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I chiodi nella fronte (PDF)

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CollanaVISIONARI

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Racconti

Simone Bedetti

I CHIODINELLA FRONTE

area51Publishing

www.area51publishing.com

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I chiodi nella fronteCopyright © by Simone Bedetti

Copyright © 2009 Area51 Publishing SrlAll rights reserved.

Illustrazione di copertina: Copyright © Royce DeGrie –www.istockphoto.com

Grafica di copertina: Laura Iacono

Published 2010 by Area51 Publishing srlwww.area51publishing.com

VI.PDF.01/2010

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realmente esistenti, per quanto verosimile, è puramente casuale.

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In memoria del caro amicoGabriele Bergonzoni (1962-2004).

“We born too late, we died too soon”

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“Non ho avuto un solo giorno felice in tuttala mia vita. Muoio, e solo ora mi accorgo

di odiare l’umanità in generale,gli inglesi in particolare, e soprattutto il governo

e i suonatori di organetto.”(Ultime parole del matematico

Charles Babbage. Londra, 1871)

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Nel sogno entro nel negozio e saluto il tizio albanco, il titolare. Quando la porta a vetri si chiude,lo scampanellio fa volare la polvere nel filtro di luce.

Nel sogno parliamo del più e del meno, tanto perstare un po’ insieme, poi iniziamo a fare progetti sulfuturo, per sistemarci.

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IL PUNTO DI VISTA DEL CONIGLIO

Seduto sulla poltrona ottantasei carrozza cinquedell’ES 784 diretto a Milano, Leif guarda fuori.

Sono le nove del mattino e i raggi del sole diradano lanebbia, l’alleggeriscono in foschia, Leif osserva uncane lupo correre nei campi e un uccello (un uccelloge nerico, Leif non ha competenza specifica in mate-ria) sdraiarsi nell’aria, come sorretto da fili invisibili.Leif ne ricava un profondo senso di quiete.

Dunque lei è un venditore, dice l’uomo pinguealla sua destra; parla a un cellulare; Da quanto tem -po è venditore? Si aggiusta la giacca con la mano si -ni stra e il suo gomito urta quello di Leif; sul Corrieredella Sera scrive 8-9 con la penna a sfera; Bene, e inquale settore? Ha un tono di voce freddo e gen tileche a Leif suona un po’ irritante; E si considera unbuon venditore? Leif lo studia con la coda dell’oc-chio: ha le gote co lor porpora e un sottile velo disudore gli unge la fronte; Può la sciarmi un suo nu -mero di telefono, un cellulare? Segna sul Corriere347-3727377; Bene, ci invii un suo curriculum, no,domenica prossima a Roma terremo i colloqui indi-viduali; sì, sì, buon lavoro.

Seduto accanto all’uomo pingue, Leif sta scomodo.Cerca di cambiare posizione alle gambe ma lo spaziosotto il monoblocco è invaso dalla ventiquattrore di

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un signore anziano con gli occhiali spessi (a Leif ricor-da Donald Pleasence nella Grande Fuga); con il piedeLeif schiaccia la valigetta contro la parete del vagonema dopo alcuni tentativi rinuncia, allunga le gambema pesta i piedi a Donald Pleasence, le ruota a destrama le sbatte contro quelle dell’uomo pingue, che hagià ricevuto un’altra telefonata. Pronto, dice, sì buon-giorno, Leif intanto si dimena garbatamente, nonriesce a ritrovare una posizione comoda, Lei è unvenditore? Leif allora si alza e fa un cenno all’uomopingue che interrompe la comunicazione e gli chiedeDeve uscire? Leif annuisce forzando un sorriso educa-to, Mi scusi un momento dice l’uomo al cellulare esolleva il Corriere della Sera con la ma no sinistra, ripo-ne il tavolino estraibile nell’incavo del monoblocco,spinge i muscoli addominali (lo sforzo gli incendia lafaccia, Leif continua a sorridergli), riesce a mettersi inpiedi, ansimando si sporge nel corridoio e concede aLeif lo spazio utile per venir via; Leif prende a sinistra,cammina avanti verso il fondo del vagone cercando dimantenere l’equilibrio (il treno affronta una curva e losbilancia verso il lato sinistro); la porta automatica siapre e Leif esce dalla carrozza, un passeggero sta dor -mendo appoggiato a una valigia, Leif con attenzionelo scansa e arriva alla toilette, apre la porta sta perentrare ma al l’ul timo momento si ferma, ritorna in -die tro, richiude la toilette, riscansa il passeggero, siriporta alla carrozza cinque, ricerca il suo posto magiunto in quei pressi tira dritto, riesce dalla car rozzacinque e si ritrova nella carrozza bar, si avvicina albancone dove una barista bassa sta mostrando la suafaccia svogliata e servendo un cappuccino a un uomoche a Leif ricorda un dentista, Ci sono brioche? Chie -de il dentista, So-lo que-ste con-fe-zio-na-te, risponde

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sillabando la bassetta mentre indica un sacchettotrasparente che esibisce un croissant dal colore delfango, Leif si è messo vicino al dentista e cerca losguardo della barista che lo ignora, Non molto caldoil cappuccino dice il den tista mentre la bassettamescola latte e caffè con la Sega fredo e una lentezzaesasperante, Leif arretra di un passo fissando la baristacon rabbia ma così facendo apre un varco, gli s’infilatra l’ascella e il fianco un calvo incravattato che convoce ferma ordina Un caffè americano, la bassetta tirasevera le so prac ciglia e risponde sillabando U-n at-ti-mo, intanto il dentista ha preso il cap pu ccino pococaldo la brioche confezionata e si è allontanato, Leifpuò recuperare la sua posizione, imita il calvo e convoce ferma dice Un tè freddo, gli scappa quasi ungrido, la barista non gli concede neppure un’occhiata,ripete solo U-n at-ti-mo, Leif si guarda a destra, a sini-stra, cerca una via di fuga poi s’impone di restarefermo, la nanetta li degna finalmente d’attenzione,Leif la fissa lei invece indicando il calvo dice Dunquec’era lei, Ah basta insomma, Leif sbatte i tacchi e se neva dalla carrozza bar con l’orgoglio della vittima in -nocente, sente il bisogno di fumare, tira avanti per lecarrozze, entra in una toilette, cerca in tasca ilpacchetto di sigarette, lo trova, ne accende una, ritor-na fuori, gira avanti e indietro fumando in fretta ecome di soppiatto, gli sembra di vedere il controllore,butta via la sigaretta si rifugia in un’altra carrozza, nonsa più che numero è, dove ha svoltato, se a destra asinistra e quando, Leif comincia ad agitarsi, camminaper le carrozze sorridendo a tutti, nelle sue orecchie levoci dei passeggeri si amalgamano indistinte, Leif nonsa più dov’è il suo posto, si lascia travolgere dal pani-co, decide di fermarsi, controlla il respiro e stringe i

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denti e la mascella e gli sembra di calmarsi, si appog-gia alla poltrona con la mano sinistra e l’occhio glicade su una donna che lo guarda e lancia un grido,Leif non capisce cosa stia facendo, vede passeggeri chesi alzano e indicano un punto sotto di lui, guarda inbasso e solo in quel momento si accorge di tenerestretto nel pugno destro il proprio pene, turgido esolenne come la bandiera francese nel bicentenariodella Rivoluzione; Leif emette un suono rauco e sbar-rando gli occhi fissa implorante la donna e balbettaIo... Io..., poi si accorge dell’assurdità di tutto quello eallora non riesce più a contenersi, comincia a ridere ea saltare, e mentre l’uccello gli si spegne tra le dita sisente felice come Adamo sopra Eva nel primo coitodella Creazione.

