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HUGO PRATT, Romanziere Siamo agli anni che precedono la prima guerra mondiale. Corto Maltese e Rasputin, un pazzoide di origini russe, fanno parte di una banda di pirati al servizio del fantomatico Monaco padrone di E- scondida, un’isola misteriosa dell’oceano Pacifico non segnata sulle carte. Essi scorrazzano per i mari del sud in caccia di mercantili che trasportano nafta o carbone, materiali indispensabili per la propulsione delle navi da guerra. I carichi depredati vengono rivenduti alla marina tedesca che for- nisce il suo appoggio logistico con il sottomarino del tenente Slütter. Nella vicenda restano coinvol- ti Pandora e suo cugino Cain, due giovani americani di agiata famiglia. Vittime di un naufragio so- no raccolti dal catamarano del capitano Rasputin che, in cambio della loro liberazione, mira a otte- nere un lauto riscatto. Si innesca così un vortice di eventi fatti di fughe e inseguimenti, catture e li- berazioni, tranelli e combattimenti, tra selvaggi, pirati e soldati che si affrontano spesso a viso aper- to nella drammaticità del conflitto o nell’ironia del mezzo espressivo: il fumetto, appunto. Apparentemente nemico, Corto Maltese si rivelerà il miglior alleato dei giovani americani, vigilan- do sulla loro incolumità e instaurando un rapporto di tenera amicizia. Tra rivelazioni e certezze di valore assoluto, Pandora e Cain svilupperanno una nuova visione del mondo con accresciute capaci- tà di giudizio, avviando quel processo di maturazione frutto delle esperienze vissute. Nonostante ciò, Pratt non esita a procurar delle vittime, sacrificate al realismo del caso, né a deride- re la falsità di certi idealismi o scherzare/giocare con opinabili fatalismi di sorta. “Una ballata del mare salato” rappresenta, nella sua versione fumettistica, uno dei massimi esem- pi espressivi di tale raffinata arte grafica. La storia descritta è piena di elementi suggestivi, esotici per ambientazione, eroici nelle personifica- zioni, con imprevisti colpi di scena che danno il là alla saga di Corto Maltese, un marinaio d’origini gitane, smaliziato e tenebroso esemplare di avventuriero moderno. Il tema è quello della ballata romantica che narra le gesta di un manipolo di uomini nell’area del Pa- cifico alla vigilia della prima guerra mondiale. Le origini dei protagonisti sono le più svariate: inglesi, americani, russi, tedeschi, giapponesi, si me- scolano agli abitanti dei luoghi, maori, samoani o figiani, tra le tante etnie polinesiane. Sebbene in contrapposizione, tutti sono altresì accomunati dalla fatalità degli accadimenti. Pirati e soldati, selvaggi e aborigeni civilizzati, con le loro alterne fortune, forniscono lo spunto alle avventurose vicende che l’autore sviluppa con freschezza e modernità di stile. Grande è stato l’influsso della narrativa sul modo di raccontare di Hugo Pratt, tanto da spingerlo a misurarsi con la letteratura e il romanzo. Pratt cerca di tradurre in parole ciò che ha disegnato sui fogli. Un fumettista generalmente realizza le storie partendo da un soggetto scritto, una sceneggiatura o magari anche un libro, dando corpo al- le sue visioni. Pratt romanziere tenta un procedimento inverso: dipana le immagini nella più classica delle pratiche narrative, la prosa. Così facendo dà maggior voce ai suoi personaggi, li definisce e li completa sui canoni di un’avventura di più ampio respiro. I dialoghi del fumetto sono riportati per intero, ma quei silenzi o sospensioni, cui Pratt ricorre spes- so, trovano un nuovo significato con l’introduzione di adeguate parti descrittive o riflessive. Di seguito presentiamo una serie di brani accostati alle vignette cui si riferiscono gli episodi. Saranno introdotti così i principali personaggi della storia con alcune ambientazioni tipiche, i temi ricorrenti, gli espedienti narrativi. Il lettore farà i dovuti paragoni tra i due mezzi espressivi (la prosa e il fumetto), notando le inevita- bili diversità icastiche come pure le rigorose associazioni contenutistiche. 1

HUGO PRATT, Romanziere - albaletteraria.beepworld.it · Nonostante ciò, Pratt non esita a procurar delle vittime, sacrificate al realismo del caso, né a deride-re la falsità di

