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1 G RUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI RASSEGNA STAMPA Anno 7 o, n.3 - Marzo 2014 Sommario: La storia in capacolor……………………………….…………………………….…….pag. 2 Il secolo della Leica, la macchina fotografica che fece la rivoluzione.…pag. 4 Ho visto questo, guarda anche tu……………………………………………..……pag. 6 Il Castello di san Giusto ospiterà l’Alinari Image Museum……….....……pag. 10 A foto donata meglio guardare in bocca………………….………………………pag. 11 Dora Maar – Nonostante Picasso……………………………………………………pag. 15 Le amazzoni della fotografia……………………………………………………….…pag. 18 Una giornata con Vivian Maier-La tata con la rolleiflex……………..………pag. 19 Quando le immagini avevano le gambe……………………………………..……pag. 23 Il conto corrente delle emozioni………………………………………………….…pag. 29 L’archivio e il progetto: la fotografia come campo di significato… …...pag. 31 Auto da selfie………………………………………………………………………….…..pag. 33 Maier madre dei selfie? ………………………………………………..………………pag. 34 Padova Photo-Graphia 2014, Timeline……….…………………………………..pag. 37 Ando Gilardi. La stupidità fotografica………………...…………………………..pag. 40 Nan Goldin - Scopophilia……………………………………………….………………pag. 44 Sia lode ora a uomini di gloria………………………………………………….……pag. 45 Nazionale, con e senza filtro……………………………………..…………………..pag. 50 8 Marzo, le 10 donne più belle della storia della fotografia…….………...pag. 53 Il più facile da copiare…………………………………………………….…………...pag. 57 Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea…………………pag. 59 Siamo fatti al 70% di fotografia………………………….…………………………pag. 61 Robert Mapplethorpe……………………………………………………………………pag. 62 Il lungo viaggio oltre la retorica………………………………………………….…pag. 64 L’occhio del fotografo…………………………………………………..………………pag. 66 Compie 80 anni Mimmo Jodice, il fotografo del mito e dell’infinito…….pag. 68

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GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI

RASSEGNA STAMPA

Anno 7o, n.3 - Marzo 2014

Sommario: La storia in capacolor……………………………….…………………………….…….pag. 2 Il secolo della Leica, la macchina fotografica che fece la rivoluzione.…pag. 4 Ho visto questo, guarda anche tu……………………………………………..……pag. 6 Il Castello di san Giusto ospiterà l’Alinari Image Museum……….....……pag. 10 A foto donata meglio guardare in bocca………………….………………………pag. 11 Dora Maar – Nonostante Picasso……………………………………………………pag. 15 Le amazzoni della fotografia……………………………………………………….…pag. 18 Una giornata con Vivian Maier-La tata con la rolleiflex……………..………pag. 19 Quando le immagini avevano le gambe……………………………………..……pag. 23 Il conto corrente delle emozioni………………………………………………….…pag. 29 L’archivio e il progetto: la fotografia come campo di significato… …...pag. 31 Auto da selfie………………………………………………………………………….…..pag. 33 Maier madre dei selfie? ………………………………………………..………………pag. 34 Padova Photo-Graphia 2014, Timeline……….…………………………………..pag. 37 Ando Gilardi. La stupidità fotografica………………...…………………………..pag. 40 Nan Goldin - Scopophilia……………………………………………….………………pag. 44 Sia lode ora a uomini di gloria………………………………………………….……pag. 45 Nazionale, con e senza filtro……………………………………..…………………..pag. 50 8 Marzo, le 10 donne più belle della storia della fotografia…….………...pag. 53 Il più facile da copiare…………………………………………………….…………...pag. 57 Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea…………………pag. 59 Siamo fatti al 70% di fotografia………………………….…………………………pag. 61 Robert Mapplethorpe……………………………………………………………………pag. 62 Il lungo viaggio oltre la retorica………………………………………………….…pag. 64 L’occhio del fotografo…………………………………………………..………………pag. 66 Compie 80 anni Mimmo Jodice, il fotografo del mito e dell’infinito…….pag. 68

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La storia in Capacolor di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Robert Capa, [Pablo Picasso playing in the water with his son Claude, Vallauris, France],1948.© Robert Capa/International Center of Photography/Magnum Photos., g.c.

Erano azzurri i cieli della Normandia devastata, era giallo e caldo il sole del Pacifico in fiamme. Ma la nostra coscienza è a disagio, i nostri occhi resistono: no, la Seconda Guerra Mondiale era monocroma e cupa. I colori non sono ammessi nel ricordo del macello planetario. Invece sì, i colori c’erano e qualcuno ce li ha raccontati, e quel qualcuno è proprio il fotoreporter che forse più di ogni altro ha costruito l’immaginario in bianco e nero della guerra: Robert Capa. Non è un segreto, che il “più grande fotografo di guerra” celebrato in vita abbia infilato, e non occasionalmente, rullini di Kodachrome (più raramente di Ektachrome) nelle sue Contax. Immagini a colori firmate Capa erano già apparse qua e là.

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Ma era un dettaglio ridotto forzosamente a curiosità, a particolare biografico, anche dai biografi che confusamente intuivano come quelle immagini squillanti (Kodachrome gives you those nice bright colors, cantava Paul Simon) fossero una minacciosa incrinatura nella compattezza “drammatica” di un mito del fotogiornalismo. La mostra Capa in Color, all’Icp di New York, tempio della fotografia impegnata, alza il velo rischioso con filologico coraggio, mettendo in conto qualche sconcerto. Sì, Bob Capa fotografava a colori, iniziò in Cina nel 1938 (sopravvivono solo le quattro immagini che Life pubblicò) e riprese su base più regolare dal ’41, e continuò nel dopoguerra, e fu a colori l’ultima sua foto, in Indocina, scattata pochi istanti prima di saltare su una mina. Solo che per decenni nessuno aveva più aperto quel cassetto dell’agenzia Magnum di New York dove riposavano in scatole ben ordinate la bellezza di 4200 diapositive firmate dal presunto integerrimo vate del bianconero. Marines in Tunisia sventolano come trofeo una chiassosa rossa bandiera nazista. Soldati britannici scrutano un azzurrissimo cielo francese in piedi su un verdissimo prato. Life, Collier’s, The Illustrated, Saturday Evening Post uscivano già a colori, e chiedevano colori. Era un obbligo professionale. Perfino Certier-Bresson, che trovava il colore “distraente e disgustoso”, si piegò più volte al compromesso: «In certi posti non ti mandavano se non gli garantivi il colore»). Questa pressione mediatica verso il policromo ci risulta un po’ strana, perché i protagonisti l’hannos empre raccontata malvolentieri. Ma smentisce un’idea che ci siamo fatti, e che troppo spesso torna come luogo comune nelle storie della fotografia: che fino ai tre quarti del secolo scorso il bianco e nero fosse, epr una ime e coondivisa percezione, “il colore della realtà”, mentre la tavolozza fosse roba da illusionisti della pubblicità. Del resto, le pellicole a colori erano in commercio già dalla fine degli anni Trenta. I grandi però le detestavano soprattutto perché il controllo finale di toni e contrasti era quasi impossibile. Paul Strand: «Colore e fotografia non hanno nulla in comune», Walker Evans: «Il colore tende a corrompere la fotografia», Edward Weston, il più cauto: «Sono mezzi differenti per scopi differenti», Henri Cartier-Bresson: «Gamma troppo limitata di toni». Eppure tutti quanti, perfino Ansel Adams, il “pianista” perfetto del banco e nero, si concessero prima o poi qualche scappatella nell’arcobaleno. Magari solo per quella costante pressione dell’industria fotografica, che sollecitava testimonial eccellenti per i suoi prodottii di massa.

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Certo, nessuno considerò quelle foto come parte della propria poetica. I procedimenti di stampa dell’epoca tendevano a rendere le tinte un po’ pacchiane. Almeno queste erano la motivazioni ufficiali . Quella inconfessabile, forse, era un’altra: le fotografie a colori, agli occhi di chi le guarda, sono finestre trasparenti molto più di quelle monocrome; la mediazione del fotografo, la sua “scrittura” d’autore sembrano scomparire, il mondo sembra rappresentato “così com’è davvero” e non filtrato da uno sguardo. Ovviamente non è così: non c’è colore “naturale” in fotografia, ogni epoca ha il suo colore fotografico, la sua “paletta” inconfondibile. I colori hanno una data. Forse per questo è stato possibile solo oggi tirar fuori dai cassetti il Capa policromo: perché i suoi colori non appaiono più così naturali e “veri”, perché anche la guerra mondiale a colori ha ormai preso la patina della storia. Tag: Collier’s, Edward Weston, fotografia a colori, Henri

CartierBresson, Icp, Kodachrome, Life,Magnum, Paul Simon, Paul Strand, Robert Capa, Saturday

Evening Post, The Illustrated, Walker Evans

Scritto in colore, fotogiornalismo, Venerati maestri | 10 Commenti »

Il secolo della Leica, la macchina fotografica che fece la rivoluzione di Vittorio Sabbadin da http://www.lastampa.it/ Inventata nel 1914, rese possibile l’immagine “istantanea”

La Leica M (digitale) fotografata alla fiera del 2012 in cui fu presentata

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Oscar Barnack era un ingegnere dalla salute malferma che nel 1914 lavorava alla Leitz di Wetzlar, in Germania. Aveva l’aspetto di un uomo buono e tranquillo, gli occhi chiari, i baffi curati, la fronte ampia tipica delle persone di genio. Barnack era un grande appassionato di fotografia, ma il suo fisico non gli permetteva di trascinarsi dietro l’ingombrante e pesante attrezzatura necessaria all’epoca per scattare una foto. Si dice sia nata così la sua ossessione: creare una piccola, leggera e affidabile fotocamera che potesse stare in tasca ed essere usata con facilità. La inventò nel marzo del 1914, cento anni fa, con la scusa di progettare – come gli era stato richiesto – una piccola macchina che testasse la sensibilità della pellicola cinematografica. La «Ur-Leica» (crasi di Leitz e camera) che presentò era molto di più. Era un prodotto rivoluzionario, che non migliorava qualcosa che già esisteva, ma stabiliva un nuovo standard nella tecnica di ripresa fotografica che viene usato ancora oggi. La Grande Guerra e le difficoltà economiche della Germania di quegli anni ne rallentarono la commercializzazione, ma nel 1925, per la Fiera di Primavera di Lipsia, erano pronti i primi esemplari. La «Leica I» stabilì come, da allora in avanti e per quasi un secolo fino all’avvento dell’era digitale, dovevano essere scattate le fotografie. Decise l’impostazione dei comandi, con lo scatto dell’otturatore e l’avanzamento della pellicola a destra, adottò il formato 24x36 della pellicola (chiamato per anni il formato Leica), in un caricatore metallico a prova di luce, che poteva essere cambiato per strada. Le lenti, che erano già il vanto dei cannocchiali Leitz, erano straordinariamente luminose e consentivano di scattare fotografie anche nella penombra. A Lipsia, i soliti idioti con lo sguardo perennemente rivolto al passato definirono la nuova macchina «un giocattolo da borsetta per signora», senza capire la rivoluzione che stava per cominciare: chiunque avrebbe potuto fotografare con facilità la realtà di strada, documentando gli eventi di tutti i giorni. E i grandi fotografi avrebbero potuto catturare il momento decisivo, l’istantanea che ferma gli avvenimenti mentre accadono, mettendone a nudo l’anima. Nel corso degli anni, la Leica è migliorata in continuazione, ma non è mai cambiata, conservando un look caratteristico e inconfondibile. Ogni appassionato di fotografia è innamorato della M3, prodotta dal 1954 al 1968. Fu la prima fotocamera dotata di telemetro, che consentiva la messa a fuoco con la sovrapposizione dell’immagine nel mirino di visione, abbreviando il tempo necessario a scattare e ponendo le basi del moderno fotogiornalismo. Introdusse l’attacco a baionetta degli obiettivi, che non è mai più cambiato e consente ancora oggi di usare quelle lenti di mezzo secolo fa famose per la capacità risolvente e un micro contrasto mai più raggiunti nel bianco e nero. È a questa fotocamera che Steve Jobs pensava quando presentò l’iPhone 4, paragonandolo «a una bellissima vecchia macchina fotografica Leica». Per l’industriale e designer Carlo Alessi la M3 era «un prodotto perfetto del design del XX secolo, impossibile da modificare». Chi possiede una Leica di quegli anni la custodisce gelosamente. Sono macchine che si amano ancora al tatto, sono piacevoli, arrotondate, hanno una meccanica fluida, lo scatto dolce e silenzioso, con lo snobistico doppio colpo

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nella leva di avanzamento della pellicola. Funzionano sempre, perché erano costruite per durare. Il libretto di istruzioni cominciava con le intimidenti parole: «State tenendo nelle vostre mani una Leica», frase che gravava di responsabilità il possessore non solo nel preservare quel capolavoro di ingegneria ottica e meccanica, ma anche nel rispettarne il mito scattando foto all’altezza della sua storia. Se non venivano bene, non si poteva più dare la colpa alla macchina.

Ho visto questo, guarda anche tu di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

La fotografia è la fotografia è la fotografia. Potremmo forse cavarcela così, invocando la poetica legge dell’autoevidenza delle cose, dettata da Gertrude Stein un secolo or sono. Ma possiamo davvero continuare a utilizzare la parola fotografia, intesa come categoria concettuale che definisce un certo tipo di immagini, possiamo addirittura coniare l’espressione il fotografico che pretende di coglierne l’essenza, senza mai provare a definirla, a capire cosa contiene di speciale? Certo, come tutti i concetti che descrivono fenomeni culturali, il concetto di fotografia cambia nel tempo e nello spazio. La fotografia è ciò che di volta in volta fa di se stessa, mi sembra il succo della risposta che Claudio Marra, studioso e storico del medium, ha voluto gentilmente dare, neicommenti al precedente articolo, alle mie osservazioni

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sull’argomento: non è, dice, “un’entità definita e già confezionata una volta per tutte, non è un oggetto o una definizione chiusa che sta nascosto da qualche parte”. Giusto. Tuttavia qualcosa devono pure averla in comune i calotipi e gli hdr, i seflie dei ragazzini e gli affreschi di Salgado, le fototessere e i paesaggi di Adams, se tendiamo a chiamare tutte queste cose, nel lingiaggio comune, fotografie, a dispetto dei catoni censori della fotografia “d’autore”. Bene, cos’è allora quel qualcosa, oltre la pura e semplice ricorrenza di una parola? Qualche settimana fa la definizione di fotografia sull’omonima voce di Wikipedia in italiano era una specie di tautologia: “Una fotografia è una immagine ottenuta tramite un processo di registrazione permanente e statica di un’immagine [...]“. Mi sono permesso di correggerla così: “Una fotografia è una immagine ottenuta tramite un processo di registrazione permanente e statica delle emanazioni luminose di oggetti presenti nel mondo fisico, selezionate e proiettate da un sistema ottico su una superficie fotosensibile”. Ma anche così, abbiamo solo la definizione di un processo, e non di un concetto. La fotografia, come oggetto culturale e antropologico, non è solo questo. Ci serve una definizione che comprenda anche il perché e non solo il come di quella caratteristiche specifiche che ci portano a ritenere che una certa immagine sia una fotografia Certo, possiamo aggirare lo scoglio, l’ho suggerito io stesso, dicendo semplicemente che il fotografico è l’insieme delle pratiche, delle poetiche e delle riflessioni che la fotografia ha maturato storicamente per se stessa, e non è affatto una definizione insensata. Sennonché, invece di porre fine alle domande, ne suscita molte altre: bene, ma in che modo speciale il fotografico fa queste cose, e in cosa questo modo è diverso da altri modi, dal pittorico, dallo scultoreo, dal filmico? Ho l’impressione che abbiamo tutti quanti un po’ paura di definire il fotografico, scottati, o annoiati, o estenuati da tante inutili diatribe essenzialiste sulla natura (concettuale, semiologica, estetica) della fotografia, da troppe prefiche piangenti sulla “morte della fotografia”, sulla presunta “rivoluzione digitale” che cambierebbe tutti i paradigmi (so bene cosa Marra scritto sul tema, e lui credo sappia che mi ha convinto). Capisco anche che alcune strade per definire il fotografico avanzate in passato anche da pulpiti illustri si siano rivelate dissestate, o un po’ strette, a volte cieche. Il fotografico non si lascia definire esclusivamente dall’utilizzo di un certo set di apparati, né dalla sua genealogia di immagine-impronta, né dal suo statuto semiologico di “icona indicale”.

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Le critiche a cui questi concetti-chiave sono stati via via autorevolmente sottoposti, se non sono riuscite a minarne la credibilità, hanno dimostrato comunque che non sono sufficienti, ciascuno per sé, a definire il campo del fotografico. Cosa manca ancora? Non sono presuntuoso: non lo so. Ma so che se esitiamo troppo a proovare a definire l’oggetto della nostra passione, per timore di essere azzannati di nuovo da polemiche viziose, o di alzare recinti che poi crollano, finisce che lasciamo la fotografia senza identità, a disposizione di qualsiasi scorribanda intellettuale più o meno spensierata. E dunque io credo che il fotografico, certo, non sia un sacro Graal incorruttibile ed eterno, un gioiello nascosto che bisogna solo scoprire e metter sull’altare; eppure una qualche idea razionale e laica, quondi modificabile ed evolubile, di cosa tenga insieme le mille fotografie esistenti, al di là delle pratiche, delle epoche, delle teorie, dobbiamo avere il coraggio di proporla. “Chi vuole definire la fotografia è un foto-fascista”, ebbe a dire Duane Michals. Non capisco, forse ce l’aveva con qualcuno che aveva definito la sua. Ma non importa, accetterò il rischio e avanzerò una proposta di definizione. Ancora embrionale, ma che vorrei veder crescere con l’aiuto di tutti.

