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Il fascismo nella storiografìaLa dimensione europea
Enzo Collotti
Totalitarismo, fascismo, nazismo
Gli studi a livello internazionale sul fascismo si muovono oggi tra due poli contraddittori. Da una parte raffinamento dell’indagine storiografica e l’assimilazione e l’utilizzazione di tecniche e di risultati di ricerca di altri campi delle scienze sociali hanno posto la ricerca nella condizione di elaborare analisi di strutture, di istituzioni e di articolazioni di potere e ipotesi interpretative di grande finezza e profondità analitica. Dall’altra, la crisi profonda di ideologie, sistemi politici e paradigmi scientifico-culturali che stiamo attraversando tende a fare sbiadire il ruolo fondamentale che il fascismo ha avuto nel- l’imprimere la sua fisionomia alla storia dell’Europa del nostro secolo, quasi che altri siano gli eventi ai quali si debba attribuire una parte caratterizzante nelle vicende politiche e culturali dell’Europa, quasi che tra le idee-forza del secolo sia al bolscevismo e non al fascismo che si debba attribuire il primato di un processo che ha inciso radicalmente nella trasformazione della società europea dopo la prima guerra mondiale, se non altro perché mentre dal punto di vista istituzionale il fascismo in senso stretto si è esaurito con la conclusione della seconda guerra mondiale, la vicenda della rivoluzione bolscevica ha avuto la sua fase espansiva e conclusiva proprio nell’ultimo mezzo secolo con l’esperimento dei regimi comunisti dell’Europa centro-orientale.
La presenza e per una parte cronologica la compresenza di regimi di tipo fascista e del regime sovietico in Urss hanno fatto anche parlare di secolo del totalitarismo, come se la storia della nostra epoca si potesse unicamente definire sulla base delle esperienze, peraltro così diverse, di negazione della democrazia. Qualsiasi definizione di questa natura contiene una parte di verità, ma ci sembrerebbe del tutto arbitrario nella molteplicità dei fenomeni e degli sviluppi politici, sociali e culturali che hanno lacerato il nostro secolo stabilire priorità e gerarchie assolute. Riaffermare viceversa il carattere centrale dell’esperienza del fascismo vuol dire richiamare l’attenzione su un tipo di cultura politica e su una forma di organizzazione dello Stato e della società che hanno avuto nell’economia della storia dell’Europa una fortuna non effimera con particolare riferimento al periodo tra le due guerre mondiali, all’esperienza stessa della seconda guerra mondiale e all’area intera dell’Europa occidentale e centro-orientale. Questo, ripetiamo, non può voler dire in alcun modo stabilire gerarchie od esclusioni ma solo indicare il ruolo centrale di una problematica che ha profondamente segnato mezzo secolo di storia europea.
Mentre dunque la distanza del tempo trascorso dall’esperienza storica del fascismo sembra metterci in grado di percepire con la maggiore nettezza possibile i contorni di questa come esperienza europea, alcuni sto-
Italia contemporanea”, marzo 1994, n. 194
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rici tendono a stemperare la storia del fascismo all'interno della storia nazionale di un singolo paese non per mettere in risalto la specificità del regime ma piuttosto per ricondurlo nella normalità di un percorso nazionale, privandolo in tal modo così della sua specificità come del suo carattere esemplare e del suo valore periodizzante1. Non si tratta qui né di accomunare tutte le versioni di reinterpretazioni recenti del fascismo, del nazismo, dei regimi reazionari e delle dittature militari che si affermano all’ombra del fascismo in una indistinta categoria di “revisionismo”, né di sottovalutare le motivazioni diverse che muovono i diversi protagonisti e fautori di una revisione interpretativa. Al contrario, si tratta di accettare la discussione sul nuovo terreno proposto, sempre che revisione non significhi aprire la via ad una rimozione o ad una cancellazione, se non al rovesciamento, di un paradigma interpretativo.
Ciò che va rifiutato è il gioco di bilanciare l’uno contro l’altro bolscevismo e fascismo per affermare che l’uno è peggiore dell’altro o il secondo il male minore e trarne le deduzioni politiche che è facile immaginare. Si tratta di fenomeni altrettanto importanti della storia della nostra epoca che non possono essere resi fungibili ad una operazione di compensazione di colpe e di responsabilità, così come tra di essi non si può stabilire un rapporto di causa ed effetto. I tratti esteriori che possono accomunarli scaturiscono certo dal clima di un’epoca ma non sono sufficienti a smentire o ad attenuare le ragioni specifiche e le modalità specifiche che
nei rispettivi contesti sociali e nazionali resero possibile la loro affermazione e condizionarono la loro evoluzione. Tutto questo non significa che nel riflettere sulla storia del nostro secolo non si debbano mettere in luce anche i caratteri comuni che possono avere contraddistinto regimi per altro distanti ed anche contrapposti e antagonisti, in quanto figli tutti di una stessa epoca e di una stessa temperie culturale. Così come comparare non può significare confondere né mettere tutto sullo stesso piano, appiattire, bensì non cessare mai di cogliere anche e proprio negli elementi della comparazione le rispettive specificità.
La ricerca internazionale appare consapevole e pressoché unanime nel considerare il fascismo una forza politica e una forma di organizzazione politicosociale di dimensione europea. La raccolta comparata di studi coordinata da Larsen e collaboratori (certo non l’ultima di analoghe iniziative) ha fatto più di una decina di anni fa il punto dei risultati acquisiti dalla ricerca empirica e dall’elaborazione teorica sui movimenti fascisti e sui regimi gravitanti nell’orbita dei cosiddetti fascismi classici, il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco2. Gli studi successivi non hanno modificato, pur arricchendolo, il quadro complessivo delle nostre conoscenze o i paradigmi interpretativi. Diversi approfondimenti su singole situazioni nazionali, paralleli anche alla crescente attenzione posta negli studi degli ultimi anni al problema del collaborazionismo per il periodo della seconda guerra mondiale3, hanno consentito di meglio specificare il rapporto
1 II referente di questa problematica continua ad essere nella sua radicalità Ernst Nolte, di cui si può vedere da ultimo il volume Streitpunkte. Heutige und kiinftige Kontroversen um den Nationalsozialismus, Berlin, Propylaen, 1993.2 Cfr. S.U. Larsen, B. Hagtvet, J.P. Myklebust (a cura di), Who were the Fascists? Social Roots o f European Fascism, Bergen-Oslo-Tromso, 1980.3 Per questa problematica mi permetto di rinviare alla rassegna di Enzo Collotti, Il collaborazionismo con le potenze dell’Asse nell’Europa occupata: temi e problemi della storiografia, “Rivista di storia contemporanea”, 1992, pp. 327-359.
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esistente tra gli spezzoni europei del fascismo e il primo modello, quello del fascismo italiano, dal quale trassero imitazione o ispirazione tutte le forme di regimi fascisti o autoritari di destra che si affermarono tra le due guerre mondiali. Non a caso, studiando la ricezione del fascismo nell’Europa orientale Jerzy W. Borejsza ha affermato che “tra il 1922 e il 1929 il fascismo italiano ha esercitato una certa influenza per il mero fatto di esistere”4, indipendentemente cioè anche dai concreti contatti politici o propagandistici che pure vi furono.
Non c’è dubbio che la fonte di ispirazione fondamentale dei movimenti fascisti è stata rappresentata dalla lezione della prima guerra mondiale. Certo, i sedimenti nazionalisti spiegano bene, nel caso dell’Italia come della Germania, la sutura tra l’esperienza della guerra mondiale, la crescita del regime fascista e poi l’avvento al potere del nazionalsocialismo, nonché l’incubazione in altri ambiti nazionali, Francia compresa, di una miriade diffusa di movimenti fascisti e fascistoidi che se non misero mai immediatamente in pericolo le istituzioni democratiche ne minarono tuttavia la credibilità e la saldezza. Gli studi di George Mosse sulle radici culturali non soltanto del nazionalsocialismo ma anche del fascismo italiano, sul rapporto fondamentale nazionalismo-fascismo, sulla mistica giovanilistica del fascismo conservano una ricca messe di suggerimenti e di stimoli
in queste direzioni e in direzione dell’analisi della problematica del consenso5. È dalla guerra e dalle esperienze di mobilitazione politica, economica e sociale che derivano le visioni organicistiche della società, la visione e la prassi militarizzata della politica, il rifiuto del pluralismo e del parlamentarismo in nome di una armonizzazione e subordinazione dei punti di vista particolari a un modello esasperato di union sacrée.
Sembra viceversa avere sottovalutato questo rilevante aspetto, perché muove da un diverso angolo visuale, Zeev Sternhell, il quale — tutto intento a spiegare l’origine del fascismo in Francia (ma anche in generale) come derivazione di sinistra della revisione del marxismo attraverso la mediazione di Sorel e più tardi di Henri De Man e a proiettarla nelle lontani radici prebelliche — ha lavorato sulle costruzioni ideologiche, trascurando i mutamenti che nella vita sociale e nella mentalità di grandi masse furono apportati dalla grande guerra6. Una direzione opposta a quella che sarà seguita nei suoi studi sullo sbocco fascista dei delusi della sinistra in Francia da Philippe Burrin, al quale si devono alcune delle osservazioni critiche più pertinenti nei confronti del lavoro emintemente ideologico e ideologistico di Sternhell7.
