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NEL SISTEMA CONTRIBUTIVO I COEFFICIENTI DI TRASFORMAZIONE NEL SISTEMA CONTRIBUTIVO Romano BELLISSIMA Giuseppe ALVARO Alberto BRAMBILLA Cristian CARRARA Claudio DE VINCENTI Elsa FORNERO Gianni GEROLDI Sandro GRONCHI Salvatore NISTICÒ Domenico PROIETTI

I COEFFICIENTI DI TRASFORMAZIONE NEL SISTEMA … · DI TRASFORMAZIONE NEL SISTEMA ... menti di solidarietà e garanzia per tutti i percorsi lavorativi. Inoltre, di proporre politiche

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NEL SISTEMA CONTRIBUTIVO

I COEFFICIENTI DI TRASFORMAZIONE

NEL SISTEMA CONTRIBUTIVO

Romano BELLISSIMA Giuseppe ALVARO Alberto BRAMBILLACristian CARRARA Claudio DE VINCENTI Elsa FORNERO

Gianni GEROLDI Sandro GRONCHI Salvatore NISTICÒDomenico PROIETTI

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I COEFFICIENTI DI TRASFORMAZIONE

NEL SISTEMA CONTRIBUTIVO

ATTI DEL CONVEGNO

Roma, 10 Settembre 2008

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INDICE

Introduzione

Romano Bellissima 7

Interventi

Giuseppe Alvaro 15Claudio De Vincenti 53Elsa Fornero 71Sandro GronchiSalvatore Nisticò 81Gianni Geroldi 99Cristian Carrara 113Alberto Brambilla 121

ConclusioniDomenico Proietti 131

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Romano BELLISSIMA

D iamo inizio ai lavori di questo importante con-vegno sui coefficienti di trasformazione nel si-stema contributivo.

Voglio innanzitutto ringraziare tutti voi per la partecipa-zione a questo incontro, in cui si riprendono dopo lapausa estiva alcuni dei temi più importanti che ci tro-viamo e troveremo ad affrontare, e, soprattutto, desi-dero rivolgere un sentito ringraziamento, la mia perso-nale gratitudine, ai relatori che con le loro conoscenzee la loro professionalità ci daranno un contributo impor-tante per le scelte che poi noi dobbiamo compiere comesindacato.Viviamo un momento molto particolare, difficile, nel no-stro Paese. L’economia italiana purtroppo non cresce.Come tutti leggiamo, siamo quasi ai limiti della reces-

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sione, conserviamo ancora un’aspettativa di crescitadello 0,1%; mentre l’inflazione continua a crescere e fal-cidia salari e pensioni. Questo ha contribuito in mododeterminante al crollo dei consumi interni; per cinquemesi consecutivi abbiamo avuto un calo dei consumimolto consistente. Ovviamente, tutto questo si ripercuotepoi sull’economia, che langue e non cresce anche perquesta ragione. Le difficoltà delle famiglie aumentano,aumenta anche il numero dei poveri. Sono le categoriepiù deboli a correre maggiori rischi: gli anziani, i pen-sionati, i lavoratori dipendenti.Voglio ricordare solo un dato: il 52% di tutti i pensionatiitaliani ha una pensione inferiore a mille euro e di questiben il 22% ha una pensione al di sotto dei 500 euro. Èuna situazione davvero drammatica, perché questi valorisono stati fortemente ridotti dal correre dell’inflazione.Ovviamente, la modifica dei coefficienti non può risol-vere i problemi attuali, che andrebbero risolti con altristrumenti, a partire dalla rivalutazione di tutte le pen-sioni. Tutte le pensioni sono state ridotte, quindi tutte do-vrebbero essere rivalutate e voi sapete che con il Go-verno Prodi avevamo iniziato un’operazione di rivaluta-zione, partendo ovviamente dalle pensioni più basse e

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tenendo conto della disponibilità di risorse che si eranorese disponibili.Servirebbe anche la leva fiscale: un alleggerimento dellapressione fiscale su pensioni e salari sarebbe certamenteauspicabile in una fase così delicata.L’individuazione di nuovi coefficienti, più corretti, è tut-tavia importante per evitare che si continuino a produrrepensioni troppo basse, che non potranno assicurare poiuna vita dignitosa alle persone. La discussione di oggi èquindi molto importante per questo.I coefficienti di trasformazione, come sapete, sono utiliz-zati per il calcolo del trattamento pensionistico nel si-stema contributivo introdotto dalla Legge Dini del ’95.Nel sistema contributivo la pensione è calcolata in baseall’ammontare dei contributi versati da ciascun lavora-tore, rivalutati in base al Pil, un montante contributivoindividuale moltiplicato per un coefficiente di trasforma-zione stabilito dalla legge in base all’età del lavoratoreal momento del pensionamento e calcolato avendocome riferimento la durata della vita media riferita all’in-tera popolazione italiana. Questo coefficiente di trasfor-mazione è determinante per l’entità dell’importo dellapensione.

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La Legge Dini prevedeva che i coefficienti di trasforma-zione fossero rivisti ogni dieci anni sulla base delle rileva-zioni demografiche e dell’andamento effettivo del tasso divariazione del Pil di lungo periodo rispetto alle dinamichedei redditi soggetti a contribuzione previdenziale.La revisione si sarebbe dunque dovuta fare nel 2005,ma il Governo Berlusconi allora in carica non ha volutoaffrontare questo argomento. La legge dello scorsoanno, la 247 del 2007, varata dal Governo Prodi in at-tuazione del protocollo sul welfare, su previdenza, la-voro e competitività, sottoscritto con le parti sociali, hapoi previsto l’istituzione di una Commissione compostada dieci esperti, del Governo e delle parti sociali, cheaveva il compito di proporre entro il 31 dicembre 2008modifiche dei criteri di calcolo dei coefficienti di trasfor-mazione, nel rispetto sia degli andamenti e degli equi-libri della spesa pensionistica di lungo periodo, sia nelrispetto delle procedure europee. Queste modifiche dovevano tenere conto: ✓ delle dinamiche delle grandezze macroeconomiche

demografiche e migratorie; ✓ delle diverse aspettative di vita connesse al tipo di at-

tività svolta;

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✓ dell’incidenza dei percorsi lavorativi, anche al finedi verificare l’adeguatezza degli attuali meccanismidi tutela delle pensioni più basse e di proporre stru-menti di solidarietà e garanzia per tutti i percorsilavorativi.

Inoltre, di proporre politiche attive che potessero favorireil raggiungimento di un tasso di sostituzione, al nettodella fiscalità, non inferiore al 60%, con riferimento al-l’aliquota prevista per i lavoratori dipendenti. Era solouna raccomandazione, non era un impegno vincolante,ma tendeva a dare un indirizzo.Nel frattempo, in fase di prima rideterminazione deicoefficienti di trasformazione, è stata sostituita la ta-bella di definizione dei coefficienti della legge Dini,con effetto dal primo gennaio 2010. In sostanza,senza risultati della Commissione, a quella data do-vrebbero o potrebbero entrare in vigore quei nuovicoefficienti, sui quali CGIL-CISL-UIL espressero per-plessità, perché, in assenza di altri interventi avreb-bero potuto comportare, con la riduzione dell’importodelle pensioni contributive a parità di età di pensiona-mento, anche un rischio di impoverimento in prospet-tiva per i nuovi pensionati.

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Romano BELLISSIMA

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La legge 247 ha inoltre introdotto una nuova scadenzatemporale per la determinazione dei coefficienti di tra-sformazione: non più ogni dieci anni ma ogni tre.La Commissione avrebbe dovuto valutare anche nuovepossibili forme di flessibilità di accesso al pensiona-mento nel sistema contributivo, dal momento che la fles-sibilità in uscita prevista dalla legge Dini era stata mo-dificata con la legge Maroni 243 del 2004.La Commissione non si è mai riunita e credo non sia ne-anche stata costituita, ma andrebbe verificato se ci sianole intenzioni di procedere in questa direzione.Ora, dunque, si riapre il dibattito sui coefficienti di tra-sformazione.Va tenuto conto delle diverse aspettative di vita a se-conda del tipo di attività svolta. Questo è un altro ele-mento importante da considerare. Si tratta di una que-stione sulla quale sia il professor Alvaro che lo stessoDomenico Proietti sono più volte intervenuti.A questo proposito, vorrei citare un recente studio, rea-lizzato da Carlo Maccheroni, componente del Centro diricerca sulle dinamiche sociali dell’Università Bocconi edocente di demografia all’Università di Torino.Secondo questo studio, un laureato di 35 anni vive 7,6

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anni in più di un coetaneo con un titolo di studio piùbasso. La maggiore aspettativa di vita è leggermente di-versa per le donne: una laureata di 35 anni, infatti, sem-pre secondo lo studio, ha una prospettiva di sopravvi-venza di 6,5 anni più lunga di una coetanea con unbasso titolo di studio. La differente mortalità sottintendedifferenze nella gestione della salute e nelle condizionidi vita, spiega il professor Maccheroni, ma le disugua-glianze non sono riconducibili solo al diverso bagagliodi conoscenze acquisite durante il percorso scolastico,che di per sé implica una differenza retributiva che in-fluenza la vita e la salute, ma si manifestano anchenell’attitudine ad ampliare le proprie conoscenze inmolti campi. Chi ha un grado di istruzione più elevato,secondo la ricerca che ha quantificato queste differenze,ha più facilità a reperire e gestire conoscenze, che rego-lano positivamente i comportamenti riguardo a uno stiledi vita salutare e a un più informato accesso alla medi-cina.Aggiunge sempre lo studio, che parla anche di welfare:un sistema che basa il calcolo della pensione su datimedi di aspettativa di vita uguali per tutti, come è la ri-forma Dini, rischia di creare sperequazioni nel tratta-

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mento. Le statistiche ci dicono, infatti, che la vita mediaè aumentata tanto per gli uomini come per le donne, maciò che questa ricerca evidenzia è che per gli strati so-ciali più bassi aumenta meno che per quelli più alti. Lepolitiche sociali varate dai Governi negli ultimi decenni,conclude il docente universitario, non sono quindi an-cora riuscite ad incidere positivamente sulla situazione.Ho voluto citare questo studio, perché mi sembra chetroppo spesso la politica – oggi è qui con noi il senatoreMusi, che sicuramente lo sa – affronti questi temi par-lando di riforme senza attribuire a questo termine il suovero significato. Ci si adagia, invece, spesso su modellivecchi, su esperienze già fatte, su una specie di eguali-tarismo dannoso, che non riesce a dare risposte alle esi-genze delle persone e del Paese.Credo che la discussione di oggi e i contributi dei nostrirelatori potranno essere sicuramente importanti, nellasperanza che questo Governo istituisca e convochi rapi-damente la Commissione, per arrivare a una definizionedi nuovi coefficienti più rispondenti alle esigenze e allenecessità dei pensionati di domani.Grazie per avermi ascoltato, adesso passo la parola alprofessor Alvaro che ci illustrerà la sua relazione.

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1. Una breve premessa

F ino al 1995, l’ammontare della pensione di unlavoratore dipendente era legato alla retribu-zione degli ultimi anni di attività lavorativa. A

partire dal 1995, con l’approvazione della legge Dini(L.335/95), la pensione, per i neo assunti, non è più le-gata alla retribuzione, ma al solo volume dei contributimaturati lungo l’arco della vita lavorativa. Con la legge Dini, quindi, la nostra previdenza pubblicaè passata dal sistema retributivo al sistema contributivo. Questo sistema, per poter funzionare, richiede l’impiego dicoefficienti (o parametri) per poter trasformare in pensioneil volume dei contributi accumulati dal lavoratore durantela sua vita lavorativa. La pensione annua viene, pertanto,

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Giuseppe Alvaro

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determinata moltiplicando tale montante contributivo per ilcoefficiente di trasformazione corrispondente all’età in cuiil lavoratore accede al trattamento pensionistico.I coefficienti elaborati in occasione dell’approvazionedella legge Dini sono riportati nella Tav.1, in Appendice.Come si può verificare, per un lavoratore che decide dipensionarsi all’età di 57 anni, il coefficiente di trasforma-zione risulta pari a 4,720 per cento; se decide di pensio-narsi a 65 anni, il coefficiente si porta a 6,136 per cento.Di qui, alcune immediate conclusioni: a) i coefficienti ditrasformazione vengono e devono essere determinati inmodo da garantire l’equilibrio fra il montante contribu-tivo che il lavoratore costituisce lungo l’arco della sua vitalavorativa e l’ammontare della pensione che, in qualitàdi pensionato,verrà a percepire per tutti gli anni dellasua sopravvivenza; b) i coefficienti di trasformazione e,quindi, l’ammontare della pensione devono aumentarecon l’aumentare dell’età di pensionamento, perché ilmontante contributivo viene restituito sotto forma di pen-sione lungo un numero di anni di vita più basso.È chiaro che, quando la vita media aumenta e l’età dipensionamento rimane invariata, il sistema dei coeffi-cienti in precedenza determinato non è più idoneo ad

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assicurare l’equivalenza fra montante contributivo e am-montare di pensione. Il sistema deve essere rivisitato inquanto, per poter realizzare l’equilibrio finanziario framontante contributivo e prestazioni previdenziali, oc-corre introdurre un abbassamento dei coefficienti di tra-sformazione al fine di determinare una diminuzionedella pensione e poter così restituire al lavoratore lostesso montante contributivo sotto forma di pensione inun numero maggiore di anni.Per tener conto dell’aumento della vita media, la stessalegge Dini ha previsto un aggiornamento decennale delsistema dei coefficienti allora determinati e attualmentevigenti.Al termine del decennio, cioè nel 2005, pur essendo lavita media aumentata di poco più di due anni, non si èproceduto alla prescritta revisione. In quegli anni il di-battito, del tutto assente sulla prescritta modifica dei co-efficienti di trasformazione, ha invece investito a livellopolitico-parlamentare gli effetti economico-sociali gene-rati dalla introduzione dello “scalone” con la riformaMaroni, che prevedeva di portare, a far data dal 2008,l’età minima di pensionamento da 57 a 60 anni, con35 anni di contribuzione.

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Con la legge n.247 del 2007, quindi col Ministro delLavoro On. Damiano, la complessa problematica deicoefficienti di trasformazione è stata ripresa, preveden-dosi: a) l’introduzione di nuovi coefficienti di trasforma-zione a decorrere dal primo gennaio 2010 (art.14); b)la costituzione di una commissione con il compito di sug-gerire, entro il 31 dicembre 2008, cioè entro qualchemese, le necessarie modifiche dei coefficienti fin qui ela-borati e proposti (art.12). Il sistema dei nuovi coefficienti, previsto dallaL.247/2007, è riportato nella terza colonna della Tav.2, in Appendice. Con immediatezza emerge che i nuovicoefficienti presentano, rispetto a quelli della legge Dini,ancor oggi vigenti, diminuzioni che variano dal 6,38per cento per l’età di 57 anni all’8,41 per cento per co-loro che si pensionano all’età di 65 anni.Oggi, quindi, ci troviamo in questa situazione: se l’ap-posita Commissione non elaborerà alcuna proposta dimodifica dei coefficienti di sostituzione di cui alla leggeDini, oppure, anche nel caso la elabori, se non si avràla necessaria approvazione parlamentare entro il pros-simo anno 2009, a partire dal primo gennaio 2010, ameno di una modifica della normativa, si dovrà proce-

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dere all’introduzione dei nuovi coefficienti così come ri-determinati dalla legge n.247/2007 e, quindi, alla con-seguente riduzione delle pensioni che rientrano nel si-stema contributivo.Lo scopo di questo seminario non è di rimettere in di-scussione la validità del sistema contributivo e nemmenodi approfondire taluni importanti aspetti, anche di na-tura statistico-attuariale, riguardanti la sua struttura in-terna di funzionamento. Questi temi possono e, a mioparere, devono trovare il giusto e richiesto chiarimentodi natura sia politica sia tecnica in altra sede e quelladella Commissione prevista dalla legge 247/2007 ap-pare la più appropriata.In discussione è oggi il fatto che siamo alla vigilia del-l’introduzione di nuovi coefficienti, che, se applicati afar data dal 2010, così come proposti da detta legge,produrranno una notevole riduzione delle pensioni ero-gate col sistema contributivo.Ritengo che, in riferimento al tema assegnatomi, io siatenuto a soffermarmi sulle conseguenze e sulle modalitàdi applicazione dei nuovi coefficienti.Tra le diverse vie che si presentano per affrontare iltema, la più semplice, che permette di cogliere con im-

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mediatezza la sostanza delle questioni, a me sembrasia quella di analizzare le conseguenze che provocanella realtà dei pensionati una non corretta utilizzazionedei coefficienti di trasformazione, ponendo e lasciandoal dibattito alcune delle tante domande di chiarimentoche il lavoratore oggi pone. Appare opportuno seguire questa strada anche perchého la fortuna, tra l’altro, di partecipare oggi ad un di-battito in cui gran parte dei relatori figura come compo-nente del Nucleo di Valutazione della Spesa Pensioni-stica, di un organo cioè su cui grava la responsabilitàdelle analisi e della proposte che, presentando il crismadella sacralità istituzionale, vengono a costituire le in-formazioni di riferimento del dibattito culturale e,aspetto più importante, del processo politico-decisionaleche si registra intorno alle questioni riguardanti la pre-videnza pubblica nel nostro Paese.

2. Prima domanda

La più comune e immediata domanda che viene posta è:a chi vanno applicati i coefficienti di trasformazione?

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Alla domanda in genere si dà una altrettanto comune eimmediata risposta: i coefficienti di trasformazionevanno applicati alle prestazioni pensionistiche erogatecol sistema contributivo. Quindi, non riguarda le pen-sioni da erogare in questi anni, ma quelle che verrannocorrisposte intorno agli anni 2020, perché in quegli annicomincerà ad assumere consistenza il numero dei lavo-ratori che andrà in pensione col sistema contributivo.In termini di una più puntuale e migliore conoscenza sta-tistico-quantitativa del nostro sistema previdenziale, a mesembra, però, che la risposta debba essere meglio preci-sata: i coefficienti di trasformazione vanno applicati alleprestazioni pensionistiche genuinamente previdenziali1.La precisazione si impone perché nel nostro Paese il di-battito intorno alla spesa previdenziale è stato sempreaspro ed ha ruotato essenzialmente intorno alle analisie ai risultati delle proiezioni al 2050 effettuate dalla Ra-gioneria Generale dello Stato e dal Nucleo di Valuta-zione della Spesa previdenziale.