Leif amava l’odore del legno. Da ragazzo, quandosuo padre era ancora vivo, lo raggiungeva nella rimes-sa; suo padre lavorava il legno e Leif stava seduto suuna vecchia sedia impolverata, leggeva un fumetto olo guardava con il mento appoggiato sulle mani.Erano giorni lunghissimi, restavano in silenzio nellarimessa piena di luce, la polvere del legno danzavanelle sue narici, Leif amava quel silenzio.

C’era silenzio e odore di legno nell’ufficio di poli-zia della stazione ferroviaria, dove Leif attualmente sitrovava. Contem plava la nebbia dalla finestra, il soleera stato riassorbito dal grigiofumo, affiorava solo uncerchio ocra, come una boa sotto il pelo dell’acqua,Leif era frastornato e come ancora fuori di sé, nonpoteva credere a quello che aveva fatto, gli vennero inmente sua moglie, i suoi figli, Mio Dio, pensò Leif, icolleghi, i clienti, scattò in piedi fulminato da unascossa, poi tornò a se dersi.

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LE REGOLE DELL’INTERAZIONE

Parte prima. Quando si è giovani e si crede di avereun dono.

I discorsi dei miei contemporanei si strutturano se -con do tre categorie distinte: a) curriculum vitae, b)

problemi sentimentali, c) parlare di altri. Facciamo unesempio.

Si incontrano due, mettiamo donne, mettiamo siconoscono e da un po’ non si vedono, mettiamofanno lo stesso lavoro anche se non lavorano nellastessa azienda, o ditta, o società. Mettiamo lavorinoper uno studio di architettura, hanno tra i 24 e i 34,si incontrano a una festa all’aperto (è estate, fa caldoma è sera e rinfresca). Ecco come avviene il dialogo.

(le due si riconoscono e hanno un momento di esita-zione, poi atteggiano gli occhi e le labbra a una gioiainconsueta)

Ciaooooooooooo.Ciaooooooooooo.Come staaaaaaaaaaaiiiiiiiii?Beeeeeeeeeeeeneeeeeeeeeeeee, eeeeeeeeeeeeeeeeeee

tuuuuuuuuuuuuuu?Eeeeeeeeeeeehhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh insom-

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maaaaaaaaaaaaaa.Perché insommaaaaaaaaaaaaaaaaa?Noooooo, daiiiiiiiii, stooooooooooooooooo

ooooooo beneeeeeeeeeeeeeeee.Coooooomeeeeeee tiiiiiiiiii vaaaaaaaaaa?

(a: curriculum vitae)

Be’, bene, molto bene, adesso sto preparandoquesto esame per la scuola di giornalismo, poi ho fini-to questo lavoro per quell’architetto, Stazimbene, hoallestito una Galleria per presentare i suoi nuovi studid’interni a Oslo...

(l’altra punta lo sguardo sui suoi occhi e sforza concen-trazione e interesse massimi, scandendo i paragrafi delcurriculum vitae con fonemi invariabili)

Ah, uhùm...no dai, va bene, ho scritto un articolo per Flash

Art, sì, sai, un mese fa ho conosciuto il direttore a unacena gli ho proposto una serie di pezzi e lui ha dettoPerché non fai una prova? io l’ho fatta ed è andatabene quindi penso che la collaborazione può diventa-re continuativa...

Ah, uhùm...poi Stazimbene sta aprendo un nuovo studio

sotto i Navigli, una cosa tipo Tadao Ando, e ha biso-gno di gente che faccia gli esecutivi, cioè, non sarà unlavoro fisso, insomma lo sai meglio di me che culobisogna farsi, però insomma...

Ah, uhùm...Così insomma, tu invece cosa mi racconti di bello?

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QUI, NELL’EDEN ZOOTERRESTRE

Allora m’infilo da Mac Donald’s a fare quel che devofare, cioè sgangollarmi un silos di burger da gonfia-

re la vescica e sciacquare le arterie con cola e chips liqua-mose per sospengere gl’impulsi adolescenti, quand’eccoin coda tiro fuori la premioscheda con le faccine adesi-ve di signor-mac-pagliaccio-canappia-ketchup, Cazzo,penso, pregustandomi bruciori stomachevoli e succhigastrici rigurgitati, ancora trentaseimiladuecentododicicenette al macdonello tutto solo solello e vaffinire chesaturo il modullo con faccine adesive ovvero c’è casoche se il fortunato estratto sono io, caro mio, ci vincia-mo il signor-mac-pagliaccio-canappia-ketchup in for -ma to come mamma l’ha fatto, tutto plastica e cancero-geno pomodoro eiaculatio precox, ci portiamo a casa ildottor mac-orgasmo-ketchup, gli spingi la schiena e ilfurbetto spruzza dal pippolino schizzi di pummarolanapule’ mille culura, ah ah ah.

Dunque sono lì che con me stesso ci facciamo, di -ciamocelo a dirotto, i cazzi nostri, quando incoccio ilmio nell’occhio querulo della mac-girl; be’, ooooooh,di rete voi, ma questo ha la pupilla grande come lebocce della Marcuzzi – pezzo di figa –, una pupilla chePa dre Dio l’avrà fatta per spiaccicarsi dentro l’orbita seè per Lui perché la pallina iridante della mac-girl s’al-larga s’allarga s’allarga tronatuante, la wonder burger

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s’è impaurata e non a torto, parblanc, come pure anoi sfortunati astanti ci piglia tutt’un colpo dacchéquelle pazzerelle di confezioni – decinaia di migliaiadi mi lio noni di confezioni – di Ham, Chees, Cro -noburger, di Big, Star, Zio Mac, quelle folleggiantisca tolanguide arzille e cromoterapiche si met tono asaltellare li be ramente come se nonno Di sney le aves-se fantasticate a com puter graphic e noi paperini afar quak quak per l’esilaramento di bam binelli dei -formi al cinema della vita.

Ehi, gonorreaci malprodotti dell’epopea transgenica,pensavo io, lucido come un mastrolindo pavimento,mica siam cartuuns, identità noi siam di specie sapienssapiens, si puòssapere chevviprende, eh? Noi che viabbiam dato la morte, noi che rotondeggiato vi abbiame spiaccicato e triturato e spallottolato e impaninato,noi che cuociuto in piastre oliodoranti e tributato ilcorpo Vostro al Sant’Iddio della Proteina Ani male,checcazzo ciavète, eh, dischi volanti di residuati tessutiormonali, a svolazzare nell’aere come rilucenti rutti diciclope? Ma quel li mica mi stavan a sentire, macché,quelli contro l’umano inimico, contro il pul pito evolu-tivo si scagliavano, contro l’e let ta razza di degni carni-vori che ordine legge libertà hanno pasciuto, altro cherivolta di classe, una Bastille mucchifera con tutti i cristiera quella, e in quattro e quattrocchi i vostri inermi eroisi tramutarono in appiccicollosa macinatura d’organitransmutanti, in mas che si dica il qui presente ex coitoergo sum s’imbeve di carnaia bovina, l’oliozzose fettines’incarnano nel postumano giovincello dai trascorsi feli-ci e un muccuomo rinasco, se c’intendiamo, il tracollodello scientismo, miodio, ecco il destino gramo di iostesso, un mucco col sa pien s d’homo e il corpus dibove a due zampe, figuratevelo. E piango lacrime a -

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PREMONIZIONI

Aggiustati la cravatta.

