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Illustri Ospiti, care Colleghe e cari Colleghi, Signore e Signori,
grazie a tutti per aver voluto essere qui.
Ma è soprattutto voi, imprenditrici e imprenditori italiani, che sento
il dovere di ringraziare per la fiducia che mi avete accordato,
affidandomi un incarico che mi onora e di cui sento tutta la
responsabilità.
E, a nome di tutti, vorrei rivolgere un grazie particolare a Luca di
Montezemolo, che in questi quattro anni ha guidato Confindustria
con intelligenza e straordinaria passione.
Oggi, Confindustria è autorevole, autonoma dai partiti, capace di
portare le ragioni del fare impresa al centro dell’agenda del
Paese. Ed è soprattutto una Confindustria forte e unita. Tutto ciò è
il frutto dell’eccezionale lavoro di questi anni.
Consentitemi un ringraziamento speciale ai miei genitori, Steno e
Mira. Non sarei qui senza la forza del loro insegnamento e del
loro esempio. Fin da quando mi posso ricordare, ho respirato
impresa. Da loro ho imparato la responsabilità dell’imprenditore
nei confronti dei collaboratori e della società.
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Confindustria ha assunto un impegno di fronte al Paese:
contrastare la logica del declino, ritrovare la strada della crescita e
dello sviluppo.
Nonostante la situazione economica difficile, l’industria italiana ha
compiuto uno straordinario cammino. Di tutto questo, noi
imprenditori dobbiamo essere giustamente orgogliosi. In sala
vedo oggi tanti protagonisti di storie italiane di lavoro e di
successo. Grazie a voi il made in Italy continua ad essere un
riferimento nel mondo. Le piccole e medie imprese hanno svolto
un ruolo fondamentale.
In un decennio sono stati creati più di 2 milioni e 700 mila nuovi
posti di lavoro dipendente, di cui oltre 2 milioni a tempo
indeterminato. Negli ultimi due anni le esportazioni italiane sono
cresciute a ritmi sostenuti, analoghi a quelli della Germania.
Crescono anche al di fuori dell’area dell’euro, malgrado l’erosione
dei margini imposta da una rivalutazione eccessiva del tasso di
cambio.
Ma dal terzo trimestre del 2007, e in modo assai più netto con
l’inizio di quest’anno, il quadro internazionale è peggiorato. Le
prospettive per il 2008 e il 2009 restano incerte. La crisi
finanziaria, la quasi recessione americana, il rialzo dei prezzi del
petrolio e di molte materie prime fanno rallentare fortemente la
crescita economica mondiale.
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La vitalità delle nostre imprese non è sufficiente ad assicurare lo
sviluppo e a compensare da sola la scarsa competitività del
Paese.
La crisi internazionale mette a nudo drammaticamente tutte le
debolezze del sistema. Non possiamo più eludere o rinviare
quelle scelte, anche difficili e impopolari, che sono indispensabili
per non compromettere il nostro futuro.
A questo proposito, purtroppo, c’è poco di nuovo.
Eccesso di burocrazia, di spesa pubblica, di pressione fiscale da
una parte e scarsa produttività, insufficiente investimento in
ricerca e formazione dall’altra, sono i problemi che solleviamo da
tempo.
Non possiamo perdere di vista le principali riforme istituzionali: più
poteri al premier, nuova legge elettorale, superamento del
bicameralismo perfetto.
Ci aspettano sfide impegnative. Ma in Italia si è creata una
situazione favorevole al cambiamento. C’è un nuovo Governo
sostenuto da una forte maggioranza parlamentare. C’è un clima di
minore contrapposizione e di rispetto reciproco fra maggioranza e
opposizione, di collaborazione sui grandi temi. C’è una
consapevolezza diffusa della gravità della situazione.
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Chi ha l’onore e l’onere di governare compia le scelte necessarie,
senza farsi condizionare dal consenso di breve periodo che porta
all’immobilismo. L’opposizione guardi con responsabilità
all’interesse generale. La situazione economica non consente
tatticismi o rinvii.
Voglio dire con chiarezza che l’approvazione, ieri, del decreto per
la detassazione degli straordinari e dei premi variabili è un
segnale importante. È una misura che Confindustria propone da
tempo.
È una indicazione precisa ai lavoratori e alle imprese sulla strada
da prendere per gli assetti contrattuali. Siamo soddisfatti di questo
primo intervento.
Certo i problemi sono tanti e vanno affrontati anche alla luce dei
mutamenti in corso nello scenario internazionale.
° ° °
La globalizzazione dei mercati, le nuove tecnologie, i flussi
migratori sono realtà con le quali dobbiamo misurarci. Un’opzione
diversa non c’è. Il tema è come gestire la globalizzazione, quale
governance adottare.
Non è un periodo esaltante. Come spiega l’economista indiano
Bhagwati, liberalizzare quando l’economia non cresce è assai
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difficile, ma - aggiunge - alla fine la gente capirà che alzando
barriere non si va da nessuna parte.
Globalizzazione non vuol dire solo bassi salari e delocalizzazione
delle produzioni. Significa anche mercati che si aprono, nuovi
prodotti e processi produttivi, opportunità di investimento. Il 40%
delle esportazioni cinesi - per 500 miliardi di dollari - è frutto di
joint venture con imprese occidentali che hanno investito in Cina.
Frenando quelle esportazioni, colpiremmo anche le imprese dei
nostri paesi.
Ma il buon funzionamento del commercio internazionale richiede il
rispetto di regole comuni. Non sono accettabili la concorrenza
sussidiata da monopoli interni, il dumping economico o sociale, la
sistematica sottovalutazione del cambio, la contraffazione,
l’abbassamento degli standard di sicurezza dei prodotti, l’assenza
di vincoli alle emissioni nell’ambiente.
