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IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE E L'U-NIONE EUROPEA: RELAZIONI NELLA CRISI 2008-2014.
Introduzione....................................................................................5
CAPITOLO I. IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE
1.1 L'istituzione e l'evoluzione del Fondo Monetario
Internazionale........................................................................................7
1.2 Il Fondo Monetario Internazionale: quale foro di cooperazione
economica............................................................................................14
1.3 Le Funzioni del Fmi. …................................................................20
1.4 Le risorse.......................................................................................34
1.5 Gli organi decisionali....................................................................39
1.6 Il nuovo contesto in cui il Fondo monetario internazionale si trova
ad operare............................................................................................44
1
CAPITOLOII. PROCESSO DI UNIFICAZIONE EUROPEA
2.1 l Trattato di Maastricht anche detto Trattato dell'Unione Europea.......47
2.2 Le teorie sull'integrazione europea.......................................................50
2.3 Il secondo dopoguerra e l’avvio del processo di integrazione
europea.......................................................................................................53
2.4 Il rilancio e l’integrazione economica..................................................59
2.5 La crisi della sedia vuota e il Compromesso di Lussemburgo.............62
2.6 Le componenti del processo: costruzione, integrazione,
unificazione................................................................................................66
2.7 I tempi e gli attori del processo: crisi-iniziativa-leadership.................72
2.8 Il processo di integrazione europea e le sovranità nazionali nei periodi
di crisi.........................................................................................................87
CAPITOLOIII. ACCORDI TRA FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE E UNIONE EUROPEA PRIMA E DURANTE LA CRISI DEL 2008-2013.
3.1 Dal ''Serpente monetario'' all’Unione Economica e Monetaria Europea
del 1999......................................................................................................92
2
3.2 Contatti tra FMI e Unione Europea: Interventi del Fondo sull'economia
della Comunità Europea e condizioni accordate per ricevere finanziamenti
alla luce della situazione di crisi...............................................................104
3.2.1 Periodo pre-crisi finanziaria 2004-2007;.........................................105
3.2.2 Crisi finanziaria 2008-2013;.....................................................111
3.2.3 G20 di Londra del 2009............................................................118
3.4 La proposta di creare un fondo monetario europeo............................124
3.5 Il meccanismo europeo di stabilità.....................................................126
3.6 La Riforma delle regole relative alla sorveglianza sui bilanci: le modi-
fiche al patto di stabilità, il semestre europeo, la regola del pareggio di bi-
lancio........................................................................................................138
3.6.1 Segue:Le innovazioni connesse alla regola del pareggio di bilan-
cio.............................................................................................................146
3.7 Fiscal Compact...................................................................................150
IV.CONCLUSIONE
Bibliografia
3
IL FONDO MONETARIO
INTERNAZIONALE E
L'UNIONE EUROPEA:
RELAZIONI NELLA CRISI
2008-2013.
4
Introduzione
''Per alcuni investitori, questo clima di euforia ricorda il 1999''. Sul fi-
nire del 2013 il ''Wall Street Journal'' traccia questo paragone storico
che per gli europei è incomprensibile. E' proprio sul fronte dell'econo-
mia reale che le cose girano per il verso giusto. Dall'America all'Asia,
è un susseguirsi di buone notizie. Un mondo intero è in crescita, anche
se gli europei fanno fatica ad accorgersene. Un mondo che ha voltato
pagina rispetto alla crisi anche perché ha adottato terapie opposte a
quelle dell'Eurozona. Situazioni diverse tra loro, come gli Stati Uniti e
la Cina, la Corea del Sud e l'Indonesia, Taiwan e il Giappone. Unite
tra di loro da un trattato comune: ripresa manifatturiera, esportazioni
che tirano, occupazione in aumento. E dietro questi segnali positivi c'è
un armamento di strumenti che va dagli investimenti pubblici alle po-
litiche monetarie delle banche centrali. Così da manuale, all'opposto di
quel che sta facendo il Vecchio Continente, unico buco nero nella ri-
presa globale. Tutti gli ingredienti che aiutano la ripresa americana, ci-
nese, giapponese e sudcoreana sono assenti nelle politiche dell'Euro-
zona. Gli investimenti pubblici soni bloccati dall'interpretazione rigida
del trattato di Maastricht. L'11 aprile del 2013 il Fondo Monetario In-
5
ternazionale pubblica il suo rapporto che descrive un mondo a tre ve-
locità. Quella europea è l'ultima e il Fmi temendo per le sorti dell'euro
manda i suoi funzionari in Europa per far in modo di trovare una solu-
zione e cercare di scendere a patti con la Germania, attualmente leader
nella scena europea. 1Uscire dalla crisi, per il Fmi, significa affiancare
lo scenario americano, che è oltre i tre anni di crescita economica, con
un aumento costante dell'occupazione. Obama, attuale presidente degli
Stati Uniti d'America, propose all'Europa una ''austeriry di sinistra'',
includendo una riforma del Welfare, con tagli modesti e oculati, pen-
sioni incluse, spalmando questi sacrifici su un decennio, ma l'Europa è
sorda alla lezione americana. Il Fmi è stato più volte protagonista nel-
l'economia europea tentando di collaborare con gli stati europei e ten-
tando di sviluppare un piano volto alla loro ripresa economica.
Quindi analizzando la struttura e le funzioni del Fmi dalla sua nascita
ad oggi e analizzando i problemi legati al trattato di Maastricht e alla
cessione delle sovranità nazionali da parte degli stati membri dell'U-
nione Europea, tratterò il periodo che va dal 2008 al 2013 e i vari in-
terventi effettuati dall'Fmi nell'Unione Europea nel tentativo di risolle-
vare un'Europa ancora oggi in difficoltà.
1 Federico Rampini ''La trappola dell'austerity Perchè l'ideologia del rigore blocca la ripresa'' 6
CAPITOLOI
IL FONDO
MONETARIO
INTERNAZIONALE
1.1 L'istituzione e l'evoluzione del Fondo Mo-
netario Internazionale
La grande depressione del 1930, iniziata negli U.S.A. a seguito del
crollo della borsa di Wall Street nel 1929, ha interessato anche tutti
quei Paesi che avevano stretto rapporti finanziari con gli Stati Uniti
stessi a partire da quelli europei. I Paesi Europei che si erano affidati
7
all’aiuto economico degli americani dopo la prima guerra mondiale
come Gran Bretagna, Austria, Germania, Francia e Italia, hanno cerca-
to di risollevare le loro economie sia instaurando barriere per i com-
merci stranieri sia svalutando le loro monete per competere tra loro
nei mercati di esportazione e limitando così la libertà dei cittadini a
detenere valuta estera. Questi tentativi si sono rivelati però contropro-
ducenti, tanto che il commercio mondiale è diminuito drasticamente e
gli standard di occupazione di vita sono crollati in molti paesi. Si è
pensato quindi, di creare un ente incaricato di sovrintendere il sistema
monetario internazionale per consentire ai Paesi in questione e ai loro
cittadini di acquistare beni e servizi tra loro garantendo la stabilità dei
tassi di cambio e incoraggiando i Paesi membri ad eliminare le restri-
zioni di cambio che ostacolavano di fatto il commercio.
Era il 22 luglio del 1944 2quando nello Stato dello New Hampshire,
Bretton Woods, i rappresentanti di 45 Paesi firmarono gli accordi che
portarono alla creazione di Banca Mondiale e Fondo Monetario Inter-
nazionale (FMI) e che avevano come obiettivo di: a) promuovere la
cooperazione monetaria internazionale, la stabilità negli scambi e un
sistema di tassi di cambio ordinato; b)sostenere la crescita economica
e l’occupazione, c) la fornitura di servizi e assistenza tecnica ai Paesi
membri.
2 Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, 1ª ed., Einaudi, 2002.
8
L’articolo3 introduttivo di tale accordo stabilisce infatti che:
1) il Fondo Monetario Internazionale ha sede ed opera in conformità
con le disposizioni del presente accordo come originariamente adotta-
to e successivamente modificato;
2) per consentire al Fondo di condurre le sue operazioni e transazio-
ni, il Fondo deve mantenere una Direzione Generale e un Dipartimen-
to per i Diritti Speciali di Prelievo. L’adesione al Fondo attribuisce il
diritto di partecipazione al Dipartimento di Diritti Speciali.
3) le operazioni e transazioni autorizzate dal presente accordo devo-
no essere condotte attraverso la Direzione Generale che consiste nel-
l’accordo tra questo Accordo del Conto Generale delle Risorse, il
Conto Speciale a Erogazione e il Conto degli Investimenti; escluse le
operazioni e le transazioni attinenti i diritti speciali di prelievo, che
sono condotte dal Dipartimento dei Diritti Speciali.
Mentre nell’art 1 di tale accordo gli scopi dell’FMI sono così definiti:
1) promuovere la cooperazione monetaria internazionale
2) facilitare l’espansione del Commercio Internazionale
3 Statuto del Fondo monetario internazionale. Adottato a Bretton Woods il 22 luglio 1944. Modificato il 31 maggio 1968 e il 30 aprile 1976 Approvato dall'Assemblea federale il 4 ottobre 1991Firmato e accettato dalla Svizzera il 29 maggio 1992 Entrato in vigore per la Svizzera il 29 maggio 1992
9
3) promuovere la stabilità e l’ordine dei rapporti di cambio evitando
svalutazioni competitive
4) dare fiducia agli stati membri rendendo disponibili con adeguate
garanzie le risorse del fondo per affrontare difficoltà della bilancia dei
pagamenti;
5) dare fiducia agli stati membri rendendo disponibili con adeguate
garanzie le risorse del fondo per affrontare difficoltà della bilancia dei
pagamenti
Il fondo dovrebbe quindi regolare la convivenza economica e favorire
i paesi in via di sviluppo.Gli originali articoli dell’accordo del FMI
erano stati concordati durante la Conferenza Internazionale Monetaria
e Finanziaria degli Stati associati radunatasi a Bretton Woods il 1 lu-
glio 1944. La conferenza era stata presenziata da 44 membri. L’atto fi-
nale comprendeva gli articoli dell’accordo del Fondo Monetario Inter-
nazionale e della Banca Mondiale per la ricostruzione e lo sviluppo.
Gli articoli originali si basavano appunto su un concetto di scambio
commerciale multilaterale e sistema dei pagamenti, che opera con una
valuta convertibile e libera dalle restrizioni di pagamento sui trasferi-
menti e relative alle transazioni in corso.
Il primo emendamento agli Articoli entrò in vigore il 28 luglio del
1969. Il suo principale obbiettivo era quello di stabilire lo Special Dra-
10
wing Rights Department e di provvedere alla creazione dello Special
Drawing Rights (SDRs), una nuova riserva monetaria pronta ad essere
distribuita dal Fondo e per incrementare le riserve internazionali già
esistenti.