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HUGO PRATT, Romanziere Siamo agli anni che precedono la prima guerra mondiale. Corto Maltese e Rasputin, un pazzoide di origini russe, fanno parte di una banda di pirati al servizio del fantomatico Monaco padrone di E-scondida, un’isola misteriosa dell’oceano Pacifico non segnata sulle carte. Essi scorrazzano per i mari del sud in caccia di mercantili che trasportano nafta o carbone, materiali indispensabili per la propulsione delle navi da guerra. I carichi depredati vengono rivenduti alla marina tedesca che for-nisce il suo appoggio logistico con il sottomarino del tenente Slütter. Nella vicenda restano coinvol-ti Pandora e suo cugino Cain, due giovani americani di agiata famiglia. Vittime di un naufragio so-no raccolti dal catamarano del capitano Rasputin che, in cambio della loro liberazione, mira a otte-nere un lauto riscatto. Si innesca così un vortice di eventi fatti di fughe e inseguimenti, catture e li-berazioni, tranelli e combattimenti, tra selvaggi, pirati e soldati che si affrontano spesso a viso aper-to nella drammaticità del conflitto o nell’ironia del mezzo espressivo: il fumetto, appunto. Apparentemente nemico, Corto Maltese si rivelerà il miglior alleato dei giovani americani, vigilan-do sulla loro incolumità e instaurando un rapporto di tenera amicizia. Tra rivelazioni e certezze di valore assoluto, Pandora e Cain svilupperanno una nuova visione del mondo con accresciute capaci-tà di giudizio, avviando quel processo di maturazione frutto delle esperienze vissute. Nonostante ciò, Pratt non esita a procurar delle vittime, sacrificate al realismo del caso, né a deride-re la falsità di certi idealismi o scherzare/giocare con opinabili fatalismi di sorta. “Una ballata del mare salato” rappresenta, nella sua versione fumettistica, uno dei massimi esem-pi espressivi di tale raffinata arte grafica. La storia descritta è piena di elementi suggestivi, esotici per ambientazione, eroici nelle personifica-zioni, con imprevisti colpi di scena che danno il là alla saga di Corto Maltese, un marinaio d’origini gitane, smaliziato e tenebroso esemplare di avventuriero moderno. Il tema è quello della ballata romantica che narra le gesta di un manipolo di uomini nell’area del Pa-cifico alla vigilia della prima guerra mondiale. Le origini dei protagonisti sono le più svariate: inglesi, americani, russi, tedeschi, giapponesi, si me-scolano agli abitanti dei luoghi, maori, samoani o figiani, tra le tante etnie polinesiane. Sebbene in contrapposizione, tutti sono altresì accomunati dalla fatalità degli accadimenti. Pirati e soldati, selvaggi e aborigeni civilizzati, con le loro alterne fortune, forniscono lo spunto alle avventurose vicende che l’autore sviluppa con freschezza e modernità di stile. Grande è stato l’influsso della narrativa sul modo di raccontare di Hugo Pratt, tanto da spingerlo a misurarsi con la letteratura e il romanzo. Pratt cerca di tradurre in parole ciò che ha disegnato sui fogli. Un fumettista generalmente realizza le storie partendo da un soggetto scritto, una sceneggiatura o magari anche un libro, dando corpo al-le sue visioni. Pratt romanziere tenta un procedimento inverso: dipana le immagini nella più classica delle pratiche narrative, la prosa. Così facendo dà maggior voce ai suoi personaggi, li definisce e li completa sui canoni di un’avventura di più ampio respiro. I dialoghi del fumetto sono riportati per intero, ma quei silenzi o sospensioni, cui Pratt ricorre spes-so, trovano un nuovo significato con l’introduzione di adeguate parti descrittive o riflessive. Di seguito presentiamo una serie di brani accostati alle vignette cui si riferiscono gli episodi. Saranno introdotti così i principali personaggi della storia con alcune ambientazioni tipiche, i temi ricorrenti, gli espedienti narrativi. Il lettore farà i dovuti paragoni tra i due mezzi espressivi (la prosa e il fumetto), notando le inevita-bili diversità icastiche come pure le rigorose associazioni contenutistiche.

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I naufraghi Si trovavano circa all’incrocio fra il 155° meridiano est e il 6° parallelo sud, e dirigevano verso la Nuova Guinea. Nell’aria c’era una calma assoluta, si sentiva soltanto il rumore dello scorrere regolare dell’acqua lungo gli scafi e quello delle sporadiche raffiche di vento che distendevano la vela con secche e so-nore frustrate. All’improvviso, il grido del marinaio di vedetta spezzò quella tranquillità. Indicava qualcosa, lontano oltre la prua. […] un relitto alla deriva, una scialuppa, o meglio quello che ne ri-maneva, abbandonata al lento dondolio del mare. […] Della piccola vela rimanevano solo pochi brandelli che penzolavano, il timone sembrava spezzato e due ragazzi giacevano inermi sul fondo della scialuppa.

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Anche Corto Maltese viene ripescato, vittima dell’ammutinamento del suo equipaggio.