1 Ole Settergren, Aspetti chiave della riforma pensionistica sve-dese, in Pensioni e stato sociale: Italia e Svezia a confronto,CNEL, Roma, 25 giugno2003.

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I motivi alla base della mai sopita asprezza sono da ri-cercare fondamentalmente nel fatto che queste analisinon sono state effettuate utilizzando i risultati delle pro-iezioni della spesa pensionistica genuinamente previden-ziale ma quello della spesa pensionistica complessiva laquale, come è noto, viene calcolata sommando due tipidi spesa e cioè: 1) la spesa genuinamente previdenziale,che coincide con la spesa riferita alle pensioni erogate incorrispettivo dei contributi versati dai lavoratori lungotutto l’arco della loro vita lavorativa, e 2) la spesa assi-stenziale relativa alle pensioni erogate per sostenere ilreddito delle famiglie più povere e bisognose.Si tratta, come si può agevolmente rilevare, di due formedi spesa, il cui ammontare e la cui evoluzione dipen-dono da cause e meccanismi di natura diversa: la spesaprevidenziale, dalla normativa che regola il funziona-mento del sistema previdenziale; quella assistenziale,dalle decisioni di volta in volta assunte dal governo edal Parlamento, in relazione alle disponibilità offertedalla finanza pubblica, per assicurare capacità di red-dito alle persone più povere e bisognose.Poiché le proiezioni al 2050 sono state effettuate utiliz-zando la spesa pensionistica complessiva significa che

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le due forme di spesa, previdenziale e assistenziale,sono state trattate nel loro contenuto di spesa pubblica.In questo contesto, pertanto, i risultati delle proiezioni,correttamente intesi, non possono che fornire solo e sol-tanto informazioni quantitative intorno all’impatto chenel tempo la spesa pensionistica complessiva producesulla finanza pubblica.Il dibattito fin qui effettuato, però, non è rimasto circo-scritto all’analisi di questo problema, che riguarda ilrapporto, le interrelazioni tra finanza pubblica e sistemaeconomico. Ai risultati si è attribuito un significato di-verso da quello suo proprio, in quanto, all’attenzionedell’opinione pubblica questi risultati sono stati, dap-prima, portati come rappresentativi nel tempo dell’anda-mento della spesa previdenziale e non già di quellodella spesa pensionistica nel suo complesso; poi, rite-nendo e facendo ritenere la percentuale della spesapensionistica rispetto al PIL molto elevata, si è fatta de-rivare una conclusione di più ampia portata sul pianopolitico e sindacale e dalle pesanti conseguenze suquello sociale e cioè che è la nostra spesa previdenzialea non essere più sostenibile nel tempo; è il nostro sistemaprevidenziale a non reggere più nel tempo.

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Ed è su questa conclusione che, con una insistentementericercata esposizione e penetrazione mediatica, il dibat-tito ha sempre ruotato e sempre lo si è fatto ruotare!Da tale equivoco occorre uscire. Per uscirne, occorre in-nanzitutto riconoscere che la spesa pensionistica non èsinonimo di spesa previdenziale e, quindi, non può es-sere usata in sua vece. Ciò perché la spesa previden-ziale è una parte, è un di cui della spesa pensionisticache appare nelle pubblicazioni ISTAT ed EUROSTAT.Dunque, per uscire dall’equivoco non c’è che una solavia: valutare nell’ambito della spesa pensionistica sia laspesa genuinamente previdenziale sia quella assisten-ziale ed effettuare le proiezioni al 2050 distintamenteper le due voci.Lungo questa via non solo diviene possibile pervenirealla valutazione della spesa pensionistica complessivaattraverso l’aggregazione delle due forme di spesa, se-paratamente valutate, ma diviene anche possibile: a)avere una visione puntuale della tenuta nel tempo delnostro sistema previdenziale; b) pervenire ad una cor-retta e coerente quantificazione dell’evoluzione del tassodi sostituzione (ossia, dell’ammontare della pensione ri-spetto all’ultima retribuzione) e, conseguentemente, ad

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una corretta analisi della sua adeguatezza rispetto alleesigenze di vita del lavoratore pensionato; c) disporredella necessaria documentazione per analizzare la na-tura e l’intensità degli impegni del Paese nei vari settoridella vita sociale.Solo disponendo di queste indicazioni si ha, dunque, lapossibilità di esaminare se e in che misura i meccanismimessi in atto per il funzionamento del sistema contribu-tivo dovranno essere anche sorretti da interventi di na-tura sociale. Detto diversamente, di comprendere se neltempo si perviene ad un tasso di sostituzione tendente agenerare una pensione di un ordine di grandezza taleda assicurare al lavoratore pensionato le condizioni divita costituzionalmente garantite o, in caso contrario, ri-sultando inadeguato, sarà tale da richiedere sostegni dinatura sociale.È un’analisi questa che appare necessaria e che, in-vece, dal dibattito è ignorata. La sua necessità risiedenel fatto che, ove l’andamento dei coefficienti di sosti-tuzione, ossia, della pensione rispetto all’ultima retribu-zione, tendesse a generare nel tempo una pensionesempre più bassa e, quindi, inadeguata alle esigenze divita del pensionato lavoratore, sorgerebbero subito

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problemi di ordine più generale, perché investirebberodirettamente il significato e la validità di un sistema pre-videnziale pubblico che nei fatti tende a produrre pre-stazioni previdenziali convergenti verso una pensionesociale.Solo se si procede ad effettuare le analisi previsive al2050 utilizzando le informazioni statistico-quantitativeproprie del sistema genuinamente contributivo apparepossibile definire e perseguire sia una chiara politicaprevidenziale sia una chiara politica assistenziale. Equindi, una chiara politica sociale.È facile rilevare che per tal via riemerge, con sferzantenitidezza, l’importanza dell’annosa questione della se-parazione previdenza-assistenza, separazione peraltrorichiesta da una normativa che ha avuto inizio con lalegge 88/89 e che nel tempo è stata dal nostro Parla-mento reiterata. Per quanto mi risulta, nell’ambito del-l’UIL la questione è stata sempre oggetto di dibattito daGiorgio Benvenuto a Pietro Larizza, a Luigi Angeletti;da Adriano Musi a Domenico Proietti, organizzatore diquesto seminario. Sul piano personale è una questione che sottopongo aldibattito da oltre venti anni.

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Ritengo che oggi i tempi siano maturi per dare alla que-stione la dovuta rilevanza nelle sedi istituzionali. Tantopiù che lo stesso Nucleo di Valutazione fornisce otto di-verse valutazioni della spesa pensionistica, ciascuna di-pendente dalla diversa definizione adottata per rile-varla. E tra queste vi è una che assume un particolare ri-lievo: se nella spesa pensionistica non si tiene contodella quota di spesa assistenziale, la spesa pensionisticadi natura previdenziale si porta all’11 per cento del PIL,contro il 14-15 per cento ottenuto utilizzando la spesapensionistica al lordo di tale spesa assistenziale.Anche l’ISTAT ha di recente proceduto alla valutazionedella spesa previdenziale al netto della spesa assisten-ziale, pervenendo a risultati analoghi.Queste nuove e più coerenti valutazioni, se vengono sot-toposti al dibattito, fanno assumere al livello e al profiloevolutivo del rapporto spesa previdenziale/PIL un signi-ficato politico, economico e sociale molto diverso ri-spetto a quello emerso nel dibattito di questi anni, acausa dell’impiego di una informazione statistico-quan-titativa (il complesso della spesa pensionistica) che, per-mettetemelo di affermarlo, non è, né può essere ritenutacoerente e rispondente ai termini del problema che si

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vuole e si deve affrontare e risolvere: la tenuta nel tempodel nostro sistema previdenziale.Queste nuove e più coerenti informazioni fanno divenireil problema della separazione della spesa previdenzialeda quella assistenziale ormai maturo per essere solle-vato e utilizzato nel circuito politico decisionale, di cui ilNucleo di Valutazione costituisce l’anello di riferimentopiù rilevante, il diretto supporto tecnico per le questioniprevidenziali.Di certo, per l’importanza che assume non solo in ordinealle analisi riguardanti la tenuta nel tempo del nostro si-stema contributivo, genuinamente considerato, ma an-che, aspetto ancor più rilevante, in ordine alla politicasociale e previdenziale da adottare nel tempo, la sepa-razione della spesa pensionistica di natura previden-ziale da quella di natura assistenziale è un problemache dal dibattito non può più essere trascurato e tantomeno ignorato nel nostro Paese.Ignorarlo significa voler continuare ad operare in uncontesto conoscitivo confuso e inefficiente, quanto a mo-dalità di funzionamento del sistema previdenziale. Oggi, le condizioni economico-finanziarie del Paesenon tollerano che il funzionamento della previdenza, pi-

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lastro fondamentale della politica di welfare e, quindi,più in generale, per la tenuta ed il consolidamento dellanostra democrazia, venga definito e governato utiliz-zando un’informazione statistica non riproducente la re-altà che si vuole e si deve governare.

3. Seconda domanda

Conseguente e connessa con la prima è la seconda do-manda: come devono essere definiti, determinati e trat-tati i coefficienti di trasformazione?Tutti noi sappiamo che nel decennio 1995-2005 la vitamedia si è allungata ed è in continuo aumento. Nel1995, anno in cui è stato introdotto il sistema contribu-tivo, la speranza di vivere dopo i sessanta anni era, peri maschi, di 19,4 anni; oggi, è di 21,5 anni. Per ledonne era di 23,9 anni; oggi, è di 25,9. Quanto dire che il lavoratore che si è pensionato a 60anni nel 2005 in media usufruisce della pensione perdue anni in più rispetto al lavoratore che, sempre a 60anni, si è pensionato nel 1995.Alla luce di questi semplici dati, la conclusione che co-munemente si trae è: a parità di periodo lavorativo, l’al-

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lungamento della vita media impone la riduzione deicoefficienti di trasformazione e, quindi,delle pensioni,perché più elevato diviene il periodo di fruizione dellapensione.Con la legge 247 del 2007 ci si è mossi in questa dire-zione dato che si è proceduto alla rideterminazione deicoefficienti elaborati e introdotti nel 1995 con la leggeDini. Rispetto a questi, però, i nuovi coefficienti, si è giàdetto, sono notevolmente più bassi e la differenza inmeno varia dal 6,4 per cento con riferimento all’età di57 anni all’8,4 per cento per l’età di 65 anni ( Tav.2, inAppendice). Ciò significa che, con questi nuovi coeffi-cienti, un lavoratore che va in pensione a 65 anni vienea percepire una pensione inferiore dell’8,4 per cento ri-spetto a quella che avrebbe percepito se fossero statiapplicati i vecchi coefficienti.È, questa, una conclusione ormai entrata nella logicacomune, perché presentata in una forma di evidente ov-vietà: il pensionato di oggi deve percepire una pensionepiù bassa rispetto a quello di ieri in quanto nei suoi con-fronti occorre applicare coefficienti che, riflettendo l’al-lungamento di poco più di due anni della vita media,devono essere più bassi. E, si afferma ancora, se una

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persona vive due anni in più, rimanendo ferma l’etàmassima fissata per il pensionamento, la pensione nonpuò che essere più bassa, perché il suo montante con-tributivo deve essere spalmato lungo un periodo costi-tuito da due anni di vita in più.Se vuole lasciare inalterato il suo ammontare, a quellapersona non resta che lavorare qualche anno in più. È a questo punto, è a seguito di risposte di siffatta ov-vietà che, a mio parere, sorge una serie di delicati pro-blemi di natura etica, politica e sociale che nel dibattitocorrente non sembra abbiano trovato finora puntuale ri-scontro e a cui, credo, ogni lavoratore ritiene debbanoessere date le dovute risposte.Per meglio illustrare la natura dei problemi che l’appli-cazione dei coefficienti rideterminati dalla legge247/2007 pone sul piano della realtà operativa ed evi-tare nel contempo l’impiego del non semplice formali-smo matematico-attuariale, mi sia concesso di ricorreread un semplice esempio. Si consideri il caso di due la-voratori che, nati nello stesso anno, iniziano a lavorarenello stesso anno, oppure, il che è lo stesso, il caso didue gemelli, A e B, che iniziano a lavorare nello stessoanno e nella stessa azienda, che presentano lo stesso

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profilo retributivo e di carriera ed, inoltre, che i limiti perpoter andare in pensione siano stati fissati tra i 60 e i 65anni.Il gemello A decide di andare in pensione a 64 anni eil gemello B l’anno successivo, a 65 anni. Se nelle morevengono introdotti i nuovi coefficienti, la conseguenzaè che il gemello B, pur avendo lavorato un anno in più,viene a percepire una pensione inferiore o pari a quelladel gemello A, che ha lavorato un anno in meno.Ove il gemello B, ritenendo l’evento un errore di calcoloperché ignaro degli avvenuti mutamenti normativi, si re-casse presso i competenti uffici a chiedere le dovutespiegazioni, certamente si sentirebbe dare una rispostadel tipo: “Poiché per legge i nuovi coefficienti Le accre-ditano in media due-tre anni di vita in più rispetto a suofratello gemello, la pensione non può che essere piùbassa, dato che Lei, vivendo, sempre secondo quantoLe accredita il nuovo dispositivo di legge, due-tre anni inpiù, viene a percepire la pensione per due-tre anni inpiù”.A questo punto il gemello B non può non chiedere:“come mai fino all’età di 64 anni io e mio fratello ab-biamo presentato la stessa sopravvivenza e tra 64 e 65

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anni la legge scopre, e i nuovi coefficienti certificano,che io in media vivrò due-tre anni in più di mio fratello”?“Questo non lo deve chiedere a me”, non può non esserela risposta del funzionario del competente ufficio; “questolo deve chiedere alle forze politiche che, con la respon-sabile approvazione parlamentare, ai coefficienti hannodato forza di legge. Io ho il solo dovere di applicarla”.Il meno che possa pensare il gemello B e, quindi, più ingenerale, i lavoratori dello stesso anno di nascita, iquali, a causa della introduzione dei nuovi coefficienti sitrovano a fruire di una pensione più bassa dopo aver la-vorato qualche anno di più, è che si tratti di un assurdo. Ed il meno che anche noi possiamo ritenere è che neifatti è davvero un assurdo, perché l’applicazione dei co-efficienti così come determinati e proposti dalla legge247/2007 nella realtà non trova e non può trovare al-cuna razionale giustificazione. Per un semplice, banalemotivo: tutto si può fare per legge, tranne che aumentaregli anni di vita di una persona.Pensare, dunque, di introdurre e applicare ragioneristica-mente dal primo gennaio 2010 i nuovi coefficienti di tra-sformazione così come rideterminati dalla legge247/2007, significa operare, per le distorsioni che produ-

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cono, in termini e modi tali da mettere in moto un sistemacontributivo che: a) non osserva il principio di equità, per-ché, se è vero che ai lavoratori nel loro complesso dà ciòche a loro spetta, è altrettanto vero che lo dà con criteri emetodi tali che, tra vecchi e nuovi pensionati, tra uno e l’al-tro degli stessi lavoratori si generano nei fatti difformità edisuguaglianze; b) non può, quindi, essere eticamente ac-cettabile, perché strutturalmente ingiusto; c) non è social-mente aggregante, perché il cittadino, il lavoratore non ca-pisce la ratio in base alla quale lavorando in più debbafruire, come nell’esempio sopra illustrato, di una pensionepiù bassa2; d) genera un contenzioso giuridico, perché ildiritto derivante dalla maggiore anzianità non può sostan-ziarsi nel diritto a ricevere una pensione più bassa.

2 La Corte Costituzionale nel passato si è espressa sul rispetto delcollegamento tra contribuzione versata e importo della prestazioneprevidenziale. “….la giustificazione di tale affermato collegamentoè data dall’esigenza di intervenire, affinché, a fronte del maggioreimpegno contributivo (e lavorativo), la rigida applicazione dellanorma non debba comportare un deterioramento (anziché un mi-glioramento) del trattamento pensionistico, e dunque un effetto cheripugna alla coscienza sociale”. M. Cinelli, Previdenza sociale eorientamenti della Corte Costituzionale, in Studi in onore di GinoGiugni, Cacucci Editore, pag. 95

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Cosa fare per evitare queste socialmente, eticamente per-verse conseguenze che l’applicazione dei nuovi coeffi-cienti di trasformazione produce nella realtà operativa?Su questi aspetti il dibattito è aperto. Due sembrano es-sere le soluzioni prevalenti. La prima è di procedere alcalcolo della pensione applicando al montante contri-butivo i coefficienti vigenti nel periodo in cui il montantecontributivo si è costituto3. Per chiarire: se il gemello A lavora fino a 60 anni e il ge-mello B fino a 63 anni, l’impiego di questo criterio com-porta l’applicazione degli stessi coefficienti ai monti con-tributivi che i due fratelli si sono costituiti fino ai 60 annidi età; per il gemello B, inoltre, i nuovi coefficienti si ap-plicheranno al solo montante contributivo che è riuscitoa costituirsi nei tre successivi anni di lavoro.In pratica: adottando questo procedimento i due gemelliverranno a percepire lo stesso ammontare di pensione

3 C. Ferrara, Il sistema pensionistico italiano: effetti delle riformee andamenti di lungo periodo, Atti del convegno: La previdenzacomplementare e il TFR, Confartigianato, Roma, Marzo 2007; C.Ferrara-P. Platania, Il sistema contributivo e la revisione dei coef-ficienti di trasformazione, in Annali della Facoltà di Economiadell’Università di Catania, 2007

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con riferimento al periodo comune di attività svolta, datoche ad entrambi viene applicata la normativa vigente indetto periodo; al gemello B, in aggiunta, verrà corrispo-sta la maggiore pensione relativa ai tre anni in più di la-voro svolto, calcolata applicando i nuovi coefficienti in-trodotti dalla mutata normativa.Come si può agevolmente rilevare, l’adozione di questoprocedimento attenua, ma non elimina del tutto, la nongiustificata e non giustificabile iniquità in precedenza ri-levata e illustrata, in quanto la riduzione dei coefficientigenerata dall’ aumento della vita media non si viene piùa “scaricare” sull’intero montante contributivo, ma solosu quella parte che si è costituita a partire dall’anno suc-cessivo a quello in cui è stato introdotto il nuovo sistemadi coefficienti. La seconda soluzione, che si colloca sulla scia dell’espe-rienza svedese, è di definire e utilizzare coefficienti di tra-sformazione che tengano conto sia dell’anno di nascita siadell’anno scelto dal lavoratore per il pensionamento.4

In termini operativi, seguendo questo procedimento

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4 S. Gronchi, Coefficienti, revisione necessaria, Il Sole 24 Ore ,5 luglio 2008.

