partito…) propone come base di programma per la scuola quello che abbiamo appena visto.

C’è pur sempre una via di uscita, una prospettiva che ci fa intravedere lo stesso Grillo (sempre da: “Siamo vivi! Siamo vivi! Siamo vivi!” del 26 settembre 2010): «Gli iscritti potranno creare una lista civica, proporre un candidato e in futuro modificare il programma in stile Wikipedia». Ci risiamo, penso, con questa idea un po’ fissa di internet! Modificare il programma in stile Wikipedia??? E che cosa ne verrà fuori? Siamo proprio sicuri che cambiare la realtà sia come cambiare una voce su un’enciclopedia via internet? Però, a ben pensarci, quasi quasi, perché no? Potrei sempre iscrivermi al Movimento 5 Stelle e cambiare il programma (in futuro, mi si dice), magari potrei aggiungere questo punto: «Riforma della scuola – Selezione meritocratica – borse di studio ai non abbienti – scuole di stato normale e politecnica sullo stile francese».

Ho appena semplicemente citato il punto b.12 della sezione “Medio e lungo termine” del “Piano di rinascita democratica” della P2, quello di prima. Mi viene quasi quasi da pensare che questa proposta della P2 sia più avanzata del programma del Movimento 5 Stelle. Ma questi sono davvero cattivi pensieri!

Sarà meglio che torni a correggere i compiti di matematica dei miei alunni!

1 ottobre 2010

Diecimila No Ponte a Messinadi NoPonte.it

Nei giorni scorsi abbiamo assistito al rimpallo di responsabilità tra governo centrale, Protezione civile e poteri locali sui ritardi nella messa in sicurezza dei luoghi colpiti dalle alluvioni e dalle frane dell’uno ottobre 2009. Si tratta dello stesso deprimente scarica-barile di responsabilità cui abbiamo assistito subito dopo gli eventi calamitosi. Si tratta di un modello già sperimentato per nascondere l’assenza di una reale volontà di intervenire con investimenti adeguati.

Ad un anno di distanza dalla tragedia di quel 1. ottobre, insomma, il rischio, per chi abita in quelle zone rimane alto, così come incerto è il futuro per larghe parti del territorio siciliano e calabrese

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caratterizzate da un’accentuata fragilità dal punto di vista idrogeologico.

Sono questi i motivi per i quali abbiamo ritenuto importante manifestare in corrispondenza dell’anniversario di quella notte terribile, sebbene il timore di accodarsi all’ipocrisia istituzionale cui abbiamo assistito nelle scorse ore fosse forte.

Abbiamo, però, dato, al nostro corteo il tono della rabbia e dell’indignazione piuttosto che quello del cordoglio e del lutto che rimangono ambiti intimi che appartengono per intero a chi in una notte ha perso tutto ciò che aveva.

Quella rabbia e quella indignazione si sono tradotte in un fiume di persone che ha invaso le strade di Messina per chiedere che si ponga fine allo sperpero di risorse pubbliche per trivellazioni, progetti e progettini.

Mentre non ci sono i soldi per mettere in sicurezza chi rischia la vita ad ogni scroscio di pioggia, infatti, si manda avanti un iter del ponte che vede impegnati per il futuro 1,3 miliardi di euro di fondi Fas, centinaia di milioni di euro per la ricapitalizzazione della Stretto di Messina Spa, un canone di 100 milioni annui per 30 anni che Rfi dovrà versare per poter consentire il passaggio dei treni.

Tutte risorse pubbliche che andrebbero meglio spese, piuttosto che per una cantierizzazione senza operai, per interventi di cura del territorio e dell’ambiente urbano, per il potenziamento del trasporto pubblico nello Stretto, per l’ammodernamento del sistema viario, per il rifacimento delle condotte dell’acqua e la gestione pubblica come bene comune non alienabile, per l’allestimento dei servizi essenziali fondamentali in ogni territorio (a partire da quelli sanitari), per investimenti nella scuola pubblica (a partire dalla messa in sicurezza degli edifici scolastici).

Le mappe rese pubbliche dalla Stretto di Messina Spa nelle scorse settimane, peraltro, segnalano chiaramente discariche poste in aree d’impluvio sulle colline messinesi già così fragili.

I lavori del Ponte possono, quindi, non solo impedire, attraverso lo sperpero di denaro che da essi deriva, la mancanza di risorse per interventi realmente utili, ma rischiano di causare essi stessi eventi tragici come quelli cui abbiamo assistito negli scorsi anni.

Le dimensioni e la determinazione del corteo di oggi, comunque, ci autorizzano a ritenere che sia possibile battersi perché si possa invertire la rotta.

Noi lo faremo. Noi andiamo avanti.

3 ottobre 2010

Cesareo o no? Ancora liti in sala partodi Marta Ragusa

Cesareo o non cesareo? È questo il dubbio su cui si arrovellano molte future madri e per il quale molti medici fanno a pugni, anche in presenza delle pazienti, anche dentro la sala parto, anche in situazioni critiche in cui bisogna prendere decisioni rapide. Dallo scorso agosto, data dello scandalo avvenuto presso il Policlinico di Messina, dove il piccolo Antonio è venuto al mondo conoscendone prestissimo la parte peggiore, si sono succeduti diversi episodi in cui dottori e dottoresse si sono accapigliati in sala parto, a discapito dei feti in procinto di nascere. L’ultima notizia giunge dagli Ospedali Riuniti di Bergamo dove a gennaio- ma si è saputo solo oggi- Samanta è nata cieca e totalmente invalida nonostante gli esami precedenti al parto non avessero registrato alcuna anomalia. La Procura di Bergamo ha recentemente aperto un fascicolo a carico di ignoti che dovrà accertare la denuncia del padre di Samanta, il quale afferma di avere assistito a una lunga lite fra due dottoresse che avrebbero poi lasciato la paziente per ben due giorni in sala travaglio in preda a dolori fortissimi. Le ragioni del presunto litigio sempre le stesse: cesareo o non cesareo? Ma perché tante polemiche su questo tipo di intervento? Oggi l’Italia è il paese in Europa che registra la percentuale più alta di tagli cesarei, il 38%, a dispetto del valore (15%) individuato come limite a garanzia del massimo beneficio per la salute di mamme e bambini dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1985. All’interno del territorio nazionale si registra, però, una forte variabilità regionale: si va dal 23% del Trentino al 62% della Campania. Nel 1865 in Gran Bretagna, l’85% delle pazienti alle quali veniva praticato il taglio morivano, oggi spesso (troppo spesso, secondo l’ ISS, Istituto Superiore di Sanità) le donne scelgono questo intervento (taglio cesareo elettivo) al parto naturale proprio perché lo ritengono più sicuro, meno doloroso. E altrettanto spesso sono gli stessi medici a consigliarlo alle donne in gravidanza, senza proporre alcuna

alternativa. Capita che il ginecologo o la ginecologa di turno chiedano alla paziente: “Allora, che giorno vogliamo far nascere questo bimbo?”. L’ISS ha così formulato una linea guida, accompagnata da un opuscoletto informativo, per sottolineare che taglio cesareo sì ma “solo quando serve”. Così molte mamme, oggi, riscoprono il privilegio di un dolore esclusivo: alcune decidono di partorire in acqua (operazione alquanto costosa); altre di partorire in casa, senza medici, attorniate solo dai propri cari; la maggior parte sul lettino di un normalissimo ospedale, assistite dal proprio rassicurante ginecologo, sempre che quest’ultimo non sia in ferie e sempre che ne abbiano pagato uno. Altrimenti il parto sarebbe nelle mani del caso e della litigiosità del medico di turno.

29 settembre 2010

Da Nord a Sud, la lotta politica non si fa attaccando i giornalistidi Marco Stefano Vitiello

Un uomo armato di una pistola, non si sa ancora se un’arma giocattolo, è stato sorpreso da un agente della scorta del direttore di “Libero”, Maurizio Belpietro. L’uomo è stato notato dall’agente che aveva appena accompagnato all’uscio di casa Belpietro, in un condominio del centro di Milano in via Monti di Pietà, mentre era sulle scale. Secondo quanto ricostruito, l’uomo, di altezza di circa un metro e 80, sui 40 anni, ha puntato l’arma verso l’agente, che è riuscito a ripararsi dietro una colonna del pianerottolo e ha poi sparato due colpi a scopo intimidatorio.

Un terzo colpo è stato poi esploso successivamente. L’uomo è riuscito a fuggire anche perché il condominio ha diverse uscite. Non sono state trovate tracce di sangue sul luogo. Sulla vicenda indaga la digos e la squadra mobile della questure di Milano.

“Non so che dire, la sensazione è che quella persona stesse aspettando il mio ritorno a casa. E se il mio caposcorta avesse preso l’ascensore per scendere, e non le scale, non so come sarebbe andata”. Maurizio Belpietro ha commentato così la

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vicenda della sparatoria avvenuta nel suo condominio ieri sera a Milano, dove uno sconosciuto ha puntato la pistola al suo caposcorta, che ha esploso tre colpi di arma da fuoco mettendolo in fuga.

Fin qui le notizie scarne ma precise e una riflessione si impone, altrettanto precisa.

Quale che sia l’opinione che ciascuno ha su Belpietro, sul suo modo di dirigere un quotidiano e sulle sue convinzioni politiche, è assolutamente inaccettabile ciò che è accaduto e non si può liquidare come il gesto di uno sconsiderato.

Da tempo, troppo tempo, la stampa e i giornalisti più in generale, sono diventati protagonisti attivi della vita politica italiana, in molti casi contravvenendo alla regola che li vorrebbe imparziali e indipendenti “cani da guardia della democrazia”.

Non è così, non lo è mai stato ma ciò che è accaduto ieri sera a Belpietro, così come il blitz della Polizia nella redazione di “SUD” (chiesto ed ottenuto dal presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa) per procedere ad un controllo preventivo del contenuto della testata durante la fase di redazione, prima della distribuzione e della stampa, ha superato ogni limite.

L’intimidazione e le aggressioni fisiche sono tipiche di regimi cari al Presidente Berlusconi (grande amico di Vladimir Putin, quasi certamente mandante dell’infame omicidio di Anna Politkovskaja) e rimandano ai tragici “anni di piombo” italiani, durante i quali furono assassinati o feriti i giornalisti “scomodi”, “fuori dal coro”.

Solo qualche giorno fa, il 23 settembre, veniva ricordato l’assassinio di Giancarlo Siani, il giovane cronista caduto sotto i colpi della camorra nel 1985 e, puntualmente, veniamo aggiornati da “Reporters Sans Frontieres” sul bollettino di morti e feriti che l’informazione in tutto il mondo subisce quotidianamente.

Non è il caso di fare speciose e sterili disquisizioni: il no alla violenza deve essere netto e chiaro, senza distinguo di sorta o possibili equivoci.

Il Paese sta attraversando una delicatissima e drammatica fase di tensione sociale e politica e a nessuno deve essere consentito di tornare indietro

a comportamenti, pensieri e azioni che ricaccerebbero l’Italia nella barbarie.

Mai come oggi, il diritto alla libertà di espressione e di informazione sancito dall’articolo 21 della Costituzione della Repubblica va ribadito con forza e determinazione:

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo di ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”

Tutto il resto appartiene a regimi totalitari che non devono trovare consenso, tacito o esplicito, in qualunque società che voglia definirsi civile

1 ottobre 2010

Il voto a marzo. Più di un’ipotesi?di Aldo Garzia

Si delinea un breve futuro per il governo Berlusconi nonostante il voto di ieri alla Camera. Un’ipotesi che non si fonda solo su indiscrezioni e

voci raccolte fra la maggioranza ma anche sui numeri. I 342 voti ottenuti alla Camera sulla richiesta di voto di fiducia non sono sufficienti a sgombrare le nubi sulla stabilità del governo. Il problema politico è che in quel risultato c’è l’apporto decisivo dei 35 deputati di Futuro e libertà (solo Mirko Tremaglia e Fabio Granata hanno votato no).

E’ dunque fallito il tentativo di ottenere una maggioranza autonoma dai finiani. Dopo il voto di ieri, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi temono di dover contrattare tutte le prossime mosse del governo con Futuro e libertà. I finiani sono invece soddisfatti per la centralità del loro ruolo. Stessa soddisfazione l’hanno espressa i 4 deputati del Mpa, il movimento del governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, che hanno votato a favore del governo.

Analizzando il voto di ieri, priva dell’apporto dei finiani (hanno votato sì in 31, dal gruppo va escluso il presidente della Camera che per prassi non vota) e del Mpa la maggioranza può contare su 307 voti: 9 in meno di quello che era l’obiettivo della vigilia.

In serata il premier ha espresso le sue perplessità nel corso di un incontro a Palazzo Grazioli con un gruppo di deputate del Pdl che  hanno festeggiato con lui il suo settantaquattresimo compleanno. Berlusconi ha colto l’occasione per segnalare la contraddizione in cui si trova la maggioranza dopo il voto di Montecitorio: c’è l’esigenza di portare avanti l’azione di governo ma i numeri non sono tali da garantire una tranquilla navigazione.

Il primo a segnalare la questione subito dopo il pronunciamento dell’Aula di Montecitorio era stato Bossi: “I numeri sono limitati. La strada è stretta. Nella vita è sempre meglio pigliare la strada maestra, e la strada maestra è il voto. Berlusconi non l’ha voluto e siamo a questo punto”. Anche il ministro Roberto Maroni, in un colloquio informale con Nichi Vendola, leader di Sinistra e libertà, era tornato a parlare di elezioni anticipate da tenersi in primavera.