Il capitano Rasputin, seduto in un’ampia poltrona di vimini intrecciato, era immerso in una delle sue letture preferite: Il viaggio intorno al mondo di Bougainville. […] Il capitano Rasputin era un uomo che poteva incutere timore, o solo inquietudine, oppure disagio, o anche interesse, a seconda di chi fosse il suo interlocutore e, soprattutto, di quale fosse il suo stato d’animo del momento, dato che questo poteva mutare istantaneamente e senza alcun preavviso. A-veva il volto allungato, angoloso, ossuto, sul quale troneggiava un grosso naso adunco come il bec-co di un uccellaccio. Una lunga barba corvina partiva appena al di sotto degli zigomi assai pronun-ciati; i capelli, folti e disordinati, erano di un nero talmente scuro da lasciar scaturire dei riflessi bluastri; ma il meglio di sé lo dava con gli occhi. Azzurri, chiarissimi, acuti e freddi come due cri-stalli di ghiaccio.

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Pandora Rasputin entrò, silenzioso come un gatto, e squadrò la ragazza che gli volgeva le spalle. Pandora non l’aveva visto, non si era accorta di nulla. Aveva indosso un vestitino ormai ridotto a brandelli, poteva avere sedici o diciassette anni, ed era invitante come un' albicocca fresca in un pomeriggio d'estate.

Rasputin le posò la mano sul fianco e la strinse a sé. La risposta di Pandora fu fulminea, afferrò un oggetto a caso, una bottiglia, e non ci pensò due volte a fracassarla sulla testa di quel lercio barbone. — Gatta selvatica maledetta, mi hai rotto la testa! — le urlò in faccia Rasputin. — Mi stia lontano, maiale! — ringhiò Pandora con tutta la rabbia che il suo viso poteva esprimere. Rasputin si massaggiava la ferita e i suoi occhi erano due fessure da cui scaturiva un odio immenso per chi aveva osato umiliarlo; stava già per scattare quando dal ponte risuonò un grido: — Capitano, Capitano, venite su, presto! — Era Cranio. Qualcosa si era rotto, la rabbia lasciò il posto al disprezzo; Rasputin si limitò a colpire con un im-provviso e violento manrovescio la guancia di Pandora facendo sgorgare un rivolo di sangue dal labbro. — Mi chiamano, piccola mocciosa, ma vedrai che imparerai presto chi è che comanda qui. È questo il modo per ringraziare chi vi ha salvato la vita? Usci dalla cabina. Sulla guancia di Pandora ancora bruciavano i segni del ceffone, ma qualcosa di magnifico risuonava nelle sue orecchie: « ... chi vi ha salvato la vita ... » Aveva detto proprio cosi, dunque anche Cain era vivo! Non era più sola, c'era una possibilità, suo cugino si era salvato ed era, anche lui, su quella barca; non era in completa balia di quei selvaggi; ora doveva scoprire chi erano, dove andavano, ma soprattutto dove si trovava e come stava Cain.

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La carboniera Il nostromo osservava perplesso la scena. Si chiamava Van Herden ed era forte come una quercia, aveva sempre navigato col capitano, era la sua guardia, il suo consigliere e la sua sicurezza. — Quella barca non mi convince, capitano, ho un cattivo presentimento! — disse sputando un pez-zo di tabacco e passandosi la lingua sui grossi incisivi con uno schiocco sonoro.

Intanto sul catamarano Rasputin aveva indossato l’elmetto da ufficiale della marina britannica e fat-to issare la bandiera inglese. — Anche quella bandiera non mi convince, capitano! Da quando questi selvaggi si comportano se-condo il codice marittimo?... — aggiunse il nostromo incrociando le braccia sui petto. I bicipiti si gonfiarono dilatando l’ancora e la sirena che vi erano tatuate. — Non essere sempre cosi sospettoso, Van Herden, non è altro che una pattuglia coloniale inglese, non li vedi? C’è un ufficiale bianco assieme a dei marinai di colore... Certo che l’Ammiragliato bri-tannico si è fatto piuttosto taccagno ultimamente!... Quel capitano forse vorrà bagnarsi la bocca con un buon bicchiere di rum! Cosa diavolo d’altro potrebbe volere da questa scassata carboniera? Ormai il catamarano si era accostato al cargo olandese e Rasputin salutava militarmente Van Hou-ten. L’olandese lo fece salire a bordo, mentre il nostromo squadrava da capo a piedi quegli ordina-tissimi marinai melanesiani armati di lucidi fucili che lo seguivano. C’era qualcosa di strano, erano troppo determinati, e quei fucili erano troppo oliati. — Prego capitano, venga nella mia cabina a bersi un buon sorso, a cosa dobbiamo la vostra visita?

