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IL CRISTO RISORTO Di VASIA Pasqua 1914 : uscita La storia della statua del Cristo risorto di Vasia che è anche e soprattutto la nostra storia, inizia il 9 febbraio del 1709 quando: “Venne nei nostri paesi un eccessivo freddo e discese a nove gradi sotto il gelo. Perirono tra noi non solo tutti gli agrumi e le viti, ma anche quasi generalmente gli olivi, che si dovettero recidere per farne tanto legname da abbruciare. Il freddo che faceva, pareva quasi intollerabile. Fu scritto da Genova che il vino si agghiacciava nei bicchieri e quel che è più l’orina nel vaso notturno si trovò agghiacciata. Da Torino si seppe che s’agghiacciò l’acqua vite di tre cotte e si spezzò il vaso dove era rinchiusa. Nell’Italia e nella Francia sono morte persone dal puro freddo. Nelle nostre vallate non s’ammalarono gran gente, ma in Genova in un mese e mezzo 1

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IL CRISTO RISORTO

IL CRISTO RISORTO

Di VASIA

Pasqua 1914 : uscita

La storia della statua del Cristo risorto di Vasia che è anche e soprattutto la nostra storia, inizia il 9 febbraio del 1709 quando: “Venne nei nostri paesi un eccessivo freddo e discese a nove gradi sotto il gelo. Perirono tra noi non solo tutti gli agrumi e le viti, ma anche quasi generalmente gli olivi, che si dovettero recidere per farne tanto legname da abbruciare. Il freddo che faceva, pareva quasi intollerabile. Fu scritto da Genova che il vino si agghiacciava nei bicchieri e quel che è più l’orina nel vaso notturno si trovò agghiacciata.

Da Torino si seppe che s’agghiacciò l’acqua vite di tre cotte e si spezzò il vaso dove era rinchiusa. Nell’Italia e nella Francia sono morte persone dal puro freddo. Nelle nostre vallate non s’ammalarono gran gente, ma in Genova in un mese e mezzo perirono più di 4000 persone, ed essendosi a qualcheduno fatta l’anatomia vi si trovò il sangue agghiacciato. Moltissime famiglie dovettero emigrare: chi nella Provenza, chi nel vicino Piemonte. Ma la Provvidenza fece che le popolazioni rimaste trovassero per quell’anno la loro sussistenza nella vendita di quella legna che si asportavano all’estero, e che abbondanti cereali raccogliessero negli anni susseguenti sullo stesso suolo dei perduti oliveti. L’oglio prima della neve valeva L. 26 in 27 il Barile, e dopo la neve ascese sino a L. 34 e poco dopo a L. 40 in 42.” (1 barile = Kg. 60).“Con la scusa del gelo, molti oliveti allora furono tagliati e venduti per legna da ardere, perché erano talmente disprezzati che non valeva la pena di coltivarli, ma, data la miseria e la tristezza dei tempi, era preferibile fare quattrini e restringere il patrimonio agricolo. Pur tuttavia, l’olivo è cresciuto anche là dove fu tagliato e noi che viviamo tanto tempo dopo non ci accorgeremmo mai di tanto vandalismo”.

Fortunatamente nel1717 Piero Vincenzo Mela di Pantasina, reduce da Dolceacqua introdusse in Oneglia e naturalmente nella nostra vallata, il sistema del lavaggio delle sanse, che sino ad allora erano abbandonate per le strade come risulta anche dai divieti degli Statuti, col risultato che parve miracolo, di ricavare dai noccioli delle olive già torchiate ancora un cinque per cento di olio. Tra le molte persone di Vasia che in quel tragico 1709 dovettero emigrare per cercare altrove il lavoro perduto vi fu anche un giovane tredicenne: Francesco Ansaldo abitante nell’antica borgata di “Cariansaudi”.

La sua casa sorgeva quasi adiacente la possente torre di avvistamento ed a difesa del borgo che, durante le continue e temibili scorrerie saracene e più tardi barbaresche, fu in stretto contatto con la torre di Torrazza e naturalmente con quella di “Carlevui” che don Balestra erroneamente assegna alla famiglia Leone, mentre , in verità, fu sempre sotto la giurisdizione e l’amministrazione della potente famiglia Moraglia.

Risulta inspiegabile come il casato “Leone”di Vasia del quale, negli archivi parrocchiali, si trova censito unicamente un Filippo morto nel 1584, il cui patrimonio venne diviso fra le tre figlie: Maria, coniugata con Battista Ansaldi nel 1607; Giovanna, con Giuseppe Arrigo di Lazzaro nel 1605; Battistina, con Giacomo Arrigo nel 1615, ed infine il solo figlio maschio: Lorenzo, deceduto nel 1652 senza lasciare eredi con la conseguente estinzione del casato, abbia potuto dare il nome ad un’intera borgata di grande rilevanza strategica ed economica quale, in ogni tempo fu quella di”Carlevui”.

Ritornando alla torre di “Cariansaudi” si narra che nei suoi tetri, ed angusti sotterranei fossero stati rinchiusi, nei vari secoli di vita, numerosi nemici della comunità ed anche feroci banditi, i quali dopo rapidi processi venivano condannati alla pena capitale e giustiziati, mediante impiccagione, sulla contigua piazza. Il nonno Francesco Ansaldo fu il “mastro murario e capo d’opra” che nel 1631 eresse “quasi contiguo alla Parrocchiale, vago e polito oratorio pè li disciplinanti, in nova e moderna architettura”.

Il 1° di aprile di quell’anno (1709): Lunedì dell’Angelo, il nostro Francesco, come diversi altri coetanei, lasciò il suo paese promettendo all’anziano padre Lorenzo di ritornare, appena sarebbe stato possibile, per dare aiuto e sostegno ai propri familiari. A differenza di alcuni suoi conterranei che scelsero la terra di Provenza dove cercare lavoro, Francesco preferì la via del Piemonte dove riuscì, con i buoni uffici d’un lontano parente di Pantasina, a trovare un’occupazione presso il“Cementarius” (carpentiere): Lorenzo Carli, da tempo stabilitosi a Fossano. Pochissime sono le notizie in nostro possesso, ma, di sicuro sappiamo che il giovane vasiano seppe sempre portare alto il buon nome del suo paese e della propria, mai scordata famiglia.

L’anno 1731 inizia con: “Il 6 di gennaro venne gran neve che restò per un palmo e più d’altezza nelle strade e gelarono li frutti e molti alberi di olivi e limoni”. Si aggiunga a questo danno che, mediamente, si ripeteva ogni quattro anni anche, tra le provate, bisognose popolazioni autoctone a cui tutto mancava e che raramente riuscivano a soddisfare i propri vitali bisogni, i continui timori di contagi quali: peste e colera e le tragiche carestie.

Terra arida, avara, rocciosa dove cresce, tra mille difficoltà e “nel tempo che tace” il sacro albero dell’ulivo. In un memoriale conservato nell’Archivio di Stato di Torino si legge che: “l’ulivo da il suo frutto di inverno di doi in doi anni, patisce il vermo, il gelo et altri disastri, e per questo, ben spesso, la raccolta fallisce.” Ma in quel 1731 in occasione della Pasqua eccezionalmente “bassa”: il 25 di marzo, arrivò proveniente da Fossano, un giovane corriere per consegnare una missiva indirizzata al priore della Confraternita dell’Annunciazione e Concezione: Rev.do don Francesco Maria Arrigo. Detto priore riunì immediatamente il Consiglio della confraternita e lesse, con voce rotta dall’emozione il contenuto della missiva.