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viene assegnato ai due gemelli e, quindi, più in gene-rale, ai lavoratori nati nello stesso anno, uno stesso co-efficiente, che rimane inalterato fino al compimentodell’età minima per andare in pensione (ipotizzata a 60anni) e aumenta poi anno per anno fino al limite mas-simo (65 anni) previsto per il pensionamento. Quindi, idue gemelli, in quanto nati nello stesso anno, presente-ranno lo stesso coefficiente fino all’età di 60 anni; per ilsolo gemello B, il quale ha deciso di andare in pensionea 63 anni, il coefficiente verrà maggiorato per tenerconto dei tre anni in più di lavoro effettuato.Con questo metodo di calcolo della pensione il pro-blema da risolvere è che la quantificazione dei coeffi-cienti di trasformazione venga effettuata per ogni annodi nascita dei lavoratori, quindi, anno per anno, impie-gando appropriate e coerenti tavole di sopravvivenza.Se, da un lato, entrambi i procedimenti aiutano ad at-tenuare l’intensità delle distorsioni generate dall’intro-duzione dei coefficienti rideterminati dalla legge n.247/2007, dall’altro, in ordine agli aspetti operativifanno sorgere altri importanti problemi e, tra questi,qualcuno non facilmente risolubile sul piano demogra-fico-attuariale.

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Su uno di questi, che a me appare di notevole rilievo intermini di equità e riflessi sociali, intendo brevemente sof-fermarmi perché intorno ad esso non mi sembra di avver-tire in giro alcun dibattito e, quindi, alcuna attenzione.Tanto i coefficienti di trasformazione della legge Diniquanto quelli nuovi, rideterminati e proposti dalla L.237/2007, sono calcolati facendo riferimento alle ta-vole di mortalità elaborate dall’ISTAT sul complesso dellapopolazione italiana, distinte soltanto per età e sesso.Ora, è noto che la vita media di un lavoratore è legataalla sua attività lavorativa. Un minatore, un edile, un ca-meriere presentano una vita media più bassa di quelladi un dipendente pubblico, di un docente. E una vita me-dia più bassa comporta coefficienti di trasformazionepiù elevati e, quindi, una pensione più elevata, perché,nel caso in esame, il montante contributivo deve esserespalmato sotto forma di pensione su un numero minoredi anni. Sul piano operativo ciò significa che, per poter rispettareil principio di equità (a ciascun lavoratore il suo mon-tante contributivo) occorre disporre e applicare coeffi-cienti specifici di trasformazione, coefficienti, cioè, rife-riti alla specifica attività svolta dal lavoratore.

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Nell’esempio sopra illustrato, appare pacifico che, pre-sentando alla nascita la stessa speranza di vita e svol-gendo la stessa attività, ai due gemelli si possa attribuireuno stesso coefficiente di trasformazione fino all’età mi-nima prevista per il pensionamento. Ciò che a me nonappare più chiaro e nemmeno giustificabile è ritenereche ai due gemelli si possa continuare ad assegnare lostesso coefficiente anche quando uno svolge un’attivitàusurante e l’altro un’attività non usurante. Ritengo che, ciò verificandosi, anche nei loro confrontisi debbano impiegare tavole specifiche di sopravvi-venza e, conseguentemente, coefficienti specifici di tra-sformazione.Sono consapevole che la determinazione di coefficientispecifici per attività economica svolta dal lavoratore rap-presenti un problema molto complesso da risolvere sulpiano statistico, demografico, attuariale, perché, in que-sto caso, bisogna disporre di appropriate tavole di so-pravvivenza annuali, per età, sesso e attività lavorativa.Per la loro complessità, fino ad oggi tali tavole non sonostate costruite. La complessità, però, non ci può esimeredal dovere etico-politico di fornire alla questione la do-vuta risposta. E se la risposta non si riesce a formularla

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sul piano tecnico, per il significato e il valore che assumein termini di giustizia e politica sociale, occorre chevenga trovata sul piano politico. Ciò che non può trovare giustificazione alcuna è igno-rare il problema, è far finta di niente. Perché, non for-nire, per le non superabili difficoltà tecnico-statisticheche in pratica si incontrano, le puntuali e coerenti solu-zioni che si impongono sul piano etico-sociale, significa,consapevolmente o meno, mettere in atto un sistemacontributivo operante alla Robin Hood alla rovescia: colmontante contributivo dei lavoratori addetti a lavori usu-ranti si finanzia parte delle prestazioni pensionisticheerogate ai lavoratori addetti alle attività meno usuranti.E questo una società civilmente e socialmente avanzatanon può tollerarlo!Oggi, a mio parere, bisogna prendere atto che intro-durre con logica ragionieristica dal primo gennaio2010 i coefficienti di trasformazione così come rideter-minati dalla legge n. 237/2007 crea problemi di ingiu-stizia sociale di rilevante portata. Forse perché consapevole dell’insorgenza di questi pro-blemi, la stessa legge all’art.12 prevede la costituzionedi una commissione di esperti avente il compito di pro-

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porre modifiche dei criteri di calcolo dei coefficienti ditrasformazione fin qui elaborati.L’auspicio è che dai lavori della commissione emerganocriteri che permettano di ottenere una loro valutazionein grado di garantire il principio di equità, principio fon-damentale alla base del corretto funzionamento di unsistema previdenziale contributivo, genuinamente consi-derato.

4. Un’ultima annotazione

Come si è già rilevato, i coefficienti di trasformazione,così come rideterminati e proposti dalla legge247/2007, una volta applicati, produrranno un abbas-samento delle prestazioni pensionistiche. Ciò è comedire che la loro applicazione è dincentivante la perma-nenza del lavoratore nel mondo del lavoro. Per qualemotivo, infatti, un lavoratore deve stare un anno in piùa lavorare per poi fruire, a causa dell’introduzione deinuovi coefficienti, di una pensione più bassa rispetto aquella che avrebbe percepito se fosse andato in pen-sione l’anno prima?

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Essendo disincentivante la permanenza nel lavoro dellepersone delle ultime classi di attività, è evidente che laloro introduzione crea condizioni contrastanti conquelle necessarie per il rafforzamento dei tassi di atti-vità delle classi di età più avanzata, rafforzamento che,invece, rappresenta uno degli obiettivi di Lisbona. Erappresenta anche uno dei principali obiettivi posti allabase del Libro Verde, che, pubblicato in data recentedal Ministro del Lavoro, On.Sacconi, con l’accattivantetitolo “ La vita buona nella società attiva”, tende a mo-strarci come e in che misura la politica e gli obiettivi delWelfare debbano sintonizzarsi e sincronizzarsi, deb-bano interagire e raccordarsi con la politica e gli obiet-tivi tendenti a realizzare la crescita delle imprese e delmondo economico e, quindi, ad allargare la base oc-cupazionale.Da quanto in precedenza illustrato, non possiamo nonchiederci: come ci si fa a muovere nella logica e nellaprospettiva tracciate dal Libro Verde se il funzionamentodel sistema previdenziale, pilastro fondamentale delWelfare, è governato da un modello decisionale e com-portamentale tendente a contrastare la realizzazione diuno dei suoi obiettivi di fondo, rappresentato dalla cre-

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scita dei tassi di attività ed in particolare di quelli dellepersone oltre i 55-60 anni di età?Come si fa, con un siffatto sistema di coefficienti di tra-sformazione, a realizzare più alti tassi di occupazionefemminile oltre i 55-60 anni, quando la donna, a quellaetà, oltre ad essere da tali coefficienti penalizzata, sivede anche costretta, per la mancanza delle necessariestrutture di supporto alla famiglia, a lasciare l’occupa-zione per assumere il ruolo della nonna e in questa vestesvolgere le funzioni di supplenza alla loro mancanza,permettendo così ai propri figli di intraprendere e svol-gere un’attività lavorativa senza trasportare all’internodell’impresa le tensioni derivanti da tale mancanza? Appare evidente che, se ci si vuole effettivamente incam-minare lungo la realizzazione dell’obiettivo di “una vitabuona nella società attiva”, occorre che le misure e iprovvedimenti che vengono adottati in campo sociale ri-sultino coerenti e raccordati con quelli adottati in campoeconomico e viceversa.Nell’attuale sistema, coefficienti di trasformazione e al-lungamento della vita lavorativa non pare interagiscanopositivamente. Meglio: non sembra siano fra loro inte-grabili.

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Si impone, quindi, una determinazione dei coefficienti ditrasformazione e una definizione delle loro modalità diapplicazione per fare in modo che risultino coerenti siaal raggiungimento dell’obiettivo dell’allungamento dellavita lavorativa sia al funzionamento di un sistema pre-videnziale retto dal principio di equità: restituire sottoforma di prestazioni pensionistiche il montante contri-butivo in modo e termini tali da non creare disugua-glianze di trattamento tra i lavoratori.E qui mi si permetta una considerazione di ordine piùgenerale. Mi sembra di capire che il quadro di riferi-mento cui si ispiri il Libro Verde sia quello di una societànella quale debba essere riconosciuto come valore fon-dante la coesistenza e la compenetrazione del diritto de-cisionale del cittadino col diritto della collettività a defi-nire e garantire le condizioni di stabilità economica efinanziaria del sistema.Se ho capito bene e se così è, non posso non rilevareche uno degli elementi fondamentali di raccordo fraqueste due contrapposte esigenze è costituito da un si-stema previdenziale il cui funzionamento assicuri la coe-sistenza del diritto del singolo a scegliere fra perma-nenza e abbandono della vita lavorativa con quello

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della collettività volto a definire ed attuare i necessaristrumenti e vincoli per garantire le condizioni di equili-brio del sistema previdenziale.Se nella quotidiana realtà dei fatti tale raccordo mancaè fin troppo semplice rilevare e dedurre che gli obiettiviposti a base della “ vita buona nella società attiva” nonpossono essere nel tempo perseguiti. Un sistema previ-denziale disincentivante l’allungamento dell’attività la-vorativa è, infatti, dissonante, contraddittorio con la pro-spettiva di pervenire a più alti tassi di attività delle classidi età più elevata. Il sistema contributivo, se gravato nel tempo dai ripetutiaggiornamenti dei coefficienti di trasformazione, cosìcome prescritto dalla normativa vigente e così come at-tualmente determinati, non sembra offrire ampie e va-lide possibilità di realizzare un allungamento della vitalavorativa, allungamento di cui il mondo delle impreseha particolare bisogno, stanti le esigenze derivanti dal-l’evoluzione demografica del nostro Paese.Pur nella consapevolezza di apparire un nostalgico delpassato, in questi ultimi anni, a causa dei profondi e ir-reversibili mutamenti del mercato del lavoro registratisisubito dopo l’introduzione del sistema contributivo, mi

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sono venuto sempre più convincendo che la strada perrealizzare una più responsabile e partecipata coesi-stenza dei due diritti richieda l’introduzione e l’intera-zione dei due sistemi: il contributivo e il retributivo5.Per potersi muovere in questa direzione occorre innan-zitutto operare una scelta di fondo: bisogna che il Par-lamento definisca, con riferimento all’età, alla durata,alla natura e alle condizioni usuranti dell’attività lavora-tiva svolta, quando una persona debba essere ritenutaanziana.Una volta fissata tale età, in pratica si possono verificaretre casi.1) Una persona sceglie di andare in pensione prima del

raggiungimento di detta età. È un suo diritto, che puòessere garantito calcolando con il sistema contributivola sua pensione, da correlare nel tempo con l’anda-mento dei coefficienti di trasformazione.

2) Una persona intende effettuare la scelta di lavorarefino all’età prefissata. Questa sua decisione, che èconforme a quella operata dalla società, deve essere

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5 Giuseppe Alvaro , in Pensioni: Incentivi e Libertà, Atti del Conve-gno Nazionale dell’UIL, Roma, gennaio 2007

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dalla stessa società garantita con il sistema premiantee incentivante del trattamento pensionistico calcolatocon il retributivo.Se tale scelta non viene garantita attraverso l’impiegodi un sistema premiante, la conseguenza è che il Par-lamento e, quindi, la società dimostrano di non voleradottare e realizzare una politica finalizzata ad in-centivare il cittadino a rimanere nel mondo del lavorofino all’età ritenuta valida.

3) Una persona manifesta la capacità e la volontà dicontinuare a lavorare oltre l’età prefissata, quindi, dilavorare più a lungo. Tale evento è da considerare neltempo molto probabile, dato che l’apparato produt-tivo tende sempre più a terziarizzarsi ed il passaggiodall’industria al terziario, esprimendo il passaggio dallavoro delle braccia al cervello che lavora, richiedesempre meno lavoro fisico e sempre più lavoro riccodi capitale umano e di esperienza.

La scelta di lavorare oltre l’età prefissata non può essereconsiderata un diritto per il lavoratore, perché si pone incontrasto col diritto del datore di lavoro di essere liberonell’effettuare sul mercato del lavoro le scelte che ritienepiù valide per l’efficienza dell’impresa.

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Se, però, la scelta del lavoratore di restare in attività ol-tre l’età prefissata non può essere considerata un diritto,nei fatti può essere favorita introducendo adeguate in-centivazioni e, tra queste, di primaria importanza ap-pare la riduzione del costo del lavoro da realizzare at-traverso la riduzione degli oneri sociali. In tale contesto si ha che: a) l’impresa trova validi motivi di interesse ad utilizzare

il “lavoratore anziano”, perché utilizza un lavoratoreprofessionalizzato ad un costo del lavoro più ridotto;

b) il lavoratore ha interesse a rimanere a lavorare per-ché può aumentare il livello della sua pensione;

c) il sistema previdenziale trova gran parte del finan-ziamento per sostenere l’aumento della futura pen-sione nel risparmio generato dal ritardato pensiona-mento.

In un siffatto quadro, come si può agevolmente rilevare,buona parte dei problemi sui quali oggi aspro è il dibat-tito viene a perdere l’attuale virulenta carica, perché siviene ad operare in un contesto che sembra offrire laelasticità necessaria per trovare le giuste soluzioni dimediazione tra il diritto del singolo a scegliere l’età dipensionamento e il diritto della collettività a garantire

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ad ognuno e, quindi, a tutti la stabilità finanziaria del si-stema previdenziale pubblico. In questo quadro i problemi connessi con l'età di pensio-namento, con il più o meno continuo aggiornamento deicoefficienti di trasformazione, con il più o meno lungoperiodo di lavoro svolto in condizioni di flessibilità e/ocaratterizzato da interruzioni, sembrano poter trovaresoluzioni socialmente eque in termini più agevoli. Operando in questa prospettiva, inoltre, si può definireun chiaro percorso che conduce alla costruzione di unsistema pensionistico previdenziale che, da una parte,offre al futuro dei lavoratori i necessari elementi di cer-tezza (che oggi mancano) e, dall’altra, contiene in ségli strumenti e gli elementi in grado di assicurare e ga-rantire nel tempo l'equilibrio economico, finanziario esociale, nell’ambito di alternative e libere possibilità discelta da parte sia del lavoratore sia dell’impresa.Occorre prendere consapevolezza che una società,quale la nostra, che tende a divenire sempre più com-plessa, puntiforme e, quindi, più conflittuale, pone pro-blemi di natura sociale sempre più complessi che, peressere risolti, richiedono misure e interventi appropriatialle esigenze poste dalla complessità del problema.

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La soluzione sopra brevemente proposta a me sembrapiù aderente e rispondente alle prevedibili trasforma-zioni del nostro tessuto produttivo e del nostro mercatodel lavoro nonchè alle aspettative di potenziamento deldiritto di libertà di scelta del cittadino nel rispetto dellecondizioni di equilibrio e di stabilità del sistema, definitedalla società.

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APPENDICETav. 1 – Coefficienti di trasformazione definiti dalle legge Dini

(legge n. 335/1995)

Tav. 2 – Coefficienti di trasformazione definiti dalla legge Dini(legge n. 335/1995) e coefficienti rideterminati dallalegge n. 247/2007

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Giuseppe ALVARO

Età Coefficienti %

57 4,72058 4,86059 5,00660 5,16361 5,33462 5,51463 5,70664 5,91165 6,136

Età Coefficienti definiti Coefficienti

Variazioni dalla legge Dini

rideterminati dalla %

%legge n. 247/2007

%

57 4,720 4,419 -6,3858 4,860 4,538 -6,6359 5,006 4,664 -6,8360 5,163 4,798 -7,0761 5,334 4,940 -7,3962 5,514 5,093 -7,6463 5,706 5,297 -7,8764 5,911 5,432 -8,1065 6,136 5,620 -8,41

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Risalendo alle origini

È noto che lo schema contributivo, nel mondo or-mai noto come “modello NDC” (National Defi-ned Contribution), ebbe i natali in Italia e in Sve-

zia negli anni ‘90. È altresì noto che la riforma svedesene ha successivamente ispirate altre fra le quali, in Eu-ropa, quella polacca e quella lettone. L’esperienza sve-dese, ma anche quella italiana, hanno avuto un impattoanche sui processi riformatori che si sono chiusi in dueimportanti paesi europei, la Francia e la Germania: i“sistemi a punti”, ideati in quei paesi, sono stati giudicati“anticamere” del NDC. La riforma svedese, eccellente e curata nei minimi detta-gli, ha animato un intenso dibattito tuttora in corso nelle

Claudio De Vincenti

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Università, nei governi e nelle istituzioni internazionalicompetenti. Di tale dibattito offre un interessante esem-pio il recente volume collettaneo a cura della WorldBank1, in cui il modello NDC è analizzato e discusso daeconomisti e politici d’ogni parte del mondo. Una curio-sità, a molti ignota, è che la World Bank promuove daanni il modello NDC nei PVS che intendano dotarsi di unsistema pensionistico. Salvo eccezioni2, di rado viene ricordato nel dibattitointernazionale il ruolo di “apripista” che l’Italia haavuto, e non solo perché la nostra riforma precede didue anni quella svedese (entrata in vigore il 1° gennaio1998) ma anche perché l’elaborazione concettuale delmodello NDC avvenne da noi ancor prima e poi in pa-rallelo con l’elaborazione svedese. Questo “errore dipercezione” – che ha portato molti commentatori a scri-vere che la nostra riforma fu ispirata da quella svedese– è probabilmente dovuto alle modalità del processo dielaborazione delle due riforme e al fatto che la riforma

1 Holzmann R. e E Palmer (a cura di), NDC Pension Schemes:Concept, Issues, Implementation, Prospects, Washington D.C.:The World Bank, 2006.2 Per esempio il saggio di Olivier Blanchard.