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— Sono il capitano Rasputin, della Marina Imperiale Germanica, e prendo possesso di questa nave! L’atteggiamento di Rasputin non lasciava dubbi, ma l’olandese era ancora incredulo e fiducioso: — Scusi... capitano, ma credo di non aver capito... Van Houten si era bloccato e il sorriso gli si era gelato tra i denti. — Lei trasporta un carico di carbone per la marina britannica, il mio governo lo sequestra insieme alla nave. — Ma lei è pazzo, lei indossa un’uniforme inglese, batte bandiera inglese, non è stata dichiarata nessuna guerra. e questo cargo appartiene comunque a un paese neutrale... questo è un intollerabile atto di pirateria... L’olandese cominciava a capire.

— Le ordino di scendere immediatamente da questa nave... — ammonì Van Houten, tutto rosso in viso. Rasputin all’improvviso, con freddezza estrasse la pistola ed esplose due colpi che fulminarono l’olandese, poi immediatamente rivolse l’arma verso il nostromo e lo fissò con uno sguardo di ghiaccio: — C’è qualche altro eroe che ha voglia di fare la stessa fine del suo capitano? L’azione era stata fulminea e la sorpresa completa: l’equipaggio si trovò in un amen sotto la mira dei fucili dei marinai figiani di Rasputin, non restava altro da fare che arrendersi.

Corto Maltese era rimasto sul catamarano, ma uditi gli spari accorse veloce: — Accidenti a te, Ra-sputin, che bisogno avevi di ucciderlo?

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Dialogo tra Corto e Rasputin

— Cosa vuoi, Rasputin? Corto era bagnato e si godeva la carezza dell’aria fresca sui muscoli. — Penso che la temperatura delle caldaie ti abbia fatto sbollire tutto il cattivo umore che avevi in corpo... — iniziò il russo. Il labbro superiore di Corto si alzò lievemente da un lato mostrando il canino. — Ma insomma… vuoi o non vuoi capire che non possiamo permetterci sbagli? Lasciar vivere quei testimoni sarebbe stata un ‘ingenuità, un’inutile, cavalleresca sciocchezza. Ci avrebbero sguinza-gliato dietro mute e mute di cani, non lo capisci! Il Monaco approverà certamente quello che ho fat-to!

Corto pensò, chissà perché, che gli occhi con cui Rasputin lo stava fissando erano di un azzurro troppo chiaro, azzurri come potevano esserlo, forse, solamente due laghi siberiani. […] Rasputin cercava di raffreddarlo, ma Corto continuava a squadrarlo con quel sorriso obliquo che gli era rimasto scolpito sul viso. — Lo so perché mi hai chiamato! Tra poco arriveremo a Kaiserine e cosi avrai bisogno di me! — Non necessariamente, Corto —. Rasputin si accarezzava con cura la lunga barba nera. — Ma sì, Ras!.. Due ufficiali bianchi danno più garanzie di uno solo, i tedeschi ci tengono a queste cose... e poi... ci sono i due giovani da nascondere. Di Cranio e degli indigeni non ti puoi fidare, e

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perciò... — Aprì le mani a ventaglio come dopo un esercizio di prestigio riuscito. — ... Voilà, resto sempre io! Ti serve una balia per il tuo piccolo affaruccio privato. Non ti piace, ma è così. Le parole colpirono nel segno. — Si... Non mi piace affatto, ma è proprio cosi! — borbottò Rasputin.

Il capitano Galland e il tenente Slütter In una tranquilla mattina di quel febbraio 1914 scorsero finalmente all’orizzonte il profilo della ter-ra, la costa settentrionale della Nuova Guinea che veniva chiamata Kaiser Wilhelmsland, il centro del territorio sotto il controllo dei tedeschi. C’era una fascia di nuvole basse, cariche di umidità: al di sopra si vedevano le cime del monte Wilhelm e del monte Hagen e al di sotto si intuiva il tortuo-so corso del fiume Sepik, o Kaiserin Augustin, verso il mare. I1 catamarano era scomparso, si era già allontanato da alcune ore. veleggiando verso sud: Corto Maltese e Cranio si sarebbero occupati dei ragazzi. Rasputin. con la nave olandese, puntava invece verso la residenza tedesca alla foce del fiume. Era una larga costruzione dal tetto di paglia, il corpo centrale si innalzava su robusti tronchi ai di sopra del resto degli edifici. Una lunga veranda circondava tutta la facciata che guardava verso la foce del fiume e il mare. Seduto all’ombra di quella veranda il capitano Hans Galland osservava, in compagnia del tenente di vascello Slütter, il lento avvicinamento della carboniera. Le ampie pale di legno di un ventilatore giravano sulle loro teste.