Il Francesco Ansaldo fu Lorenzo della borgata di “Cariansaudi” che nel lontano 1709 emigrò con altri conterranei, a causa del tragico gelo che seccò tantissimi alberi di ulivi e gettò nella miseria e nella disperazione più drammatiche quasi tutta l’intera comunità di Vasia, comunicava con immenso piacere d’aver acquisito in Fossano una statua del Cristo Risorto per farne dono al suo paese a cui mai e poi mai aveva smesso di pensare e di amare profondamente.

Il 2 di aprile di quell’anno, prima domenica dopo Pasqua, si riunì, come da statuto, l’intera confraternita per eleggere il nuovo priore. All’unanimità (cosa non rara in quei tempi!) fu eletto per l’anno 1731-1732 Pietro Francesco Martini. Nella seconda metà del mese di aprile: “Si manda a Fossano il Massaro dell’Oratorio con risposta che ben volentieri si accetta il dono offerto del Gesù Christo Risorto”. Il massaro di quell’anno era Francesco Ansaldo fu Giuseppe di “Cariansaudi” omonimo e cugino di Mastro Francesco Ansaldo fu Lorenzo di Fossano.

Attraverso l’antica “Strada del Sale” o “Marenca” che si snodava da Oneglia sino al Basso Piemonte il nostro massaro avrà certamente anticipato nel pensiero, durante il lungo percorso sino a Fossano, il momento in cui avrebbe rivisto dopo tanto tempo il cugino e l’amico della sua infanzia. Dopo una diecina di giorni ed oltre 120 chilometri di dura e pericolosa marcia arrivò finalmente a destinazione.

Ad attenderlo nella propria ampia casa nel Borgo vecchio della città era un quasi irriconoscibile Francesco il quale abbracciandolo pianse calde lacrime di sincera emozione. Al cugino ritrovato raccontò in modo dettagliato la sua intensa vita scandita da quella gran voglia di fare e di creare per sempre migliorarsi, attinente, gli confidò, il carattere del ligure autentico che non molla mai e che mai potrà scordare le proprie radici. In qualità di “Faber murarius” si era distinto nella costruzione della Chiesa della Santissima Trinità progettata dall’ architetto Francesco Gallo ed eretta tra il 1723 ed il 1728 in uno stile barocco molto raffinato.

In tale circostanza aveva conosciuto ed apprezzato il luganese Carlo Giuseppe Plura, “scultore di Sua Maestà”, noto per le statue intagliate esclusivamente su pregiato legno di tiglio (dal greco ptilon: ala, per la caratteristica brattea fogliacea che facilita la diffusione eolica dei grappoli di frutti) raffiguranti il Cristo Risorto . Quella che mastro Francesco conservava gelosamente nella sua abitazione l’aveva commissionata personalmente all’amico scultore per donarla alla Confraternita di Vasia. Il maestro luganese, inoltre, realizzò tra il 1722 ed il 1725 per la Confraternita della Pietà di Savigliano un eccezionale Cristo Risorto che nella unicità e nella sua espressività che dall’umano trascende al divino, ben raffigurava il significato della rappresentazione popolare della Resurrezione pasquale.

Nel 1736 per la Confraternita della Misericordia di Cavallermaggiore ne eseguiva altra o quanto meno nella sua bottega dove il Plura aveva certamente collaboratori specializzati per far fronte alla mole vastissima di commissioni. Analoghe opere di statue lignee del Cristo Risorto attribuite al maestro luganese sono presenti nelle Confraternite di Torino e Carignano.

Erroneamente per tanti anni si è creduto che anche a Savona esistesse una statua del Cristo Risorto attribuita al Plura ma abbiamo appurato, senza ombra di dubbio, che la suddetta statua taumaturgica è opera di un artista tedesco della Bassa Renania scolpita nel 1478 ed acquisita per l’antico oratorio di San Domenico che da quell’anno assunse la nuova intitolazione al “Cristo Risorto”.

Il massaro Francesco dimorò per alcuni giorni nell’alloggio del’omonimo cugino per imparare a smontare la statua in previsione del lungo viaggio a dorso di mulo da Fossano a Vasia e poterla in tal modo, poi, assemblare una volta giunta a destinazione.

Nei primi giorni del mese di giugno del 1731 si legge nel “Libro dei Conti” dell’Oratorio: “Si mandano a Fossano due persone con due mule per condurre quella Sacra Statua”. I due conduttori di muli altri non erano che: Filippo Martini di Paolo e Cristoforo Moraglia fu Bartolomeo. Partirono ben prima dell’alba, il 6 giugno di quell’anno con tanta voglia di riuscire pienamente nella loro importante missione, onorevole ed impegnativa certamente, eppure così tanto gravata da paure e da fondate preoccupazioni.

La popolazione, in quel tempo, oltre ad essere scossa dalle quotidiane vicissitudini della guerra era anche angustiata e perseguitata dal brigantaggio che infestava villaggi e campagne. In quegli anni “… quasi in truppa scorrono … quelli abitanti vegonsi ridotti al doloroso bivio di esporre la loro vita a repentaglio o di vedersi involate le loro sostanze …”. I più pericolosi, temutissimi banditi attivi nelle nostre vallate erano il “Trippa” ed il “Baralicche”.

Il Martini ed il Moraglia giunsero ben presto sotto l’imponente mole del castello dell’Acquarone dove dovettero farsi riconoscere dal corpo di guardia ed esibire il lascia passare concesso dall’Autorità del Mandamento di Vasia. Ottenuto il via libera si soffermarono, poco avanti, al valico di Lucinasco dove in quell’anno, demolita l’antica torre d’avvistamento, già appartenuta nel tredicesimo secolo ad una nobile famiglia di Porto Maurizio, era stata principiata la costruzione della cappella votiva oggi denominata della Madonna del Monte Acquarone o, più semplicemente, la “Cappelletta”.

La CAPPELLETTA del Monte Acquarone

Il De Moro nella sua opera “Lucinasco” così ci fa conoscere: “Il periodo di costruzione si situa probabilmente nel quinquennio 1730-1735 in quanto solo a partire dal 1732 la comunità ecclesiale di Lucinasco inizia ad eleggere, con regolare cadenza annuale, due massari per l’amministrazione dell’oratorio. Proprio nel 1735, infine, il rev.do Bartolomeo Abbo donò “due veli di seta rossa floreggiati d’intorno” da usarsi quali decorazioni il giorno della festa del Nome di Maria.

Secondo la tradizione popolare la statua marmorea della Madonna sistemata un tempo nella Cappelletta, opera dello scultore Lazzaro Acquarone, fu trasportata dalla Maddalena. Come pure per la chiesa della Maddalena, anche per la Cappelletta appare in stretta connessione con l’edificio la figura dell’eremita, singolare personaggio assai citato nelle cronache dei tempi passati e sulla cui funzione sociale probabilmente occorrerebbe indagare più a fondo.

Certo frà Domenico Stella fu eremita alla Cappelletta, ed a lui, forse, si riferisce una gustosa leggenda tuttora viva nella memoria popolare lucinaschese. Avendo una donna cercato di ucciderlo col dono di pane avvelenato, accadde invece che per una singolare combinazione il pane stesso venisse consumato da un cacciatore capitato casualmente all’eremo e rivelatosi alla fine figlio della malvagia attentatrice.