Ancora più fuorvianti sotto questo profilo sono apparse le tesi enunciate da Ernst Nolte, parzialmente correttive fra l’altro rispetto alla sua stessa opera di impostazione feno-
4 Cfr. Jerzy W. Borejsza, East European Perceptions o f Italian Fascism, in S.U. Larsen, B. Hagtvet, J.P. Mykle- bust (a cura di), Who where the Fascists, cit., p. 362.5 Si fa riferimento in primo luogo ai saggi raccolti nel volume di George L. Mosse, L ’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Bari, Laterza, 1982 (ed. orig. New York, Howard Fertig, 1980), ma anche a Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 1968 (ed. orig. New York, Grosset & Dunlap, 1964) ed in generale alla ricerca storicoculturale avviata da Mosse con l’opera La nazionalizzazione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1975 (ed. orig. New York, Howard Ferting, 1974).6 Da vedere soprattutto di Zeev Sternhell, La droite révolutionnaire. Les origines françaises du fascisme 1885-1914, Paris, Seuil, 1978; Id., Ni droite ni gauche. L ’idéologie fasciste en France, Paris, Seuil, 1983 e Id., Naissance de l ’idéologie fasciste, Paris, Fayard, 1989. Tra i contributi alla discussione critica sollevata dall’opera di Sternhell rilevante ci pare sempre l’intervento di Leonardo Rapone, Fascismo: né destra né sinistra?, “Studi storici”, 1984, pp. 799-820.7 Cfr. Philippe Burrin, La dérive fasciste. Doriot, Déat, Bergery 1933-1945, Paris, 1986 ed ivi principalmente l’introduzione.
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menologica sul fascismo come fatto “epocale” dell’inizio degli anni settanta, sulla derivazione del nazionalsocialismo dal bolscevismo, tesi scorrette anche solo dal punto di vista cronologico e concettualmente prive di consistenza come ripetutamente sottolineato in particolare da Hans Ulrich Wehler8. A non dir altro, se si accettassero i punti di vista di Nolte il peso della tradizione dell’antisemitismo tedesco nel successo del nazionalsocialismo e nello stesso genocidio degli ebrei risulterebbe enormemente ridimensionato se non totalmente cancellato.
Rimangono a mio avviso soltanto due contraddittori seri rispetto alla possibilità di considerare il fascismo a livello internazionale come un fenomeno attraverso le sue articolazioni interne concettualmente unitario. Il primo di essi è Karl Dietrich Bracher, lo storico della deutsche Diktatur. Il secondo è Renzo De Felice, lo storico del fascismo italiano e biografo di Mussolini. Le loro obiezioni meritano attenta considerazione, anche al di là delle implicazioni di carattere strettamente politico che sono sottese alle loro impostazioni storiografiche.
Anche nella sua più recente sintesi in proposito, Bracher, che pur insiste nel sottolineare l’influenza europea del fascismo, tende ad allontanare dal nazionalsocialismo il denominatore comune del fascismo. Bracher considera l’antisemitismo e il razzismo come la qualità più specifica del nazismo, ciò che
gli conferì appunto il carattere di incomparabile radicalità e distruttività, al punto che assumerlo sotto la comune definizione del fascismo significherebbe per Bracher dare una rappresentazione edulcorata e banalizzante del nazionalsocialismo. La sua affermazione, per altri versi così drammatica- mente pertinente, che la storia del nazionalsocialismo è la storia della sua sottovalutazione, sembra sotto questo aspetto andare al di là del segno. A sua volta Bracher si presta ad essere criticato proprio per la sottovalutazione che egli tende a fare dei caratteri della dittatura fascista in Italia, nonché per la portata eccessivamente limitata che egli attribuisce agli obiettivi del fascismo, in modo tale da poterli differenziare nettamente dagli obiettivi del nazionalsocialismo9. Non basta infatti prendere atto che nella prassi gli effetti prodotti dal regime fascista siano stati meno devastanti di quelli prodotti dal nazismo per dedurne che il primo rappresenterebbe una forma più blanda e meno pericolosa di dittatura del secondo, tanto meno poi per escludere la comune appartenenza dei due regimi alla medesima famiglia del fascismo. Analogo appare il percorso interpretativo compiuto da Renzo De Felice rispetto al fascismo italiano, anche se parzialmente diversi sono gli esiti che se ne possono dedurre. Nel corso degli anni De Felice, muovendo dall’esigenza di liberare la ricerca sul fascismo da ipoteche ideologiche, è venuto accentuando la sua visione di un fasci-
8 Al di là dell’ultimo libro citato alla nota 1 è questo un leitmotiv dell’opera di Nolte dell’ultimo decennio, in particolare a partire dallo Historikerstreit e da Der europàische Biirgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bol- schewismtis, 1987, Frankfurt a.M.-Berlin, Ullstein-Propylaen, 1987 (ed. it., con il titolo Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945, Firenze, Sansoni, 1989). Per quanto riguarda il punto di vista critico di Hans Ulrich Wehler è da vedere anzitutto Entsorgung der deutschen Vergangenheit? Ein polemischer Essay zum “Historikerstreit”, München, 1988; un ultimo intervento in “Der Spiegel”, 13 settembre 1993, pp. 81-87.9 Si tratta di un punto di vista costantemente sostenuto da Bracher, da ultimo nel contributo II nazionalsocialismo in Germania: problemi d ’interpretazione, nel volume a cura di Karl Dietrich Bracher e Leo Valiani, Fascismo e nazionalsocialismo, Bologna, Il Mulino, 1986 e più recentemente ancora in Nationalsozialismus, Faschismus, Totali- tarismus-Die deutsche Diktatur im Macht-und Ideologienfeld des XX. Jahrhunderts, in K.D. Bracher, M. Funke, H.A. Jacobsen (a cura di), Deutschland 1933-1945. Neue Studien zur nationalsozialistischen Herrschaft, Düsseldorf. Droste. 1992.
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smo lontano e distaccato dal nazionalsocialismo già esplicitata nelle sue Interpretazioni del fascismo e sottolineata con forza, dopo l’intervista sul fascismo, in una nota conferenza del 197910. Non solo egli afferma, giustamente nel fatto in sé, che il fascismo non si macchiò dei crimini di Auschwitz ma in tempi ancora più recenti è venuto affermando, contro l’evidenza stessa dei fatti, che il fascismo non fu neppure antisemita, sebbene egli abbia scritto un libro per illustrare la politica e la legislazione antiebraica del regime fascista, dunque un caso esemplare di antisemitismo di Stato11. Nel suo percorso interpretativo De Felice va anche oltre; non accetta la definizione di un carattere internazionale del fascismo perché l’estensione del termine al nazionalsocialismo comporterebbe caricare il fascismo italiano dei caratteri specifici del nazismo, a cominciare appunto dalla radicalità della violenza razzistica. Secondo De Felice la difficoltà di integrare l’antisemitismo nella versione nazista nel fascismo sarebbe sufficiente per escludere la possibilità di racchiudere esperienze così diverse come il fascismo in Italia e il nazionalsocialismo in Germania sotto l’unica categoria concettuale del fascismo. Sembra strano che proprio uno storico che ha studiato i rapporti tra Hitler e Mussolini anteriormente al 1933 non sottolinei la comune matrice politicoculturale dei due movimenti, prima ancora che dei due regimi, e non colga al di là delle diversità anche le forti analogie e convergenze tra di essi. Una sottovalutazione che si ripeterà a proposito dell’alleanza dell’Asse e del Patto tripartito, come se nell’intreccio della sciagurata alleanza e dello
scatenamento della seconda guerra mondiale l’affinità tra i due regimi fosse un fatto meramente accidentale e incidentale. In definitiva, per De Felice lo storico del fascismo deve guardare essenzialmente se non esclusivamente al regime italiano; nella sua ottica, posto in rapporto alla tradizione politica italiana il fascismo tende anche a perdere i connotati della sua specificità e a presentarsi piuttosto come un semplice irrigidimento della tradizione autoritaria del liberalismo12, sottolineando lo scarto tra le conoscenze empiriche che il suo stesso lavoro ci ha fatto acquisire e la capacità di riflessione storiografica e teorica che dovrebbe scaturire dai risultati stessi della sua ricerca. In realtà, il rifiuto di riconoscere il peso specifico del fascismo come fenomeno internazionale ha implicazioni più profonde non soltanto dal punto di vista dell’area di influenza del fascismo, ma sotto il profilo della natura stessa del fascismo disconoscendone il carattere eversivo e il potenziale aggressivo. Inoltre, se si nega che il fascismo si ponesse oggettivamente, anche se non l’avesse voluto, come modello di soluzione dei problemi dell’ordine sociale nella transizione dalla società liberale ottocentesca al mondo così profondamente trasformato uscito dalla guerra mondiale nei confronti non solo della società italiana ma negli anni venti e ancor più negli anni trenta rispetto a molti dei paesi in crisi dell’Europa continentale, si rischia di non comprendere neppure come la sua fortuna sia dipesa non soltanto dalla sua ambizione o capacità di espansione ma anche dall’interesse, dalle simpatie e dalle curiosità che circondarono dall’esterno la sua esperienza in
10 Cfr. Renzo De Felice, Interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1969 e Id., Il fenomeno fascista, “Storia contemporanea”, 1979, pp. 619-632. Nello stesso senso si muove l’introduzione alla quarta edizione della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Torino, Einaudi, 1988).11 Così in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993 (nuova edizione ampliata, ed. orig. 1961), p. IX.12 Questo è ad esempio quanto De Felice ha sostenuto nella nota intervista al “Corriere della sera” del 27 dicembre 1987.
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Italia, non soltanto presso le destre autoritarie in larga parte d’Europa ma anche presso i conservatori inglesi e almeno una parte del mondo conservatore francese e tedesco13.
Spesso si è equivocato sul fatto che il fascismo sarebbe stato irripetibile perché non vi è stato alcun altro regime in Europa che ne abbia riprodotto puntualmente le forme istituzionali, la dottrina, l’organizzazione sociale. Ma ben sappiamo che, perché si possano assimilare entità statuali e sociali diverse ad un unico modello di sistema politico, non occorre affatto la compresenza né l’identità totale di tutti i fattori che concorrono alla determinazione della fisionomia di un assetto istituzionale. Le simiglianze istituzionali sono importanti ma non devono essere intese come identità; ciò che è fonda- mentale per distinguere un’area di regimi assimilabili al fascismo è la presenza di obiettivi comuni e di un corpo di principi ispiratori che convergono verso la costruzione di un sistema di tipo fascista14.