Oggi è intanto prevista una riunione dei capigruppo di Montecitorio che dovrà decidere il calendario dei lavori della Camera per le prossime settimane. Due le date da fissare: quella della discussione della mozione del Pd che propone di sfiduciare il ministro Bossi per una frase ritenuta ingiuriosa nei confronti dei cittadini di Roma e quella del dibattito su una mozione  riguardante il pluralismo nel sistema radiotelevisivo e il conflitto

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di interessi presentata da Pd, Idv, Udc e Gruppo Misto (un’altra mozione, sullo stesso tema, è annunciata dai finiani). Si tratta di due scogli immediati da superare per la maggioranza.

A preoccupare Berlusconi e Bossi è anche l’annuncio che i finiani hanno deciso di accelerare i tempi del varo del loro nuovo partito. Ieri, in una pausa del dibattito alla Camera, i finiani hanno infatti annunciato che martedì prossimo si riuniranno deputati, senatori e parlamentari europei di Futuro e libertà “per costituire il comitato promotore del nuovo soggetto politico”. All’incontro parteciperà anche Fini.

Carmelo Briguglio, Fli, esalta il ruolo del proprio gruppo: “Il presidente del Consiglio ha dovuto prendere atto in Aula che Futuro e libertà c’è, si è conquistato il suo spazio e ha creato un’intesa politica e programmatica con l’Mpa di Lombardo, essenziale per l’esistenza stessa della maggioranza di governo. Il risultato del voto ha detto agli italiani che senza di noi non ci sarebbe più questo governo”.

L’opposizione segnala l’indebolimento politico del governo. Dice Pier Luigi Bersani, segretario del Pd: “La maggioranza si è articolata in quattro componenti che non sono riuscite neppure a firmare assieme la mozione di fiducia. Siamo, a dirla con una formula teologica, a una situazione di unità nella diversità. Andiamo incontro ad un passaggio di ulteriore instabilità”.

Stessa opinione quella di Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc: “Con i numeri abbiamo visto che Berlusconi proprio non ci ha preso. Speriamo che almeno sulle promesse che ha fatto in Aula sappia dimostrare un po’ più di capacità e di concretezza”.

Oggi il dibattito sulle indicazioni programmatiche del governo si replica al Senato, dove la maggioranza ha numeri più ampi e i finiani non sono decisivi per la stabilità dell’esecutivo.

30 settembre 2010

Ora dopo ora il fallito golpe in EcuadorE’ fallito il tentativo di golpe da parte di alcuni reparti dell’esercito e della polizia in Ecuador. Ieri

la protesta contro i tagli ai benefici fiscali della forze dell’ordine era sfociata in un assedio al Parlamento, nella capitale Quito, con il ferimento del presidente Rafael Correa. Il capo dello Stato era poi stato tenuto sotto sequestro per dodici ore nell’ospedale dove aveva trovato rifugio.

Nella notte, un blitz dell’esercito gli ha restituito la libertà permettendogli di riassumere in pieno le sue funzioni. Quella per la sua liberazione è stata una vera e propria battaglia nel corso della quale due poliziotti hanno perso la vita e trentasette persone sono rimaste ferite e quella che segue è la cronaca dei fatti ora dopo ora, fino alle dimissioni del capo della polizia, nel primo pomeriggio di oggi.

02:01 > Un gruppo di poliziotti che ha preso parte alla rivolta contro il presidente Rafael Correa ha cercato di interrompere le trasmissioni di due reti tv pubbliche di Quito. Lo hanno reso noto i presentatori di entrambe le reti, Gama Tv ed Ecuador Tv, precisando che “elementi della polizia nazionale stanno cercando di impedire l’emissione del nostro segnale”. I poliziotti hanno cercato di “tagliare i cavi dell’elettricità” e c’è stato un tentativo di danneggiare le antenne della stazione tv, ha aggiunto un cronista.

02:38 > Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, si è detto “molto preoccupato” dalla situazione in Ecuador e ha confermato il suo sostegno al presidente Rafael Correa, vittima di un tentativo di colpo di Stato. “Il segretario generale – ha riferito un portavoce dell’Onu – è anche preoccupato dell’incolumità fisica di Correa e chiede a tutti gli attori in campo a intensificare i propri sforzi per risolvere la crisi in modo pacifico, nel pieno rispetto della legge”.

03:57 > È di almeno 50 feriti il bilancio degli scontri a Quito tra poliziotti in conflitto con il governo ed attivisti vicini a Rafael Correa in corso in queste ore attorno all’ospedale dove si è rifugiato il presidente dell’Ecuador, che ha denunciato un tentativo di colpo di Stato. Lo rende noto la Croce rossa. Fonti del governo affermano inoltre che sono in corso accertamenti per verificare notizie che parlano di un morto nella città di Guayaquil.

04:17 > Il presidente ecuadoriano Rafael Correa sta lasciando l’ospedale di polizia dove era stato sequestrato in seguito a quello che aveva denunciato come un tentativo di colpo di Stato, dopo l’intervento dell’esercito che ha ingaggiato scontri a fuoco con gli agenti ribelli.

04:45 > Il presidente ecuadoriano Rafael Correa, appena liberato da un intervento dell’esercito dopo essere stato sequestrato da poliziotto ribelli, è arrivato al palazzo presidenziale di Quito, dove ad attenderlo c’erano centinaia di sostenitori.

04:55 > “È stato il giorno più duro del mio governo”, ha detto il presidente ecuadoriano Rafael Correa davanti alla folla che dalla notizia della sua liberazione lo attendeva in piazza Independencia, di fronte al palazzo presidenziale. “Non mi spavento facilmente, però vi assicuro che quando sono stato liberato e mi hanno detto che un ufficiale di polizia è morto, mi sono venute le lacrime agli occhi, non per la paura quanto per la tristezza di vedere come sia stato inutilmente versato sangue ecuadoriano”. Il presidente ha quindi chiesto un minuto di silenzio per le vittime degli scontri.

05:08 > Correa ha affermato che gli insorti non ci sarebbero stati “solo poliziotti, ma anche infiltrati di partiti politici” e ha detto di sperare che gli autori della rivolta “abbiano un po’ di coscienza e si rendano conto di ciò che hanno fatto”. “Come si possono definire poliziotti che si comportano così? Che lanciano gas lacrimogeni e pietre contro i civili?”, ha incalzato la folla Correa.

06:18 > La crisi in Ecuador è stata affrontata durante una riunione d’emergenza nella notte a Buenos Aires dall’Unasur, l’Unione delle nazioni sudamericane. La riunione è iniziata alle 5:30 ora italiana, alla presenza dei presidenti di numerosi paesi latinoamericani, tra i quali il cileno Sebastian Pinera, l’argentina Cristina Fernandez, il boliviano Evo Morales e il peruviano Alan Garcia, in attesa dell’arrivo del presidente del Venezuela Hugo Chavez e della Colombia Juan Manuel Santos.

A presiedere l’incontro è il segretario generale dell’Unasur, l’ex presidente argentino Nestor Kirchner.

11:07 > “Occorre aprire subito un autentico processo di dialogo”: è l’esortazione lanciata in un comunicato dai vescovi dell’Ecuador dopo il tentato golpe nel Paese. “Chiediamo al governo e al Parlamento – si legge nel documento, riportato dalla Radio Vaticana – di non imporre le loro decisioni in forma unilaterale, ma di aprire un autentico processo di dialogo che conduca ad una convivenza costruttiva e partecipativa”. I vescovi ricordano che le richieste di diversi settori della società, avanzate negli ultimi mesi, “sono sfociate in una ribellione” e rilevano con angoscia che i fatti di violenza che si sono registrati e che hanno

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coinvolto la persona del presidente, “seminano grave inquietudine in tutto il Paese”.

13:12 > Il premier spagnolo Josè Luis Zapatero ha detto oggi di avere chiamato la notte scorsa il presidente ecuadoriano Rafael Correa per trasmettergli l’appoggio della Spagna, quando il politico di Quito si trovava ancora sequestrato dalla polizia. “Il presidente Correa mi ha spiegato la dura e incredibile situazione nella quale si trovava”, ha raccontato Zapatero alla radio pubblica Rne, “ma mi ha anche assicurato che non si sarebbe arreso in nessun caso”. Il premier spagnolo si è anche complimentato per la “forza e l’integrità” dimostrata da Correa nella crisi e si è rallegrato per la sua liberazione. In un comunicato, il ministero degli Esteri spagnolo ha “condannato con fermezza, qualsiasi violazione della legalità costituzionale” ed ha reiterato “l’appoggio al governo legittimo e alle istituzioni democratiche dell’Ecuador”.

14:14 > Il capo della polizia dell’ Ecuador, Freddy Martinez, ha rassegnato le dimissioni per non essere riuscito a fermare la ribellione dei poliziotti e il tentativo di golpe. Lo dice un portavoce della stessa polizia.

1 ottobre 2010

L’America latina di Inés Cainer. Con gli occhiali della “rivoluzione”di Marta Ragusa

America latina è l’obiettivo di Inés Cainer, singolare scrittrice e giornalista argentina, in Italia (terra d’origine di padre e madre) ormai da 26 anni. Da qualche anno vive a Palermo, il cui disordine le ricorda piacevolmente la patria d’oltreoceano. Ma forse è improprio parlare di “patria” visto che per Inés la “patria è la terra, ovunque mi trovi e tutti gli esseri umani sono i miei compatrioti”. Altrimenti detti “compagni”. Il credo di questa variopinta viaggiatrice, incontrata ieri sera presso il centro culturale Biotos di Palermo, è infatti inequivocabile: “Sono di sinistra” dice, “e sono rivoluzionaria”. I suoi viaggi a Cuba, la profonda venerazione per Fidel Castro, le permettono di mostrarci fieramente l’ultimo libro scritto dal leader cubano, arrivatole direttamente da Cuba. Un “mattone” di circa 3 kg

di peso in cui spicca una considerevole quantità di pagine dedicate a vecchie fotografie che ritraggono Fidel da giovane, insieme ai suoi storici compagni di rivoluzione. Fra tutti, il “Che”. Sul comandante Ernesto Guevara, Inés stessa ha scritto parecchio: è recente un articolo pubblicato sul quotidiano cubano “El Granma”, che racconta l’ultimo atto della vita del “Che”. L’articolo è il racconto di un viaggio in Bolivia che è servito da spunto anche per il suo ultimo libro, “Cammino a La Higuera”. Quello che Inés ritrae nei suoi racconti o nei suoi resoconti di viaggio è soprattutto la vita della gente comune che vive in paesi da sempre fortemente provati dalla conquista europea e dallo sfruttamento delle risorse locali da parte delle multinazionali. Dalle sue parole che rievocano i ricordi di numerosi tour in Messico, Guatemala, Paraguay, traspare commozione, compassione, rabbia centrifugata ma pacificata in una intatta fede in un comunismo salvifico del mondo. L’immagine dell’America latina che si intravede nei numerosi suoi scritti è a tutto tondo, le cui complesse e variegate esperienze politiche e sociali vengono tradotte nell’unica fotografia di un paese che piange in attesa di essere redento da tipi alla Chávez. Un’immagine che appare assai parziale e troppo semplificata.

30 settembre 2010

Il Brasile al voto: biografie dei candidati in lizzadi Carlo Cauti*

Il 3 ottobre i cittadini brasiliani si recheranno alle urne per eleggere il successore del Presidente Luiz Inacio Lula da Silva. I tre principali candidati alla carica di uomo più potente dell’America Latina sono l’ex ministro della Casa Civil, Dilma Rousseff, del Partito dei Lavoratori – PT, delfina del Presidente Lula e attualmente favorita nei sondaggi; l’ex governatore dello Stato di Sao Paulo, José Serra, per il Partito della Social Democrazia Brasiliana – PSDB, figlio di emigranti italiani ed esule politico durante la Dittatura Militare e l’ex ministro dell’Ambiente, Marina Silva, candidata outsider per il Partito Verde – PV.

Il Sistema Costituzionale Brasiliano

Il Brasile è una repubblica federale e presidenziale, una formula scritta nella Costituzione Federale elaborata nel 1988, poco dopo la fine della

Dittatura Militare, durata dal 1964 al 1984, e confermata attraverso un referendum nel 1993. L’organizzazione dello stato rispecchia la divisione “montesquieana” dei tre poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario. La Costituzione brasiliana presenta aspetti molto simili a quelli della Costituzione degli Stati Uniti d’America.

La Repubblica è un’Unione di 26 Stati, dotati di ampia autonomia politica e amministrativa, garantita dalla Costituzione Federale. Ogni Stato ha il potere di promulgare la sua propria costituzione ed è amministrato da un Governatore eletto attraverso voto diretto per un mandato di quattro anni rinnovabile una volta sola.

Potere Esecutivo

L’esercizio del potere esecutivo è assegnato al Presidente della Repubblica, che svolge le funzioni di Capo di Stato e di Governo. Il mandato presidenziale è di quattro anni, con la possibilità di essere rieletto una volta sola. Il Presidente governa insieme al suo Gabinetto di ministri e sottosegretari, nominato personalmente ed esclusivamente da lui, e senza alcuna interferenza da parte del Congresso Nazionale.

Lula non può più candidarsi, essendo stato eletto nel 2002 e confermato nel 2006. Questa sarà quindi la prima volta dal 1989 – dopo cinque tornate elettorali – che l’ex leader sindacale non si candiderà alla Presidenza della Repubblica.