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italiana, corretta nell’impostazione di fondo, ha però la-sciato, più di quella svedese, alcune zone d’ombra dachiarire, come dimostra la questione dei coefficienti ditrasformazione di cui oggi ci occupiamo ma anche altrequestioni su cui tornerò più avanti.La riforma svedese fu il frutto di un processo di elabora-zione formalizzato in termini istituzionali. Nel 1992 ilGoverno nomina una Pension Commission – compostada politici di tutti gli schieramenti e da studiosi - con ilcompito di elaborare i principi ispiratori della riformada sottoporre al Parlamento. Quest’ultimo li approva nel1994 con il varo della “legge quadro”, dando compitoalla Commissione di elaborare il progetto anche nei suoiaspetti tecnici, comprensivo delle norme transitorie. Ilprogetto viene completato dalla Commissione e appro-vato dal Parlamento nel 1997, cosicché la riforma entrain vigore il 1 gennaio 1998.Qualcuno, in Svezia, ritenne di leggere, in questa pro-cedura, una diminutio del ruolo del Parlamento. A di-fesa, i più rispondono che il modello NDC, semplice neiprincipi, è assai complesso nelle technicalities, cosicchéoccorreva lasciare alla Commissione (non per questo ce-dendo alla tecnocrazia) lo spazio tecnico necessario.

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Senza contare, come ho già detto, che della Commis-sione fecero pur sempre parte politici (tecnicamente pre-parati) di tutti i partiti. Del resto, qualcosa di simile è poiaccaduto in Francia e in Germania. Anche in quei Paesisi è riconosciuta la complessità delle architetture neces-sarie a garantire la sostenibilità di lungo periodo el’equità dentro e fra le generazioni. Insomma, la politicafissa i principi e affida la soluzione operativa a unastruttura tecnica di alto profilo, verificando la coerenzadella soluzione stessa rispetto ai principi stabiliti.Il processo italiano è stato meno chiaro e la riformaNDC balza sulla scena politica piuttosto improvvisa-mente, al punto che sul Corriere della Sera del 10maggio 1995 Michele Salvati scrisse: “Mi limito a con-siderare che, sino ad un anno fa, del criterio contribu-tivo si discuteva in circoli poco più ampi di quelli acca-demici mentre ora è diventato il criterio di calcolo cuil’intero sistema previdenziale pubblico finirà per con-vergere”. Ma a quali “circoli” Salvati intendeva allu-dere?Correva l’anno 1993 quando Salvatore Biasco, alloraPresidente della Fondazione CeSPE, e il sottoscritto, inqualità di Direttore, organizzarono una tavola rotonda

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sul riordino del sistema pensionistico3. In quella sedeSandro Gronchi che, all’epoca, aveva la responsabilitàscientifica del modello previsionale della Ragioneria Ge-nerale dello Stato, presentò i risultati di uno studio cheaveva appena ultimato e che sarebbe stato pubblicato,da lì a breve, dalla Ragioneria Generale4 e successiva-mente, con aggiornamenti, su Economia Italiana5. Se-guirono poi altri incontri per approfondire tutti gli aspettidella proposta. Lo studio denunciava le iniquità della formula retributivache permanevano nonostante l’estensione (prevista dallariforma Amato del 1992) del calcolo della retribuzionepensionabile all’intera vita lavorativa. In termini sem-plici, paragonando il sistema pensionistico a riparti-zione ad una banca virtuale dove prima si depositano i

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3 La Riforma della Previdenza Pubblica, Fondazione Cespe, SerieAzzurra: Incontri Istruttori, 1993, n.13.4 Ministero del Tesoro – Ragioneria Generale dello Stato, “I Ren-dimenti Impliciti della Previdenza Obbligatoria”, Conti Pubblici eCongiuntura Economica, 1994, n.2.5 Sandro Gronchi, “I Rendimenti Impliciti della Previdenza Ob-bligatoria: un’Analisi delle Iniquità del Sistema”, Economia Ita-liana, 1995, n.1.

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contributi e poi si prelevano le prestazioni, si dimostravache quella banca trattava diversamente i “correntisti”accreditando loro tassi di interesse molto differenziati. Inparticolare, la banca virtuale remunerava i contributidelle carriere dinamiche (cioè a crescita elevata dellaretribuzione) molto meglio di quelli versati dalle carrierepiatte (a bassa crescita retributiva). Inoltre, remuneravamolto meglio i contributi versati dai pensionati di anzia-nità rispetto a quelli versati dai pensionati di vecchiaia.L’analisi indicava, da sola, la soluzione: occorreva farein modo che la banca virtuale accreditasse lo stesso tassodi rendimento su tutti i conti correnti. È qui il nocciolo delpassaggio al sistema contributivo, riassumibile nell’equi-valenza attuariale tra contributi versati e trattamento pen-sionistico di cui si usufruisce. Il sistema consente di af-frontare tre temi centrali di un assetto pensionistico: a) garantisce la sostenibilità strutturale del sistema ove si

stabilisca che il rendimento uniforme sia scelto ugualeal tasso di crescita della massa salariale (oppure aduna sua proxy qual è, nel lungo periodo, il tasso dicrescita del Pil);

b) garantisce trasparenza “inter” e “intragenerazionale”(per inciso, quanto detto circa la sperequazione dei

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tassi di rendimento del sistema retributivo, implica cheil passaggio all’uniformità del tasso di rendimentocomporta, a parità di anzianità contributiva, un rie-quilibrio nei trattamenti pensionistici relativi a favoredi operai e impiegati rispetto a quelli di quadri e di-rigenti);

c) fornisce i corretti incentivi agli assicurati, in terminisia di incentivi al lavoro che all’emersione contributivanel corso di tutta la vita lavorativa.

Il contributo di Gronchi e l’elaborazione in sede CeSPEstimolarono una riflessione nella sinistra. Tracce di “con-tributivo” poterono essere già inserite nel programmaelettorale della primavera del 1994, mentre nell’estatedello stesso anno, quando il primo Governo Berlusconipredisponeva gli interventi sulle pensioni di anzianità, iProgressisti prepararono un disegno di legge di tagliodecisamente contributivo. Il progetto rimase però in om-bra perché la discussione in Parlamento fu impeditadalla fine prematura della legislatura, causata anchedalla reazione del sindacato al progetto del governo edalla contestuale defezione della Lega.Qui la storia comincia ad essere quella da tutti cono-sciuta: fu il governo tecnico presieduto da Lamberto Dini

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a riprendere l’idea contributiva e, piuttosto inaspettata-mente, a varare in breve tempo la riforma con il con-senso di quasi tutto l’arco parlamentare oltre che delleparti sociali. L’importanza della riforma del 1995 è dif-ficilmente sottovalutabile sia per la carica di forte inno-vazione sia per la correttezza dell’impianto di fondo, cuidel resto diversi di coloro che partecipano al seminariodi oggi hanno dato il loro contributo. L’esclamazione diMichele Salvati era però giustificata: la fretta con cui funecessario procedere per riportare finalmente a sosteni-bilità il sistema italiano non consentì all’idea contributivadi essere maturata a sufficienza. Da qui le zone d’ombradi cui parlavo all’inizio, che avrebbero richiesto unamessa a punto ulteriore6. Qualche parziale passo avanti,specie in relazione a una maggiore armonizzazionedelle diverse gestioni previdenziali e quindi anche deitassi di rendimento da esse forniti, si è fatto con l’inter-vento del primo Governo Prodi contenuto nella Legge449 del 1997 (art. 59). L’intervento operato nel 2004

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6 Si vedano al riguardo le riflessioni di Piero Giarda, ‘La revisionedel sistema pensionistico nel 1997: come avrebbe potuto essere’.Economia Politica: Rivista di Teoria e Analisi, 1998, vol. XV, n. 2.

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dal secondo Governo Berlusconi non ha toccato le zoned’ombra, semmai ha esteso al sistema contributivo unamaggiore rigidità nell’età di pensionamento estraneaalla sua logica. Di fatto la riforma contributiva “ha dor-mito” fino al 2005 quando si è posto il problema dellaprima revisione dei coefficienti, rimasta nei fatti bloccatafino al Protocollo sul welfare del luglio 2007 che ha riav-viato un percorso di revisione condivisa con le parti so-ciali e ha previsto alcune altre norme con valenza a re-gime, in particolare per i giovani con rapporti di lavoroprecari: in sede di riforma degli ammortizzatori sociali,la copertura figurativa piena commisurata alla retribu-zione percepita per chi usufruisce dell’indennità di disoc-cupazione (oltre all’allungamento del periodo di frui-zione dell’indennità stessa), nonché misure per facilitarela ricongiunzione dei periodi contributivi.

Qualche riflessione in prospettiva

In quel che segue mi soffermerò esclusivamente su que-stioni attinenti al funzionamento del sistema contributivoitaliano a regime, lasciando da parte le tematiche dellatransizione.

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Da questo punto di vista, in particolare, mi soffermeròsu un tema in prospettiva centrale, quello del livello deitrattamenti a regime. Secondo il Rapporto 2006 delNucleo di valutazione della spesa previdenziale (maaltre stime danno risultati non molto diversi) i tratta-menti pensionistici del sistema pubblico andranno ri-ducendosi (in rapporto alla retribuzione) a partire dal2017, per stabilizzarsi dopo il 2040 su tassi di sosti-tuzione (lordi), per un lavoratore con 65 anni di età e40 di contributi, del 65% circa per un dipendente concarriera piatta e del 54% per un dipendente con car-riera dinamica; nel caso dell’autonomo, data la bassaaliquota contributiva, i tassi di sostituzione sarannonettamente inferiori. Si tenga presente che quelli indi-cati sono tassi di sostituzione calcolati nel caso di 40anni di contributi pieni, il che rinvia all’ulteriore pro-blema costituito dal fatto che, almeno nella fase at-tuale, sembrano destinati a diffondersi fenomeni di di-scontinuità dei rapporti di lavoro e quindi anche dellecarriere contributive. Per converso, i tassi di sostitu-zione effettivi potranno risultare migliori di quelli indi-cati in virtù dell’integrazione pensionistica fornita dallaprevidenza complementare. Ma penso sia comunque

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giusto porsi il problema se trattamenti pensionisticipubblici come quelli indicati siano adeguati.Credo sia questo il nodo di fondo che sta sotto alle re-sistenze che nei fatti hanno fin qui frenato la revisionedei coefficienti di trasformazione. Rinviando agli inter-venti degli altri partecipanti a questo seminario per unaanalisi nel merito della revisione dei coefficienti, segnaloche una “manipolazione” politica dei coefficienti sa-rebbe la strada sbagliata per affrontare il problema evi-denziato. I coefficienti sono un elemento costitutivo delsistema che garantisce la corretta applicazione del cri-terio dell’equivalenza attuariale tra montante contribu-tivo e trattamento pensionistico complessivamente go-duto e l’uniformità dei tassi di rendimento tra i lavora-tori. Sarò molto esplicito: trovo ambigua la parte delProtocollo sulla procedura di revisione dei coefficienti;questa deve rispondere a criteri strettamente tecnici,deve avvenire a intervalli ravvicinati e deve essere auto-matica, non soggetta a negoziazione. Il problema dellivello dei trattamenti pensionistici futuri va affrontato ri-spettando le coerenze del sistema contributivo e nonstravolgendole, altrimenti le iniquità che caratterizzanoil sistema retributivo, “cacciate dalla porta” (a regime)

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con la riforma del 1995, finiranno per “rientrare dallafinestra”.Piuttosto, uno dei meriti del sistema NDC è quello di ren-dere del tutto trasparente la relazione tra aliquota con-tributiva, anni di lavoro e quindi di contribuzione, spe-ranza di vita residua al pensionamento e trattamentopensionistico annuo che ne deriva. Salvaguardare lacoerenza attuariale di questa relazione è essenziale af-finché per tutti noi siano chiari i termini delle scelte ne-cessarie a garantire trattamenti pensionistici adeguati. E vengo così ad alcune indicazioni di prospettiva, co-minciando da quelle per così dire più interne al sistemacontributivo stesso per concludere poi con una propostadi affiancamento del sistema contributivo con un istitutospecifico finanziato via fiscalità generale.

Vediamo il primo insieme di indicazioni:✓ grazie all’equivalenza attuariale garantita dal sistema

NDC, possiamo al suo interno valorizzare la flessibi-lità dell’età di pensionamento, mantenendo un’età mi-nima di pensionamento analoga a quella derivantedal Protocollo e introducendo le modifiche normativenecessarie a consentire a chi lo vorrà di andare in

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pensione oltre le attuali soglie massime (65 anni pergli uomini e 60 per le donne): in particolare, va ri-mossa la disposizione per cui il raggiungimento diquelle soglie costituisce per il datore di lavoro giustacausa di licenziamento. In questo modo, ognuno sce-glierà autonomamente se andare in pensione prima,scontando una minore pensione annua in relazione alminor montante contributivo accumulato e al piùlungo periodo di pensionamento, o successivamente,con una pensione corrispondentemente più alta;

✓ come opzione a disposizione dei lavoratori che ab-biano raggiunto l’età minima di pensionamentovanno introdotti schemi misti basati sul part-time inte-grato con una pensione parziale, con conseguenteaccumulo di ulteriori contributi da parte del lavoratoreche andranno ad accrescere la pensione futura; lapensione parziale viene calcolata in base all’equiva-lenza attuariale al momento dell’opzione, i contributiversati successivamente sul part-time continuano a ca-pitalizzarsi secondo lo schema NDC fino al pensio-namento definitivo;

✓ per i lavoratori che vivono rapporti di lavoro discon-tinui, va bene la previsione di contribuzione figurativa

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contenuta nel Protocollo e va realizzata la piena cu-mulabilità senza oneri dei contributi versati ai diversifondi;

✓ per i lavoratori che non raggiungono il minimo dipensione contributiva andrebbero allargate le magliedella cumulabilità futura tra assegno sociale e pen-sione contributiva, riducendo la percentuale con cuiquest’ultima va a scomputo dell’assegno sociale (ali-quota marginale implicita);

✓ per i lavoratori autonomi si dovrà andare a un gradualeaumento dell’aliquota contributiva, unico strumento perinnalzare i loro trattamenti pensionistici futuri;

✓ last but not least, una misura che riguarda la traspa-renza per il singolo lavoratore della sua situazionepensionistica: occorre disporre che l’Inps fornisca pe-riodicamente al lavoratore non solo il quadro dellasua situazione contributiva ma anche un calcolo prov-visorio della sua pensione nel caso la sua carrieracontributiva prosegua secondo il trend passato; inquesto modo ogni lavoratore avrebbe chiara la suasituazione prospettica e potrebbe decidere se versarecontributi volontari o premunirsi tramite il rafforza-mento della pensione integrativa.

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Come è chiaro l’insieme delle misure indicate, tutte coe-renti con il modello NDC, è volto a sostenere i tratta-menti futuri. Si tratta a questo punto di formulare un giu-dizio, propriamente “politico”, circa l’adeguatezza deitassi di sostituzione e quindi dei trattamenti garantitidalla sostenibilità finanziaria interna del sistema. Ovesi ritenga necessario incrementarli – peraltro tenendoconto dei trattamenti attivati in parallelo dalla previ-denza complementare – si può intervenire introducendoa fianco del sistema contributivo un istituto finanziatodalla fiscalità generale. Pur rispondendo in quanto talea una logica diversa da quella squisitamente assicura-tiva propria del sistema NDC, è essenziale che l’istitutoin questione non ne contraddica la logica, determinandocomportamenti confliggenti con la tenuta del sistema. La mia proposta per i lavoratori che andranno in pen-sione col sistema contributivo pieno è la seguente:✓ si tratta di introdurre, a carico della fiscalità generale,

una integrazione della pensione proporzionale agli annidi contribuzione versata; la proporzionalità tra integra-zione e anni di contribuzione, oltre che rispondere a unelementare criterio di equità, è essenziale per mantenerei corretti incentivi all’emersione contributiva;

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✓ l’integrazione potrebbe essere definita in cifra fissa perogni anno di contribuzione versata (quindi sarebbe pro-porzionale agli anni di contribuzione ma uguale per tuttele retribuzioni); questa soluzione è preferibile rispetto asoluzioni alternative, come per esempio l’attribuzione aogni lavoratore di contributi figurativi in percentuale dellaretribuzione, perché in quest’ultimo caso si avrebbe difatto un innalzamento del tasso di rendimento dei contri-buti effettivamente versati che premierebbe maggior-mente le carriere a crescita salariale elevata e i pensio-namenti precoci; l’integrazione pensionistica in cifra fissaper anno di contribuzione versata evita questo effetto erisponde all’obiettivo di sostenere in proporzione mag-giore, a parità di anni di contribuzione, le pensioni piùbasse realizzando così un obiettivo di natura non assicu-rativa ma mantenendo coerenza con la logica incenti-vante del sistema contributivo7.