L’Unione Europea resta il nostro punto fondamentale di
riferimento. Ma talvolta sembra più interessata a porre vincoli e
limiti ai suoi cittadini e alle sue imprese, piuttosto che a svolgere
un ruolo forte nella difesa di un mercato mondiale con regole certe
e valide senza eccezioni.
Noi non chiediamo la tutela acritica degli interessi europei. Ma
non possiamo nemmeno accettare impostazioni autolesionistiche,
come continuare con l’adozione unilaterale del protocollo di Kyoto.
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Condividiamo l’idea di interventi coordinati per i cambiamenti
climatici. Ma non accettiamo un atteggiamento che rischia di
rendere difficile e costosissimo fare impresa in Europa, lasciando
che chiunque inquini a piacimento fuori dal nostro territorio.
L’Europa deve ritrovare leadership a livello internazionale per
guidare i cambiamenti e le sfide in maniera condivisa. Ha gli
strumenti per farlo. La sua azione deve essere rafforzata e resa
più incisiva. Così aiuterà lo sviluppo e potrà contrastare le pulsioni
protezionistiche che ciclicamente emergono come risposta ad una
globalizzazione non sufficientemente governata.
Questa esigenza diventa prioritaria in una fase di debolezza
dell’economia internazionale.
L’esplosione del prezzo delle materie prime deprime lo sviluppo in
tutti i paesi importatori. I rialzi sono accentuati da speculazioni
finanziarie, da barriere commerciali al libero scambio di prodotti
agricoli, dai sussidi alle coltivazioni dei paesi avanzati. E’ giunto il
momento di ripensare la politica agricola europea.
Serve più domanda interna in Europa. Bisogna aprire i mercati dei
servizi, aumentare gli investimenti nelle tecnologie digitali ed
energetiche, nelle reti infrastrutturali, nell’ambiente.
Per finanziare questi progetti servirebbe una revisione
complessiva del budget comunitario. E va approfondita la
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proposta di obbligazioni europee sul mercato dei capitali, come ha
rilanciato Giulio Tremonti.
L’Unione Europea deve anche adottare una credibile ed efficace
politica comune per la sicurezza energetica: diversificazione delle
fonti, strutture distributive cross-border, un vero mercato unico per
l’elettricità e il gas. Deve avere una voce unica nei rapporti con i
paesi produttori.
Perché l’energia potrebbe essere in futuro il terreno di scontro tra
le diverse aree del globo.
E deve prendere piena coscienza del ruolo sempre più importante
dell’euro. Sono passati quasi dieci anni dalla nascita della moneta
unica. Ci siamo assicurati prezzi più stabili, tassi d’interesse più
bassi, disavanzi pubblici più contenuti.
Le imprese europee hanno imparato a convivere con l’euro forte
che aiuta a contenere i costi delle importazioni, stimola gli
incrementi di produttività, favorisce l’internazionalizzazione dei
nostri investimenti. Ma un euro troppo sopravvalutato nei confronti
del dollaro penalizza in modo insostenibile le nostre esportazioni.
L’Unione Europea deve continuare a spingere il G8 a pronunciarsi
sui cambi e deve coinvolgere la Cina nelle discussioni sull’assetto
valutario.
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La BCE non dovrebbe sottovalutare il rallentamento delle
economie europee.
La crisi dei mercati finanziari sembra ancora lontana dall’essere
riassorbita e allunga le sue ombre sulle prospettive di breve e
medio termine. Deve indurre a profonde riflessioni.
Molti prodotti finanziari offerti sui mercati internazionali erano
complessi e opachi e hanno addossato ai clienti rischi molto alti.
La fase dell’eccesso di debito e dei castelli di carta è finita.
All’azione di stabilizzazione attuata con successo dalle banche
centrali dovrà seguire un’ incisiva azione dei regolatori.
Resta una considerazione più generale. La finanza è una
straordinaria leva di sviluppo e molti strumenti innovativi hanno
giocato un ruolo importante. Ma la pura produzione di finanza a
mezzo di finanza, senza valore aggiunto per debitori e investitori,
ha mostrato tutti i suoi limiti e ha generato una profonda crisi di
fiducia.
La favola del credito ad alto profitto e senza rischi è stata
smascherata. E’ tempo di tornare alla vecchia e solida realtà dei
finanziamenti all’attività produttiva e agli investimenti.
Le banche italiane sono quelle in assoluto con meno rischi e
responsabilità. Hanno di fronte la grande opportunità di porre
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ancora di più al centro delle proprie strategie il rapporto con le
imprese. In una fase di forte rallentamento dell’economia le
banche italiane possono dare un segnale importante in questa
direzione. Così lavoreremo insieme per riprendere il cammino
della crescita puntando su investimenti, innovazione,
occupazione.
° ° °
La malattia dell’Italia si chiama crescita zero. Il ritorno alla
crescita, ad una crescita sostenuta, deve essere il nostro vero
obiettivo strategico. Chi non condivide questa priorità gioca contro
l’Italia e gli italiani. Su questo non possono più esistere posizioni
neutre.
La bassa crescita ha costi elevati. Il nostro PIL sarebbe superiore
di 150 miliardi di euro se negli ultimi dieci anni fossimo cresciuti
come la media degli altri paesi europei.
Le istituzioni politiche, economiche e sindacali non si sono
adeguate al mondo in cambiamento. Corporazioni agguerrite
hanno impedito di sciogliere i nodi che ci soffocano.
Nei decenni passati, rinviare gli interventi necessari, distribuendo
sussidi e posti di lavoro pubblico, ha condotto ad un’espansione
della spesa, ad un fisco oppressivo, al secondo debito pubblico, in
rapporto al PIL, di tutti i paesi industrializzati.