Il secondo emendamento proveniente dagli Articoli dell’Accordo di-
venuti effettivi il 1 aprile del 1978 portò una riforma comprensiva de-
gli Articoli, ammettendo che il vecchio sistema di Bretton Woods è
fallito in seguito alla guerra del Vietnam che ha portato un forte au-
mento della spesa pubblica e del debito americano.
Il 15 agosto 1971, a Camp David, Richard Nixon, sospese quindi la
convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di
conversione in oro le riserve americane si stavano sempre più assotti-
gliando.
Il dicembre del 1971 segnò l’abbandono degli accordi di Bretton
Woods da parte dei membri del G10 (il gruppo dei dieci paesi formato
da Germania, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone,
Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia). Con lo Smithsonian Agreement il
dollaro venne svalutato e si diede il via alla fluttuazione dei cambi.
Tuttavia,le istituzioni create a Bretton Woods sopravvissero ma si tro-
varono a ridefinire priorità e obiettivi.
I Nuovi Articoli dell’emendamento permisero ai membri di stabilire le
disposizioni di scambio delle loro scelte, sebbene gli Articoli stessi
11
continuarono a obbligare i membri e a promuovere una lineare crescita
economica con un ragionevole prezzo di stabilità. Ciò avvenne attra-
verso una regolare condizione economica e finanziaria mirante ad evi-
tare sia la manipolazione delle rate di scambio del sistema monetario
internazionale sia di guadagnare un ingiusto vantaggio sugli altri
membri. Il secondo emendamento introdusse quindi il concetto di soli-
da sorveglianza da parte del Fondo sulle politiche dei tassi di cambio
dei membri e richiese la cooperazione dei membri in questo tentativo.
Quindi, il fondo ha perso una iniziale autorità che gli era stata data da-
gli articoli ma ha guadagnato una più estesa autorità nella sorveglianza
sugli accordi di scambio tra i paesi membri.
Il terzo emendamento agli Articoli dell’accordo era stato approvato da
Board of Governors nel 1990 e divenne effettivo nel Novembre del
1992. Le principali caratteristiche di questo emendamento erano sia la
sospensione dal voto e dai correlati diritti di quei membri che erano in
ritardo con i pagamenti verso il Fondo, sia un incremento delle quote
dei membri nel fondo stesso.
Il Quarto Emendamento dagli Articoli era stato preparato dalle Execu-
tive Board nel 1998 per dare la giurisdizione del fondo sui movimenti
di capitale di conto e provvedere a una equa ripartizione del SDRs,
come richiesta dell' Interim Committee al suo meeting di Hong Kong
SAR a settembre 1997. Il quarto emendamento divenne effettivo il 13
12
agosto del 2009 nel bel mezzo della crisi finanziaria, seguendo una
chiamata dal Gruppo dei venti leader spingendo verso l’alto la liquidi-
tà globale. Nell’Aprile del 2008 il Fondo Board dei Governatori ap-
provò una risoluzione proponendo un emendamento all’ accordo sugli
Articoli del Fondo sulla riforma della quota e del diritto di voto che
incluse l’aumento della quota per i mercati emergenti e i paesi in via
di sviluppo per aumentare la loro rappresentanza basata su una nuova
formula della quota.
La Risoluzione era parte di una lunga serie di riforme della struttura
del fondo, per assicurare che il peso del voto di ciascun membro del
Fondo riflettesse al meglio la posizione di quello Stato nell’economia
mondiale e tenendo in conto i cambiamenti avvenuti nell’economia
mondiale.
Il 5 maggio del 2008 il Board of Governors approvò a larga maggio-
ranza una risoluzione proponendo un altro emendamento degli Articoli
per estendere l’autorità del fondo sugli investimenti. Questo autorizzò
il fondo a creare un finanziamento basato sulla vendita dell’oro, per
essere investito con un punto di vista che genera entrate mentre pre-
serva il reale valore a lungo termine di queste risorse.
L’emendamento entrò in vigore il 19 novembre 2009 votato dall’ 85%
della totale potenza di voto
13
1.2 Il Fondo Monetario Internazionale: quale
foro di cooperazione economica.
In base all'articolo I dello Statuto il FMI è innanzitutto un foro perma-
nente volto a promuovere la cooperazione in campo monetario inter-
nazionale. Il suo contributo è soprattuto mirato a promuovere la coe-
renza reciproca tra le politiche economiche dei paesi membri e la sta-
bilità del sistema monetario e finanziario internazionale, elementi con-
siderati essenziali alla crescita dei redditi e del'occupazione. Si potreb-
be dire, in estrema sintesi, che il Fmi ''promuove la crescita nella sta-
bilità monetaria e finanziaria'', sia a livello dei singoli paesi, sia a li-
vello globale.
L'esigenza della cooperazione internazionale deriva dal riconoscimen-
to che le economie sono interdipendenti, nel senso che gli sviluppi in
una di esse finiscono per influenzare, negativamente o positivamente,
le altre. Si tratta di quelle che in economia vengono chiamate esterna-
lità.
14
Ad esempio, un aumento della domanda in un paese può avere effetti
benefici su altri paesi tramite una crescita delle esportazione di questi
ultimi.
Al contrario, le politiche commerciali protezionistiche o le svalutazio-
ni competitive, cioè le politiche di tipo beggarthy-neighbor cui si era
fatto largo ricorso nel periodo tra le due guerre, vanno normalmente a
detrimento di altri paesi. Se poi ad esse corrispondono misure di ritor-
sione, il risultato è una perdita di efficienza allocativa e produttiva e,
quindi di benessere per tutti. Si puo' dire, in prima battuta, che la coo-
perazione economica 4si propone di coordinare per quanto possibile le
azioni di politica economica al fine di massimizzare le esternalità po-
sitive e minimizzare quelle negative. Ad esempio nell'incoraggiare una
maggior apertura dei paesi al commercio e ai capitali internazionali il
Fmi rende possibili esternalità positive, poiche' una maggior apertura
delle economie va a beneficio di tutti; essa è , cioè, un “bene
pubblico”. La stabilità monetaria e finanziaria internazionale è an-
ch'essa un bene pubblico (e,viceversa, l'instabilità un male). Il Fmi la
favorisce in vari modi: assicurando una certa stabilità dei tassi di cam-
bio; offrendo ai paesi membri i mezzi finanziari che permettono loro
di smussare l'entità e allungare i tempi dei processi di aggiustamento
soccorrendo direttamente i paesi colpiti da gravi crisi finanziarie, che
4 M.R. Shuster: The Public International Law of Money, Oxford, Clarendon Press 1973
15
possono anche trasmettersi globalmente; in generale pevedendo l'in-
sorgere dell'instabilità attraverso raccomandazioni di politica econo-
mica. L'obbiettivo della stabilità finanziaria non è naturalmente fine a
se stesso, ma funzionale al raggiungimento di una maggiore crescita
economica. L'instabilità, sia interna (ossia la minore inflazione) sia
esterna (i minori squilibri della bilancia dei pagamenti e nel livello del
cambio), favorisce la crescita nel medio-lungo termine. Il ruolo affida-
to al Fmi, di ricerca e di mantenimento della compatibilità tra le politi-
che economiche nazionali, non si esaurisce qui. Vi è anche il caso, che
certe misure correttive appropriate a livello nazionale, che apparente-
mente non andrebbero a danno della comunità, risultino incoerenti a
livello internazionale. Si pensi ad esempio ad una situazione in cui tut-
ti i paesi perseguano un avanzo delle partite correnti della bilancia dei
pagamenti -una cosa impossibile a livello globale, poichè agli avanzi
di alcuni paesi devono necessariamente corrispondere i disavanzi di
altri- e, a tal fine mettano in atto politiche restrittive della domanda in-
terna. Ne deriverebbe un effetto depressivo sull'attività economica
globale non facilmente conciliabile con l'obbiettivo di promuovere l'e-
spansione del reddito e dell'occupazione. Vi è, quindi, la necessità di
coordinare le politiche economiche per far si che gli obbiettivi nazio-
nali siano tra loro compatibili e, comunque non comportino pregiudi-
zio al benessere economico collettivo. La necessità di verificare la
16
compatibilità delle politiche economiche nazionali si è molto accre-
sciuta negli ultimi due decenni, poichè le economie si sono fortemente
integrate, accrescendo il “gioco” delle esternalità5. I benefici aggregati
derivanti da politiche sane sono potenzialmente più elevati.
D'altro canto sono anche aumentati i canali di trasmissione degli shock
negativi, dovuti a politiche errate come anche a un malfunzionamento
dei mercati. Ciò è particolarmente vero per l'instabilità finanziaria poi-
ché, i rischi di un contagio internazionale sono oggi molto maggiori
che in passato.
Dal punto di vista pratico, tuttavia, non si puo' nascondere che la coo-
perazione economica incontri numerosi ostacoli. Innanzitutto i paesi
possono assegnare un peso diverso ai medesimi obbiettiv di politica
economica: alcuni possono privilegiare la crescita dell'occupazione e,
quindi perseguirepolitiche espansive, anche quando queste comporta-
no eccessiva inflazione; altri possono privilegiare l'obiettivo della sta-
bilità a scapito dell'occupazione. In secondo luogo, anche qualora le
preferenze in termini di obbiettivi siano omogenee, possono esistere
divergenze nei modelli economici adottati dei vari paesi, nel senso che
gli effetti di certe misure di politica economica non sono giudicati es-
sere gli stessi. Va aggiunto che sia le preferenze dei singoli paesi, sia i
5 Esternalità quando gli effetti che produce una certa azione di un agente, possono avere un’utilità per altri agenti che operano nel sistema. Quan-do un agente opera per finalità personali, può produrre effetti secondari che possono avere utilità/disutilità per gli altri agenti. Anche minimi effet-ti secondari, se sommati, possono produrre utilità/disutilità importanti in capo ai singoli agenti
17
modelli economici che essi prendono a riferimento mutano nel tempo,
spesso in base ai governi in carica e, pertanto la cooperazione non av-
viene sempre fra attori con posizioni predefinite. La storia del Fmi è
rappresentata proprio dai fallimenti e dai successi dei suoi tentativi di
affermare una maggi cooperazione tra le nazioni.
La promozione della cooperazione economica avviene in una pluralità
di fori, più o meno formali.