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7 Si potrebbe eventualmente prevedere un incremento dell’inte-grazione in relazione all’anzianità contributiva in contratti a pro-getto o a collaborazione, in modo da dare un sostegno prospet-tico ai giovani che vivono prolungati periodi di inserimento lavo-rativo attraverso queste tipologie contrattuali.

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L’ammontare dell’integrazione dipende naturalmente dalrapporto tra spesa pensionistica complessiva e Pil giudi-cato sostenibile nel lungo periodo dal punto di vista ma-croeconomico. Segnalo solo, per concludere, che un sot-toprodotto della proposta potrebbe essere quello di ren-dere gestibile in termini di consenso una revisione – peri pensionati contributivi - del meccanismo d’indicizza-zione delle pensioni attualmente previsto, nel senso dipassare all’indicizzazione al Pil (in modo da evitare il fe-nomeno delle “pensioni d’annata”): una simile scelta,come sappiamo, implica – a parità di valore attuale deltrattamento complessivamente goduto nell’arco del pe-riodo di pensionamento – una pensione più alta negliultimi anni ma più bassa all’inizio e quindi un più bassotasso di sostituzione al momento del pensionamento;l’integrazione a carico della fiscalità generale sdram-matizzerebbe il problema, innalzando il tasso di sosti-tuzione di fatto.

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S ulla scia della crisi che ha investito i mercatifinanziari, e che sembra contagiare l’econo-mia reale, è stata adombrata, in molti ambiti,

incluso lo stesso sindacato, l’opportunità di un rallen-tamento, se non di una vera e propria “marcia indie-tro”, della previdenza complementare privata (cheperaltro stentava a decollare anche prima della crisi).Abbandonare la componente previdenziale legata aimercati finanziari si rivelerebbe però un grave errore;e alimentare l’idea che lo Stato possa tornare a for-nire i livelli di garanzia del passato sarebbe anchemeno responsabile. Al contrario, occorre promuovereun adeguato sviluppo della componente di previ-denza integrativa privata incentivando i lavoratori adaderire, su base volontaria, a forme pensionistiche in-

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tegrative basate sulla capitalizzazione di mercato ead assumere i rischi di questo mercato, limitati peròda una buona regolazione e supervisione dello stessomercato. Questo non significa sminuire il ruolo dellaprevidenza pubblica, che deve invece mantenere lasua centralità ed essere messa nelle condizioni di fun-zionare bene così nel breve come nel lungo periodo. La valorizzazione della componente pubblica, chenon è a sua volta priva di rischi, sta soprattutto nellabuona applicazione del metodo contributivo, istituitodalla riforma Dini del 1995 allo scopo di ripristinarela sostenibilità del sistema previdenziale. Sostenibilitàdella componente pubblica a ripartizione e correttofunzionamento della previdenza a capitalizzazionesono i due tasselli per garantire ai cittadini risorseadeguate nell’età anziana. Nonostante le diverse riforme che si sono succedute,tuttavia, il panorama pensionistico italiano è lungidall’essere stabilizzato. In primo luogo, il metodo con-tributivo non è stato sufficientemente “fatto proprio”dai lavoratori. Esso è stato ed è tuttora spesso consi-derato, anche da parte dei sindacati, un sistematroppo “severo” di determinazione delle pensioni, e

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questo ha indotto una sorta di riserva mentale sullasua reale applicazione, aggravata dal ritardo nellasua applicazione (la riforma infatti non andrà a re-gime prima del 2030), a sua volta dovuto a scelte po-litiche poco coraggiose. L’introduzione del metodo contributivo all’interno delsistema pubblico a ripartizione ha invece rappresen-tato una riforma all’avanguardia, adottata due annidopo anche dalla Svezia, che ha poi esportato il mo-dello in molti paesi dell’Est Europeo, allorché è statonecessario decidere quale sistema istituire dopo ilcrollo dei regimi comunisti. Ci si può chiedere perquale motivo non sia stata l’Italia, ma la Svezia aesportare il modello contributivo. La risposta è che lariforma italiana, pur precedente a quella svedese, èsfuggita a molti proprio per il suo ritardo nell’applica-zione, che ne ha reso l’impianto poco “credibile”. An-che gli stessi lavoratori l’hanno forse poco compresa,complice anche la mancanza di una vera campagnainformativa da parte della classe politica, del sinda-cato e anche degli intellettuali.Il ritardo nell’applicazione della riforma ha inoltrereso necessari, negli anni successivi alla sua approva-

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zione, una nuova serie di aggiustamenti (nel 1997,nel 2004, 2005 e 2007), finalizzati a mantenere lasostenibilità del sistema (soprattutto in conseguenzadei vincoli di bilancio imposti dall’Unione Europea).Questi aggiustamenti, anziché rafforzarlo, hannoperò progressivamente indebolito l’originale impiantocontributivo, andando a volte addirittura nella dire-zione opposta.Eppure, è proprio sul metodo contributivo che occorrepuntare per liberare il sistema previdenziale dalle di-storsioni del passato. La generosità del sistema retri-butivo era infatti garantita trasferendone l’onere sullegenerazioni successive. Anche se apparentemente piùefficace in termini di protezione sociale, il vecchio si-stema nascondeva una serie di privilegi e distorsioni,che non incentivavano il versamento pieno dei contri-buti e disincentivavano fortemente la prosecuzione dellavoro e, di conseguenza, contribuivano al rallenta-mento della crescita del nostro paese. Il cardine della formula contributiva è invece il colle-gamento matematico tra la pensione percepita, i con-tributi versati e l’aspettativa di vita al pensionamento.Questo principio permette di superare i vecchi privi-

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legi e cambiare il concetto stesso di pensione, da “re-galo” elargito dallo Stato, a risultato di una forma dirisparmio – i contributi – accumulato grazie al lavorodell’individuo; una forma di risparmio forzoso, ilquale però, come succede per il risparmio investitonei mercati finanziari, produce un rendimento. Nelcaso del sistema italiano, il rendimento è legato allacrescita del PIL; di conseguenza, non solo i contributiversati dal singolo lavoratore, ma anche il lavoro e laproduttività degli altri lavoratori concorrono alla de-terminazione della pensione. I contributi versati dailavoratori sono quindi remunerati a un tasso che ci siattende inferiore rispetto a quello dei mercati finan-ziari (così almeno è l’evidenza di lungo periodo), maanche con un rischio inferiore. E, in ogni caso, i duetassi – di crescita del Pil e di interesse finanziario –sono poco correlati, ciò che aggiunge “diversifica-zione” al risparmio previdenziale. Un altro aspetto importante del sistema contributivo èla flessibilità dell’età di pensionamento: il lavoratore,una volta raggiunti i requisiti, può decidere libera-mente se continuare o meno l’attività lavorativa, a se-conda delle sue preferenze. Al pensionamento, la

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pensione viene calcolata in base ad una formula tra-sparente, un coefficiente neutro che trasforma in ren-dita il montante contributivo accumulato, tenendoconto dell’aspettativa di vita. A questo proposito, il si-stema contributivo non è privo di difetti: ad esempio,la scelta di applicare lo stesso coefficiente a uomini edonne è discutibile, visto che queste ultime hannoun’aspettativa di vita più alta. Si è cercato, con questaequiparazione, di compensare le donne a posteriorinel sistema previdenziale, invece di garantire loropari opportunità a priori nel mercato del lavoro. Sa-rebbe invece opportuno differenziare i coefficienti,magari attraverso il lavoro di una commissione tec-nica (come era stato annunciato con la riforma del2007) che analizzi le differenze nell’aspettativa divita, non solo di genere, ma anche in base al tipo dilavoro svolto. Se si vuole utilizzare il sistema previ-denziale per “ricompensare” categorie sfortunate dilavoratori è bene che vi sia una base conoscitiva seriaalla differenziazione dei trattamenti, e criteri traspa-renti su cui basarla!Per la sopravvivenza del metodo è essenziale inoltreche i coefficienti siano periodicamente rivisti, in modo

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da mantenerli al passo con l’evoluzione della longe-vità. In base alla legge del ’95, essi avrebbero dovutoessere rivisti con cadenza decennale, il che avrebbecomportato una prima revisione già nel 2005. In re-altà, la revisione, con la riforma del 2007, è stata ri-mandata al 2010; successivamente, però, i coeffi-cienti saranno aggiornati in modo automatico ognitre anni, il che significa che il primo adeguamento au-tomatico dovrebbe arrivare nel 2013, con un anticipodi due anni rispetto a quanto si sarebbe verificato alegislazione invariata. Il ritardo finora accumulato,che comportava un grave rischio di tenuta del si-stema, verrebbe così colmato. La valutazione positivaè però attenuata dal fatto che il rinvio della revisioneriduce la credibilità del meccanismo. Nulla vieta, in-fatti, che il meccanismo venga rimesso ancora unavolta in discussione, magari per fornire “facili” ga-ranzie (come quella implicita nel tasso minimo di so-stituzione, ad esempio del 60 per cento). In luogo di garanzie indiscriminate (che sarebberocomunque ottenute scaricandone l’onere sulle gene-razioni giovani e future) e di false solidarietà, ai gio-vani di oggi occorre offrire maggiori opportunità la-

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vorative e una qualità possibilmente migliore del la-voro. Inoltre, e questo meccanismo è implicito nel me-todo contributivo, occorre incentivarli a lavorare dipiù al fine di accumulare un ammontare maggiore dicontributi, e, quindi una pensione più alta. Infatti, sesi proiettano i tassi di sostituzione da qui a cinquan-t’anni, si vede che con la formula contributiva, a pa-rità di età di uscita, quei tassi sono più bassi, mentrel’aspettativa di vita è cresciuta. Un altro aspetto cruciale, connesso soprattutto con lapartecipazione alla previdenza complementare, è lanecessità di fornire ai cittadini un’adeguata educa-zione finanziaria. Negli Stati Uniti questo è un temadi grandissima attualità, anche perché dopo la crisidei mutui si è scoperto che le conoscenze dei cittadiniamericani riguardo ai prodotti finanziari sono moltoscarse. È necessario che anche nel nostro paese si isti-tuisca un programma serio di educazione finanziariadi modo che gli individui siano in grado di compren-dere le opportunità, ma anche i rischi, della previ-denza privata, e di fare scelte responsabili riguardoalla pianificazione del loro risparmio per l’età an-ziana.

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Una campagna informativa è proprio ciò che è man-cato al momento del passaggio al metodo contribu-tivo. Anche per questo motivo, a distanza di tredicianni dalla riforma che lo ha istituito, il metodo è con-tinuamente a rischio di essere fortemente indebolitoda nuovi interventi. Il legislatore farebbe bene invecea confermare e rafforzare il metodo contributivo, e aricordarsi che, una volta adottato tale metodo, la mi-glior riforma del sistema pensionistico ancora da fareriguarda il mercato del lavoro. Se questo funzionerà,funzioneranno anche le pensioni, e meglio di ognipossibile garanzia pubblica.

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La ripartizione come banca virtuale

O gni schema a ripartizione retributivo o con-tributivo può essere concepito come unabanca virtuale. Sui conti correnti personali

sono prima depositati i contributi e poi prelevate le pre-stazioni. Nello schema retributivo la banca virtuale nonriconosce interessi in modo esplicito; ciò nonostante,mettendo a confronto i prelievi (le prestazioni) con i ver-samenti (i contributi) di ciascuno, il calcolo finanziarioriesce a desumere l’interesse implicitamente accordatoai singoli correntisti. Nello schema contributivo la banca virtuale riconosceun interesse esplicito, uguale per tutti i correntisti.

Sandro GRONCHI

Sergio NISTICÒ

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Solo lo schema contributivo garantiscel’equità

Lo schema retributivo nella forma pura, inteso come stessoquoziente di sostituzione per la stessa anzianità, è iniquoperché premia i casi meno bisognosi e i comportamentimeno virtuosi. Infatti, la banca virtuale, quando è organiz-zata con lo schema retributivo riconosce interessi minorialle carriere piatte, operaie e impiegatizie rispetto a quelleesponenziali, direttive e manageriali; ma anche ai pensio-namenti tardivi rispetto a quelli precoci.Calcolando la retribuzione pensionabile sull’intera vitalavorativa, come si fece con la riforma Amato del ’92,e/o ripartendola in scaglioni ad aliquota di rendimentodecrescente, come si fece con la Finanziaria nel ’98, èpossibile ridurre i quozienti di sostituzione delle carriereesponenziali così da attenuare, non eliminare, le iniquitàdel primo tipo, ma non anche quelle del secondo.Lo schema contributivo è equo perché la banca virtuale ri-conosce il medesimo interesse a tutti i correntisti; a paritàdi anzianità l’equità implica quozienti di sostituzionemaggiori per le carriere piatte rispetto a quelle esponen-ziali, per i pensionamenti tardivi rispetto a quelli precoci.

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Solo lo schema contributivo garantiscela trasparenza

Lo schema retributivo non è trasparente perché gli inte-ressi riconosciuti dalla banca virtuale ai correntisti sonoimpliciti e perciò invisibili; in tal modo le disparità ditrattamento possono essere occultate e per riconoscerleoccorrono strumenti finanziario attuariali alquanto sofi-sticati. Lo schema contributivo è trasparente perché labanca virtuale è tenuta ad accreditare l’interesse uni-forme alla luce del sole.

Lo schema contributivo può (non deve)garantire il bilancio in pareggio

Poiché la banca virtuale ha le casse sempre vuote, laripartizione ha il bilancio in pareggio solo se riesce apagare i pensionati girando loro i contributi degli at-tivi. Nello schema retributivo il pareggio di bilancio non puòessere garantito a priori; occorre navigare a vista inter-venendo sull’aliquota contributiva e/o sulle prestazioni

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Sandro GRONCHI Salvatore NISTICÒ

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quando lo richiede il mutamento delle condizioni demo-grafiche.Nello schema contributivo, per garantire il pareggio dibilancio basta chiedere alla banca virtuale di erogareun interesse uguale alla crescita dei redditi da lavoroimponibili, approssimabile con la crescita del PIL, cheperciò viene detta interesse sostenibile. L’interesse soste-nibile è, quindi, una sorta di pilota automatico che puòessere inserito, sempre che lo si desideri.

Al bilancio in pareggio si può rinunciare

È falso che lo schema contributivo sia unicamente con-cepito per garantire il pareggio di bilancio. Al pareggiosi può rinunciare chiedendo alla banca virtuale di ero-gare un interesse superiore alla crescita del PIL. Ne risul-terebbe una ripartizione spuria in cui al finanziamentodella spesa è chiamata deliberatamente a concorrere invia permanente la fiscalità generale. Lo schema contributivo avrebbe comunque fatto il suo‘primo mestiere’, che è quello di garantire l’equità intesacome uniformità dell’interesse, e quindi come giusta di-versificazione dei quozienti di sostituzione.

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Errori e lacune della riformacontributiva italiana

Alla solidità della riforma svedese preparata in sei anni, sicontrappone la fragilità di quella italiana preparata in tremesi. Il modello svedese fa scuola nel mondo, trovandoanche il consenso delle istituzioni economiche sovranazio-nali, mentre quello italiano è praticamente ignorato dal di-battito scientifico e politico internazionale. Non è così grave che la brevità del tempo a disposi-zione del governo Dini abbia generato errori e lacune.Meraviglia, invece, che nei tredici anni trascorsi dal ’95non sia maturata alcuna consapevolezza e nessun rime-dio sia stato preso. Su due errori vale la pena di concen-trare l’attenzione: il mancato raccordo fra i coefficientie l’indicizzazione, la mancata differenziazione dei co-efficienti per coorte. Entrambi minano alla base l’equitàdello schema contributivo italiano.

Il mancato raccordo fra i coefficienti el’indicizzazione: di che cosa si parla?

Poiché il montante contributivo non viene prelevato tuttoin una volta, le quote residue restano giacenti sul conto

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virtuale e maturano perciò interessi a favore del pensio-nato. Tali interessi possono arricchire la rendita base(ovvero la rendita che risulterebbe dalla mera divisionedel montante contributivo maturato al pensionamentoper la vita residua) in due modi:✓ possono essere interamente devoluti ad aumentare le

annualità successive alla prima, cioè ad indicizzare,via via che maturano, la rendita base;

✓ possono essere in parte anticipati e spalmati insiemeal montante per maggiorare la rendita base; in talcaso, però, per l’indicizzazione resta disponibile solola parte residua.

Tecnicamente l’anticipazione avviene sempre per incor-porazione nei coefficienti di trasformazione che, perciò,assumono magnitudo superiori.

Il mancato raccordo fra i coefficienti el’indicizzazione: la scelta svedese el’errore italiano

Le due opzioni generano differenti profili temporali dellarendita. L’anticipazione parziale dell’interesse che ma-tura dopo il pensionamento implica annualità superiori

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all’inizio ma inferiori alla fine; perciò essa consente dielevare il quoziente di sostituzione ma genera il feno-meno indesiderabile delle pensioni di annata. Dopo ampio dibattito la riforma svedese fece la scelta dianticipare l’interesse maturando nella misura dell’1,6%;l’interesse anticipato fu incorporato nei coefficienti e cor-rettamente detratto dall’indicizzazione. Meno consapevolmente la riforma italiana fece la sceltasimile di anticipare (e quindi, incorporare nei coefficienti)l’1,5% ma rifiutò di indicizzare correttamente le pensionicontributive in base alla crescita del PIL decurtata dell’in-teresse anticipato; ad esse fu estesa l’indicizzazione aiprezzi già in essere per le pensioni retributive.

Il mancato raccordo fra i coefficienti el’indicizzazione: quali leconseguenze?

L’indicizzazione ai prezzi riconosce ai pensionati il tassodi inflazione come ulteriore interesse che si aggiungeall’anticipazione dell’1,5% già anticipato nei coeffi-cienti. Si profila perciò la seguente dicotomia:

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✓ l’interesse dei pensionati è uguale all’inflazione (cheviene accreditata, anno dopo anno, con l’indicizza-zione) più l’1,5% anticipato nei coefficienti;

✓ l’interesse degli attivi è uguale alla crescita nominaledel PIL.