A partire dal 1738 Nicolò Baudo si votò eremita alla Cappelletta, ricoprendo talvolta la massaria e scomparendo a fine secolo, dopo aver ottenuto nel 1755 la ricostruzione della volta absidale ad opera dei massari Antonio e Guglielmo Abbo. Notevoli lavori di restauro subì la cappella nel 1816-1818 dopo le devastazioni di fine ‘700, ma più ancora nei decenni successivi per i danni provocati via via dalle intemperie. Tra gli interventi indicati ci pare utile ricordare quelli del 1842 su progetto di mastro Bartolomeo Gazzano di Pantasina e del 1852 su progetto di mastro Giuseppe Delleja.

Nel 1872 si ebbe la ricostruzione integrale della loggia, nel 1888 il riassetto generale dell’edificio (di cui il recente terremoto aveva causato il crollo della volta e di parte del muro del coro nonché “varie fessure nel volto e nei muri della loggia”), seguito da costanti interventi di restauro ultimi dei quali nel 1928-29 eseguiti dal capomastro G.B. Viani (nella circostanza vennero acquistate e sistemate nelle nicchie laterali le statue tuttora esistenti), e quelli assai recenti del 1979”

Discesero verso Lucinasco quando era ancora buio confortati, forse, dal canto nuziale dei grilli nei campi verdeggianti che da lì a poco sarebbero stati falciati, e rischiarati nel loro cammino da una piccola falce lucente di luna calante. Passato il paese scesero giù verso il fondo valle ed attraversarono il fiume “Imperio” sull’antico ponte di San Lazzaro Reale. Il piccolo borgo deve il suo nome al fatto che nel sito dove si trova attualmente la chiesa vi era, nei tempi antichi, un pilone dedicato a San Lazzaro, e da questo Santo ebbe origine il nome del paese. Il titolo di “Reale” deriva dal fatto che da San Lazzaro passava l’antica strada regia, o reale, che portava dal mare al Piemonte. I due nostri compaesani attesero qui i colleghi che man mano giungevano da Oneglia ed unitisi a loro iniziarono il lento cammino verso la loro destinazione facendo la successiva tappa a Caravonica.

Qui avranno certamente ricordato, alla vista del’originario pilone votivo di N.S. delle Vigne, il fatto miracoloso accaduto sul finire del Cinquecento. “Nel 1588 un mulattiere si trovava a Savigliano per ragioni di traffico, in compagnia di un suo figlioletto. Il piccolo, rovistando nel magazzeno dove il padre stava contrattando certa merce, s’imbatté in una statuina; di soppiatto la mise in un sacco che, l’uomo del tutto ignaro, caricò sulla bestia. Al ritorno, giunti nel luogo dove trovasi ora il santuario, il mulo si arrestò e non volle più proseguire nonostante le insistenze del padrone. In seguito a ciò il figlio rivelò al genitore il furto della statuina e questi, uomo pio, tolse la statua dal sacco ed ecco che l’animale riprese immediatamente il cammino.” Pochi anni dopo, nel 1737 e nei successivi 1758-59 gli abitanti di Caravonica vollero costruire ex novo l’odierno santuario.

Il viaggio prosegui, poi, per i rapidi e disagevoli tornanti che portarono la numerosa comitiva al valico del Colle San Bartolomeo. Discesero ancora la valle e dopo aver toccato e sostato brevemente a Calderara, che ad onor del vero a quei tempi ogni abitazione era dotata di regolari ed efficienti canne fumarie, giunsero infine a Pieve di Teco dove pernottarono.

Il toponimo del comune deriva dalle parole latine: “Plebs” comunità o chiesa da cui dipendono altri edifici religiosi rurali, e da “Theicos” un’antica divinità dei Celti da cui deriverebbe il nome del monte su cui sorge Pieve di Teco.

Nei giorni che seguirono, il percorso lungamente pianificato dall’esperienza di chi ben conosceva quei luoghi, fece toccare ai nostri Filippo e Cristoforo in successione: Moano, Armo e Prale oggi frazione di Ormea situata a 999 metri sul livello del mare e con una popolazione di solo 8 residenti. Continuando il percorso giunsero a Cantarana (il nome nell’antico idioma dei Liguri Epanteri significa: scorciatoia o via breve), ed ancora Ormea, il cui toponimo deriva dal latino “Ulmus” che si riferisce proprio alla notevole presenza di olmi nel suo territorio; Garessio, il cui nome con quello del fiume Tanaro che corre attraverso la sua valle, deriverebbe da una radice indoeuropea in “ar” madre del verbo greco “rùo” che significa: “acqua e scorrere”; ed ancora Bagnasco: già citata nei tempi antichi, quando i Romani avevano preso il controllo della Liguria e del Piemonte. A testimonianza del suo passato, il paese veniva chiamato in latino “Balneascum ad Tanarum”.

Proseguirono quindi per Ceva: città che durante le invasioni barbariche fu soggetta a scorrerie, saccheggi e spopolamento, tanto da far definire in alcuni documenti la zona come “Deserta Langarum” : landa, regione disabitata. Poco dopo il loro viaggio toccò Lesegno, Niella Tanaro, Carrù, Trinità e finalmente, una decina di giorni dopo la partenza da Vasia: Fossano, la loro tanto ambita destinazione. Il nome della città potrebbe essere la trasformazione dell’appellativo “locus o fundus faucinianus “ dal nome personale romano Faucius , oppure derivare dalla parola fossato, in piemontese fossa, da cui, fossan: abitante del fossato.

Emozionante certamente e coinvolgente, sarà stato l’incontro dei nostri: Filippo e Cristoforo con il loro conterraneo Francesco con il quale, molto tempo prima, avevano condiviso tanti ricordi e tante aspettative che in quel preciso momento saranno certamente tornati ben presenti nella loro mente e nel loro cuore.

Al commosso Francesco venne offerto un pollone di ulivo sapientemente ricavato dalle radici del secolare albero attiguo la sua casa sulla piazza della torre nella borgata natia di “Cariansaudi”. Nei pochi giorni che precedettero la partenza per Vasia, Francesco fece visitare ai due amici l’operosa città , trasferendosi brevemente, in seguito, sino a Savigliano dove presentò loro il Plura che li invitò nella sua bottega dove, attorniato da una ben nutrita schiera di allievi, era occupato a dirigere la realizzazione di alcune statue commissionate dalle Confraternite di Torino e di Carignano. Savigliano era ed è tuttora uno dei principali centri della pianura cuneese.

Fondata dapprima da popolazioni celto-liguri, fu in seguito sottomessa dai romani, la cui dominazione ha lasciato, oltre ai reperti archeologici ed alle epigrafi, traccia nel toponimo “Salvianum” : luogo salubre da cui è derivato il nome Savigliano.

Nella breve ma proficua trasferta saviglianese, come vedremo in seguito, il Plura accompagnò gli ospiti ad ammirare nella chiesa della Confraternita della Pietà l’eccezionale statua del Cristo Risorto, oggi concordemente ritenuta la sua opera migliore. E’ nella sua bottega, però, che il nostro Cristoforo Moraglia incontrò casualmente, rimanendone colpito, una giovanissima, avvenente ragazza, sorella d’ un apprendista intagliatore.