Potere Legislativo

Il potere legislativo è prerogativa del Congresso Nazionale, ed è esercitato dalla Camera dei Deputati e dal Senato Federale. Ogni Stato dell’Unione è rappresentato da tre senatori e da un numero di deputati proporzionale alla sua popolazione. Il mandato dei senatori è di otto anni, quello dei deputati è di quattro anni. Ogni quattro anni si svolge un’elezione che rinnova alternativamente 1/3 e 2/3 del Senato.

Il 3 ottobre oltre ad eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, i brasiliani saranno chiamati a rinnovare tutti i seggi della Camera e 2/3 di quelli del Senato.

Potere Giudiziario

Il potere giudiziario in Brasile è diviso in quattro settori: giustizia comune, giustizia del lavoro, giustizia elettorale e giustizia militare, ognuno con un proprio tribunale specifico. Sono previsti tre gradi di giudizio. Il Supremo Tribunale Federale,

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istanza massima del potere giudiziario, delibera sulle questioni pertinenti al diritto costituzionale, ed è composto da 11 ministri nominati dal Presidente della Repubblica e approvati dal Senato.

La Legge Elettorale

Il Presidente della Repubblica viene eletto direttamente dal popolo attraverso un sistema elettorale a doppio turno. Nelle elezioni di quest’anno, se nessuno dei candidati riceverà più del 50% +1 dei voti validi, il secondo turno avverrà il 31 ottobre.

I senatori vengono eletti attraverso un sistema maggioritario, i deputati attraverso un sistema proporzionale. Il voto è segreto e obbligatorio, pena il pagamento di una multa e la perdita temporanea del diritto di voto, per tutti i cittadini brasiliani tra i 18 e i 65 anni, e facoltativo per gli analfabeti, le persone con più di 65 anni e i giovani di 16 e 17 anni.

I Programmi dei Candidati

Il dibattito elettorale in Brasile è sempre stato centrato più sulla personalità e sulla biografia del candidato alla Presidenza che sul suo programma elettorale. Nei dibattiti televisivi svoltisi in Brasile nelle ultime settimane i candidati non hanno mai esposto un programma organico e politicamente orientato, ma hanno sempre risposto a domande precise e molto specifiche su come risolvere i singoli problemi che affliggono il Brasile.

A differenza di quello europeo-continentale o anglo-sassone, il panorama partitico brasiliano non è caratterizzato da forti differenze ideologiche. Il programma generale dei partiti è sostanzialmente molto simile: riduzione delle differenze sociali, crescita economica, controllo dell’inflazione miglioramento della sicurezza e dell’educazione. Inoltre, confermando una tendenza iniziata dalla metà degli anni ’90, tutti i principali candidati alla Presidenza provengono dalle fila di partiti di centro-sinistra.

Nemmeno sui siti internet ufficiali dei tre diversi candidati è presente un programma organizzato e definito. Sul portale di José Serra (HTTP://WWW.SERRA45.COM.BR) sono elencati pochi punti per ogni singolo argomento, come economia, esteri e sicurezza. Sul sito di Dilma Rousseff (HTTP://WWW.DILMA13.COM.BR) un comunicato stampa spiega che il programma di governo è ancora in fase di discussione tra i partiti

che sostengono la sua candidatura. Soltanto sul portale web di Marina Silva (HTTP://WWW.MINHAMARINA.ORG.BR) sono presenti una serie di proposte, definite direttrici politiche, che tuttavia non possono essere assimilate ad un vero e proprio programma elettorale “all’europea”.

Biografia dei Candidati

Per cercare di capire quali potrebbero essere le scelte del futuro Presidente del Brasile, ecco le biografie dei tre principali candidati:

Dilma Rousseff

Nata a Belo Horizonte, nello Stato di Minas Gerais, nel 1947, figlia di un immigrato bulgaro naturalizzato brasiliano, Dilma godette di un’infanzia agiata. Il padre, imprenditore ed avvocato, aveva fatto fortuna in Brasile, e la numerosa famiglia Rousseff – cinque figli – viveva in una grande casa, con tre domestiche, dove i pasti erano serviti secondo il galateo francese. Dilma e i suoi fratelli ricevettero un’educazione classica, studiando nel prestigioso Collegio Sion, di orientamento cattolico, dove le lezioni venivano impartite in francese, ricevendo lezioni di pianoforte.

A 18 anni si innamorò del giornalista Cláudio Galeno de Magalhães Linhares, suo futuro marito, che la introdusse alle teorie del socialismo rivoluzionario. Secondo i testimoni dell’epoca fu la lettura del libro “Rivoluzione nella Rivoluzione?” di Régis Debray ad ispirare le sue scelte politiche e a farle scegliere la lotta armata. Nel 1964, in seguito al colpo di stato militare, entrò nell’organizzazione sovversiva Polop (Organização Revolucionária Marxista – Política Operária), contraria alla linea del Partito Comunista Brasiliano, considerata troppo moderata, e formata da studenti e simpatizzanti delle idee di Rosa Luxembourg e Lev Trockij. Dilma faceva parte dell’ala più estremista del Polop, che considerava la violenza come unico strumento politico efficace. Durante quel periodo partecipò in prima persona ad azioni di lotta armata. Più tardi, a causa di contrasti interni, la fazione si staccò dal Polop, formando una nuova organizzazione chiamata Colina (Comando de Libertação Nacional).

In poco tempo, grazie alle sue riconosciute doti di leadership, Dilma divenne uno dei capi dell’organizzazione, emergendo come una delle pochissime donne con ruoli di comando nei gruppi armati rivoluzionari nel Brasile degli anni ’60. In

quegli anni conobbe un altro membro dell’organizzazione, Carlos Franklin Paixão de Araújo, leader di un’altra fazione dissidente del Partito Comunista Brasiliano, suo compagno di vita per i successivi trent’anni e padre della sua unica figlia, Paula. Nel 1969 inizò a vivere in clandestinità, abbandonando gli studi in Economia all’Università Federale di Minas Gerais.

Il ruolo ricoperto da Dilma all’interno del Polop e del Colina fu così importante, che le vennero attribuiti i soprannomi di “Giovanna d’Arco della guerriglia” e “Papessa della sovversione”. Secondo i suoi compagni dell’epoca, Dilma era in grado di dare ordini e mettere a tacere uomini molto più anziani ed esperti di lei. Le viene attribuita l’organizzazione della rapina ai danni del governatore dello Stato di Sao Paulo, Ademar de Barros, con un bottino di oltre 2,5 milioni di dollari, e l’elaborazione del piano per il sequestro dell’onnipotente ministro dell’Economia brasiliano, Delfim Neto, responsabile del boom economico del Paese tra gli anni ’60 e ’70. Il sequestro venne sventato solo grazie all’intervento della polizia, che iniziò ad arrestare i membri del gruppo una settimana prima dell’azione. Negli anni successivi la Rousseff ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento in operazioni di lotta armata.

Nel 1970 venne arrestata e venne ripetutamente torturata dalla polizia politica. Uscì dal carcere due anni dopo, con 10 chili in meno e un problema alla tiroide, che tempo dopo si trasformerà in un cancro. Ricominciò a studiare, nel 1977 si laureò in economia all’Università Federale del Rio Grande del Sud, inscrivendosi ad un dottorato in teoria economica, senza tuttavia discutere la tesi finale. Negli anni ’80, con la fine della dittatura militare, Dilma iniziò la sua carriera politica: nel 1985 venne nominata assessore alle Finanze nel comune di Porto Alegre e nel 1990 segretario per l’Energia, Miniere e Comunicazioni nello Stato del Rio Grande del Sud.

Durante la sua permanenza in quest’ultimo incarico cercò di mettere in guardia le autorità federali su una possibile crisi energetica, ma nessuno le credette. A metà degli anni ’90 il Brasile venne effettivamente colpito dalla crisi energetica e, grazie alle misure preventive prese dalla Rousseff, il Rio Grande fu l’unico Stato brasiliano ad evitare il razionamento di elettricità.

Agli inizi degli anni 2000 le sue capacità vennero notate dall’allora candidato alla presidenza Luiz

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Inacio Lula da Silva, che a sorpresa, dopo la vittoria alle elezioni del 2002, la nominò ministro dell’Energia. Durante il suo mandato, Dilma diede il via ad un forte piano di investimenti per aumentare il ruolo dello stato nella produzione energetica brasiliana e diverse campagne per favorire la popolazione più povera, come il programma “Luce per tutti”.

Nel 2005, dopo lo scandalo di corruzione che portò alle dimissioni del ministro della Casa Civil, José Dirceu, a cui Dilma era molto vicina, fu proprio lei a prenderne il posto, diventando così la prima donna nella storia del Brasile ad assumere in incarico di tale livello. In quell’occasione, il consolato statunitense di Sao Paulo inviò al Dipartimento di Stato a Washington un dossier dettagliato su di lei, dove veniva tracciato il suo profilo, si analizzava il suo passato da guerrigliera, i suoi gusti, le sue abitudini e le sue caratteristiche professionali. Nel rapporto Dilma è descritta come un politico dalle apprezzate doti tecniche, perfezionista, workaholic e con grande capacità di ascolto, ma con poco tatto. Il suo carattere è in effetti duro, deciso e spigoloso. È famosa per le sue sfuriate con i colleghi e subordinati. Nei palazzi del potere gira voce che “Dilma è la persona più democratica del mondo, basta che sei d’accordo al 100% con lei”. La leggenda narra che durante una reprimenda telefonica, avrebbe fatto piangere il potentissimo presidente della compagnia petrolifera statale Petrobras, José Sérgio Gabrielli.

Dal suo temperamento aggressivo e dalla sua forte determinazione a portare a conclusione i dossier a lei assegnati deriva la grande stima che il presidente Lula nutre nei suoi confronti, così come il rispetto di tutti i leader politici brasiliani, anche dell’opposizione. Famosa la dichiarazione pubblica del “Presidente Operaio”, in cui ammetteva che Dilma aveva un carattere così forte che “a volte lo maltrattava”.

Sulla vita privata, la Rousseff è estremamente riservata: tra le poche informazioni che la stampa brasiliana è riuscita a carpire, ci sono quelle sulla fine della relazione con Araújo alla fine degli anni ’90, con il quale non si era mai sposata, sulla sua passione per la storia e per l’opera classica, e sul cancro alla tiroide che ha affrontato e sconfitto nell’aprile 2009. Costretta a sottoporsi ad un aggressivo trattamento di chemioterapia e di radioterapia, si è tagliata i capelli a zero e ha portato una parrucca per i successivi sette mesi, senza abbandonare mai l’incarico istituzionale. Intanto, l’anno prima, per prepararsi alla corsa per

la presidenza, si era sottoposta a un lifting facciale che l’aveva resa ben più giovanile.

Dilma è la delfina designata direttamente dal Presidente Lula, anche se per molti analisti sarebbe “più a sinistra” e “più statalista” di lui. Ha basato la sua campagna elettorale sulla continuità con l’azione di governo del suo predecessore, sulla crescita economica del Brasile e sulla riduzione delle differenze sociali. Gran parte del suo capitale politico deriva direttamente dalla sua forte vicinanza a Lula, e quest’ultimo ha ricevuto ripetute multe da parte del Supremo Tribunale Elettorale per aver violato la rigidissima legge che vieta al Presidente in carica di fare campagna per un candidato alla sua successione. Nella corsa alla Presidenza è appoggiata da una coalizione di partiti di sinistra, come il Partito Comunista del Brasile, Partito Socialista Brasiliano e il Partito Democratico dei Lavoratori. In caso di vittoria ha annunciato che il suo governo aumenterà e amplierà i programmi sociali già in atto e proseguirà nell’ampio programma di realizzazione di opere pubbliche lanciate dall’amministrazione Lula. Secondo diversi analisti, la stabilità economica raggiunta dal Brasile negli ultimi anni non sarebbe a rischio, ma verrebbero create nuove imprese pubbliche e modificata la politica fiscale, colpendo le fasce di reddito più alte a beneficio delle fasce di popolazione più povere. Il suo programma politico per la presidenza del Brasile è stato sintetizzato dal quotidiano spagnolo ‘El Pais’ come la “consacrazione di una più importante e decisiva presenza dello stato nell’economia brasiliana”. La principale critica rivolta a Dilma dai suoi detrattori è quella di non avere alcuna esperienza elettorale. Dilma, infatti, durante tutta la sua carriera politica non ha mai ricoperto cariche elettive, venendo sempre nominata direttamente per ruoli tecnici o ministeriali, senza aver mai goduto dell’approvazione popolare. Inoltre la sua nomina alla successione di Lula è stata decisa dal Presidente senza consultare la base del partito o gli alleati, provocando non pochi malumori tra le fila del PT.

Nel caso in cui Dilma dovesse venire eletta, sarebbe la prima donna e la prima ex guerrigliera a ricoprire la carica di Presidente della Repubblica del Brasile.

Jose’ Serra

José Serra, nato a Sao Paulo nel 1942, è figlio di un immigrato italiano, Francesco Serra, originario di Corigliano Calabro, e di Serafino Chirico Serra,

brasiliana figlia di immigrati italiani. La famiglia viveva in condizioni modeste – il padre vendeva frutta al mercato municipale – ma José riuscì a studiare, arrivando fino all’università. Iscritto al Politecnico dell’Università di Sao Paulo, entrò subito nei movimenti studenteschi, e sempre all’università affrontò la sua prima esperienza elettorale. Candidato alla rappresentanza studentesca, durante la campagna elettorale dichiarò di essere contrario alle multinazionali e a favore della rivoluzione cubana. Non venne eletto, ma iniziò una rapidissima carriera politica, avvicinandosi al gruppo della Gioventù Universitaria Cattolica.