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Vi è una grave sottocapitalizzazione del Paese. Dall’inizio degli
anni novanta, invece di contenere stipendi pubblici e pensioni, si
sono tagliati gli investimenti per infrastrutture, servizi di trasporto,
scuola, giustizia, forze dell’ordine, carceri.
Così paghiamo il prezzo di un isolamento strutturale dei territori e
delle persone per collegamenti stradali, ferroviari e portuali
inadeguati. Siamo in ritardo nei servizi informatici ad alto valore
aggiunto che contraddistinguono i paesi moderni.
I sistemi di gestione dei rifiuti sono vicini al collasso in molte
regioni, anche perché si dice di no ai termovalorizzatori, attivi in
tutti gli altri paesi. Paghiamo i costi più alti d’Europa per l’energia.
Manca una strategia di investimenti per la sicurezza e la
diversificazione energetica perché ci arrendiamo ai veti delle
minoranze.
Serve un ambiente più favorevole all’assunzione del rischio,
all’attività d’impresa, agli investimenti.
In un mondo globale, un paese dove la cultura d’impresa non è
condivisa è destinato ad un ruolo subalterno. E’ questo che
vogliamo? No. Ma troppo spesso si è pensato di tutelare
l’interesse pubblico limitando l’attività imprenditoriale, come se le
aziende fossero una sorta di male necessario da ingabbiare e
vincolare. L’impresa sana che rispetta le regole è protagonista
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della crescita economica, ma anche dello sviluppo sociale e civile
della nazione.
° ° °
Siamo un paese anziano, viviamo di rimpianti e recriminazioni e
poco di progetti. Litighiamo spesso sul passato, non ci
confrontiamo sul futuro. E chi è troppo curioso delle cose del
passato - ci ricorda Cartesio - rischia di diventare molto ignorante
di quelle presenti.
Dobbiamo guardare avanti, alle cose da fare. La prima è
sbloccare gli investimenti che sono pronti a partire, fermi per
inesistenti problemi ambientali. Impianti energetici, rigassificatori e
termovalorizzatori, infrastrutture a rete materiali e immateriali,
insediamenti produttivi: sono centinaia le opere e gli stabilimenti
incredibilmente in attesa di autorizzazione.
Certo, ci vogliono trasparenza e dialogo con le popolazioni
interessate.
Ma poi bisogna decidere. E bisogna dire alla gente la verità. C’è
chi manifesta contro ogni nuova centrale, ma si lamenta per
l’aumento delle bollette delle famiglie. O chi impedisce la
realizzazione di impianti e discariche preferendo lasciare la
popolazione in mezzo a montagne di rifiuti.
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Non accetteremo più che piccoli gruppi, spesso in malafede,
tengano in scacco il Paese. E’ a queste furbizie di bassa lega che
dobbiamo dire basta.
L’investimento in tecnologie può essere catalizzato da pochi
grandi progetti paese: il nucleare di nuova generazione, la
mobilità, il risparmio energetico, le tecnologie ambientali. Sono
questi i temi che devono restare al centro della politica industriale.
° ° °
Abbiamo davanti a noi sfide impegnative e progetti ambiziosi.
Non una fase da piccolo cabotaggio. Dobbiamo cambiare il Paese
nell’interesse delle imprese e dei cittadini, soprattutto dei più
giovani.
Noi continueremo a esprimere con determinazione e forza, con
passione ed entusiasmo, la cultura d’impresa, le ragioni di chi
vuole continuare a crescere.
Vogliamo contribuire così ad un grande disegno di sviluppo
economico e sociale dell’Italia e degli italiani. Collaboreremo con il
Governo per realizzare le riforme necessarie. Continueremo sulla
strada dell’autonomia, che per noi ha un significato molto chiaro:
vogliamo essere fuori dai partiti per rappresentare ovunque le
ragioni della crescita.
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Noi riconosciamo il primato della politica. Ma la politica deve
meritarlo e giustificarlo con i risultati. Gli elettori hanno fortemente
penalizzato, fino ad escluderle dal Parlamento, quelle forze
portatrici di una cultura anti industriale. Per la prima volta, tutte le
formazioni politiche presenti nelle due Camere condividono i valori
del mercato e dell’impresa. Stiamo assistendo a una significativa
semplificazione del sistema politico.
Io sento il dovere di essere, malgrado tutto, ottimista. Mi sembra
che si stia esaurendo, nella coscienza collettiva, quel conflitto di
classe fra capitale e lavoro che ha segnato la storia degli ultimi
150 anni. Oggi si fa strada la consapevolezza che la crescita
economica è il vero bene comune.
Possiamo chiudere una lunga stagione di antagonismo, pensare
in maniera nuova il confronto con i sindacati e il modello di
relazioni industriali. Oggi sono obsolete. Dopo quattro lunghi anni,
CGIL, CISL e UIL hanno finalmente definito una posizione unitaria
e questo rappresenta un punto di partenza importante. Non è una
piattaforma, ma una proposta per avviare una trattativa nuova,
lontana dai riti inconcludenti del passato.
Certo, molte proposte non sono per noi condivisibili, come l’idea di
indicizzare le retribuzioni ai prezzi che ci porterebbe fuori
dall’Europa. Ma finalmente ci sono le condizioni per iniziare un
confronto, cambiare le regole del gioco, modernizzare il sistema.
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Ai sindacati voglio dire: poniamoci davvero l’obiettivo comune,
forti della nostra autonomia e del nostro ruolo di parti sociali, di
raggiungere un’intesa entro pochi mesi. E’ alla nostra portata. Se
ci riusciremo, scriveremo una pagina importante nella storia delle
relazioni industriali e libereremo energie in favore dello sviluppo.
Noi siamo pronti.