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Quando Rasputin fece innalzare la bandiera tedesca, Galland si abbandonò a un sorriso soddisfatto e riempì due piccoli calici di cristallo con una mezza bottiglia di Ruländer del Palatinato. Aveva il volto largo e squadrato, una mandibola massiccia e il naso schiacciato, era stato un ottimo pugile fino a quando, in un incidente automobilistico, non aveva perso l’occhio destro. […] Il tenente Slütter era arrivato da due settimane a bordo del suo sottomarino, l’U. 26, era contento di quel trasferimento, si stava annoiando a Tsing ‘Tao, e poi dicevano che Galland fosse un coman-dante molto particolare, un tipo strano, ai limiti della legalità. Cominciava a toccarlo con mano. — Rasputin ha fatto le cose per bene, come le fanno i pirati, tenente! — I pirati, signore? Christian Slütter non aveva niente in comune col suo comandante. Era un grande sognatore, per lui la guerra era una missione romantica e la patria una fede indiscutibile. Alto ed elegante, robusto ep-pure asciutto come un nuotatore, schietto e limpido come i suoi occhi chiari. — Certo... pirati, signor Slütter! Il signor Rasputin ci procurerà il carbone e le basi per rifornircene. Noi dovremo pagarlo e non interessarci dei mezzi che usa —. Lo fissò con quell’unico occhio dila-tato e ingrandito dalla spessa lente cerchiata d’oro: — ... Probabilmente dietro di lui c’è qualcuno, ben più intelligente, che guida le fila del suo gioco, qualcuno che non vuole farsi riconoscere… chissà, forse lo stesso Monaco.

Lo Tsunami Intanto il cielo e il mare si erano fatti ancora più minacciosi. Il vento strappava alle creste delle on-de gelidi schizzi che sferzavano con violenza le schiene dei marinai e i legni del catamarano. Le ve-le sbattevano all’impazzata, si riempivano d’acqua per liberarsene subito dopo, quando la drua fini-va nell’incavo formato da onde alte come palme. L’albero era costretto a flettersi in maniera innatu-rale per seguire, cigolando, quelle pazzesche oscillazioni. — Il tempo peggiora troppo rapidamente, Corto! — Cranio aveva smesso di raccontare, sentiva nell’aria qualcosa di strano. — Maledizione, Cranio, credi che sia cieco... Anche Corto era preoccupato dall’evolversi così improvviso della situazione, non era il vento che lo spaventava, anzi avrebbe voluto più vento per riuscire a cavalcare quelle onde mostruose. All’interno di esse era impossibile manovrare: ci si trovava bloccati in sacche di mare dove il vento non poteva arrivare e si era in completa balia dei capricci dell’oceano.

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Scavalcata un’ultima onda, gli sembrò che davanti alla prua distendesse un tratto di mare ribollente di schiuma, ma più calmo, una piccola oasi di pace. Invece, la rabbia dell’oceano stava concentran-do la sua forza per un’ultima, estrema frustata. Cranio, atterrito, indicò a Corto Maltese un muro d’acqua che da un centinaio di metri si stava pre-parando a spazzare quel tratto di mare. Era un’onda immensa, impossibile da evitare, talmente alta da confondersi con il cielo, un collegamento fra l’oceano e l’aria: avrebbe sbriciolato il catamarano come un fuscello. — Corto, quella è Tsunami, la grande onda! — Cranio era sopraffatto e conscio che il suo cerchio si stava chiudendo: — Per tutti i santi... non ho mai visto.., una cosa simile...! Corto sbarrò gli occhi. — Ci farà volare… questa è la fine della grande canoa... eua uetopa, — furono le ultime parole di Cranio che Corto riuscì a udire. Tutto, all’improvviso, si fece scuro, buio come la notte, come la morte, non c’era più un ordine nel mare e nel cielo, solo acqua, ovunque.

Il vortice li travolse, quella muraglia schiacciò, come fosse un insetto, l’elegante catamarano e lo sbriciolò con un’unica zampata in mille frammenti, in una folle giostra di distruzione. I corpi non avevano più forza e dimensione, venivano scagliati lontani, sbattuti e compressi senza sosta. Acqua, sabbia e oscurità, negli occhi, nella bocca, fra le mani, nei capelli… Dopo pochi, interminabili se-condi, tutto passò. Intorno, per chi avesse potuto guardare, assi spezzate e brandelli di vela, acqua bianca e vorticante, nuvole grigie.