Non tutti hanno però carattere universale come il Fmi: si pensi al G-8,
il gruppo degli otto paesi più industrializzati, che comprende gli Stati
Uniti, Giappone, Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Canada e
Russia oppure al G-20 6, che si è affermato con il nuovo direttorio in
materia di politica economica internazionale. Oltre ai paesi del G-8,
esso comprende quelle che oggi sono considerate le maggiori econo-
mie emergenti (Argentina, Arabia Saudita, Australia, Brasile, Cina,
Corea del Sud, India, Indonesia, Messico, Sud Africa e Turchia), più
l'Unione europea. La sfera di immediata competenza del Fmi e' essen-
zialmente quella monetaria ed esterna. Da qui l'enfasi che si trova nel-
lo Statuto su concetti quali i tassi di cambio, le bilance dei pagamenti
e il sistema dei pagamenti internazionali. In particolare, l'art 1 fissa tra
i compiti del Fmi quello di “promuovere la stabilità dei cambi, mante-
6Il Gruppo dei 20 (o G20) è un forum dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali, creato nel 1999, dopo una successione di crisi finanziarie per favorire l'internazionalità economica e la concertazione tenendo conto delle nuove economie in sviluppo. Di esso fanno parte i 19 paesi più industrializzati (quelli del G8 in primis) con l'eccezione di Spagna, Paesi Bassi e Svizzera. È presente, inoltre, l'Unione europea. Il G20 rappresen-ta i due terzi del commercio e della popolazione mondiale, oltre al 80% del PIL mondiale. Sono presenti anche alcune tra le maggiori organizzazioni internazionali.
18
nere accordi di scambio ordinati tra i paesi membri ed evitare le svalu-
tazioni competitive”, così come quello di “assistere nella creazione di
un sistema multilaterale dei pagamenti per le transazioni correnti tra
paesi membri e nell'eliminazione delle restrizioni sui cambi che posso-
no risultare dannose alla crescita del commercio mondiale”. Ciò non
vuol dire, si badi, che il Fmi non possa guardare all'evoluzione di va-
riabili non monetarie o riferite all'economia nazionale dei paesi mem-
bri. Anzi è vero il contrario. Proprio per poter assicurare rapporti di
cambio stabili e contenere gli squilibri delle bilance dei pagamenti- i
principali canali di trasmissione di quelle esternalità negative citate ,
ma più in generale per assicurare la coerenza delle politiche economi-
che a livello globale, il Fmi esamina una pluralità di variabili. Ad
esempio, e' assolutamente centrale nelle analisi del Fmi la politica fi-
scale: questa può da un lato, influire sulla domanda interna e , tramite
le importazioni avere un impatto sulle partite correnti; dall'altro, per i
suoi effetti sui tassi di interesse, può determinare movimenti di capita-
le in entrata o uscita e, quindi, influire anche sul conto economico fi-
nanziario della bilancia dei pagamenti.
19
1.3 Le Funzioni del FMI
Il coordinamento delle politiche economiche può essere perseguito,
schematicamente, secondo due approcci. Il primo e' basato sulla fissa-
zione di regole in aree ben precise (rule based) in modo tale che il
coordinamento scaturisca in modo quasi automatico dallo sforzo dei
paesi di ottemperare alle regole prefissate. Rientrano in questa logica
il sistema monetario aureo, di cui si e' parlato, e il sistema multilatera-
le di cambi fissi ma aggiustabili, dei quali il Fmi era stato posto origi-
nariamente a guardia. Questo sistema è durato per quasi trenta anni ,
sino al suo definitivo abbandono nel 1973.
Il secondo approccio è più discrezionale, in quanto consiste nell'assi-
curarsi, tramite una azione di sorveglianza, che gli obbiettivi e le azio-
ni di politica economica adottati dai singoli paesi non siano in contra-
sto con l'interesse collettivo. Questo è l'approccio attualmente seguito
dal Fmi(e in molti altri fori di consultazione sulle politiche economi-
che) dopo l'abbandono del sistema di cambi fissato a Bretton Woods .
La sorveglianza è senza dubbio la principale ragion d'essere del Fmi.
Secondo alcuni essa è la funzione del Fmi, alla quale sono da ricon-
durre tutte le altre, compresa quella finanziaria. Essa è in ogni modo
20
un esercizio complesso, nel quale sono coinvolti sia i tecnici sia i ver-
tici del Fmi.
Normalmente si distingue tra una azione di sorveglianza bilaterale,
mirata a valutare le politiche economiche del singolo paese membro, e
un tipo di multilaterale, in cui il Fmi valuta la congruenza degli anda-
menti economici e delle politiche nazionali sul piano globale. Dal
punto di vista dei contenuti l'azione di sorveglianza bilaterale si eserci-
ta su due livelli. Un primo livello e' quello di politiche del cambio o ,
per meglio dire, il sistema multilaterale dei pagamenti correnti. Sebbe-
ne i paesi membri siano liberi di adottare il regime di cambio che desi-
derano, essi devono garantire la cosidetta “convertibilità delle partite
correnti”, obbligo che discende dall'art. 8 dello Statuto che consiste
nel garantire la piena libertà dei pagamenti relativi al commercio con
l'estero, in entrata e in uscita. Al momento i paesi che rispettano piena-
mente tale obbligo sono la maggior parte (166): l'ultimo in ordine di
arrivo e' stato il Montenegro nel gennaio 2007. Le valute di questi
paesi sono dette, nel gergo del Fmi, “valute convertibili”. Gli altri
paesi si avvalgono invece di un regime transitorio previsto dall'art. 14,
impegnandosi a eliminare quanto prima le restrizioni che essi manten-
gono in essere. Dunque il primo compito della sorveglianza consiste
nell'assicurarsi che i paesi membri non introducono restrizioni contra-
rie all'art. 8 o, per quelli che si avvalgono del regime transitorio, di va-
21
lutare i progressi verso la piena convertibilità. Ciò affinché' il “piano
di gioco” sia uguale per tutti. Il secondo livello su cui si esercita l'azio-
ne di sorveglianza bilaterale attiene all'adeguatezza delle politiche
economiche di cui ciascun paese membro in rapporto alla situazione
della sua bilancia dei pagamenti e del cambio. E' questa una funzione
che si ricava dall'art. 74 dello Statuto, il quale impone ad ogni paese
membro di collaborare col Fmi e con gli altri paesi membri al fine di
assicurare l'ordinato funzionamento e la stabilità del sistema di cambi .
Ne discende l'obbligo di fornire al Fmi un costante e ampio flusso di
informazioni e di dati statistici sulla propria situazione economica. I
tecnici del Fmi che provengono da tutto il mondo e vengono assunti
solo sulla base delle loro conoscenze tecniche, conducono periodiche
consultazioni con i paesi membri, dette” consultazioni ex art 4”. Essi
si recano in “missione” nei paesi per incontrare oltre alle autorità di
governo, i rappresentanti delle parti sociali e gli esponenti del settore
privato, del mondo accademico e della ricerca. Queste consultazioni
avvengono, di norma , annualmente e al termine di esse i tecnici del
Fmi redigono un rapporto contenente le loro analisi e raccomandazio-
ni, che deve essere approvato dai vertici dell'organizzazione, ossia dal
7Sezione 1: Obblighi generali degli Stati membri.Riconosciuto che lo scopo principale del sistema monetario internazionale è di forgiare un contesto tale da facilitare lo scam -
bio di beni, servizi e capitali tra gli Stati, favorendo una crescita economica equilibrata, e che un obiettivo prioritario è quello di garantire il mantenimento delle condizioni di base ordinate, necessarie alla stabilità economica e finanziaria, ogni Stato membro si impegna a col -laborare con il Fondo e con gli altri stati membri per garantire un regime di cambi ordinato e promuovere un sistema stabile di tasso di cambio.
22
top management e dal Consiglio di amministrazione. Nelle consulta-
zioni viene presa in considerazione una pluralità di variabili e si esa-
mina la gran parte delle politiche economiche perseguite dal governo
del paese, sebbene un ruolo di primo piano sia riservato alla politica
del cambio, a quella monetaria e a quella fiscale. Tale pratica trova
fondamento nel fatto che la posizione esterna di una economia e' sem-
pre il frutto delle politiche messe in atto al suo interno.
La sorveglianza bilaterale non è altro che una dimensione della più
ampia sorveglianza multilaterale, che il Fmi conduce per assicurare la
congruenza delle politiche economiche a livello globale, soprattutto
quelle dei paesi più grandi e sistemici, che hanno cioe’ un impatto
maggiore all’esterno. Vengono inoltre effettuate analisi su vari aspetti
specifici dell’economia mondiale (i regimi dicambio, i movimenti di
capitale, la liquidità internazionale, ecc.). In questo ambito, ad esem-
pio sono state esaminate le possibili conseguenze globali dell’integra-
zione economica e monetaria in Europa. Queste analisi sono elaborate
soprattutto dagli economisti del Servizio studi e vengono sempre di-
scusse dal Consiglio di amministrazione, dove sono rappresentati i
paesi membri a livello politico. Le analisi e le raccomandazioni dei
tecnici del Fmi vengono normalmente rese note all’esterno tramite la
pubblicazione di documenti, studi e rapporti. Di questi il più noto, e al
contempo il più importante sul piano della sorveglianza, e’ senza dub-
23
bio il World Economic Outlook (Weo) , un rapporto semestrale che di-
schiude i possibili scenari di breve medio termine per l’economia
mondiale. Gli scenari servono a indicare le varie opzioni in termini di
politica economica che sono disponibili ai paesi e le loro possibili
conseguenze, soprattutto per la crescita e la stabilità. Le origini del
Weo possono farsi risalire al 1969 quando ancora nessuna organizza-
zione produceva previsioni a livello di economia mondiale. Alla fine
degli anni 70 il Weo si era già sviluppato in un esercizio quantitativo
sofisticato e da allora rappresenta uno dei compiti più delicati e impe-
gnativi per i tecnici del Fmi. Negli ultimi anni ha assunto una grande
importanza anche il Global Financial Stability Report (Gfsr) un docu-
mento molto utile a interpretare le tendenze e a valutare i rischi sul
mercato internazionale dei capitali. Introdotto una decina di anni fa,
questo strumento riflette la crescente attenzione del Fmi per i problemi
legati alla globalizzazione finanziaria. Il Fmi mette a disposizione dei
paesi membri le proprie risorse finanziarie, affinché esse possano
provvedere ad eliminare squilibri insorti nelle proprie posizioni ester-
ne, che possono manifestarsi sia in deficit della bilancia dei pagamen-
ti, sia in una posizione precaria delle riserve. La funzione finanziaria
e’ intesa ad evitare che i paesi facciano ricorso a misure estreme, ossia
“ distruttive della prosperità’ nazionale o internazionale” (art.I). In al-
tre parole si vuole, da un lato ridurre il ricorso ad azioni che vadano a
24
danno di altri paesi membri, come le misure protezionistiche e le sva-
lutazioni competitive: dall’altro evitare ai paesi in difficoltà aggiusta-
menti eccessivamente costosi, in termine di reddito e occupazione
,delle proprie politiche. Pertanto, nell’esercitare tale funzione il Fmi
ricerca sempre un giusto equilibrio tra le risorse concesse in prestito e
il grado di correzione delle politiche economiche, in breve tra finan-
ziamento esterno e aggiustamento interno. Per realizzare ciò, l’esborso
di fondi e’ sempre vincolato, in tutto o in parte, all’attuazione di misu-
re correttive di politica economica concordata con le autorità naziona-
li. Questa pratica viene convenzionalmente indicata come condiziona-
lità (conditionality). Con essa si vuol fare in modo che ciascun paese
rimedi in modo duraturo ai problemi che sottostanno allo squilibrio
esterno. Allo stesso tempo ciò garantisce che i prestiti concessi, che
implicano l’uso delle risorse comuni, possono essere rimborsati tem-
pestivamente. Questo e’ necessario non solo per salvaguardare la Soli-
dità finanziaria del Fmi sul piano aziendale, ma anche per far si che le
risorse comuni, per definizione limitate, sono il più possibili limitate,
siano il più possibili disponibili a tutti i membri che ne hanno bisogno.