Fu quello, molto semplicemente, un amore a prima vista; il classico colpo di fulmine che al nostro, ormai trentenne compaesano, cambiò per sempre, e nel modo a lui più vantaggioso, la propria vita. Prima di ritornare a Fossano volle, a tutti i costi, conoscere la famiglia della ragazza e, ad un padre molto disponibile promise di ritornare ben presto a chiederne la mano.

Due giorni dopo , smontata la statua e ben protetta con panni la caricarono magistralmente sul dorso delle mule e, dopo aver salutato e ringraziato un mastro Francesco particolarmente commosso, mossero per il lungo viaggio di ritorno. Nel tardo pomeriggio del venerdì 29 giugno festività di San Pietro e Paolo il Martini ed il Moraglia giunsero finalmente col loro prezioso carico a Vasia dove nessuno, però, li stava aspettando, tutti sicuri che per la festosa accoglienza avrebbero dovuto aspettare ancora qualche giorno.

Arrivarono sulla piazza quando, terminati i Vespri, ognuno era ormai rientrato nelle proprie abitazioni. Sull’erbosa soglia della casa canonica soltanto due ragazzotti erano intenti ad osservare o forse ad infastidire un grosso, immobile ramarro con l’intenzione di catturarlo, quando all’improvviso scorsero dinanzi ai loro occhi Filippo e Cristoforo con le due mule ancora gravate dal loro prezioso carico. Il più sveglio dei due ragazzi tutto intuì ed a gran voce chiamò il Rettore Giovanni Battista Martini appena rientrato dalle funzioni vespertine.

Rapidamente informato dell’evento, il giovane sacerdote si portò nella torre campanaria dove, aiutato dal ragazzo suonò a festa le campane per annunciare all’intera comunità l’arrivo della statua del Cristo Risorto.

Immediatamente, dopo essere stata condotta nell’oratorio, il massaro Francesco Ansaldo seguendo le precise direttive a suo tempo acquisite dall’omonimo cugino fossanese e, coadiuvato dai numerosi confratelli qui prontamente accorsi, assemblò con premurosa cura e rigorosa disciplina la sacra statua finalmente giunta a destinazione.

Già dal giorno dopo l’intera collettività, particolarmente euforica per il dono ricevuto, diede inizio all’adattamento dell’oratorio, rifacendo l’altare e realizzando in brevissimo tempo una apposita nicchia, e dotandola d’una splendida vetrata. Rifecero prontamente, ampliandola, la porta d’ingresso per dar modo alla statua di transitare più agevolmente e senza il timore di poterle arrecare guasti o deterioramenti.

Si comprò: “Per L. 18 sito a man sinistra dell’oratorio da Bartolomeo Moraglia, e per fare la muraglia del suddetto sito si pagò: a comparsa del capo d’opra a disegnare il travaglio; a mastri da muro per giornate da huomo, e donna a servire essi maestri; et ancora vino per dar da bere a lavoranti in totale L. 17,25”. Poco dopo si registra l’acquisto di: “Sito attiguo all’oratorio comprato da Giuseppe Ansaldo per L. 50; … e si spesero L. 10,30 per far pietre e rifare la muraglia della strada; per maestri , e lavoranti per rifare la strada”.

Sembrò inarrestabile, allora, la voglia di realizzare opere sempre più consone all’importanza ed al prestigio che quella sacra statua seppe trasmettere nell’animo dei nostri padri, pur sempre equilibrati nelle loro scelte e nei loro giudiziosi progetti. Il 16 luglio 1731, il priore Pietro Francesco Martini registra nel Libro dell’Oratorio: “Oglio donato a Mastro Francesco Ansaldo di Fossano per mezzo di cui si è ricevuto il Santo Christo in ricompensa di sue fatiche e si spendono L. 60,17; porto dell’oglio a Fossano, cavalcatura, e cibarie d’esso Mastro Francesco, bolla, e spesa della servitù, più un paro di scarpe per L. 3,6, e in tutto L. 23,6”.

In questa circostanza la persona con mula che mosse alla volta di Fossano fu, e non poteva essere diversamente, il Cristoforo Moraglia che avrebbe potuto, in tal modo, onorare la promessa fatta al padre della giovane di Savigliano il mese precedente, per chiederne la mano. Quella sera riempì col prezioso olio i due capaci recipienti di pelle di capra, (usati soprattutto per il trasporto di liquidi verso il Piemonte), ed essere , in tal modo pronto, la mattina seguente prima dell’alba, a caricarli sulla paziente e fedele mula. Arrivò a destinazione una dozzina di giorni dopo con un notevole ritardo, dovuto soprattutto ai ricorrenti temporali estivi che causarono gli inattesi rallentamenti.

Ad accoglierlo a Fossano fu il felicissimo Francesco che si prestò ad accompagnarlo prontamente a Savigliano dove era ad attenderlo il padre della ragazza. Emozionante sicuramente, e colmo di profonde aspettative sarà stato l’incontro di Cristoforo con la giovane ragazza in quell’afoso pomeriggio di fine luglio, dove due individualità tanto dissimili e lontane furono in quel preciso istante, unite per sempre da un imponderabile, comune destino.

Dall’Archivio Parrocchiale apprendiamo che: “ L’anno del Signore 1731 alli 22 del mese di 7mbre Christoforo Moralia fu Bartolomeo ha fatto contratto di matrimonio con Angela Maria …….. da Salviano … nell’Oratorio a ore otto di mattina, innanzi la sacra statua del Christo che il su detto Moralia ha condotto a Vaxia”.

Nell’autunno di quell’anno a causa della continua nebbia il territorio fu invaso da una moltitudine di vermi che procurò un enorme danno alla raccolta delle olive. A poco o nulla valsero i tridui e le novene promossi nelle varie chiese del paese, anche se per sconfiggere i “vermini” il vicario generale di Albenga, don Giovanni Battista Marvaldi celebrò, nell’oratorio del Cristo Risorto, una novena speciale di scongiuro con licenza pontificia. Lo stesso vicario, quale simbolico gesto di solidarietà volle distribuire ai poveri il suo onorario.

Con questi timori, e con le crescenti inquietudini che avranno certamente preoccupato la laboriosa, paziente comunità di Vasia si chiuse un anno particolarmente favorevole e che da quella data condizionerà per sempre la nostra storia.

Nell’anno 1732 la Pasqua cadeva il 13 di aprile ma la settimana che la precedette fu caratterizzata da una crescente frenesia generale dovuta essenzialmente alla preparazione della prima uscita processionale della statua del Cristo Risorto. Molto, però, si discusse, soprattutto in quale tempo e con quale procedura ciò doveva essere messo in opera.

A questo punto bisogna sapere che dal Medioevo, fino ai primi anni dell’Ottocento, nei nostri territori la giornata cominciava, secondo l’antica tradizione ebraica, al suono dell’Avemaria: mezzora dopo il tramonto del sole e, pertanto, alle prime ombre della sera del sabato, iniziavano già le celebrazioni della Pasqua di Resurrezione.

Il priore Pietro Francesco Martini riuscì ad imporre, dall’alto della sua qualifica e soltanto per quell’anno, lo svolgimento della processione nelle prime ore della mattinata di domenica di Pasqua. Il corteo, con la coesa presenza delle tre confraternite, dell’intera comunità di Vasia e di tanto popolo delle vallate limitrofe, nella coinvolgente solennità del nuovo accadimento, uscì dall’oratorio per riversarsi lungo le strette vie del paese.