Nel 1963 venne eletto presidente dell’Unione Nazionale degli Studenti, con l’appoggio del Partito Comunista Brasiliano, e iniziò ad avere i primi rapporti con i governatori statali e con l’allora presidente, Joao Goulart, mettendosi subito in mostra per le sue capacità oratorie e per il suo coraggio nel denunciare le ingiustizie sociali. L’anno successivo ci fu il golpe militare, Goulart venne deposto e Serra si rifugiò nell’Ambasciata della Bolivia, dove rimase per tre mesi. Chiese di poter lasciare il Brasile, ma i militari non avevano alcuna intenzione di farlo espatriare. Durante le trattative l’allora ministro della Guerra, generale Costa e Silva, disse: “Questo non lo lasciamo andare via. È troppo pericoloso”. Serra tuttavia riuscì a fuggire prima in Bolivia, e poi in Francia, dove era presente una grande comunità di esuli politici brasiliani. A causa dell’esilio dovette interrompere gli studi.

Tornato clandestinamente in Brasile nel 1965, cercò di riorganizzare gruppi politici studenteschi d’opposizione al regime militare. La polizia politica scoprì ed arrestò la maggior parte dei membri, e Serra dovette fuggire nuovamente all’estero, in Cile, dove prese parte ad azioni dimostrative di esuli brasiliani che denunciavano la repressione in atto in Brasile. Rimase nel Paese andino per otto anni, studiando e laureandosi in economia e lavorando insieme a Fernando Henrique Cardoso, anch’egli esule, e che in seguito diventerà Presidente del Brasile. Si sposò con la psicologa e ballerina cilena Sylvia Mónica Allende, dalla quale ebbe due figli, Veronica e Luciano.

In quel periodo iniziò ad insegnare all’università del Cile, lavorò per la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL), organismo dell’Onu, e divenne consulente del governo Allende. Dopo il colpo di stato del generale Pinochet nel settembre 1973, Serra aiutò a

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trasportare molti perseguitati all’interno dell’Ambasciata di Panamà, ma venne arrestato mentre si trovava all’aeroporto, cercando di lasciare il Paese. Fu portato al famigerato Stadio Nazionale, dove moltissime persone vennero torturate e uccise, ma riuscì a fuggire grazie all’aiuto di un maggiore dell’esercito cileno, che lo salvò mettendolo nel portabagagli della sua auto. A causa di questo gesto l’ufficiale cileno venne fucilato poco tempo dopo. Serra si rifugiò nell’Ambasciata d’Italia, e vi rimase come rifugiato politico per otto mesi. Riuscì ad espatriare e a recarsi negli Stati Uniti, dove continuò a studiare, conseguendo un master e un dottorato in economia presso l’Università di Cornell. In quel periodo fu visiting professor dell’Istituto per gli Studi Avanzati dell’Università di Princeton. Nel 1977, dopo 14 anni di esilio, decise di tornare in Brasile, ancora governato dai militari. Iniziò la sua carriera politica collaborando con la campagna elettorale dei candidati d’opposizione al regime, e allo stesso tempo iniziò ad insegnare economia all’Università di Campinas. Nel 1982 venne nominato assessore statale allo Sviluppo dal Governatore dello Stato di Sao Paulo. All’epoca lo Stato verteva in condizioni finanziarie pessime, con un debito elevatissimo. Serra iniziò una campagna di taglio alla spesa e riduzione del debito, riuscendo tuttavia a costruire importanti opere pubbliche. Venne notato e scelto per far parte della squadra di economisti di Tancredo Neves, primo candidato alla Presidenza della Repubblica dopo la fine della dittatura, collaborando con personaggi del calibro di Celso Furtado e Helio Beltrao. Nel 1986 venne eletto membro dell’Assemblea Costituente. Durante i lavori per la redazione della nuova costituzione si scontrò più volte con la linea del suo partito, il Partito del Movimento Democratico Brasiliano – PMDB, votando, ad esempio, a favore di misure come l’esproprio di proprietà rurali improduttive e propose la creazione di un fondo di assicurazione pubblica per i lavoratori.

Nel 1988 fu uno dei fondatori del Partito della Social Democrazia Brasiliana – PSDB, e venne rieletto deputato federale nel 1990, con il più alto numero di preferenze della storia dello Stato di Sao Paulo, oltre 340mila. Nel 1994 venne stato eletto senatore con oltre 6,5 milioni di voti. Per tutti gli anni ’90 fu invitato, o fu tra i candidati, a guidare il Ministero dell’Economia, ma rifiutò tutti gli inviti fino al 1995, quando divenne ministro dello Sviluppo del governo Fernando Henrique Cardoso. Nel 1998 divenne ministro della Sanità,

creando un programma di lotta all’AIDS che divenne presto un modello per tutto il mondo, copiato in altri Paesi e premiato dalle Nazioni Unite. Durante la sua gestione vennero eliminate tasse federali e messi in commercio i farmaci generici, facendo scendere sensibilmente il prezzo dei farmaci in Brasile, e iniziò una disputa in sede Organizzazione Mondiale del Commercio per l’utilizzo di licenze di farmaci detenute all’estero in caso di necessità di sanità pubblica. Candidato alla Presidenza della Repubblica nel 2002, venne sconfitto dall’allora candidato Lula al secondo turno. In quell’occasione ottenne quasi 3 milioni di voti nella sola città di Sao Paulo, la più popolosa del Brasile, contro i soli 127mila ottenuti da Lula. Nel 2004 venne eletto sindaco di Sao Paulo. Nel 2006 si dimise e venne eletto Governatore dello Stato omonimo. Il forte consenso di cui gode nella città e nello Stato di Sao Paulo, il più popoloso e locomotiva economica del Brasile, sono la formidabile piattaforma politica ed elettorale su cui poggia la sua campagna.

Serra, famoso per le sue qualità di amministratore efficiente, onesto e preparato, è il candidato che rappresenta la borghesia e la classe media brasiliana. Alla luce dei suoi precedenti mandati come ministro, governatore e sindaco, il suo futuro governo dovrebbe essere favorevole alle privatizzazioni di grandi imprese pubbliche, così come è avvenuto durante i due mandati di Cardoso. Nei punti programmatici per l’azione di governo, tuttavia, emergono misure poco coerenti con i canoni classici delle politiche liberiste, come ad esempio l’aumento del salario minimo o il raddoppio del programma Bolsa Familia, lanciato dal Presidente Lula e criticato dallo stesso PSDB.

Da un punto di vista di politica internazionale, Serra e Dilma condividono lo stesso obiettivo: favorire l’ascesa del Brasile come potenza mondiale. Esistono differenze metodologiche, ma entrambi i candidati puntano su un rafforzamento del Mercosul, un aumento dei legami con le nazioni in via di sviluppo e una crescente pressione per una riforma degli organismi multilaterali, primo tra tutti il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove il Brasile aspira ad occupare un seggio permanente.

Marina Silva

Nata nel 1958 in una favela dello Stato amazzonico dell’Acre, al confine con la Bolivia e il Perù, Marina proviene da una famiglia poverissima. L’infanzia di marina fu molto dura. I genitori ebbero undici

figli, di cui solo otto sopravvissero, e non poterono garantire loro un’istruzione. Ai 15 anni Marina rischiò di morire per un’epatite confusa con un caso di malaria, che la costrinse a letto per oltre un anno. Viste le sue condizioni disperate, un medico dell’ospedale disse a sua zia “L’anima di questa ragazza è già all’inferno”. A quelle parole Marina rispose: “Non ho alcuna intenzione di morire!”. Ed infatti sopravvisse: grazie all’intervento del vescovo di Acre, Don Moacyr Creghi, venne accolta in un convento di suore e le vennero somministrate cure adeguate. Rimasta completamente analfabeta fino ai 16 anni d’età, imparò a legge e scrivere grazie al Mobra, programma di alfabetizzazione del regime militare. Il suo primo lavoro quello di donna delle pulizie, e in seguito ha lavorato con i seringueiros: gli operai che estraggono gomma dagli alberi amazzonici.

Nel 1981 entrò all’Università Federale dell’Acre, dove si laureò in Storia. Professoressa di liceo e sindacalista, è stata compagna di lotta di Chico Mendes, difensore dei diritti delle popolazioni indigene. Nel 1986 si iscrisse al PT, e si candidò a deputata federale, senza tuttavia essere eletta. Venne però eletta consigliere comunale a Rio Branco, capitale dello Stato, risultando la più votata in assoluto e conquistando l’unico seggio di sinistra nel consiglio comunale. Iniziò da subito un’aspra lotta ai privilegi e a favore dei lavoratori e dei più poveri, creandosi molti nemici ma aumentando l’ammirazione e l’appoggio popolare. In quel periodo devolvette integralmente il suo salario politico ai più bisognosi. Nel 1990 venne eletta deputata statale, ottenendo ancora una volta il maggior numero di preferenze in termini assoluti. In quel periodo scoprì di essere ammalata: era stata contaminata dal mercurio durante il periodo in cui viveva nella favela. Riuscì a sconfiggere la malattia, ma ancora oggi ne porta i segni con una profonda cicatrice sul naso. A causa delle privazioni subite durante l’infanzia il suo stato di salute è sempre stato molto debole. Nel 1994 venne eletta al Senato Federale per lo Stato dell’Acre, sempre con il più alto numero di preferenze, rompendo una lunga tradizione di vittorie scontate degli oligarchi locali, tra cui spiccava la figura di Hildebrando Pascoal, ex deputato federale condannato a 65 anni per aver ucciso diversi avversari politici squartandoli con una motosega. Nominata segretaria nazionale dell’Ambiente e dello Sviluppo del PT, divenne una delle principali voci a difesa dell’Amazzonia e della biodiversità.

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La sua folgorante carriera politica culminò con la vittoria di Lula nel 2002, quando venne nominata ministro dell’Ambiente, e da quel momento in poi si trovò in costante conflitto con altri componenti dell’esecutivo, quando gli interessi economici contrastavano gli obiettivi di tutela ambientale. Fu grazie all’intercessione personale di Lula che Marina poté sottoporsi ad un valido trattamento contro il mercurio. La sua gestione venne segnata da una forte riduzione del livello di disboscamento dell’Amazzonia e dall’adozione di forti misure a difesa dell’ambiente. Durante la sua gestione ministeriale, Marina ricevette diversi premi internazionali, tra cui il Champions of the Earth nel 2007, vinto anche dall’ex vice presidente americano Al Gore. La sua presenza all’interno del governo Lula fu uno dei principali vettori di popolarità internazionale del Presidente Operaio. Tuttavia, ciò non evitò che avesse diversi scontri con Dilma Rousseff, allora ministro della Casa Civil. Le due si detestano apertamente, e a causa di ripetuti dissidi, nel 2008 Marina rassegnò le dimissioni da ministro e nel 2009 uscì dal PT, accusato di non dare sufficientemente attenzione alle tematiche ambientali. Entrò nel Partito Verde – PV, che la candidò alla Presidenza della Repubblica.

Marina è considerata oggi una delle ambientaliste più famose del mondo. Il suo programma elettorale, l’unico tra quelli dei tre principali candidati, che può essere definito tale, pone al centro la difesa dell’ambiente, della Foresta Amazzonica e della biodiversità. Con i sondaggi che le attribuiscono il 7% delle preferenze, e con una piattaforma politica composta dal solo PV, senza alcuna alleanza con altre forze politiche, Marina è la candidata outsider tra i tre principali pretendenti alla più alta carica brasiliana. In caso di secondo turno i voti conquistati da Marina potrebbero tornare decisivi ai due sfidanti, che sicuramente cercheranno di corteggiare lei e i suoi elettori.

Sposata due volte, madre di quattro figli, è famosa per il suo stile di vita semplicissimo, quasi monastico. Non si trucca, non si veste con abiti costosi e non usa gioielli. L’unico lusso che si concede sono le collane tradizionali amazzoniche che lei stessa confeziona. Patrimonio personale: una piccola casa nella città di Rio Branco. Anche nelle bollenti giornate estive di Brasilia, Marina si copre sempre spalle e braccia con una lunga sciarpa di lana. Non si tratta di un vezzo: a causa della sua salute cagionevole e della

contaminazione da mercurio Marina ha sempre molto freddo.

Considerata come la novità del panorama politico brasiliano, e ammirata per il suo coraggio nell’affrontare e vincere la malattia e la miseria, Marina ha ricevuto l’appoggio di numerosi esponenti dello spettacolo e della società civile brasiliana, come la top model Gisele Bundchen e il cantante Caetano Veloso. Nel caso in cui venga eletta sarebbe la prima donna e la prima nera a ricoprire la carica di Presidente della Repubblica del Brasile.

* Carlo Cauti è laureando in Relazioni Internazionali (Università di Roma LUISS G. Carli)

MEGACHIP

Tratto da: EURASIA-RIVISTA.ORG

29 settembre 2010

Le ultime cattive notizie dal MOIl cognato del defunto emiro di al-Qaeda in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi, ucciso nel giugno del 2006 in un raid aereo americano, è stato nominato capo del gruppo terroristico nella provincia di Diyala. Secondo quanto rivela una fonte dei servizi segreti iracheni al giornale arabo ‘al-Hayat’, Sami al-Daini, questo è il nome del fratello della moglie di al-Zarqawi, è stato designato al vertice del cosiddetto ‘Stato islamico iracheno’ dal leader supremo del gruppo, Abu Bakr al-Baghdadi.

“Questo è solo l’ultimo di una serie di cambiamenti effettuati dai capi di al-Qaeda in Iraq – spiega la fonte – che hanno sostituito i loro emiri locali in molte città. La scelta del cognato di al-Zarqawi, noto per il suo estremismo, come guida della cellula di Diyala rappresenta una pericolosa evoluzione del gruppo verso la violenza più estrema”. I terroristi hanno deciso di puntare su alcune persone di fiducia dopo la resa di numerosi capi e l’arresto negli ultimi mesi di 27 emiri del gruppo.