I contenuti della condizionalità non differiscono da quelli oggetto del-
l’attività di sorveglianza, soltanto che essi si concretizzano in obbietti-
vi ben precisi (performance criteria), che il paese in difficoltà deve
realizzare nel corso del programma di risanamento. Una parte di que-
25
sti è riferita alle politiche economiche, quindi alla condotta della poli-
tica monetaria, di quella fiscale e del cambio. I criteri sono espressi
generalmente in termine di valori massimi o minimi su certi variabili
considerate nel controllo delle autorità, tra cui il livello del deficit
pubblico, la crescita degli aggregati monetari, il livello delle riserve.
Si tratta normalmente di indicatori qualificabili sui quali sono disponi-
bili dati tempestivi. Il programma si può completare con gli obbiettivi
sugli aspetti che abbiamo definito strutturali. Essi consistono in misure
che aiutano a rimuovere impedimenti all’attività produttiva o finanzia-
ria o a eliminare distorsioni che rendono l’allocazione interna delle ri-
sorse inefficiente. L’esercizio della condizionalità e’ agevolato dal fat-
to che i prestiti non vengono mai erogati in un ‘unica soluzione, bensì
in più esborsi (tranches), di norma a cadenza trimestrale. Ciò consente
di verificare di volta in volta i progressi compiuti nel mettere in atto il
programma di risanamento concordato. Se alcuni degli obbiettivi non
vengono realizzati, i tecnici e gli organi esecutivi del Fmi valutano
l’entità del problema e decidono se proseguire, sospendere o interrom-
pere del tutto il programma. A questo fine, elementi importanti di va-
lutazione sono la grandezza della discrepanza tra risultati e obbiettivi e
la causa della discrepanza se, cioè, essa sia da addurre alla condotta di
politica economica o a fattori “esogeni” , fuori dal controllo delle au-
torità nazionali. Gli strumenti di cui il Fmi dispone per concedere i
26
suoi prestiti (nel gergo, financing facilities o più semplicemente faci-
lities) sono stati continuamente adattati alle mutevoli esigenze dei pae-
si membri. Lo strumento canonico e più utilizzato e’ lo Stand-by Ar-
rangement (Sba) il cui nome sta a significare che il Fmi approva una
certa linea di credito a favore di un paese, alla quale quest’ultimo può
accedere nel periodo di durata del prestito, sempre che siano soddi-
sfatte le condizioni concordate col Fmi. Questo tipo di strumento e’
mirato a fornire assistenza nei casi di deficit temporanei o ciclici della
bilancia dei pagamenti che si ritiene abbiano breve durata; pertanto i
rimborsi devono avvenire entro cinque anni. L’altro strumento di fi-
nanziamento ordinario e’ la Extended Fund Facility (Eff) introdotta
nel 1974 (oggi meglio nota come Extended Arrangement). Si tratta di
un prestito più a lungo termine- i rimborsi in questo caso possono av-
venire entro dieci anni – mirato a sanare squilibri esterni la cui causa
sia essenzialmente da ricondurre a problemi strutturali. La somma
concessa ai singoli paesi con i prestiti ordinari non può superare – se
non in situazioni eccezionali e dopo una speciale approvazione – un
certo multiplo delle loro quote nel capitale : in base all’ultima riforma
tali limiti (ordinari) sono dati dal 200% della quota, nel caso di finan-
ziamento annuale, e del 600% cumulato per quelli che vanno oltre
l’anno. Tali prestiti comportano il pagamento di un tasso di interesse,
che e’ calcolato come media di alcuni tassi di mercato a breve termine
27
(alla fine di settembre 2010 era pari all ‘1,31%. Questo tasso e’ nor-
malmente inferiore a quello che il paese si troverebbe a pagare sul
mercato, ma occorre tener presente che per il debitore vi e’ un onere
addizionale, rappresentato dalla condizionalità associata ai prestiti del
Fmi. In risposta alle crisi finanziarie verificatesi nel corso degli ultimi
quindici anni, il Fmi inoltre si e’ dotato, in modo spesso estempora-
neo, di strumenti finanziari specifici, sia per intervenire in piena crisi
finanziaria, sia in funzione meramente preventiva. Spesso si dice ,
prendendo a prestito la terminologia tipica delle banche centrali, che
in questi casi il Fmi agisce come prestatore di ultima istanza. Ciò non
e’ del tutto corretto perche’ , attivando le sue linee di credito, il Fmi
non crea propria moneta come farebbe una banca centrale, ma utilizza
risorse già a sua disposizione. Molti degli strumenti di “emergenza”
concepiti nel corso del tempo hanno peraltro avuto vita breve, vuoi
perché si sono rivelati inefficaci, vuoi perche’ non sono stati per nulla
utilizzati. Una riforma radicale è stata quindi realizzata nel 2009 per
razionalizzare l’intera funzione finanziaria. Sono state cosi dismesse
le facilities considerate non più utili; di contro, si è reso più agevole il
ricorso al tradizionale Sba nelle situazioni eccezionali, quando cioè sia
richiesto un ammontare di risorse superiore ai limiti ordinari. La vera
novità della riforma e’ però rappresentata dalla Flexible Line (Fcl), un
nuovo sportello finanziario da utilizzare a fini soprattutto preventivi.
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La Fcl permette eborsi elevati e rapidi senza limiti di accesso, da rim-
borsare entro cinque anni. Essa può essere richiesta solo da paesi con
una posizione economica –finanziaria solida e politiche considerate ri-
gorose dal Fmi. Anche per questo motivo l’eborso dei fondi non e’ sot-
toposto a condizionalità e può avvenire in una unica soluzione. Nell’a-
gosto del 2010 alla Fcl e’ stata affiancata una Precautionary Credit
Line (Pcl) destinata ai paesi con politiche sane ma che presentano
qualche (modesta) vulnerabilità . La logica e’ sempre quella di evitare
che un effetto contagio possa danneggiare un’economia fondamental-
mente sana . Il processo di riforma degli strumenti di intervento non
può dirsi concluso. Il Fmi sta infatti esaminando le modalità per isti-
tuire una rete di protezione più generale (Global Stabilization Mecha-
nism) da poter attivare in caso di crisi sistematica globale. Il Fmi di-
spone anche di strumenti a favore dei paesi a basso reddito, tipicamen-
te co-gestiti con la Banca mondiale. Si tratta di prestiti a carattere age-
volato (concessional lending) cui viene cioè applicato un tasso di in-
teresse ridotto (0,5%), creati per sostenere nel medio termine i pro-
grammi di riforma e di riduzione della povertà nei Pvs. Anche in que-
sto caso le modalità di finanziamento sono cambiate nel corso del
tempo per essere adattate alle diverse esigenze dei paesi beneficiari.
Dal gennaio 2010 tali sportelli sono stati ridotti a tre tipologie , tutte
ricondotte sotto un unico “cappello”, il Poverty Reduction and Growth
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Trust (Prgt). Esistono, infine, altri strumenti di rilievo minore. In pas-
sato il Fmi ha anche creato degli strumenti di prestito ad hoc per far
fronte a eventi, non consueti, come la oil facility negli anni’ 70 e, nel
settembre 1999, una finestra di emergenza (Y2K facility) per fronteg-
giare eventuali fallimenti nei sistemi informatici nell’attuare il passag-
gio al nuovo millennio. Quest’ultima cui non si e’ fortunatamente fatto
ricorso, è spirata nel marzo del 2000. Un principio importante è che
per i prestiti del Fmi non sono mai intesi a soddisfare pienamente i
fabbisogni finanziari dei paesi membri, cosa che non sarebbe peraltro
possibile in base alla dotazione di capitale del Fmi, che è limitata. Ne-
gli anni ’90 ad esempio il Fmi ha coperto in media, annualmente, tra il
9 e il 15 % di tale fabbisogno, tranne naturalmente nei casi dei paesi in
gravi difficoltà. Il ruolo della funzione finanziaria del Fmi e’ piuttosto
quello di fungere da catalizzatore delle altre fonti di finanziamento,
pubbliche e private. Ciò e’ possibile in quanto, concordando con i pae-
si mutuatari dei programmi di risanamento economico, il Fmi fornisce
loro uno speciale “attestato di credibilità” che li rende più attraenti per
gli altri potenziali creditori. Ne e’ una prova il fatto che sempre più i
prestiti del Fmi vengono richiesti per scopi meramente precauzionali,
cioè senza una intenzione da parte dei paesi di prelevare effettivamen-
te le somme messe a disposizione, ma solo al fine di ottenere una effi-
cace rete di protezione contro gli attacchi della speculazione. Il Fmi
30
può fornire liquidità anche emettendo dsp, la valuta creata nel 1969
con il I emendamento dello Statuto. A differenza dei prestiti che sono
mirati alle esigenze dei singoli paesi, i dsp servono ad integrare le ri-
serve internazionali globali (art.XVIII). Infatti poiché i dsp non ne-
cessitano di alcuna copertura, tramite essi il Fmi crea una nuova mo-
neta e quindi accresce la liquidità mondiale. Dopo le ultime assegna-
zioni di dsp (chiamate in gergo allocazioni) approvate nel 2009, l’am-
montare di dsp in circolazione e’ salito a 204 miliardi (circa 321 mi-
liardi di dollari). I dsp sono attribuiti ai paesi membri in proporzione
alle loro quote e, a differenza dei prestiti del Fmi, rappresentano una
forma di liquidità “incondizionata”. Essi possono essere usati anche
nelle transazioni tra paesi, ma non in quelle private, e in ogni caso
solo per far fronte a problemi di bilancia dei pagamenti. Qualsiasi pae-
se del sistema che registri un deficit può cedere dsp a un altro paese
membro, che e’ tenuto ad accettarli in cambio di un ammontare equi-
valente della sua valuta. L’esclusione dalle transazioni private e’ pro-
babilmente una delle ragioni per cui i dsp hanno sempre avuto un ruo-
lo molto marginale nel sistema monetario e finanziario internazionale.