All’inizio di ogni borgata la statua veniva presa in consegna dai confratelli dei vari rioni, in un crescendo di emozioni che mai, forse, sino ad allora furono così profondamente condivise. Dopo aver toccato il “Poggio”, “Carimartin”, le “Cà suttane”, il “Borgo” e la “Costa, il corteo si diresse tenendo fede, in tal modo, all’impegno a suo tempo preso col benefattore: mastro Francesco Ansaldo da Fossano, anche verso l’ antica, originaria borgata di “Cariansaudi”.

La lunga processione, oltrepassato il torrente in località “Pusso de bestie o Fussao”, fece una sosta per una breve benedizione nell’antico, ed in quell’epoca, ancora integro strutturalmente oratorio di San Sebastiano per proseguire, poi, verso la meta stabilità. Sulla piazza della borgata, il rettore Giovanni Battista Martini volle ricordare all’innumerevole popolazione qui accorsa, il dono ricevuto dal lontano, ma idealmente presente mastro Francesco, della già miracolosa statua del Cristo Risorto impartendo con solennità e commozione la prima benedizione.

Nei primi anni del Novecento certo Francesco Calsamiglia di Vasia mentre riparava un muro a secco crollato per le incessanti piogge autunnali in località “Cariansaudi”, nel sito dove un tempo sorgeva l’antica torre a difesa del borgo, scoprì incisa su una grossa pietra la grezza iscrizione: “S.to Christo A.D. 1732”.

La domenica 20 aprile di quell’anno, successiva alla Pasqua, venne eletto priore per l’anno 1732-1733 il Reverendo don Giuseppe Maria Martini. Nei mesi che seguirono, non senza accesi scambi di vedute ed interminabili diatribe, si giunse finalmente ad un sofferto accordo inerente le modalità ed i termini con i quali si sarebbe dovuta svolgere, ad iniziare con la Pasqua del 1733 e continuare poi per gli anni a venire, la processione del Cristo Risorto.

Nel tardo pomeriggio della festività la statua uscendo dall’oratorio, muoveva per la strada della “Costa” e si portava sulla piazza della cappella intitolata alla Madonna del Carmine dove il Cristo veniva preso in consegna dai confratelli del “Poggio”, e scendeva, quindi, verso l’oratorio di San Rocco, a quell’epoca non ancora ricostruito, per una sollecita benedizione.

Da qui attraverso l’odierno “ Stradun Suttan” (oggi via Zecchina: dall’ingegnere Pietro Zecchina originario di Albenga che nel 1891 ne progettò la realizzazione), si raggiungevano le “Cà Suttane”, importante e popoloso rione ben difeso da una non trascurabile torre difensiva, e si risaliva successivamente a “Carimartin”, in quel tempo ancora cinto e ben protetto da ben quattro possenti torrioni, dove sulla piazza della borgata addobbata a festa, sostava per una commovente benedizione mentre i confratelli intonavano il solenne “Surrexit Dominus”.

Continuando nel suo percorso il corteo muoveva alla volta della “Cuntrà Suttana” per poi salire al “Borgo” da dove, dirigendosi sempre verso levante, una volta raggiunto e superato l’importante oratorio di San Sebastiano arrivava, crediamo, con unanime e sincera partecipazione, alla borgata di “Cariansaudi”. Da qui, scendendo nuovamente per la stessa via superava ancora una volta l’oratorio di San Sebastiano e saliva alla sovrastante “Costa”, da dove proseguendo, toccata la “Supenna”, (o casella) attraversava non senza difficoltà l’attuale “Caruggio da Magaietta”, e ritornava al “Borgo”, sostando per un tempo limitato, nella Cappella della Madonna degli Angeli Custodi.

A questo punto muoveva infine, nella notte ormai inoltrata, verso la piazza dove gli anziani confratelli: “… bruciavano la botte col catramo per far illuminazione all’arrivo della processione col santo Christo nell’Oratorio”, mentre i “bombardieri” davano inizio ai “fuochi di gioia”: veri e propri fuochi artificiali “con girandole”, fissate attorno alla piazza mentre le campane dell’antica, originaria torre campanaria della parrocchiale, da pochi decenni interamente ricostruita, suonavano a distesa per salutare il ritorno della statua, concludendo, in tal modo, una straordinaria e certamente coinvolgente giornata pasquale.

Non bisogna dimenticare, però, che nel momento in cui la statua del Cristo Risorto ritornava nell’oratorio, si era già, in effetti, nel lunedì successivo, poiché il giorno, come abbiamo visto, iniziava mezzora dopo il tramonto del sole, e solo in quel preciso istante si concludevano, senza ombra di dubbio, le solenni festività pasquali.

Il giorno festivo del lunedì dell’Angelo è stato introdotto, dallo Stato italiano, soltanto nel primo dopoguerra, per allungare la festività della Pasqua. Dal punto di vista religioso invece, prende il nome dal fatto che in questo giorno si ricorda l’incontro delle donne giunte al sepolcro di Gesù, ormai vuoto, con l’angelo, il quale ne annunciava la Resurrezione.

Per motivi non chiari la tradizione ha spostato questi fatti dalla mattinata di Pasqua al giorno successivo, forse perché i Vangeli indicano “il giorno dopo la Pasqua”, ma evidentemente quella a cui si allude è la Pasqua ebraica, che cadeva sempre di sabato (in ebraico sabato significa : giorno di riposo). Non è mai esistito un “lunedì” in cui l’angelo è apparso alle donne, e come tutti ben sappiamo questo è successo nelle prime ore del giorno di Pasqua.

Gli anni che seguirono, per la confraternita dell’Immacolata Concezione, furono caratterizzati da sempre maggiori introiti finanziari dovuti soprattutto all’attenuarsi delle guerre fratricide, ed il conseguente aumento di ottime annate olearie, diedero forza e fiducia alla stanca, spossata popolazione dell’intera vallata.

“Era aumentato il prezzo dell’olio e perciò la popolazione abbatteva vigneti per dar posto a nuovi oliveti: Anzi i vigneti che una volta fornivano vino per tutto l’anno a tutta la popolazione, diedero luogo al proverbio “vigna, tigna”. Il 23 agosto 1734: “Si manda Giò Lorenzo Martini du Canto a andar a comprare pane per processione in occasione che la Compagnia del Castellaro si porta in Vaxia alla visitazione del Christo risorto”. La notorietà taumaturgica della statua oltrepassò, allora, i limitati confini della comunità portando di anno in anno moltitudini di fedeli sempre più numerose.

Il 29 aprile 1736 la confraternita registrava un’inaspettata quanto sostanziosa eredità: certo, spregevole individuo Giò Martino, alla sua morte, diseredando le proprie figlie colpevoli solo, a suo dire, di non avergli potuto dare eredi maschi, lasciò all’oratorio tutto il suo rilevante patrimonio consistente in due abitazioni ed un’imprecisata quantità di terreni olivati, orti e pascoli. Il 10 ottobre 1739 si manda nella città di Oneglia una persona per “prendere una limosina secreta di lire 50 dalle mani del Signor Agostino Peri”. L’anno in parola iniziò con: Destossi un freddo talmente rigido che rischiarono di perire gli ulivi scampati dal gelo del 1709”.

Nell’anno 1742: “ Si manda a Ceriana il massaro dell’oratorio a prendere attestato d’una donna gratiata della loquella”. Non ci è dato di conoscere il nome di tale donna entrata miracolosamente in possesso del dono della parola dopo aver pregato il Cristo risorto ma è importante apprendere che da quella data, rilevante divenne la partecipazione di popolo ai riti pasquali tanto che lo storico Casalis, certamente esagerando, quantifica, nella seconda metà dell’ottocento, in ben ottomila presenze.