Penso che il fotografico sia, al suo grado più profondo, un procedimento di produzione di immagini, governato da un protocollo di regole e tecniche specifiche, che rende possibile la condivisione sociale di una visione individuale delle cose del mondo fisico. Così come il linguaggio è il procedimento

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governato da regole grammaticali e sintattiche che rende possibile la condivisione sociale di un pensiero individuale. L’elemento sociale, relazionale, è indispensabile quanto quello tecnologico per capire e definire la fotografia. “Nessuno può fare fotografia da solo”: l’intuizione di McLuhan non è mai stata così vera oggi, ma lo è stata fin dall’inizio. Detto in altro modo, la fotografia è una relazione fra esseri umani mediata da oggetti visuali basati su un prelievo di forme dal mondo reale, realizzato attraverso un protocollo stabilito. Il rispetto di quel protocollo (il sistema lenti – superficie sensibile – memoria fisica) non ha quindi lo scopo di garantire che l’immagine sia “realistica” o “oggettiva”, attributi a lungo assegnati alla fotografia come sua identità, né che sia una “vera rappresentazione” (un ossimoro) della realtà, anche se quest’ultima è stata a lungo la definizione di fotografia. Ma serve a garantire che quella che stiamo condividendo sia un’immagine che rende visibile e comunicabile ad altri uno sguardo buttato sulle cose, e non un immaginario maturato nella mente. Questa è la vera differenza fra fotografia e pittura, non la loro verosimiglianza (esistono pitture iperrealiste, e fotografie pittoriche). Molte delle caratteristiche tecniche, semiologiche, filosofiche, estetiche che nel tempo sono state chiamate in causa per definire il fotografico, e puntualmente contestate in seguito, possono recuperare qui il loro valore come condizioni di questo scopo fondamentale, unico, specifico della fotografia, ovvero la condivisione di uno sguardo sulle cose. Così il noema “è stato” di Roland Barthes, così la nozione di indice di Charles S. Peirce ripresa da Rosalind Krauss, così la teoria dell’impronta di Georges Didi-Huberman. Il fotografico è la tarda incarnazione, debitrice della tecnica, di una profonda esigenza umana, la condivisione del veduto, che la civilità ha cercato a lungo di soddisfare con mezzi inadeguati. La fotografia è una relazione speciale fra esseri umani, è l’ebbrezza di poter dire al nostro simile, perfino a distanza, “ho visto questo, guardalo anche tu”. Tag: Charles S. Peirce, Claudio Marra, definizione, Duane Michals, Federica

Muzzarelli, fotografia,Georges Didi-Huberman, Gertrude Stein, Marshall McLuhan, Roland

Barthes, Rosalind Krauss,Sebastião Salgado, William Henry Fox Talbot

Scritto in definizioni, filosofia della fotografia | 31 Commenti » Il Castello di San Giusto ospiterà l'Alinari Image Museum

di Alessia Liberti da http://www.triesteallnews.it/

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Potrebbe mancare veramente poco all'avvio dei lavori per la realizzazione dell'Alinari Image Museum (Aim), un museo-laboratorio interattivo, che aprirebbe la strada alla realizzazione di un nuovo spazio espositivo multimediale interamente dedicato all'immagine digitale. Si fa sempre più concreta l'ipotesi che questo nuovo museo sarà ospitato all'interno del Bastione Fiorito del Castello di San Giusto in uno spazio espositivo di ben 480 metri quadrati. A dare la notizia è stata la Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia. In realtà l'idea della realizzazione del museo circolava già dal 2005 e in questi anni il progetto si era incagliato più volte tra rinvii e proroghe. Finalmente è stato trovato un accordo economico, accordo che permetterà al Comune di Trieste di beneficiare del 15% del costo del biglietto d'ingresso. Trieste è stata scelta come sede di questo nuovo museo in quanto, oltre ad essere una città fondamentale per il settore scientifico, ha anche una grande e solida tradizione fotografica, tradizione resa possibile soprattutto grazie alla sua strategica posizione. Trieste infatti è l'unica città che si trova esattamente a metà tra il Mediterraneo e la cultura del centro e dell'est Europa. L'Alinari Image Museum andrà ad inserirsi in un nuovo e accattivante contesto del settore musei, distinguendosi per unicità e innovazione: si tratterà di un museo-laboratorio dove i visitatori, grazie alle nuove tecnologie, potranno sfruttare tutti e cinque i sensi per interagire sia con lo spazio reale che con

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le numerosissime immagini ad alta risoluzione presenti all'interno del vastissimo database Alinari. La Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia svolgerà all’interno di Aim le seguenti attività: esposizione permanente dedicata all’immagine digitale, l’immagine tridimensionale, l’immagine in movimento, l’immagine virtuale. L’interazione avanzata con l’immagine sarà resa possibile grazie all’utilizzo di infrastrutture tecnologiche all’avanguardia (elaborare l’immagine, toccare l’immagine, ascoltare l’immagine). Molto importante sarà anche il settore delle mostre temporanee, ovvero un insieme di mostre multimediali che svilupperanno il tema della fotografia, del cinema, dell’immagine e della comunicazione visiva, in collaborazione con alcune delle principali Istituzioni Nazionali ed Internazionali del settore.

A foto donata, meglio guardare in bocca di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Ecco, l’ho fatto. È stato molto semplice.

Sono andato sul sito di Getty Images, ho scritto “photographer” nella casellina di ricerca, ho scelto fra i risultati una delle immagini più vendute, ho copiato il suo codice sorgente, l’ho incollato qui sopra e oplà, ho pubblicato una fotografia coperta da copyright senza spendere un centesimo. E Getty non se la prenderà con me, perché è proprio Getty che mi ha concesso di farlo. È una bomba nella piccionaia del dibattito sui diritti d’autore in Rete. Da ieri il colosso mondiale del mercato delle immagini autorizza l‘embedding gratuito di 35 milioni di foto dal suo archivio. Gestori di blog come me, costruttori di pagine Web, privati, anche aziende editoriali, anche testate giornalistiche, chiunque possieda un account tipo WordPress, Tumblr o anche Twitter, possono farlo, purché “non per scopi commerciali”. E badate bene, per Getty, che lo dice esplicitamente, il fatto che un sito o una testata ospitino pubblicità non è sufficiente a definire “commerciale”, e dunque pagante, l’uso dell’immagine. Per questo anche io, sul sito di questo giornale, posso pubblicarla gratis. Scusate se non riesco a trattenere un largo sorriso, che forse stinge anche sulle parole che sto scrivendo. Per aver caldeggiato un diritto di condivisione gratuita dei contenuti visuali pubblicati sul Web, a scopi non commerciali, ma di discussione, critica, informazione, per averproposto eccezioni al diritto d’autore sulle immagini del

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tutto simili a quelle che valgono già per i testi, a suo tempo fui coperto di contumelie da branchi di fotografi furenti che mi obiettavano “sì, bravo, prova tu a prenderle gratis, le foto, a Getty…”. Bene, ora Getty sembra ”scavalcarmi a sinistra“, per dire. Quel che concede è perfino un po’ di più di quel che nel mio piccolo proponevo io, sulla base del principio “contro l’appropriazione, per la condivisione”. Ma le modalità sembrano le stesse: corretta citazione della fonte e dell’autore (che vengono imposte automaticamennte dall’embedding), dimensioni medio-piccole, uso non commerciale. Sembra quasi che, senza dirlo troppo, Getty si sia allineata alla filosofia di Creative Commons: gestione elastica e modulata dei diritti, secondo le finalità di utilizzo e non secondo un “valore assoluto” dell’immagine. Ma è davvero così? Forse è meglio guardare nella bocca del caval donato, prima di metterlo nella stalla. Perché Getty fa questo? Scartiamo l’idea che sia un suicidio commerciale. A primo acchito, sembrerebbe però una resa, o almeno una ritirata. Possibile? Non credo. È un cambio dii strategia. Intelligente, ardito, probabilmente devastante per i concorrenti, e io credo anche per i fotografi. Intervistato dal sempre attentissimo British Journal of Photography, Craig Peters, alto dirigente di Getty, spiega più o meno così: tanto ormai tutti copiano e pubblicano abusivamente le nostre foto, allora meglio gestire questo flusso cercando di ricavarne qualche vantaggio, che irrigidirci dietro un copyright che non garantisce più nulla perdendo ogni controllo sulle nostre immagini. Quale sarebbe dunque il male minore, o il vantaggio residuo, di questa operazione “liberi tutti”? Be’, embeddare una fotografia di Getty non è come copiarla col tasto destro del mouse. Se cliccate sulla foto che ho embeddato qui sopra, verrete trasportati sul sito di Getty, alla pagina della foto in questione, dove potrete sapere di più della medesima, e se vi interessa per scopi commerciali, comprarla. Vi sembra un po’ poco, come “meglio di niente”? Avete ragione. C’è dell’altro, sotto la retorica avanguardista con cui il Ceo di Getty Jonathan Klein sbandiera la novità come una prova della genialità innovativa e del coraggio della sua azienda. E quel che c’è non è poco. Il succo di questa operazione richia di essere un ribaltamento radicale del ruolo della fotografia nel mercato delle immagini.

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Leggendo bene le interviste, infatti, si capisce che Getty si riserva di incollare pubblicità alla sua foto “embeddata”. Attenzione al meccanismo, perché è importante. Voi quella immagine all’inizio del mio articolo la vedete come se l’avessi copincollata qui in Fotocrazia, come faccio di solito; ma io ho solo inserito un codice, la foto non è stata scaricata nel mio server, ve la “proietta” Getty, che la gestisce ancora. E Getty, come succede con i video gratuiti di YouTube, prima di farvela vedere potrebbe propinarvi un banner: utilizzando così il mio blog come spazio pubblicitario gratuito. Inoltre, embeddando la foto, io concedo a Getty il diritto di sapere chi l’ha ripubblicata, cioè io, e anche quante persone l’hanno vista, e come, e quindi di raccogliere quel big datache sono così preziosi per il marketing delle grandi imprese online. No, decisamente nessuno fa niente per niente. Intendiamoci, credo che Getty non avrebbe fatto questo passo se il fenomeno anarchico della condivisione selvaggia, ma anche una discussione sempre più intensa sul diritto d’autore ai tempi del Web non l’avesse spinta a farlo, cavalcando l’onda prima di farsene sommergere. Chi primo arriva, in queste cose, parte sempre favorito. E non sbagliano i big di Getty a prevedere che i loro grandi concorrenti, Corbis, Magnum, non se ne staranno con le mani in mano di fronte a una sfida concorrenziale così radicale. Del resto, nei piani di Magnum c’era già qualcosa del genere, anche se non così estrema: una sorta di “abbonamento” poco costoso (poche decine di euro l’anno) ai contenuti dell’agenzia per clienti non commerciali come blogger, siti privati eccetera. Ora forse la storica agenzia dovrà accelerare i tempi e magari concedere di più. Chi non sarà felice di questo free turn, e già le avvisaglie si leggono sui social network, saranno ovviamente i fotografi. È evidente che una foto

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pubblicata liberamente non frutterà nulla a chi l’ha prodotta e ne detiene i diritti. A quanto vedo, non tutte le foto gestite da Getty saranno disponibili per l’embeddinggratuito (per esempio, tranquillizzatevi popolo di Flickr, i codici delle immagini dei suoi utenti con contratto di vendita via Getty non sono embeddabili), ma per tutti gli altri, o la minestra o la finestra. Le nuove regole dicono ben chiaro, però, che non c’è per il fotografo fornitore di Getty alcuna opt-out individuale, non ci si può sottrarre. I fotografi contributor dovranno accettare la gratuità, e non si sa se Getty li ripagherà monetizzando loro una parte dei benefici “indiretti” attesi, di cui dicevo sopra Per riassumere, questa mi sembra una novità a due facce. Da una parte, l’insostenibilità di un copyright ormai vecchio e inadeguato al Web, l’anarchia della condivisione in Rete, la pressione verso nuove regole, ma anche la concorrenza spietata del microstock a prezzi che ormai rasentano la gratuità, hanno colpito un bersaglio grosso, costringendolo a cambiare strategie e ad ammettere, almeno su un piano di principio, che esistono condivisioni legittime di contenuti protetti da diritti. Dall’altra, questo cambio di strategia sposta solo il baricentro commerciale da una modalità di sfruttamento delle immagini a un’altra. Da merce in vendita per il suo valore specifico, la fotografia diventa ora uno strumento intermedio per realizzare altri profitti: diventa un contenitore pubbliciario, o un acchiappa-clic per operazioni di raccolta dati di marketing. Dunque nessuno ha molto di cui gioire: né gli apostoli del no-copyright, che vedono rienntrare dalla finestra quel che pareva uscito dalla porta, né i gestori di pagine Web, che le mettono a disposizione degli inserzionisti in uno scambio che mi pare difficilmente equo, né i fotografi che ri riducono ad allevatori di specchietti per allodole. Nessuna rivoluzione, le fotografie le paghiamo ancora, ma con una moneta diversa. Quella del nostro valutatissimo clic di utenti pubblicitari o carne da marketing. E la fotografia però scende di un gradino: non è più un vero contenuto che vale per sé,non è neppure una merce che ha un prezzo specificio, ma ripeto, diventa un veicolo. La paternità dell’opera, vero, sembra essere meglio tutelata con i credit automatici, ma in questo modo l’autore rischia di diventare il testimonial non retribuito di uno spot. No, non era proprio questo a cui pensavo quando immaginavo un diritto di libera e corretta citazione dei contenuti visuali come contenuti culturali.

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Staremo a vedere cosa succederà davvero, può anche funzionare e aiutare i blog come questo che non hanno budget per le immagini. Ma una cosa è chiara, se viene pagata con la pubblicità la condivisione è nella migliore delle ipotesi un cambio merci, e non ancora, come dovrebbe essere, un diritto sociale e culturale. Pensate se in un saggio accademico su Leopardi trovaste questa citazione: “…e il naufragar m’è dolce in questo mare. (Bevete Coca Cola)”. Tag: agenzie, British Journal of Photography, Copyright, Corbis, Craig Peters, fotografia di stock, Getty

Images, Jonathan Klein, Magnum

Scritto in after photography, Copyright, dispute, Immagine e Internet, mercato | 22 Commenti » Dora Maar - Nonostante Picasso da Lettera Artribune [email protected]

Henriette Theodora Markovitch, meglio nota come Dora Maar (Parigi, 1907-1997), nell’immaginario e nel ricordo dei posteri è stata soprattutto l’amante e la musa del grande Picasso; la donna di rara bellezza e dalla personalità enigmatica che aveva sedotto il massimo pittore del secolo e, abbandonata, era sprofondata nella pazzia, vivendo isolata dal mondo per i restanti cinquant’anni. “Sacrificata al Minotauro”, “Segregata con i suoi fantasmi ammuffiti”, “Dora, lacrime dipinte”: titolarono i giornali quando i suoi beni vennero messi all’asta, dopo la morte. Ma Dora Maar non fu solo questo, fu anche e soprattutto una straordinaria artista e la mostra promossa dalla Fondazione Musei Civici di Venezia dall’8 marzo al 14 luglio – tra gli appuntamenti di “Primavera a Palazzo Fortuny” – prima esposizione dedicata in Italia a questa grande fotografa, su progetto di Daniela Ferretti e a cura di Victoria Combalía sua sensibile studiosa, vuole appunto rivelare il singolare talento di “Dora Maar. Nonostante Picasso”. Grazie ai prestiti ottenuti da importanti musei e collezioni private, la mostra – che espone oltre un centinaio di opere, con alcuni lavori inediti dell’artista di grande interesse – ripercorre la carriera e la personalità di Dora: una donna certamente complessa e tormentata come appare nei dipinti di Picasso, ma anche acuta, intelligente e politicamente impegnata. Una personalità poliedrica e dalle molte vite. Una grande fotografa.