Dopo l’ultima allocazione essi sono saliti al 3,7% delle riserve in valu-
ta dei paesi membri, una percentuale che è ancora molto lontana da
quella del dollaro(64%), che resta la valuta di riserva dominante. Il va-
lore di una unità di dsp fu originariamente fissato pari a un dollaro, ma
31
dal 1974 e’ stabilito in base a un paniere di valute internazionali e,
pertanto, oscilla come quella di una normale valuta. La composizione
del paniere e’ cambiata varie volte. Dal 1 gennaio 1999 esso e’ compo-
sto dal dollaro, dallo yen, dall’euro e dalla sterlina inglese. Sia chiaro
che il valore del dsp non e’ determinato dall’incontro tra domanda e
offerta, come per una qualsiasi valuta che sia lasciata libera di flut-
tuare nel mercato, ma e’ determinato giornalmente dal Fmi in base alle
quotazioni delle valute nel paniere. Nel corso dell’ultimo decennio
tale valore ha oscillato tra 1,3 e 1,6 dollari per dsp. Altra funzione
di estrema importanza e’ quella di assistenza tecnica e formazione
(tecnicamente capacity building), che il Fmi fornisce soprattutto ai
paesi economicamente più arretrati nelle aree di sua competenza(so-
prattutto fiscale, monetaria, bilancia dei pagamenti, statistica). Tale
forma di assistenza, che è prevalentemente gratuita, viene realizzata
sia con missioni di esperti in loco, sia tramite corsi di formazione e
orientamento che si tengono nelle sedi del Fmi. In generale l’oggetto
dell’assistenza tecnica muta in relazione ai bisogni dei paesi e alle
strategie del Fmi. Negli anni ’90 essa e’ stata in gran parte destinata
alle esigenze delle economie ex pianificate sorte dopo la disgregazio-
ne del blocco sovietico, dove mancavano del tutto gli apparati istitu-
zionali e le norme necessarie al normale funzionamento di una econo-
mia di mercato. A partire dagli anni ’90 un’area di crescente importan-
32
za e’ stata anche quella degli standard internazionali che sono stati fis-
sati in numerose aree, cui si chiede ai paesi membri di adeguarsi. Le
esigenze specifiche dei singoli paesi vengono determinate di volta in
volta nel corso delle consultazioni ex art. IV o in occasione dei pro-
grammi di finanziamento. Tanto per dare un’idea dell’importanza rela-
tiva di tale attività, si consideri che attualmente essa impegna risorse
pari a quasi il 25% dei costi totali di bilancio, una quota importante e
comunque in aumento (era il 17% nel bilancio del 2000). Tale percen-
tuale, per quanto significativamente più bassa delle altre due, resta
elevata in valore assoluto, a dimostrazione del peso non irrilevante che
l’attività di assistenza tecnica ha assunto nella vita dell’istituzione.
Quasi come by-product delle sue attività tradizionali, il Fmi svolge da
sempre un ruolo molto importante anche nel campo delle statistiche
internazionali, tanto che si potrebbe parlare di una funzione statistica
del Fmi. I paesi membri sono infatti obbligati a comunicare una serie
di dati ,reali e finanziari, sulla loro situazione economica e, pertanto, il
Fmi si trova a disporre di una enorme quantità di informazione. Il suo
contributo in questo campo si sostanzia sia nel mettere a disposizione
queste statistiche all’intera comunità attraverso una serie di pubblica-
zioni- la più nota e completa delle quali e International Financial Stati-
stics - , sia nel favorire una maggiore armonizzazione dei metodi di ri-
levazione, soprattuto nei conti con l’estero.
33
1.4 Le risorse
Le risorse principali del Fmi, cui possono attingere, con l’assenso de-
gli altri, i paesi membri che ne hanno bisogno, sono costituite da quote
partecipative (è questa una delle eredità del piano di White). In questo
aspetto il Fmi si differenzia dalla Banca mondiale che, pur avendo an-
ch’essa un sistema di quote di partecipazione al capitale sociale, si ri-
fornisce soprattutto sui mercati emettendo obbligazioni. Le quote rap-
presentano contributi dei singoli paesi e sono proporzionate all’impor-
tanza economica di ciascun membro. Esse sono versate per un quarto
in riserve internazionali – parte che, in caso di necessità, può essere
temporaneamente ritirata senza condizioni – e per il rimanente nella
valuta del paese. La loro somma costituisce il capitale complessivo del
Fmi, cui si attinge per le operazioni di prestito. Il Fmi funziona, quin-
di, come una banca cooperativa, laddove i depositi versati dalla comu-
nità vengono messi a disposizione di singoli membri in caso di biso-
gno. Di fatto, solo una parte del capitale e’ disponibile, normalmente
tra il 60 e l’80%, poiché non tutte le valute sono utilizzabili nelle tran-
sazioni internazionali. Le quote servono anche ad altri scopi. Innanzi-
tutto, esse sono prese a riferimento per determinare quanto i paesi pos-
34
sono prendere a prestito. Inoltre, costituiscono la base per determinare
il potere di voto dei singoli membri. Nel Fmi, infatti, non si vota,
come in alcune organizzazioni internazionali, in base al numero di “te-
ste”, ma in base al contributo di capitale versato. Ogni paese dispone
di 250 voti base, più un voto per ogni parte della sua quota equivalente
a 100.000 dsp. Quanto è più alta la quota del paese nel capitale del-
l’organizzazione, tanto più elevato sarà il potere di voto. I voti base
servono a garantire che ad ogni membro, per quanto piccolo, sia data
la possibilità di votare. Dopo l’ultima riforma, che in corso di ratifica,
i voti base saliranno a 750: una modifica che e’ stata approvata proprio
con l’intento di dare maggiore rappresentatività ai paesi più piccoli. Di
norma le quote vengono riviste a intervalli di cinque anni. Nel corso di
queste revisioni si stabilisce, innanzitutto, se il capitale complessivo e’
adeguato o meno ai fabbisogni di liquidità dei paesi membri e al ruolo
che il Fmi è chiamato a svolgere. A Bretton Woods il valore comples-
sivo delle quote fu fissato a 8,8 miliardi di dollari, di poco superiore a
quello contemplato nella proposta congiunta anglo-statunitense (8,5
miliardi). Tuttavia nel 1947 , quando il Fmi iniziò ad operare , le quote
ammontavano solo a 7,7 miliardi di dollari , poiché non tutti i paesi
che avevano partecipato alla conferenza avevano sottoscritto gli accor-
di. Dopo l’ultimo aumento, deciso ad aprile del 2008, il capitale del
Fmi ha raggiunto i 360 miliardi di dollari (circa 240 miliardi di dsp).
35
Va detto che in termini reali, cioè in rapporto al prodotto o al commer-
cio mondiali , la dimensione del Fmi non sia accresciuta rispetto alle
origini, anzi si e’ notevolmente ridotta. Infatti, nel 1950 il capitale era
circa il 6,5% del commercio mondiale, mentre oggi e’ solo l’1,5%. Le
revisioni delle quote servono anche a valutare se esse sono in linea
con il peso e il ruolo dei singoli paesi nell’economia mondiale. A tal
fine vengono presi a riferimento vari indicatori, sia reali sia finanziari
(ad es. il reddito nazionale, gli scambi commerciali con l’estero, le ri-
serve in valuta). Nel 1947 gli Stati Uniti e il Regno Unito, i due paesi
che avevano guidato i negoziati di Bretton Woods, detenevano quote
di capitale pari al 35,6% e al 16,8% rispettivamente. Il peso del Regno
Unito era di fatto ben maggiore di quanto possa sembrare, se si tiene
conto delle sue colonie e domini, come l’India. Gli altri due maggiori
azionisti erano a notevole distanza , la Cina (7,12%) e la Francia
(6,8%). Oggi la quota degli Stati Uniti è appena la metà di quella del
1947, ma ancora sufficiente a dare a questo paese, un potere di veto
su alcune decisioni. Il peso del Regno Unito si e’ invece molto ridi-
mensionato ed e’ oggi pari ad appena il 4,5% del capitale, uguale a
quello della Francia. I mutamenti nella struttura delle quote riflettono
soprattutto l’ascesa della Germania e del Giappone al rango di princi-
pali potenze economiche. Entrati nel Fmi nel 1952 , questi due paesi
hanno ora quote intorno al 6%, che però restano significativamente
36
più piccole di quella degli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Italia, la
quota assegnatale nel 1947 fu di 180 milioni di dollari, il 2,3% del ca-
pitale di allora. Ciò deluse le aspettative delle nostre autorità, che con-
tavano su una assegnazione di almeno 250 milioni, più in linea con il
peso della nostra economia. La quota dell’Italia e’ molto cresciuta ne-
gli anni successivi, e oggi e’ pari al 3,3% del capitale, ma e’ sensibil-
mente inferiore a quelle detenute da altri paesi avanzati non dissimili
in termini di reddito nazionale (ad es. il Regno Unito). Mutamenti si-
gnificativi delle quote relative sono avvenuti anche per i paesi non
avanzati. Ad esempio, la Cina e l’India avevano originariamente quo-
te percentuali decisamente più elevate rispetto a quelle di oggi. Vice-
versa, hanno acquisito un rilievo l’Arabia Saudita e la Russia. Oltre
che del capitale ordinario, il Fmi può avvalersi di alcune linee di cre-
dito supplementari che può attivare in situazioni che minaccino la sta-
bilità e il funzionamento del sistema monetario e finanziario interna-
zionale. Queste risorse sono disponibili grazie a due accordi di
credito , detti rispettivamente Gab (General Arrangements to Borrow)
e Nab (New Arrangements to Borrow). Il Gab e’ un accordo tra il Fmi
e i paesi del Gruppo dei 10 o G-10 (i paesi del G-7 più il Belgio , i
Paesi Bassi e la Svezia) più la Svizzera. Esso impegna questi 11 paesi
a prestare al Fmi, quando questi abbiano problemi di liquidità, am-
montari prefissati dalle loro valute. La liquidità complessiva disponi-
37
bile con il Gab e’ pari a 17 miliardi di dsp(circa 27 miliardi di dollari),
di cui si aggiungono 1,5 miliardi grazie a un accordo parallelo con
l’Arabia Saudita. Il Nab e’ un accordo simile al Gab, cui però parteci-
pano molti più paesi oltre a quelli del Gab(in totale circa 40). Dopo
l’aumento deciso nell’aprile del 2009, esso dà potenzialmente accesso
a una linea di credito 588,6 miliardi di dollari, che e’però anche il
massimo ottenibile qualora si attivino entambi i meccanismi. La facol-
tà del Fmi di prendere a prestito e’ in teoria molto ampia. Sempre che
vi sia il consenso del paese membro emittente la valuta desiderata, il
Fmi può prendere a prestito anche da un paese non membro, cosi’
come non gli e’ precluso il diretto ricorso al mercato privato dei capi-
tali. Quest’ultima possibilità non e’ mai stata sin ora attuata, sebbene
se ne parli di tanto in tanto nei discorsi sulla riforma del Fmi. Invece,
esso ha in varie occasione preso in a prestito direttamente da singoli
paesi membri. Ad esempio tra il 1974 e il 1975, per aiutare i paesi col-
piti dallo shock ai prezzi del petrolio furono conclusi alcuni accordi di
prestito bilaterali, molti dei quali con paesi esportatori di petrolio che
disponevano di abbondanti riserve di dollari.