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I guerrieri Papua Cain non aveva certo la sensibilità di Tarao, abituato a percepire i più piccoli suoni e rumori fin dal-la nascita. Il giovane maori si mosse in silenzio e in pochi passi fu all’imbocco della grotta. Un gruppo di guerrieri papua, acconciati con i colori di guerra, procedeva lungo la spiaggia. Erano molto alti e robusti. camminavano con un ampio, agile passo, portavano lance affilate e grandi scudi di paglia. Un copricapo di piume di pappagallo e di conchiglie allungava ancor più le loro figure. La fronte e gli zigomi, ossuti e nodosi, erano dipinti di rosso e di giallo. Alcuni avevano il naso forato da un anello di conchiglia, altri i lobi delle orecchie. I loro corpi nerissimi e lucidi erano coperti solo da un gonnellino di fibre vegetali.

Tarao li osservò camminare in silenzio. Il gruppo di guerrieri oltrepassò l’apertura della grotta, ma a un tratto, senza nessun segno o preavviso, quello che doveva essere il loro capo guardò indietro e deviò la sua corsa. La sua attenzione era stata attratta dalle impronte lasciate sulla sabbia. Tarao si morse il labbro, innervosito per l’elementare errore che aveva commesso: avrebbe dovuto cancellare quei segni, ma non pensava ci fosse qualcuno... Trasalì al pensiero della loro sorte, li a-vrebbero senz’altro trovati e non avrebbero potuto opporre resistenza, erano troppi.

(I Papua parlano veneziano!)

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Prigionieri dei Sepik Il villaggio papua dei Sepik era costituito da una ventina di lunghe capanne sparpagliate in una pic-cola radura poco lontana dal corso di un fiume. La vegetazione era fitta, disordinata, invadente: le palme dovevano farsi strada con tronchi sottili e lunghissimi per cercare lo spiraglio azzurro del cie-lo. Una calda umidità opprimente si attaccava ai corpi come fosse miele o una tela di ragno. Nugoli di insetti di dimensioni impressionanti volavano infastiditi dai fuochi sparsi che diffondevano in quell’aria statica un odore intenso di fumo resinoso che non riusciva a disperdersi. I rumori del fiu-me e gli echi delle grida dei bambini che giocavano sulle sue rive erano ovattati dalla fitta galleria verde che avvolgeva quel nastro liquido. Sull’acqua stagnante, melmosa, si affollavano lunghe pi-roghe dalle alte prue istoriate on teste di mostruose divinità. Una leggera nebbia aleggiava sospesa a una spanna dall’acqua. Si respirava un odore forte, nauseante, tipicamente palustre e il terreno era coperto da una viscida fanghiglia di foglie macerate. In una di quelle capanne dal tetto stretto e alto si trovavano Cain e Tarao. Cain era madido di sudore e cercava ora di togliersi le gocce salate che gli colavano negli occhi, ora di scacciare gli insetti che gli ronzavano intorno, ma entrambe le operazioni erano inutili. Stanco e frustrato si alzò per osser-vare, da una finestra di paglia, cosa accadeva nell’accampamento. Tarao sedeva immobile, aveva le gambe incrociate, si guardava in giro, ascoltava i rumori che pro-venivano dall’esterno, in attesa che quella calma apparente passasse.

Il sommergibile Cain stava ancora raccontando, quando, a poca distanza da loro, l’acqua cominciò a ribollire. Scat-tarono in piedi. lo sguardo inchiodato su quell’acqua in fermento. Videro delinearsi a poco a poco, in profondità, una grossa chiazza scura. Non c’era dubbio: qualcosa di enorme, di gigantesco si sta-va avvicinando progressivamente alla superficie. L’immensa massa grigia affiorò in un vortice di bollicine e di schiuma e l’onda che ne scaturì per poco non rovesciò la fragile imbarcazione. — Cosa vuol dire questo? — chiese Cranio. — E un sottomarino, tedesco, credo di sapere chi è... — fece Corto sorridendo. — Siamo salvi Pandora... — gioì Cain. — Lui Pehee Nuee-Nuee, il grande pesce! — esclamò Tarao con gli occhi sbarrati. La sagoma d’acciaio del sottomarino era ora completamente emersa in tutta la sua imponenza; l’acqua sollevata rigava ancora i suoi fianchi, facendoli luccicare alla rosea luce dell’alba. Il portello della torretta si sollevò lentamente e ne usci il volto spiritato di Rasputin.