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E infatti dopo aver vissuto con la famiglia tra Parigi e Buenos Aires – il padre famoso architetto croato e la madre francese – e dopo aver frequentato l’École et Ateliers d’Arts Décoratif e l’Accademia di André Lhot – dove incontra e stringe amicizia con Henri Cartier-Bresson – Dora Maar viene convinta a studiare fotografia all’École de Photographie de la Ville de Paris dal critico Marcel Zahar, anche se sarà soprattutto Emmanuel Sougez a fornirle preziosi consigli tecnici. Risalgono al 1928 i primi lavori realizzati su commissione e nel 1930 la Maar inizia a lavorare come assistente di Harry Ossip Meerson, nel cui studio conosce Brassaï. Quindi il connubio con Pierre Kéfer, il giovane che aveva creato le scene per il film La caduta della casa degli Usher di Jean Epstein. Le loro opere vengono firmate con il timbro Kéfer-Maar ma gli scatti di strada, che pure portano le due firme congiunte, sono quasi totalmente di Dora. Sono queste forse le sue foto meno note – di cui la mostra al Fortuny propone una straordinaria selezione – eppure di grande interesse per l’attenzione alle frange marginali della società (scene di miseria e vagabondi, ciechi e e storpi), per il mondo dell’infanzia, per la vita quotidiana che si svolge nelle strade ove prevalgono il popolare (mercatini, fiere) e l’eccentrico (il negozio di tatuaggi, la vetrina del mago, il canguro di paglia…). >>> “Lo sguardo di Dora – scrive la Combalìa – non ha il distacco documentario di Atget, né la crudezza di Brassaï, né l’obiettività di Cartier-Bresson. Lei non è direttamente interessata ai “bassifondi”, ai bordelli o ai cabaret”. A volte il suo sguardo si fa pietoso come nel Mendicante accasciato su una sedia pieghevole (1932 c.), altre volte è pieno di ironia come in Niente elemosina. Voglio un lavoro (1934) dove un impeccabile signore con tanto di bombetta vende fiammiferi mostrando un cartello con scritto: “ho perso tutto negli affari”. L’attenzione di Dora per i meno abbienti in una Parigi colpita dalla grande crisi del ‘29 “si colora anche di politica”. All’epoca la Maar aveva una relazione con un giovane e intelligente cineasta Louis Chavance e frequentava il mondo di Montparnasse con Paul Éluard, i fratelli Jacques e Pierre Prévert, Luis Buñuel, ma cosciente delle disuguaglianze sociali, decide anche di impegnarsi nella lotta in favore delle classi umili ed entra a far parte nel 1933 del gruppo Masses, dove conosce il filosofo e rivoluzionario Georges Bataille. La loro relazione dura pochi mesi, la loro amicizia molto più a lungo. Tra le foto “di strada” un posto particolare hanno quelle scattate nel suo viaggio solitario nel ‘33 a Barcellona e in Costa Brava: Dora fotografò il mercato della Boquería con le venditrici, le macellaie, i mendicanti, i bambini e i colori. Fece degli scatti al Parco Güell di Gaudí, scegliendo gli stessi motivi ripresi quell’anno da Man Ray; fissò immagini del villaggio di Tossa con i suoi pescatori. A Parigi Dora si recò spesso nella Zone, una serie di terreni incolti nelle vicinanze della città, dove gente poverissima (gli zonards) viveva nelle baracche. Fu qui che scattò immagini come Due bambini davanti a una roulotte (1931-’36) e Donna e bambino alla finestra (1935), efficaci ritratti di povertà così come Ragazzino con le scarpe spaiate (1933). Il bambino tiene gli occhi chiusi e questo – come sottolinea la curatrice – è uno dei temi che ossessionerà Dora Maar: lo sguardo, la cecità e gli occhi chiusi in trance o nel sonno. In un sorprendente fotocollage finora inedito, Ciechi a Versailles, vediamo riuniti nella residenza dei Re di Francia – visione surrealista – tutti i non

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vedenti fino ad allora fotografati da Dora Maar: l’orchestra di ciechi di Barcellona, un uomo-sandwich con gli occhi chiusi, un cieco che canta e un bimbo che dorme. L’impegno politico di Dora coincide con il suo ingresso al gruppo surrealista. Dora Maar era inevitabilmente attratta dalle idee surrealiste: oltre a schierarsi dalla parte dei diseredati, aveva un’istintiva e forte inclinazione per il misterioso, il magico e il soprannaturale e temi fondamentali del credo estetico e ideologico dei surrealisti erano proprio il pensiero automatico, la follia, l’arte infantile, il mondo primitivo, l’erotismo. “Rivelare l’inquietante stranezza del quotidiano” diventò uno dei talenti di Dora Maar: nei monumenti visti da dietro (Scultura di pietra), nelle sculture che danno l’impressione di volersi staccare da un ponte (Pont Mirabeau), nella iperrealtà di un manichino dall’ammaliante sguardo (Busto di donna) o nella serie di fotografie di architetture monumentali che fanno da sfondo a scene scioccanti o enigmatiche realizzate tra il 1935 e il 1936. Famosissima la foto Il simulatore (1936) che altro non è se non una veduta capovolta delle arcate dell’Orangerie del castello di Versailles. Il soffitto diventa pavimento, arcuato come la curva descritta dal corpo del ragazzino che sembra in precario equilibrio. Spesso Dora dimostra grande senso dell’umorismo, come nel collage in mostra, anch’esso inedito, Villa in vendita, oppure in Veduta del ponte Alessandro III (1931- 1936 c.) dove la particolare inquadratura trasforma in un fallo la fiaccola stretta nella mano di una figura femminile scolpita. Si susseguono in questi anni le esposizioni: alla “Mostra Surrealista” di Tenerife nel 1935 e, nel 1936, a “Fantastic Art, Dada e Surrealismo” di New York, alla mostra “Objets Surréalistes” alla Galleria Charles Ratton e alla “Mostra Internazionale del Surrealismo” di Londra. >>> Dora Maar alternava la fotografia sperimentale a quella commerciale. Eseguì ritratti, foto di nudi, pubblicità. Come alcuni fotografi suoi contemporanei adottò un linguaggio sperimentale per i suoi incarichi commerciali: la solarizzazione, l’uso del negativo, la sovrimpressione e il fotomontaggio furono alcuni dei procedimenti che utilizzò, per esempio, nelle due versioni di Bagnante, dove alle modelle che pubblicizzano un costume da bagno sono sovrimpressi i riflessi dell’acqua della piscina. Pubblicò su giornali di moda e anche su alcune piccole riviste erotiche che uscivano negli anni Trenta come “Beautés Magazine” o “Amours de Paris”: pensiamo alla foto Assia, nudo e ombra, ecc. Tra i tanti ritratti, sono bellissimi quelli di Nusch Éluard, come quello come le mani accostate alle guance contro uno sfondo nero, intenso e drammatico, che tornerà anche nel Ritratto in chiaroscuro di una donna bionda, il viso appoggiato sulla mano e nel Ritratto in chiaroscuro di una donna bionda con le braccia incrociate. Di Jean-Louis Barrault, nel cui studio Picasso avrebbe poi dipinto Guernica, Dora Maar scattò due immagini sensazionali, una delle quali in mostra, mentre nei ritratti di Marie-Laure de Noailles e del poeta René Crevel – lavori inediti presentati per la prima volta in questa occasione – troviamo vecchi negativi degli anni Trenta successivamente rielaborati, come lei amava fare, con ottimi esiti. Una novità è anche il ritratto, da piccola, di Aube Breton figlia di André Breton e Jacqueline Lamba ai quali Dora era molto legata. Il 7 gennaio 1936 Paul Éluard presentò Dora a Picasso e tra i due ebbe inizio una relazione, passionale e tormenta.

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Lavorarano insieme a un gruppo di opere che combinavano le tecniche del fotogramma e del cliché verr e Dora fotografò le diverse fasi di realizzazione di Guernica, lasciandoci uno straordinario documento sulla genesi e l’evoluzione di questo capolavoro. Nel 1937 c’è il riavvicinamento di Dora alla pittura che non abbandonerà più fino alla fine della sua vita, mentre Picasso la immortala in quegli anni in innumerevoli tele: all’inizio bella e malinconica con un corpo bianchissimo e sensuale, ma a partire dal ‘38 chiusa in un intreccio di linee sottili, “come una rete o una griglia – nota la Combalìa – metafora del suo carattere tormentato e incostante”. In mostra si potrà rivedere Dora in un olio di Pablo del ’39 ma anche in un piccolo, straordinario bronzo realizzato dal grande artista nel ’41. Allo scoppio della seconda guerra mondiale la coppia si stabilì a Royan ma negli anni seguenti i fatti precipitarono: la fuga del padre in Sudamerica per timore di essere scambiato per ebreo, l’arresto nel ‘42 della madre rimasta in Francia e la sua morte per un’emorragia cerebrale, l’angoscia provocata dall’invasione tedesca, i tradimenti di Picasso e la sua relazione con la giovane pittrice Françoise Gilot. Troppo per Dora. Nel 1945 dopo una serie di bizzarri comportamenti, la sua instabilità sfociò in una grave depressione che superò solo negli anni – vivendo ritirata da tutti – grazie alla psicanalisi di Lacan e al ritorno alla religione. Dora Maar si spense a Parigi nel 1997. Catalogo Skira – Milano, 2014 a Venezia - dal 07/03/2014 al 14/07/2014 al Museo Fortuny - Campo San Beneto (San Marco) 3958

Le amazzoni della fotografia da Lettera Artribune [email protected] La rassegna presenta una significativa antologia di fotografie originali, eseguite da alcune tra le principali fotografe operanti tra ‘800 e ‘900, offrendo un panorama storico e linguistico dovuto alla colta attenzione di un collezionista veneziano che ne ha concesso l’esposizione al Fortuny.

Un settore culturale dove le donne eccellono suggestivamente, rispetto all’apparato maschile tradizionale, è certamente quello della Fotografia, che

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oggi conta centosettantacinque floridi anni, dopo l’invenzione “meravigliosa” di Daguerre. Tra le più grandi figure della storia della fotografia, risaltano, in primis, autori come Julia M. Cameron, negli anni ‘70 dell’Ottocento e poi Margaret Bourke White, Lisette Model, Diane Arbus, Vanessa Beecroft e cento altre, autentiche “star” nel nostro tempo, amazzoni sul sentiero delle immagini d’avanguardia, testimoni sensibili e accorate della vita del mondo. La fotografia, oltretutto – come scrive Italo Zannier in catalogo – ha liberato anche dalle difficoltà operative manuali, alcune lungamente considerate maschili, offrendosi innanzitutto come linguaggio astratto, concettuale, poetico. La rassegna presenta una significativa antologia di fotografie originali, eseguite da alcune tra le principali fotografe operanti tra ‘800 e ‘900, offrendo un panorama storico e linguistico dovuto alla colta attenzione di un collezionista veneziano che ne ha concesso l’esposizione al Fortuny, museo che ha esordito proprio con rassegne dedicate alla cultura della fotografia, alcune di memorabile rilievo internazionale. a Venezia - dal 07/03/2014 al 14/07/2014 al Museo Fortuny - Campo San Beneto (San Marco) 3958 Una giornata con Vivian Maier - La tata con la Rolleiflex di Alessandro Baricco da http://www.ilpost.it/ Vivian Maier è una delle esponenti più apprezzate di quel genere fotografico oggi generalmente definito “fotografia di strada” (street photography), sebbene gran parte delle sue opere siano state scoperte solo pochi anni fa. Nacque nel 1926 a New York ma trascorse diversi anni in Francia, prima di tornare negli Stati Uniti nel 1951. Si formò da autodidatta, come molti altri fotografi di quegli anni, e si specializzò in un genere favorito dalla diffusione di nuove macchine fotografiche più comode da trasportare e semplici da usare. Per molto tempo lavorò anche come governante presso famiglie benestanti: per tutto il tempo in cui visse in affitto ‒ praticamente da spiantata ‒ mise da parte moltissimo materiale che è stato scoperto soltanto in tempi molto recenti (Maier è morta nel 2009 a Chicago, dove si era trasferita nel 1956 A novembre scorso la galleria nazionale del Jeu de Paume ‒ uno spazio pubblico di fotografia e arte contemporanea che si trova nel giardino delle Tuileries, a Parigi ‒ aprì una mostra dedicata a Vivian Maier ( Vivian Maier (1926-2009), une photographe révélée), e fu la prima grande mostra dedicata al lavoro di Maier. In un articolo pubblicato su Repubblica, domenica 9 marzo, lo scrittore Alessandro Baricco ha raccontato invece di una sua visita a una mostra di Vivian Maier allestita a Tours, città della Francia centro-occidentale (e luogo di nascita di Honoré de Balzac). Baricco racconta diverse cose della gran storia di Vivian Maier ‒ «non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse amici, era solitaria e indipendente» ‒ e parla dei pensieri che gli sono venuti in mente guardando le sue fotografie: «sfido chiunque a fissarle senza percepire, in un attimo di lucidità, la smisurata vigliaccheria del fotografare digitale: devo a tata Maier il mio definitivo disprezzo per Photoshop».

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Si chiamava Vivian Maier, e se il nome non vi dice niente, la cosa è abbastanza normale. Nella vita faceva la tata, lo stesso mestiere di sua madre e di sua nonna: lo faceva per le famiglie upper class di Chicago, e lo faceva bene, con limitato entusiasmo, pare, ma con inflessibile diligenza. Lo fece per decenni, a partire dai primi anni Cinquanta: i suoi bambini di allora adesso sono adulti che, piuttosto increduli, si vedono arrivare giornalisti o ricercatori che vogliono sapere tutto di lei. Un po’ spaesati, annotano che non è il caso di immaginarsi Mary Poppins: era un tipo maniacalmente riservato, un po’ misterioso, piuttosto segreto. Faceva il suo dovere, e nei giorni di vacanza, spariva. Non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse amici, era solitaria e indipendente. Non scriveva diari e che io sappia non ha lasciato dietro di sé una sola frase degna di memoria. Le piaceva viaggiare, naturalmente sola: una volta si fece il giro del mondo, così, perché le andava di farlo: è anche difficile capire con che soldi. Una cosa che tutti ricordano di lei è che accatastava oggetti, fogli, giornali, e la sua stanza era una specie di granaio della memoria, immaginato per chissà quali inverni dell’oblio. Collezionava mondo, si direbbe. L’altra cosa che tutti ammettono è che sì, in effetti, girava sempre con una macchina fotografica, le piaceva scattare foto, era quasi una mania: ma certo, da lì a immaginare quel che sarebbe successo… Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier si è ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si è fatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava molto, come si è visto, affittò un box, in uno di quei posti in cui si mettono i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che non sai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finì i soldi, non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire. Quelli dei box, se non paghi, dopo un po’ mettono tutto all’asta. Non stanno nemmeno a guardare cosa c’è dentro: aprono la porta, gli acquirenti arrivano, danno un’occhiata da fuori e, se qualcosa li ispira, si portano via tutto per un pugno di dollari: immagino che sia una forma sofisticata di gioco d’azzardo. L’uomo che si portò via il box di tata Maier si chiamava John Maloof. Era il 2007. Più che altro si portò via scatoloni, ma quando iniziò a guardarci dentro scoprì qualcosa che poi avrebbe cambiato la sua vita, e, immagino, ingrassato il suo conto in banca: un misurato numero di foto stampate in piccolo formato,

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una marea di negativi e una montagna di rullini mai sviluppati. Sommando si arrivava a più di centomila fotografie: tata Maier, in tutta la sua vita, ne aveva visto forse un dieci per cento (pare non avesse i soldi per lo sviluppo, o forse non le importava neanche tanto), e non ne pubblicò nemmeno una. Ma Maloof invece si mise a guardarle per bene, a svilupparle, a stamparle: e un giorno si disse che o era pazzo o quella era una dei più grandi fotografi del Novecento. Optò per la seconda ipotesi. Volendo credergli, si mise anche a cercarla, questa misteriosa Vivian Maier, di cui non sapeva nulla: la trovò, un giorno del 2009, negli annunci mortuari di un giornale di Chicago. Tata Maier se n’era andata in silenzio, probabilmente in solitudine e senza stupore, all’età di 83 anni: senza sapere di essere, in effetti, com’è ormai chiaro, uno dei più grandi fotografi del Novecento. La prima volta che ho incrociato questa storia ho naturalmente pensato che fosse troppo bella per essere vera. Tuttavia le foto erano davvero pazzesche, tutte foto di strada, quasi tutte in bianco e nero: pazzesche. Così ho setacciato un po’ il web scoprendo che in effetti il mito della Maier era già lievitato niente male, sebbene all’insaputa mia e dei più: mostre, libri, perfino due film, uno prodotto dalla Bbc: insomma, se era un falso, era un falso fatto maledettamente bene. Quindi una certa curiosità continuava a ronzarmi dentro finché ho scoperto che a Tours, amabile cittadina della provincia francese, neanche poi tanto lontana, c’era una mostra dedicata a tata Maier. Non so, ho pensato che volevo andare a vedere da vicino, a toccare con mano, a scoprire qualcosa. Insomma, alla fine ci sono andato. Dopotutto, Tours è anche il posto in cui è nato Balzac, un pellegrinaggio letterario non ce lo si nega mai, potendo. (Balzac, lo dico per inciso, è una lettura molto particolare. Quel che ho capito io è che per apprezzarlo veramente bisogna leggerlo in alcuni, circoscritti, momenti della vita: quelli in cui si vive con un filo di gas. Non saprei definirli in altro modo, quindi fatevi bastare questa definizione. Ma è certo che se uno è felice, Balzac è palloso, se uno sta male davvero, Balzac è inutile. Quando state lì, sospesi tra una cosa e l’altra, leggerlo è una delizia. Ah, un’altra cosa su Balzac, se posso approfittare della parentesi: io sono convinto che quando parliamo diletteratura intendiamo una cosa che è nata nel passaggio da Balzac a Flaubert ed è morta nell’ultima pagina della Recherche: il resto è un lunghissimo, geniale e grandioso epilogo, in certo senso perfino più interessante. Fine della digressione). Tours era una città mirabile, una volta: per i francesi era la capitale di riserva, quella che stava in panchina e entrava in campo quando Parigi dava forfait. Adesso è rimasto poco, e questo perché degli allegri ragazzoni america-ni, nei loro bombardieri, l’hanno spianata cercando di centrare il ponte sulla Loira, e presumibilmente facendolo con una certa generosità di mezzi o deficienza di mira, non so. Alla fine è rimasto poco. Nel poco, una sfolgorante cattedrale, una di quelle che offrono il privilegio di pronunciare l’elegantissima fraseSono entrato nella cattedrale ad ammirare le vetrate(blu e rossi magnifici, un’emozione, se posso dire la mia). E poi un castello, almeno un pezzo del castello, proprio sulla riva del fiume: ed è lì che tenevano tata Maier. Ingresso gratuito, devo registrare. Francesi. Insomma, sono salito al primo piano, e lei era lì. Foto che, quando andava bene, lei si era vista in un formato che stava nel portafogli, sfavillavano belle grandi sulla pareti bianche: formato quadrato, stampa impeccabile. Come ho detto, sono tutte foto rubate per strada: per lo più gente, ma anche simmetrie urbane, cortili, muri, angoli. Un cavallo morto su un marciapiede, le molle di un materasso abbandonato. Ogni volta, tutto perfetto: la luce, l’inquadratura, la

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profondità. E, sempre, una specie di equilibrio, di armonia, di esattezza finale. Come facesse, non si sa. Voglio dire, per azzeccare il ritratto di un passante e ottenere qualcosa di quella intensità, e forza, e impeccabile bellezza, bisognava avere un talento mostruoso. Lei l’aveva. Aveva dodici colpi, nella sua Rolleiflex, per ogni rullino. Dato che poi li teneva a marcire in un box, quei rullini, noi adesso possiamo vedere come sparava: mai due colpi sullo stesso bersaglio. Se ne concedeva uno, le era estranea l’idea che nella ripetizione si potesse migliorare. L’unico soggetto a cui abbia dedicato ripetuti ritratti, inaspettatamente, è se stessa: si fotografava riflessa nelle vetrine, negli specchi, nelle finestre. L’espressione è tragicamente identica, anche a distanza di anni: lineamenti duri, maschili, sguardo da soldato triste, una sola volta un sorriso, il resto è una piega al posto della bocca. Impenetrabile, anche a se stessa. Le piacevano le facce, i vecchi, la gente che dorme, le donne eleganti, le scale, i bambini, le ombre, i riflessi, le scarpe, le simmetrie, la gente di spalle, la rovina e gli istanti. Si vede lontano un miglio che adorava il mondo, a modo suo — ne adorava l’irripetibilità di ogni frammento. Probabilmente le andava di produrre quello che ogni fotografia ambisce a produrre: eternità. Ma non quella friabile delle foto dei mediocri: lei otteneva quella, incondizionata, dei classici. Poi non so, magari mi sbaglio. Ma devo registrare il fatto che, nel caso, iniziamo ad essere molti, a sbagliarci. Quindi darei per buono che, in effetti, c’è un grande fotografo del Novecento in più. Naturalmente adoro l’idea che non abbia detto una sola frase sul suo lavoro, né abbia guadagnato un dollaro dalle sue foto, né abbia mai cercato una qualunque forma di riconoscimento. Ma la storia non è ancora finita, e magari, nel tempo, qualcosa verrà fuori, a incrinare tanta irreale purezza. Ma le foto resteranno, su questo è difficile avere dubbi. Tra l’altro, sfido chiunque a fissarle senza percepire, in un attimo di lucidità, la smisurata vigliaccheria del fotografare digitale: devo a tata Maier il mio definitivo disprezzo per Photoshop. Le devo anche il fatto che poi sono uscito, tirava vento gelido, e pioveva orizzontale, a folate, mi sono rifugiato nella cattedrale di prima, giusto per non inzupparmi, e aspettando che passasse ho alzato gli occhi verso le vetrate, e nelle vetrate, spente dal cielo nero del temporale, le storie dei santi avevano quella bellezza uccisa che tante volte vedo negli umani, sempre cercando di trovarle un nome, senza trovarlo.