Negli ultimi dieci anni il costo del lavoro è salito in Italia in linea
con la media europea ma non altrettanto ha fatto la produttività.
Abbiamo perso competitività: meno 10 punti rispetto alla media
dell’area euro e meno 18 nei confronti della Germania.
La produttività è ciò che in questi anni è mancato alla nostra
economia. Solo con un forte recupero di produttività sarà possibile
conciliare crescita e occupazione, competitività e incremento dei
salari: tutti obiettivi essenziali per il Paese.
Il sistema di contrattazione è ancora quello del 1993, approvato
quando c’era la lira e la globalizzazione muoveva solo i primi
passi.
E’ stato per molti anni un buon sistema, ha raffreddato l’inflazione.
E’ inadeguato alle esigenze di oggi perché impone a realtà
produttive diverse retribuzioni e organizzazione del lavoro
uniformi. Non favorisce la contrattazione di secondo livello che
potrebbe coniugare meglio retribuzione e produttività.
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Occorre alleggerire il contratto nazionale per dare più spazio e
risorse alla retribuzione legata all’aumento di produttività e ai
risultati aziendali.
I sindacati italiani sono una grande organizzazione, con dodici
milioni di iscritti. Sta al coraggio dei loro leader impiegare questa
forza a favore del cambiamento, del benessere, delle opportunità
per i giovani.
Una parte della cultura sindacale non si è adeguata ai modelli
produttivi, che si sono evoluti nelle imprese distrettuali e a rete,
nelle medie imprese radicate nei territori e che operano nei
mercati globali. E’ in queste reaItà che si sta già sperimentando
una forte convergenza di interessi tra imprese e lavoratori. E’ un
dato nuovo, un valore importante, un’opportunità che va colta.
Chiediamo ai sindacati di cambiare in profondità per non
condannarci ad una perdita forte di competitività e di benessere.
Chiediamo ai sindacati di negoziare nell’interesse vero dei
lavoratori e non di qualche superata ideologia.
La riforma della contrattazione dovrà riguardare anche il pubblico
impiego, che ha inspiegabilmente ottenuto negli ultimi anni
incrementi retributivi più che doppi rispetto al settore privato,
senza alcun aumento di efficienza.
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I tassi di assenteismo nel pubblico impiego sono uno scandalo
nazionale. Noi non accettiamo un sistema dove ci sono persone
che timbrano il cartellino e subito dopo abbandonano il posto di
lavoro. E’ un insulto nei confronti dei lavoratori onesti, pubblici e
privati.
Non possiamo più sopportare che una parte del Paese, sottratta
ad ogni controllo, scarichi i suoi costi e le sue inefficienze sulla
parte sana. Quella parte che lavora e produce per tutti e che
ormai manda inequivocabili segni di insofferenza.
Oltre alla contrattazione, vanno riviste le regole del mercato del
lavoro e del welfare. Va aggiornato il quadro dei diritti dei
lavoratori e bisogna adottare modelli di flexicurity. Non è il posto di
lavoro che deve essere garantito, ma un reddito e una formazione
adeguati, come accade nei paesi con sistemi di sicurezza sociale
più moderni ed attivi.
E questa è sempre stata l’idea di Marco Biagi e Massimo
D’Antona, che hanno pagato con la vita la volontà di innovare e di
guardare al futuro. A loro va il nostro ricordo e il nostro grazie.
Il welfare italiano è particolarmente inefficiente ed iniquo. Quasi il
60% della spesa sociale serve a coprire dal rischio di vecchiaia,
perché l’età media dei pensionati è bassa e il pensionamento
avviene tre anni prima che nella media dell’OCSE. Negli Stati
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Uniti la pensione viene erogata per dodici anni, in Danimarca per
undici anni, in Svezia per tredici, in Italia per diciassette.
L’età della pensione andrebbe indicizzata all’aumento della
speranza di vita.
Questa distorsione condanna l’Italia a destinare appena il 2%
della spesa sociale al sostegno del reddito di chi ha perso il posto
di lavoro, un terzo della media europea. Altrettanto scarsi sono gli
aiuti alla famiglia e ciò si riflette nella bassa natalità. Solo il 12%
della spesa sociale va al 20% più povero della popolazione.
Con questo squilibrio a favore delle pensioni, abbiamo rinunciato
a quella grande risorsa che è l’occupazione femminile. C’è uno
slogan efficace che riassume la questione: troppe donne a casa,
troppe culle vuote, troppi bimbi poveri.
Così si bruciano enormi potenzialità. Nell’ultimo decennio
l’incremento del lavoro femminile nei paesi sviluppati ha
contribuito alla crescita mondiale come l’intera economia cinese.
In Italia è attivo solo il 47% delle donne in età lavorativa. Si
scende al 31% nel Mezzogiorno. Con una occupazione femminile
allineata ai tassi medi europei, il nostro PIL sarebbe più alto di
quasi il 7%.
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Il lavoro femminile aumenta il reddito familiare e genera nuova
occupazione.
Dobbiamo avere più donne al lavoro e un welfare più a favore
della famiglia e dell’infanzia.
“Non è un paese per vecchi” è il titolo di un romanzo di McCarthy
e del recentissimo film che ne è stato tratto. Se guardo all’Italia
devo dire con rammarico che non è un paese per giovani.
Da troppi anni sono state adottate scelte e politiche contrarie
all’interesse delle nuove generazioni. Pensiamo al debito pubblico
più alto d’Europa che scarichiamo sui più giovani. O alla spesa
pubblica improduttiva che cresce a dismisura e dissipa oggi molte
risorse che dovremmo invece investire per il domani.
Noi vogliamo una società aperta, che premi e promuova il merito,
dove siano date a tutti uguali opportunità di partenza e dove
l’anzianità di carriera non sia il principale criterio di remunerazione
delle capacità. Dove ci siano maggiore mobilità sociale, più
competizione e solidarietà nei confronti dei più deboli.