È vero che la storiografia non è unanime nell’individuare questi fattori15, ma è anche vero che sono stati compiuti notevoli sforzi per pervenire alla definizione di un nucleo concettuale minimo identificabile nel fascismo, al di là della semplice autodescrizione che del fascismo hanno fatto gli stessi fasci
sti ma della quale non è neppure possibile sbarazzarsi puramente e semplicemente.
Proprio la contraddittorietà con la quale la stessa dottrina fascista ha posto il problema della tensione tra la sua vocazione universalista e la sua protesta di non volere considerare il fascismo merce di esportazione offre una spia e una ragione in più per mettere a confronto l’autorappresentazione con l’evoluzione così delle iniziative concrete del fascismo (la propaganda all’estero, l’uso delle colonie di emigrazione italiane, l’incoraggiamento di movimenti fascisti in altri paesi) come della complessiva situazione europea e del richiamo all’esempio del fascismo in Italia diffuso nella cultura e nelle proposte politiche prima ancora della grande crisi a cavallo tra gli anni venti e gli anni trenta, e a maggior ragione dopo l’incedere della crisi.
Le difficoltà di pervenire a una cifra interpretativa che possa raccogliere una larga base di consenso tra gli studiosi si sono riproposte di recente proprio a proposito dell’applicazione al fascismo e ai fascismi della categoria del totalitarismo. Non condivido la contrapposizione netta tra fascismo e totalitarismo, quasi che su questa contrapposizione si potesse fissare la collocazione del fascismo da una parte e del nazismo dall’altra.
13 Sebbene le ricerche in questa direzione siano ancora tutt’altro che esaurienti disponiamo già di studi che rappresentano molto più di un semplice sondaggio, come i lavori di Aldo Berselli, L ’opinione pubblica inglese e l ’avvento del fascismo (1919-1925'), Milano, Angeli, 1971; Klaus Peter Hoepke, Die deutsche Rechte und der italienische Fa- schismus, Düsseldorf, Droste, 1968; Pierre Milza, Le fascisme italien et la presse française 1920-1940, Bruxelles, 1987; Elena Fasano Guarini, Il “Times” di fronte al fascismo (1919-1932), “Rivista storica del socialismo”, maggio-dicembre 1965; Corrado Vivami, La stampa francese di fronte al fascismo (luglio 1922-gennaio 1925), ivi, gennaio-aprile 1965.14 Si vedano al riguardo le considerazioni svolte da Nicola Tranfaglia, Italia e Spagna: due regimi autoritari a confronto, in Id., Labirinto italiano. Il fascismo, l ’antifascismo, gli storici, Firenze, La Nuova Italia, 1989; e Id., Tre casi di fascismo in Europa: una proposta di comparazione, in E. Castelnuovo-Valerio Castronovo, Europa 1700- 1992: storia di un ’identità. Il ventesimo secolo, Milano, Electa, 1993.15 Tutte le opere che affrontano il fascismo come fenomeno internazionale si imbattono nella problematica indicata; tra di esse ci limitiamo a segnalare per l ’evidenziazione di diverse tipologie, oltre all’opera collettiva già citata a cura di S.U. Larsen, B. Hagtvet, J.P. Myklebust, Who were the Fascists, cit., Stanley G. Payne, Fascism: Comparison and Definition, Madison, University o f Wisconsin Press, 1980 e Wolfgang Wippermann, Europaischer Fa- schismus im Vergleich 1922-1982, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1983, nonché il nostro Fascismo fascismi, Firenze, Sansoni, 1989.
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Ho altra volta sottolineato il carattere potenzialmente totalitario del fascismo, anche per richiamare la necessità di studiare le caratteristiche del regime nelle sue diverse fasi evolutive, non staticamente, come se i suoi caratteri fossero stati fissati tutti sin dall’inizio, una volta per sempre, un criterio che vale ovviamente per l’analisi di qualsiasi.sistema e istituzione politica. L’uso di concetti e categorie interpretative non può non essere praticato con la flessibilità necessaria, che non vuol dire incertezza o oscillazione interpretativa ma consapevolezza del carattere complesso, orientativo e non normativo, che hanno gli strumenti euristici in storiografia. È chiaro che se si parte dal principio che solo il fascismo allo stato puro si può definire tale o dal principio che un regime è uguale a se stesso e non ad altri si cade in un circolo vizioso tautologico e si nega a priori la possibilità di qualsiasi comparazione, il cui scopo non è quello di compiere una accademica operazione di logica formale ma di fornire strumenti per l’ulteriore comprensione di un fenomeno storico.
Per tornare all’evoluzione del fascismo, nel caso specifico non si può dire che il fascismo italiano sia stato sin dall’inizio razzista in senso antisemita. Ma a partire dalla seconda metà degli anni trenta, e segnata- mente a partire dalla codificazione delle leggi razziali, il problema si pone, sia avvenuto questo per semplice imitazione della Germania nazista o per autonoma dinamica interna, non dissociabile comunque da un contesto internazionale. Riteniamo che a questo punto l’antisemitismo del regime fascista concorra a metterne in evidenza la tendenza ad assumere caratteri sempre più tipicamente totalitari, al di là dello sviluppo istituzionale sino allora realizzato e anche senza assumere le forme più rigide e monolitiche che
il regime nazista aveva già assunto in Germania.
Del tutto consenzienti ci trova il richiamo formulato da Philippe Burrin quando sotto- linea con forza l’affinità, non l’identità, di fascismo e nazionalsocialismo e individua, come terreno di analisi per la verifica del suo assunto questa serie di circostanze: “convergenze strategiche”, “concezioni ideologiche”, “dispositivi istituzionali” e la “disponibilità e la ricettività della società che si trova a governare”16. Quest’ultima espressione allude all’esigenza di approfondire l’ampia e complessa problematica del consenso, che troppo spesso risulta schiacciata e appiattita dalla contrapposizione netta tra consenso e opposizione, che elude la vasta gamma di comportamenti intermedi attraverso i quali si perviene alla formulazione delle posizioni antitetiche17. Al pari di altri autori, Burrin enumera gli elementi strutturali costitutivi di fascismo e nazionalsocialismo, gli stessi che ne autorizzano la considerazione come “famiglia politica” autonoma rispetto alla più generale valutazione del totalitarismo: l’alleanza con le forze conservatrici, che si può esprimere anche e forse più correttamente con il richiamo al rapporto con le élite tradizionali; il rapporto tra lo Stato e il partito in un contesto caratterizzato dal partito come strumento di mobilitazione di massa; il sostegno popolare (che torna a richiamare la problematica del consenso); il mito del capo. A loro volta, Serge Berstein e Pierre Milza, con i quali mi sento a questo proposito in linea di massima di consentire, assumono i caratteri del totalitarismo, da essi definibili attraverso la volontà di un regime di trasformare 1’ “uomo nuovo”, di costruire una dittatura moderna nell’epoca della società di massa, di comprimere l’autonomia della società civile, di ri
16 II richiamo è al contributo di Philippe Burrin, Politique et Société: Les structures du pouvoir dans l ’Italie fasciste et l’Allemagne Nazie, “Annales ESC”, 1988, pp. 615-637.17 Rinvio a E. Collotti, Fascismo fascismi, cit., pp. 53-55.
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conoscere quale unica fonte di volontà politica il partito unico, quale elemento discriminante per stabilire il confine tra l’area del fascismo in senso stretto e la più vasta e più fluida gamma di regimi attribuibili all’autoritarismo più o meno tradizionale18. All’interno di questa distinzione il fascismo italiano e il nazionalsocialismo in Germania sono accomunati nella stessa categoria del fascismo, trattandosi di esperienze che si riconoscono nei medesimi fattori costitutivi e nei medesimi caratteri totalitari. L’antisemitismo della Germania nazista non rappresenta un fattore discriminante di distinzione ma piuttosto una specificazione ulteriore della dimensione totalitaria del nazismo. Né in questa affermazione è in alcun modo possibile vedere una sottovalutazione del genocidio degli ebrei, come sembra intendere Saul Friedlaender, poiché anche quest’ultimo a sua volta non può essere considerato fine a se stesso ma va storicamente inquadrato nel contesto del regime nazionalsocialista19.