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Quando le immagini avevano le gambe di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Anonimo, Giuseppe Sordo e altri ambulanti tesini in Lombardia, 1929

Le immagini non sapevano ancora volare, smaterializzate, fra le nuvole di Internet. Ma sapevano camminare.

E camminando arrivavano altrettanto lontano, ai quattro angoli della terra. Per tre secoli, le immagini ebbero gambe e spalle. Paranà, India, Cina, Siberia: chiuse in scrigni di legno portati a mo’ di zaini, passo dopo passo, le immagini si diffondevano in tutto il mondo.

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Ma la fonte delle immagini era qui, in questa piccola conca verde che si può abbracciare in un solo sguardo, nascosta dietro la Valsugana, tre villaggi, Pieve, Castello, Cinte, disposti a girotondo: il Tesino. Da qui quando veniva l’autunno si incamminavano le immagini di cui il mondo nuovo aveva sempre più fame. E loro, i Tesini, magnifici vagabondi, ambulanti dell’occhio, quella fame saziavano, mettendosi per via, camminando mesi, a volte anni, attraverso paesi e città, nazioni e continenti. E Per Via si chiama ora il piccolo, intelligente, sorprendente museo che a Pieve Tesino, finalmente, ne celebra il mito e ne racconta la storia. Che è un po’ questa. I primi iconauti (rubo il neologismo da un bel libro di Gian Piero Brunetta), padri pellegrini della civiltà delle immagini, nomadi delle figure, erano contadini e pastori. Gente di frontiera, abituata a cambiar padroni e lingua a seconda delle contorsioni della Storia. La romana via Claudia Augusta Altinate passa per il Tesino, tentatrice. Per secoli però i Tesini si mossero solo avanti e indietro secondo i ritmi della transumanza. Finché l’Europa non rimbombò del tuono di quella nuova tecnologia di guerra che impressionò l’Ariosto, «un ferro bugio, lungo da dua braccia», l’archibugio, che per funzionare aveva bisogno di una pietruzza che sprizzava scintille; e di pietra focaia era ricco il suolo del Tesino, così i pastori scendendo a valle ne riempivano le gerle e la vendevano e scoprivano che il commercio ambulante rendeva di più e annoiava di meno della pastorizia.

L’ambulante Giovanni Fietta in una foto di studio di fine Ottocento

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Sicché quando Remondini, il tipografo di Bassano, a metà del Seicento, ebbe la geniale intuizione di ampliare il mercato delle sue stampine con la vendita porta a porta, trovò già pronti, a poche valli di distanza, i commessi viaggiatori ideali, esperti, scafati e ansiosi di partire. E partirono. In tanti. Quando il Tesinoaveva si e no cinquemila abitanti, cinque o seicento contemporaneamente erano in giro a vender le stampe di Remondini. Uno o due per famiglia. Prima vicino, poi lontano. I primi erano viaggi stagionali, si partiva d’autunno e si tornava a primavera, in tempo per dare una mano nei campi. Poi i viaggi cominciarono a durare anni. Si partiva ragazzi, a tredici anni, si tornava uomini fatti. Il Tesino rimaneva una valle di donne e di anziani. Gli uomini validi erano sulle strade d’Europa. A vendere una merce strana, che non si mangiava, che non serviva a nulla, se non all’anima. Era l’alba della videociviltà. L’occhio scopriva di volere la sua parte.

“Cassela” con stampe, dal museo Per Via

La cassela di legno con le bretelle partiva piena. Di stampine d’ogni genere. Xilografie di santi da pochi soldi, incisioni in rame acquerellate, più tardi le strepitose litografie a colori. Un’immagine per ogni cliente. Le contadine, e le servette di città,compravano santi e madonnine, magari di nascosto ai mariti che non avrebbero gradito la spesa per quelle frivolezze, poi le appendevano nei loro altarini segreti: l’interno degli armadi dei lini e delle biancherie, dove gli uomini di sicuro non andavano mai a guardare. I cittadini e i borghesi invece preferivano immagini di città, paesaggi, battaglie da appendere nei salotti, per curiosità, per status symbol. «Aussicht! Voilà les belles images!» gridavano nelle piazze i Tesini poliglotti, appendendo a un filo, con le gioe, le mollette di legno, quelle merci inutili e fascinose. Che loro sapevano piazzare da veri artisti. E un po’ da furbi.

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Un santo poteva cambiare nome, se necessario, e diventare guarda un po’ proprio il patrono del paese in cui si trovavano a vendere in quel momento. Tanto, chi ha mai visto di persona san Pantaleo o sant’Orso? Però, dài e dài, erano diventati iconologi da campo, divulgatori di pensiero visuale, sapevano spiegare, descrivere, affabulare le loro immagini. Tönle, l’ambulante tesino di un racconto di Rigoni Stern, si innamora delle sue stampe più belle e non le vuole più vendere.

Ambulanti tesini a Orléans, 1920 circa

Misuravano la risposta del mercato.Tornando, portavano indietro unfeedback: «San Giuseppe così giovane in Germania non va, devi invecchiarlo», protestavano con l’incisore, che teneva conto e adeguava il prodotto alla domanda. Giovanni, nonno di Elda Fietta Ielen, da decenni studiosa dei Tesini, «teneva un taccuino rilegato in pelle, con i titoli di tutte le stampe, e a fianco segnava da una a quattro barrette il gradimento dei clienti». I like di Facebook non sono poi quella gran novità. Era fatica: in “compagnie” da due-tre persone arrivavano fino al nord Europa sempre a piedi, a tappe ormai collaudate, vendendo borgo per borgo. Guadagnavano bene, con le stampe: tre volte quel che le avevano pagate. Se però riuscivano a venderle tutte. Se un temporale non gliele macerava, se non gliele sequestrava qualche censore severo o qualche doganiere pignolo, se non gliele rubavano di notte mentre, per risparmiare, dormivano in qualche pagliaio. Se capitava, erano dolori. Remondini le stampe le dava in conto vendita, ma voleva una garanzia: un pezzo di terra, che spesso incassava, e la gente della valle masticava amaro: «I santi dei Remondini si mangiano le terre dei Tesini…». Però poi furono i Remondini a fallire, nel 1859. Ma i Tesini andarono avanti lo stesso. Ormai erano una potenza commerciale, una rete ben stretta che legava tutta l’Europa.

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Avevano cominciato ad aprire sedi stabili, prima magazzini, poi veri negozi: i Tessari ad Augusta e Parigi, i Buffa ad Amsterdam, i Fietta a Metz, i Pellizzaro a Gand, gli Avanzo a Bruxelles. Gelosi, chiamavano come lavoranti e poi cedevano l’attività solo a compaesani, e la parola Tesino divenne sinonimo internazionale di venditore di immagini. Da perteganti e cromeri, che vuol dire piazzisti ambulanti poveracci, da santari di strada, molti erano ormai diventati dei signori, dei connoisseur raffinati. Ordinavano le immagini, adesso, dalle migliori stamperie d’Europa, soprattutto inglesi, qualcuno era diventato editore in proprio.

Il negozio Daziaro a Mosca, inizi Novecento

Certuni erano divenuti delle personalità: come Giuseppe Daziaro, che aprì sontuosi negozi di oggetti d’arte nei passeggi eleganti di San Pietroburgo e di Mosca, davanti alle sue vetrine passarono Tolstoj e Dostoevski e ne scrissero. E quando i bolscevichi confiscarono tutto, Lunacarski, il ministro per la cultura, salvò la vita all’ultimo Daziaro, perché le loro immagini avevano «rispecchiato la vita del popolo russo favorendone il risveglio». Capitò ad altri, come a Ulisse, d’ammalarsi di mal del viaggio. Tommaso Marchetto, con quella mania di «andare un po’ più lontano», finì in Cina. Sebastiano Avanzo passò l’Atlantico, eccolo in una foto all’albumina, revolver nella fondina perché, c’è scritto dietro, «in Messico la giustizia sta appesa alla cintura». Altri finirono in Cile, in Siberia, in India. Ma i più volevano tornare a morire a casa. Il mondo nei piedi e negli occhi, il Tesino nell’anima. Prima del tracollo, i Daziaro si fecero costruire una imponente villona rossa che ancora oggi domina da un poggio. I soldi spediti a casa cambiarono la vita della valle: ci costruirono un ospedale, un albergo, perfino una scuola di lingue: bisognava essere attrezzati, per partire alla conquista del mondo.

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L’ambulante tesino Augusto Galvagno, fine Ottocento

Nei tinelli dei contadini di questa valle isolata erano appese vedute di Baltimora e lettere da Calcutta, nelle sue taverne si raccontava della guerra boera o della secessione americana. Molti però non tornavano, ma l’arciprete faceva rintoccare le campane ad ogni lettera funesta arrivata da lontano. L’epopea degli hommes des images finì con la Grande Guerra. Le frontiere diventate trincee erano insuperabili. L’Europa sotto macello non comprava più stampe, e ormai i giornali illustrati placavano la fame dell’occhio, senza più bisogno delle gambe dei Tesini. Oggi idealmente tornano tutti a casa, perché Per Via, ricavato nel cuore del paese da un’abitazione modesta, è un po’ museo-archivio e un po’ casa, con le cucine, il salottino, la stube. Passiamo a salutarli. Noi che viviamo di tivù e di fotocellulari abbiamo un debito con loro: per primi, con la fatica dei loro muscoli, hanno reso il mondo immaginabile.

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[Una versione di questo articolo è apparsa in La Domenica di Repubblica il 29 dicembre 2013. Un grazie speciale a Elda e Pino Ielen per i suggerimenti e per la ricerca e la gentile concessione delle immagini] Tag: ambulanti, Avanzo, Buffa, cromeri, Daziaro, Elda Fietta Ielen, fotografia, Giovanni

Fietta, iconauti,litografie, Mario Rigoni Stern, Pellizzaro, Per Via, perteganti, Pieve

Tesino, Remondini, stampe, tesini,Tessari, xiolografie

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Il conto corrente delle emozioni di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Sandra ha capito che i Movie e Picasa sono una specie di droga, per lei. Passa ore ed ore a organizzare minuziosamente le fotografie e gli album di famiglia, un tempo esorbitante per lei, manager pubblicitaria di successo, che di tempo ne ha così poco. Ma non sa fornire “una spiegazione convincente” sul perché lo fa. Forse è senso di colpa: madre in carriera, lavora lontano da casa e famiglia. Come per tante, le sue relazioni affettive sono recuperabili ora grazie alle tecnologie digitali, ovvero alle “mobilità miniaturizzate” che tutti noi oggi abbiamo in tasca. Ma quelle stesse tecnologie, rendendole appunto possibile rimanere in contatto con i suoi cari anche viaggiando, di fatto sono anche una

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delle cause delle lontananze che la mettono a disagio. E allora, alle tecnologie “colpevoli” si chiede un risarcimento. Quella di Sandra (che esista o meno, non importa molto) è la case history di un bel libro dei sociologi Anthony Elliott e John Urry, Vite mobili, dedicato all’influenza delle tecnologie telematiche sulle nostre esistenze nomadi. Archiviare quasi ossessivamente immagini della sua famiglia nelle memorie elettroniche dei suoi dispositivi, dicono gli autori, è per Sandra un “atto di stoccaggio degli affetti all’interno del mondo degli oggetti”. I software e gli hard disk che accolgono le impronte visive di quelle relazioni che Sandra fa fatica a gestire nella realtà sarebbero insomma l’equivalente di un deposito bancario di valori, tesaurizzati ora che nin si riesce a spenderli, ma disponibili per prelievi futuri, qualora diventasse di nuovo possibile goderne. Tecnologie dell’immagine digitale, dunque, come “contenimento tecnologico” degli scompensi affettivi. Interpretazione suggestiva e abbastanza convincente. Mi chiedo però se non lo sia più per un mondo pre-connesso, diciamo per il mondo come era dieci anni fa, che per quello attuale. Dove le “banche affettive” della nostra moneta visivo-emotiva (le foto delle vacanze, dei momenti sereni, i ritratti delle persone che amiamo) non sono più, per stare nella metafora, edifici in pietra con casseforti di acciaio, ma nuvole di dati che includono contabilità fluide. Fuor di metafora: riterrei più verosimile che Sandra, per placare le sue ansie, affidasse oggi le sue immagini consolatorie al flusso di Facebook o di Pinterest o di Flickr, che le rendono richiamabili ovunque e da qualsiasi dispositivo mobile, che alle memorie immobili e localizzate di un software installato su un pc e attivabile solo da una postazione fissa. Naturalmente, non è la stessa cosa. Tra i depositi di fotografie stoccati in qualche memoria magnetica localizzata nel nostro pc e il tradizionale album di famiglia, in termini sociologici non passa gran differenza. Mentre spedire le nostre immagini d’affezione nell’etere della condivisione a distanza, multidirezionale e non controllabile, è come far saltare la cassaforte e lasciar svolazzare le banconote in mezzo alla strada. Eppure, è così che ora vanno le cose. Milioni di persone non conservano più una copia “proprietaria” delle proprie immagini affettive, ma le affidano fin dall’inizio e per sempre alle memorie condivise dei loro profili online. Ma in questa modalità così volatile, la funzione di rassicurazione e compensazione emotiva può essere ancora sufficiente, appagante?

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Sembra di sì. In fondo, quel che conta di più, in questa funzione consolatoria, non è la possibilità di un futuro prelievo (che quasi sempre non avviene: riguardiamo pochissimo le nostre “vecchie foto”, diovunque le abbiamo depositate), ma l’atto presente del depositare. Depositare è deporre, è scaricare dalla limitata chiavetta usb della nostra ansia un peso superiore ai gigabyte che può sopportare. Depositare è sollevarci dall’ansia del “reggere la relazione” così come depositare soldi in banca è sollevarsi dall’ansia che i ladri vengano a rubarceli in casa. E questo lo facevano bene o male anche i vecchi album di famiglia, e lo fanno bene glihard disk. Ma la condivisione online dà qualcosa di più. Paga gli interessi. E li paga subito. Pronta cassa. Le immagini che abbiamo depositato cominciano subito a fruttare, e un contatore registra minuziosamente l’ammontare del premio: è il contatore delle condivisioni, dei like. Questo, l’album lo faceva solo in nostra presenza, e su nostra sollecitazione, “Guarda questa, ti piace?”. Ora avviene anche quando non ci pensiamo. Il conto corrente delle e ozioni capitalizza gli interessi anche in nostra assenza. I social network trasformano le immagini di affezione da antiquati depositi obbligazionari con cedola semestrale a velocissimi derivati a tasso crescente. Il flusso costante difeedback rassicura in tempo reale, paga in moneta sonante. Ma è rischioso. Il tasso d’interesse può stagnare, fermarsi, i like possono smettere di arrivare (di fatto, smettono presto), o non arrivare affatto. Il deposito può diventare infruttifero, non smobilitabile. L’inflazione può mangiarsi il capitale. Non più davvero “nostre”, le immagini affidate alla Rete potrebbero non essere più neppure riscuotibili allo sportello. Qualcuno potrebbe perfino venderle a nostra insaputa. Non credo che la soluzione sia tornare a mettere le nostre fotografie affettive sotto il materasso. Gli anacronismi non sono mai la soluzione. Ma con le banche online ci vuole prudenza. Tag: Anthony Elliott, famiglia, fotografia, John Urry, socia network, vite mobili

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L’Archivio e il Progetto: la fotografia come campo di significato aperto di Sandro Bini da http://binitudini.blogspot.it/

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Sandro Bini, Cortile Galleria degli Uffizi, Marzo 2010

In un recente post nel suo Blog La valigia di Vang Gogh l’amico Enrico Prada suggeriva una suddivisione fra "fotografi narratori" e "fotografi poeti", i primi propensi al racconto per immagini i secondi raccoglitori rabdomantici di epifanie visive in grado di sostenersi autonomamente sia come forma che come orizzonte di senso. La suddivisone, molto suggestiva, con i suoi rimandi letterari, avrà fatto forse storcere un po’ il naso all’amico Fulvio Bortolozzo (La Camera doppia) difensore di un “primitivismo fotografico” attento soprattutto alla specificità visiva dell’immagine e alle questioni dello sguardo fotografico, ma non può che incontrare le mie simpatie, fosse altro per motivi di formazione culturale. E’ anche vero però che i "poeti" spesso pubblicano i loto testi come raccolte, per cui anche loro possono trovarsi a che fare con questioni narrative e strutturali legate alla costruzione di un portfolio, sia esso per parole o immagini, ed anche vero che alcuni fotografi (fatta salva la suddivisione pradiana con la propensione quantitativa e qualitativa su un versante o sull’altro della produzione) sono in grado di cambiare registro a seconda dei casi ed essere a volte poeti, altre narratori, oppure, ancora più spesso, dei poeti-narratori (lirici) o dei narratori-poeti (epici). Le ripartizioni come si sa hanno dei limiti, ed esistono tutta una serie di sfumature e atteggiamenti intermedi, ma è innegabile che le stesse servano a circoscrivere un campo di indagine, ovvero, in questo caso, la complessità degli atteggiamenti percettivi, psicologici, metodologici e operativi di un fotografo. Per questo motivo mi piace complicare la faccenda e aggiungere ancora un’altra ripartizione: quella fra “fotografi d’archivio” e “fotografi a progetto”. I primi sono dei raccoglitori più o meno metodici o istintivi di immagini che costruiscono le loro serie in tempi molto lunghi lavorando di cesello sul proprio archivio e costruendo a posteriori (sui materiali raccolti) i temi della loro ricerca. I secondi sono abili costruttori di serie o racconti per immagini partendo da una idea iniziale predefinita (progetto) o committenza (assignment) che sviluppano (magari anche modificandola) nel corso di tempi

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variabili a seconda dei casi. Ma anche in questo caso gli atteggiamenti sono alternabili, modificabili, aperti e mai definitivi. Anche le immagini di un lavoro “a progetto”, una volta archiviato, possono essere “riciclate” in un lavoro d’archivio, così come un lavoro d’archivio può divenire lo spunto di idee per nuovi progetti. Insomma le fotografie e le serie fotografiche sono campi di significato aperto: su questo il lavoro di un fotografo come Lugi Ghirri ha ancora molto da insegnarci!