Compete anche a noi costruire una società più aperta,
trasparente, che non sia preda dei privilegi corporativi. Ma ai
giovani dico con altrettanta chiarezza: guardate alla competizione
e al merito come valori positivi, pretendeteli nelle scuole e nelle
università, non fatevi sedurre dai cattivi maestri dell’egualitarismo
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al ribasso che toglie opportunità a chi ha talento, a chi si vuole
impegnare e vuole farsi valere.
Guardate con grande attenzione alle ragioni vere della vostra
generazione. Non lasciatevi strumentalizzare da chi vi chiede di
sostenere interessi e privilegi - dalle pensioni alle rigidità del
mercato del lavoro - che sono rivolti contro di voi.
° ° °
Non ci può essere vera solidarietà senza uno Stato efficiente. Non
c’è rispetto dei diritti e tutela dei cittadini. Non c’è libertà di
impresa, non c’è giustizia, non c’è buona istruzione, non c’è
legalità, non c’è lotta all’evasione.
Servono uno Stato leggero e rigoroso, una pubblica
amministrazione che funzioni, vicina ai cittadini e alle imprese,
inflessibile contro chi non rispetta le regole e danneggia la
comunità. Ci sono molte eccellenze anche all’interno della
macchina pubblica. Ma si tratta di generosità individuali e di
professionalità isolate.
I dipendenti pubblici in Italia sono mal distribuiti per funzione e sul
territorio. In rapporto agli abitanti, al Sud sono il 50% in più che al
Nord. Serve una grande ristrutturazione. Si devono utilizzare in
modo oculato il turnover, la mobilità geografica e ammortizzatori
sociali di durata limitata.
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“Se uno è giovane e ha talento, difficilmente si fa strada negli uffici
statali.” Lo scriveva un secolo fa il romanziere Hasek. Da noi non
molto è cambiato. E’ necessaria un’azione di medio termine per
coinvolgere e valorizzare il personale migliore e penalizzare i
furbi. Questo sarà un banco di prova anche per i sindacati.
Leggiamo che i fannulloni verranno licenziati. E’ un principio che
ci trova pienamente d’accordo, a patto che alle parole seguano i
fatti. Altrimenti sarà l’ennesima sconfitta di tutti coloro che, nel
privato come nel pubblico, lavorano con serietà.
Bisogna semplificare, ridurre il numero delle leggi, eliminare le
incertezze di interpretazione. Il nostro paese associa una
singolare diffusione dell’illegalità a una pletora di regole spesso
contraddittorie e incomprensibili, che governano minuziosamente
la vita dei cittadini. La burocrazia è uno dei principali ostacoli agli
investimenti in Italia.
Chiediamo che venga attuato il progetto “impresa in un giorno” e
che venga riformata la giustizia civile che non funziona. Per
recuperare un credito occorrono 40 mesi, contro i 12 dei maggiori
paesi industrializzati. Ciò mina alla base la certezza del diritto, la
tutela della proprietà, il rispetto dei rapporti contrattuali.
La certezza del diritto è fondamentale. Non c’è mercato senza
legge.
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Come spiega l’economista Hernando De Soto, ciò che accomuna
le aree del mondo che non riescono a svilupparsi non è la
carenza di iniziativa economica. E’ la difficoltà a rappresentare i
diritti di proprietà, cioè la mancanza di una relazione tra legge e
mercato.
Sulle piccole imprese il costo della burocrazia grava per quasi 15
miliardi di euro l’anno: un punto di PIL sottratto al loro sviluppo.
Ventisette adempimenti informativi in materia di lavoro,
previdenza e assistenza gravano sulle imprese per quasi 10
miliardi. Quindici adempimenti ambientali valgono 2 miliardi di
euro. Un miliardo e mezzo di euro è il costo di sette adempimenti
per la normativa antincendi. Una vera emergenza nazionale.
I ritardati pagamenti della pubblica amministrazione, soprattutto
nelle aree meridionali, rappresentano la causa di fallimento in un
caso su quattro.
E’ difficile immaginare una democrazia funzionante quando è lo
Stato il primo a non rispettare le regole.
La politica ha invaso l’amministrazione, piegandola a fini impropri
di ricerca del consenso. Ne ha minato l’efficienza e l’imparzialità e
nello stesso tempo ha perso autorevolezza, capacità di controllo e
di indirizzo. La lottizzazione minuta delle cariche e degli impieghi
ha progressivamente smantellato i centri di competenza.
22
La politica deve ritirarsi velocemente dai compiti che non le
appartengono. Deve tornare alla missione che le è propria:
definire gli orientamenti strategici dell’azione pubblica e comporre
gli interessi. Deve uscire dalle gestioni, rinunciare a decidere gli
appalti e a nominare i primari degli ospedali. Non deve interferire
nell’attività delle aziende.
Si devono tagliare i costi della politica - a cominciare dal numero
dei parlamentari e dei componenti delle altre assemblee elettive -
e eliminare i privilegi. Si devono ridurre i livelli decisionali partendo
dalle province.
Bisogna affermare, nella gestione della cosa pubblica a tutti i
livelli, un costume di sobrietà. Diventerà più positivo il rapporto fra
i cittadini, lo Stato, la politica.
Lo Stato deve assicurare buone prestazioni. Vogliamo una scuola
pensata per gli studenti e non per gli insegnanti, una sanità
organizzata sulle esigenze dei pazienti e non su quelle dei medici
o degli infermieri, uffici pubblici con orari di apertura strutturati per
favorire la popolazione più che gli impiegati.