38
1.5 Gli organi decisionali
La struttura decisionale del Fmi non differisce molto da quella di una
normale società di affari. Gli “azionisti”, cioè i 187 paesi membri,
sono tutti rappresentati-tramite loro ministri o Governatori delle ban-
che centrali- in un Consiglio dei Governatori (Board of Governors).
Quest’organo, in cui sono riservate le decisioni su questioni di partico-
lare rilevanza (ad es. gli aumenti delle quote o l’ammissione di nuovi
membri), si riunisce solo una volta all’anno e le sue decisioni-di nor-
ma prese a maggioranza- vengono adottate anche al di fuori dei rego-
lari incontri annuali, raccogliendo i voti dalle capitali per posta o tele-
fax. Di fatto, gli indirizzi strategici dell’azionariato vengono formulati
da un organo consuntivo ristretto, il Comitato monetario e finanziario
internazionale (già Comitato interinale), cui partecipano i Governatori
di soli 24 paesi. A questi si aggregano tutti gli altri, a formare quelle
che vengono chiamate costituencies. L’Italia, ad esempio, che e’ da
sempre rappresentata nel Comitato, ne presiede una che comprende, al
momento, Grecia, Portogallo, Malta, Albania, San Marino e Timor
Est. L’amministrazione vera e propria del Fmi e’ invece affidata a un
Consiglio di amministrazione (Executive Board), composta da 24 Di-
rettori esecutivi, i quali sono al tempo stesso dipendenti dell’organiz-
39
zazione e rappresentati dai paesi membri. Il Consiglio, che e’ presie-
duto dal Direttore generale (Managing Director), esercita in prima
persona la funzione di sorveglianza, approva gli accordi di prestito e
discute preliminarmente qualsiasi proposta che richieda una decisione
dei Governatori. Per questo può essere considerato l’organo più im-
portante del Fmi. In generale le decisioni del Fmi non sono mai prese
isolatamente, senza cioe’ dar conto ai paesi membri. Anche quando
sono il risultato dell’iniziativa dello staff o del Direttore generale, esse
sono sempre in ultima istanza approvate dai paesi membri tramite il
Consiglio di amministrazione o direttamente dal Consiglio dei Gover-
natori. Il ruolo del Consiglio di amministrazione fu tra i temi più am-
piamenti dibattuti a Bretton Woods. Il punto spinoso era quello ri-
guardante il livello di impegno che i Direttori esecutivi avrebbero do-
vuto dedicare all’incarico. Infatti, dovendo questi essere funzionari di
rango molto elevato, era plausibile che essi continuassero a prestare
servizio nei propri paesi e si recassero a Washington solo occasional-
mente. Prevalse invece la soluzione opposta sostenuta soprattutto da-
gli Stati Uniti, in base alla quale i Direttori esecutivi si sarebbero dedi-
cati a tempo pieno all’amministrazione del Fmi. E così, in base allo
Statuto, il Consiglio funziona “in sessione continua”, una formula
complicata per dire appunto che i suoi componenti hanno base fissa a
Washington e possono riunirsi in qualsiasi momento. Non è un caso
40
che Keynes-il quale si era battuto perché la sede del FMI fosse stabili-
ta in Europa o, semmai, a New York- fosse contrario a tale soluzione,
temendo che la presenza costante dei Direttori a Washington li avreb-
be più facilmente sottoposti al controllo politico del governo degli Sta-
ti Uniti (cosa che non sembra si sia verificata, eccetto ovviamente per
il Direttore esecutivo statunitense). Originariamente il Consiglio di
amministrazione era composto da 12 membri,o poltrone. Esse diven-
nero 13 con l’ingresso nel FMI, nel 1947, dell’Italia, che nominò suo
rappresentante Guido Carli, all’epoca del Consiglio di amministrazio-
ne dell’Ufficio italiano cambi (Governatore per l’Italia era invece Lui-
gi Einaudi, all’epoca vice primo ministro e ministro del Bilancio nel
governo di Alcide de Gasperi). Col passare del tempo il numero delle
poltrone si è accresciuto riflettendo, ancorché meno che promozional-
mente, l’aumento del numero dei paesi membri dell’organizzazione,
sino a raddoppiare nel 1992. Ogni Direttore esecutivo dispone di un
numero di voti in proporzione alla quota del paese, o alla somma delle
quote dei paesi, che esso rappresenta. Così, ad esempio, il potere di
voto dell’Italia, che esso rappresenta. Così, ad esempio, il potere di
voto dell’Italia, che come già detto presiede una costituency compren-
dente altri 6 paesi, sale dal 3,31% (la percentuale di voti che essa pos-
siede presa isolatamente) a quasi il 4,2. Il quorum necessario all’ap-
provazione di una decisione è variabile, in alcuni casi essendo prevista
41
la maggioranza semplice, in altri casi essendo prevista la maggioranza
semplice, in altri quella qualificata, del 70 o dell’85% dei voti totali.
In quest’ultimo caso gli Stati Uniti possono esercitare di fatto un pote-
re di veto, essendo la loro quota superiore al 15%. D’altro canto, lo
stesso possono fare, almeno in linea di principio, gruppi di paesi, ad
esempio quelli europei o quelli emergenti e in via di sviluppo, qualora
si mettano d’accordo per votare omogeneamente. Per tradizione, nel
Consiglio di amministrazione non si ricorre quasi mai al voto formale,
ma si decide per “consenso” cioè determinando l’indirizzo prevalente
di ogni discussione. Con questa pratica si vuole sottolineare il caratte-
re cooperativo e unitario dell’istituzione. Ciò non vuol dire, natural-
mente, che non si tenga conto dell’effettivo potere di voto dei singoli
rappresentanti. L’articolazione degli interessi all’interno del Consiglio
di amministrazione- e del Comitato monetario e finanziario internazio -
nale, che è composto allo stesso modo- è complessa. Una distinzione
sempre presente è quella tra i paesi più avanzati e gli altri. Nell’attuale
Consiglio questi ultimi sono 11 (se si include la Russia), con un totale
di voti pari al 30% e, quindi, in grado di influenzare significativamen-
te le decisioni finali. Questa distinzione può essere ancora utile per al-
cune questioni. Ad esempio, le economie emergenti e i Pvs tendono a
supportare maggiormente gli aumenti di capitale, le nuove allocazioni
di dsp e le istanze di finanziamento, essendo essi i principali benefi-
42
ciari di tali decisioni. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, gli interes-
si all’interno del Consiglio di amministrazione non si articolano quasi
mai in base a due soli blocchi. Innanzitutto è raro che i paesi avanzati
si muovano in modo compatto. Un primo motivo di ciò è legato all’ar-
ticolazione del Consiglio in constituencies. Molti Direttori esecutivi
espressione di paesi avanzati si trovano infatti a rappresentare anche
Pvs o economie emergenti (e in alcuni casi è anche previsto che la rap-
presentanza sia a rotazione). In secondo luogo esistono vari schiera-
menti anche tra gli stessi paesi avanzati. I paesi del G7 (cioè i paesi
dell’attuale G8 senza la Russia), che nel Consiglio assommano voti
pari a circa il 43% del totale, tendono spesso a coordinarsi tra loro per
indirizzare le decisioni del Consiglio, e non sempre le loro posizioni
sono condivise dai paesi industriali piccoli (Belgio, Paesi Bassi, Au-
stralia,Svezia). Esiste, naturalmente anche un coordinamento tra i 7
Direttori dei paesi dell’Unione europea (Ue), il cui peso in termini di
voti è pari al 32% circa del totale, ben superiore a quello degli stati
uniti (16,7%). Le posizioni dei paesi industriali sono ovviamente an-
che influenzate dai loro interessi geopolitici. Il Direttore generale, ol-
tre a presiedere il Consiglio di amministrazione e la struttura organiz-
zativa è colui che rappresenta legalmente il FMI e può parlare a suo
nome. Il suo mandato è di 5 annialla fine dei quali può essere rieletto.
La sua influenza sulle strategie del FMI è determinante e la storia mo-
43
stra, come il FMI si sia evoluto anche in funzione delle personali vi-
sioni degli uomini che hanno occupato questa poltrona.
1.6 Il nuovo contesto in cui il Fondo Moneta-
rio Internazionale si trova ad operare
Come già ampiamente detto, il FMI è una organizzazione a carattere
praticamente universale: dagli iniziali 29 i paesi membri sono divenuti
187. Gli ultimi ad entrare sono stati il Kosovo, nel Maggio 2009 e Tu-
valu, un piccolo atollo del Pacifico, nel giugno 2010. Restano fuori al-
cuni micro-stati e qualche paese a regime dittatoriale come la Korea
del Nord e Cuba. A quasi 70 anni di distanza dal miracolo di Bretton
Woods, l’economia mondiale ha subito notevoli trasformazioni e crisi
a ripetizione: la caduta del sistema di cambi fissi e gli shock petroliferi
degli anni ’70; la crisi debitoria negli anni ’80; la caduta del muro di
Berlino e il conseguente ingresso sulla scena mondiale delle economie
ex-sovietiche; le crisi finanziarie che hanno interessato diversi mercati
emergenti nel corso degli anni ’90; la creazione della valuta comune
europea, l’Euro; infine la più grave crisi economico finanziaria dal do-
poguerra, ancora in corso. Il contesto di riferimento in cui il Fondo
Monetario Internazionale è profondamente mutato. Oggi parliamo ad
44
esempio, correntemente di economia globale, per sottolineare il fatto
che i mercati nazionali delle merci, dei servizi e dei capitali si sono
fortemente integrati. Oppure ci riferiamo al sistema monetario e finan-
ziario internazionale poiché la distinzione tra i mercati delle valute e
quelli del credito è spesso più concettuale che reale. In questo lungo
arco di tempo lo statuto del’FMI ha subito 4 emendamenti ma il suo
impianto è però rimasto inalterato così come inalterati sono rimasti gli
obiettivi originari dell’istituzione. Ciò a dimostrazione del fatto che la
natura del’FMI nel corso della sua storia non è stata fondamentalmen-
te modificata, sebbene esso abbia continuamente affinato gli strumenti
a propria disposizione per i suoi fini istituzionali.
45
CAPITOLO II
PROCESSO DI UNIFICA-
ZIONE EUROPEA
''L'eurozona deve cambiare le sue politiche d'austerity. Perchè l'euro
funzioni occorrono una vera unione bancaria con regole comuni,
un'assicurazione unica per i depositi dei risparmiatori, una vigilanza
europea; poi ci vuole la vera unione fiscale, l'emissione di euro-bond.