Auto da selfie da http://www.exibart.com/ Il Time stila la classifica delle città più “autoscattate” del mondo. L'Italia nella top ten, con Milano in ottava posizione

C'era una volta, tanti tanti anni fa, l'autoritratto. Era un processo di "presa visione” lungo e complicato; significava, prima ancora di avere abilità tecnica nella pittura, di autorappresentarsi con consapevolezza, di darsi un'identità, e un proprio posto nel mondo secondo il proprio ruolo. Poi, con l'avvento della fotografia, venne l'autoscatto. Più rapido senz'altro, ma con una componente altrettanto concettuale. Le pellicole non potevano essere infinite, in fondo un rullino teneva pur sempre "solo” 36 negativi, e anche in questo caso significava lavorare sul proprio io, vedere come ritrarlo prima di premere sull'otturatore, nonostante la velocità del gesto. Ora è arrivata la selfie: "Fotografia fatta a se stessi, solitamente scattata con uno smartphone o una webcam e poi condivisa sui social network” Così l'Oxford Dictionaries ha definito la pratica del selfie (traslata al femminile in italiano, forse perché ancora pensata come "la" fotografia), proclamando il termine parola del 2013. Un fenomeno sociale, che ha in teoria annullato la distanza tra l'uomo e la fotografia, allentando anche quelli che sono i codici di autorappresentazione, buttando "in rete” pubblico e privato (soprattutto privato), senza filtri alcuni, anzi, solo con quelli che permettono la "modifica” dell'immagine in app come Instagram,

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forse il perfetto medium per realizzare un selfie. Ma quali sono le città più "contagiate” dal germe di questa molto particolare forma di esibizionismo? Alcune sono piuttosto ovvie, anche per il loro essere porti turistici con conseguenti foto-davanti-al-monumento, ma al primo posto nella classifica stilata dal Time, prendendo a campione le immagini pubblicate su Instagram con l’hashtag #selfie ed esaminando due intervalli di tempo, della durata di 5 giorni: dal 28 gennaio al 2 febbraio e dal 3 al 7 marzo 2014, risultano i filippini il popolo più autoscattato della contemporaneità. Makati City conta qualcosa come 259 selfie ogni 100mila abitanti, ma anche altre città delle Filippine (Cebu City, Quezon City e Iloilo City) contano un altissimo numero di "Self-maniac” tra gli abitanti. Al secondo posto gli Stati Uniti, con Manhattan e Miami, probabilmente per quello che elencavamo poco fa: un altissimo numero di "simboli” dell'Occidente da fotografare durante le proprie vacanze, con la propria faccia in primo piano: Statua della Libertà, spiagge candide, o grattacieli di Midtown. Si passa poi, in questa curiosa cernita sociale, a Petaling Jaya, in Malesia, e a Tel Aviv, prima di approdare in Europa, dove c'è Manchester al settimo posto e l'Italia, con Milano, all'ottavo. La città della moda e del design è stata letteralmente contagiata dal trend, come non poteva forse essere altrimenti, lasciando nella classifica un ampio distacco con altri luoghi del Paese come Roma, al 69esimo posto o Torino, all'84esimo, fino a Palermo, in 164esima posizione. Una moda passeggera, un altro modo di guardarsi senza distacco e anche senza attenzione, o una nuova estetica? L'appello per definire la nuova corsa delle immagini spetta ai sociologi più ferrati dei giorni nostri mentre tra poco, grazie ad un hashtag su instagram, verrà creata anche una mostra, in grado di guardare a fondo nel fenomeno della condivisione delle immagini sui social. Ma di questo vi racconteremo presto, in un'altra sede.

Maier madre del selfie? di Francesco Angelucci da http://www.insideart.eu A Parigi una retrospettiva sulla fotografa non fotografa, maestra dell'autoritratto

Selfie è un neologismo contemporaneo, coniato nel 2005 e inserito solo nel 2013 nel dizionario online di Oxford. Il significato è noto a tutti e più che di autoritratto si dovrebbe parlare di un autoritratto scattato esclusivamente per essere poi condiviso sui social network. Il termine ovviamente ha dato una precisazione social al più generale ritrarsi che come genere pittorico è invece antico come la stessa pittura. Autoritratto che però ha una storia ben più giovane se parliamo di fotografia. Robert Cornelius da perfetto sconosciuto che era, è riuscito a conquistarsi unapagina su Wikipedia per essere stato molto probabilmente il primo a scattarsi una foto, 1839 e primo selfie fu. La tecnologia ci mette del suo e la fotografia da complicato passatempo per chimici si facilita e raggiunge anche un pubblico che di legami e ampolle non ne sapeva molto. Quindi, se sei una gran duchessa russa tredicenne con una kodak box nuova di fiamma e davanti hai un bello specchio, scattarsi una foto non è poi così difficile: Anastasia Nikolaevna, 1900, ovvero il primo selfie in rosa. Spesso quando si conia un nuovo termine, una nuova corrente di pensiero o artistica, il primo passo per giustificarla è trovare degli antecedenti storici che in qualche modo l’hanno anticipata. Il selfie non ha fatto eccezione, ha bruciato le tappe e con meno di un decennio di vita alle spalle è finito al

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Moma di New York nel 2013 con la mostra: Art in Translation: Selfie, The 20/20 Experience.

Certo, passa un mondo fra scattarsi una foto perché non si ha nient’altro da fotografare e fotografare se stessi perché non si vuole fotografare nient’altro. Dal primo autoritratto in rosa, il selfie femminile è diventata una pratica diffusa che trova uno dei massimi esempi nel suo fondere narcisismo e arte in Francesca Woodman. Diverso, sotto ogni piano, ma unita nel selfie, è il caso della fotografa Vivian Maier che tanto per cominciare non è mai stata una fotografa (in vita non ha mai fatto una mostra, nessuno mai ha scritto di lei) ma che ha condotto la sua esistenza lavorando come tata e relegando il suo hobby al tempo libero. Talmente tanto hobby che Maier non solo non ha mai esposto ma non ha neanche stampato molti dei 100mila negativi che ha accumulato in 83 anni di vita (1926-2009). Per dire, se John Maloof,collezionista di fotografia e agente immobiliare, non avesse mai comprato i negativi di quella che allora era una defunta sconosciuta, non avremmo mai conosciuto una sola delle sue fotografie, il che fa cadere ogni accusa di femminile narcisismo che le si potrebbe imputare.

Maier, protagonista di una personale al Jeu de paume di Parigi fino al primo giugno, è nata a New York ma passa gran parte della sua infanzia e adolescenza in Francia, terra natale della madre. A venticinque anni ritorna negli Stati Uniti, a New York per poi spostarsi definitivamente a Chicago dove comincia il suo lavoro da baby sitter che porta avanti per tutta la vita alternandolo a delle lunghe passeggiate per la città sotto braccio con la su Rolleiflex. Nel 2008 scivola su una lastra di ghiaccio, sbatte la testa e non si riprenderà più. Muore un anno dopo nel 2009. Senza Maloof che si prodigò molto (da buon agente immobiliare) per far conoscere il suo nuovo acquisto, quella della Maier sarebbe rimasta una vita di una persona qualsiasi Ora la baby sitter di Chicago viene paragonata a maestri della fotografia come Cartier Bresson, Robert Frank e William Klein, padri, gli ultimi due, della fotografia di strada, genere al quale si potrebbe iscrivere senza problemi la produzione della fotografa non fotografa.

Maier e selfie dicevamo. Rapporto ambiguo anche se per molti versi, e per molti, è considerata una maestra della disciplina. Se da una parte è vero che ogni specchio per la fotografa si trasforma in una possibilità di autoritratto (bellissimo il suo volto che taglia il muro di mattoni, riflesso stretto fra le mani di un traslocatore), d’altra parte è anche vero che non c’era in Maier nessuna intenzione di condividere alcunché. Una della caratteristiche del selfie è invece proprio la condivisione, di più, una della caratteristiche dell’autoritratto in generale e femminile in particolare è la condivisione. La fotografa invece non solo non stampava i suoi negativi ma quei pochi che portava alla luce non li faceva vedere a nessuno. Caratteristica strana per un fotografo quella di trarre soddisfazione dal solo scatto, senza sentire la necessità di vedere i risultati del proprio lavoro, come a fidarsi ciecamente del proprio occhio senza bisogno di ulteriori conferme. La fotografia per la Maier era veramente come un colpo di pistola, secco e preciso, che lascia un morto da nascondere in silenzio e

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solitudine. Per questo la Maier non è esattamente la madre del selfie, anche se le sue foto sembrano dimostrare il contrario.

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Padova Photo-Graphia 2014, Timeline da Lettera Artribune <[email protected]>

PADOVA, CENTRO CULTURALE ALTINATE - SAN GAETANO, Via Altinate 71 dal 21/03/2014 al 02/06/2014

9 mostre, incontri, presentazioni di libri, un concorso e un convegno: è molto ricco il programma della terza edizione di Padova Photo-Graphia, al via il 21 marzo con il grande artista e fotografo americano Matthew Albanese; il tema della rassegna sarà la linea del tempo.

Padova Photo-Graphia 2014, Timeline. La storia e lo sguardo continua l’impegno dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova a promuovere la fotografia, intesa come linguaggio espressivo della contemporaneità, creando un percorso tra la fotografia contemporanea e il passato. A cura di Maria Beatrice Autizi e Angelo Maggi, la rassegna affronta il tema del tempo

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cristallizzato per mezzo dell’immagine fotografica. Attraverso la storia e lo sguardo si ripercorrono i passi degli inventori di questo media, proponendo le nuove figure che stanno emergendo nel panorama fotografico contemporaneo e che nella linea del tempo hanno trovato la loro espressione creativa.

L’idea di questa edizione nasce da una concomitanza storica che ha coinvolto la città durante la seconda guerra mondiale: 70 anni fa gli affreschi del Mantegna nella Cappella Ovetari vennero irrimediabilmente distrutti. Infatti, l’11 marzo 1944, nel corso del bombardamento della città di Padova, veniva gravemente colpita la chiesa degli Eremitani. Nell’ambito della rassegna, la mostra Foto storiche di Padova. Il bombardamento della Chiesa degli Eremitani (Palazzo Zuckermann 11 aprile-25 maggio) ripercorre le vicende della chiesa, del recupero dell’edificio e del suo patrimonio artistico.

STRANGE WORLDS. Matthew Albanese. Solo Show. Galleria Cavour (22 marzo – 13 maggio) :

La mostra Strange Worlds, a cura di Angelo Maggi, è dedicata al fotografo americano Matthew Albanese. L’artista crea diorami di diverse dimensioni che offrono la rappresentazione di un evento naturale o di un paesaggio idilliaco. Per Albanese Timeline è il tempo di realizzazione della scena con materiali comuni per dare vita ad una sola immagine. La scelta del diorama evoca i primi esperimenti di Louis Jacques Mandé Daguerre, inventore del procedimento fotografico del dagherrotipo, per il quale il diorama fu il pretesto che condusse all’invenzione della fotografia. Per Albanese, invece, il diorama è il luogo della sperimentazione dei materiali elaborati e ricomposti in funzione di una sola immagine da spettacolarizzare.

L’artista sarà presente in galleria Cavour a partire dalle ore 17 del 21 marzo, per l’inaugurazione della mostra e per la presentazione del suo volume.

IN-QUIETI SCONFINAMENTI, Centro culturale Altinate San Gaetano (5 aprile – 2 giugno) :

La mostra, curata da Maria Beatrice Autizi, presenta tre affermati fotografi europei, di provenienza e formazione diverse, ma accomunati da una riflessione sul rapporto spazio/tempo.

Christian Tagliavini, italo-svizzero di Lugano, è l’autore di una serie di scatti ispirati ai maestri del Rinascimento che, proponendo volti della contemporaneità, modelle o personaggi, attraversano il tempo e lo spazio immersi in un’atmosfera assoluta. Nove personaggi che, in una geniale mescolanza di moda, pittura e fotografia, trasportano il contemporaneo in una dimensione suggestiva, immobile e straniante.

Rosa Isabel Vazquez è una fotografa spagnola che lavora con Jose Antonio Fernandez. I due artisti, che si firmano con il nome di Rojo Sache, investigano reale e immaginario, proiettando i propri sentimenti e le emozioni indotte da

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spazi naturali estranianti in una atmosfera fuori dal tempo. Nasce così una fotografia di paesaggio poetica, avvolta in un’atmosfera non di rado da sogno, che sembra emergere da un tempo remoto.

Xavier Delory, belga, è un fotografo concettuale che concepisce la fotografia come una riflessione sull’architettura e sulle trasformazioni che lo spazio urbano subisce nel tempo. Piccole case rassicuranti diventano inquietanti perché prive di porte e finestre, le forme urbane subiscono mutazioni a cui sembra di assistere in tempo reale, edifici antichi si trasformano in metafisiche facciate, i grattacieli diventano piatti e lo spazio, non di rado, diventa quello surreale di Magritte.

La mostra inaugura il 4 aprile alle 17.

1967 VIAGGIO IN AFGHANISTAN E IN INDIA. DA PADOVA A NEW DELHI CON LA FIAT 600.

Francesco Carmignoto e Francesco Ghion, a cura di Maria Beatrice Autizi – Centro culturale Altinate San Gaetano (5 aprile – 2 giugno).

Tra fotografie e narrazione si rivive l’avventura di quattro giovani poco più che ventenni, prossimi alla laurea, che decidono di partire verso l’India, su due piccole “utilitarie” Fiat. Il ’68 è alle porte e sono anni pieni di fermenti. La partenza è da Prato della Valle per arrivare in Pakistan, attraversando mezza Europa, e poi la Persia e il favoloso Afghanistan. 28mila i km percorsi in meno di due mesi, dalle montagne della Turchia, ai deserti persiani, ai passi dell’Hindokush.

Le fotografie di Francesco Ghion e i racconti di Francesco Carmignotto narrano una magnifica avventura, l’identità di paesi ospitali, opere d’arte insostituibili andate perdute nel tempo a causa della violenza degli uomini e della guerra. Come è accaduto agli affreschi del Mantegna.

La mostra inaugura il 4 aprile alle 17.

ONGANIA/ROMAGNOSI. Re-Visioning Venice, a cura di Angelo Maggi - Oratorio di San Rocco (4 aprile – 4 maggio).

La mostra, a cura di Angelo Maggi, rivisita il lavoro del celebre editore veneziano Ferdinando Ongania (1842-1911). Il fotografo Giampaolo Romagnosi da circa due anni riesamina attentamente i luoghi storici con moderni apparecchi digitali. Il progetto ha dato vita ad una straordinaria raccolta di scatti che si collocano su due punti del Timeline: il passato e il presente.

L’evento è realizzato in collaborazione con Linea d’Acqua di Venezia - La mostra inaugura il 3 aprile alle 18.

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Partecipano, come di consueto, le due più importanti associazioni fotografiche cittadine, il Fotoclub Padova – con la mostra I tempi dello sguardo, sempre al Centro Altinate, e il Gruppo Fotografico Antenore – con l’esposizione Pictures of Padua. Lo scorrere del tempo a Padova attraverso la Street Photography – allestita nel Centro Universitario Padovano (n.d.r.: Via degli Zabarella n. 78 dal 18 Aprile al 24 Maggio con inaugurazione il 17 Aprile alle ore 18 – orario dal lunedì al venerdì 7.00 – 19.00, chiuso sabato e domenica). Entrambe le associazioni trovano nel Timeline l’occasione per esplorare il concetto spazio-temporale a Padova e altrove.È presente alla manifestazione anche una selezione dei lavori realizzati da quanti hanno partecipato a Spazio Laboratorio 02 per la Fotografia, un progetto coordinato da Moreno Segafredo e Prosdocimo Terrassan, che quest’anno indaga gli spazi cittadini frequentati dagli studenti.