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— Ehilà, Corto, dove sei stato tutto questo tempo? Dove ti eri cacciato, maledetto bastardo? — Perché, tu hai forse conosciuto tuo padre?... Sono andato a spasso, Ras! Accanto a Rasputin era comparso anche il comandante dell’imbarcazione tedesca, il tenente Slütter, che osservava quell’equipaggio strano con sospetto. — Capitano Rasputin, conoscete costoro? — chiese l’ufficiale. — Come no, sono cari amici, tenente, si pesca assieme qualche volta… — rispose ammiccando a Corto. — Avanti, amici, venite pure a bordo…

Confessioni di Corto Maltese Corto era sorpreso, ma non troppo. Si accostò a Pandora, le poggiò le mani sulle spalle, con dolcez-za. — La migliore cosa che tu e Cain potete fare, è di starmi vicino. Porto fortuna! — E lei crede veramente che questa sua fortuna durerà per sempre? — Pandora non riuscì a na-scondere la sua delusione. — Certo, mia cara... Quando ero bambino mi dissero che non avevo la linea della fortuna sulla ma-no, allora presi il rasoio di mio padre e me ne feci una, ed era proprio come la volevo io. Gli occhi azzurri di Pandora erano rimasti incollati al sorriso di Corto.

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— Da dove viene lei, Corto? — Da tutti i mari del mondo... — Io... intendevo solo dire... dov’è nato? — Lo so, Pandora, lo so cosa volevi dire, ma penso che non abbia poi tutta questa importanza. Co-munque, sono nato in una piccola isola del Mediterraneo, un’isola molto lontana da qui, si chiama Malta, ma ci nacqui per caso, mia madre era una gitana di Gibilterra e mio padre era un marinaio inglese che veniva da Tintagel. in Cornovaglia... Pandora lo guardava rapita e non riusciva a farsene una ragione: quell’uomo era un pirata, un av-venturiero, la sua vita poteva dipendere da un suo capriccio, e lei andava a perdersi nel miele del suo modo di fare, di muoversi, di parlare.

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— Ma... come ha fatto a diventare… a unirsi a questa gente, ad avere alleati come quel Rasputin o quegli indigeni? Lei porta una divisa da ufficiale inglese, io credevo... — Vuoi dire come ho fatto a diventare un pirata? — No, Corto, io non.., non vorrei offenderla, ma sembra così... così diverso… dai suoi... compa-gni... — Mi piacevano i bottoni dorati di questa divisa… e poi... in fondo, non sono tanto diverso da loro, cerchiamo tutti le stesse cose, solo che qualcuno è un po’ più pazzo dell’altro, e forse i più pazzi so-no i migliori... Vedi, per esempio, anche tu e tuo cugino Cain siete il tipico risultato della pazzia delle vostre rispettive aristocrazie, l’unica differenza che c’è fra voi è che l’aristocrazia americana si fonda sui soldi, mentre quella inglese sul sangue blu... Pandora rimase in silenzio finché non cominciò a fare freddo. Allora rientrò nel sommergibile. — Buona notte, Corto Maltese! Il marinaio alzò la mano, senza parlare.

Escondida

Escondida era un luogo perfetto per una base segreta. Il Monaco conosceva alla perfezione moltis-

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sime isole del Pacifico, ma Escondida era quella che si adattava meglio di ogni altra al suo scopo. Si trovava fuori dalle principali rotte marittime, a sud delle Samoa, sperduta fra le Tonga a ovest e le Cook a est. I pescatori polinesiani la evitavano perché era considerata tabù, abitata dagli spiriti e ri-fugio di Oro, il figlio di Tangaroa, l’artefice dell’uomo. A ogni isola i suoi dei, a ogni pescatore il suo dio, diceva un proverbio delle isole Marchesi: era dunque meglio evitare Escondida, l’isola del capriccioso e crudele Oro, il signore della guerra. Il Monaco, naturalmente, faceva di tutto per alimentare negli indigeni quella leggenda, per gonfiare quell’aura di pericolo, di magico e di proibito che circondava la sua isola. Il suo modo di fare, di ve-stire, lo rendevano una specie di personificazione vivente del dio tanto temuto e rispettato. Era mol-to alto e un lungo saio marrone lo copriva dalla testa ai piedi; per completare meglio quell’inquie-tante quadro un largo cappuccio gli nascondeva il volto, mentre le mani erano sempre fasciate da guanti scuri di pelle. Il piccolo esercito di fedelissimi melanesiani era fatto di uomini che l’avrebbero seguito in capo al mondo: amavano la sua generosità ma soprattutto temevano la sua ira. Non si ponevano troppi pro-blemi circa la sua divinità vera o presunta perché sapevano che era molto meglio assecondarlo co-munque.

Il Monaco Nella lunga sala della casa sulla collina, Corto Maltese, Slütter, Rasputin e Cranio attendevano l’arrivo del Monaco. La stanza era disadorna, ravvivata qua e là solo da complicate sculture dai vol-ti arcigni e da tutta una serie di preziosi cimeli che dovevano provenire dalle isole dove il Monaco aveva vissuto e praticato i suoi traffici. Una lunghissima stuoia conduceva a un imponente trono in legno intarsiato che dominava tutta la sala. Nei quattro angoli piccoli bracieri diffondevano un sotti-le profumo d’incenso.