Nel 1745, si deve intervenire per: “Rendere viva la carnagione della statua del S.to Christo”, sicuramente danneggiata dalle ricorrenti processioni “ad pretenda pluviam” nelle torride giornate estive per invocare la pioggia sulla inaridita campagna.

Nell’Archivio di Stato di Torino sotto: “Titoli e scritture del Principato di Oneglia” si legge che in quegli anni, di ogni comunità veniva innanzi tutto accertato il numero dei capi-casa e che per conoscerne l’effettiva popolazione, bisognava moltiplicare per sei tale numero. Per quanto ci riguarda a Vasia furono registrati ben 123 capi-casa per una popolazione complessiva di circa 740 persone.

Il 14 di aprile del 1748, giorno di Pasqua, il priore Francesco Maria Martini di Antonio nella tarda mattinata ricevette nell’oratorio, dove terminata la solenne messa di Resurrezione era intento a programmare, assistito dai propri collaboratori la processione serale, un corriere proveniente da Fossano che gli recapitò, con fare incerto e preoccupato, un fascicolo sigillato. Pianse calde lacrime di profondo dolore nell’ apprendere che poche settimane prima era venuto a mancare mastro Francesco Ansaldo, il benefattore che al proprio, natio paese, nel 1731, diede in dono la statua del Cristo Risorto.

Unanime e sincero fu il cordoglio dell’intera comunità di Vasia nell’apprendere tale notizia, tanto che venne stabilito di commemorare quello stesso giorno sulla piazza di ”Cariansaudi”, all’arrivo della processione, la figura dell’ illustre conterraneo scomparso. Il Rettore Giovanni Battista Martini, ben informato dal corriere proveniente da Fossano, ricordò ad una numerosa folla commossa quanto negli ultimi, dolorosi mesi di vita, il pensiero di Francesco fosse sempre ed unicamente rivolto verso la propria terra d’origine.

Si venne a conoscenza che il pollone d’ulivo (ferla) ottenuto dal ceppo dell’albero ancora esistente in quella stessa piazza ed attiguo la propria abitazione, seccò col gelo dell’anno precedente non potendo il già sofferente Francesco averne cura. In quella circostanza, il Rettore trasse da una tasca interna dei suoi paramenti una minuta catenella d’argento che la mamma, nel triste, lontano giorno della partenza, aveva donato al figlio Francesco, il quale mai se ne separò e che dispose essere, dopo la sua morte offerta al Cristo Risorto di Vasia.

Nell’anno 1753 il priore Gio Batta Arrigo registra sul “Libro dei Conti” una curiosa entrata: “Elemosina di L. 9,16 fatta da un hebreo venuto alla nostra S. Fede così raccomandata da superiori”. Nell’anno 1755 “Il 18 febbraro fece una notte così orrenda, ed un freddo così forte che gelarono li frutti degli ulivi e dei limoni senza ne pioggia, ne neve venute precedentemente”.

Il 1° novembre del 1755, festa di Ognissanti, si verificò un violento terremoto con epicentro a Lisbona, dove si ebbero, secondo le fonti dell’epoca, oltre 90.000 morti su una popolazione stimata di 275.000 abitanti. Le scosse furono percepite anche nel nostro territorio causando, fortunatamente, solo panico e lievi danni materiali.

Nell’anno seguente 1756 “Si è principiata la costruzione della fabbrica del novo oratorio”. Il priore Paolo Agostino Dulbecchi confortato dalla più florida situazione economica che mai abbia avuto l’antica Confraternita, ordinò l’inizio dei lavori. Il progetto dell’opera viene commissionato a mastro Pasquale Carli fu Francesco di Pantasina coadiuvato dal fratello Andrea, da mastro Giovanni Antonio Moraglia, dallo stesso priore: mastro Agostino Dulbecchi ed ai mastri: Filippo Martini, Giacomo Calsamiglia e Francesco Ansaldo tutti di Vasia. Nella cerimonia di posa della prima pietra, officiata dal Rettore Giovanni Battista Martini, in un incavo precedentemente inciso nella pietra stessa, venne riposta una moneta d’argento di indubbio valore.

Nel 1760 si verificò una tale invasione di mosche olearie che produsse gravissimi danni agli oliveti: in tali circostanze per salvare il raccolto si ricorreva alla pratica religiosa del lancio della “maledizione delli vermini” che veniva letta dal rettore su un palco di legno eretto per l’occasione sul sagrato dell’oratorio. Nel 1762, mentre continua sollecitamente e senza interruzioni la realizzazione del nuovo oratorio, si spendono ben Lire 27 per: “Rifare la carnagione al Christo et altro da parte del mastro Francesco scultore”.

Nel 1767 il priore Giacomo Antonio Moraglia affida: “Al Signor Filippo Marvaldi appalto per realizzare la statua della Resurretione in facciata”. Due anni dopo, nel 1769, il priore Giò Bartolomeo Moraglia salda il suddetto Marvaldi per la conclusione dei lavori. Intanto si continua a lavorare alacremente alla fabbrica del nuovo oratorio, e nel 1774 si commissiona agli stuccatori: fratelli Valentino e Lorenzo Acquarone del Portomaurizio, la realizzazione dello stucco intorno la nicchia del Cristo sull’altare.

Due anni dopo, nel 1776, finalmente, il priore Pietro Martini fu Gio Batta, con la registrazione sul Libro dei Conti del versamento di L. 50: “Alli stuccatori Valentino e Lorenzo Acquarone per compimento delle lire 200 convenute per il nicchio dell’altare”, dichiara conclusi i lavori per la realizzazione del nuovo oratorio.

Nella tarda serata di Pasqua del 30 marzo del 1777 la statua del Cristo Risorto di Vasia varcò per la prima volta la soglia dell’ imponente oratorio, che mai verrà eguagliato in ampiezza e fastosità, per benedire il suo popolo profondamente commosso.

Nell’anno 1780 il priore Antonio Moraglia fu Giacomo registra: “Per far ponti dinanzi alla vedriata e per aver mandato alla Villa Guardia a prendere una salmata (una salma è pari a 39,104 metri quadri) di travi, spende in detto servizio L. 5,18”.

Dal manoscritto “Borea” veniamo a conoscenza che: Nella notte del 10 febbraio de l’anno 1782 nell’entrare li 11 si è sofferto un freddo d’aria eccessivo che gelò universalmente tanti frutti di Ulivi, Limoni e Portogalli. Nella Villa di Vaixe sopra il Portomorizio nel giorno 11 vi fu tal freddo che dalla prima ampollina alla ultima si congelò l’acqua nel tempo della Messa”.

Nell’anno 1786 il priore Antonio Maria fu Carlo registra sul Libro dei Conti dell’oratorio una spesa di ben lire 845,10: “Per due ancone una dell’Assonta, e l’altra della Nonziata, e per le cornici dorate, e porto delle medesme, in tutto come appare dalla fede del Signor Cavaliere Carlo Giuseppe Ratti di Genova presentata a questi conti”.

Le due ancone scomparvero inspiegabilmente durante l’occupazione napoleonica del 1801, e furono presumibilmente trafugate dagli stessi francesi con l’assurda complicità di persone del luogo. Tale acquisto fu reso possibile grazie al generoso contributo: “Da Maddalena Moraglia fu Gio Batta, detta la Turca, lire 600 da impiegarsi nelle due ancone delle SS. Nunziata, ed Assunta”.