Le fotografie dei giovani formatisi all’Istituto Superiore di Fotografia e Arti Visive (Isfav), invece, indagano il concetto di tempo sui volti di persone di tutte le età, nella mostra Da 10 a 100, di Vanessa e Julia Runggaldier. È una lettura, ricca di sensibilità, sui segni della vita.La mostra sarà allestita nel Sottopasso della Stua e sarà inaugurata il 10 aprile alle ore 17.30

Ando Gilardi. La stupidità fotografica di Veronica Vituzzi da http://www.doppiozero.com/

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Ma perché al giorno d'oggi tutti fotografano? Prima possibile risposta: perché ora è facilissimo, no? Seconda possibile risposta, più romantica e subdola: perché un'immagine vale più di mille parole – nessuna delle quali però è realmente leggibile in un senso solo. Ma allora perché non disegnare con una semplice matita o una penna, se non si vogliono spendere soldi per dipingere; perché non proprio adesso che la pittura, dopo un secolo di avanguardie artistiche, si è liberata dal dogma della rappresentazione fedele della realtà o di espressione del Bello per farsi pura portatrice del pensiero dell'artista? In La Stupidità Fotografica, libro postumo di Ando Gilardi, lo storico italiano torna frequentemente alla sua citazione preferita di Nadar: la Fotografia è quel mezzo che consente anche a un idiota di ottenere qualcosa per cui prima occorreva del genio. D'altra parte, è opinione diffusa che, fatto meramente statistico, ora che i mezzi di comunicazione e/o creazione sono alla portata di un numero più ampio di persone rispetto a cinquant'anni fa, per la proprietà transitiva anche la quantità di stupidi che ne usufruisce aumenti. Ma l'analisi di Gilardi è, seppur divertita, anche rigorosa, conscia di dover portare dati inappuntabili. Innanzitutto dunque, una definizione di stupidità da Carlo M. Cipolla: stupido è chi causa un danno a un'altra persona, o gruppo di persone, senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita. Come sempre l'idiozia è sinonimo di mancata comprensione delle cose e anche in fotografia questo fenomeno si realizza in una serie di equivoci ben consolidati. Ando Gilardi è venuto a mancare due anni fa, dopo una lunghissima vita come fotoreporter e critico della fotografia, tra i primi ad analizzare la portata e le conseguenze dell'avvento del digitale visivo non solo nell'ambito concreto quanto quello concettuale; ha attraversato con passo leggero settant'anni di storia della fotografia lasciando come eredità, fra le altre cose, un nutrito gruppo di saggi, l'omonima Fototeca Storica Nazionale e il ricordo di un'irriverenza espressiva senza limiti. La Stupidità Fotografica è un divertissement critico, una conversazione che del dialogo orale ha le frasi brevi e i lampi del pensiero che cambia direzione da punto a capo: rapidamente si susseguono riflessioni sulla differenza fra macchina e immagine fotografica, su come agiscono gli stupidi dietro e davanti all'obiettivo, e quanto l'individuo possa sentirsi attratto dalla facoltà di appropriarsi di un gesto, l'atto creativo, prima riservato solo a pochi esseri superiori. Ma, se non è facile pronunciarsi su quanto l'espressione umana sia stata arricchita o impoverita da questo cambiamento culturale, certo è che il nostro tempo è affetto da una bulimia visiva senza precedenti. Ma questa fame d’immagini corrisponde a una fame di realtà? Primo errore, avverte Gilardi, è pensare la fotografia come evento recente, quasi impercettibile rispetto alla lunghissima storia dell'arte.

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Sbagliato, perché se la fotografia è scrittura della luce allora è sempre esistita in forma effimera, come il gioco delle ombre al lume di candela o l'arzigogolato sistema delle camere oscure; ma dato che la storia fotografica così come la conosciamo è l'analisi dell'immagine fissa, questo ha portato gli studiosi a ragionare più sulle immagini prodotte che sui mezzi che le producevano. Invece il mezzo è fondamentale, importantissimo, del tutto distaccato dal fotografo che invece confonde se stesso e l'atto di scattare, come se la macchina fotografica fosse una parentesi di vetro e plastica fra sé e il mondo. Nessun fotografo soprattutto poteva cambiare il percorso della fotografia come lo ha fatto il recente passaggio dall'analogico al digitale, che Gilardi indica come passo “astronomico, epocale, immenso”, e il conseguente raggiungimento di quella infedeltà produttiva da cui le altri arti visive si erano liberate un secolo fa. Ora che tutto è bit, file, pixel, quella penosa “camicia di forza” che era l'aspettativa di ritrovare la realtà nell'immagine fotografica è definitivamente decaduta. Era sempre stato così, ma solo oggi con Photoshop, la digitalizzazione dell'informazione visiva e il possibile scomponimento e riassemblamento di questa in una nuova informazione composta dalle stesse parti in modo del tutto differente, è possibile tacciare di ingenuità ogni discorso che voglia ricollegare la fotografia direttamente al mondo esterno, per costringerla così al ruolo di parente povera delle Arti. Eppure, sarebbe anche per questo che tutti fotografano: perché si pensa che non ci voglia nulla a farlo. In fondo basta un clic dal cellulare o dal tasto della minuscola macchina compatta impostata sui valori automatici. Se però il digitale significa la perdita di ogni dovere verso la rappresentazione di quel Reale che una volta si pensava aspettasse paziente nell'occhio del mirino, freddo, indiscutibile, facile da catturare in un'istantanea, la perdita della convinzione di tanti fotografi professionisti o no di interfacciarsi con il mondo tramite l'obiettivo costringe a interrogarsi su cosa cercare ora attraverso le lenti fotografiche. In altri termini, il “basta un clic” lascia il posto alla libera creatività e allo sforzo mentale che questa sottintende. Riprendendo la domanda iniziale sul perché invece di disegnare si fotografa così tanto se entrambi i mezzi sono oggi alla portata di tutti, si può immaginare che fra le tante risposte a disposizione possa essere considerata come la più plausibile l'idea che la creazione, per quanto tuttora soggetta alle mitizzazioni del genio e dell'ispirazione divina, rimanga un fardello più pesante da sostenere rispetto alla convinzione di poter accedere alla realtà solo spingendo un tasto; pertanto forse, in un futuro non troppo lontano, la comune considerazione della fallacia insita nell'ostinarsi a fotografare per la soddisfazione di ottenere in un attimo un risultato perfetto cui prima solo lontanamente le arti figurative potevano aspirare con profonda perizia tecnica, può far sperare che anche la fotografia, come tutte sue sorelle artistiche, e con tutte le sue infinite ri-produzioni ora visibili online da tutti, possa essere celebrata come l'arte del creare vedendo, e non più come stupida pretesa di rappresentazione fedele della realtà.

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Nan Goldin – Scopophilia da http://www.artribune.com/

Tra loro e me: scambi telepatici, divinazione.–Nan Goldin

Gagosian Gallery è lieta di presentare Scopophilia, la prima grande mostra a Roma della celebre fotografa americana Nan Goldin.

Il significato letterale del termine greco scopophilia è “amore per il guardare”, ma si riferisce anche al piacere erotico che deriva dall’osservare il corpo attraverso le sue immagini.

Scopophilia di Nan Goldin è sia uno slideshow che una serie fotografica iniziata nel 2010, quando le fu concesso di accedere privatamente al Louvre ogni martedì, giorno di chiusura al pubblico del museo. In queste occasioni l’artista ha avuto il privilegio di passeggiare e fotografare liberamente le rinomate collezioni del museo.

L’esperienza “errante” di Goldin presso il Louvre ha confermato che molte delle sue ossessioni artistiche–il sesso, la violenza, l’estasi, la disperazione e il cambiamento di genere–derivano da correnti immaginative presenti nella storia dell’arte occidentale, in un mito e in un’iconografia religiosa dalle radici potenti, dalla metamorfosi di Pigmalione fino alla scultura in marmo del secondo secolo d. C. L’Ermafrodito dormiente.

Molte fotografie personali di Goldin che lei stessa ha abbinato a immagini del Louvre non erano mai state esposte prima; alcune sono state scoperte dalla sua assistente nei suoi archivi, altre portate alla luce dall’artista stessa.

Il risultato è un ritratto collettivo sull’amore e sul desiderio, mosso da “tutti i circuiti del piacere che sono profondamente soddisfatti dal guardare”.

Delle migliaia di fotografie che Goldin ha scattato a dipinti e sculture delle collezioni del Louvre è stato realizzato uno slideshow di venticinque minuti, nel

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quale interpretazioni personali e animate delle opere storiche vengono associate ad immagini del suo repertorio che risalgono alla fine degli anni Settanta. Il risultato è un risonante dialogo tra storie umane passate e presenti. La proiezione di Scopophilia è stata presentata per la prima volta al Louvre nel 2010.

Con in sottofondo una malinconica colonna sonora di musica classica, scritta da Alain Mahé per pianoforte, violoncello e voce, l’artista riflette sommessamente su figure mitologiche, tra cui Narciso, Tiresia e Cupido e Psiche.

Tutti trovano i loro equivalenti nei ritratti scattati agli amici e alla famiglia allargata dell’artista, alle volte teneri, altre selvaggi o erotici. Presso Gagosian Gallery lo slideshow sarà proiettato durante le ore di apertura per l’intera durata della mostra.

La proiezione è accompagnata da immagini fotografiche ad essa correlate, nelle quali Nan Goldin associa proprie fotografie ad immagini di capolavori storici in reticoli tematici uniformi.

Molte di queste composizioni sono state realizzate appositamente per la mostra di Roma e sono qui esposte per la prima volta. Questi lavori rappresentano una nuova direzione per l’artista, in cui l’avvicinamento alle nuove tecnologie le permette di indagare all’infinito il suo vasto mondo di immagini creandone nuove ed inaspettate variazioni.

Nan Goldin è nata nel 1953 a Boston, Massachusetts. Il suo lavoro è stato protagonista di due importanti retrospettive “I’ll be Your Mirror,” al Whitney Museum of American Art (1996 e successivamente al Kunstmuseum Wolfsburg, Germania; Stedelijk Museum, Amsterdam; Fotomuseum Winterthur, Svizzera; Kunsthalle Wien, Vienna; National Museum, Praga), e “Le Feu Follet,” al Centre Pompidou di Parigi (successivamente presso la Whitechapel Gallery, Londra; Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid; Fundação de Serralves, Porto, Portogallo; Castello di Rivoli, Torino; e Ujazdowski Castle, Varsavia).

Scopophilia ha fatto parte dello speciale programma di Patrice Chéreau al Louvre nel 2011; ed è stato esposto al Museu de Arte Moderna, Rio de Janeiro (2012). Nan Goldin ha ricevuto la Legion d’honneur nel 2006 ed ha ricevuto l’Hasselblad Foundation International Award nel 2007. Nel 2012 la Macdowell Colony ha premiato l’artista con l’Edward Macdowell Medal. Nan Goldin vive e lavora tra New York, Berlino e Parigi.

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ROMA - GAGOSIAN GALLERY, Via Francesco Crispi 16 da venerdì, 21 marzo a sabato, 24 maggio 2014 – orario: mar–sab: 10:30–19:00 e su appuntamento.

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Sia lode ora a uomini di gloria di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

© Flavio Faganello

Vien proprio da cadere nel più comune dei luoghi comuni esterofili: ah, se l’avessero fatto in America, allora sì…

Ma lo penso davvero. Se Aldo Gorfer e Flavio Faganello si fossero chiamati James Agee e Walker Evans, questo loro libro splendido e dimenticato, Gli eredi della solitudine, sarebbe oggi citato in tutte le storie della fotografia mondiale alla stragua di Let Us Now Praise Famous Men. Invece faticate a trovarlo citato anche solo nelle storie della fotografia italiana. E pure nelle librerie, benché sia stato riedito una decina di anni fa, e io devo dire un grazie grande così a Piero Cavagna, amico fotografo trentino dalle mille risorse, che qualche mese fa me ne ha scovata e donata una copia di prima edizione. Sono sincero: è rimasta sul tavolino a lungo, dopo una prima sfogliata. Questo libro sulla decadenza dei masi altoatesini lo avevo frettolosamente assegnato alla categoria dei lavori di documentazione socio-geografica, fatti con cura, ma di interesse locale o specialistico.

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E poi, credevo di conoscere già le opere di Faganello, fotografo trentino scomparso nel 2005, avendo visitato con qualche interesse una sua mostra al Mart di Rovereto. Avevo moderatamente apprezzato il suo stile lineare e non retorico, la cura delle sue inquadrature. Lo avevo classificato come un documentarista. Non avevo capito la portata della sua epica senza retorica, della sua antropologia senza antropologi. Poi, un pomeriggio uggioso di domenica, ho aperto il libro a pagina uno, come si dovrebbe fare, e l’ho letto fino in fondo. E ho capito di quanto mi sbagliavo.

Adesso so di avere in casa uno di quei libri rari, dove fotografia e parole trovano il loro equilibrio magico e rarissimo, raccontando un mondo di storie dell’uomo. È un reportage dei primissimi anni Settanta sul malinconico declino degli insediamenti umani di alta montagna. È il racconto di una transizione sociale, umana, storica, economica. Ma è anche un poema universale sulla solitudine, una riflessione russoiana sul società in vitro, una meditazione sulla condizione di uomini in bilico sul crinale (è il caso di dirlo) fra storia e natura, fra tempi lunghi e tempi brevi, fra eternità e contingenza. Gorfer, giornalista e scrittore, è un Agee meno sperimentale e egocentrico, più sommesso e intenso. Faganello è un Evans meno formale e rigoroso, più emotivo e partecipe. Ma quel che esce dalla loro collaborazione non ha nulla di meno, e sotto certi aspetti perfino qualcosa di più, dei modelli illustri d’oltreoceano, quello che ho già citato, oppure An American Exodus di Dorothea Lange e Paul Taylor, o You Have Seen Their Faces di Margaret Bourke-White e Erskine Caldwell.

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Gorfer e Faganello visitarono lentamente, a piedi, assieme ma senza incrociarsi troppo, i masi d’alta montagna, microcosmi isolati e sperduti su falde irraggiungibili coi mezzi motorizzati, e lo fecero nei mesi più feroci del freddo e del gelo, per coglierne la verità estrema. Si fermarono a parlare per ore e giorni con famiglie strette nel tepore eremitico delle lorostube, facendo loro domande semplici e gigantesche: perché vivere qui, perché sposarsi qui, perché avere figli qui, tra le assi di legno dove la neve polverizzata sbuffava dentro, in mezzo ai sentieri scavati delle orme dei bambini che andavano e tornavano perigliosamente da scuoline lontane, sognando strade che nessuno costruiva e comodità che non ci si poteva permettere.

© Flavio Faganello

Faganello scattava ritratti.Anche ritratti di gruppo. Anche ritratti senza umani. Minimi villaggi, grappoli di pietra dolomitica e legno, con gli abitanti contati uno per uno, grumi di architetture spontanee quasi antropomorfe, immerse in una nebia di rassegnazione alla Storia che travolge i destini degli individui e delle generazioni, nell’attesa senza ansia né dolore della lenta inesorabile entropia di un mondo. Epica malinconia della scrittura, limpida incisione delle immagini, ma nessuna indulgenza a nostalgie di età d’oro mai esistite, nessuna mitologia astorica ed eterna, piuttosto l’incombere della Storia che avanza nelle cose minime e massime, nel muto dialogo fra l’ornamento scolpito da secoli e la nuova ruota gommata del carretto, del Cristo di legno sul camino e della radio sul letto. Testo e immagine raccontano gli stessi luoghi, le stesse persone, gli stessi oggetti e paesaggi, ma non si doppiano mai, non rivaleggiano, invece sostengono e colmano le reciproche ineffabilità, completano uno i limiti dell’altro, contenendo ciascuno il senso dell’altro, uno yin-yang quasi perfetto.

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Un esito forse non premeditato, anzi. Mi si dice che il rapporto tra fotografo e scrittore non fu facile, che perfino la redazione del frontespizio fu faticosa. L’autore appare essere uno solo, Gorfer, lo scrittore. Il fotografo, dal quale pure partì l’idea, figura solo sotto il titolo, anche se con gli stessi caratteri, nella formula “fotoinchiesta di Flavio Faganello”. Faganello tornò fra quei masi trent’anni dopo, per scoprire che il disfacimento del mondo dei masi non era poi avvenuto, non nella dimensione paventata, che le strade erano state costruite, che un mondo umano d’altura esisteva ancora, ma diverso, perché la Storia non si ripete e non si pente, la Storia si ferma solo qualche istante, se la incroci e la chiami, per farsi fare un ritratto. Ma basta qui, spero vogliate farvene un’idea da soli, vi assicuro che ne vale la pena. La mia domanda è quella da cui sono partito: perché un libro così scompare dai radar degli storici della fotografia? Quali fattori determinano la memorabilità di un libro fotografico?