Eh?La cravatta, il nodo.Il colletto.Il colletto, il nodo, è storto.Ah già, il colletto.Dunque?Cosa?Stavamo parlando mi pare…E stavamo dicendo……qualcosa?Non so, però parlavi della tua cravatta.Ne sei sicuro?Credo.Non di altro?No, della tua cravatta.Ne parlavo proprio io?E chi altri?Mi sembra strano.Perché?No, niente, così… Che ruolo può avere una cravat-

ta in un discorso, forse di questo stavo parlando?Cosa vuoi che ne sappia.Comunque non importa. Cosa pensi di fare?

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Ho le idee molto chiare.In merito alle strategie?Alle strategie e agli obiettivi.Non pensi.Assolutamente.Ma esporsi così.Tu proprio non capisci, eh?Cosa?Non capisci quello che succede, vero?Cosa, cosa? Cosa vuoi dire?Tu entri qui dentro, tutte le mattine……tutte le mattine, prima mi sveglio almeno due

ore prima……due ore prima, passi un’ora allo specchio a

contemplarti la faccia……la faccia stanca a ripetermi Dai che ce la fai……Dai che ce la fai, anche oggi ce la fai, non pensi

ad altro……a nient’altro che a tornare a casa intatto, il cielo

mi cammina sulla testa e non m’accorgo……di un cazzo, non ti accorgi di un cazzo. A che

livello sei?Al quarto.Al quarto. Da quanto cazzo di tempo sei qua

dentro?Un anno.Un anno. Un anno che spali merda e sei ancora al

quarto. È di questo che sto parlando, mi capisci?Sì.Un anno che spari cazzate sulle cravatte e sei anco-

ra al quarto. Quante fighe ti sei fatto in un anno?Una.Una. Una. Non posso crederci. E magari l’hai pure

messa incinta.

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AL BAR(TRAGEDIA IN UN ATTIMO)

“Ho provato a cogliere l’attimo, ma non l’ho preso misono solo rotto l’orologio”

(Daniil Charms)

Un uomo entra in un caffè. Indossa un impermeabilescuro, ha in mano una borsa sportiva blu.

In sottofondo musica commerciale.

UOMO: Buongiorno!BARISTA: Vaffanculo!UOMO: Riproviamo.

Esce e rientra.

UOMO: Che magnifica giornata!BARISTA: Che magnifico stronzone!UOMO: Riproviamo.

Esce e rientra.

UOMO: Buongiorno, non vi sembra una magnificagiornata?

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BARISTA: A me sembra una giornata di merda.UOMO: Riproviamo.

Esce e rientra.

UOMO: Buongiorno, può farmi un caffè?BARISTA: No.UOMO: Riproviamo.

Esce e rientra.

UOMO: Buongiorno magnifica giornata potrei avereun caf fè?

BARISTA: Togliti dalle palle.UOMO: Riproviamo.

Esce e rientra.

UOMO: Ehi stronzo, fammi un caffè.BARISTA: Certo dottore, il solito dottore?UOMO: E stavolta vediamo di fare lo scontrino,

baciaculi.BARISTA: Inteso al volo, dottore.UOMO: Guarda che ti vedo che fai il furbo.BARISTA: Come dottore?UOMO: Riproviamo.

Esce e rientra.

UOMO: Buongiorno caro.BARISTA: Dottore! un bel caffè?UOMO: Il solito, imbecille.BARISTA: Dottore, il solito?UOMO: Sì caro, un bel caffè.BARISTA: Volo dottore. Ecco qua dottore, un bel caffè.

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L’uomo estrae dall’impermeabile un fucile a pompacalibro 12 e spara al barista, che viene sbalzato

all’indietro e va a sbattere contro la macchinaper il caffè facendo volare per l’impatto

tazzine, bicchieri, bottiglie, etc.Nel locale ci sono altre dieci persone, che strillanoe vengono colte dal panico. L’uomo spara un altro

colpo in aria. Alcuni detriti piovono dal soffitto sullasua testa, imperlandogli i capelli di bianco cemento,

come lo spray che a Natale si spruzzasugli alberi di plastica per simulare la neve.

UOMO: Gentilmente, finite pure la vostra colazio-ne poi an date a sistemarvi dietro il bancone. Nonspaventatevi, soprattutto, perché non avete nulla datemere. Naturalmente il fatto che questo fucile sianelle mani di un tale che ha appena fatto secco il bari-sta non vi lascerà del tutto tranquilli.

Per quanto fosse una testa di cazzo.D’altra parte non mi sentirei a mio agio neppure io,

nella vostra situazione. Vorrei infondervi quel senso disicurezza che tanto desiderate, ma come potrei?

Voglio solo che sappiate che non sono pazzo e chese do man date a qualsiasi psichiatra vi risponderà chenessuno veramente pazzo crederà mai di esserlo.

Ora però vorrei bere in pace il mio caffè, se non vidispiace.

L’uomo si toglie l’impermeabile e lo appoggia sullo schienale della sedia. La borsa sportiva la posa

invece sul pavimento. Quindi si siede, con le spallerivolte alla porta a vetri d’ingresso,

e beve il suo caffè, mentre gli ostaggi si radunano

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ordinatamente dietro il bancone. Si sente il suonodi una sirena. Lo stridore di gomme sull’asfalto,il rumore di portiere che si aprono e si chiudono

con forza. L’interno del bar viene illuminato da luciintermittenti. Si sente la voce di un poliziotto resa

metallica dall’amplificazione di un megafono.

POLIZIOTTO: Signor Zanetti, è il sovrintendentePerra che le parla!

Zanetti si avvicina all’ingresso, apre la porta a vetri,la ferma con una sedia per tenerla aperta.

ZANETTI (urlando): Mi chiamo Mario!

Mario Zanetti ritorna al tavolino.

SOVRINTENDENTE PERRA: D’accordo, Mario.Vorrei essere sin cero con te e dirti che ti sei messo inun bel guaio. Cer chiamo però di risolvere la faccendain modo civile.

Mario Zanetti ritorna alla porta d’ingresso.

MARIO ZANETTI: So che lei mi dirà che è dallamia parte, o forse no.

Comunque ce ne vorrebbe di più di gente come leia questo mondo. Pronta a rassicurare. So che se fosseper lei ci infileremmo un casco di penne in testa e cimetteremmo seduti in cerchio a gambe incrociate afumarci una bella pipa.

Se fosse per lei.Ma la burocrazia.I superiori.