“Siamo disponibili a lavorare con qualunque governo di Baghdad che rispetti la Costituzione del nostro Paese e sia pronto a lavorare con tutti gli altri gruppi iracheni”: così Massoud Barzani, presidente del governo regionale del Kurdistan, intervenendo al meeting organizzato da Alliance of Democrats alla Camera dei Deputati. “Non

importa chi sia primo ministro, ma è importante che rispetti la libertà, la democrazia e le leggi”, ha detto Barzani: “Siamo dediti alla democrazia dal 1991 e il popolo curdo non intende tornare indietro – ha spiegato in un appassionato discorso – Non retrocederemo dalla linea rossa dello Stato federale. Anzi, se mai ci dovrebbe essere una linea rossa, sarebbe proprio quella dello stato federale”. L’Iraq “ha davanti a sè una lunga strada per superare il suo sanguinoso passato”, ha concluso Barzani chiedendo il sostegno dell’Italia per “rafforzare le relazioni bilaterali con la regione curda”.

Quasi sette mesi dopo le elezioni legislative del 7 marzo, l’Alleanza Nazionale irachena, ovvero il maggiore blocco sciita in Iraq, ha deciso di sostenere la candidatura del premier uscente Nuri al Maliki per un nuovo mandato alla guida del governo, ha annunciato la Lista per lo Stato di diritto, la formazione politica dello stesso al Maliki. Secondo quanto ha riferito l’emittente al-Iraqiya citando Hasan al-Sined, un esponente della Lista, l’intesa con il blocco sciita, di cui fa parte il gruppo che fa riferimento al leader radicale Moqtada Sadr, è stata raggiunta nel pomeriggio di oggi.

In vista della prossima visita del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad a Beirut, tra circa due settimane, e della paventata sua presenza a ridosso del confine provvisorio con Israele, le autorità militari dello Stato ebraico avrebbero ordinato il rafforzamento delle protezioni fisiche lungo il settore centrale della Linea Blu di demarcazione col Libano. Citando “fonti del sud e della sicurezza” locali, il quotidiano panarabo al Hayat afferma oggi che gli israeliani stanno “rafforzando le protezioni fisiche attorno all’insediamento di Metulla” e “installato delle videocamere sul reticolato per monitorare ogni movimento nell’area” in previsione della “visita di Ahmadinejad alla Porta di Fatima”, ex valico israeliano durante gli anni dell’occupazione (1978-2000) del sud del Libano e da dieci anni trasformato dal movimento sciita filo-iraniano Hezbollah in un luogo-simbolo della resistenza. Nei giorni scorsi, rapporti di stampa non confermati dall’ambasciata iraniana in Libano, avevano riferito della possibilità che Ahmadinejad da Beirut si rechi nel sud del Libano e che, accompagnato da rappresentanti di Hezbollah, proprio dalla Porta di Fatima lanci “simbolicamente” delle pietre in direzione dello Stato ebraico.

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Migliaia di cittadini della minoranza araba d’Israele (un milione e mezzo di persone in totale su una popolazione di circa 7,5 milioni) sono scesi oggi in piazza per uno sciopero generale indetto per ricordare i 13 morti degli scontri con la polizia dell’ottobre 2000. Scontri che insaguinarono le manifestazioni di solidarietà della comunità arabo-israeliana con i palestinesi dei Territori, nei giorni dei primi bagliori di protesta della sollevazione denominata poi ‘seconda Intifada’.

Raduni si sono svolti in diverse località a cominciare da Nazareth (una delle città a più elevata densità araba del Paese), oltre che a Gerusalemme est. Gli incidenti avvenuti nel 2000 restano una ferita aperta all’interno delle comunità d’Israele (al di là delle memorie dell’Intifada dei palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza).

La minoranza araba e i suoi rappresentanti lamentano in particolare la mancata giustizia e la chiusura delle indagini su quei fatti da parte della magistratura israeliana senza l’individuazione di alcuna responsabilità. “Noi non dimentichiamo e non dimenticheremo”, hanno scandito oggi alcuni dimostranti, riecheggiando le parole di parenti delle 13 vittime e dei leader della comunità. Il padre di uno dei giovani che caddero allora – citato dal sito israeliano Ynet – non ha rinunciato da parte sua a lanciare un segnale di speranza. “È tempo di sostituire gli arsenali di armi con mazzi di fiori”, ha detto, insistendo tuttavia sulla necessità di fare nel contempo giustizia. “Se quei 13 morti fossero stati ebrei – si è chiesto retoricamente – il caso sarebbe stato chiuso allo stesso modo?”.

L’Egitto ha chiesto ieri che sia rinviata la riunione del comitato della Lega Araba che segue i negoziati di pace israelo-palestinesi, prevista il 4 ottobre prossimo, e poi spostata al 6, che è giorno festivo in Egitto. Lo ha riferito l’agenzia egiziana Mena, citando fonti diplomatiche. Il Cairo – ha aggiunto Mena – ha inoltre chiesto che la riunione “venga tenuta nella città libica di Sirte, a margine del vertice arabo straordinario”, previsto il 9 ottobre. La riunione, a livello di ministri degli esteri, era stata chiesta dal presidente palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas), ed era stata rinviata dal 4 al 6 ottobre per dare più tempo all’azione americana per salvare i negoziati di pace riavviati il 2 settembre scorso e minacciati ora dalla fine della moratoria israeliana sulle attività edilizie nelle colonie ebraiche.

Hezbollah accusa l’Egitto di preparare una guerra contro il movimento libanese sciita. “L’Egitto sta guidando un’iniziativa sovversiva contro il Libano in favore di Israele” attacca l’ex parlamentare libanese legato a Hezbollah Nasr Kandil, secondo quanto riporta il sito di informazione Ynetnews. Kandil in particolare accusa il Cairo di armare ed addestrare centinaia di giovani nei suoi campi militari con lo scopo di combattere l’organizzazione.

Il presidente egiziano, Hosni Mubarak, sarà ricandidato alle elezioni presidenziali che si terranno nel Paese arabo nel 2011 ed otterrà il suo sesto mandato. È quanto ha sottolineato il ministro degli Esteri egiziano, Ahmed Abul Gheit, nel corso di un’intervista al quotidiano ‘al-Hayat’. “Credo che Mubarak sarà confermato presidente nel 2011”, ha affermato Abul Gheit, secondo cui l’attuale presidente otterrà un nuovo mandato. Mubarak ha affermato in passato che avrebbe guidato l’Egitto finché le sue condizioni di salute glielo avrebbero consentito. Ma il delicato intervento subito dal presidente egiziano e l’aver rimandato la conferma della sua candidatura alle elezioni, hanno scatenato una serie di ipotesi sul futuro presidente dell’Egitto.

Protesta dell’Iran contro gli Usa per le sanzioni imposte da Washingotn contro otto massimi dirigenti iraniani accusati di violazione dei diritti umani nella repressione delle proteste alle contestate elezioni presidenziali di giugno 2009 che hanno portato alla rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. La decisione degli Stati Uniti “è in linea con le ingerenze degli Usa nelle questioni interne da più di trent’anni” attacca Ramin Mehmanparast, portavoce del ministero degli Esteri , citato dall’agenzia Irna. Si tratta di un’iniziativa, ha aggiunto, “contraria alle leggi internazionali”. Il Tesoro americano ieri ha annunciato che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha firmato un decreto che impone sanzioni ad hoc contro otto dirigenti iraniani ritenuti “responsabili o complici delle gravi violazioni dei diritti” durante le elezioni.

Le sanzioni prevedono il congelamento di eventuali beni che tali persone dovessero detentere negli Usa. La ‘stretta’ di Obama ha colpito, tra gli altri, tre ministri in carica, Mohammad Ali Jafari, capo dei Guardiani della Rivoluzione, e Saïd Mortazevi, ex procuratore generale di Teheran. Ieri inoltre l’Iran ha convocato l’ambasciatrice svizzera, che rappresenta gli interessi americani nella

Repubblica Islamica, per protestare contro le misure.

Il presidente Usa Barack Obama ha incontrato ieri Sarah Shourd, l’escursionista americana liberata a settembre in Iran dopo essere stata incarcerata per oltre un anno. Durante l’incontro il presidente si è impegnato a fare pressioni per il rilascio degli altri due cittadini americani ancora detenuti.

Lo riferisce la Casa Bianca in un comunicato. Shourd, 32 anni, era stata arrestata con altri due amici perchè sospettati di spionaggio dopo essere sconfinati in Iran dall’Iraq. La giovane ha lasciato Teheran il 14 settembre scorso dopo il pagamento di una cauzione di 500mila dollari. In un incontro con la Shourd, la madre e le madri degli altri due escursionisti ancora detenuti, Obama ha ribadito che l’amministrazione Usa continuerà a fare tutto il possibile per assicurare il loro rilascio, si legge in un comunicato della Casa Bianca. “Il presidente ha sottolineato che questo incontro rimane un pò amaro in quanto il fidanzato di Sarah, Shane Bauer e il loro amico, Josh Fattal, sono ancora detenuti”, afferma il comunicato. “Siamo fiduciosi che l’Iran mostrerà una rinnovata compassione e farà la cosa giusta nell’assicurare il ritorno di Shane, Josh e di tutti gli altri cittadini americani detenuti”.

Si terrà il 6 novembre a Teheran il processo ai due escursionisti americani, Shane Bauer e Joshua Fattal, arrestati in Iran nel luglio 2009 per avere oltrepassato illegalmente i confini della Repubblica Islamica e successivamente incriminati per spionaggio. Lo ha riferito l’avvocato dei due giovani, Massoud Shafili, citato dal sito web del quotidiano ‘The Times’. Shafili ha espresso timore per l’esito del processo a Bauer e Fattal, considerato che il giudice, Abolqasem Salavati, è tristemente noto per avere in passato inflitto numerose condanne a morte e pene severe contro gli esponenti dell’opposizione arrestati in Iran. Recentemente, Salavati ha condannato il noto blogger iraniano Hossein Derakhshan a 19 anni e mezzo di carcere. I due escursionisti erano stati arrestati nel luglio 2009 insieme alla loro compagna Sarah Shourd, rilasciata nelle scorse settimane per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. L’avvocato ha dichiarato di lavorare a un accordo per la liberazione di Bauer e Fattal sulla base delle condizioni che hanno portato al rilascio della Shourd, ovvero dietro pagamento di una cauzione di 500 mila dollari.

1 ottobre 2010

I L M E G L I O D E L L A S E T T I M A N A D A G L I I T A L I A N I

14 8 settembre/ 3 ottobre 2010

Firema, operai sul tetto “Lottiamo per salvarcidi Maurizio Munnucci - Rassegna.it

“Siamo qui da quattro giorni in sciopero della fame, purtroppo incominciano le difficoltà serie. Ieri l’ambulanza è salita a visitare uno di noi che si è sentito male, stare solo con acqua e caffè, quassù, è dura. Anche le condizioni meteo non sono buone, tira un vento fortissimo”. A parlare è Giovanni Ianniello, 48 anni, alla Firema da quando ne aveva 22. Insieme a lui, saliti sul tetto di una palazzina della fabbrica, ci sono altri quattro colleghi e delegati sindacali: Lino Canta, Umberto Ciarone, Giuseppe Cappiello e Aniello Di Maio. Hanno piazzato due tende canadesi per ripararsi dal vento e dall’umidità, dormono nei sacchi a pelo sull’asfalto e a turno si alternano sull’unica panchina che c’è. All’inizio erano in sei, ma uno di loro è stato costretto a scendere per un malanno.

Rassegna Che avete intenzione di fare adesso?

Ianniello È dura, ma noi andiamo avanti, sia chiaro: da qui non ci muoviamo. Aspettiamo di incontrare il commissario straordinario, per capire se almeno lui è in condizioni di presentare un piano in tempi brevissimi per riprendere le attività. Più che una speranza, è una convinzione: si può ripartire, Firema può riprendere l’attività e pagare i debiti. Quello che fa più rabbia è che il problema è solo finanziario.

Rassegna Quindi le commesse ci sono?

Ianniello Sì, ne abbiamo per 25-26 milioni di euro. In più la Regione Campania è debitrice di 6 milioni. Anche la Ansaldo potrebbe accettare la richiesta di dilazionare i debiti. Ecco, se si sbloccano quei soldi possiamo ripartire. La nostra non è solo disperazione, confidiamo in buone notizie.

Rassegna Allora come siete arrivati in queste condizioni?

Ianniello Forse cattive gestioni, forse qualcos’altro non chiaro: se ci sono stati illeciti, il commissario deve far valere le proprie ragioni. Siamo in amministrazione straordinaria dal 2 agosto, però già mesi prima si avvertiva un’aria pesante. A dicembre dell’anno scorso ci hanno comunicato le prime difficoltà per far arrivare i materiali e una

parte di noi è finita in cassa integrazione. Ma doveva durare quindici giorni, al massimo un mese.

Rassegna E poi cos’è successo?

Ianniello È iniziata una serie di proroghe della cig fino a fine luglio. Abbiamo saputo che l’azienda non pagava più i fornitori, l’attività è stata rallentata pian piano, fino al decreto di commissariamento. La legge Marzano è arrivata con un passivo di 428 milioni, per cui adesso è tutto bloccato e noi siamo senza stipendio da giugno. Ora si deve fare una verifica del passivo e quindi un piano di ristrutturazione.