Nell’anno 1791 il priore Capitano Giuseppe Arrigo fu Gio Batta registra: “Li 18 d’aprile pagato per le lampade d’argento fatte fare a Genova quali vogliono tra l’argento, e fattura, porto, cascie, garze nastro cremisi, bussolotti di lana, ed altre spese in tutto, come consta dalla fede e quietanza spedita dal Signor Gio Batta Oliva artefice delle medesme: L. 2019,25”. Lampade consegnate successivamente alla regia zecca a seguito della circolare del 10 ottobre 1792 emessa dal Segretario agli Interni di Torino, e per le quali venne tentano, invano, di ottenerne la restituzione. Anche per questo incredibile acquisto il suddetto priore annota “Li 7 di maggio elemosina presa da Maddalena Moraglia fu Gio Batta “la turca” da impiegarsi nelle lampade d’argento: L. 909,60”.

Se teniamo conto che la ripetutamente succitata Maddalena Moraglia detta “la turca”, nel 1782 aveva già affidato all’architetto Domenico Belmonte di Gazzelli la costruzione del nuovo oratorio di San Rocco, per una spesa certamente cospicua ed interamente a suo carico, possiamo ben affermare, senza tema di smentite, che nella millenaria storia del nostro paese, nessuno mai potrà eguagliare la sua generosità ed il suo smisurato, profondo legame alle proprie radici.

Nei primi giorni di gennaio dell’anno 1798, soldati napoleonici si appropriarono impunemente delle tre antiche e pregiate campane di San Martino trasferendole, non senza disagi e complicanze, nella cittadina provenzale di Antibes.

In quello stesso anno il priore Gio Batta Martini fu Giuseppe annota sul Libro dei Conti dell’oratorio in data 10 settembre:“Per una campana nova in peso di rubbi 8,8 (un rubbo uguale a kg. 7,92, per un peso totale di circa 70 kg.) a L. 22 la libbra: tot. L. 228,16 – per il battaglio: L. 6, per corezzetta con fibia per tenerlo attaccato alla campana: soldi 12 – per porto della medesma da Genova per mare come il tutto consta della fede del Campanaro Nicolò Talongo, per spaccio e facchino per consegnarla a bordo: L. 11,10 – pagato a mastro Antonio di Pianavia per ferri per la campana: L. 2,8 – per aggiustare il mazzuolo, il quale era quello della campana del S. Martino: soldi 12 e per ferri, e fattura della manecchia: L. 3”- per porto della su nominata campana dal Portomorizio: soldi 12”.

Il 31 marzo 1799, prima domenica dopo la Pasqua venne eletto priore dell’oratorio Gio Batta Martini fu Giovanni. Le prime annotazioni di spesa registrate sul Libro dei Conti furono: “Per nascondere i mobili dell’oratorio, acciò non fossero rubati: L. 2 – Per polvere imprestata al Capitano Gio Batta Arrigo fu Giuseppe per la difesa della comunità, a conto del debito delle lampade: L.11,4”.

Il nuovo secolo entrò impietosamente sotto i nostri cieli e forse nessuno se ne accorse realmente, intento com’era a cercare una onorevole via d’uscita alle tante, smisurate difficoltà che sembrarono non finire mai.

Il priore Gio Batta Martini di Pietro il 24 luglio del 1800 annotava sul Libro dei Conti: “Per imprestito sforzoso fatto alla Municipalità di Vasia per pagare la contribuzione imposta da Commissario francese Cittadino Bruny come consta dalla polizza fatta dalla Municipalità, la quale poi è stata cambiata in istrumento rogato dal Notaio, e secretato dalla stessa Municipalità Gio Stefano Moralia il 1° 7bre 1800, con obbligo con obbligo di pagar l’annuale interesse alla ragion comune L. 100”.

Il succitato commissario delle finanze Bruny impose in quei giorni una tassa sul pane ed un dazio di 50 soldi per barile sull’estrazione dell’olio. Dice il Pira: “Alla carestia si unì finalmente (infine) un morbo epidemico che, attaccando le persone con mal di capo ed in tre giorni gettandole in uno stato di frenesia, le portava al sepolcro; tal che eransi ad un tempo congiunti i tre orribili flagelli della fame, della peste e della guerra per mietere giornalmente numerose vittime”.

Con decreto del 2 aprile 1801, Bonaparte dichiarava il Piemonte temporaneamente unito alla Francia, venendo diviso in sei dipartimenti, di cui a quello degli “Ulivi” appartenevano Vasia, Prelà e Torre di Prelà. Prima di quella data, l’11 gennaio del 1801, nei suddetti dipartimenti, vennero ristabilite le scuole repubblicane che si apersero il 19 febbraio successivo. Anche nella domenica 5 aprile di quell’anno, festività della Pasqua la processione non si tenne e la statua rimase nell’oratorio.

Nel Libro dei Conti il priore Gio Batta Martini annotava la spesa di L. 1,6 per: “Per una trapetta di ferro per la lampada, la mancante è stata rubata in tempo che vi abitavano le truppe francesi”. Inoltre una spesa di L. 3,9 per: “Acquistare tela per aggiustare una tovaglia che è stata stracciata dalle truppe francesi”.

Nel gennaio del 1802 il priore Giuseppe Moraglia di Antonio spende L. 56: “Per aver fatto rifare la campana che si era rotta la quale si è fatta fondere in Caravonica assieme alle sue”; più L. 1,16: “Per condotta della rotta. E ricondotta della nova”; più L. 1,14: “Per ferri per il mazzuolo”. Nella domenica di Pasqua del 18 aprile 1802 la statua del Cristo fu portata in processione fino al San Rocco dove, impartita la benedizione, ritornò nell’oratorio. In quel periodo, e precisamente il 22 novembre 1802, Villaguardia ebbe a soffrire gravi danni per lo sconvolgimento del terreno, causato da piogge torrenziali.

Sul far del giorno una massa enorme di terra si mosse dalla montagna, con fenditure del terreno, che fece crollare la chiesa e 57 case. Vigne, orti, oliveti, canneti cedendo al peso della terra , precipitarono nel vicino torrente “Agazza”.

A partire da quell’anno (1804), come in altri successivi, la processione pasquale del Cristo Risorto non venne più compiuta, a causa dell’interminabile dominazione francese, nella tarda serata di Pasqua con il consueto percorso che toccava tutti i rioni del centro abitato, ma la statua del Cristo Risorto venne nascosta e custodita in un anfratto sotterraneo ubicato sotto la parete occidentale dell’oratorio di San Rocco, a quell’epoca già integralmente riedificato a spese della generosa, straordinaria Maddalena Moraglia detta “la Turca”, dove la mattina di Pasqua prima dell’alba, il Parroco ed i disciplinanti dell’Oratorio dell’Immacolata Concezione si recavano in processione, prelevavano la Statua e salivano sul Monte Marsucco per la solenne, commovente benedizione “ai quattro venti”.