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E RUTELLI PRESE IL FUCILE

a G. Viganò, che a quanto mi risulta i gatti gli sonoindifferenti

Rutelli inchiodò per i piedi i ragazzetti del vicinatoperché gli avevano ammazzato la gatta.

Strappò il primo dalla gabbia mentre starnazzavacome un’anatra puntellandosi al ferro per opporreresistenza alle ma ni callose di Rutelli che gli mollòuno scappellotto sul coppino e lo zittì. Il ragazzettoscabro come un coyote si vedeva che ge meva ma ilnastro isolante usato da Rutelli per sigillare le cassed’uva gli ricacciava il terrore nelle pupille spalancatefino all’osso oculare. Rutelli sollevò il ragazzetto per icalcagni, arrotolò la corda alle caviglie, tirò la funesfruttando un ramo come car rucola e la assicurò a unpic chetto piantato a terra. Mentre il ra gazzetto, le ma -ni legate dietro la schiena, vuotava lacrime e u rinascorticandosi la schiena sulla corteccia gibbosa delleccio, Rutelli piantò il tarso sul tronco e affondò ichiodi nel piede e nella corteccia, come gli aveva inse-gnato zio Arturo, che con un colpo secco crocifiggevai maiali squartati al muro bianco del cortile perammorbidire la pelle e le carcasse dei suini restavano

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appese tutta la notte come ali di pipistrello.Il secondo era ciccio e quando Rutelli inchiodò al

leccio quel suino da ingrasso il lardo gli si srotolò sullafaccia. Rutelli palpò quella pappa e la sentì così umidae fresca che gli sembrò di aver ficcato le mani in unacassa di vongole. Con quella tonnellata di buzza ci sipoteva nutrire una generazione di felini valutò Rutelliil quale, dopo aver tirato per i capelli il terzo ragazzet-to, una ragazzetta aguzza molesta come la lisca delpesce incastrata in gola, prima di inchiodarla al lecciole spiaccicò il leccalecca sulla fronte mentre intorno lecicale avevano smesso di cantare e dai rami piovevanoghiande.

Finito che ebbe col terzo ragazzetto Rutelli parvesoddisfatto. Allora se ne andò in soffitta e prese ilfucile.

Rutelli amava la gatta perché aveva il portamentoda contessa e gli occhi tristi. Era lei che comandava glianimali di casa, mucca compresa. Non c’era una moti-vazione logica, era dovuto a una naturale predisposi-zione della gatta alla leadership. Sonnecchiava tutto ilgiorno sulla coperta di lana adagiandosi nella cornicedel sole, il pelo rossiccio rilucente, e ogni tanto solle-vava la fronte per gettare uno sguardo d’insieme aisudditi, oppure si stirava, allungava le zampe e conpasso pigro e sicuro trotterellava fino alla ciotola.Delle volte giocava con la pallina da tennis o conce-deva a Rutelli un gesto d’affetto, strusciandogli la testasulle ginocchia o saltandogli in grembo e umettando-gli le dita con la punta del naso. Rutelli allora la tene-va in braccio e si sedeva con lei in giardino sulla sediadi zia Anna a fumarsi una sigaretta.

Rutelli l’aveva trovata una sera che tornava sbronzo

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dalla Chiatta del Pescatore. La gatta sanguinante eraaccovacciata sotto una macchina e miagolava som -mes sa come per timore che qualcuno la sentisse.

Per curarla non uscì di casa dei giorni, delle setti-mane. La portò dal veterinario a Ravenna e seguì conscrupolo le cure del medico: le somministrò gli anti-biotici per bocca con la siringa, l’allattò col biberon, latenne al caldo nelle coperte. La gatta non era più gran-de di dieci centimetri. Quando la raccolse dall’asfalto,i suoi occhi lo supplicarono di non farle del male.

La tecnica dell’antibiotico per siringa gliel’avevainsegnata Comaschi, un tale che viveva in Lombardiae aveva un’impresa di mietitrebbie. Comaschi era l’uo-mo più peloso che Rutelli avesse mai incontrato, tantoche i peli gli spuntavano perfino tra i denti. A partequesto, Comaschi aveva due levrieri comprati daTrenitalia.

La cosa era accaduta laggiù al sud – Comaschi preci-sava di non aver niente contro i meridionali anche se,dato che viaggiava spesso in treno per lavoro, avevanotato che le carrozze ne erano sempre piene anche igiorni feriali, non solo i week end, quando si presumeche i meridionali vadano a trovare i parenti. “Ma dovecazzo vanno in giro tutta la settimana,” dicevaComaschi strabuzzando i peli dei denti con tono since-ramente interrogativo. Si era formato l’idea che queiviandanti bonari ed espansivi bighellonavano perl’Italia con i teneri pacchetti di carta legati dalla cordi-cella stinta, i telefonini con le chiamate dei pa ren tipreoccupati se avevano mangiato abbastanza e i pa ninial prosciutto avvolti nella carta stagnola come daduecent’anni a questa parte, dalla spedizione dei Millein su: stai sicuro che il primo meridionale salito in

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LA PROMESSA DEL PRETE

“Far fuori il premio Nobel? Tu sei pazzo!” esclamòBeccaria, cercando il consenso degli altri.

Nessuno parlò.Don Abbondio sollevò gli occhi dal piatto e lo fissò

senza irritazione. “Sì, farlo fuori, e distruggere il labo-ratorio,” ripeté.

“Cazzo, prete, non puoi chiederci questo!”Beccaria si alzò di scatto e cominciò a gesticolareeccitato. “Non adesso, non così. Guardaci: siamododici cacasotto senza equipaggiamento, senza armi,senza un cazzo!”

Don Abbondio continuava a fissarlo. Beccariariempì un bic chiere di rosso e lo vuotò d’un fiato. Glialtri sembravano sul punto di decidersi.

“Nessun altro?” ruppe l’attesa il prete.“Beccaria ha ragione,” azzardò Bortolo, schiarendo-

si la voce. “Se si tratta di liberare delle cavie o di darfuoco a un macello ci sto, ma questo...”

“Il nobel è roba grossa, se ci beccano ci ammazza-no,” in cal zò Orlando.

“È troppo rischioso,” disse Federigo. Un brusiodisordinato manifestò il dissenso generale.

“Capisco,” assentì Don Abbondio, e ritornò a posa-re gli oc chi sul piatto per finire la cena. I dodiciborbottavano tra loro.

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“Come sta tuo fratello, Beccaria?” chiese DonAbbondio.

Beccaria picchiò con rabbia il pugno sul tavolo. Ilvino si rovesciò. “Vaffanculo, prete!” gridò.

Don Abbondio alzò calmo lo sguardo. “Come sta tuofratello?”

“Non farmi incazzare, prete,” lo sfidò Beccaria.“Rispondi.”“T’ammazzo, prete.”“È morto,” disse Lodovico, “lo sai che è morto”.I due non si staccavano gli occhi di dosso. “E com’è

morto?” La domanda era rivolta a tutti. Silenzio.“Com’è morto?”