In un’ottica ancora diversa si pone quella parte della storiografia tedesca che sottolinea nel nazismo, muovendo dal modello storico del fascismo, l’esasperazione del momento totalitario sempre latente ma non sempre presente nel fascismo italiano20. Comune ai due regimi fu la capacità di svilupparsi autonomamente e di pervenire autonomamente al potere senza bisogno di influen
ze esterne: tutti i fascismi cosiddetti “minori” pervennero al potere per influenza diretta di uno dei due fascismi-guida. Questo fu certamente il caso dell’Austria clerico- fascista di Dollfuss, la cui vicenda risulta particolarmente complessa sia per le specifiche caratteristiche che assunse il regime di Dollfuss, sia per il conflitto di interessi tra i due fascismi di cui fu teatro l’Austria. Senza l’incoraggiamento e l’appoggio dell’Italia Dollfuss non avrebbe potuto avere temporaneamente la meglio né sull’odiata e temuta socialdemocrazia né sulle concorrenti tendenze antidemocratiche di derivazione filonazista: un caso singolare, questo dell’Austria, in cui il fascismo interno fu la risultante dello scontro e della concorrenza tra filofascismo e filonazismo21. In modo ancora più evidente questa subalternità ai fascismi “maggiori” si sarebbe manifestata nel caso dei filoni fascistizzanti che divennero regime soltanto nella fase di espansione della Germania nazista (come nel caso della Slovacchia) e ancor più dopo lo scatenamento della seconda guerra mondiale grazie alla pressione diretta di Italia e Germania nei territori invasi e occupati dell’Europa; in quest’ulti- ma ipotesi questi fascismi locali si identificarono con il collaborazionismo con la potenza occupante: così avvenne in Norvegia, in Croazia, nella stessa Ungheria nel passaggio dalla dittatura militare di Horthy a quella fi-
18 II riferimento è all’Avant-propos di Pierre Milza, Serge Berstein, Dictionnaire historique des fascismes et du nazisme, Bruxelles, Ed. Complexe, 1992; da notare che i due storici francesi che sostengono l’applicabilità del concetto di fascismo al fascismo italiano e al nazionalsocialismo tedesco intitolano la loro opera ai “fascismi”, attenuando ci pare la demarcazione tra fascismo e regimi autoritari altra volta più fortemente sostenuta come in P. Milza, Les Fascismes, Paris, Imprimerie Nationale, 1985.19 La tesi del carattere sui generis che l’antisemitismo del Terzo Reich conferisce al nazismo donde l’incomparabilità di quest’ultimo è stata sostenuta da Saul Friedlaender in diverse occasioni, nel modo più chiaro e stringato, ci pare, nel saggio De 1‘antisémitisme e l ’extermination. Esquisse historiographique, “Le Débat”, settembre 1982.20 Riassuntiva in questo senso la voce Faschismus redatta da Wolfgang Schieder per il volume Geschichte del Fischer Lexikon, a cura di R. van Duelmen, Frankfurt a.M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1990.21 Sulla problematica dell’austro-fascismo riferimenti essenziali in Francis L. Carsten, Faschismus in Òsterreich. Von Schònerer zu Hitler, München, Wilhelm Fink, 1977 e il volume a più voci a cura di Emmerich Talos-Wolfgang Neugebauer, “Austrofaschismus”. Beitrage iiber Politile, Ôkonomie undKultur 1934-1938, Wien, Verlag für Gesel- lschaftskritik, 1985; inoltre anche il mio Fascismo fascismi, cit., alle pp. 91-104.
Il fascismo nella storiografia 19
lonazista di Szalasi dopo l’occupazione dell’Ungheria da parte della Germania22.
Ancora diversa fu la vicenda del regime di Vichy in Francia, al quale la storiografia, e in primo luogo quella francese, disconosce il carattere di regime fascista facendolo rientrare nella tipologia dei regimi autoritari tradizionali, ma nei cui confronti è indubitabile l’influenza determinante di circostanze esterne, quali la sconfitta militare del 1940 e l’occupazione della Francia soprattutto da parte della Wehrmacht, che ne consentirono l’affermazione prima e ne influenzarono lo sviluppo successivamente23.
Per buona parte della storiografia la differenziazione tra il fascismo italiano e il nazionalsocialismo in Germania non si pone nella fase (o nelle fasi) dell’avvento al potere, ma nella fase dell’esercizio della dittatura, nell’esercizio del monopolio del potere da parte del partito fascista e rispettivamente della Nsdap. È a questo punto che subentra la divaricazione, poiché il regime fascista in Italia non pervenne mai ad una totale Gleichschaltung delle altre forze e poteri istituzionali né della società. I numerosi compromessi istituzionali sui quali si resse il regime fascista, in primo luogo quelli con la monarchia e con la Chiesa cattolica, e che furono gli stessi che il 25 luglio 1943 consentirono al re di estromettere Mussolini, furono sconosciuti al regime nazista, che potè realizzare l’instaurazione di un regime totalitario incomparabilmente più compatto e
integrale del fascismo italiano. Quest’ultimo cioè rimase modello del nazionalsocialismo sino alla presa del potere; a partire da questo momento l’allievo superò il maestro, sia nell’organizzazione totalitaria del potere con la distruzione di ogni pluralismo politico, istituzionale e sociale, sia nell’intransigenza della politica razziale che nella Gleichschaltung trovava una delle sue premesse24. Non è quindi di per sé la violenza della politica antiebraica (su cui insiste soprattutto Bra- cher) la discriminante tra i due regimi, lo sono le caratteristiche che assunsero dopo la presa del potere l’articolazione delle strutture di potere e i canali di esercizio del potere stesso.
Anche per il franchismo il fascismo rappresentò il modello, ma mentre gli studiosi tedeschi accentuano la progressione degli elementi di totalitarismo nel passaggio dal fascismo al nazismo, uno storico spagnolo come Tusell adotta una scala decrescente di livelli di totalitarismo muovendo dal fascismo italiano, nei cui confronti usa l’efficace espressione di “totalitarismo defectivo” (noi diremmo: un totalitarismo imperfetto), per pervenire alla collocazione marginale del franchismo rispetto all’area più tipicamente totalitaria25. Non intendiamo con questo entrare nella complessa discussione sulla definizione e sui caratteri della dittatura franchista già oggetto del resto di un interessante dibattito nel corso di un convegno svoltosi a Bologna26, ma vale la pena di fare questo ri-
22 Rinviamo in proposito al nostro Fascismo fascismi, cit., parte II, cap. IV e alla nostra relazione II collaborazionismo con le potenze dell’Asse nell’Europa occupata: temi e problemi della storiografia, cit.23 Ci limitiamo alle citazioni essenziali ai fini di ricostruire i termini della discussione: R.O. Paxton, La France de Vichy 1940-1944, Paris, Seuil, 1973; P. Milza, Fascisme français. Passé et Présent, Paris, Flammarion, 1987, in particolare cap. IV; nonché i contributi nell’opera a cura di Jean-Pierre Azema e François Bedarida, Vichy et les Français, Paris, Fayard, 1992, in particolare nella parte nona.24 In questo senso l’applicazione più recente dell’impostazione di cui al testo è offerta dal saggio di W. Schieder, Die Nsdap vor 1933. Profil einer faschistischen Partei, “Geschichte und Gesellschaft”, 1993, f. 2, pp. 141-154.25 Cfr. Javier Tusell, La dictadura de Franco, Madrid, Alianza Editorial, 1988, p. 348.26 Le relazioni del convegno sono raccolte nel volume a cura di Luciano Casali, Per una definizione della dittatura franchista, Milano, Angeli, 1990.
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chiamo per sottolineare ancora una volta l’area di espansione e di influenza del fascismo. Neppure il regime franchista sarebbe arrivato al potere se non avesse ricevuto l’aiuto determinante delle potenze fasciste: al di là delle ideologie, in questo caso furono gli interessi concreti di potenza di Italia e Germania che determinarono la vittoria del franchismo nella guerra civile. Ma così come la vittoria di Franco non è dissociabile dalla natura dei regimi che ne determinarono la sorte, neppure il regime franchista poteva sfuggire ad una caratterizzazione che almeno in parte, e almeno fino al 1942, lo associasse al fascismo. Tusell lo colloca a mezza strada tra il fascismo e il salazarismo in Portogallo, che viene assunto a sua volta come prototipo di regime autoritario27. In questo quadro il salazarismo risulta al margine della sfera dell’autoritarismo tradizionale, entro la quale del resto lo collocano le ricerche più recenti di storici portoghesi28, senza che sia tuttavia possibile espungerlo del tutto dall’area di influenza del fascismo come spirito dell’epoca, ma anche come modello di soluzione della questione sociale e come forma di organizzazione dello Stato e dei rapporti tra lo Stato e la società.
Aspetti della risonanza internazionale del fascismo
Questa sintetica e certo incompleta rassegna dei principali punti di vista sviluppati nella più recente storiografia sul fascismo è servita a richiamare le analogie che sotto il profilo della trasformazione istituzionale hanno caratterizzato i due regimi più direttamente
riconducibili alla nozione di fascismo e la costellazione assai vasta degli Stati che nell’Europa centro-orientale hanno risposto in senso autoritario alla crisi della democrazia o all’impossibilità di adottare, all’atto della propria costituzione, il modello di una democrazia che non aveva alcuna tradizione alle spalle (fu il caso della Polonia, ma anche della Iugoslavia e dell’Ungheria: a parte andrebbe esaminato il caso, come eccezione felice, della Cecoslovacchia). Diversi ancora, come sappiamo, sono i casi di Romania, Bulgaria, Grecia, sui quali non possiamo partitamente soffermarci. Si potrebbero naturalmente approfondire alcuni momenti particolari che nella evoluzione della situazione complessiva tra le due guerre mondiali danno ragione di affinità e simpatie per il modello fascista, anche indipendentemente dall’assunzione delle forme istituzionali ed esteriori dello Stato totalitario nell’accezione fascista. Credo che oggi dovrebbe essere chiaro che come il fascismo si fece erede e protagonista di forme di militarizzazione della politica mutuate direttamente dall’esperienza sociale e culturale della grande guerra, altrettanto forte fu la spinta che esso trasse dalla predisposizione autoritaria e antidemocratica diffusa in molte delle nuove entità statuali che nascevano senza una sicura identità non solo statuale ma addirittura nazionale e sociale e che all’atto stesso della loro formazione si trovavano a porsi acuti problemi di identità collettiva e di collocazione come Stati. A prescindere, naturalmente, dal problema della preesistenza in taluni di essi, ancora anteriormente allo scioglimento dell’impero asburgico, di elementi e di tradizioni che si sarebbero successiva-
27 Cfr. J. Tusell, La dictatura de Franco, cit., cap. VI.28 Per la più recente discussione critica si rinvia al libro di Antonio Costa Pinto, O salazarismo e o fascismo europea. Problemas de interpretacao nas ciencìas sociais, Lisboa, Editorial Estampa, 1992; dello stesso autore si veda la sintesi in italiano del suo punto di vista: “Lo “stato nuovo” di Salazar e il fascismo europeo. Problemi e prospettive interpretative, “Storia contemporanea”, 1992, pp. 469-524. Inoltre gli atti di convegno O Estado Novo. Das origines ao firn da autarcia 1926-1959, vol. I, Lisboa, Editorial Fragmentos, 1987.