Pasqua 1914 monte Marzucco

Intanto verso la fine dell’anno : “L’incoronazione di Bonaparte imperatore dei francesi, seguita a Parigi li 2 dicembre per mezzo di Papa Pio VII, aveva stordito il mondo, e presagiva altre politiche novità”. Nell’anno 1808 il priore Gio Batta Martini fu Giovanni inaugura con una solenne funzione il nuovo campanile, alla presenza di: mastro Francesco Pugnetti; di mastro Ignazio Monti accompagnato per l’occasione dal figlio: mastro Antonio. Grande fu la partecipazione di popolo festante accorso numeroso anche dalle limitrofe vallate, salutato dal festoso scampanio delle nuove campane fuse, l’anno prima, a Bagnasco da mastro Giovanni Bertoldo. Il 9 febbraio 1809 il nuovissimo orologio, opera e vanto di eccellenti mastri genovesi, iniziò a scandire, incorruttibile, le ore tristi e liete della storia del nostro paese.

Dal Libro dei Conti dell’oratorio conosciamo che il priore Gio Tommaso Arrigo fu Lazzaro nel 1810 spende 82,12 lire: “ Per fare il pulpito”. Il giorno 30 settembre di quell’anno si spendono lire 24,8: “Per aver mandato a Garessio il massaro Lorenzo Emerigo a visitare li legnami dell’ancona comprata, farla levare di sopra il telaro, per cibarie in tre giorni, e per pulire la medesima ancona acciò si potesse piegare in rotondo per portarla quivi”.

Secondo il Ramoino: “Orrido fu l’inverno del 1810: venti e gelo, che distrussero il raccolto con rinvilio dell’olio, aumento dei cambi e disoccupazione. Nell’anno 1815 il priore Gio Batta Martini di Pietro, lasciata alle spalle la cruenta, interminabile dominazione francese, produsse l’ultima e definitiva (per quel secolo) innovazione al percorso della processione pasquale della Statua del Cristo Risorto.

Uscendo dall’oratorio, alle prime luci dell’alba, il corteo si recava attraverso la strada della “Costa” nel Poggio dove raggiunto l’oratorio del San Rocco sostava brevemente per intonare il “Surrexit Dominus” e finalmente saliva al monte Marsucco dove duemila e quattrocento anni prima era iniziata la nostra incredibile storia. Qui, ombelico dell’intera Val Prino, nell’esatto istante in cui da dietro il colle di “Treppia” sorgeva il sole, tra i canti di giubilo dei confratelli, delle consorelle e dell’intera commossa comunità di Vasia, il Rettore impartiva solennemente “ai quattro venti” la tradizionale benedizione che, in tal modo, univa in un immenso, fraterno abbraccio tutti i villaggi dell’intera val Prino.

Il 1816 fu l’anno in cui fra le nostre martoriate contrade ritornò una stabile pace e: “Colla libertà del commercio instradavasi l’intera Valle d’Oneglia al suo risorgimento. Molti onegliesi e valligiani tornarono dopo vario tempo a rivedere la patria. Travagliato era allora lo stato da una penuria di vettovaglie, per cui un regio editto delli tre dicembre (1816) aprì un imprestito di sei milioni per essere impiegati nella compra di grano all’estero in sollievo dell’indigenza, e creò una società annonaria”.

Nell’anno 1829 intanto, il priore Giacomo Antonio Martini registra una spesa di lire 3 per: “Pagato a Cristoforo Moraglia fu Gio Batta per vino provvisto alli uomini che hanno condotto li bovi, il trave per fare il ponte onde ristorare il volto dell’oratorio”. Altra spesa di lire una e dodici centesimi: “A Francesco Pisano per otto pani da soldi 4 cadauno somministrati a suddetti uomini”. Infine viene registrata la somma di lire 33,10: “Al pittore dell’immagine della Concescione sopra la porta dell’oratorio”.

Il 22 luglio 1836 il priore Vittorio Martini sottoscrive un contratto per la costruzione e l’installazione del nuovo organo con: “Felice Bruna Organaro in Oneglia” per un importo totale di L. 1030 seguita da una spesa di L. 7,50 per: “Pranzo in occasione della stipulazione del contratto dell’organo in compagnia del Signor Avvocato Viani e Felice Bruna Organaro”.

Nell’anno 1837 il priore Giuseppe Arrigo annota una spesa di ben L. 45,08: “Per aver fatto venire la banda del Porto ad accompagnare la processione il giorno di Pasqua (15 aprile) sul monte Marsucco”. Altra spesa di L. 5,16 per: “Pagato a 5 uomini mandati al Porto a prendere e riportare li Instrumenti di musica”. Inoltre una spesa di L. 10,10 per: “Pagato al signor Canonico Lagorio venuto a fare il panegirico il giorno di Pasqua”. Per il Lunedì dell’Angelo (16 aprile) il priore annota: “Pagato L. 5,00 a sonatore dell’organo Amadeo per l’indomani di Pasqua, più L. 9,00 per pagare la spesa che hanno fatto nell’Osteria i musicanti di Moltedo avendo cantato la messa in musica”.

Il 22 aprile il suddetto priore annota la spesa di L. 1,04 per: “Pagato a Mastro Giò Batta Semeria per mettere la porta dell’organo e fare lo scalino e suolo e calcina comprata”. Ancora L. 10,00 per: “Pagato al signor Medico Martini e suo fratello per aver suonato l’organo per il corrente dell’anno e L. 0,4 al figlio di Francesco Badano ed il figlio di Pantaleo Moraglia per aver suonato le campane per le funzioni nell’oratorio”. Infine la spesa di L. 12,00 a: “Giovanni Caprile di Porto Maurizio per aver fatto il quadretto ove si è messa la Bolla per l’Altare Privilegiato ottenuta da Roma”.

Con l’anno 1841 si chiude a pagina 173 l’antico ed unico “Libro dei Conti” della Confraternita dell’Immacolata Concezione di Vasia iniziato 110 anni prima nel 1731 con la commossa, toccante registrazione fatta dal priore Pietro Francesco Martini: “Si manda a Fossano il massaro dell’Oratorio con risposta che ben volentieri si accetta il dono offerto di Gesù Cristo Risorto, e per il suo viaggio se gli danno L. 6,10”.

L’11 aprile del 1841, giorno di Pasqua infatti: “Giacomo Martini del Giacomo Martini del fu Sig. Avvocato Giovanni Battista, Priore nell’anno 1840 in 1841”, in un’ultima registrazione altrettanto commovente e toccante per la gioia di aver portato a termine il suo onorevole mandato, seppur velata dal rimpianto del tempo che fugge: “Più e finalmente al Sig. Giacomo Martini per il servizio prestato nell’anno 1840 in 1841 alla confraternita L. 20”.

Da allora non si hanno più “Libri dei Conti”, andati certamente perduti o deteriorati nel corso di tanti anni nei quali si sono susseguiti accadimenti e circostanze ingovernabili, o forse, e questa è la nostra speranza, nascosti negli anfratti di qualche grotta sotterranea di cui il nostro territorio è particolarmente ricco e lì dimenticati per sempre.

Chissà se un giorno qualcuno delle generazioni a venire avrà la fortuna di trovarli e, se soprattutto potrà o vorrà leggerli, custodirli e conservarli con quella cura, quell’impegno e quell’amore smisurati che, chi scrive, ha riservato, per tutto il tempo della propria vita, ad ogni libro, manoscritto o testimonianza orale venutone in possesso, facendone in tal modo rivivere nel proprio cuore la memoria, l’ammirazione, la considerazione e l’assoluta fedeltà di condivisione verso coloro i quali redigendoli e tramandandoceli ci hanno preceduto su questo mondo, e che nel profondo del nostro animo vivranno finché noi vivremo.

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