“Di cancro,” ammise Lodovico.Il prete ruttò, si alzò dalla sedia, e prese a passeg-

giare tra i commensali. Il cigolio della gamba risuonònell’angusto locale. “È stato ucciso dal Preludin,”spiegò pazientemente, “dal Phenphormin, dalMarzine e dai farmaci che ingoiava tutto il giorno, cheDio lo abbia in gloria.” Beccaria s’incupì e abbassò gliocchi. “Se aveva mal di denti, prendeva ilParacetamol, se aveva dolori reumatici, il Flamanil. Visiete dimenticati? Ai nuovi clienti la Ciba offre tuttogratis. E allora sotto. Volete dimagrire? C’è il Maxiton.Siete depressi? Il Preludin. Ansia? Metaqualone. Pergli effetti collaterali nessun problema. Le anfetaminedanno la pressione alta? Due pasticche di Reserpina.La Reserpina vi butta giù? Trenta gocce di Preludin. IlPreludin vi fa venire il cancro al pancreas? Che pecca-to, un cliente in meno, la Ciba vi spedisce un tele-gramma: ‘Sentite condiglianze’.”

Bortolo si massaggiava il mento, Lodovico annui-va. Gli altri ascoltavano. Il prete si portò alle spalle diBeccaria, e proseguì: “La Ciba produce quattrocento

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nuovi farmaci al mese, sevizia tre milioni di animali algiorno, uccide centomila esseri umani all’anno. Persperimentare i nuovi prodotti, il premio nobel DaniélHeymans pratica la vivisezione umana.”

“Questo non è mai stato dimostrato,” protestò ilSiciliano.

“Non c’è bisogno di dimostrarlo.”“Nessuno l’ha visto,” insisté.“Non c’è bisogno di vedere. Lo sappiamo.”

All’improvviso Don Abbondio sembrò stanco.Appoggiò una mano sulla spalla destra di Beccaria,come per sorreggersi, e la strinse con affetto.“Heymans va tolto di mezzo,” sussurrò con uno sfor-zo che risuonò disperato, “e il suo laboratorio distrut-to. E dobbiamo farlo subito, non c’è altra soluzione:tra una settimana il decreto del Ministro renderàobbligatorio il Tribadim, e la Ciba potrà contare su unmercato di quaranta milioni di drogati.”

“Don Abbondio ha ragione!” esclamò Tramaglino, esi mise in piedi. “Ma non lo capite? È tutto legale.Apriamo gli occhi, maledizione! Il nuovo vaccinodell’HIV dà dipendenza, lo sappiamo da mesi. Capitecosa vuol dire il prete? La Ciba e il Ministro si dividonoi soldi. È un genocidio legale e democratico.”

“Ma cosa possiamo fare per impedirlo?” domandòLodovico. “Il prete ha ragione, è vero. Ma Heymansstudia il vaccino da due anni, e la formula sarà già inmano a tutti gli scienziati della Ciba. Che senso haammazzarlo e distruggere il laboratorio? Non farem-mo che correre rischi inutili.”

“No,” rispose Don Abbondio. “Il Tribadim non èan cora pronto e Heymans non divulgherà la for mulafi no all’ultimo. No, se ammazziamo lui è fatta.”

“Io sto col prete,” proruppe Tramaglino. “Facciamo

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WEEKEND

Al Taze.

Cazzo, quello nuovo?Sfavillante.Aperto da poco?Quello.In pieno centro?Quello.Ma dai.Sono venuto giù con la piena?Ne parlano tutti……ma pochi lo fanno.Aperto da quando?Da sabato sera.Ah quindi……ero lì……all’inaugurazione.Eh.Cazzo.Eh.È lì che è successo?E dove se no?Lì lì?Eh.Ma quella poi? No, no, non dirmi niente. E i

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biglietti?Giri miei.Certo che sei un vero stronzo. Dunque stavate al

Taze.All’inaugurazione.All’inaugurazione del Taze. Una?Una, una e mezza, una e tre quarti.Facciamo una e mezza.Entriamo io e gli altri, lucidi come ovaie.Reso l’idea.Penetriamo nel figaio.Edipico. Dunque all’una e mezza stavate al Taze.All’inaugurazione.Chiaro. Tu e gli altri.Esatto.Una e tre quarti?Più o meno.Non più tardi.No.Ovvio. Prima?Al Tatler.Da che ora a che ora?Prima del Taze.Undici e mezza.Mezzanotte giù di lì.Lì si trinca.Di brutto.Cazzo se si trinca, lì.Tre Cuba Libre.Si drinca.Sette caipirinha. Tre daiquiri.Solo?Una vodka lemon.E?

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Tequila.Boom.Boom.Quante?Due, tre.Mi prendi per il culo.Ho gli scontrini in tasca.Mi fido. Tre Boom Boom.Anche quattro.Senza dubbio. Freni inibitori?Liberi come i negri dopo Abramo.Isacco e Giacobbe e tutte le madonne. Fighe?Ancora zero.Sei sincero.Tiriamo all’inaugu.Troppo presto.Mezzanotte.Mica vuoi fare……figure di merda, chi cazzo……ci va all’inaugu prima dell’una……una e mezza…Non più tardi.Mai forzare.Sei un habitué.Eh.Raccontami del Taze.Be’, il locale in sé è una gran merda.L’hanno pompato alla grande.Seeeee, ma alla fine che cazzo ci fai. Il privé new age

ha rotto i coglioni da almeno tre anni.Al Deadline funziona ancora.Perché ci vanno gli scoppiati come te.Ho sentito dire che tira ancora.Sarà.

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COMMEMORAZIONE

“Il sole sulle labbra, sognandoun suono dolce sospeso tra i ramie noi che andiamo pienidell’aroma forte del mattino.”(Rainer Maria Rilke)

Mio nonno stava morendo.. Era fragile comecristallo, il lenzuolo avvolgeva il fantasma del

suo corpo, come in un vetro guardavo dentro le sueossa, lui aveva abbandonato ogni resistenza (no, nondel tutto, il braccio destro era ancora forte, stringevalo stipite del letto quando cercavo di sollevarlo, dimet terlo a sedere, di dare respiro ai suoi muscoli esau-sti), ac cucciato nel dolore implorava un’illusione diquiete, una reliquia di felicità, col pensiero intantovagava e mi rivolgeva domande strane, mi spingevaaddosso un’intera vita di parole, ma io non capivo,non capivo, non facevo che dire Sì, non preoc cuparti,sì nonno, adesso vedrai che passa, lui progettava, pro -gettava, diceva Dopo mi alzo e ti faccio vedere, iorispondevo Sì, nonno, lui diceva Quando ero in mari-na salivo d’un fiato i pennoni delle navi e l’aria salatami bruciava i polmoni, io per farlo parlare, per non

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lasciarlo solo gli sorridevo, Parlami della marina glichiedevo, lui non aveva più il controllo delle emozio-ni, piangeva senza lacrime e raccontava qualcos’altro,di un tizio che correva per le strade di campagna eurlava C’at vegna un chéncher, era uno che passavaogni giorno per un sentiero coperto di cocomeri, poiUna volta in tempo di guerra siamo andati in uncampo, era due giorni che non mangiavamo, abbiamocavato tutte le mele dagli alberi, il contadino è uscitocol fucile e ci ha sparato, noi siamo scappati comecavallette e ridevamo, ci siamo riempiti di mele che civeniva il mal di pancia, io lo guardavo, gli dimostravoche ascoltavo.