Flavio Faganello in un di Piero Cavagna

Temo che questo libro sia stato considerato, proprio come ho fatto io all’inizio, un semplice libro illustrato, un lavoro di scrittura con qualche illustrazione. E anche la cultura fotografica l’ha preso così, come un libro che ospita immagini di un bravo fotografo. Ma non un “libro fotografico”, o un “fototesto” d’autori. Non una tappa significativa della fotografia italiana. Del resto, quale cultura del fotolibro era pronta ad accogliere in Italia questo libro? Anche dopo esempi illustri come Un paese di Strand e Zavattini, temo nessuna, o molto scarsa. Nel ’73, anche le esperienze americane degli anni Trenta di collaborazione fra parola e fotografia erano note ai pochi, nel nostro paese. E chi ne aveva avvistato l’esistenza, come Elio Vittorini, ne aveva importato il modello in una

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versione potentemente squilibrata a favore del testo, con le fotografie in funzione subordinata, come testimonia il suo scontro con Luigi Crocenzi. Ma anche dopo, la dimenticanza è rimasta tale. Non si trova traccia di questo libro nella storiografia più aggiornata della fotografia italiana, perfino ei volumi che trattano più specificamente la fotografia dei luoghi e degli spazi. Forse qualcuno ha già provato a farlo, ma credo sarebbe ora di rimediare a una trascuratezza ingenerosa, e riconoscere lode ora a due uomini di gloria. Tag: Aldo Gorfer, Alto Adige, Dorothea Lange, Elio Vittorini, Erskine Caldwell, Flavio Faganello, James

Agee, libri fotografici, Luigi Crocenzi, Margaret Bourke-White, Mart, masi, Paul Taylor, Piero

Cavagna,Trentino, Walker Evans

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Nazionale, con e senza filtro di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Non so voi, ma a me non stupisce affatto che un fotografo italiano, che non conoscevo, e il cui nome forse dirà poco a molti di voi, su Instagram sia molto più popolare di suoi colleghi stranieri che invece conosco di fama. Non trovo nulla di strano e tantomeno di bizzarro nel fatto che Brahmino, nom de Web di Simone Bramante, abbia su Instagram 433 mila followers, che sono, come ricorda Linda Ferrari nella sua

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attentissimapagina Facebook Photoskine, il doppio di quelli di Ben Lowy, noto fotografo di guerre e conflitti, e quasi venti volte quelli di Ed Kashi di VII, fotografi che si sono fatti un nome fuori dai social network e che ci sono immigrati solo in un secondo momento . La popolarità sui nuovi media orizzontali va a chi sa comprenderne più profondamente e sfruttarne al meglio i meccanismi, le caratteristiche, la filosofia, perché no l’ideologia. E comunque attenzione a parlare di outsider che sbancano, di vittoria dei nuovi arrivati sui professisonisti, perché per quanto sappia poco di lui, da quel che leggo e vedo, Brahmino è tutt’altro che un ingenuo o un dilettante. In questi giorni sta postando ritratti dall’Africa, niente male. Semmai sono dilettanti, nel nuovo ambiente, quelli che non capiscono che i criteri di valore, di apprezzamento, di popolarità e di stima, nel mondo della condivisione virale e dello scambio orizzontale, non hanno più molto a che vedere con quelli che nel mondo gerarchizzato delle carriere pre-Web erano affidati alla cooptazione del gruppo elitario, al parere di selezionatori autorizzati, alla peer-review del sistema dei critici, delle riviste, delle gallerie. le fotografie che hanno reso celebre Brahmino sono curiose, stimolanti, fresche nel loro surrealismo “volante”, lasciano fantasticare, il loro autore rivendica la sua passione per lostorytelling, sono foto che puntano al nostro inconscio di uditorio assetato di storie. Ma questo, anche tanta fotografia pre-Web sapeva farlo. Dubito che il successo ai tempi dei social network dipenda solo da una virtù importata dal mondo analogico. Credo invece che una buona foto su Instagram debba essero una buona “foto Instagram”, non una buona foto e basta. Che voglio dire? Che c’è uno specifico estetico, nella fotografia condivisa, che è nato e funziona solo nella fotografia condivisa. Non credo di saperne elencare i comandamenti, ma credo che esistano. Per captare l’attenzione veloce e fuggente del “flippatore” di quadratini Instagram, un mosaico sterminato, la sfida è fermare al primo passaggio lo sguardo che corre. Credo che alcune doti come la semplicità compositiva, una certa rarefazione dei dettagli, o la evidenza degli elementi riconoscibili anche nel piccolo formato, siano atout importanti. Ma almeno uno, non so se fra i più importanti, Di questi comandamenti ce lo svela proprio il nostro Brahmino, intervistato da Wired, in poche righe di risposta a una domanda solo apparentemente tecnica, “che filtri usavi all’inizio?”. La risposta merita di essere riportata testualmente:

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“Sai, Instagram è anche community e il filtro Earlybird che ho utilizzato per molto tempo, oltre ad essere quello che esteticamente preferivo, era anche un codice comune di appartenenza ad un gruppo”. Earlybird è uno dei più utilizzati tra i filtri preimpostati di Instagram Per un certo periodo fu soppresso, poi reintegrato a furor di popolo. Definirlo a parole, come per tutti gli altri, non è facile, ma diciamo che produce un effetto morbido, di colori caldi, leggera vignettatura, un clima vintage. Bene, che ci dice, molto lucidamente, il recordman di follower? Che in una fotografia di successo su Instagram, qualità estetico-formali e identitificazione sociale contano almeno alla pari. Che le immagini della condivisione fanno appello non solo e non tanto al gusto individuale ma a un codice collettivo. Che le immagini di successo debbono confermare almeno quanto incuriosiscono. Mi sono chiesto spesso come fosse possibile conservare alle proprie immagini un’identità creativa, un marchio personale, se si usano i filtri automatici di Instagram, che sono pochi di numero, a fronte delle centinaia di milioni di immagini che ci passano attraverso, e che quindi vengono rese visualmente o omogenee a milioni. Bene, la domanda era sbagliata: l’originalità individuale non è il principale requisito del successo sui SN, lo è comunque molto meno della riconoscibilità sociale. Come i dress-code delle sub-culture metropolitane, come le pettinature delle bande giovanili, i filtri sono bandiere identitarie che ti vengono incontro dicendoti “ciao, sono uno come te”, che segnalano pubblicamente ai naviganti del gran mare delle immagini Web “qui c’è qualcosa che fa per te, che somiglia a te”, offrendo loro una traccia, un sentiero, un approdo, là dove rischierebbero di naufragare nella ingovernabile entropia degli stili. I filtri, come qualsiasi connotazione molto marcata, rassiscurano e proteggono e defiiniscono comunità di scambio gestibili all’interno di un universo della condivisione che altrimenti sarebbe troppo gigantesco e spaventoso maneggiare. In buona sostanza, quel che i fotografi “famosi” che sbarcano su Instagram temo non abbiano capito, è che l’autorialità, l’originalità individuale, in questi nuovi luoghi dello scambio cede progressivamente terreno all’attrazione identitaria, al conformismo di gruppo. Gli stili preconfezionati di Instagram funzionano come le livree tribali, come leexactitudes inconsapevoli dell’abbigliamento di ceto, di gruppo, di casta, di banda: ci rendono piacevolmente uguali a tutti i nostri uguali, anche se ci lasciano l’illusione di essere solo dei “vestiti” che liberamente mettiamo addosso a corpi (immagini) solidamente irrupetibili e unici.

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Nel momento in cui omologhiamo le nostre superfici di contatto con l’esterno, le nostre interfacce sociali (reali o virtuali), chissà per quale strana illusione continuiamo a pensare che quel che ci mette in relazione con gli altri non è il filtro (o l’abito, o l’acconciatura) ma “quel che ci sta sotto”, cioè la nostra creatività individuale. Bene, non è così. Sotto il filtro, (quasi) niente. I filtri funzionano, catturano la simpatia per omogeneità degli altri, ma rischiano di ingabbiare chi li usa. Credo che lo sappia bene Brahmino stesso, che ai filtri standard ha poi rinunciato, e adesso fotografa spesso con attrezzature sofisticate e postproduce i suoi effetti usando in modo molto personale gli strumenti più sensibili dei software di elaborazione, e solo dopo tutto questo riversa le sue immagini in Instagram. Ma per sfondare, per farsi strada nelle comunità orizzontali, i filtri servono. La cultura del filtro identitario ormai fa parte della nostra cultura visuale. Ci si vincono i premi fotogiornalistici. Ci se ne fa una reputazione. Ci procura tanti amici. Funzionano. Tag: Ben Lowy, Brahmino, Earlybird, Ed Kashi, filtri, Instagram., Simone Bramante, storytelling

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8 marzo, le 10 foto di donne più belle della storia della fotografia

da http://www.libreriamo.it/

Da ''The Afghan Girl'' di Steve McCurry a Greta Garbo fotografata da Inge Feltrinelli, ecco i 10 scatti più belli della storia della fotografia che hanno per protagonista il gentil sesso: THE AFGHAN GIRL ‒ Il suo sguardo fiero, immortalato da Steve Mc Curry in una foto scattata nel 1984, scelta poi come copertina da National Geographic l'anno dopo fece il giro del mondo, divenendo il simbolo della condizione dei profughi di ogni provenienza.

STEPHANIE, CINDY, CHRISTY, TATJANA, NAOMI ‒ Questa foto di Herb Ritts scattata nel 1989 a Hollywood rappresenta l’essenza dello stile di questo fotografo che, durante tutti gli anni ottanta e novanta riuscì ad imporsi definitivamente sulla scena mondiale creando un nuovo glamour femminile che si ispirava alla scultura della Grecia classica.

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AUTORITRATTO CON MODELLA E MOGLIE ‒ Ha rivoluzionato il concetto di fotografia fashion, riscritto il linguaggio con cui la moda interpretava e mostrava se stessa. Dopo di lui tutto è cambiato. Gli scatti in bianco e nero di Helmut Newton hanno portato il nudo a simbolo dell’emancipazione femminile, e nonostante le pesanti accuse di maschilismo e l’ambiguità delle pose, le sue immagini testimoniano l’evoluzione della donna nella società occidentale. Mentre gli uomini stanno a guardare, letteralmente, fuori dai giochi. Tra scorci urbani e riflessi allo specchio, al margine di ogni composizione, si fanno presenze accessorie, mere comparse, dettagli.

MARILYN TRA LA FOLLA - Le icone della Hollywood anni ‘50/60 ritratte in modo anticonvenzionale, con scatti rubati all’intimità ed alla quotidianità, che ne sviscerano il lato umano. Marlene Dietrich, Marilyn Monroe, Joan Crawford, le dive per eccellenza, donne delle quali il mondo conosce solo l’immagine patinata ma priva di colore. Eve Arnold, documentarista e ritrattista, seguì Marilyn Monroe per un decennio della sua attività. Appare il colore in alcune fotografie, ma la fotografa riesce a cogliere il candore della diva, un candore che buca la pellicola e restituisce un’immagine quasi tridimensionale. «Che cosa mi ha spinto e mi ha fatto andare avanti nel corso dei decenni? Qual è stata la forza motrice? Se dovessi usare una parola sola, sarebbe curiosità», ebbe una volta a dichiarare curiosità», ebbe una volta a dichiarare.

AUDREY HAPBURN ‒ Cecil Beaton fu costumista e fotografo, nella sua fotografia, crea degli accostamenti inconsueti che gli permettono di unire un mondo scenografico alla vita quotidiana e anche se sembrano artificiose sono dotate di acute intuizioni. la

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caratteristica principale delle sue fotografie è un'ironia che gli permette di filtrare ciò che vede e rielaborarlo. I suoi ritratti possono essere considerati i suoi miglior lavori in cui ambienta e connota i soggetti tramite metafore armoniche che consentono di raffigurare i personaggi della cultura e dello spettacolo insieme ai gesti, alle espressioni e agli oggetti che li caratterizzano.

TWIGGY ‒ Un’altra celebre foto di Cecil Beaton datata 1971 ritrae una delle icone più famose degli anni ’60, Twiggy. Lanciata a 16 anni come "volto del 1966", viene considerata la prima top model al mondo. Capelli corti, lentiggini e look denutrito, diventa ben presto l'idolo di stilisti, cineasti e fotografi della "Swinging London". A tal punto che Mary Quant si ispirerà a lei per creare la sua leggendaria minigonna. Icona degli anni Sessanta, ha rivoluzionato i canoni internazionali della bellezza, prima di lei tondi e voluttuosi.

KIKI. VIOLON D’INGRES ‒ E’ la foto più famosa di Man Ray datata 1924, ritrae la sua amante/assistente/amica Kiki, cantante di Montparnasse su cui, in fase di stampa, vengono apposte, stampandole a contatto, le “effe” della viola, strumento d’amore. E così in un unica immagine c’è la donna/amore e il suo rapporto indisciplinato con la foto. E c’è, ovviamente, uno smisurato senso estetico nell’utilizzare la bellezza, la più ovvia e logora delle bellezze, come strumento di scardinamento della coscienza.

CAPUCINE ‒ Questa foto di Robert Capa, scattata nel 1952 a Roma, ritrae la modella e attrice francese affacciata al balcone, questa fa parte di una delle prime foto a colori del fotografo. Robert Capa è considerato ambasciatore della concerned photography , capace

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di comprendere i tempi e di reinventarsi grazie ad una colta curiosità e profonda sensibilità che traspare chiaramente dai suoi scatti.

DOVIMA WITH ELEPHANTS ‒ Questa è una delle foto più celebri di Richard Averdon, fotografo e ritrattista statunitense che collaborò per anni con Vogue. Venne scattata nell’agosto del 1955 presso il Cirque d’Hiver di Parigi. La foto ritrae la supermodella Dovima in abito da sera nero insieme ad alcuni elefanti da circo. L'abito indossato da Dovima in quella occasione fu il primo disegnato da Yves Saint Laurent, all'epoca assistente di Christian Dior.

GRETA GARBO ‒ Nella produzione fotografica di Inge Feltrinelli possiamo trovare immagini di valore storico, in cui si coglie chiaramente il suo interesse per le relazioni, per la vita. Questo scatto rubato del 1952 ritrae l’attrice svedese Greta Garbo, fra le più celebri di tutti i tempi. Per la sua bellezza e per la indiscussa bravura, venne soprannominata la Divina.

8 marzo 2014 ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il più facile da copiare di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Franco Fontana, Basilicata, 1997, © Franco Fontana, g.c

Mi firma un frontespizio, poi prima di allungarmi il volume lo sfoglia con aria indulgente e sospira sorridendo: «Sono il fotografo più facile da copiare al mondo…».

Al tavolino di un caffè sotto i Portici del Collegio, cuore della sua (e mia) Modena, tranquillo e sovrano come un feudatario nel suo castello, davanti a una torricella di suoi libri, Franco Fontana s’arrende, divertito, quasi orgoglioso, alla sua fama di creatore di epigoni. «Ma quando un fotografo vede nel paesaggio una geometria di linee e di colori, be’, gliel’ho fatta vedere io. Quando un fotoamatore “fa un Fontana”, magari per ironizzare su di me, sono io che gli ho insegnato a guardare, a vedere quelle forme e quei toni». Ottant’anni appena compiuti, Fontana non ha mai smesso di scattare. Nel mondo lo conoscono e lo riconoscono tutti per quelle fasce di pigmenti saturi, per quei campi di colore bilanciati come su un tavolo da disegno, l’innaturalità geometrica del paesaggi. Gli va riconosciuto il coraggio di rivendicare il suo stile. Ma anche quello di aver cercato di non farne un cliché stanco. «Ci lascio andare loro, i “fontanini”,

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a cercare di replicare le mie foto fra le colline della Basilicata, io non ci sono più tornato, non mi piace ripetermi». Franco sa scherzare su di sé. È un fotografo di successo, e ne conosce i piccoli e grandi prezzi. Un fotoamatore lo apostrofò, durante un festival: «Veh, Fontana, con quali pennarelli le hai fatte quelle foto?», lui rispose serafico e prontissimo: «Col pennarello di Dio!». Ha cercato altre strade, alcune folgoranti (la Luce americana, un tacito omaggio ai riferimenti lontani della sua poetica), altre un po’ meno (i nudi in piscina). Ma di sicuro, il suo “modo” ha cambiato qualcosa nella cultura fotografica diffusa di questo paese. E adesso che una retrospettiva a Venezia e un volume antologico riscoprono il suo Full color, può permettersi di sfogliare il libro da cui cominciò tutto, Skyline, ripubblicato dopo trentacinque anni da Contrasto, con la coscienza di chi sa di avere «inventato una forma», come scrissero di lui Helmut Gernsheim e Ando Gilardi, fra i tanti. Era un arredatore di mestiere. L’occhio allenato alle disposizioni delle masse nello spazio, alle armonie e ai contrasti delle superfici. Mondrian applicato all’architettura d’interni. Il Politecnico di Torino, che l’ha laureato honoris causa in design, ha visto giusto. Era un fotoamatore classico. Una Kodak Retina affittata nei fine settimana. I fotoclub. Ma anche: il coraggioso rifiuto del bianco-e-nero, allora discrimine fra volgare e artistico. «Fotografo a colori perché vedo a colori», ha sempre ripetuto. Poi l’incontro con una vecchia berlinetta rossa sul ciottolato di una brumosa strada di Praga fu il suo fulmine damasceno. Skyline fu pubblicato nel 1978 da una piccola casa editrice, Punto e Virgola, creata da un suo grande concittadino, Luigi Ghirri. Fu il primo volume in catalogo: Ghirri lo antepose al suo stesso libro seminale, Kodachrome (anche se, dei due, era solo Fontana a usare quella pellicola). La fotografia a colori, da poco sdoganata come espressiva e artistica in Usa da William Eggleston, arrivava nell’Italia degli austeri bianconeri alinariani e sconvolgeva la visione. «I colori esistono, ma bisogna dirli», spiega un po’ criptico Fontana. «L’arte è rendere visibile l’invisibile».

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Franco Fontana, Puglia, 1995, © Franco Fontana, g.c.

Lui li tirò fuori a viva forza, i colori, li costrinse a gridare, saturando le sue diapositive col semplice gioco di rifotografarle sulla stessa pellicola positiva. Astrazioni che erano estrazioni. Nulla che però non restasse, nell’inquadratura, riconoscibile: un sole è un sole, un campo un campo. Fontana non filosofeggia troppo. E si stupisce ancora come un bambino di quella volta, quando il Ministero della Cultura di Parigi gli chiese un’immagine di spiaggia-cielo-mare per un manifesto sul pensiero francese nel mondo. «Una fotografia che rappresenta il pensiero, pensa tu…». Tag: colore, fotografia, Franco Fontana, Luigi Ghirri, Modena, Punto e virgola, William Eggleston

Scritto in Autori, colore, Grandi ritorni, Venerati maestri | 12 Commenti » Luogo e identita' nella fotografia italiana contemporanea Comunicato stampa da [email protected]

Il volume e' dedicato al legame tra l'uomo contemporaneo e i territori che abita, cosi' come e' stato affrontato dalla fotografia italiana dagli anni Settanta fino ai giorni nostri.