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Il Monaco entrò in modo solenne: passo lento, volto affondato nel cappuccio del saio ad accrescere il mistero. Si sedette sul grande trono nero, e volse il capo a osservare, in silenzio, tutti i convocati. Sotto il saio scuro si intuiva un fisico forte e asciutto e un portamento altero, militare. Gli Otto im-ponenti guerrieri melanesiani che lo avevano seguito gli si schierarono perfettamente a lato, scat-tando in una rigidissima posizione di riposo e facendo risuonare sinistramente tutta una serie di nin-noli che portavano appesi al collo, ai polsi e alle caviglie: macabri trofei come denti o ciuffi di ca-pelli, oppure piccoli teschi intagliati nel legno e strane conchiglie coloratissime. I loro volti erano fieri e impassibili, i nerissimi muscoli serravano le armi, micidiali zagaglie dalla punta dentellata, promettendo molta efficienza e scarse possibilità di dialogo.

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Il pescecane

Una pinna scura e lucente fendeva l’acqua seguendo, silenziosamente, la loro scia, ma Pandora non poteva vederla: il suo sguardo era attratto dal volto del giovane maori, dalle linee che lo disegnava-no e dalle parole che uscivano dalla sua bocca. — Anche Cranio era un maori? — chiese la ragazza. — No, Cranio era delle Fiji, un melanesiano, quasi la stessa razza di quei popoli che vanno dalla Nuova Guinea alle Bismarck, alle Salomone, alle Nuove Ebridi... — Ma come fai, Tarao, a sapere tutte queste cose che non so nemmeno io? — Ho sempre avuto interesse per la geografia, e poi me l’ha fatta studiare Miss Star, la mia mae-stra! Due pesci volanti balzarono fuori dal mare inseguendosi, poi scomparvero lasciando solo dei cerchi che si allargavano e il rumore dell’acqua che si richiudeva dietro di loro. — Guarda che belli, Tarao! — disse Pandora entusiasta. — Sì, ma quando volano così significa che non avremo più vento per molte ore.

— Come ti orienterai allora fino a notte fonda?... Perché, se ho capito bene, al buio tu ti orienti con le stelle, ma se durante il giorno non c’è un vento costante, come fai? — Mi guida lui! — Tarao si voltò verso Pandora e le indicò la pinna lucente che li affiancava. Pandora segui l’indice di Tarao e la vide. Ebbe un sobbalzo. — Dio mio!... Ma quello è un pe-scecane! — Certo, ma è Mao! E da un pezzo che ci segue! — La voce di Tarao era calmissima. — Mao?! Ne parli come se fosse un tuo vecchio amico. — Pandora era agitata, quel piccolo tronco scavato non avrebbe mai potuto

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le attacco. proteggerli da un eventua— È un amico di tutti i maori. Da secoli Mao accompagna la mia gente durante le lunghe traversate Non temere, Pandora, Mao in questo caso è davvero nostro amico. Vuole solo un po’ di compagnia. — Per conto mio ne farei volentieri a meno… ma devo crederti ormai, spero che tu l’abbia ricono-sciuto bene, e che lui si ricordi sempre dell’amicizia che lo lega al tuo popolo... — Non poteva fare altro che affidarsi alla sua esperienza e conoscenza di quell’oceano; tanto valeva confidare anche nella superstizione o nella magia.

— Ora sarà bene che tu dorma. — E tu, Tarao? — Io non sono stanco... copriti con quella stuoia, di notte fa freddo per chi non è maori. Pandora cercò di non pensare troppo alla loro situazione e appoggiò il capo, distendendosi alla me-glio in quel guscio sottile. Poco dopo dormiva di un tranquillo sonno. Tarao chiamò con uno strano sibilo vibrante il pescecane e la pinna lentamente si avvicinò alla fra-gile imbarcazione. — Pescecane amico... — Tarao gli parlava solennemente, —… guidami verso Ao-Tea-Roa,.. guida Tarao come guidasti Tamatea e Arawa... e prima di loro Tokomaru e Tainvi! Con veloci colpi di coda il grosso squalo superò l’imbarcazione di una cinquantina di metri e la pi-roga spinta da un leggero aliseo seguì quella virgola scura nel riflesso lucente della luna sul mare. Tarao prese a canticchiare sommessamente una canzone maori:

… la luna risplende per Maui, compagna dorata del mare. Il vento distende la vela di Arawa e l’acqua scorre lontana. Guidami, Mao verso l’isola dei padri pescata all’amo da Kupe...