Prima, quando il tempo della vita sembrava infini-to, ero sempre io a parlare e lui a restare in silenzio; erala ripetizione delle sue azioni a definirlo: l’andare aletto dopo pranzo, il prendere il cappello, l’uscire escendere le scale, i suoi passi lenti, calmi, sdraiarsi nelcalore del suo corpo all’alba quando avevo otto anni emio nonno era forte come un albero, era BabboNatale che tutti i giorni mi comprava le figurine, iodovevo la mia esistenza all’essere il nipote, il figliodella figlia, ero modi di dire, frasi ripetute come Erialto così, Come passa il tempo, Loro crescono noiinvecchiamo; allora, quando i giochi riempivano dibeatitudine la giostra dei giorni, mio nonno cavalcavale montagne, era la roccia e l’acqua, era l’eternitàmonotona dei pomeriggi fatti di bancarelle e fumetti,di guerre di giocattoli, di bagni caldi, di palle di neve.Quasi sempre allora mi caricava sul motorino, misedevo sopra un rettangolo di spugna e mi ricordo chelo abbracciavo, non vorrei confondermi ma davverovolevo che non finisse mai, io ero quel motorino, queifumetti che mi comprava, quel suo giubbotto grigio

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con la cerniera lampo, quella capacità di aggiustare lecose, di piegare il ferro, quando ero piccolo e il tempodoveva ancora raggiungermi mio nonno schiacciava ilferro nella morsa, io stavo seduto su una vecchia sediaimpolverata, leggevo un fumetto o lo guardavo con ilmento appoggiato sulle mani, amavo quel silenzio.

Poi è successo che l’ultima volta che l’ho visto inpiedi l’ho accompagnato in cantina, pensavo Non èpossibile che stia davvero così male, forse si è un po’ripreso, non del tutto va bene, forse poteva scenderedal letto, uscire e io sdraiarmi all’alba accanto a lui, seci penso non riesco a credere che è tutto già finito,come passa il tempo, prima tutti mi erano vicini, tuttii giorni mi accompagnavano a nuotare, tutti i giornimi asciugavano i capelli, mi coprivano la testa colberretto di lana, tutti i giorni mi alzo adesso con legambe che mi tremano, non faccio altro che chieder-mi Mio dio che cosa mi succederà. Mio nonno inve-ce era duro come un sasso, aveva fatto la guerra laResistenza e una mattina era venuto in bicicletta sottola terrazza per chiedermi se c’era mio padre perché erascoppiata la bomba alla stazione: allora ho alzato gliocchi e ho visto il fumo della bomba, ero sulla bici-cletta con mio nonno e Guarda nonno gli dicevo,guarda quanto fumo, guarda i muri sbriciolati, erocon mio nonno quando scavavano le tombe, e ancheadesso che lo seppellivano potevo dire C’ero io conlui, c’ero, io, l’ultima volta che è sceso in cantina.

Solo un attimo prima di morire, un anno appena,mi aveva chiesto di accompagnarlo alla serra percomprare dei fiori.

Sì, gli avevo risposto con foga, coprendo la fine delladomanda per dimostrargli di avere i sensi sempre tesi

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DI QUELL’ESTATE

Di quell’estate non ho neppure una fotografia. Quiinvece Marco è sugli scogli, un agosto all’Ar gen -

tario. Questa è una delle mie preferite, perché la lucedel sole è bassa e calda e si riflette sull’acqua, e Marcoha un sorriso che non si dimentica. Qui Marco è alLouvre, ha diciassette anni. Ricordo quando mi parlòdi quella vacanza, della noia a camminare nelle sale deidipinti, del male alle gambe. Di queste immagini unacosa che ho notato è che Marco sorride spesso, comese volesse comunicarci la sua felicità. Qui aveva icapelli lunghi, a Ros sla re, nel sud dell’Irlanda. Eraancora giovane, sui diciotto anni, ma certi viaggi tirestano dentro per sempre. Qui ha già fatto il mi litare,è con Marisa, in un pub di Londra. Si amano. Lo sicapisce perché si stringono mentre sollevano il bocca-le di birra e hanno gli occhi rossi per il flash. Questafotografia mi dà come un capogiro: l’accenno di ab -bronzatura, la camicia a righe bianche e gialle, il fattoche non ci sia, sullo sfondo, alcunché di rilevante daun punto di vista artistico o architettonico ma solol’azzurro alle sue spalle. E il gesto di Marco, così appa-rentemente ordinario, quel distendere le braccia alvento simulando lo spiccare di un volo, in primo pia -no, tagliato dall’inquadratura. Era prima che si per -desse il controllo delle cose, quando Marco guidava la

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sua vita come in questa foto, un uccello che sta perspiccare il volo. Qui è al telefono, al cellulare. Sonoalle Azzorre, sul traghetto. Laura è dietro, è quellasfocata. Lui ha i capelli corti, al crepuscolo deivent’anni. È ma gro come sempre, lievemente piùstempiato. Non sorride più, a trent’anni non sorridipiù, ci comunica in questa immagine. Fu poco primache morisse.

Di quell’estate le fotografie che mi ricordano me lesono inventate. Si trovano tutte, sfogliando il mioalbum. E si trovano anche nell’album di Marco. Lo soperché le ho messe io.

Nella prima fotografia sullo sfondo c’è il mare. Ilmare l’ho estratto da un catalogo di viaggi. Caraibi, senon sbaglio. Mi infondeva un’idea di quiete.

Sulla sabbia c’era una coppia che sorrideva, holasciato il corpo dell’uomo, ho sostituito la sua con lamia faccia. Non che quel corpo mi riguardi. L’ho fattopiù che altro per una questione di proporzioni. Direalismo.

Nella seconda fotografia mi sono dato all’attivitàsportiva, windsurf. L’immagine è tratta da SportsIllustrated. Ho fatto l’abbonamento così non rischiavoche qualcuno ne indovinasse la fonte, non avendo io,purtroppo, conoscenze americane.

Questi fotografi riescono a dare un senso di poesiaanche alla più comune delle immagini. Non è proprioarte, è ciò che definirei professionalità.

Mi viene in mente un’altra parola: funzionalità.L’acqua ha il colore dell’oro, assorbe il giallo del

cielo. Io scivolo sulla mia tavola. Il montaggio è cosìaccurato che sembro veramente sorridere nel corpettosalvagente e tenere al vento la vela con destrezza. Se

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I CHIODI NELLA FRONTE

“I feel alright”(Steve Earle)

ZeroDio compianga i bipedi e maledica le mani.Oppure.Sull’Atlantico un minimo barometrico, le isoterme

e le isòtere eccetera eccetera, con quel che ne conse-gue.

Oppure.È Arthur Ganate che mi ha fatto parlare, lo giuro.Oppure.Sotto certi aspetti ci sono nella vita poche ore più

noiose di quelle dedicate alla cerimonia del tè delpomeriggio.

Oppure.Un qualsiasi altro inizio.