Rassegna In fabbrica si lavora ancora?

Ianniello Garantiamo un’attività minima, perché se si ferma tutto ripartire sarebbe quasi impossibile. Attualmente su 550 colleghi stanno lavorando in 40-50, per una settimana o quindici giorni a turno. Tutti gli altri sono in cassa integrazione. E come noi anche nello stabilimento di Potenza molti sono fuori. Il dramma si fa sentire, mi hanno detto di tante richieste per sospendere il mutuo della casa.

Rassegna Che cosa chiedete?

Ianniello La Regione deve pagare i debiti che ha con l’azienda e deve anche cercare di trovare un accordo sulle commesse assieme ad Ansaldo, affinché le due industrie collaborino. Al governo centrale chiediamo di fare la propria parte, non è possibile che si continuino ad asseganare le commesse all’estero, come è accaduto per l’alta velocità. Serve un tavolo nazionale sul settore della produzione ferroviaria italiana, perché se chiudiamo noi va giù tutto.

30 settembre 2010

Lavoro e ricatti: manifestazione per i lavoratori del 16 ottobredi Giulio Cavalli

Il diritto di sciopero, sancito dalla nostra Carta Costituzionale all’art. 40, in questi ultimi mesi sta subendo affronti impensabili fino a pochi anni fa.

La progressiva delegittimazione del dissenso dei lavoratori è riuscita ad oscurare e, a volte, come

nel caso del licenziamento dei tre operai della Fiat di Melfi, a cancellare il diritto di astensione dal lavoro per la difesa o la promozione di interessi collettivi, sia giuridici che economici.

Bisogna, del resto, soffermarsi sull’importanza fondamentale che assume il diritto di sciopero in una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art.1 Cost.) che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4 Cost.). Se è vero che ogni cittadino ha il diritto di avere un lavoro, è altrettanto certo che non può esistere in uno Stato di diritto la possibilità per alcuno, tantomeno per il datore di lavoro, di calpestare quei diritti che i lavoratori hanno ottenuto attraverso faticose lotte sindacali.

In questo quadro, inoltre, si inserisce il grave problema del precariato. Sembra che la Costituzione sia stata cambiata sotto i nostri occhi e non ce ne siamo accorti. Mi colpisce molto il fatto che si continui a parlare di diritto al lavoro e poi si permetta di sfruttare i lavoratori con la minaccia di un contratto che non verrà mai rinnovato. La flessibilità, utilizzata spesso come scriminante di una forma contrattuale che si mostra come un insulto alla dignità dei lavoratori, è solo un concetto astratto che non ha alcun contatto con la realtà del mondo del lavoro. In un periodo di crisi economica e di disoccupazione non esiste flessibilità bensì solo instabilità e incertezza. Utilizzare come arma di ricatto un contratto a tempo determinato, che non assicura alcun futuro ai giovani e alcuna certezza a padri e madri di famiglia, è una concessione che una Repubblica realmente fondata sul lavoro non dovrebbe permettere.

Ritengo necessario manifestare il dissenso a una concezione aziendale del diritto al lavoro, a una continua denigrazione del diritto di sciopero ed a una costante offesa del lavoratore precario. Per questo aderisco alla manifestazione indetta dalla Fiom per il prossimo 16 ottobre a Roma. È giunto il momento che i lavoratori facciano sentire ancora la loro voce che in troppi ormai cercano di soffocare.

28 settembre 2010

I L M E G L I O D E L L A S E T T I M A N A D A G L I I T A L I A N I

8 settembre/ 3 ottobre 2010 15

I migranti si fidano delle banchedi Giuliano Rosciarelli

Gli immigrati che trasferiscono somme all`estero preferiscono utilizzare le banche per importi sopra il migliaio di euro rispetto agli altri canali, per i quali transitano rimesse di entità assai più ridotta ma con frequenze assai maggiori. Nel 2009 il sistema bancario italiano ha intermediato un volume complessivo di rimesse pari a 210,05 milioni, per un totale di 92.020 operazioni. L`ammontare medio di ogni transazione (1.543 euro) è quasi sette volte superiore al dato rilevato a livello internazionale (circa 223 euro, pari a 300 dollari). È quanto emerge dal Rapporto Abi-Cespi 2010, la periodica indagine sull`offerta di servizi e prodotti bancari per la clientela immigrata riferita al 2009. Oggetto della rilevazione sono gli stranieri appartenenti alle prime 21 nazionalità, ovvero l`88% dei 3,891 milioni di immigrati presenti in Italia al 31 dicembre scorso.Si conferma dunque un`indicazione già emersa nel corso delle precedenti indagini Abi-Cespi: i migranti ricorrono alla banca italiana per trasferimenti di ammontare elevato, generalmente oltre mille euro, rispondendo a esigenze e funzionalità diverse dalla rimessa cosiddetta tradizionale, inviata periodicamente ai familiari tramite altri canali. I paesi verso cui gli istituti canalizzano i maggiori flussi di rimesse dall`Italia sono Marocco e Romania, seguiti da Moldova, Brasile e Albania.Dalle rimesse ai conti correnti: negli ultimi due anni l`indagine Abi-Cespi ha rilevato, pur in un contesto di crisi, un ulteriore aumento dei conti correnti intestati agli immigrati, passati da 1,404 milioni a 1,514 (+7,9%). Nel frattempo gli immigrati residenti nel nostro Paese sono divenuti 3,891 milioni (+32,4% rispetto al 2007). Il marcato aumento della popolazione straniera, cresciuta con un tasso quattro volte superiore al numero dei conti correnti intestati ai migranti, ha leggermente abbassato il tasso di bancarizzazione: dal 67% del 2007 al 61% di fine 2009. Va tuttavia rimarcato che il processo di bancarizzazione è strettamente connesso al tempo di permanenza in Italia: è dunque ragionevole ipotizzare che il processo non avvenga immediatamente all`ingresso nel nostro paese, ma richieda un arco temporale minimo – stimato in almeno cinque anni – per acquisire una prima, pur se ancora precaria, stabilità economica e lavorativa, perché si avverta il bisogno di un

rapporto bancario e si abbiano i documenti necessari per l`accesso in banca.L`immigrato si rivolge alla banca in prevalenza con l`obiettivo di aprire un conto corrente per esigenze familiari. Aumentano costantemente, tuttavia, gli imprenditori stranieri bancarizzati.A fine 2009 i titolari di un conto corrente erano 52.924, ovvero il 3,5% del totale dei correntisti immigrati. Si tratta di clienti consolidati, visto che il 20% ha un c/c da più di cinque anni, con un indice di fedeltà peraltro superiore rispetto a quello osservato nel segmento di clientela `retail` (dove il 18% ha un c/c da più di cinque anni), cui è riconducibile il 96% dei conti correnti intestati a stranieri residenti in Italia. Per quanto riguarda i finanziamenti, un correntista su tre ha avviato un rapporto di credito con la banca. E i prestiti (34% del totale) prevalgono sul credito immobiliare (28%). A fine 2009 il 47% dei piccoli imprenditori immigrati titolari di un conto corrente aveva un finanziamento in corso, con una distribuzione equilibrata fra scadenze a breve (48% del totale) e a medio-lungo termine (52%).Restringendo l`ambito d`indagine a un panel di dati perfettamente omogeneo (sette gruppi bancari del sistema, in rappresentanza del 56% del totale degli sportelli del sistema, e le prime 13 nazionalità di provenienza) dal Rapporto Abi-Cespi 2010, emergono peraltro ulteriori trend in tema di imprenditorialità straniera.Tra 2007 e 2009 nel segmento `small business` (ditte individuali, anche artigiane; imprese con meno di dieci addetti e fatturato non superiore a 2 milioni; enti senza finalità di lucro) si è manifestato un fortissimo aumento dei conti correnti (da 13.812 a 22.422, +62%) a fronte di una sostanziale stabilità della quota di piccoli imprenditori immigrati bancarizzati sul totale dei clienti immigrati (4,5% nel 2007 e 4,1% nel 2009). Il dato sembra costituire un indizio circa un possibile effetto della crisi finanziaria sulla popolazione migrante che ha combattuto la precarietà, quando non la disoccupazione, rischiando in proprio con l`avvio di piccole attività imprenditoriali.

28 settembre 2010

Politiche scelleratedi Nichi Vendola

I dati Istat sui conti economici regionali 2009 fotografano la realtà di un Paese al disastro. La media italiana segnala il 5% di calo del Pil rispetto al 2008. Ancora più grave il calo delle regioni del

Nord Ovest, locomotive del sistema Italia. La Puglia si attesta con una perdita del 5%, in linea con il livello nazionale, mentre le regioni a perdere poco sono quelle a minore industrializzazione, come il Molise, la Sicilia e la Calabria. Le scellerate politiche di Tremonti non hanno quindi avuto alcuna funzione anticiclica e hanno fatto avviare il paese verso la recessione. E magari i cultori del pallottoliere drogato e bugiardo si dimenticano troppo facilmente alcune cose. Ad esempio, che il blocco tremontiano e fittiano dei fondi Fas e dei fondi strutturali pesa per Regioni come la Puglia intorno al 2%. E nel frattempo il Governo centrale, che è in mano agli stessi Tremonti, Bossi e Fitto, blatera di ponti sullo Stretto e amenità simili e blocca – ad esempio – la spesa d’investimento per i Comuni virtuosi. Eppure l’80% delle opere pubbliche italiane sono appaltate dai Comuni. Siamo di fronte allo squadernamento di una politica economica che non esiste e i dati sono lì a dimostrarlo.

29 settembre 2010

La crisi dei salaridi Paolo Borrello

In un rapporto dell’ufficio studi della Cgil, l’Ires, è stato preso in esame l’andamento dei salari in Italia nel periodo 2000-2010. In dieci anni i lavoratori dipendenti hanno perso 5.453 euro di potere d’acquisto. In un comunicato dell’Adn-Kronos è contenuta un’efficace sintesi del rapporto.

“Il raffronto della dinamica delle retribuzioni lorde e nette con l’inflazione effettiva, si legge nel rapporto, riporta all’attenzione l’irrisolta questione salariale che, dal 2000 al 2010, ha generato una perdita cumulata di potere d’acquisto dei salari lordi di fatto di 3.384 euro (solo nel 2002 e nel 2003 si sono persi oltre 6.000 euro) che, sommata alla mancata restituzione del fiscal drag, si traduce in 5.453 euro in meno per ogni lavoratore dipendente alla fine del decennio.

Secondo le stime dell’Ires Cgil, le retribuzioni contrattuali, rispetto all’inflazione dell’1,7%, nel 2010 crescono del 2,1%, le retribuzioni di fatto crescono del 2,1% e le retribuzioni nette dell’1,9% evidenziando così un aumento della pressione fiscale dello 0,2% in corso d’anno. A questo punto, si legge ancora nel rapporto, se consideriamo il biennio della crisi, contiamo un aumento della pressione fiscale dello 0,4%. L’incremento medio

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reale del biennio 2009-2010 risulta pertanto di appena 16,4 euro netti medi mensili. Se, inoltre, calcoliamo la crescita delle retribuzioni includendo anche l’abbattimento del reddito dovuto al massiccio ricorso alla cassa integrazione, l’aumento netto reale in busta paga, per tutti i lavoratori dipendenti, risulta solamente di 5,9 euro al mese…

In ogni caso, nel periodo 2000-2008, a parità di potere d’acquisto, le retribuzioni lorde italiane sono cresciute solo del 2,3% rispetto alla crescita reale delle retribuzioni lorde dei lavoratori inglesi del 17,40%, francesi e americani (4,5%).

Questo, sottolinea il rapporto Ires, spiega anche come, in Italia, a parità di potere d’acquisto, nonostante una dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto più sostenuta, le retribuzioni e lo stesso costo del lavoro risultino all’ultimo posto della classifica Ocse 2008. Eppure, classificando i 30 Paesi Ocse attraverso l’indice di concentrazione del reddito l’Italia risulta il sesto paese più diseguale.

Come ci ha insegnato la crisi, osserva l’Ires, a generare la bassa crescita a zero sviluppo contribuisce anche un’iniqua distribuzione del reddito. In Italia, la distanza tra reddito medio e reddito mediano (del 50% popolazione più povera) risulta invece essere cresciuta più di tutti gli altri paesi Ocse, passando negli ultimi 15 anni, dal 10,5% al 17,3% (prima della crisi). La previsione è che nel 2011 tale distanza raddoppierà, superando il 20%.

Già oggi, oltre 15 milioni di lavoratori dipendenti guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese. Circa 7 milioni ne guadagnano meno di 1.000, di cui oltre il 60% sono donne. Oltre 7 milioni (63%) di pensionati di vecchiaia o anzianità guadagna meno di mille euro netti mensili. Allora, secondo l’Ires, elaborando i microdati dell’indagine sulle forze lavoro Istat e prendendo come riferimento il salario netto medio mensile di 1.260 euro, emerge che: una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una piccola impresa (1-19 addetti) il 18,2% in meno; un lavoratore del Mezzogiorno il 20% in meno; un lavoratore immigrato (extra Ue) il 24,7%; un lavoratore a tempo determinato il 26,2%; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27% in meno e un lavoratore in collaborazione il 33,3% in meno…”.