Il sistema attuale è instabile, incompiuto. Ci vuole più Europa oppure
meno euro, non si può restare a metà del guado.''
Joseph Stiglitz
46
2.1 Il Trattato di Maastricht, anche
detto Trattato sull'Unione Europea.
Con il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in
vigore il 1 novembre 1993, detto anche Trattato sull'Unione europea
(TUE), il quadro comunitario subisce un'ulteriore ed importante modi-
fica. Con tale Trattato si viene a formare una Unione monetaria e una
Unione Europea avente finalità politiche generali. L'Unione europea
elaborata dal Trattato di Maastricht non creava una organizzazione in-
ternazionale che andasse ad affiancarsi a quelle già esistenti ma sem-
plicemente all'art 1 affermava8:
''Con il presente trattato, le Alte Parti contraenti istituiscono tra loro
un'Unione Europea, in appresso dneominata 'Unione'. Il presente trat-
tato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un'unione
sempre più stretta tra i popoli dell'Europa, in cui le decisioni siano
prese nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile ai
cittadini. L'Unione è fondata sulle Comunità europee, integrate dalle
politiche e forme di cooperazione instaurate dal presente trattato.
Essa ha il compito di organizzare in modo coerente e solidale le rela-
zioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli.''
8TRATTATO DI MAASTRICHT Trattato sull'Unione Europea, Gazzetta ufficiale n. C 191 del 29 luglio 1992 47
Con la realizzazione della nuova struttura gli Stati avrebbero continua-
to a seguire il cosiddetto ''sistema comunitario'' (cedere parte della so-
vranità statale alle istituzioni comunitarie) nelle materie afferenti il
primo pilastro, quello riguardante le tre comunità, viceversa, nel se-
condo e nel terzo pilastro, rispettivamente ''Politica estera e sicurezza
comune'' e, oggi, ''Cooperazione di polizia giudiziaria in materia pena-
le'', gli Stati, restii in tale materia a rinunciare alla loro sovranità
svrebbero comunque potuto perseguire obiettivi comuni attraverso il
cosiddetto ''metodo intergovernativo'', ossia tramite una cooperazione
internazionale tra Stati esterna alla Comunità, ma ad essa strettamente
collegata. Le istituzioni delle comunità hanno competenze e funzioni e
agiscono nell'ambito delle azioni comuni a tutti gli Stati, i quali si im-
pegnano a rispettare la volontà delle stesse e ad intervenire solo nelle
forme e con le modalità espressamente stabilite dai Trattati. La colla-
borazione di carattere intergovernativo propria dei due ulteriori pilastri
creati con il TUE privilegia, invece, la sovranità statale rispetto alle
istituzioni comunitarie, seppure le stesse siano in varia misura coin-
volte nella realizzazione delle politiche dell'Unione. 9Il Trattato sull'U-
nione europea, da un punto di vista strutturale, si presenta come un te-
sto alquanto complesso, corredato da 18 Protocolli e 33 Dichiarazio-
9 I testi dei trattati, degli atti legislativi, della giurisprudenza e delle proposte legislative possono essere consultati su .EUR-Lex, la banca dati del diritto dell'Unione europea
48
ni. In esso sono contenute alcune ''disposizioni comuni'' ai tre pilastri
(Titolo I) ove vengono indicati, nell'art 2 TUE, gli obiettivi che l'Unio-
ne si prefigge. Il Titolo II è dedicato alle modifiche apportate al Tratta-
to CEE che, come già evidenziato, perde la propria connotazione stret-
tamente economica e muta la denominazione in Comunità europea
(CE). Tra gli aspetti maggiormente innovativi introdotti in tale ambito
dal Trattato in parola meritano una particolare attenzione l'instaurazio-
ne di un'Unione economica e monetaria che, ha dato luogo all'entrata
in vigore, nel gennaio 2002, della moneta unica europea, l'Euro. L'isti-
tuzione di una ''cittadinanza europea'', la formulazione del cosiddetto
''principio di sussidiarietà'' e l'ampliamento del ruolo e delle funzioni
attribuite al Parlamento europeo. I Titoli III e IV riguardano le modifi-
che introdotte ai Trattati CECA ed Euratom. Nel Titolo V e VI ci sono
le disposizioni dedicate ai due nuovi pilastri ''Politica estera e sicurez-
za comune'' e '' Giustizia ed Affari interni'' poi, con il Trattato di Am-
sterdam, ''Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale'' in
seguito alla ''comunitarizzazione'' delle dispozioni dedicate ad alcuni
aspetti inerenti la libera circolazione delle persone. Il Titolo VII con-
tiene disposizioni dedicate alla ''cooperazione rafforzata''. Infine, il Ti-
tolo VIII è dedicato alle ''disposizioni finali''.
49
2.2 Le teorie dell’integrazione
Il processo di unificazione europea è oggetto di studio da parte di nu-
merose discipline e di diversi approcci teorici ormai da numerosi de-
cenni. Specialmente dopo l’Atto Unico del 1986 tutte le scienze socia-
li hanno dovuto confrontarsi in maniera approfondita con tale proces-
so in virtú dello sviluppo istituzionale, politico, giuridico, economico
e sociale, e dell’influenza sulla vita reale dei cittadini, che erano stati
raggiunti. Diverse teorie e diverse discipline si sono quindi concentra-
te su numerosi aspetti del processo a differenti livelli di analisi, dando
vita ad un corpus teorico di grande rilievo, ma spesso atto a spiegare
solo alcuni aspetti del funzionamento dell’Unione europea piuttosto
che del processo di integrazione nel suo insieme.
Le macro-teorie dell’integrazione continuano a poter essere raggrup-
pate sostanzialmente in tre famiglie fondamentali: quella realista o in
generale intergovernativa, quella neo-funzionalista, e quella federali-
sta. Esse si dividono sull’individuazione degli attori fondamentali del
processo, sul tipo di motivazione (economica, politica, ideologica)
delle loro scelte, sul rapporto tra integrazione economica settoriale e
creazione di istituzioni e meccanismi decisionali europei sovranazio-
nali, sulla dinamica del processo e i meccanismi decisionali che la de-
50
terminano, e sul possibile/auspicabile obiettivo finale dell’integrazio-
ne. Tutte hanno vissuto fasi di ripensamento o di diffusione a seconda
della corrispondenza con una certa fase del processo. In diversa misu-
ra tutte hanno mostrato difficoltà nello spiegare – oltre che nel preve-
dere – i “tempi” dell’integrazione.
Ci sono due schemi concettuali principali che sfruttano i punti di forza
delle principali teorie dell’integrazione, pur essendo stati elaborati nel-
l’ambito della tradizione federalista. Alla base di tali schemi concet-
tuali c'è un punto di partenza dato dal NTUE (Nuovo Trattato sull'
Unione Europea, cioè il TUE modificato in seguito al Trattato di Li-
sbona), poiché gli obiettivi contemplati nel trattato vengono perseguiti
dall'UE con i mezzi appropriati in ragione delle competenze che le
sono attribuite nei trattati. Il NTUE afferma quindi, e ribadisce all'art
5, il principio di attribuzione delle competenze, in virtù del quale l'a-
zione dell'Unione deve sempre trovare il proprio fondamento in una
specifica attribuzione di competenza che, se non attribuita all'UE nel-
l'ambito dei Trattati, come specificato nell'art 4 NTUE, appartiene agli
Stati membri. Come affermato, in dottrina le indicazioni inerenti l'at-
tribuzione delle competenze si presentano come ripetitive e ridondan-
ti, ''sintomo della volontà degli Stati membri che vi sia assoluta chia-
rezza su questo punto''.
51
Dunque il primo riguarda la distinzione tra costruzione, integrazione e
unificazione, che permette di concettualizzare in maniera dinamica il
rapporto fra trasferimento di competenze a livello europeo e la crea-
zione di meccanismi istituzionali sovranazionali. Il secondo schema
“Crisi-Iniziativa-Leadership” aiuta a ripensare la definizione degli at-
tori e delle loro logiche, e a spiegare i tempi dei successi e dei falli-
menti del processo di unificazione europea.
La natura delle Comunità e poi dell’Unione europea (Ue), gli attori ed
i meccanismi decisionali fondamentali del processo di integrazione, ed
i probabili sbocchi del processo stesso costituiscono le questioni fon-
damentali affrontate dalle teorie dell’integrazione europea.
La scuola di pensiero intergovernativa - o confederale o internaziona-
lista - considera i governi come gli attori fondamentali che controllano
il processo di integrazione, e quindi la Comunità e poi l’Unione euro-
pea come un’organizzazione internazionale, che può divenire sempre
più sofisticata, ma senza mettere in gioco l’essenza della sovranità de-
gli Stati membri.
Il filone neo-funzionalista considera l’integrazione europea come un
processo dinamico di superamento della sovranità assoluta degli Stati
che dovrebbe portare infine all’unione politica senza soluzione di con-
tinuità sotto la guida delle elitès tecnocratiche formatesi nell’ambito
delle istituzioni sovranazionali.
52
La tradizione federalista considera il processo di integrazione come la
risposta incompleta alla crisi dello Stato nazionale, che richiederebbe
invece la fondazione di uno Stato federale europeo, possibile solo me-
diante un processo costituente – che coinvolga democraticamente i cit-
tadini europei - volto a elaborare una costituzione europea che fondi la
federazione.
Inizialmente, all’origine del processo di integrazione, tutte queste teo-
rie avevano prevalentemente una connotazione normativa. Solo dopo
il suo avvio, il processo ha potuto essere oggetto di un’indagine empi-
rica, portando a profonde revisioni teoriche di ogni tradizione e a svi-
luppi analitici piú fruttuosi.
2.3 Il secondo dopoguerra e l’avvio
del processo di integrazione europea
Il tema dell’unità europea era centrale nel secondo dopo-guerra e le
diverse teorie rivaleggiavano rispetto al metodo possibile e opportuno
per raggiungerla. Gli eventi del periodo tra il 1945 e il 1954 hanno
messo in luce elementi di congruenza con la realtà da parte di ciascuna
di esse.
53
La tradizione confederale o intergovernativa considera gli Stati come
il principale attore internazionale, e per questo vi si annoverano nume-
rosi studiosi realisti. Notando che il processo di integrazione europea è
stato avviato ed è proseguito in virtù di decisioni, quasi sempre unani-
mi, dei suoi Stati membri, i confederalisti considerano l’integrazione
europea come una forma di cooperazione internazionale particolar-
mente sofisticata, e ritengono pertanto che gli Stati membri non cede-
ranno la loro sovranità ad organi sopranazionali e potranno al più co-
stituire una confederazione. Questa posizione è stata assunta politica-
mente da alcuni Stati a diverse riprese, ed è stata inizialmente confer-
mata in primo luogo dalla Gran Bretagna in occasione del Congresso
de L’Aia del 1948 che portò alla creazione del Consiglio d’Europa, se-
condo i canoni tradizionali delle organizzazioni internazionali. Questa
“falsa partenza” del processo di integrazione, segnata dalla nascita di
un’organizzazione oggi rilevante solo sul piano della tutela dei diritti
umani, ma sostanzialmente priva di qualunque potere in tutti gli altri
campi, sembrava dare conferma alle tesi intergovernativa circa l’im-
possibilità per gli Stati nazionali di cedere o mettere in comune volon-
tariamente quote della propria sovranità su questioni significative.