UnoTipoChiodi testa piatta in acciaio “dolce”SpecificheI più usati per lavori in legno o fissaggi vari.

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Mi pianto il primo chiodo alle cinque del mattinodi un lunedì di giugno. È l’Anno del Signore 2009 emi trovo nel bagno di un appartamento che sulcontratto mi appartiene al cinquanta per cento conmia moglie e di cui ho pagato cinque rate di mutuosu ottantacinque (anno dell’estinzione: 2032).

Ma non ho calcolato il dolore. Con la testa tra le mani ficcata tra il water e la pare-

te di cartongesso laminata in legno lancio grida e cona-ti di vomito.

Un’immagine: estate, notte, non so riconoscere laforma delle stelle, il Grande Carro, il Piccolo Carro. Ilmare fluorescente per uno strano effetto magnetico.Ho sedici anni.

Sono con la testa sotto l’acqua del rubinetto. Unrivolo s’infila nell’orecchio e mi fa sussultare mentresciacqua il sangue che dalla fronte cola sulla guancia.Sollevo la faccia nello specchio. Il dolore si è attuti-to, l’acqua gelida lo ha anestetizzato. La mia faccia èviola come una prugna. Sulla zona sinistra dellafronte, proprio dove si estingue la radice dei capelli,circondato da una bolla livida, spunta un piccolochiodo a testa piatta, conficcato per metà. Il restodella faccia è rigido come quella di un sollevatore dipesi al massimo dello sforzo. Le vene gonfie pulsanonel collo. La bocca è aperta, i denti digrignati e spor-chi di sangue. Il sangue è nero. Guardo la manotremante. Stringe tra le dita il martello che ha com -prato ieri alla ferramenta.

DueLa ferramenta l’ho riconosciuta per l’insegna verde

“Ferramenta”. La parola luminosa vicino a una chiave

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inglese e a una lampadina che si accende e si spegne.Entro e il tizio al banco, il titolare, deve chiamarsi

Gino, perché un tale che sta uscendo dice “SalutiGino.” Il tale ha la camicia sporca e la faccia tuttacontenta. Ha un pacchetto in mano.

“Saluti Gino,” dico a Gino.“Ciao bello,” dice Gino, come se mi conoscesse da

sempre.Gino ha la faccia arzilla e due occhietti buffi, picco-

li e stretti come quelli di una talpa. È uno che sametterti a tuo agio.

“Di che hai bisogno, bello?” domanda Gino.“Chiodi,” rispondo io.Gino indossa una camicia di jeans, di quelle che

non vanno più di moda, con i bottoni dorati sultaschino. È leggermente sudato anche se l’aria condi-zionata e tutto quel ferro rinfrescano l’ambiente. Ilsuo volto aguzzo è incorniciato da una selva di capel-li irti, precocemente incanutiti, che circondano il peri-metro del cranio in una frangia, per poi scendere finoquasi a toccargli le spalle. L’immagine che si forma intesta a chi pensa a un metallaro quarantenne.

“Chiodi?” fa Gino. “Che chiodi?”“Chiodi,” faccio io, cercando di rendere il tutto il

più semplice possibile.Gino scoppia a ridere. Sorrido anch’io, lievemente

imbarazzato. Entrare in una ferramenta, lo sapevo,implica la conoscenza di un lessico tecnico di cui sonosprovvisto, di parole dalla semantica arcana come“brugola del 12”.

“Chiodi, chiodi,” dice, dopo una pausa di qualchesecondo. E insiste: “Che tipo di chiodi?”

“Che tipo…” mi ritrovo a riflettere a voce alta. “Edi quanti tipi potremmo parlare?”

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Indossa una camicia Henry Lloyd mezze maniche arighe bianche e azzurre, aperta fino al petto, tiene lapancia in dentro. È abbronzatissimo. Scommetto cheè abbronzato tutto l’anno. Ha la faccia tirata, ilvecchietto. Le guance scavate di chi fa bicicletta ospinning. I polpacci sodi. Mountain Bike. SandaliSabu beige ai piedi, Rolex al polso, nell’altro polso unapietra dalla forma singolare. Comprata dove?Comprata a Kathmandu. Occhiali da sole LineaGucci, il nonno.

È insieme a una che avrà trent’anni di meno, dallapelle nocciola, sole della Sardegna. La ragazza conti-nua a scrivere sms, il naso ficcato nel monitor delcellulare. Si guarda in giro e sorride a tutti, poi ordinaun altro mojito. Ha un vestito estivo bianco che neevidenzia la carnalità del ventre, leggermente promi-nente. È incinta del nonno.

Il re del bar. Arriva un altro e stringe la mano al briz-zolato, serissimo. Iniziano a parlare. Il re del bar tiraindietro le labbra come quelli che hanno la “esse” sibi-lante, la “esse” di chi conta balle. Conoscevo un tiziocosì, quindi deve valere per tutti. Sorride e tira la boccaai lati, in un sorrisetto da “esse” sibilante.

NoveVado alla piscina. Barcollo leggermente. Devo

avere un calo di pressione. Il piano bollente dell’asfal-to ondeggia come una barca, mi appoggio a un’auto,una Ford Fiesta. La lamiera brucia e mi restituisce ungrido acuto. Proviene dalla bocca di un ragazzo con icapelli corti e ricci e l’orecchino al lobo destro che miabbaglia nel sole del mezzogiorno. “’Azzo ti appoggi,oh, stronzo!”, sta dicendo, pressapoco. Dev’essere lasua mac china dove mi sono appoggiato. Indossa una

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distrutto la porta del bagno, la volta che con un calcioho sfondato la porta della camera da letto chiusa achiave, la volta che le ho rovesciato in testa un litro disucco di arancia, tutte le volte che ho tirato pugnicontro porte, muri, pareti, tutte le volte che lei mi hadetto che non ci sono più con la testa, la sera che aParigi ha sputato su tutta la mia vita, la volta cheabbiamo litigato al Museo D’Orsay per l’esatta defini-zione di en plein air.

Sono in piedi, in terrazza, a fissare il giardino, con lemani sotto il mento e i denti stretti nella mascella,come già fece mio padre prima di me, e suo padreprima di lui, e prima ancora suo nonno, e prima di luiil padre di suo nonno, e prima ancora il nonno delnonno del nonno e così via, nei secoli dei secoli.

Quella notte mi pianto due chiodi nella fronte.