La dicotomia confligge con l’uniformità dell’interesse,principio irrinunciabile per ogni schema contributivo.Poiché ciascuno è prima attivo e poi pensionato, la di-cotomia riguarda tutti; ciò nonostante non è neutraleper varie ragioni. La più evidente è che gli individui ri-partiscono diversamente la loro vita fra lavoro e pen-sione.Quale dei due interessi è preferibile? L’interesse deipensionati è fisso in termini reali e perciò offre il van-taggio della stabilità; ma si tratta di un vantaggio de-bole, perché la crescita del PIL è mediata su un periododi cinque anni. Ove i tassi di crescita italiani tornasseroalla normalità, anche solo allineandosi alla media eu-ropea, la dicotomia sfavorirebbe i pensionati rispettoagli attivi, oltre a generare avanzi di bilancio perma-nenti.

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Il mancato raccordo fra i coefficienti el’indicizzazione: le ragioni dell’errore

Nel ’95 la necessità di indicizzare correttamente le pen-sioni contributive fu brevemente discussa nei ministericompetenti ma prevalse la tesi che non fosse politica-mente proponibile un’indicizzazione delle pensioni con-tributive diversa da quella delle pensioni retributive. Vifurono anche remore a tornare sull’argomento faticosa-mente legiferato solo tre anni prima; una questione cosìrilevante non fu neppure portata all’attenzione delleparti sociali. In Svezia il problema dell’indicizzazione differenziatafu adeguatamente discusso e opportunamente risoltocon una scelta simmetrica rispetto a quella italiana, cioèestendendo alle pensioni retributive l’indicizzazione pro-pria di quelle contributive. In tal modo l’unicità dell’in-dicizzazione fu consentita senza compromettere il cor-retto funzionamento dello schema contributivo.Le incomprensioni del ’95 sembrano trascinarsi sino aigiorni nostri. Il convincimento che l’indicizzazione nonc’entri con i coefficienti è stato confermato in campagna

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elettorale quando si sono ventilate ipotesi di interventosulla prima senza minimamente sollevare il problemadelle conseguenze sui secondi.

Il mancato raccordo fra i coefficienti el’indicizzazione: due ostacoli

L’occasione della prima revisione dei coefficienti nonpuò essere perduta per risolvere la dicotomia dell’inte-resse. Preliminarmente, si dovrà confermare l’anticipa-zione dell’1,5% o sceglierne una diversa non prima diaverne chiarito il significato e le implicazioni sull’indiciz-zazione. Tuttavia l’indicizzazione corretta delle pensioni contri-butive in base alla crescita nominale del PIL diminuitadell’1,5% può incontrare due ostacoli di ordine politico.Può riemergere il rifiuto che le pensioni contributivesiano indicizzate diversamente da quelle retributive; mapuò anche affacciarsi il timore, giustificato dalla persi-stente stagnazione dell’economia italiana, che le pen-sioni contributive non riescano a preservare il potered’acquisto.

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Il primo ostacolo può essere superato mutuando la solu-zione svedese, che ha esteso alle pensioni retributivel’indicizzazione di quelle contributive. Il secondo osta-colo è più difficile. È pur vero che la nuova indicizza-zione può anche arricchire le pensioni quando la cre-scita economica è superiore all’1,5% in termini reali enon solo impoverirle quando è inferiore. Tuttavia, l’av-versione al rischio potrebbe non consentire scelte diversedalla indicizzazione ai prezzi.

Il mancato raccordo fra coefficienti eindicizzazione: una proposta

Se l’indicizzazione ai prezzi restasse una scelta politica-mente obbligata, sarebbe impedita l’estensione ai pen-sionati dell’interesse degli attivi (la crescita nominale delPIL). Il principio di uniformità potrebbe essere allora ga-rantito con l’operazione inversa, cioè estendendo agliattivi l’interesse dei pensionati (l’inflazione aumentatadell’1,5%). La crescita nominale del PIL uscirebbe definitivamente discena e l’inflazione, aumentata dell’1,5%, diventerebbe

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anche l’interesse al quale capitalizzare i contributi degliattivi.Occorre però che l’indicizzazione ai prezzi sia piena-mente garantita anche alle pensioni più elevate. All’ab-battimento correttamente implicato dalla formula di cal-colo contributiva non deve aggiungersi la discrimina-zione che sarebbe generata dalla erogazione, dopo ilpensionamento, di un interesse inferiore. Quali le implicazioni finanziarie? La proposta non do-vrebbe alterare il processo di riequilibrio in atto, perchél’inflazione aumentata dell’1,5% è un interesse che, nelcontesto demografico italiano, difficilmente potrà superarela crescita media del PIL nominale nei prossimi decenni.

La mancata differenziazione deicoefficienti per coorte: di che si parla?

Il coefficiente di trasformazione ha il compito di spal-mare il montante contributivo sulla durata attesa dellarendita; perciò il primo deve diminuire all’aumentaredella seconda. A sua volta, la durata diminuisce conl’età di pensionamento ed aumenta con l’anno di nascita

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(coorte di appartenenza). Perciò il coefficiente deve au-mentare con l’età a parità di anno di nascita e diminuirecon l’anno di nascita a parità di età. Dal principio se-guono due regole operative per la revisione dei coeffi-cienti, assunte dagli altri paesi che hanno fatto la sceltacontributiva, in particolare dalla Svezia.Alla vigilia dell’anno in cui una coorte varca la sogliadell’età pensionabile, ad essa sono assegnati i coeffi-cienti, differenziati per età, calcolati in base all’ultimatavola di sopravvivenza disponibile.L’assegnazione ha titolo definitivo, nel senso che le suc-cessive revisioni riguarderanno solo le successive coorti.

La mancata differenziazione deicoefficienti per coorte: l’errore italianoe le sue conseguenze

La riforma contributiva italiana previde coefficienti dif-ferenziati per età, ma non anche per coorte. I coefficientiall’italiana, di tipo erga omnes perché rivolti a tutte lecoorti in età di pensione, danno luogo ad iniquità e di-sfunzioni di ogni genere. Infatti:

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✓ producono iniquità intergenerazionali a carico dellecoorti più anziane cui è imputata la stessa longevitàdelle coorti più giovani;

✓ producono iniquità intra-generazionali che violano ilprincipio dell’uguaglianza costituzionalmente garan-tito, in quanto imputano tavole di sopravvivenza dif-ferenti ai membri di una stessa coorte che scelgono diandare in pensione a differenti età;

✓ si risolvono in formidabili incentivi al pensionamentoprecoce, perché attendere la prossima revisione vani-ficherebbe, almeno in parte, la prospettiva di unapensione migliore.

La mancata differenziazione deicoefficienti per coorte: come rimediare

Anche in questo caso non può essere perduta l’occa-sione offerta dalla prima revisione dei coefficienti. In primo luogo, la flessibilità del pensionamento, che èparte non minore della filosofia contributiva, dovrebbeessere ripristinata tornando a prevedere una fascia dietà pensionabile, anche se non non necessariamente la

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stessa del ’95. Le cosiddette quote introdotte dal proto-collo del 23 luglio potrebbero essere mantenute per lesole pensioni retributive. In secondo luogo, a ciascuna delle coorti in età pensio-nabile dovrebbero essere assegnati in via definitiva i ri-spettivi coefficienti avendo cura di utilizzare l’ultima ta-vola di sopravvivenza disponibile per la coorte che è alprimo anno della fascia di età pensionabile; la tavola del-l’anno prima per la coorte al secondo anno, la tavola didue anni prima per la coorte che si trova al terzo anno ecosì di seguito. Ogni successiva revisione annuale do-vrebbe riguarda la sola coorte che si affaccia all’età pen-sionabile. Il dispendioso dibattito sulla giusta periodicitàdella revisione appare, quindi, privo di senso.

La mancata differenziazione deicoefficienti per coorte: comecontrastare l’obsolescenza congenitadei coefficienti

Alla proposta si è obiettato che occorre preservare lerevisioni erga omnes estese alle coorti già entrate in età

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di pensione, perché contrastano l’obsolescenza ‘conge-nita’ di cui i coefficienti soffrono ‘dalla nascita’, per es-sere calcolati in base a tassi di sopravvivenza costruitisull’esperienza di coorti precedenti. Il rimedio,però, non può essere peggiore del male. L’ob-solescenza deve essere contrastata con mezzi che evi-tino iniquità ed effetti perversi. Per cominciare, anchel’Italia deve riuscire a produrre tavole di sopravvivenzain tempo reale, anziché con quattro-cinque anni di ri-tardo. Inoltre, occorrono altri strumenti, quali:✓ i coefficienti temporanei alla svedese;✓ i coefficienti forward looking basati su forme, ancor-

ché prudenti, di estrapolazione della sopravvivenza(accettando coefficienti un poco inferiori ogni coortepuò garantirsi l’immutabilità dei medesimi).

Cos’altro c’è che non va?

La riforma contributiva italiana è incompiuta per altre ra-gioni. Almeno le più importanti devono essere menzionate. La frammentazione del sistema in gestioni separate ga-rantisce l’equilibrio finanziario di tutte, solo consentendo

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a ciascuna di erogare in luogo della crescita del PIL, uninteresse commisurato alle dinamiche del numero e delreddito medio dei propri correntisti. Il super INPS, com’èstato finora delineato, non basterebbe a risolvere il pro-blema.La diversificazione delle aliquote contributive per le varietipologie di lavoro, dipendente e autonomo, non garan-tisce l’equilibrio finanziario del sistema (quand’ancheunificato) fuori dall’improbabile circostanza in cui la di-stribuzione dell’occupazione fra le varie aliquote resticostante nel tempo. La mancata separazione dell’invalidità e della premo-rienza, che dovrebbero essere gestite e finanziate auto-nomamente dalla vecchiaia, compromette per altroverso l’equilibrio finanziario del sistema e non riconoscel’inconciliabilità dei due istituti con la filosofia contribu-tiva. La diversificazione dei coefficienti di trasformazione perla categorie a longevità ridotta avrebbe permesso di ri-solvere al meglio il problema dei lavori usuranti in am-biente contributivo.

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Conclusioni

Non serve ripetere che la scelta giusta è stata fatta e chebasta applicarla senza ripensamenti e incertezze. Pur-troppo non è così: lo schema contributivo italiano è in-compiuto, denso di errori, lacune e contraddizioni chene rendono incerto il disegno e le finalità. Il compitodell’intellettuale è di avvertire e mettere in guardia. Adaltri e non a lui spetta di giudicare la percorribilità po-litica dei rimedi tecnicamente necessari.

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L a struttura del nostro sistema previdenziale è stataampiamente analizzata da chi mi ha precedutoma vorrei tentare, all’inizio di questo mio inter-

vento, di fare una sintesi in quanto l’applicazione deicoefficienti di trasformazione è connaturata all’adozionestessa del modello contributivo. Di conseguenza non sene può fare a meno, salvo decidere di abbandonare ilmodello contributivo - con le sue caratteristiche - perpassare ad altri modelli di calcolo pensionistico. Questoper tre ragioni fondamentali. Un primo elemento è quello che potremmo definire dellacorrispettività in senso attuariale. Per effetto di tale prin-cipio il sistema contributivo, attraverso questo criteriogestionale per mezzo del quale si accumula un montantecon un dato tasso di capitalizzazione, si trasforma poi

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in prestazione previdenziale a seconda dell’età del pen-sionamento. Sostanzialmente, quindi, garantisce adognuno una pensione commisurata a quello che ha ver-sato in contributi. Ovviamente questo tipo di ragiona-mento non può essere solo di natura finanziaria, perchéstiamo parlando di un meccanismo che funziona te-nendo conto anche della componente probabilistica le-gata alla demografia ed è per questo che possiamo par-lare di una corrispettività di carattere attuariale.Non è banale questo primo elemento, anzi, è molto im-portante. Un sistema come quello delle pensioni è infattispesso toccato dai politici che lo espongono a quello chesi chiama appunto il rischio politico, per il quale laclasse politica può anche decidere di legiferare in ma-teria privilegiando alcune categorie di lavoratori a sca-pito di altre, e comunque a scapito della fiscalità gene-rale. Il citato lavoro del professor Sandro Gronchi dimo-strava - attraverso quelli che si chiamavano i tassi di ren-dimento impliciti - come negli anni ’80 e ’90 tra le di-verse categorie di lavoratori ci fossero differenze enormidettate proprio dalle condizioni e dai criteri di calcoloche erano allora fortemente differenziati. Unificare operlomeno armonizzare il sistema di calcolo della pen-

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sione comporta quindi oggi un aspetto di equità primasostanzialmente assente.L’altra questione è quella legata all’equiparazione deirendimenti. Siamo tutti d’accordo che in un sistema con-tributivo che funzioni nel rispetto sostanziale delle regoledeve esserci parità di trattamento all’interno della stessagenerazione di riferimento. È invece più complicato ilragionamento che si fa sulle diverse generazioni. Questesono caratterizzate da una componente demografica eda una dinamica della crescita piuttosto differenziate.Hanno quindi rendimenti diversi e questo è un dato og-gettivo che comporta ovviamente un’alterazione delprincipio equitativo. Il contributo che ognuno collettiva-mente può dare alla crescita, o il beneficio che implici-tamente un soggetto ricava dall’allungamento delleaspettative di vita, sono il prezzo da pagare in terminidi minore rendimento. Infine c’è un terzo aspetto, che credo in questi anni siastato particolarmente considerato. Quello dell’equilibriofinanziario, visto sotto due profili: l’equilibrio finanziariodei conti della previdenza e l’equilibrio finanziario chia-mato, in gergo, sostenibilità finanziaria, ovvero quellacondizione che nel lungo periodo pone un sistema con-

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tributivo in grado di garantire che la quota della spesapensionistica rapportata al PIL rimanga sostanzialmentecostante, fissa e stabile.Ciò, innegabilmente, produce un primo aspetto che vaattentamente ponderato. Se la quota di spesa pensioni-stica - quindi la quota dei redditi che va a persone oltrecerte soglie di età - rimane costante rispetto al redditocomplessivo, vuol dire che il reddito complessivo è ri-partito per due quote che rimangono sostanzialmenteuguali nel tempo. Se numericamente il numero di coloroche beneficiano della prestazione pensionistica rispettoal numero di coloro che beneficiano di reddito acquisitoin età attiva, invece varia sensibilmente, è allora chiaroche il reddito pro capite ne risente in termini sostanziali.Il reddito pro capite di coloro che restano in età attivapuò avere una crescita non inflattiva commisurata alladinamica della produttività ma coloro che invece indiret-tamente prelevano da quel reddito per averne una quotacostante – come nel caso dei pensionati - se aumentanonumericamente, avranno inevitabilmente un reddito procapite più basso, non vuol dire che diminuisce ma checresce relativamente meno.Questo è un problema fondamentale che, certamente,

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si gioca sulle quote per come le calcoliamo ora. Se nellanatura di una demografia che prolunga la vita mediadelle persone in maniera piuttosto sensibile, negli ultimianni ci sono stati degli allungamenti di due anni dellesperanze di vita ogni dieci anni, siamo in presenza diuna modifica strutturale importante. Forse sarebbequindi opportuno cominciare anche a riconsiderare lavalidità in assoluto di questi parametri e vedere se lequote non debbano essere invece calcolate diversa-mente.Noi in Italia abbiamo usato, con la legge 335/95, iltasso di crescita - per la verità una misura che è la me-dia geometrica quinquennale del tasso di crescita no-minale del PIL - per ottenere il tasso di capitalizzazionedel montante contributivo. L’analogia tra una dinamica del PIL e una dinamica dellebasi contributive di una platea così ampia come quellasoggetta a prelievo contributivo in Italia, non prevedegrandissimi scostamenti, quindi anche con una quotadel reddito da lavoro dipendente che in questi annicome sapete ha rallentato rispetto al reddito comples-sivo, ci può essere una buona compensazione che nonproduce rivoluzioni sul sistema.

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Un secondo aspetto che è stato già indicato da chi mi hapreceduto, è quello relativo al tasso di sconto dell’1,5%che fu introdotto nella fase di applicazione del sistemacontributivo per una ragione che rispondeva ad una ri-chiesta fatta dalle rappresentanze dei lavoratori. Ovveroquella di non rischiare di avere un primo stadio di cal-colo della pensione, immediatamente successivo all’in-terruzione del rapporto lavorativo, che scontasse in ter-mini di tasso di sostituzione un differenziale troppo alto. Essendo queste scelte collettive, non ritengo ci sia nullada eccepire nel fatto che siano stati i rappresentanti deilavoratori a porre questo tipo di problema, che è moltoserio. Questo significa semplicemente fare una scelta.Non è una scelta che produce alcuno squilibrio, masemplicemente una scelta per la quale il profilo dell’an-damento della prestazione previdenziale percepitatende a crescere significativamente all’inizio per poifarlo in maniera molto più contenuta. Avessimo inveceadottato un criterio di indicizzazione “ex post” alla cre-scita nominale del PIL avremmo avuto un forte abbas-samento della prima pensione e successivamente unadinamica più accentuata sulla crescita del reddito dapensione.

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Sono due modi di pensare alla protezione che in termini“welfaristici” possono essere valutati. Il rischio di un pro-lungamento significativo della vita, con un sistema di in-dicizzazione solo ai prezzi, può produrre effetti di red-dito relativo molto importanti negli anni sopra gli ot-tanta. Col rischio di avere una minore protezione, unaminore disponibilità di reddito proprio quando per ra-gioni fisiche sarebbe invece necessaria maggiore coper-tura. Questo è però un discorso più complesso che nonè legato solo al reddito individuale in forma monetaria,ma a tutta una serie di altre questioni.Infine, l’ultima questione è proprio quella della revisionedecennale dei coefficienti, con una procedura che po-tremmo definire di tipo concertato. Sul fatto che debbaessere concertato o meno non esprimo un giudizio chelascio invece alle parti sociali. Sulla durata decennale,invece, le critiche sono sempre state molto forti e a mioavviso anche ragionevoli. Il professor Giuseppe Alvarofaceva bene l’esempio dei gemelli. Certo, con una revi-sione su base decennale, il rischio che il prolungamentodi un anno della vita attiva desse luogo al paradosso diuna pensione più bassa rispetto a quella che si sarebbeavuta solo l’anno prima, era altamente probabile.