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mente integrati e fusi con elementi dei fascismi locali29.
Se già per l’Italia e per la Germania, due Stati pervenuti all’unità nazionale con relativo ritardo rispetto alla tradizione politica dell’Europa occidentale, la ritardata formazione dell’unità nazionale è stata considerata tra gli elementi politici, sociali e culturali all’origine dell’instaurazione dei regimi fascista e nazista attraverso il processo di trasformazione della mentalità prodotto dalla guerra mondiale, ancora più profondo doveva rivelarsi il trauma della ritardata o addirittura della mancata unità nazionale nella più parte degli Stati nati dai trattati di pace.
La fortuna di due componenti essenziali del fascismo, il corporativismo o comunque l’ideologia interclassista (nel caso della Germania nazista) e il nazionalismo estremo sino all’abiezione del razzismo e dell’antisemitismo come strumento di distruzione biologica, non può essere dissociata dai processi di sviluppo politico e sociale di lungo periodo che sono legati ai singoli contesti sociali e nazionali. Non è un caso che le due dittature fascista e nazista si siano affermate in contesti caratterizzati da una tradizione, debole o forte che fosse, di pluralismo politico e di forte conflittualità sociale: in essi l’affermazione della dittatura ha significato la costruzione con la forza, con la violenza istituzionale e istituzionalizzata, di un ordinamento sostitutivo rispetto a un più vecchio e consolidato assetto. La dittatura ha segnato la vittoria sugli avversari politici e sui nemici di un progetto interclassista (di qui fra l’altro la violenza dell’attacco al movimento operaio) e l’avvio di un nuovo assetto sociale e di potere fondato sull’esclusione degli avversari politici dalla collettività (si trattasse del popolo dei “produttori” nel
la terminologia fascista o della “comunità popolare” di matrice nazionalsocialista), senza escludere (e in taluni casi prevedendo esplicitamente) l’obiettivo del loro fisico annientamento. La radicalità dello scontro si rendeva necessaria per garantire la selezione e, ove necessario, il parziale ricambio della élite dirigente e anche la profondità di un processo di mobilitazione delle masse che, nella stessa misura in cui le espropriava di ogni diritto politico e talvolta anche civile, le strumentalizzava in funzione della costruzione di un consenso più o meno coatto, che aveva tuttavia in sé un effetto di trascinamento destinato ad autoalimentarsi e per questa via a fare crescere su se stessa l’adesione al regime.
Italia e Germania potevano disporre di ceti borghesi sia pure politicamente deboli; gli Stati di formazione nuova erano totalmente privi di solide borghesie nazionali e soprattutto privi di un solido retroterra politico che non derivasse unicamente da tradizioni di lotte nazionali (nel caso della Polonia) o da tradizioni militari (prevalenti nel caso dell’Ungheria) anteriori alla loro stessa formazione come Stati. La frammentazione sociale da una parte, la frammentazione nazionale dall’altra concorsero nella maggior parte degli Stati di nuova formazione alla rapida polarizzazione delle forze politiche verso forme di aggregazione tendenti a privilegiare l’aggregazione più strettamente nazionale piuttosto che quella politicopartitica o a sottolineare fattori di identità nazionale e religiosa tanto forti ed esclusivi da sfociare nell’ostracismo e nell’intolleranza nei confronti delle nazionalità o delle confessioni altre. Le diffuse ideologie corporative — non si pensi soltanto all’irradiazione diretta del corporativismo italiano, si pensi anche al circuito di
29 Si vedano al riguardo le osservazioni generali formulate da Stephen Fischer-Galati nell’opera Who were the Fascists, cit., introduzione alla parte 4, Fascism in Eastern Europe, e nella relazione Regimes autoritarios da Europa Oriental: estudo comparativo, in O Estado Novo, cit., pp. 87-98.
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mediazione rappresentato dal mondo culturale austrotedesco: un nome su tutti, quello di Othmar Spann — si radicavano su un terreno quanto mai disponibile a raccoglierle: più che l’identità professionale era il mito dell’accordo e dell 'armonia tra le classi, indissolubile dal mito delle unioni nazionali al di sopra dei partiti e per ciò stesso antiparlamentari, che fungeva contemporaneamente da ammortizzatore delle conflittualità sociali e da fattore di ricomposizione di un’unità nazionale in gran parte ancora da costruire. Probabilmente soltanto i partiti contadini nell’Europa centro e sudorientale rappresentavano, tra le forze in qualche modo tradizionali, interessi non meramente corporativi, nel senso che erano anche forze politiche che esprimevano valori sociali globali, ossia una visione della società nel suo complesso, non importa se arcaica o meno. Può valere la pena di insistere sulla suggestione del mito corporativo30. A questo proposito, credo di potere notare come la storiografia non sembri avere recepito né sviluppato adeguata- mente le osservazioni implicite nell’uso del concetto di corporatismo formulato una quindicina di anni or sono dallo storico americano Charles S. Maier31. Maier poneva il problema della trasformazione nella dislocazione di potere tra Stato e interlocutori economicosociali, tra pubblico e privato nel processo di redistribuzione del potere seguito alla guerra mondiale. Il corporativismo si presenta in questo contesto come la soluzione autoritaria coatta, dall’alto, di una regolamentazione contrattuale che in altri contesti assumeva carattere per l’appunto consensuale, ossia di mediazione ininterrotta tra gli interessi in conflitto. Ebbene, se si cerca di approfondire le ragioni delle tendenze cor
porative (non corporatiste!) prevalenti negli Stati minori dell’Europa centro e sudorientale ci si rende conto che il ricorso al potere coercitivo dello Stato era il rovescio della debolezza delle loro élite agrarie e industriali; queste non dovevano difendersi soltanto da agguerriti movimenti sindacali, come era avvenuto nell’Italia prefascista e nella Germania prenazista, quanto dalla arretratezza della loro strumentazione nel campo politicosociale e degli strumenti di rappresentanza del sistema politico. Non si verificava perciò la composizione degli interessi, che in origine era stata ipotizzata per la repubblica di Weimar, ma ci si avvicinava al modello di coazione che apparteneva alla pratica del regime fascista in Italia.
La Polonia di Pilsudski e più tardi del colonnello Beck rappresenta l’esempio forse più rappresentativo della misura di ricezione del mito e del sistema corporativo in un contesto profondamente diverso da quello italiano e che comunque non assumerà mai i connotati istituzionali del fascismo; e al tempo stesso di verifica del modo in cui la propaganda fascista si appropriò di figure, simboli e accadimenti che non gli appartenevano per accapparrarsene la paternità. Naturalmente, bisogna guardarsi dal concludere che questa sarebbe la conferma che il corporativismo fosse una risposta adeguata per paesi a sviluppo ritardato come la Polonia degli anni venti e trenta: una risposta di questo tipo non nasceva specificatamente dall’arretratezza della situazione economicoso- ciale ma dall’incertezza complessiva dell’identità politica del nuovo Stato.
Un discorso analogo si potrebbe fare per il nazionalismo, l’antisemitismo, il razzismo. Il nazionalismo era la risposta più im
30 Per questa problematica si veda a titolo introduttivo il capitolo iniziale del lavoro di Marco Palla, Fascismo e Stato corporativo. Un’inchiesta della diplomazia britannica, Milano, Angeli, 1991.31 Cfr. Charles S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, Bari, De Donato, 1979 (ed. orig. Princeton, Princeton University Press, 1975) in particolare la conclusione.
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mediata e più facile, quella che emotivamente era suscettibile di raccogliere rapidamente il più vasto consenso, all’incertezza di identità e di collocazione praticamente di tutti gli Stati di nuova formazione, in nessuno dei quali si era realizzato il concetto dello Stato- nazione che aveva presieduto all’unificazione dei grandi Stati nazionali dell’occidente europeo. Tutti gli Stati di nuova formazione ripetevano il carattere di Stato plurinazionale (Cecoslovacchia e Iugoslavia in testa) o di Stato con forti componenti minoritarie (soprattutto la Polonia). E proprio in Polonia, ancora una volta, particolarmente elevata era la componente ebraica, sia per il numero assoluto dei suoi componenti, sia per la sua diffusa stratificazione sociale che non consentiva di circoscriverla ad uno specifico settore professionale; rilevante inoltre era il re-' taggio dell’antisemitismo tradizionale dei territori ex zaristi. La ricerca e il tentativo di forzare in tempi quanto più possibile rapidi elementi di identificazione nazionale portarono ben presto all’esasperazione del nazionalismo di derivazione sia cattolica sia socialmoderata (Pilsudski), un nazionalismo che derivava dalla lunga tradizione di lotta per l’indipendenza contro la Russia, e che ora associava sentimenti antirussi e antibolscevismo, ma che era anche dotato di un forte sentimento antiprussiano (prima ancora che antitedesco). Già la guerra contro la Russia bolscevica del 1920 presenta la commistione di questi ingredienti essenziali del bagaglio di un nazionalismo aggressivo, militante e tendenzialmente militarizzato alla maniera squadristica.