UndiciA me piacciono quei film americani dove puoi

ricominciare da capo, dove ti viene offerta una secon-da chance. Dove il giorno prima sei il boss di NewYork, giri con la tua Cadillac rosa con i lampadariattaccati ai fari anteriori e la musica rap sparata amille, vai dalle tue puttane, spacci, spacchi il naso aqualche stronzo, ammazzi un paio di concorrenti, tiritre etti di coca, dai un festino nella tua casa di millemetri quadri piena di piscine e donne con le tettegrosse come jumbo e passi le tue giornate così, trasoldi e fighe, a fare feste, a fare orge, a fare dollari. Poiuna sera non fai l’elemosina a un barbone e fai il piùgrosso errore della tua vita perché quel barbone inrealtà è Dio e lui per punirti ti combina un belloscherzetto. E il giorno dopo ti risvegli nel corpo di unprete presbiteriano del Michigan, con moglie e dodi-

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ci figli a carico. Tu sei sconvolto, cazzo il giorno primaeri il numero uno e adesso devi tener dietro a unaparrocchia sperduta in mezzo alla campagna, condodici figli e una moglie coi bigodini. E tu malediciquel barbone, maledici Dio e maledici te stesso. Mapoi, piano piano, ti accorgi che non è così male vive-re quella vita semplice, quella vita normale. E riscoprile piccole cose. Le frittelle appena sfornate, il tramon-to sui campi di grano, l’amore di tua moglie. E la vitaricomincia. Ma ecco che un giorno in chiesa irrom-pono i tuoi vecchi compari, sono inseguiti dalla poli-zia, prendono degli ostaggi, la chiesa viene circondatama tu vai da loro e gli dici “Ragazzi, non vi ricordate?Sono io, sono Mick.” E loro: “Ma, Mick… sei propriotu?” “Sì, sono proprio io, sono cambiato, e ora hoscoperto il valore delle piccole cose.” Loro si mettonoa piangere e vi abbracciate e la polizia li ammazza tuttima anche loro hanno capito, sì, anche loro hannocapito il valore delle piccole cose.

DodiciVado da Gino alla ferramenta per nuovi chiodi.

TipoChiodi testa piccola in acciaio “dolce” Specificheper lavori più accurati in quanto avendo la testa

piccola possono essere inseriti completamente nellegno e ottenere quindi una superficie liscia. Dopo lastuccatura, naturalmente.

Gino mi sorride. Oltre alla solita camicia di jeans,indossa un cappellino degli Iron Maiden.

“Ancora chiodi?” mi dice.

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TSUNAMI

Eravamo in trattoria e stavo mangiando delle pol -pette. Le trituravo con la forchetta e pescavo i de -

triti dall’oceano di pomodoro. Fuori pioveva a dirot-to. L’acqua colava dagli infissi sul pavimento e s’infil-trava nelle ossa.

“Merda, Bologna è 55 metri sopra il livello delmare,” ha detto Ermanno. Aveva il piatto pieno dibrodo e di tortellini. Il brodo stava per tracimaredall’argine di ceramica. “Se arriva l’onda travolge tut -to, sicuro. Io credevo di star tranquillo invece se arri-va è sicuro che spazza, hai visto che roba gli ombrel-loni? E gli alberghi? L’onda anomala è avanzata per unsacco di chilometri anche all’interno delle città. Sócciac’erano perfino degli autobus sugli alberi.” Ha abbas-sato la testa e con cautela ha risucchiato il brodo. Iome ne sono stato zitto, ad annusare l’odore dei tortel-lini che si mescolava a quello delle polpette.

Robby invece ne ha approfittato per dire: “A 55metri lo Tsunami mica ci arriva, figurati, non pensoche è quello il problema.” Ha affogato il cucchiaio trai passatelli.

Ermanno ha continuato come se non l’avesse senti-to: “On de di 50 metri là ce n’erano e se l’onda anoma-la arriva a Bo logna ci travolge perché in centro si è a55 metri sul livello ma tipo alla Bolognina si va più

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sotto, si arriva anche ai 40 metri. Pure tutta la zona delNavile viene sommersa.”

“Non è mica quello il problema,” ha ripetutoRobby. Come al solito, non guardava Ermanno infaccia, ma teneva gli occhi sul piatto di passatelli. “Ilfatto più preoccupante è l’onda d’urto, l’effetto deva-stante della propulsione, del terremoto subacqueo,una potenza pari a circa 103.000 bombe atomiche.”

“103.000 tua sorella,” ha fatto Ermanno con queltono da presa per il culo che tiene sempre con Robby,dal momento che è il suo capo. “Massimo sarannostate circa 53.000.”

Robby ci ha pensato su, poi gli ha dato atto: “A memi sembra di aver letto circa 103.000, però non cimetterei mica la mano sul fuoco. Quello che conta èla potenza devastante dell’onda d’urto.” Ha spostato ilpiatto di passatelli alla sua sinistra. “Questa fate fintache è l’India e lo Sri Lanka.” Ha preso il cucchiaiogocciolante, l’ha pulito col tovagliolo e l’ha appoggia-to sulla tovaglia più a destra. Sopra, un po’ sghembo,ha messo il coltello. “Questo è Sumatra, quest’altro èla Thailandia.” Ha piantato l’unghia sulla tovagliamacchiata di sugo. “Questo è l’epicentro.” Ha tirato ildito come a disegnare delle linee ondulate, fino aipiatti e alle posate. “E questo è l’effetto del maremo-to, otto, nove, dodici paesi. Pensate che l’isola diSumatra si è spostata di trenta metri!”

“Seee, trenta metri, adesso sono andati lì a misu-rarla,” s’è intromesso Ugo, che fino a quel momentoera stato zitto come me. Anche lui aveva preso unpiatto di polpette. “Comunque le bombe atomichesono massimo circa 33.000 e poi dimmi che cazzoc’entra l’atomica col terremoto, mica c’è l’effettoradioattivo.” Si è tolto gli occhiali che si stavano

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L’ALTRA SERA, VERSO IL TRAMONTO

Da una lettura di Hubert Selby Jr.

L’altra sera, verso il tramonto, ho incontratoGiuliano, un amico che non vedevo da tempo,

quindici anni almeno. Oggi lui è come me, un po’stempiato e sovrappeso. Un bel po’, a dire il vero.

Non vi dico lo stupore, nel ritrovarci. Il sole facevacapolino dietro il mare, non sembrava stesse perspegnersi. Noi stavamo sulla spiaggia, a prendere unpo’ d’aria.

“Che ci fai qui?” gli ho chiesto. “E tu?” mi ha chiesto.“Eh,” gli ho detto.Gli ho detto: “Bevi qualcosa?”“Sì.”Allora ci siamo seduti sulle sdraio, che sono gratis

perché non c’è nessuno a quell’ora, solo il bagnino chechiude gli ombrelloni e spazza la sabbia.

Io sono andato a prendere due birre. Erano dueGuinnes scure, se non sbaglio.

“Buona,” mi ha detto.“Buona, sì. Tu bevi?” gli ho chiesto.“Quasi mai,” mi ha risposto.

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Note sull’autore

Simone Bedetti (Bologna, 1971)E filosofo, editore e personal trainer. Come filosofo e autore hapub blicato, tra gli altri, i seguenti titoli: La Hollywood d’O rien -te (con Massimo Mazzoni), Il Buddhismo tibetano, I se gretidegli Indiani d’America, La Ruota di Medicina degli In dianid’America, Il cinema secondo Van Damme (con Lorenzo DeLuca), Il Libro Tibetano dei Morti – Guida alla lettura. Co meeditore, dopo quindici anni di attività di service e consulenza,nel 2009 ha dato vita alla Area51 Publishing. Co me per sonaltrainer insegna e pratica la via del corpo libero tracciata dallaGrecia classica e dai maestri Bernarr Mac fad den, Charles A -tlas, Earle E. Liederman, John McSwe eney, John E. Peterson,Matt Furey. Con I chiodi nella fronte esordisce nella narrativa.