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Molti sono i fotografi che hanno posto al centro del loro lavoro la riflessione sulle grandi trasformazioni che hanno investito il paesaggio contemporaneo e sulla mutata condizione sociale ed esistenziale che ne consegue. Grazie alla profondita' della loro opera essi hanno influito sugli sviluppi non solo della fotografia, ma piu' in generale della cultura visiva e, per certi aspetti, della cultura urbanistica e letteraria italiana. Infatti l'interesse cosi' a lungo rivolto dai fotografi al rapporto tra l'uomo e l'ambiente non ha soltanto avuto un significato di tipo topografico, di 'misurazione' e di 'descrizione' dei luoghi, ma ha anche contribuito e continua a contribuire alla non facile definizione della identita' culturale italiana, sempre in tensione tra natura, arte, citta' cariche di bellezza e disarmonico e aggressivo sviluppo economico, tra passato che non passa e contemporaneita' difficile da conquistare, tra antiche radici e spinte improvvise indotte dal recente processo di globalizzazione. Il libro intende studiare e porre in relazione le molte produzioni fotografiche nate negli anni, le diverse figure di artisti, dai maestri ai giovani, la diversa natura dei progetti; capirne le ragioni storiche e il significato nella contemporaneita', nonche' i legami, non cosi' immediati per la fotografia italiana, con lo scenario internazionale; tentando infine un primo bilancio che possa agevolare ricerche e approfondimenti successivi. A cura di Roberta Valtorta (Einaudi, Torino 2013) con saggi di Matteo Balduzzi, Antonello Frongia, William Guerrieri.

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Siamo fatti al settanta per cento di fotografia di Michele Neri da http://perche.vanityfair.it/

Nel titolo esagero. Lo so. Ma non troppo, perché c’è stato un cambiamento in questi ultimi anni. La fotografia, da quando è straripata dall’ambito professionale per allagare le giornate di tutti, non è più soltanto qualcosa che descrive il mondo, è parte del mondo. Come l’acqua, come l’anidride carbonica, o l’amore, la paura o la speranza. La fotografia, in tutti i suoi frammenti infinitesimi con cui la pratichiamo, attraverso i quali siamo presenti nella vita altrui, è un fondamentale in più della vita. Mi sveglio, esco, incontro, lavoro, mi distraggo, alimento i miei bisogni vitali e da qualche tempo, tra questi, ci sono le immagini di quello che sono o cui assisto, quelle che produco o in cui sono catturato, celebrato, dileggiato. Siamo abbastanza preparati per questo? Un po’ sì, se si guarda al piacere con cui la maggioranza non ha problemi a cogliere l’attimo di tantissime esperienze. Un po’ no, se pensiamo a tutto quello che sotto la voce “privacy” all’improvviso si presenta come una falla gigantesca e incontrollabile nella parete della nostra intimità. La metafora dell’acqua nella sua semplicità dovrebbe rendere l’idea. Siamo fatti anche di immagini. Non lo sapevamo. Lasciando stare il lato social dell’immagine, si guardano le notizie di una giornata qualsiasi, per prima cosa ci si rende conto che, appunto, le si sta guardando. La fotografia è la notizia. Attraverso il meccanismo del “prima e dopo”: -il volto della modella russa sfigurata dall’ex -il volto, prima e dopo, della donna che chiede 150 milioni di risarcimento perché sfigurata da una scimpanzé nella casa di una sua amica Attraverso il meccanismo della fotografia ogni giorno: -come nel caso della cronaca quotidiana della gravidanza della moglie di Tom Fletcher, chitarrista dei McFly. E poi, trascurando anche tutte le notizie che si basano su vari time-lapse, video virali, sul meccanismo dello strano ma vero, e altri meccanismi, lasciando perdere anche le community che vivono di foto e basta, si arriva alle fotografie sempre più frequenti di chi, con la propria immagine, simboleggia, riassume, accende, racconta un mondo, un evento. E queste hanno un valore particolare. Come la fotografia, scattata da Christian Veron di Reuters della coppia, ormai famosa, bacio con pietra in mano.

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E’ sbagliato pensare che la coppia, oltre a protestare per le strade di Caracas, Venezuela, contro Maduro, da qualche parte del proprio pensiero, più o meno conscio, fosse anche preparata, consapevole di essere, in quel giorno di protesta e amore, in parte, già fotografia?

Robert Mapplethorpe tradotto da http://undo.net/it

La mostra di Parigi alle Galeries Nationales du Grand Palais presenterà dal 26 marzo al 13 luglio 2014 oltre 250 opere, che la fanno una delle più grandi mostre di questo artista mai organizzate, in un museo.

Interesserà l'intera carriera di Mapplethorpe come fotografo, dalle Polaroid dei primi anni 1970 ai ritratti dalla fine degli anni 1980, toccando i suoi nudi scultorei e nature morte, ed il sadomasochismo.

L'attenzione per le sue due muse Patti Smith e Lisa Lyon esplora il tema delle donne e della femminilità e rivela un aspetto meno noto del lavoro del fotografo. La sfida di questa mostra è quello di dimostrare che Mapplethorpe è un grande artista classico che ha affrontato le questioni dell'arte utilizzando la fotografia come avrebbe usato la scultura. Inoltre pone i lavori di Mapplethorpe nel contesto della scena artistica di New York nel 1970-1980. Nella sua intervista con Janet Kardon del 1987, Mapplethorpe ha spiegato che la fotografia nel 1970 era il mezzo perfetto per un tempo veloce e che non ha dovuto scegliere la fotografia poiché in un certo senso è stata la fotografia che ha scelto lui. Più avanti, nella stessa intervista, ha detto: "Se fossi nato cento o duecento anni fa, avrei potuto essere uno scultore, ma la fotografia è un modo molto più veloce di quello che serve per fare una

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scultura. Lisa Lyon mi ha ricordato dei soggetti di Michelangelo, perché anche lui faceva le donne muscolose".

Robert Mapplethorpe, Thomas, 1987 - Robert Mapplethorpe, Thomas, 1987 Épreuve gelatino-argentique- 61 × 50,8 cm © Lo stesso Mapplethorpe si è qualificato fin dall'inizio come un Artista con la A maiuscola e, a differenza di Helmut Newton, che da adolescente già voleva essere un fotografo di moda ed ha imposto la sua visione del mondo e della fotografia rendendola un'arte a sé stante, Robert Mapplethorpe è uno scultore in pectore, un artista plastico guidato dalla questione del corpo e la sua sessualità e ossessionato dalla ricerca della forma perfetta.

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Come Man Ray, Mapplethorpe voleva essere un "creatore di immagini" piuttosto che un fotografo, "un poeta" piuttosto che un documentarista. Nel catalogo della mostra di Milano, che ha confrontato i due artisti, Bruno Cora così ricorda le analogie nella loro vita: "Prima di diventare grandi fotografi, Man Ray e Mapplethorpe erano entrambi pittori e scultori, creatori di oggetti, entrambi vivevano a Brooklyn a New York, entrambi avevano realizzato ritratti degli intellettuali del loro tempo, ed erano ambedue incisivi esploratori della forma di nudo, delle sue prerogative scultoree e dell'energia che da esso emana ".

Il lungo viaggio oltre la retorica di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Giacomo Pozzi Bellini, da Viaggio in Sicilia, © 2013 Squilibri editore

Avete chiesto di riscoprire fotografi sconosciuti, o quasi. Bene, me n’è venuto in mente uno.

Era un Peter Pan in fuga dalla cultura di regime. Un giovane regista che nel 1940 scoprì per primo l’isola che non c’era: la Sicilia. Non era prevista dalla retorica fascista quella terra di drammi e di fatica, di umanità e di fuoco. Ma Giacomo Pozzi Bellini era un uomo dagli occhi aperti. Lavorava alla Cines, casa cinematografica meno allineata alla propaganda del Luce, e aveva già girato documentari di sapore antropologico, che anticipavano di un paio di decenni le ricerche di Ernesto De Martino.

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Uno, Il pianto delle zitelle, proprio sul pianto rituale, fu premiato a Venezia, e poi censurato: solo apparente contraddizione della politica culturale fascista, il cui principio ispiratore non era soffocare il lavoro delle menti più sveglie, le cio capacità potevano anche rivelarsi utili al regime, ma solo reciderne i rapporti con il pubblico di massa. Frequentava la rivista frondista Solaria, conosceva Emilio Cecchi, Mario Soldati, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale, Carlo Levi. Frequentava Prévert, s’incuriosiva del cinema francese. Era convinto che il cinema di non-fiction potesse raccontare la realtà. Il film che il ministero dell’Agricoltura gli aveva commissionato doveva magnificare la colonizzazione del latifondo siciliano, uno dei programmi altisonanti del Fascismo in fase ascendente; ma lui, in testa, aveva un altro copione: raccontare un popolo “ai margini dello Stato”, abitatore di un ambiente “drammatico”. Il film ovviamente non si fece mai, travolto dalla diffidenza dei suoi committenti e dall’incombere della tragedia della guerra. Ma ci bastano le cinquecento fotografie che Pozzi Bellini scattò nel corso di un viaggio di perlustrazione sui futuri set per capire come avrebbe potuto essere: una Sicilia di lotta ancestrale fra uomo e natura, di civiltà segreta e dimenticata .

Giacomo Pozzi Bellini, da Viaggio in Sicilia, © 2013 Squilibri editore

Inedite (tranne alcune che Elio Vittorini usò per la sua Conversazione in Sicilia), queste immagini riemergono dopo settant’anni in un volume (Viaggio in Sicilia, a cura di Arnaldo Bonzi e Domenico Ferraro) che in fondo non fa rimpiangere troppo il film mai realizzato.

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Sono immagini compiute, non di servizio, non di prova. Un racconto all’altezza, per la sua fotrza, di quelli dei grandi fotonarratori contemporanei e successori, Strand, Smith. Pozzi Bellini lascerà il cinema per la fotografia, nel dopoguerra sarà sia un documentatore d’arte e un reporter. Di lui è stato detto che possedeva un senso istintivo per l’inquadratura. Potrete farvene un’idea. Ma quel che colpisce è questo: che, come sempre quando riemerge un corpus importante di immagini, la storiografia della fotografia si gratta il capo, indecisa Queste immagini sono del 1940, al culmine della sicumera di un regime che si crede capace di sfidare le grandi potenze. Ma se non fossero datate, le si potrebbe scambiare per immagini del faticoso dopoguerra, quando i fotografi girarono l’Italia sorprendendosi di scoprirla miserevole, arretrata, sofferente. Credo sia la riprova di una tesi che si è fatta faticosamente strada solo da poco, ovvero che il Neorealismo del dopoguerra affondava le sue radici in certe vene seminascoste del Ventennio. Nell’ambiguità di un regime che si vantava proletario, nelle pieghe di una retorica che aveva ancora bisogno di un bagno popolare, di un mito rustico, ma non riusciva poi a controllare il significato di quel che i suoi intellettuali più svegli vedevano e capivano davvero, e raccontavano. Vien da pensare che una delle tante crisi che logorarono dall’interno il Fascismo sia stata anche questa crepa fra la mitologia immaginifica del regime e la prepotente scoperta del racconto visuale. Una variante, una sottospecie di quella grande crepa che si allargò fra il regime e la cultura che aveva allevato. Pozzi Bellini faceva parte di quella generazione di intellettuali che all’ombra del regime compì il suo “lungo viaggio attraverso il Fascismo”, forse il vero viaggio che questo splendido volume racconta Tag: Arnaldo Bonzi, Carlo Emilio Gadda, Carlo Levi, Cines, Domenico Ferraro, Elio Vittorini, Emilio

Cecchi, Eugenio Montale, Giacomo Pozzi bellini, JacquesPrévert, Luce, Mario Soldati, neorealismo,

Paul Strand, W. Eugene Smith

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L'occhio del fotografo Comunicato stampa da http://undo.net/it

L'occhio del fotografo. Fotografie di Robert Capa, Robert Doisneau, Elliott Erwitt, Nino Migliori, Mario Giacomelli, Ugo Mulas, Giovanni Chiaramonte e altri ancora.

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L’impegno della galleria Valeria Bella nell’ambito della fotografia si consolida. Il 26 marzo, con la serata a inviti, si inaugura l’annuale appuntamento coi grandi maestri dell’obiettivo, giunto alla terza edizione e intitolato “L’occhio del fotografo”, di cui per l’occasione sarà presentato il relativo catalogo. Come negli anni precedenti, l’attenzione della galleria punta ai grandi nomi italiani e internazionali. Robert Capa è al centro dell’attenzione con la celebre foto di Picasso che protegge dal sole la moglie con un ombrellone. Robert Doisneau è presente con due delle sue foto più famose. Atmosfere parigine anche attraverso immagini di Elliott Erwitt e Nino

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Migliori, proposto con alcune delle sue più belle immagini del periodo neorealista, ma non solo. Due i famosi scatti di Mario Giacomelli mentre di Ugo Mulas, fotografo molto amato dalla galleria Valeria Bella, saranno esposte una serie di celebri immagini tratte dalla serie delle “Biennali”, tutte vintage. Tra gli italiani anche Giovanni Chiaramonte, con alcune bellissime immagini che illustrano la sua profonda e interiore ricerca sul territorio, e che fa da padre putativo a due quasi esordienti: Fausto Giaccone, con alcune immagini tratte dal lavoro “Cavallino Treporti” e il giovane Filippo Romano, autore di un interessante lavoro di ricerca, sia formale che di contenuti. Oltre alle foto di Pierre Pellegrini, vero e proprio “ritrattista della natura”, una divertente serie di ritratti di attori di Hollywood. Ed è proprio la collina dei divi che porta al discorso sulla fotografia americana, altro punto focale della ricerca della galleria Valeria Bella. Le immagini di Dennis Stock, Andreas Feininger e William Klein in un bianco e nero secco, che ritraggono un’ America da antologia, fanno da contraltare a quelle intimiste a colori di Todd Hido, che comincia ad essere conosciuto e molto apprezzato anche in Italia. Sino al 6 Maggio 2014 alla Valeria Bella Stampe via S. Cecilia 2 (ingr. Via S. Damiano) Milano Orario: lun 15-19, mar-sab 10-19 Ingresso libero

Mimmo Jodice, compie 80 anni il fotografo del mito e dell'infinito

di Alessandra Pacelli da http://www.ilmattino.it/

«La fotografia nasce qui - dice picchiettandosi la tempia con il dito indice - altro che essere al posto giusto nel momento giusto. Ogni vera fotografia parte da

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un'idea, sedimenta nella testa, si nutre di pensiero, di domande, di ansia creativa. Essere fotografo è una dimensione della mente». A parlare è Mimmo Jodice, uno dei maestri indiscussi della fotografia, di una classicità eroica e mai stanca capace di inscenare un dialogo diretto e magico con il passato, che dà corpo al mito di cui è intessuta la nostra terra, che dà voce a una natura il cui senso di vastità toglie il fiato. Ma anche uno sguardo che ricalca i dubbi dell'esistere, che tiene conto del vuoto, che crea spazio al nulla, all'assenza. Come se tutto fosse fermo in una sospensione senza tempo: inquietudine, stupore estatico e ricerca paziente del bello. Come se la bellezza, l'affannosa ricerca della bellezza, fosse il destino assegnatogli dal fato in questi suoi 80 anni, traguardo magnifico a cui arriva domani. Uno dei punti fermi della ricerca di Mimmo Jodice è il paesaggio, che però lievita a una dimensione interiore. La percezione del paesaggio in lui è raffigurazione che unisce alla memoria della rovina il senso di un esistere misterioso, reso perturbante dall'atmosfera immobile e silenziosa. Si manifesta così quel sentimento panico che lega la natura alle vicende umane. E allo stesso tempo c’è qualcosa di sacro che vive indipendentemente dall'uomo. Come il mare, così immobile e intenso da diventare il racconto di tutti i mari, in uno slittamento dello sguardo dall'esterno all'interno, da un'iconografia vedutistica a una elaborazione intima. In questo senso l'identificazione dell'artista con il paesaggio è struggente e totale. La natura, il Mediterraneo, ma anche le città o le archeologie, cessano di essere un "tema" per diventare invece visione del mondo, che porta in se anche la scoperta di qualcosa di inatteso e di estraneo. Incluso il timore-presagio della bellezza interrotta. Come direbbe quel grande poeta che era Andrea Zanzotto, «esistono certi luoghi, anzi certe concrezioni o arcipelaghi di luoghi in cui, per quanto ci si addentri, mai si riuscirebbe a precisarne una vera mappa». L’occhio di Mimmo Jodice percorre così orizzonte dentro orizzonte, andando a scavare negli spazi abitati come in quelli incontaminati: ci sono le città che lui ritrae congelandole in un silenzio metafisico e atemporale nell'assenza totale di persone, e c'è Napoli (dall’Albergo dei Poveri a Suor Orsola) di cui ricompone la forza antropologica sfatandone però gli stereotipi: «Questa città io l'ho sempre sentita profondamente triste, dolente e con un rassegnato senso di morte», dice. Una Napoli che mostra le proprie radici legate al mito, dove anche l'archeologia si fa paesaggio, dove la millenaria cultura mediterranea s'incarna in sculture dal volto vivo. È su tutto questo che Mimmo Jodice ha costruito giorno dopo giorno, fotografia su fotografia, i suoi 80 anni.

Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore www.fotoantenore.org [email protected]

a cura di G.Millozzi www.gustavomillozzi.it [email protected]