L’antisemitismo si presentò in Polonia come un ulteriore motivo di potenziamento della spinta nazionalistica, già di per sé carica di risentimenti e di intenzioni revanscisti- che soprattutto contro la Russia. In Polonia, certo, l’antisemitismo non assunse valenze biologiche ma la tradizione cattolica e la tradizione nazionalista concorsero alla costruzione di ipotesi che andavano al di là del numerus clausus o del numerus nullus (secondo l’efficace espressione ripresa da Simon Wiesenthal) per gli ebrei o di uno statuto di cittadinanza limitata, per progettare una vera e propria espulsione degli ebrei dalla Polonia32: dopotutto, il progetto Madagascar, che ricomparirà tra i progetti dei nazisti, era già stato ventilato in precedenza all’interno della diplomazia francese e, parallelamente, all’interno dei circoli governativi polacchi33. L’antisemitismo si presentava come l’antidoto di una difficile situazione sociale di grande frammentazione e di esasperata contrapposizione tra ceti piccolo e medio borghesi e ceti proletari, tra mondo urbano e mondo rurale, nonostante l’uno e l’altro avessero forti punti di contatto negli elevati livelli di proletarizzazione e fossero attraversati nella loro stratificazione da una forte compenetrazione della componente ebraica. Nell’ottica dei nazionalisti delle più svariate tendenze l’antisemitismo in Polonia assolveva a una funzione di unificazione nazionale34.
Se ci siamo soffermati sul caso della Polonia è perché qui più che altrove furono evidenti i margini dell’espansione ideologica del fascismo, al di là della sua identificazio-
32 II riferimento è all’intervista a cura di Maria Sporrer e Herbert Steiner, Simon Wiesenthal. Ein unbequemer Zeitgenosse, Wien-München-Zürich, Orac, 1992, p. 21 e numerosi altri cenni all’antisemitismo dell’epoca.33 Sui precedenti del progetto Madagascar si vedano Michael Marrus, Robert O. Paxton, Vichy et les Juifs, Paris, Calmann-Levy, 1981, pp. 94-97 e Colonel J. Beck, Dernier Rapport. Politique polonaise 1926-1939, Neuchâtel, La Baconnière, 1951, p. 140.34 Interessanti riflessioni su questa problematica offre il contributo di E. Mendelsohn, Gli Ebrei dell’Europa orientale tra le due guerre mondiali, negli atti di convegno a cura della Camera dei Deputati, La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Roma, 1989.
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ne in una forza politica determinata, senza che a questa tuttavia corrispondesse una analoga assunzione dei modelli istituzionali; dopo il 1926 si affermò in Polonia un sistema ibrido fondato sulla dittatura personale di Pilsudski, da taluni studiosi assimilata alla dittatura primoderivista in Spagna o al regime austriaco di Dollfuss35, che mutuava dal fascismo italiano l’ispirazione corporativa che sarebbe stata codificata dalla Costituzione del 193536. Autoctono era l’antisemitismo, fortemente legato fra l’altro al clero e alla popolazione cattolica, che tale rimase anche dopo l’avvento al potere del nazismo in Germania. La generalizzazione della spinta alla persecuzione in tutta Europa che ne seguì non indusse la politica polacca ad alcun cambiamento di rotta, neppure quando la minaccia tedesca immediatamente rivolta contro la Polonia adombrò l’anticipazione di una catastrofe che avrebbe colpito al cuore non soltanto la comunità ebraica ma con essa la stessa nazione polacca.
La Polonia in definitiva è un caso interessante per verificare non tanto l’affinità formale dei regimi quanto l’assorbimento da parte di un altro paese e la ritraduzione in termini nazionali, autoctoni, di parti dell’esperienza che andava compiendo il regime fascista in Italia. Va da sé che nella valutazione di questa ricezione di esperienze bisogna tenere conto anche delle esigenze propagandistiche del regime fascista, che spesso si attribuiva la primogenitura di circostanze o
formulazioni che erano entrate a fare parte della coscienza comune e del linguaggio politico dell’epoca o che avevano influenzato in maniera sostanziale il pensiero politico contemporaneo.
L’enfasi propagandistica che si diede alla figura di Pilsudski o agli orientamenti corporativi della Polonia era certamente in funzione prevalente dell’interesse dell’Italia a presentarsi come il centro capace di suscitare risonanza internazionale e di fornire appunto un modello da imitare, ma non smentiva il fatto che, al di là di ogni strumentalizzazione, si mettessero in risalto evidenti simpatie della Polonia per il fascismo italiano. A questa operazione concorrevano, in sintesi: la figura del duce come capo di uno Stato forte; l’organicismo della concezione corporativa che mirava a privilegiare l’aggregazione e la consociazione degli interessi al di sopra della molteplicità dei partiti e della lotta di classe; certamente vi concorreva anche l’antibolscevismo che aveva avuto un campione militante in Pilsudski protagonista della guerra contro la Russia sovietica. Pilsudski era esaltato come il Mussolini della Polonia37; addirittura nella biografia di Pilsudski si scavavano episodi che tendevano a presentarlo come un protofascista; inoltre si raccoglieva con evidente compiacimento l’affermazione proveniente dalla stessa Polonia secondo la quale la marcia su Varsavia del 12 maggio 1926 aveva avuto un “esempio luminoso” nella marcia su Roma38.
35 È questa per esempio l’opinione di F. Ryszka riferita da J.W. Borejsza, East European Perceptions o f Italian Fascism, cit., p. 357.36 Cfr. F. Giulietti, Le Costituzioni polacche, Firenze, Sansoni, 1946 ed ivi i testi della Costituzione del 1921 e di quella del 1935. Notizie interessanti in proposito contiene anche l’articolo di Wieslaw Kozub-Ciembroniewicz, La ricezione ideologica del fascismo italiano in Polonia negli anni 1927-1933, “Storia contemporanea”, 1993, pp. 5-17, che farebbe desiderare una più ampia e approfondita ricerca nella stessa direzione.37 Citiamo a titolo esemplificativo tra le voci retoriche di questa letteratura propagandistica O. Colautti Novak, Il creatore della nuova Polonia, Giuseppe Pilsudski, Roma, 1928; tra i molti articoli, recepiti anche dalla pubblicistica polacca, di L. Kociemski, Il maresciallo Pilsudski, “L’Europa orientale”, luglio-ottobre 1935.38 La citazione è ripresa dall’articolo di W.FL Meisels, Pilsudski, “L’Europa orientale”, novembre-dicembre 1927.
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Il piglio militaresco e deciso, il suo tono nazionalpopolare, facevano dell’uomo politico polacco il prototipo dell’uomo forte che sarebbe piaciuto al governo fascista vedere insediato nel maggior numero possibile di paesi.
Faceva parte del consolidamento del fascismo al potere in Italia la possibilità di contare su una rosa di paesi amici e tendenzialmente affini. Da questo punto di vista lo studio della ricezione del fascismo in altri contesti e quello dell’assimilazione al fascismo di altre esperienze fa parte a pieno titolo dello studio della fortuna del fascismo e contribuisce non solo al chiarimento di ciò che possiamo considerare fascismo in senso stretto ma anche di quali parti dell’esperienza fascista si travasarono in altri contesti, contribuendo ad allargare la base delle alleanze potenziali del fascismo e della sua risonanza internazionale. Ripetiamo, questo non significa confondere esperienze di tipo diverso ma soltanto orientare la ricerca verso quella maggiore comprensione dell’area di influenza del fascismo come idea politica e come politica nazionale senza la quale non si comprenderebbe il peso che esso ha assunto nella storia dell’Europa tra le due guerre mondiali. Una influenza che non può essere misurata soltanto sulla base di finanziamenti a movimenti o partiti filofascisti o di infiltrazioni filofasciste o del favore accordato a gruppi eversori nei rispettivi paesi ma anche e soprattutto in base a quella osmosi politicoculturale che consentì una forte espansione del modello antidemocratico, antiliberale, antiparlamentare e antiegualitario del fascismo e delle sue pretese organicistiche ed elitistiche, del suo nazionalismo legionario, al di là dell’imitazione della sua aggressività
in politica estera, come fatto non soltanto di stile ma di metodologia e di condotta politica.
L’estensione del discorso sul fascismo ai regimi autoritari, dittature personali e dittature militari, dell’Europa centro-orientale non appare perciò indebita, sempre che si tenga conto delle necessarie differenze. Una tradizione di studi — per citare soltanto Eu- gen Weber, Nicholas M. Nagy-Talavera e più recentemente Fischer-Galati e Borejsza39 — si è mossa in questa direzione non per arbitraria interferenza o estensione di concetti, ma proprio per la forza euristica della comparazione. L’analisi dei regimi dell’Europa centro-orientale è certamente un contributo alla fenomenologia di dittature e sistemi autoritari che, fondati su autoctone radici sociali e culturali nazionali, mutuano elementi ideologici e pratiche di governo soprattutto dal coevo fascismo italiano. Ma è un contributo anche e soprattutto alla storia di partiti e di movimenti dichiaratamente filofascisti, che senza mai essere arrivati al potere quanto meno da soli hanno fatto parte di una galassia di forze che ha fatto da cassa di risonanza del fascismo. In questo senso è un ulteriore contributo per la storia di quella fascistizzazione dell’Europa che, prima ancora che il riprodursi puntuale di regimi fascisti in senso stretto, mette in evidenza la pene- trazione e la compenetrazione nella società europea di diffuse ideologie nazionaliste, antidemocratiche, anticomuniste e antisémite, senza la cui presenza risulterebbe incomprensibile fra l’altro l’intreccio di dominazione e di collaborazione di cui è fatta la vicenda dell’occupazione nazista e fascista dell’Europa durante la seconda guerra mondiale.
39 Agli scritti già citati, senza alcuna pretesa di completezza che richiederebbe ben altro spazio, vogliamo aggiungere almeno il libro di Nicholas M. Nagy-Talavera, The Green Shirts and the Others. A History o f Fascism in Hungary and Rumania, Stanford, Stanford University Press, 1970 e di J.W. Borejsza, Il fascismo e l ’Europa orientale. Dalla propaganda all’aggressione, Bari, Laterza, 1981 e L ’Italia e le tendenze fasciste nei paesi baltici (1922-1940), “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, 1974, voi. 8.