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È chiaro che quando si fa una revisione decennale è altoil rischio di una perdita del valore della pensione vicinaal 7% nel caso del rinnovo dei coefficienti 2005 sul1995, rispetto alla prestazioni di chi è andato invece inpensione nel 2004. Con il rinnovo triennale questa distorsione è pratica-mente scongiurata. Quindi questo problema di un impli-cito incentivo ad andare in pensione l’anno precedentealla data di aggiornamento dei coefficienti c’era effetti-vamente ed è stata appunto una delle critiche fonda-mentali alla revisione decennale. Oggi è molto ridimen-sionato con una procedura che si attua ogni tre annidando luogo a differenze indubbiamente più contenute.Questo è quanto ha introdotto la norma che ha attuatoil protocollo con la legge 247 del 2007 ai commi 14 e16.Arrivo all’ultima parte, quella che in un certo sensoprende spunto dagli altri commi, il 12 e il 13, dove siparla della Commissione per le modifiche dei criteri dicalcolo dei coefficienti. Il punto è delicato perché talecommissione avrebbe già dovuto essere nominata. Il rin-novo dei coefficienti è infatti previsto per il 2010 e icompiti assegnati a questa organismo sono molto rile-

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vanti. Nel documento che era stato prodotto dal Nucleodi Valutazione della spesa previdenziale per avallare larevisione dei coefficienti, si era messo in luce che neiprimi dieci anni - dal 1995 al 2005 - il tasso di crescitamedio del PIL era circa dell’1,5%, quindi abbastanzacoerente rispetto al tasso di sconto che si era adottato.Quindi, pur in presenza di un tasso di crescita moltocontenuto nel primo quinquennio del 2005, tutto som-mato nel decennio quell’1,5% sembrava ancora tenere.E questa potrebbe essere una logica di verifica dell’ef-fetto delle variabili macro-economiche. Quelle demo-grafiche, invece, sono legate agli adeguamenti che sifanno nelle tavole di mortalità e ai relativi valori delleprobabilità di sopravvivenza che, in effetti, per la coe-renza del sistema contributivo devono essere incorporatinella formula e sono quelli che determinano le varia-zioni significative del valore.C’è una seconda questione legata invece ai settori di at-tività. Il compito assegnato a questa Commissione, unavolta insediata, è quello di fare anche una verifica dellesopravvivenze per settore. Io vado per esempio in mon-tagna vicino ad una valle dove ci sono le cave. Vedoquelli che ci lavorano e, secondo me, hanno una spe-

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ranza di vita inferiore alla mia che lavoro in scrivania edin ambienti puliti e sicuri. Quindi ho l’impressione chequalche effetto su questo piano oggettivamente si pro-durrebbe. Però si sta facendo molta fatica nel valutarescientificamente l’incidenza del lavoro sull’aspettativa divita e per ora non si sono ancora prodotti dei veri e pro-pri documenti affidabili, che possano servire al legisla-tore.Abbiamo visto d’altra parte che cosa succede con i la-vori usuranti. È un tema sicuramente importante ma cheha bisogno di forti e sostanziali approfondimenti primadi diventare operativamente trasformabile in norme. Un’ultima cosa. Nella legge si fa riferimento all’inci-denza dei percorsi lavorativi, nei temi che vengono as-segnati alla Commissione, con particolare riferimento altema della discontinuità lavorativa e quindi al rischioche tipologie di rapporti di lavoro a basso reddito de-terminino un accumulo di credito pensionistico troppobasso e un elevato rischio di non adeguatezza della pre-stazione previdenziale.Questo è un tema molto importante, che può essere af-frontato da tanti punti di vista, Alcune categorie sonotuttora caratterizzate da un’aliquota contributiva insuf-

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ficiente. Aliquote tra il 10 e il 20%, sono aliquote cheimplicano un risparmio previdenziale insufficiente.Altra questione è relativa alla previdenza complemen-tare. Il secondo pilastro noi l’abbiamo previsto già nellalegge 335/95 come un aspetto sistemico che contribui-sce al completamento del tasso di sostituzione. Però c’èun punto che va analizzato. L’incidenza dell’assicura-zione complementare tende ad essere strettamente e po-sitivamente correlata alla relativa maggiore coperturache si ha nel primo pilastro. I lavoratori più forti hannoanche una più forte copertura complementare, mentre ilavoratori più a rischio, quelli più fragili, tendenzial-mente non hanno neanche adeguata copertura comple-mentare. Le ragioni sono ovvie. Molto spesso non c’èreddito, non c’è capienza per andare a finanziare lacontribuzione integrativa. Questo è un limite sul qualebisognerebbe lavorare, cercando di capire se alcuneleve, quelle fiscali ad esempio, possono venire in soc-corso in merito.Altra questione è quella di cercare di far valere il piùpossibile le durate contributive. Togliere quindi tutto ciòche ostacola i meccanismi di totalizzazione e possibil-mente operare in alcuni casi con meccanismi di contri-

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buzione figurativa rafforzando il diritto al credito pen-sionistico. Per esempio è molto importante che il periodocoperto dagli ammortizzatori sociali valga poi anche aifini previdenziali. Significherebbe dare credito nel pre-sente e riconoscere risparmio per il futuro.Infine, la questione della solidarietà o della redistribu-zione, per dirla più tecnicamente e asetticamente. Il pro-blema del contributivo è quello di un rapporto di tipoindividuale. Bisogna quindi inserire qualcosa ad hoc chereintroduca elementi di redistribuzione, altrimenti chi èforte nell’arco della propria vita come reddito - quindiha anche possibilità di accumulo che eccedono quelladel risparmio obbligatorio, a fini previdenziali - è ancheuno che normalmente può raggiungere una pensioneelevata, viceversa succede per gli altri perché, come di-cevo prima, c’è questo meccanismo di forte corrispetti-vità.Sull’ipotesi dell’uso della leva fiscale per rinforzare lepensioni basse bisogna stare molto attenti ai numeri,perché, se si vuole fare una cosa dignitosa, in termini ditrasferimento di risorse dal fisco, parliamo allora di al-cune decine di miliardi da prelevare per via fiscale edapportare al sistema della previdenza. Forse in un

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paese meno disamorato nel pagamento delle tasse sa-rebbe un discorso possibile ma, da noi lo vedo moltodifficoltoso. Personalmente ritengo comunque che, senzafar saltare i meccanismi del contributivo e cioè garan-tendo ciò che il contributivo sul piano teorico assicura intermini di sostenibilità, qualche elemento di redistribu-zione si dovrebbe inserire.Io avevo predisposto, tempo fa, una simulazione con unmodello Inps che dava dei risultati abbastanza interes-santi. Sostanzialmente avevamo preso una quota del33% del contributo - non ricordo se avevamo messo il25-26% in modo commisurato al reddito - utilizzandolacome si fa adesso con tutto il 33% e il restante l’avevamoinvece accreditato, sempre con il meccanismo puro delcontributivo, ma con riferimento al reddito medio. È unmeccanismo che salvaguarda tutti i principi di coerenzadel sistema contributivo in termini macro e che però hal’effetto di tirare su le pensioni più basse e di tirare unpochino giù in termini di tassi di sostituzione le pensioniun po’ alte. Proprio quel criterio redistributivi che dicevodi inserire.Voglio dire, semplicemente per un contributo alla rifles-sione, che quel 60% di rapporto tra ultima retribuzione

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e prestazione previdenziale che invece è indicativa-mente assegnato come obiettivo da raggiungere allacommissione, essendo anche preceduto da una frase incui si parla di politiche attive del lavoro, significa unacosa molto più complessa ed articolata dei coefficienti diper sé. Immaginare che oggi il 60% di tasso di sostitu-zione diventi un punto irrinunciabile, oltre ad esserecontraddittorio con i principi del sistema contributivo,onestamente credo sia altamente irrealistico e, per que-sto, credo sia meglio non prendere in giro nessuno edaffrontare invece il problema con serietà.

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Q uello che mi accingo a fare non è ovvia-mente un intervento tecnico, non ne avrei lenecessarie competenze e comunque il mio

obiettivo è un altro. Voglio però prima di tutto ringra-ziare Domenico Proietti per avermi invitato visto chequando si discute di questi temi non è così usuale invi-tare le rappresentanze giovanili.Il mio ruolo di portavoce del “Forum dei Giovani” mipermette subito di ricordare che molte rappresentanzesindacali fanno già oggi parte di questa piattaforma cheabbiamo fondato cinque anni fa e che oggi legittima-mente rappresenta i giovani italiani nel nostro paese ein Europa. L’obiettivo di questo mio intervento non èquindi quello di delegittimare il lavoro dei sindacati masemmai quello di fornire qualche riflessione e qualche

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stimolo ulteriore su un tema che ci è particolarmentecaro, come giovani e come futuri pensionati. Il lavoro del Forum sin da quando è nato, è stato un la-voro prevalentemente di lobby - nel senso positivo deltermine – ricordando che questo è un Paese che ha sem-pre avuto un rapporto conflittuale con le giovani gene-razioni. E anche su questi temi, come su molti altri, lastoria del nostro Paese ha sempre visto una scarsa rap-presentatività delle giovani generazioni ai tavoli deci-sionali.Capita spesso che quando si parla di pensioni si tiranoin ballo i giovani senza renderli realmente partecipi.Proprio sul tema dei coefficienti di trasformazione,tanto quelli a favore della revisione, tanto quelli con-trari, hanno spesso argomentato la loro posizione tec-nica e politica in tema sostenendo che fosse a favoredei giovani. Non entro nel merito su chi abbia ragioneo meno, non è questo lo scopo del mio intervento, mavorrei soltanto sposare le parole del professor De Vin-centi e ricordare che, effettivamente, c’è bisogno so-prattutto di comunicazione e di mettere da parte gliobiettivi politici, pur legittimi, per il bene complessivodi questo Paese.

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Ogni qualvolta si compie un’azione che andrà ad averein futuro delle forti ripercussioni sui giovani si fa leva sulfatto che l’universo giovanile oggi è estremamente fram-mentato e male fa chi vuole invece rappresentarlo comeun blocco monolitico. Sicuramente non aiuta il fatto chele nuove generazioni siano spesso disinteressate a certequestioni. Il nostro impegno, quello del Forum che oggirappresento, è però proprio orientato a dare una svoltaa questa situazione. Stiamo infatti mettendo in piedi unacampagna di informazione sulla previdenza comple-mentare che possa raggiungere ragazzi di ogni genere.Le difficoltà che questa campagna incontra sono peròla riprova che probabilmente serve un linguaggio di-verso, maggiormente accessibile, per parlare di temicomplessi come quello che oggi trattiamo. Però al tempostesso serve anche rendersi conto che oggi, in un sistemacome quello che viviamo, un giovane ha spesso mille al-tre priorità. È stato giustamente detto dalla professoressa Forneroche i due pilastri, quello della previdenza pubblica equello della previdenza complementare, devono cam-minare di pari passo. Ebbene, facendo questa campa-gna sulla previdenza, andando a parlare con i giovani,

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la critica che viene sollevata è proprio questa. Difficileparlare di previdenza complementare stante le disponi-bilità economiche della platea, lo stipendio mediamentepercepito da ragazzi di neanche trent’anni, i contrattiprecari cui normalmente sono soggetti. Se pensiamoche il giovane oggi entra mediamente nel mercato dellavoro in maniera flessibile, è evidente che la retribu-zione venga impegnata soprattutto in necessità qualil’affitto, o altre priorità che vengono prima rispetto allaprevidenza complementare, vista invece come una cosamolto lontana e sulla quale, comunque, si può atten-dere.Questo per dire che quando si parla di coefficienti ditrasformazione di previdenza, penso si debba poi af-frontare un discorso più ampio che investe il welfarepiù complessivamente e che vada a coinvolgere tuttiquei sistemi che possano dare garanzie ed opportunitàdi investimento al giovane. Aspetti che in questo paesemancano e faccio qui degli esempi. Un giovane che vo-glia accedere ad un credito per i propri studi o per met-tere in piedi una propria impresa, ha ancora pochepossibilità di rischiare le proprie capacità. Dobbiamoimmaginare un sistema che permetta a qualsiasi gio-

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vane, da qualsiasi famiglia egli provenga, di poter af-frontare il rischio d’imprenditorialità nel campo dellostudio, dell’impresa ed in quello lavorativo in genere.Un sistema che dia uguali opportunità in base alle fa-miglie di provenienza.Questo credo sia uno dei grandi problemi del nostroPaese. Lo conferma il fatto che vari studi indicano comeil passaggio da un ceto sociale ad un altro sia estrema-mente difficile. La mobilità sociale in Italia è quasi ine-sistente e rimane quasi sempre ancorata alla famigliad’origine. Quando si tratta di questi argomenti credo valga quindila pena di trattare del “sistema Paese” nella sua com-plessità. Mi preme dire per ultimo, che spesso è defici-tario il rapporto tra tecnici, cioè tra chi studia la materia,e chi ha finalità di carattere politico. Il sistema di discus-sione in Italia non funziona perché gli interessi sonocompletamente differenti. Il mio discorso intende quiporre due domande: Com’è possibile pensare ad unariforma della previdenza che punti a tutelare le personeche andranno in pensione fra trent’anni se la politicanon è lungimirante, se la politica ha un interesse ridottoad una visione da qui a tre o quattro anni? Se gli inte-

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ressi reali cui dover rispondere sono di breve durata èevidente che qualsiasi riforma a lungo raggio verrà pen-sata in base a questi interessi. È evidente che un sistema politico che abbia come pro-pria scadenza quella elettorale, crea un forte attrito, oconflitto d’interesse, tra politica lungimirante e scadenzaelettorale molto ravvicinata. Non ci sono sistemi migliori,almeno non ne abbiamo trovati, però è chiaramente unpunto su cui riflettere.Inoltre, in un quadro demografico in cui l’Italia nonfa figli ed in cui è evidente che il peso politico nume-rico delle generazioni più giovani è decisamente infe-riore rispetto alle altre generazioni - stante il fatto chevi è anche una maggiore cifra di astensionismo tra legenerazioni giovani – il mondo giovanile sconta an-che un peso politico minore. Così, è evidente che legiovani generazioni siano portatrici di interessi di fu-turo ma è altrettanto evidente che nella contrattazionepolitica il peso specifico degli interessi non sia ugual-mente bilanciato. La mia domanda è: Ha senso par-lare di una rappresentatività dei giovani oggi? Chirappresenta i giovani oggi, le loro istanze, ovvero unfuturo a più lungo termine?

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Il grande tema io credo sia questo e alla base di questoc’è tutto un ulteriore grande tema che è quello della se-lezione della classe dirigente. Il nostro paese ha un si-stema di selezione della classe dirigente che non hanulla a che vedere con la meritocrazia pura, con unaselezione naturale figlia delle capacità. Non voglio es-sere per forza uno che parla di merito perché anche quidipende poi da dove si parta, da quali siano state lecondizioni di partenza. È facile parlare di merito ma unragazzo africano una volta mi diceva: “Qualsiasi cosatu farai, qualsiasi tuo passo, per arrivare ad avvicinarmia te io dovrò farne dieci di passi, potrò avere tutti i ma-ster di questo mondo, ma partirò da molto più indietro”.È però evidente che un sistema che privilegia la coopta-zione in politica, privilegia un certo tipo di interessi esono convinto che non siano quelli che fanno il bene delnostro Paese, anzi, forse sono quegli stessi interessi chefanno disamorare e scoraggiare tantissimi giovani ca-paci e preparati. Assieme a questo tema che oggi trattiamo, quindi, credoci sia da discutere su come coinvolgere, come fare per-ché i giovani che possano ed abbiano la capacità diprendere in mano questo prezioso lavoro che voi avete

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fatto, possano anche avere parola e capacità per con-tinuarlo. Altrimenti credo che tra venti anni ci troveremoa parlare di un sistema che continua ad avere gli stessidifetti ed, anzi, che probabilmente avrà difetti ancorapeggiori.