° ° °
Lo Stato italiano è inefficiente anche quando incassa imposte e
contributi. La pressione fiscale è superiore alla media europea ed
è profondamente disomogenea: l’evasione sottrae alle casse
23
pubbliche almeno 90 miliardi l’anno e fa salire per i cittadini onesti
la pressione fiscale sopra il 51%. Siamo oltre i livelli svedesi. Con
servizi neanche lontanamente comparabili.
Nonostante la riduzione delle aliquote varata dall’ultima
Finanziaria, il prelievo effettivo sugli utili d’impresa resta in Italia il
più alto d’Europa. E’ un chiaro invito a non investire da noi, in un
mondo dove i sistemi fiscali rappresentano un importante
elemento competitivo fra paesi.
Si devono perciò muovere altri passi verso la riduzione delle
aliquote IRES e IRAP, guardando alla pressione effettiva e non a
quella nominale. Per l’IRAP è auspicabile una progressiva
deducibilità e va drasticamente ridimensionata la componente
costo del lavoro, una sorta di tassa sugli occupati. Tutto dovrà
avvenire in un quadro di equilibrio delle finanze pubbliche e di
riduzione del debito, basandosi sui tagli alla spesa.
In questi anni le imprese hanno contribuito molto all’incremento
generale del gettito tributario. Nel 2007, a parità di aliquote, il
gettito IRES è aumentato del 27% rispetto al 2006 e di quasi
l’80% rispetto al 2004.
La pressione fiscale sulle imprese va abbassata. Chiediamo
stabilità e continuità normativa per consentire programmazioni di
medio periodo.
24
Bisogna continuare nella lotta all’evasione e all’elusione fiscali che
danneggiano le imprese e i contribuenti onesti. Il fisco deve
essere severo con i furbi e gli evasori, costruttivo nel rapporto con
i tanti che rispettano le regole.
Abbiamo bisogno di un’amministrazione finanziaria che capisca
l’impresa e non cada nell’errore di chi pensa che l’evasione sia
ovunque. Le imprese, soprattutto le piccole, devono essere
accompagnate e aiutate nel corretto adempimento dei propri
doveri.
Va eliminata, e presto, la piaga dei ritardi nei rimborsi d’imposta,
già condannata dalla Corte di giustizia europea.
E non è accettabile che l’amministrazione finanziaria possa
bloccare i pagamenti dovuti alle aziende in presenza di un
contenzioso anche di poche migliaia di euro. E’ un sistema per
risparmiare sulla cassa. Non è degno di un paese moderno.
Serve un nuovo rapporto di fiducia tra il fisco e le imprese.
° ° °
Uno Stato più efficiente passa anche attraverso un progetto di
federalismo che dia ad aree omogenee capacità di azione per
filtrare e affrontare le sfide della globalizzazione. Un nuovo
federalismo può valorizzare le potenzialità dei territori, attrarre
25
investimenti e talenti, essere aperto alla competizione e
aumentare il livello di efficienza.
Il processo federalista è a metà del guado. Così com’è non
funziona. Negli anni 2000, quando sono state iniettate dosi più
consistenti di decentramento, le spese correnti delle
amministrazioni locali sono esplose. La spesa sanitaria è salita di
oltre il 50%. Nello stesso tempo non è stato posto alcun freno alle
spese delle amministrazioni centrali. Un percorso insostenibile.
E’ invece possibile un federalismo virtuoso, come ci insegnano
molti paesi europei.
Per l’Italia, il prossimo passaggio è il federalismo fiscale. Deve
costituire un’assunzione di responsabilità e accompagnarsi ad un
taglio di spesa frutto della guerra alle duplicazioni, alle
sovrapposizioni, agli sprechi. Deve essere l’occasione per
rivedere la distribuzione delle competenze a cui vanno
commisurate le fonti di entrata.
Devono tornare al centro le materie connesse alle grandi reti
nazionali di energia, trasporto e comunicazione. Può essere
largamente decentrata la gestione di molti servizi pubblici: scuole,
trasporti locali, servizi per l’immigrazione e l’integrazione.
Il decentramento delle imposte funziona se c’è la piena
percezione dei cittadini di destinare una parte del loro reddito agli
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enti locali. Si innesca così il circuito positivo del “pago - controllo -
esigo”. Deve coniugare equità ed efficienza e responsabilizzare i
politici e l’apparato amministrativo.
° ° °
Federalismo non significa neostatalismo. A livello locale sono
ormai concentrati sia il patrimonio immobiliare pubblico sia
l’intervento in economia con un numero impressionante di
aziende.
Sono 4 mila e 800 società, con oltre 250 mila addetti. Hanno fini
sempre più impropri: aumento delle entrate dei bilanci locali e
della loro capacità di spesa, aggiramento dei vincoli di finanza
pubblica, gestione del potere, distribuzione di cariche e relativi
emolumenti alla classe politica.
Si usano, male, i soldi dei contribuenti per produrre, attraverso
imprese pubbliche, i servizi di cui i comuni, le province o le regioni
hanno bisogno.
Si sottrae mercato ai privati, si fa concorrenza sleale, si rinuncia
all’efficienza e ai risparmi di spesa che verrebbero da una
competizione fra più soggetti attraverso appalti pubblici
trasparenti. Si scaricano i costi su imprese e cittadini.
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Privatizzando aziende e immobili pubblici si possono ottenere
rilevanti flussi di cassa e enormi guadagni di efficienza.
C’è, nei confronti di questo percorso, una forte resistenza. Ma il
cammino delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni va ripreso,
sia a livello nazionale, sia a livello locale. Condividiamo l’idea di
essere attenti ad alcuni interessi strategici che non possono
essere ceduti a monopoli stranieri o a fondi sovrani.
Ma non possiamo nemmeno accettare di aver combattuto oltre
vent’anni fa il “panettone di Stato” per ritrovarci con un esercito di
piccole software house comunali.