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Diplomazia e ideologia di regime nella politica estera del fascismo
Un terzo momento essenziale per valutare il problema e la dimensione di quella che già in precedenza abbiamo definito la capacità di irradiazione verso l’esterno del fascismo porterebbe ad approfondire l’influenza dell’Italia nella destabilizzazione dell’Europa, al di là della semplice diffusione di idee e di ideali, attraverso la concreta iniziativa politica, diplomatica e anche militare. L’approfondimento di questa direttrice di studi, che spesso si esaurisce nella rievocazione di iniziative meramente propagandistiche o comunque di limitato respiro, sottolinea l’esigenza di una maggiore integrazione nello studio della politica estera del fascismo tra la storia delle relazioni internazionali e la storia politico-ideologica del regime. Troppo spesso, in presenza degli orientamenti attuali della storiografia diplomatica sembra di non riuscire a percepire quell’intreccio di propaganda, tecnica diplomatica e politica tout court che costituì gli ingredienti della politica estera del fascismo40. Un fattore che non è possibile escludere dalla considerazione del tema della presente relazione non soltanto perché concorre in maniera non secondaria alla ricostruzione di uno dei caratteri del fascismo ma anche a riprova dell’ipotesi
secondo la quale “la caratteristica essenziale di differenziazione tra regimi autoritari e regimi fascisti nell’Europa tra le due guerre fu esclusivamente l’assenza di piani espansionistici aggressivi da parte dei primi”41.
Non è evidentemente questa la sede per una rassegna degli studi sulla politica estera del fascismo, ma non è fuori luogo constatare come non sia casuale che una serie importante di studi siano stati dedicati di recente alla formazione dell’Asse Roma-Berlino e alle vicende dell’alleanza italotedesca42. Orbene, uno degli aspetti più interessanti degli studi più recenti ai quali alludevamo è che essi aprono e affrontano tematiche sinora relativamente poco o per nulla studiate, vuoi per mancanza di fonti documentarie vuoi per troppo scarso interesse storiografico, nelle quali i rapporti tra i due paesi sono indissolubilmente legati ai rapporti tra due regimi politici, sia che si tratti dello studio del Petersen sull’accordo culturale italotedesco del 1938, con i suoi evidenti riflessi tra gli altri di politica razziale43; sia che si tratti dello studio di Brunello Mantelli sul reclutamento di manodopera italiana per il Reich, studio che allarga la prospettiva dei rapporti tra i due paesi dell’Asse dal campo meramente politico al campo dei rapporti economici ancora ben lungi da una soddisfacente sistemazione44; sia infine che si tratti dell’ampia ri-
40 Nel senso indicato nel testo si muove il saggio rassegna di Marco Palla, Imperialismo e politica estera fascista, nel volume di Guido Quazza e al., Storiografia e fascismo, Milano, Angeli, 1985. Ci sembra convergere con le nostre osservazioni una parte dei contributi nel volume a cura di Ennio Di Nolfo, Romain H. Rainero, Brunello Vi- gezzi, L ’Italia e la politica di potenza in Europa (1938-40), Settimo Milanese, Marzorati, 1988.41 Come si esprime S. Woolf, Fascismo e autoritarismo: em busca de una tipologia do fascismo europea, nel volume O Estado Novo, cit., p. 20; già in precedenza praticamente negli stessi termini l’autore si era espresso a conclusione del saggio Movimenti e regimi di tipo fascista in Europa, in Nicola Tranfaglia, Massimo Firpo, La Storia, vol. IX, L ’età contemporanea, t. 4, Torino, Utet, 1986.42 Per la rassegna degli studi rinviamo al saggio ultimo citato di M. Palla, limitando Paggiornamento soltanto all ’esemplificazione dei casi che aprono prospettive di ricerca nuova come risulta da quanto diremo nel testo.43 II riferimento è all’importante contributo di Jens Petersen, L ’accordo culturale fra l ’Italia e la Germania del 23 novembre 1938, in Fascismo e nazionalsocialismo, cit.44 Cfr. Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, Firenze, La Nuova Italia, 1992.
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cerca che sta conducendo Klaus Voigt sulla trasmigrazione dalla Germania dei perseguitati politici e razziali che dopo il 1933 cercarono rifugio in Italia45. Tutti questi studi riportano il discorso anche metodologico allo stretto nesso tra la politica degli Stati e la fisionomia dei regimi.
Una circostanza infatti che, al di là degli aspetti strettamente diplomatici ma non per questo neutri come già a suo tempo fu messo in luce da Mario Toscano46, investe direttamente il processo di destabilizzazione dell’Europa che fu parte integrante, prima ancora che di un programma, del modo stesso di essere del regime fascista. Si deve misurare l’influenza del fascismo non soltanto nell’intreccio di propaganda, politica e diplomazia ma anche nei comportamenti concretamente assunti in campo internazionale. Di fronte a quello che sembra, a giudicare da studi recenti su aspetti della politica estera del fascismo, un persistente ritorno al feticismo degli archivi diplomatici ma soprattutto alla loro lettura meramente “tecnica”, non mi pare fuori luogo ricordare che le stesse novità nella tecnica diplomatica che Toscano rilevava nella diplomazia delle potenze totalitarie (Italia e Germania) erano in realtà connotati organici alla natura e alla politica dei regimi dei quali si trattava così come le loro reciproche relazioni erano studiate alla luce di quella “solidarietà tra i due regimi” che era del resto negli intendimenti dello stesso Mussolini. Come ho già avuto modo di argomentare in passato, sono sempre dell’avviso che la considerazione della diffusione del fascismo in Europa non possa pre
scindere dalla valutazione della tendenza alla creazione di un complesso di Stati mossi da interessi e metodologie di comportamento comuni e come tali destinati a presentarsi sulla scena delle relazioni internazionali come un fattore fondamentale omogeneo e nel caso specifico destabilizzante47.
È probabile ad esempio che uno studio complessivo dell’atteggiamento dell’Italia fascista nei confronti della Società delle nazioni, quale ancora non abbiamo, porti alla conclusione che l’Italia sottovalutò consapevolmente il ruolo della Sdn indipendentemente dalle motivazioni specifiche di una occasione conflittuale. Il rifiuto di ammettere il principio della parità formale tra gli Stati era in linea con il rigetto del principio democratico anche nelle relazioni tra gli Stati e con il ridimensionamento riservato ai piccoli Stati anche al di là degli esiti derivanti da rapporti di forze e da un equilibrio complessivo delle forze. L’affermazione dell’Italia come grande potenza (che significava armamenti, colonie, ecc.) che era genericamente nei voti del fascismo si sposò anzitutto con la tendenza ad aggregare intorno all’Italia una serie di Stati minori dei quali essa potesse, se non di fatto tutelare, tuttavia fare proprie le rivendicazioni. La fase del “revisionismo” contro i trattati di pace valse all’Italia il favore di Ungheria e Bulgaria, che entravano nell’orbita della sua influenza e in larga misura si apprestavano ad uniformarsi al suo comportamento. Al di là di iniziative direttamente revisioniste dell’Italia, questo modo di satellizzare una serie di Stati minori costituì nella pratica una via per
45 Cfr. Klaus Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993: in realtà questo volume, a dispetto del titolo dell’edizione italiana, è soltanto il primo di due e copre soltanto il periodo sino al 1943, mentre gli anni 1943-1945 saranno trattati nel secondo volume di imminente pubblicazione nell’edizione tedesca e del quale si auspica sollecita la traduzione italiana.46 Ci riferiamo in particolare al contributo di Mario Toscano, L ’Asse Roma-Berlino-Il Patto Anticomintern-La guerra civile in Spagna-L’Anschluss-Monaco, nel volume di Augusto Torre e al., La politica estera italiana dal 1914 al 1943, Torino, Eri, 1963 e anche, nel medesimo volume, al successivo contributo dello stesso Toscano sul patto d’acciaio, al quale l ’autore dedicò del resto il più importante degli studi esistenti.47 Mi permetto di rinviare alle considerazioni svolte in E. Collotti, Fascismo fascismi, cit., pp. 18-20 e passim.
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svuotare la Società delle nazioni, sottraendo- le spazio e intaccandone più che l’autorità la legittimazione.
Faceva parte del progetto di fascistizzazione dell’Europa, un progetto nei fatti più serio di quanto non potrebbe sembrare se ci si fermasse alle frasi propagandistiche o alla retorica mussoliniana sui valori universali del fascismo o sulla “rivolta ideale” dell’Europa, l’affermazione della volontà di risolvere da soli, unilateralmente, quindi se del caso con l’azione diretta e con l’uso della forza, problemi di equilibrio, di rivendicazioni territoriali e di riclassificazione di rapporti di forza. Sotto questo profilo il fascismo legittimò la sfida alla Società delle nazioni, non rispetto ai molti difetti e alle gravi disfunzioni dei quali fu costellata la sua esistenza, ma più radicalmente nei confronti dei suoi stessi principii. Il rigetto non solo teorico del pacifismo ma di una pratica stessa della sicurezza collettiva facevano parte della contestazione globale che il fascismo opponeva a qualsiasi tentativo di vincolare anche gli Stati a una sorta di patto contrattuale.