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I l sistema contributivo è legato totalmente ai coeffi-cienti di trasformazione e viceversa. È però, franca-mente, un sistema che noi abbiamo sì fatto nascere

ma è ancora lì nella culla, non ha prodotto alcun effetto.Stiamo quindi già parlando di modificare un qualcosache, di fatto, non esiste ancora del tutto.Prima di porre l’attenzione sul tema specifico faccio unaconsiderazione. Noi ci troviamo in una situazione com-plessiva di welfare che, alla fine di ogni anno, prevedeche lo Stato debba versare una quantità tra i 55 e i 60miliardi di euro per fare in modo che quella che noichiamiamo previdenza in senso generale, ma che poiha al suo interno una commistione di previdenza e as-sistenza, possa andare in pareggio. Quindi, tra i contri-buti che entrano e le prestazioni che escono bisogna ag-

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giungere circa 60 miliardi – che sono 4 punti di PIL – acarico della fiscalità generale. Altro argomento che intendo affrontare è quello dell’in-vecchiamento della popolazione. Non possiamo piùpensare che si possa arrivare ad un forte incrementodemografico in tempi brevi. Siamo in un momento dellanostra evoluzione caratterizzato da un calo demogra-fico che non è dovuto a crisi, carestie o guerre, comesuccesso in passato, ma è piuttosto una questione sin-tomaticamente legata all’evoluzione della nostra so-cietà. Grosso modo, quindi, tra poco meno di tren-t’anni, proprio quando la nostra curva della spesa pre-videnziale esplica il massimo dell’effetto, passando dacirca 13,8% al 15,8% di incidenza della spesa pensio-nistica sul PIL, ci troveremo in una situazione in cui i co-siddetti ultra 65enni peseranno sul complessivo dellenostre attività quasi per il 40%, per poi passare al 50%nel 2045. Meno giovani che contribuiranno e più per-sone che, fortunatamente, allungheranno la loro pro-spettiva media di vita. Le ultime statistiche ci dicono chela vita media si incrementa di due mesi ogni anno. Poi-ché il nostro è un sistema a ripartizione, cioè si paganole pensioni con i contributi che vengono pagati dagli

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attivi, dovremo per forza di cose fare i conti con questasituazione.Questi sono tutti ingredienti con i quali dobbiamo fare iconti prima di parlare di sistemi previdenziali, perchéaltrimenti dimostriamo di non avere molto a cuore i no-stri giovani, i nostri figli. Nella commissione che ho presieduto, e di cui ha fattoparte anche la professoressa Fornero, abbiamo dettoche quella fatta nel ’95 è stata una riforma orientata so-prattutto al futuro.Parlare di coefficienti significa appunto parlare di si-stema contributivo. Il professor De Vincenti ha fatto unabellissima analisi con la quale concordo quasi comple-tamente. Già nel 1994 analizzammo alcune di questeproblematiche e istituimmo la cosiddetta seconda com-missione Castellino. È vero che la commissione non èuscita varando il sistema contributivo ma la relazione fi-nale conteneva già queste considerazioni. E ciò avvennequasi dieci anni dopo la prima commissione Castellinoche, più o meno, nel 1984 diceva le stesse cose.In quel contesto avevamo quindi creato le premesse perelaborare questo sistema e avevamo già rilevato l’ini-quità del sistema retributivo, innanzitutto perché dava

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dei rendimenti totalmente scoordinati: lavoratori auto-nomi che nei primi venti anni dichiaravano magari diecie successivamente negli ultimi dieci anni dichiaravanocinquanta ottenevano una pensione legata a quelle ul-time retribuzioni, sproporzionate rispetto a quelle prece-denti. Mentre il lavoratore dipendente, che al massimopoteva lavorare sugli straordinari, più lavorava e piùveniva penalizzato. Se invece andava in pensione primaaveva paradossalmente un tasso di rendimento comun-que elevato. Con la riforma Dini a 62 anni un tasso di sostituzione èdel 61,4%, lo stesso che avremmo ottenuto più o menonel 2030 con la riforma Amato la quale voleva il con-teggio di tutti i contributi per l’intera vita lavorativa, taleconteggio risulta leggermente più alto se andiamo aconsiderare quello che effettivamente viene percepito inbusta paga semplicemente perché il pensionato nonpaga i contributi previdenziali, ma è fondamentale cheil tasso di interesse che lo Stato implicitamente dà siauguale. Quindi, il sistema contributivo inevitabilmente per motividi trasparenza e di equità è il sistema per eccellenza. Se poi vogliamo rispondere ad altre esigenze di natura

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sociale dobbiamo allora intervenire con la fiscalità ge-nerale. Senza confusioni tra previdenza ed assistenza.Su quest’ultimo aspetto dovremmo farci anche un esamedi coscienza perché su 6 milioni di pensioni di vecchiaiache il 51% di queste siano integrate al minimo significache la stragrande maggioranza degli italiani arriva a65 anni senza aver fatto neanche quindici anni di mi-nimo contributivo. Il welfare deve essere certamente solidale, ma anche re-sponsabile.Adesso voglio dire rapidamente due cose riguardo alsistema contributivo. La prima riguarda il tasso di ren-dimento. Voi sapete che la formula del sistema contri-butivo è la sommatoria, per l’intero periodo della vitalavorativa, dei contributi versati, capitalizzati ad untasso di interesse che lo Stato riconosce pari alla mediageometrica del PIL quinquennale, degli ultimi cinqueanni. La media quinquennale del Pil, se la vogliamo fare peril periodo 1995-2007, si è mossa al 4,83% di interessenetto accreditato su tutti i contributi. È quanto di più altoci sia in tutti i sistemi finanziari. A parte che batte ancheil pur generoso rendimento medio annuo lordo dei Bot,

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che è stato del 5,34 ma che, sottratto il 12,5% di tassa-zione, fa 4,5. Ma supera anche gran parte delle altreforme di investimento. Voi direte che però, tutto sommato, qualcuno ha reso dipiù. In realtà, nel 2007, 100 mila euro investiti nellaprevidenza avrebbero generato 184 mila euro capita-lizzati al tasso quinquennale del Pil. Se li avessimo inve-stiti in titoli di Stato avrebbero fruttato 196 mila euro,però avremmo dovuto togliere – come detto - il 12,5%in tassazione. Se li avessimo investiti invece nell’indiceComit - che è l’indice di borsa - avremmo fatto 263 milaeuro, un guadagno che oggi però si riduce. L’indice Co-mit dall’inizio dell’anno ha perduto circa il 22%, per cuisiamo leggermente sopra al risparmio previdenziale maveramente di poco e con un rischio indubbiamente mag-giore. Investire in azioni è infatti molto più rischioso cheinvestire in un semplice tasso garantito dallo Stato. Inol-tre l’investimento azionario non è detto che si consolidinel tempo mentre il Pil quinquennale ogni anno - la me-dia geometrica lo dice - si consolida. Quindi il sistemagarantisce un rendimento certo, un rendimento tra i piùalti e un rendimento che si consolida nel tempo. La conclusione di questo punto intende dimostrare che

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abbiamo certamente un criterio di calcolo molto favore-vole e che da quando vige, cioè dal 1996 ad oggi, habattuto titoli di stato, borsa e anche altri strumenti finan-ziari.Una volta ottenuto il montante entrano poi in gioco i co-efficienti di trasformazione, i quali ci dicono, in funzionedell’età al momento del pensionamento, la rata previ-denziale spettante. Per la situazione del paese e del sistema avevamo, sottoquesto aspetto, dei grossi problemi in quanto la revi-sione decennale creava, da una revisione alla succes-siva, degli scaloni enormi e disincentivava il permanereal lavoro. L’invito è pertanto quello di revisionarli con cadenza piùravvicinata ed anche di lasciarli fuori dalla politica, affi-dandoli ad una commissione di tecnici come si è fatto inSvezia, mettendo al riparo la questione coefficienti dallelogiche politiche ed elettorali. Se poi la revisione venissefatta annualmente sarebbe sicuramente un ulteriore bene-ficio per tutti. Oggi abbiamo finalmente una rivalutazionestabilita ogni tre anni ed è già un passo in avanti. Volevo far notare una cosa relativa al confronto tra co-efficienti pubblici e privati. Se andiamo a raffrontare le

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varie tabelle utilizzate a tutt’oggi nel mondo dalle com-pagnie di assicurazione per fare i loro calcoli e per de-finire le rendite - prevalentemente l’IPS55 - vediamo chestando sull’IPS55 standard e non rettificata da alcunecompagnie, con previsione di una pensione reversibileal 60% come nel sistema pubblico, abbiamo coefficientipubblici che sono sensibilmente più generosi, con un dif-ferenziale che va dal 13 al 17%. Se poi andiamo adapplicare i cosiddetti IPS55 rettificati da alcune compa-gnie, questo differenziale arriva anche ad oltre il 20%.Le poche compagnie che usano l’RG48 sono un po’ piùgenerose ma lo sono più o meno per la metà e quindi ildifferenziale sarebbe sempre a favore del coefficientepubblico per circa un 10%.Approfondiamo pure il tema dei coefficienti ma due con-cetti devono essere chiari. Primo, il tasso di capitalizza-zione che definisce il montante è tra i più stabili e più ge-nerosi del sistema finanziario nel suo complesso. Se-condo, i coefficienti di trasformazione rispetto ad altri si-stemi e a sistemi privati, sono sicuramente più generosi.Direi che sulla questione dell’età posso sorvolare, fareiinvece semplicemente un riferimento alla contribuzionefigurativa.

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Non ci dobbiamo prendere in giro ma dire le cose comestanno. Se supponiamo che la contribuzione figurativa,per cercare di arrivare ad un certo livello di prestazioni,è pari a 5 o 6 anni in un percorso lavorativo, ci siamopresi in giro. Nel senso che l’equivalenza attuariale nonc’è più. È semplicemente un abbuono sul contributivo,che diventa quasi retributivo perchè cinque anni su 35vogliono dire una parte significativa di prestazioni.Cerchiamo, quindi, di fare in modo di rafforzare i mecca-nismi ma di non accelerare troppo sulla parte delle contri-buzioni figurative perché oggi, considerando 100 il disa-vanzo dell’Inps, quasi il 60% è imputabile a contributi chenon sono stati mai versati ma che generano, invece, pre-stazioni. Quindi costano due volte allo Stato. È chiaro che,in caso di malattia, va riconosciuto qualcosa, e così in casodi cassa integrazione, ma dobbiamo disegnare un quadrodi sistema che possa salvaguardare il tutto. Solo così pos-siamo proteggere le giovani generazioni. Ci sarebbero altre considerazioni da fare su questo si-stema, mi auguro invece che ci sia un’accelerazionenella sua piena applicazione così da metterci nelle con-dizioni di provarlo sul campo, cominciando a valutarneempiricamente gli effetti.

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A bbiamo voluto promuovere un seminario distudio sui coefficienti di trasformazione delsistema pensionistico, chiamando a discu-

tere i maggiori studiosi italiani della materia che rin-grazio per aver accolto il nostro invito, perché è unargomento di stretta attualità.La legge 247/07 prevede l’istituzione di una commis-sione paritaria tra Governo e parti sociali al fine didefinire in maniera più efficace i criteri che determi-nano i coefficienti di trasformazione.Il sistema attuale, infatti, disincentiva implicitamentela permanenza al lavoro nei periodi prossimi alla re-visione dei coefficienti. Lavoratori della stessa età anagrafica, come ricor-dava bene il professor Alvaro, possono trovarsi a per-

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cepire trattamenti pensionistici sensibilmente differentia seconda del pensionamento prima o dopo l’entratain vigore dei nuovi coefficienti. Producendo in talmodo l’assurdo risultato di svantaggiare e penaliz-zare chi ha compiuto la scelta di rimanere al lavororimandando il pensionamento oltre l’età legale.Proprio per ovviare a questa situazione, che rischiadi produrre effetti opposti a quelli che si intende per-seguire, la UIL ritiene più utile ragionare su coefficientidi trasformazione basati su classi d’età e sulla spe-ranza di vita che a quella determinata classe è statastatisticamente assegnata. In tal modo il lavoratore sa-rebbe libero di decidere, senza condizionamenti, lapermanenza al lavoro oltre l’età legale fissata, a van-taggio suo e del sistema previdenziale in generale.A nostro avviso sarebbe inoltre utile tenere in maggiorconto l’evoluzione delle dinamiche del mercato del la-voro italiano, che vede una presenza della forza la-voro straniera sempre più consistente e obiettivi dipartecipazione al lavoro delle donne più ampi e mag-giormente in linea con quanto stabilito nell’agenda diLisbona. Tutti temi che, in un modo o nell’altro, pos-sono incidere sui criteri alla base dei coefficienti di

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trasformazione, modificando le elaborazioni attual-mente disponibili.Proprio per approfondire queste tematiche, miglio-rando il sistema introdotto dalla legge Dini senza perquesto stravolgerlo, la UIL chiede l’istituzione dellaCommissione paritetica prima del 2010, data dallaquale – in assenza di diverse proposte – entrerannoin vigore i coefficienti di trasformazioni previsti dalla247/07.Nel ragionare poi – come abbiamo appunto fattooggi – di come agiscono i coefficienti di trasforma-zione nel sistema contributivo, e di come questi pos-sano essere aggiornati ad un mondo in continua evo-luzione, credo che bisognerebbe innanzitutto partireda dati certi sui quali tutti possiamo concordare. Come UIL lo chiediamo da tempo. Facciamo chiarezza sui numeri reali della previdenzae solo allora discutiamo di come intervenire. Separiamo una volta per tutte e chiaramente la previ-denza dall’assistenza, depuriamo la spesa per IVS daciò che previdenza non è, e avremo un quadro piùnitido che può permetterci un ragionamento sereno dicome si possa agire sul sistema, nel rispetto degli

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equilibri economici ma anche di quelli sociali che –come ci ricorda la nostra Costituzione – non possiamodimenticare.La discussione politica sul sistema previdenziale – ul-timo caso il Libro verde del Ministero del Lavoro – de-scrive invece uno scenario di spesa pubblica all’in-terno del quale la spesa previdenziale sembra essereancora più alta rispetto a quella registrata negli altripaesi dell’Europa a 15. Si tratta di una rappresentazione fuorviante che nonfotografa fedelmente la reale situazione del sistemadi welfare italiano, tanto più se paragonato a quellodegli altri Paesi europei. Credo vada doverosamente ricordato che già nel1995 l’Italia ha dato vita ad una riforma coraggiosache molti dei Paesi europei, ai quali anche gli inter-venti che mi hanno preceduto si riferivano, hannopreso ad esempio per ristrutturare il proprio sistema. Una riforma, attuata con la legge 335/95 che ha per-messo di raggiungere un sostanziale equilibrio econo-mico della previdenza, come ricordato recentementeanche dal Governatore della Banca d’Italia MarioDraghi.

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Il problema, come spesso abbiamo denunciato, è ap-punto la poca chiarezza nei conti. Il fatto che nonsempre risulta chiaro cosa viene classificato comespesa previdenziale.Il sistema italiano presenta infatti anomalie e peculia-rità che non ne permettono una pronta comparazionecol panorama UE per diversi motivi.La spesa che il più delle volte si prende in considera-zione – devo dire anche nel recente Libro verde – nonè quindi una spesa puramente previdenziale, comepiù volte si tende a far credere, ma contempla vociche non sono legate strettamente alla contribuzione –come ad esempio l’invalidità – e che non possono es-sere quindi prese in considerazione quando si valutala tenuta e l’equilibrio del sistema previdenziale. Sitratta infatti di voci più che altro assistenziali di cui èla collettività e lo Stato, nella funzione sociale che na-turalmente ricopre, a doversene far carico.Non solo, va inoltre segnalato che nel confronto conla spesa degli altri paesi europei l’Italia sconta l’im-propria inclusione nella spesa pensionistica spessoanche del TFR o TFS per i lavoratori del pubblico im-piego (che non è prestazione previdenziale ma, se-

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condo l’art.2120 del codice civile, è salario differitodel lavoratore).Oltre a ciò va poi segnalata la difficoltà oggettiva dicomparazione con la situazione europea dovuta, oltreche alle diverse classificazioni, ad un differente re-gime di tassazione sui redditi da pensione. È infatti ovvio che nel valutare la spesa previdenzialeandrebbe tenuto conto delle quote che lo Stato recu-pera dall’imposizione fiscale sui redditi da pensioneche eroga.In Italia, a differenza che in altri Paesi, i redditi dapensione sono assoggettati al medesimo prelievo deiredditi da lavoro dipendente.La trattenuta fiscale sui trattamenti pensionistici italianiè pari al 2,4% del PIL ed è quindi mediamente supe-riore a quella degli altri Paesi. In sostanza – quindi -l’eterogeneità e la disomogeneità con la quale in sedeeuropea vengono confrontati i dati macroeconomicidei diversi paesi, porta a sovrastimare la spesa pre-videnziale italiana che da noi sconta peculiarità im-propriamente inserite nella valutazione complessiva. Un esempio ulteriore è, ad esempio, quello delle pen-sioni di anzianità che in Italia rappresentano spesso

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un’uscita anticipata dal mercato del lavoro e sonocontabilizzate come spesa previdenziale. In altri Paesi questo strumento non esiste ma l’uscitaanticipata dal mercato del lavoro è ugualmente pre-sente attraverso indennità specifiche di disoccupa-zione che spesso non rientrano nella classificazionedi spesa pensionistica ma, piuttosto, in un interventoassistenziale.È il caso anche dei pensionamenti anticipati chespesso in Italia hanno rappresentato una variante de-gli ammortizzatori sociali e che non trovano quindiriscontro in un rapporto trasparente tra contribuzionee prestazione, uscendo quindi dal puro ambito previ-denziale.A parere della UIL, quindi, la legge Dini ed il passag-gio dal sistema retributivo a quello contributivo ha giàcreato un sostanziale equilibrio nel sistema.Un sistema che è vero quindi che necessita di una re-visione dei coefficienti di trasformazione – come ri-cordato anche da chi oggi è intervenuto – ma è al-trettanto vero che per la revisione degli stessi la legge247/07 prevede l’istituzione di una commissione pa-ritetica Governo/Parti Sociali che individui in modo

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condiviso i criteri che stanno alla base di tale revi-sione.La UIL con questo seminario chiede quindi che vengaal più presto data attuazione a questa disposizione dilegge così da permetterci di ragionare sui numerireali, senza posizioni ideologiche ma liberi dagli al-larmismi e dalle mistificazioni cui troppo spesso ab-biamo assistito. La Commissione, se verrà messa nella condizione dipoter lavorare, potrà certamente dare il suo impor-tante contributo al funzionamento di un pilastro pub-blico attento ad evitare squilibri, sia economici che altempo stesso sociali.

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Gli Autori

Romano BELLISSIMA Segretario Generale della UIL Pensionati

Giuseppe ALVAROUniversità degli Studi di Roma “La Sapienza”

Claudio DE VINCENTIUniversità degli Studi di Roma “La Sapienza”

Elsa FORNEROUniversità degli Studi di Torino

Sandro GRONCHIUniversità degli Studi di Roma “La Sapienza”

Salvatore NISTICÒUniversità degli Studi di Cassino

Gianni GEROLDIUniversità degli Studi di Parma

Cristian CARRARAPortavoce del Forum Nazionale dei Giovani

Alberto BRAMBILLANucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale

Domenico PROIETTISegretario Confederale della UIL

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2009

presso la Tipolitografia CSR

Via di Pietralata, 157 - 00158 Roma

Tel. 06.4182113 - Fax 06.4506671

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I coefficienti di trasformazione sono il cuore del si-stema contributivo introdotto in Italia con la riformaprevidenziale del 1995. Sul tema dei coefficienti èoggi aperto un dibattito in riferimento ai criteri e alleipotesi che sono alla base della loro definizione. I con-tributi raccolti in questo volume approfondiscono tuttii termini di questa complessa materia e si pongonol’obiettivo di coniugare l’equilibrio economico del si-stema previdenziale italiano con la necessità di unasua altrettanto importante sostenibilità sociale.