L’Europa ci impone di liberalizzare il settore dei servizi.
E’ questa la strada da percorrere invece di aumentare ogni
genere di tributo come stanno facendo quasi dappertutto regioni
ed enti locali. In particolare nel Mezzogiorno dove, per effetto
delle addizionali IRAP, si è caricata sulle imprese una fiscalità più
pesante rispetto al resto del Paese.
Nelle regioni dove la spesa sanitaria è fuori controllo bisogna dire
basta alle addizionali e alla politica del “tassa e spendi”. Gli
amministratori siano chiamati a rispondere del fallimento della loro
gestione.
° ° °
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Non può esservi ripresa durevole della crescita dell’Italia se non si
rimette in moto il Mezzogiorno.
La crisi del Mezzogiorno è civile e istituzionale, prima ancora che
economica.
Un fiume di denaro proveniente dal resto del Paese e dall’Europa
è stato dissipato negli ultimi tre decenni, senza miglioramenti
visibili dell’ambiente economico e del tessuto produttivo. La
corruzione e le attività malavitose impediscono il lavoro delle
imprese oneste.
Il Mezzogiorno ha in sé anche enormi potenzialità. Il PIL per
abitante è al Sud pari al 57% di quello del Nord: portarlo allo
stesso livello delle regioni settentrionali nell’arco di quindici anni
comporterebbe una crescita annua del 6% per l’area e tre milioni
di nuovi occupati. Il Mezzogiorno diventerebbe un volano di
crescita per l’intero Paese.
Grazie al contributo dell’Unione Europea, tra il 2007 e il 2014
sono disponibili 100 miliardi di euro per investimenti nelle zone in
ritardo di sviluppo del nostro paese. Vogliamo, insieme con le
altre forze sociali, evitare di disperderli in mille rivoli e verificare
attivamente dove saranno destinati.
Bisogna indirizzare l’intervento verso pochi e chiari obiettivi
misurabili: innanzitutto la sicurezza e poi un piano per le
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infrastrutture. Occorre inoltre investire in istruzione e innalzare la
qualità delle amministrazioni e delle aziende pubbliche, vero
handicap del Mezzogiorno.
° ° °
Un paese che voglia crescere deve investire nella formazione,
nella scuola e nell’università. Innalzare l’istruzione ai livelli dei
migliori paesi aumenta nel medio periodo il reddito pro capite del
15%.
Va cambiata la cultura che ha indebolito la scuola e l’università
per un malinteso e dannoso egualitarismo.
Invece di spingere i ragazzi a studiare di più, è prevalsa l’idea di
promuoverli più facilmente. Si è pensato che il titolo di studio, e
non la qualità dell’istruzione, fosse la chiave della promozione
sociale. Invece di valorizzare i talenti, si è appiattito tutto verso il
basso.
Il risultato è che a 15 anni un ragazzo italiano ha già perso un
anno di apprendimento rispetto a un suo coetaneo europeo.
La selezione dei docenti è spesso degenerata: autogestione
sindacale nella scuola, cooptazione baronale nell’università. Si
sono ridotti gli investimenti pubblici, ma si è anche sprecato a
piene mani. Il finanziamento pubblico non premia le università
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migliori o più efficienti; quelle di bassa qualità continuano a
illudere schiere di giovani con titoli di studio senza valore.
E’ essenziale che la qualità dei docenti sia ricompensata con
incentivi di carriera e premi economici. Va promossa l’emulazione
tra le scuole.
L’università ha moltiplicato le cattedre e marginalizzato la ricerca
scientifica. Abbiamo 94 atenei e 2700 corsi di laurea, alcuni dei
quali decisamente stravaganti, ma le imprese non trovano
abbastanza giovani con specializzazioni tecnico - scientifiche.
Vanno rivalutati gli istituti tecnici e professionali, devono
moltiplicarsi le sinergie tra aziende e atenei per la ricerca
applicata. Si può ripartire dai centri di eccellenza di alcuni
politecnici per sviluppare anche la ricerca di base.
Dobbiamo investire sulla qualità, valutando a livello nazionale
l’apprendimento nelle materie chiave. Dobbiamo ricercare e
promuovere i talenti. Mentre da noi si teorizza l’uguaglianza nella
mediocrità, in Gran Bretagna si è creato - con una selezione
oggettiva e trasparente - un gruppo di scuole capaci di valorizzare
i più bravi e preparare le classi dirigenti del futuro.
Così si costruisce il futuro sulla base del merito e non con le
promozioni di massa.
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Mi rivolgo, come mamma di una bambina di 5 anni, a tutti i
genitori. Dobbiamo assumerci la responsabilità di garantire ai
nostri figli un’educazione ed una preparazione di qualità perché
essi dovranno vedersela con un mercato dei talenti senza
frontiere, dovranno confrontarsi con la concorrenza intellettuale
degli immigrati di seconda generazione, fortemente motivati a
salire nella scala sociale.
I nostri figli rispetto a noi avranno sfide molto più difficili.
Dobbiamo dar loro una scuola esigente, selettiva, di eccellenza,
che consenta di affrontare la competizione con le carte migliori.
° ° °
In questi anni, in un sistema Paese poco competitivo, le imprese
italiane hanno fatto grandi progressi. Si sono ristrutturate e hanno
investito sulla qualità, su prodotti a più alto valore aggiunto e con
maggiore contenuto tecnologico. Hanno affrontato a viso aperto il
confronto sui mercati internazionali.
Il sistema industriale italiano oggi appare complessivamente più
forte, in molti settori di nuovo protagonista. Vogliamo fare ancora
di più. Guardiamo alla Germania, paese maturo che ha saputo
ritrovare vocazione industriale, forte competitività e capacità di
leadership.