Io ritengo che le principali conclusioni a cui perviene il rapporto dell’Ires debbano essere tenute in notevole considerazione. Fra l’altro, in un

periodo di forte crisi economica come l’attuale, si analizza soprattutto la crescita economica, l’andamento del Pil. Si esaminano poco le variazioni del numero degli occupati e dei disoccupati. Quasi del tutto trascurato è l’andamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e ciò che avviene relativamente alla distribuzione del reddito. Quindi la ricerca dell’Ires colma un “vuoto”. Io spero, inoltre, che i risultati della ricerca non rimangano “lettera morta”, ma che siano invece utilizzati per introdurre nella politica salariale realizzata in Italia delle modifiche significative senza le quali le condizioni economiche dei lavoratori dipendenti non potranno che peggiorare, impedendo poi il necessario aumento dei consumi, indispensabile per rafforzare la crescita economica.

2 ottobre 2010

L’inutile attesadi Roberto Orsatti

Non si parla d’altro da giorni, ore ed ore di trasmissione su tutti i canali, scontri verbali fra esponenti politici un po’ su tutti i palinsesti. Ogni tanto qualcuno, se invitato al ring verbale, prova ad inserire qualche richiamo alla situazione drammatica della nostra economia, intesa non tanto come PIL (che comunque è preoccupante) ma economia “domestica”, delle persone, delle famiglie, del pane da mettere in tavola, della bolletta, o affitto o rata da pagare, della medicina da comprare, della prevenzione da seguire, dei libri per i figli che debbono studiare in questa nostra tartassata scuola. Ieri parlavo con un ragazzo che mi raccontava della madre che ha alcuni problemi fisici sui quali sono necessari una serie di esami medici fra i quali per uno, il più importante naturalmente,  la mamma è stata prenotata nel pubblico per primavera 2011. Scherziamo? No non scherziamo, è così da anni e continua ad essere cosi oggi, sempre peggio, con un oggi sempre più difficile perché sempre meno sono le persone, i cittadini che possono superare questa empasse con il denaro e rivolgersi al privato. Questa signora infatti non lo può fare ed allora, prima della prossima primavera, si vedrà probabilmente costretta a cercare un aiuto, una scappatoia, una “raccomandazione”. Sembra  una cosa inevitabile, considerata ormai quasi normale, una mentalità forzata che purtroppo ci condiziona la vita e fa si che questo sistema malato, di scambio, di baratto, di conoscenza dovuta e

riconoscenza forzata non cambi mai anzi proliferi, si insinui nella società, ci soffochi; un sistema si, si può dirlo, un sistema mafioso che non riguarda solo una ragione od una città ma che colpisce e riguarda tutti. Ed allora che ci attendiamo da oggi, il discorso? La fiducia data o comprata? Il rimpasto? Cosa? Cosa ci attendiamo!? Nulla mi attendo, è una inutile attesa! Il nulla, mi attendo il nulla  e con me penso milioni di cittadini che ormai la fiducia l’hanno persa da un pezzo e che a loro volta si sono divisi in due gruppi, quelli che per necessità ormai subiscono ed accettano passivamente ogni tipo di angheria senza più forza o voglia di reagire e quelli che tentano di cambiare qualcosa, che lottano ancora, che hanno deciso di non subire e cercano di creare una crepa in questo muro che rinchiude ed opprime. C’è ancora chi ce la fa, regge, resiste, non so fino a quando resiste, resisto!

29 settembre 2010

Nelle Procure della Repubblica le prove dei veleni di Terzigno: dove sono finite?di Roberta Lemma

Qui Terzigno.

Ieri sera c’è stato l’incontro tra i sindaci vesuviani e il presidente della provincia Cesaro. L’argomento da discutere non poteva che essere l’immediata modifica della legge che autorizza l’apertura della seconda cava all’interno del Parco Nazionale del Vesuvio. Cesaro non può più opporsi all’apertura della discarica, dopo esser stato richiamato all’ordine da Bertolaso, i suoi scheletri nell’armadio lo obbligano ad ubbidire e quindi, i primi cittadini di Boscoreale, Boscotrecase e Trecase da ieri sera occupano la sala consiliare della provincia. Questo mentre la popolazione vesuviana continua tra mille disagi e sacrifici a presidiare la discarica sul luogo.

Il presidente Luigi Cesaro replica: «Sono irresponsabili, non li ricevo più, le tensioni degli abitanti non vanno esasperate». Ad essere esasperati lo sono davvero, per ovvie ragioni. Stamani alle ore 7,30 tutta la cittadina di Boscoreale era pregna del puzzo nauseante che proviene dalla prima discarica quasi satura; cosa avverrebbe con l’avvento della seconda? Gli

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studenti, i pendolari, fuori la stazione della Circumvesuviana, camminavano turandosi il naso e la bocca con una mano, reggendo libri o valigette con l’altra. Questa è una popolazione esasperata, ma da uno Stato lontano dai bisogni primari della popolazione e ostile a qualunque discussione o confronto. Questo Stato immorale, che non fa altro che gettarsi in faccia insulti; escort fatte ministro, leghisti irrispettosi, razzisti ed omofobi, presunte case acquistate con i soldi dei contribuenti.L’assessore all’Ambiente Giacomo Caliendo: «Vogliamo attuare la delibera - parla di quella promessa fatta a trovare alternative alla cava Vitiello, continua, – Come? Se si raggiunge l’obiettivo di portare minori rifiuti in discarica, l’apertura di cava Vitiello, secondo la Provincia, sarebbe inutile.» Nicola Dell’Acqua, uomo di Guido Bertolaso alla Protezione civile, ribadisce: «Tocca alle Province andare avanti, bisogna attuare la legge 90 del 2008». Vale a dire che la discarica di cava Vitiello si deve fare.

I vesuviani devono ora intensificare la protesta, non soltanto sul fronte della contestazione, ma anche raccogliendo prove che attesterebbero Terzigno, come la discarica dei veleni e delle bugie. Prove che da anni giacciono nell’indifferenza generale nelle Procure della Repubblica; perchè non saltano fuori queste prove?

Caldoro dichiara che entro un mese inizieranno i lavori per ben due inceneritori, uno a Napoli est, l’altro a Salerno. Dimenticandosi di citare il ciclo integrato dei rifiuti inesistente, per cosa sono stati utilizzati i milioni di euro stanziati alla regione Campania sul fronte gestione dei rifiuti?

Perchè alla popolazione locale non vengono mostrati la valutazione impatto ambientale e la captazione del pergolato, documenti che tranquillizzerebbero i cittadini sulla sicurezza della discarica che vedono dalle proprie finestre? Perché le analisi svolte dal secondo policlinico di Napoli, quei documenti che mostrerebbero, come prove schiaccianti, l’alto tasso di diossina nel latte materno, non vengono resi noti alla stampa nazionale, perchè la magistratura non compie il suo dovere?

Perchè le discariche, cave pagate con i soldi dei cittadini e che gestiscono un bene pubblico, sono militarizzati non fuori, ma dentro le cave? Cosa si vuole nascondere? A nessuno è permesso entrare e girare liberamente, né ai giornalisti, impedendo il diritto di cronaca, né agli stessi sindaci o assessori che possono entrare solo con la guida.

Infine quel documento del 1° Maggio 2008, il Dpcm (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) che allarga il campo d’applicazione del segreto di Stato, in nome della tutela della sicurezza nazionale, ad una lunga serie di infrastrutture critiche tra le quali “gli impianti civili per produzione di energia”. Questo significa che i futuri siti per il deposito delle scorie nucleari e i nuovi impianti civili per la produzione di energia, le centrali nucleari, i rigassificatori, gli inceneritori/termovalorizzatori sono coperti dal segreto di Stato. Segreto che si estende anche agli iter autorizzativi, di monitoraggio, di costruzione e della logistica di tutta la filiera quindi anche delle discariche.Dpcm: “nei luoghi coperti dal segreto di Stato le funzioni di controllo ordinariamente svolte dalle aziende sanitarie locali e dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco, sono svolte da autonomi uffici di controllo collocati a livello centrale dalle amministrazioni interessate che li costituiscono con proprio provvedimento” e le amministrazioni “non sono tenute agli obblighi di comunicazione verso le aziende sanitarie locali e il Corpo nazionale dei vigili del fuoco a cui hanno facoltà di rivolgersi per ausilio o consultazione”.

Ora, considerando la lunga lista di, condannati, indagati, salvati dalle prescrizioni, dalla immunità parlamentare, dalle mancate autorizzazioni ad usare intercettazioni, che vivono nel nostro Stato, secondo voi, italiani, i cittadini vesuviani sono legittimati a non fidarsi di quanto gli viene imposto?

Febbraio 2010:

Rifiuti radioattivi dagli ospedali napoletani direttamente nella discarica.

Due autocompattatori sequestrati dalla polizia all´ingresso della discarica di Chiaiano. Le apparecchiature in dotazione all´esercito, e poi quelle dei vigili del fuoco del Nucleo Nbcr (Nucleare, biologico, chimico, radiologico), hanno confermato la presenza di Iodio 131, sostanza radioattiva usata per la cura delle neoplasie della tiroide. I due autisti degli Iveco bloccati, di proprietà della ditta di smaltimento Enerambiente spa, azienda di recentissima costituzione (2007), derivata per scissione societaria da SLIA S.p.A. che le ha conferito le attività di servizi ecologico – ambientali, raccolta rifiuti, pulizia delle città, progettazione, realizzazione e gestione impiantistica del trattamento, lavorazione, recupero e trasformazione dei rifiuti. Il company

profile che segue è descrittivo delle attività e del know how di SLIA S.p.A., che ha travasato in ENERAMBIENTE S.p.A. sostanzialmente tutta la sua struttura operativa.

SLIA S.p.A. venne costituita con lo scopo di gestire appalti pubblici ed in particolare appalti di servizi di igiene urbana e di gestione dei rifiuti, operando in questo campo sin dal 1951. L’azienda, fondata a Roma da un gruppo di imprenditori locali (l’acronimo SLIA sta per Società Laziale Imprese ed Appalti) è stata poi rilevata da un gruppo industriale veneto. Il 3 novembre 2008, il giudice monocratico di Roma, Francesco Patrone, condannava Francesco Rando, braccio destro di Cerroni e responsabile della Giovi s.r.l ma detentore anche di una larga quota nell’allora SLIA S.p.a, per la gestione della discarica di Malagrotta, un anno di reclusione, 15 mila euro di ammenda nonché al risarcimento dei danni morali e patrimoniali da liquidarsi in sede civile a favore di alcune delle parti lese costituitesi al processo. Motivo della condanna, lo smaltimento «senza alcuna autorizzazione” di “rifiuti pericolosi derivanti dal trattamento chimico-fisico del percolato e dei fanghi conferiti dall´Acea nell´ottobre 2004», in violazione dei decreti legislativi 22/97 e 36/2003. Inoltre Rando è accusato di aver violato, nel maggio 2005, le procedure di ammissione in discarica «di rifiuti speciali senza che vi fosse la documentazione e senza alcuna verifica degli stessi rifiuti, di cui lo stesso sarebbe anche stato produttore». Oggi, la ditta Enerambiente Spa, autorizzava lo smaltimento di rifiuti radioattivi, di origine ospedaliera, nella discarica di Chiaiano.

Come si evince le stesse aziende ” beccate ” in affari poco puliti continuano a lavorare in Campania, difese dalla militarizzazione e trasversalmente dal Segreto di Stato imposto dal primo maggio 2008. Adesso che la magistratura si attivi.allora, prima della prossima primavera, si vedrà probabilmente costretta a cercare un aiuto, una scappatoia, una “raccomandazione”. Sembra  una cosa inevitabile, considerata ormai quasi normale, una mentalità forzata che purtroppo ci condiziona la vita e fa si che questo sistema malato, di scambio, di baratto, di conoscenza dovuta e riconoscenza forzata non cambi mai anzi proliferi, si insinui nella società, ci soffochi; un sistema si, si può dirlo, un sistema mafioso che non riguarda solo una ragione od una città ma che colpisce e riguarda tutti. Ed allora che ci attendiamo da oggi, il discorso? La fiducia data o comprata? Il rimpasto? Cosa? Cosa ci attendiamo!?

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Nulla mi attendo, è una inutile attesa! Il nulla, mi attendo il nulla  e con me penso milioni di cittadini che ormai la fiducia l’hanno persa da un pezzo e che a loro volta si sono divisi in due gruppi, quelli che per necessità ormai subiscono ed accettano passivamente ogni tipo di angheria senza più forza o voglia di reagire e quelli che tentano di cambiare qualcosa, che lottano ancora, che hanno deciso di non subire e cercano di creare una crepa in questo muro che rinchiude ed opprime. C’è ancora chi ce la fa, regge, resiste, non so fino a quando resiste, resisto!

28 settembre 2010

La P3, Lombardi e il Sanniodi Raffaele Corona

Il presidente del Consiglio li ha definiti “pensionati sfigati”, il capo dello Stato, invece “squallida consorteria”. Sulla stampa sono meglio noti come P3, la presunta nuova loggia massonica segreta che secondo la Procura della Repubblica di Roma sarebbe intervenuta per assegnare incarichi ad alti magistrati, imporre la candidatura del presidente della Regione Campania, pilotare la nomina di ispettori del ministero della Giustizia, favorire gli affari degli impianti eolici, incidere sul Lodo Alfano e il rinvio a giudizio di Nicola Cosentino, coordinatore del PdL della Campania.

I principali attori del sodalizio sono tre: Flavio Carboni, Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi. Arrestati l’8 luglio scorso, tutti e tre sembrano avere un qualche legame con Benevento, eppure nel sannio di loro non vuole parlare nessuno

Il più noto del trio è Flavio Carboni, definito “il faccendiere dei misteri” anche per i rapporti con la P2 di Licio Gelli, è stato imputato nei più grandi processi italiani degli ultimi 30 anni. Dalle intercettazioni dei carabinieri risulta che Carboni, per i suoi affari, voleva utilizzare anche la Fortore Wind, una holding che si occupa di impianti eolici di proprietà per il 33% della multinazionale svizzera BKW. E’ la stessa società che detiene il 94% del pacchetto azionario della Luminosa che intende realizzare a Benevento la Centrale a Turbogas.