Certo, tutto ciò rimase per lungo tempo sulla carta o nelle parole della propaganda, con l’eccezione dell’incauto colpo di mano di Corfù. Ma dopo il decennio di assestamento, gli anni trenta, che coincisero con l’avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania, comportarono anche una maggiore disinvoltura nella gestione esterna del fascismo. Paradossalmente, sulle prime fu proprio l’avvento del nazismo a mettere sulla difensiva il regime fascista, facendo preludere a un nuovo dinamismo della politica tedesca. In un secondo momento si potè temere una collusione tra interessi italiani e interessi tedeschi derivante oltre che da comunanza di obiettivi (contro Versailles) da una affine metodologia di comportamento e da affini premesse teoriche. Tuttavia, né l’affinità dei regimi, né le simpatie ideologiche, né il riconoscimento della primogenitura del fascismo nella lotta contro il bolscevismo e nella
messa in scena della marcia su Roma come simbolo e prefigurazione della presa del potere, né infine i legami politici e personali tra Mussolini e Hitler, potevano annullare le divergenze tra gli interessi di potenza, che erano accentuate proprio dall’esaltazione dell’i- pernazionalismo e dell’iniziativa unilaterale degli Stati e dal rifiuto del principio della sicurezza collettiva e della disciplina della Società delle nazioni. Già nella prima fase dell’inizio degli anni trenta sembrava profilarsi l’impossibilità di una conduzione paritaria della politica estera tra Italia e Germania che esploderà nel corso del secondo conflitto mondiale, nell’impossibilità di realizzare un condominio tra le potenze dell’Asse nella guida del progettato Nuovo ordine europeo.
Questa considerazioni naturalmente non vogliono sottolineare l’incompatibilità tra fascismo e nazismo, né attenuare le corresponsabilità del fascismo nella distruzione della pace; mirano a dimostrare l’impossibilità per il fascismo (e a maggior ragione per il nazismo) di operare un qualsiasi processo di unificazione dell’Europa muovendo dall’interesse esclusivo o preminente di una potenza come nucleo centrale della nuova sistemazione continentale. La contraddizione fonda- mentale e radicale risiedeva nel principio stesso della pretesa egemonica, in quanto pretesa esclusiva e nella sua ulteriore radica- lizzazione razzistica, che implicava la sotto- missione necessaria di tutte le popolazioni e le entità statuali che non fossero in grado di esercitare un potere contrattuale e di sostenerlo con la forza delle armi. In questo modo il fascismo, che aspirava ad egemonizzare e a unificare politicamente e culturalmente determinate aree dell’Europa, agiva contraddittoriamente da fattore di divisione e non di unione, proprio per incapacità (che forse era l’impossibilità) di vedere al di là dei propri immediati interessi nazionali; infatti anche laddove esso tenterà di imporsi con la forza — soprattutto nel corso dell’occupazione della penisola balcanica — si scontrerà con i limiti
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derivanti dall’interno della propria sfera di potenza e di potere, ossia con l’impossibilità di realizzare ambizioni per le quali non possedeva né l’adeguata attrezzatura materiale, in termini di armamenti e di strumenti di dominazione, né la legittimazione politica e morale.
Non si sottolineerà mai abbastanza il peso anche nella politica estera di fattori costitutivi del patrimonio politico del regime, della sua costituzione materiale, come tutela di interessi nazionali tradizionali ma anche come strumento di espansione ideologica. Del resto, la stessa concezione antipluralista dello Stato e la pretesa di soluzione totalitaria del rapporto Stato-società erano per antica tradizione del pensiero nazionalista funzione della politica estera, come “politica per eccellenza”48. Il mito e la politica dell’impero non si possono spiegare né soltanto come operazione di politica interna e di consenso, né solo con le vecchie rivendicazioni africane dell’Italia e l’esigenza di riequilibrare i rapporti di potenza con Francia e Inghilterra; né basta definire la guerra all’Etiopia come impresa tardo-coloniale. Facile sarebbe anche retrospettivamente valutare gli aspetti demagogici di una impresa che, al di fuori di ogni meditata strategia, contribuiva a disperdere ulteriormente risorse militari e risorse econo- mico-finanziarie senza arrecare alcun sostanziale beneficio ai problemi del paese all’in- fuori di effimere parvenze di prestigio.
Non occorre ricordare qui come lo spostamento del centro di gravità della politica estera italiana verso l’Africa comportasse il suo allontanamento dai problemi dell’Europa continentale; da questo punto di vista è vero che la proiezione mediterranea che fu impressa alla politica dell’Italia rappresentò una forma di regionalizzazione49, e quindi di isolamento rispetto al cuore dei problemi eu
ropei. Ne conseguì un ulteriore indebolimento nei confronti di Francia e Inghilterra, ma anche nei confronti della Germania nazista: la mano libera che la Germania ebbe sull’Austria e sul bacino danubiano diede a posteriori la conferma che l’Italia non era in grado di operare contemporaneamente sulla direttrice africana e su quella europea, ma soprattutto che la scelta della dimensione mediterranea rischiava di cacciare l’Italia dall’Europa e di relegarla a un ruolo del tutto marginale.
A riprova di come fosse difficile dissociare nella politica fascista politica interna e politica estera converrà ricordare che al massimo di consenso all’interno fece riscontro all’esterno la pericolosa tendenza all’isolamento dell’Italia e la spirale di un uso della forza che si autoalimentava in permanenza. Posta in difficoltà dall’inefficienza di strumenti diplomatici e dal fatto che i suoi stessi interlocutori oscillavano tra irrigidimenti, blandizie e acquiescienza, rivelando la debolezza delle democrazie, la politica del fascismo si alimentò dell’illusione che fosse possibile procedere sul piano internazionale con la medesima disinvoltura con la quale era stato fatto credere al popolo italiano che la conquista dell’Abissinia avrebbe portato con il prestigio dell’impero anche la soluzione di strozzature dello sviluppo metropolitano. Non enfatizzeremo gli aspetti strettamente economi- co-sociali della politica e del mito dell’impero: al contrario, è da sottolineare la loro carica propagandistico-culturale, il valore simbolico con il richiamo alla tradizione romana da una parte e il sogno visionario di un compito da adempiere come missione di civiltà e al tempo stesso religiosa.
Connotati analoghi di commistione tra politica di potenza e affermazione di regime
48 Come si esprimeva il Manifesto della rivista “Politica” nel primo numero del dicembre del 1918.49 Esprime un medesimo concetto Carlo C. Santoro, La politica estera di una media potenza. L ’Italia dall’Unità ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1991, quando attribuisce la marginalizzazione del ruolo dell’Italia nel periodo fascista alla “mediterraneizzazione” della sua politica estera (p. 174 e anche altrove).
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rivestiranno le sortite dell’Italia in direzione della Spagna e più tardi dell’Albania. Fermiamoci all’esempio della Spagna, tanto più interessante in quanto non si trattava della tappa di una programmazione ma di un incidente di percorso. Al di là degli interessi strategici e di potenza (il controllo delle Ba- leari, la supremazia nel Mediterraneo occidentale sulla Francia per il controllo delle rotte africane), le motivazioni dell’intervento italiano a fianco della Germania furono tutte di carattere politicoideologico: l’avversione ai governi di fronte popolare come piattaforme specificamente antifasciste, in Francia come in Spagna; l’appoggio ai nazionalisti spagnoli come baluardo contro il complotto del bolscevismo e del giudaismo internazionale; l’attacco indiretto alla Francia in quanto culla della democrazia e sede dell’emigrazione antifascista; l’appoggio alla Spagna come avamposto della cristianità contro la persecuzione religiosa dei “rossi” e la scristianizzazione quasi a fare propria la piattaforma della “crociata”, anche al di là della stessa identificazione della Santa Sede con le ragioni e le motivazioni del clero spagnolo.
È vero che l’Italia non puntava diretta- mente a trapiantare in Spagna un regime fascista, ma la natura dell’intervento non era dissociabile dalla natura del regime al potere nei paesi dell’Asse. L’aiuto accordato presupponeva che esso si sarebbe sviluppato pienamente in misura di un sempre maggiore avvicinamento della Spagna al modello del regime fascista. Esso non era affatto svincolato da pregiudiziali del genere, né dettato unicamente da calcoli di Realpolitik: esso era prestato a una Spagna di un certo tipo, non a una Spagna qualunque. Se il disegno di fare della Spagna una pedina di
una Europa fascistizzata non riuscì, come in altri casi, non fu certo perché ne erano mancate le intenzioni, ma perché Franco scelse, dopo avere approfittato dell’aiuto accordato per arrivare al potere, una collocazione diversa sulla scena internazionale, avvertendo di non potere schierarsi unilateralmente con le potenze dell’Asse né soprattutto rompere con l’Inghilterra.
Più scontata può apparire la direttrice di marcia che portò all’annessione dell’Albania, la tradizionale direttrice balcanica del nazionalismo e dell’imperialismo italiano. L’Albania non poteva essere a lunga scadenza obiettivo fine a se stesso né per il modesto risultato politico (una nuova perla nella corona dei Savoia, a rinsaldare il legame monarchia-regime); né per le modeste prospettive di sfruttamento economico. Il significato principale era il segnale politico, lanciato insieme all’Inghilterra e alla Germania, che l’Italia era pronta a destabilizzare anche il Mediterraneo orientale, sfidando apertamente anche l’area di influenza inglese, e soprattutto di natura strategica: la testa di ponte sui Balcani rientrava nel vecchio e mai abbandonato progetto di accerchiamento della Iugoslavia; solo che, una volta privata l’Italia del trampolino austriaco, il possesso dell’Albania rendeva più prossima la prospettiva di una gara concorrenziale con l’espansione in atto della Germania nell’area danubiano-balcanica.
Una conclusione che non possiamo immaginare se non come culmine di una politica estera di impronta specificamente fascista, fatta di aggressività verso l’esterno ma al suo interno costantemente minata dall’insanabile antinomia tra la vastità delle ambizioni imperialistiche e la limitatezza dei mezzi per realizzarle.
Enzo Collotti
Enzo Collotti insegna Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Firenze ed è membro della direzione di “Passato e presente”. Ha studiato la storia della Germania, dell’Austria e dell’Europa contemporanea; tra le sue recenti pubblicazioni: Fascismo, fascismi (Firenze, Sansoni, 1989), Dalle due Germanie alla Germania unita (Torino, Einaudi, 1992).