Noi siamo pronti a fare ogni sforzo.
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Voglio sottolineare quattro impegni, che considero strategici.
Il primo riguarda la sicurezza sul lavoro. Noi sappiamo quanto i
veri imprenditori tengano ai loro lavoratori. La sicurezza sul lavoro
è un nostro obiettivo, prima ancora che la legge ce lo imponga.
Siamo pronti a collaborare in ogni modo per combattere gli
infortuni sul lavoro, anzitutto con una campagna di
sensibilizzazione, formazione, prevenzione.
Come sapete noi non condividiamo il provvedimento approvato
negli ultimi giorni della scorsa legislatura, soprattutto perché
manca quasi del tutto una politica attiva a favore della sicurezza.
Questo per noi è un impegno molto forte.
Il secondo è l’impegno per gli investimenti in ricerca e
innovazione. La spesa pubblica è chiaramente insufficiente ma,
pur con molte eccezioni, anche le imprese sono in ritardo.
Dobbiamo innalzare gli investimenti al livello dei concorrenti più
agguerriti: qui si gioca la nostra capacità futura di competere.
Il terzo riguarda i cambiamenti climatici, strettamente legati alla
nostra sicurezza energetica.
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L’industria italiana già oggi ha buoni livelli di efficienza energetica.
Occorre invece che il Paese nel suo insieme migliori i propri
standard. Su questa sfida vogliamo giocare un ruolo importante.
La crescente attenzione dei consumatori al risparmio energetico,
all’inquinamento, alla tutela ambientale, alla sicurezza in campo
alimentare e lo sviluppo di nuove tecnologie in questi settori
aprono nuovi mercati. Trasformano le sfide climatiche in una
occasione di crescita, in un elemento distintivo di competitività.
Le imprese italiane possono far leva sull’immagine di qualità della
vita del Paese e affermarsi come leader in questi campi. Stanno
adottando politiche lungimiranti per il risparmio energetico, le
infrastrutture energetiche, le fonti rinnovabili e il nucleare.
E’ tempo di tornare a investire nell’energia nucleare, settore dal
quale ci hanno escluso più di vent’anni fa decisioni emotive e
poco meditate. Ciò ha accresciuto la nostra insicurezza e la
dipendenza dall’estero, ha sottratto altre risorse alla crescita, ha
gonfiato le bollette elettriche di famiglie e imprese.
Il quarto impegno è il pieno rispetto delle regole, la lotta per la
legalità e contro le mafie che avvelenano il mercato e la stessa
vita civile in molte zone del Paese. Gli imprenditori sono già in
prima linea. Mettono a rischio le loro capacità e i loro beni, e
qualche volta anche la vita.
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Voglio ringraziare coloro che fanno impresa nel Mezzogiorno.
Noi vi siamo vicini. Nella coraggiosa lotta alla criminalità avrete
sempre il nostro supporto. Non vi lasceremo soli.
Questa vostra battaglia fa onore a tutti gli imprenditori italiani.
C’è un ultimo impegno che voglio affermare: è quello di cambiare
anche come associazione delle imprese. Confindustria compirà
100 anni nel 2010. E’ una istituzione forte e credibile, ai massimi
storici per numero di associati. Ma anche noi abbiamo bisogno di
riforme per rispondere sempre meglio alle nuove istanze di
rappresentanza e di servizi che provengono dalle imprese. La
modernizzazione deve essere un obiettivo costante.
° ° °
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Autorità, Colleghi, Signore e Signori,
da troppo tempo l’Italia è bloccata: non riesce ad assicurare
condizioni adeguate di benessere ai suoi cittadini e prospettive di
miglioramento ai suoi figli.
Viviamo in un tempo in cui il rischio più grande è quello di pensare
solo a noi stessi, ai nostri più diretti interessi, ciascuno alla propria
generazione, alla stretta quotidianità.
Abbiamo il dovere di dare risposte ai problemi di oggi e di
immaginare una storia per il futuro. Dobbiamo sollevare lo
sguardo e costruire un nuovo sviluppo.
Unità, coesione, iniziativa, dedizione, amore per noi stessi:
dobbiamo ritrovare lo spirito italiano che rende raggiungibile ogni
traguardo.
Quello spirito italiano è imbattibile nelle emergenze. Deve essere
prassi anche nella quotidianità. Nelle scorse settimane ci ha
consentito di portare in Italia l’Expo 2015.
Dobbiamo rilanciare quello spirito, riscoprire l’orgoglio di essere
italiani e di ritrovare la forza ideale di un grande traguardo:
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restituire al nostro paese il senso del suo ruolo nel mondo che
cambia, non da gregari ma da protagonisti.
Il “dovere” verso il futuro è nel codice genetico delle imprese e
degli imprenditori. Una tensione continua a cambiare, a inventare,
a rimodernarci: è il nostro “marchio di fabbrica” da difendere e
diffondere sui mercati e nel confronto con le istituzioni e con le
rappresentanze sociali.
Questa è la nostra missione.
Il successo delle imprese è la ragione di Confindustria.
L’impresa è un valore centrale per la vitalità di una economia e di
una comunità. E’ un laboratorio di cittadinanza, dove collaborano
e si fondono etnie e culture diverse. L’impresa è il luogo di lavoro
in cui imprenditori e dipendenti sentono un interesse comune.
Tutti noi siamo chiamati ad una grande sfida. C’è uno scenario
nuovo e irripetibile. Abbiamo la possibilità di far rinascere il Paese.
Vorrei chiudere con una frase del filosofo Diderot. “Solo le
passioni, le grandi passioni, possono innalzare lo spirito a grandi
cose”.
Ci muove una straordinaria passione per l’Italia. Per questo sono
ottimista. Sono sicura che non sprecheremo questa occasione.