Arcangelo Martino, imprenditore, è stato assessore socialista al Comune di Napoli alla fine degli anni ’80. Fu condannato per concussione per il rilascio di licenze commerciali. Presso il suo assessorato

lavorava il padre di Noemi Letizia, la ragazza che chiama “papi” Berlusconi. È da molti considerato il pentito della P3 perché ha raccontato ai magistrati romani i vari incontri tenuti dalla presunta P3 con Denis Verdini, aggiungendo che ad alcuni di essi avrebbe partecipato anche la beneventana Nunzia De Girolamo, la quale ha prontamente smentito.

Il terzo reggente della P3 è Pasquale Lombardi, geometra, componente delle commissioni tributarie ed ex sindaco democristiano di Cervinara, paese in provincia di Avellino ma molto vicino a Benevento. Secondo la Procura di Roma, aveva “sviluppato una fitta rete di conoscenze nei settori della magistratura e della politica, da sfruttare per i fini segreti del sodalizio, e ciò anche grazie all’attività di promozione di convegni e di incontri di studio realizzate per il tramite dell’associazione culturale denominata <Centro studi giuridici per l’integrazione europea diritti e liberta>”, di cui Lombardi era segretario.

Famoso è il convegno organizzato a settembre 2009 in Sardegna sul federalismo, al quale il quotidiano Libero ha dato grande risalto pubblicando le spese ed i nomi dei numerosi ospiti, tra i quali anche il dott. Giovanni Tartaglia Polcini, Sostituto Procuratore della Repubblica di Benevento. Ma questo, naturalmente, non vuol dire che il magistrato beneventano sia colluso con la P3.

Come abbia fatto a diventare tanto influente, se lo chiedono in tanti in tutta Italia, ma non a Benevento. Lombardi sostiene di aver conosciuto molti magistrati grazie al cugino, Giuseppe Faraone, Procuratore della Repubblica di Benevento 30 anni fa, lui stesso si vanta di essere riuscito a far nominare anche i procuratori di Avellino ed Isernia, al confine con Benevento.

Nel suo colloquio in carcere con l’on. Barbato di IdV, Lombardi racconta dei suoi trascorsi politici nella DC e spiega che anche i suoi tre figli hanno rapporti con politici e magistrati “ Bice, lavora con l’assessore alla Cultura di Napoli. Un altro, Gianfranco, ha appalti con il ministero della Giustizia – dice l’ex sindaco di Cervinara- e il terzo è architetto e si occupa di perizie per i tribunali di Benevento, Roma e Napoli”.

Gianfranco è l’amministratore unico della società IVG- Istituto Vendite Giudiziarie, che su incarico delle sezioni fallimentari dei tribunali della Campania si occupa di aste per la vendita di beni immobili pignorati che sono notoriamente oggetto di grande interesse per gli usurai.

Alla sede di Benevento di IVG, lavora la sorella dell’onorevole De Girolamo ma questo non vuol dire, ovviamente, che Nunzia sia collusa con la P3.

A quanto pare, le buone frequentazioni di Lombardi con i politici e i magistrati che contano, derivano certamente anche dai suoi rapporti di amicizia con i fratelli Giuseppe e Angelo Gargani. Il primo, di casa a Benevento, è stato parlamentare democristiano e poi deputato europeo di Forza Italia, partito di cui era anche responsabile del dipartimento Giustizia; l’altro è magistrato e per diversi anni è stato capo dell’ufficio ispettivo del ministero della Giustizia e presidente del consiglio dei giudici tributari che provvede a designare i componenti delle commissioni tributarie.

Secondo Gioacchino Genchi, il consulente informatico di molte Procure italiane, “I magistrati individuati sono solo alcuni. Si scoprirà che quelli aderenti alla P3 sono molto molto più numerosi”.

Naturalmente a Benevento di Pasquale Lombardi, non vuole parlare nessuno per paura di turbare la generale convinzione della “città tranquilla” immune da grandi collusioni politiche affaristiche. Non ci resta, quindi, che sperare nelle indagini di altre Procure della Repubblica per fare luce sui possibili collegamenti ed interessi della P3 in provincia di Benevento.

2 ottobre 2010

La trattativa e la cattura di Riina secondo Don Vitodi Lorenzo Baldo e Anna Petrozzi - AntimafiaDuemila

Non ci sta Massimo Ciancimino. E annuncia di aver dato mandato al suo legale Francesca Russo di querelare il generale Mori che ieri, senza tanti giri di parole, gli ha dato del truffatore e del manipolatore.Durante l’udienza del processo che lo vede imputato per favoreggiamento a Cosa Nostra l’alto ufficiale ha cercato di provare, con l’ausilio di un power point, come, a suo avviso, Massimo Ciancimino avrebbe alterato con una sapiente operazione di copia e incolla le lettere indirizzate a Berlusconi e Dell’Utri e depositate al fascicolo del processo.La dimostrazione grafica e copie delle dichiarazioni spontanee del generale sono state distribuite alla stampa, pubblicate sui maggiori siti

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8 settembre/ 3 ottobre 2010 19

di informazione e mostrate nei servizi di svariati Tg. Come probabilmente era nelle intenzioni di Mori e dei suoi avvocati la suggestiva ricostruzione, che il pm Di Matteo, per nulla scomposto, ha definito “esperimenti”, per ora di nessuna rilevanza probatoria, anche perché non sono stati applicati agli originali, ha oscurato completamente i molti elementi importanti emersi dal dibattimento.Innanzitutto, come abbiamo scritto ieri, la conferma di Liliana Ferraro che Paolo Borsellino era a conoscenza (cosa che si è sempre voluta negare) dei contatti tra il Ros e Ciancimino, quindi databili a giugno, come ha sempre sostenuto il figlio Massimo. E poi i documenti depositati dal pm con la richiesta di sentire di nuovo il testimone per ottenere le dovute spiegazioni.Si tratta di due lettere (che qui vi proponiamo sia in forma originale che letteralmente ribattute, refusi compresi) dattiloscritte da don Vito con qualche aggiunta autografa in testa, in coda e lateralmente, in alcuni punti poco leggibile. Una di due cartelle circa è intitolata “Appunti per incontro. A futura memoria” e l’altra è indirizzata a Fazio, ma non è quella di cui si è parlato recentemente inerente agli investimenti al nord.Sono due missive che, se ritenute valide dai periti che certamente le esamineranno, confermano in pieno quanto raccontato da Massimo circa la trattativa e gli accordi che hanno portato alla cattura di Riina. Come più volte spiegato dal figlio don Vito era convinto che le stragi e tangentopoli rientrassero in un unico progetto orchestrato da un “grande architetto” con il fine di “sfasciare” un sistema di potere di cui egli stesso era parte. (“Un effetto domino si è abbattuto su un rodato intreccio politico affaristico mafioso”) Per poi ricostruirne un altro: “Il Capolavoro Finale”.Ciancimino spiega il ruolo centrale avuto in questo piano nello “scellerato tentativo di soluzione avanzato con il mio contributo dal Colonnello dei Ros Mori per bloccare questo attacco terroristico ad opera della mafia ennesimo strumento nelle manni del regime”. Tentativo che si sarebbe arenato con l’omicidio del giudice Borsellino “sicuramente in disaccordo con il piano folle”.“Solo allora – continua  – (ci) si è decisi finalmente, costretti dai fatti, di accettare l’unica soluzione possibile”. Don Vito non esplicita per iscritto quale sia, ma più volte il figlio ha spiegato che era stato il padre a proporre sia a Provenzano che a Mori di accordarsi per la cattura di Riina quale unico modo per fermare “questa ondata di sangue”.Concetti che riprende anche in quella sorta di promemoria in cui più chiaramente ripercorre i

passaggi della trattativa supponendo che sia Falcone che Borsellino avevano compreso che il progetto che si stava dispiegando a partire dall’omicidio Lima era parte di uno scenario più ampio e inquietante.Don Vito si chiede come mai Di Pietro era stato avvisato, e in sostanza lasciato vivo, e intravvede in questo un disegno: a chi serve che vada avanti?E poi ancora: “Lima Falcone Borsellino Salvo, ancora la lista è lunga so che non interveniamo come ho suggerito non si fermeranno”.E subito di seguito: “Mori mi dice di essere stato autorizzato ad andare avanti per la mia strada”. Quella della consegna del capo dei capi.

Ovviamente si tratta della verità di Don Vito e considerati i trascorsi del personaggio andrà trattata con le pinze ma intanto un riscontro netto c’è ed è venuto da Violante che nella sua tardiva versione ha detto esattamente quanto scritto dal politico democristiano: “Ho chiesto di poter incontrare in Privato Violante”.

Insomma per quanto complicato il lascito di Vito Ciancimino, la sponda politica dei corleonesi, non si può pensare di poterla liquidare con gli “effetti speciali”. Ci sarà ancora da pazientare che i magistrati e i loro consulenti completino le perizie e chissà magari spunti qualche altro smemorato a chiarirci come sono andati veramente quei fatti del ’92. Qualche nome è indicato anche da Don Vito… Di certo c’è che finora gli sprazzi di verità ci vengono solo dal ventre molle di Cosa Nostra, e non da quello ancor più ambiguo delle Istituzioni.

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29 settembre 2010

I L M E G L I O D E L L A S E T T I M A N A D A G L I I T A L I A N I

20 8 settembre/ 3 ottobre 2010

Faccio outing.Sono padano e pure porco

di Pietro Orsatti

Sono padano e porco. Sono nato a uno sputo dal Po, ma sono cresciuto a Roma. Cucino la pasta con le sarde, adoro i cappellacci di zucca e vado pazzo per la coda alla vaccinara. La pajata mi fa un po’ senso, ma la salama da sugo la mangio solo per dovere patriottico. Ho delle belle vocali aperte, eredità di una nonna che parlava emiliano stretto con qualche inflessione veneta, e mi “smoscio” per pigrizia e abitudine nella cadenza testaccina. La pianura padana mi deprime un po’, come la nebbia, e spesso mi sento a casa mia solo nei vicoli di Garbatella o alla Kalsa cercando un posto che faccia pesce. Però, quando il treno dopo Bologna passa il Reno mi commuovo sempre un po’.

Ammetto di essermi messo a lutto quando ha chiuso il kebabbaro sotto casa mia, e il giovedì pomeriggio quella folla di migranti che invadono le nostre città mi mette allegria. Avevo al liceo un compagno di banco nigeriano e un paio di amici cileni e ho parenti sparsi fra Argentina e Brasile. Migranti anche loro. Migrante tante volte anch’io.

Mi piace questo Paese di città, borghi e frazioni. Ognuno con il suo dialetto, le sue tradizioni, la sua cucina, il suo vino. Mi piace pensare che siamo così poco ariani, un po’ arabi, greci, albanesi,

spagnoli, francesi, slavi, ebrei, berberi, normanni e longobardi.  Mi piace pensare che siamo dei cialtroni romantici, dei mediterranei creativi, dei pezzi di tante e tante storie. Diverse. Non siamo mai stati “italiani brava gente”, ma siamo stati italiani. Lo siamo stati.

Sono padano e anche porco. Curioso e un po’ troppo pallido. Vorrei pensare che anche tutti gli altri cittadini di questo Paese sgarrupato, ma che è sempre sopravvissuto a tutti i propri difetti, alla fine siano come me, come noi. Meticci.

Ma non è così. E tutto passa attraverso la privazione di cultura, pezzo per pezzo. Stillicidio. C’è chi vuole sbriciolare la vera identità ibrida di questo Paese sostituendola con un’identità artificiale. Dove il cittadino si trasforma in consumatore, l’utente in cliente, la persona in massa. E la massa va alimentata, con la diffidenza, la paura e poi l’odio.

Sono padano e porco. Un po’ ferrarese, romano, palermitano, lucano, triestino, ligure, levantino e ebreo. Sono un italiano. Non un italiano vero. Ma per davvero. Che guarda con repulsione alla Lega e alle mafie, al berlusconismo e al clericalismo d’accatto, alla cultura fast food della Gelmini e al decisionismo vigliacco degli uomini delle

espulsioni. Rifiuto l’idea di un Paese trasformato in supermercato. Con i poveri sotto i ponti clandestini e i furbi a ingrassare. Sono un italiano che non crede, ma crede nel diritto di ciascuno di credere in quel che gli pare.

Sono un italiano, porco e padano contemporaneamente, che crede nel valore assoluto dell’articolo 1 della Costituzione, e che ha dato gran parte di se stesso per applicare il 21. Sono uno che sa di avere ancora la possibilità di scrivere quello che sto scrivendo solo grazie a qualcuno che ha combattuto contro il nazifascismo.

Il fascismo che è stata roba nostra, perfino Hitler all’inizio andava a lezioni di dittatura da Mussolini. Quel fascismo, quella voglia di fascismo, che è ancora insita nel Dna del nostro popolo. E che oggi passa attraverso adolescenti addestrati alle armi, folle a Pontida, caccia agli omosessuali e ai “negher”,  banchi marchiati in una scuola padana, dossier e calunnie e intimidazioni, controllo dei media, lodi e leggine a personam. E che passa, purtroppo, attraverso i troppi “aventini” di questa nostra asfittica classe dirigente. Che si indigna intermittente, ma poi cala le braghe appena intravede un barlume di profitto. Anche piccolo. Anche presunto.