La Dichiarazione Schuman, fatta dal ministro degli esteri francese il 9
maggio 1950 e ispirata dall’azione risoluta di Jean Monnet, proponeva
alla Germania occidentale e agli altri Paesi europei disponibili, la mes-
54
sa in comune della sovranità sulle risorse carbo-siderurgiche, ovvero
sulla base dell’industria pesante e militare dell’epoca, in considerazio-
ne del fatto che Francia e Germania si erano scontrate ripetutamente
dando vita a sanguinose guerre proprio per il controllo dei bacini car-
bo-siderurgici posti nelle loro aree di confine. L’obiettivo dichiarato
era una cessione parziale di sovranità, intesa come un primo passo
verso la federazione europea, considerata come la meta ultima di un
processo di integrazione fondato sulla riappacificazione franco-tede-
sca. Il rifiuto della precondizione della disponibilità alla cessione di
sovranità comportò l’esclusione della Gran Bretagna dal novero dei
Paesi che dettero avvio al processo di integrazione europea. Questa
iniziativa portò alla creazione della Comunità Europea del Carbone e
dell’Acciaio (Ceca), che sembrò confermare le tesi neo-funzionaliste
sull’integrazione settoriale graduale fondata sulla cessione di quote di
sovranità ad autorità a carattere sovranazionale, in vista di un’integra-
zione politica successiva.
Lo scoppio della guerra di Corea portò però gli USA a chiedere il riar-
mo della Germania occidentale, nel timore che un analogo scontro po-
tesse avvenire in Germania, divisa in due come la Corea. L’idea di un
esercito tedesco suscitava però reazioni negative specialmente in Fran-
cia, e su ispirazione di Monnet, il primo ministro Pleven propose la
creazione di una Comunità Europea di Difesa (Ced) sul modello della
55
Ceca. Altiero Spinelli denunciò l’idea di un esercito europeo in assen-
za di un governo democratico europeo, come un pericolo per la demo-
crazia e come la creazione di un esercito mercenario al servizio degli
USA. Sulla spinta di una vasta azione popolare De Gasperi ed il go-
verno italiano fecero propria tale posizione e ottennero di legare alla
creazione della Ced anche una Comunità Politica Europea fondata su
un Trattato-Costituzione, che sarebbe stato elaborato dall’assemblea
parlamentare della Ced (art. 38 del Trattato Ced). 10Nella sua formula-
zione definitiva l’art. 38 recitava:
“ 1. L’Assemblea studia durante il periodo transitorio: a) la costitu-
zione di una Assemblea della Comunità Europea di Difesa, eletta su
base democratica; b) i poteri di cui dovrebbe essere investita tale As-
semblea; c) le modifiche che dovrebbero eventualmente venir appor-
tate alle disposizioni del presente Trattato relative alle altre istituzioni
della Comunità, in particolare allo scopo di salvaguardare una rap-
presentanza appropriata degli Stati. In questi studi l’Assemblea si
ispirerà ai principi seguenti: l’organizzazione di carattere definitivo
che si sostituirà alla presente organizzazione provvisoria dovrà essere
concepita in modo da poter costituire una struttura federale o confe-
derale stabile, fondata sul principio della separazione dei poteri e
10 Da Giorgio GrimaldiLa Comunità politica europea: la storia di un tentativo a cinquant’anni di distanza
56
comportante, in particolare, un sistema rappresentativo bicamerale.
L’Assemblea studierà ugualmente i problemi risultanti dalla coesi-
stenza di diverse organizzazioni per la cooperazione europea, già
create oppure che lo saranno, al fine di assicurarne il coordinamento
nel quadro della struttura federale o confederale.
2. Le proposte dell’Assemblea a questo riguardo saranno sottoposte
al Consiglio. Con il parere del Consiglio, queste proposte saranno
successivamente trasmesse dal presidente dell’Assemblea ai Governi
degli Stati membri”.
Nel vertice dei ministri degli Esteri dei Sei tenutosi a Parigi dal 27 al
30 dicembre 1951, De Gasperi riuscì anche a far determinare modalità
e tempi del mandato conferito all’Assemblea della CED: essa avrebbe
dovuto redigere entro sei mesi dall’inizio della propria attività un pro-
getto di costituzione federale o confederale, sul quale nell’arco dei tre
mesi successivi i governi nazionali avrebbero dovuto esprimersi. Que-
sti termini temporali furono inseriti nel secondo comma dell’art. 38.
L’art. 38 era un primo importante risultato che apriva la possibilità ef-
fettiva di fare evolvere l’integrazione europea verso una federazione
politica, nonostante i limiti e i difetti che, secondo la visione federali-
sta, erano ivi presenti. In particolare, Spinelli sottolineò tre chiari ele-
menti di debolezza:
57
1) la subordinazione dell’inizio del processo costituente alla ratifica
del trattato della CED;
2) la trasmissione degli studi effettuati ad una conferenza diplomatica
e non ad una approvazione
diretta da parte dei parlamenti nazionali;
3) la confusione dei termini stessi del mandato conferito all’Assem-
blea.
Inoltre l’Assemblea era incaricata di un compito “di studio”, consulti-
vo e non propriamente costituente, e lo sbocco finale sembrava incerto
e poteva preludere a risultati completamente divergenti: da un lato una
struttura federale, con il conferimento di poteri sovrani alla Comunità
politica europea, oppure dall’altro, un’alleanza di stati sovrani di natu-
ra puramente confederale con obiettivi comuni e delimitati. Tuttavia
dall’articolo 38 scaturirono le iniziative che tra il 1952 e il 1953 porta-
rono alla redazione del progetto di Statuto della Comunità Politica Eu-
ropea (CPE), mai entrato in
vigore a causa della mancata ratifica del Trattato della CED da parte
della Francia il 30 agosto 1954.
Nel periodo tra il 1945 e il 1954 tutte le teorie, inizialmente normati-
ve, videro quindi le proprie tesi confermate, almeno per un certo pe-
riodo, e poi sconfessate. La posizione intergovernativa inizialmente
vincitrice a L’Aia fu messa in crisi dalla nascita della Ceca e dal tenta-
58
tivo della Ced; la posizione neo-funzionalista fu spiazzata dall’accele-
razione costituente legata alla Ced; e la posizione federalista fu scon-
fitta dalla caduta della Ced quando l’unità politica sembrava a portata
di mano.
2.4 Il rilancio e l’integrazione econo-
mica
Il rilancio dell’integrazione proposto dalla Conferenza di Messina, che
portò poi alla creazione dell’Euratom proposta da Monnet, e della Co-
munità Economica Europea (Cee), sembrò confermare le tesi neo-fun-
zionaliste. Le nuove comunità divennero oggetto di studio sistematico
da parte di autori neo-funzionalisti a partire da Ernst Haas11, teorico
dello spill-over, ovvero dell’idea che fosse possibile per l’integrazione
allargare progressivamente i settori di propria competenza. Il successo
dell’avvio del mercato comune (Mec), le cui tappe intermedie furono
raggiunte anticipatamente rispetto al previsto, sotto la guida della
Commissione, contribuì a rafforzare la visione neo-funzionalista e l’i-
11 Cfr. E.B. Haas, The Uniting of Europe, Stanford (California), Stanford University Press, 1958 e la 2a edizione rivista del 1968; E.B. Haas (Ed.), Limits and Problems of European Integration,The Hague, Martinus Nijhoff, 1963. 59
dea dell’importanza di una tecnocrazia sovranazionale efficiente e ca-
pace di guidare il processo.
Anche la prospettiva intergovernativa trovava elementi di sostegno
nelle nuove comunità, che rispetto alla Ceca indebolivano i poteri del-
l’autorità sovranazionale, già ridotta anche nel nome da Alta Autorità
a Commissione esecutiva, e ribadito il ruolo dell’organo intergoverna-
tivo, il Consiglio dei Ministri. Ma soprattutto, il fatto che l’integrazio-
ne procedesse solo sul terreno economico e fosse fallita sul piano poli-
tico-militare, permetteva di proporre la distinzione tra “high politics” e
“low politics”. Sul terreno della sicurezza e della politica estera – high
politics – erano inconcepibili cessioni di sovranità da parte degli Stati
nazionali, e su questo terreno la teoria intergovernativa trovava piena
conferma. Sul piano economico erano possibili forme di cooperazione
molto avanzate e addirittura di integrazione secondo i canoni del neo-
funzionalismo, ma senza nutrire false speranze di poter giungere infi-
ne all’unificazione politica.
La tradizione federalista concordava con quella intergovernativa nel
denunciare l’illusione di un possibile processo graduale che senza at-
traversare un momento costituente potesse portare all’unità politica,
insieme alla iniziale, e fallace, previsione dell’insuccesso del mercato
comune a causa della debolezza delle istituzioni sovranazionali e del-
60
l’assenza di un vero governo europeo12. Il successo del Mec costrinse i
federalisti a rivedere la loro posizione mediante la distinzione tra inte-
grazione “negativa”, legata alla mera abolizione di vincoli, dazi, tarif-
fe, ecc. e l’integrazione “positiva” fondata sulla messa in opera di vere
politiche pubbliche europee nei vari settori economici13. Il quadro isti-
tuzionale della Cee si era rivelato sufficiente a gestire l’integrazione
economica, ma la critica federalista veniva confermata dall’incapacità
di realizzare l’integrazione “positiva” che sarebbe stata possibile solo
dopo la fine del periodo transitorio ed il conseguente passaggio dal
voto all’unanimità al voto a maggioranza qualificata che avrebbe raf-
forzato il carattere democratico e sovranazionale delle Comunità, ed il
potere esclusivo di proposta normativa della Commissione.
Tra i temi centrali di scontro tra i teorici delle diverse tradizioni in
questa fase vi era la definizione della natura delle nuove Comunità, se
forma di cooperazione piú sofisticata o se forma di integrazione origi-
nale, o tappa di un processo di unificazione. La definizione di concetti
come sovranazionalità e integrazione costituivano dunque il fulcro di
un vasto dibattito accademico.
12 Cfr. A. Spinelli, La beffa del mercato comune, (1957), poi in L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Il mulino, 1960;S. Pistone, La critica del Movimento federalista europeo ai Trattati di Roma, in «Il Federalista», XXX, 1, 1988.
13 Cfr. J. Pinder e R. Pryce, Europe after De Gaulle: towards the United States of Europe, Harmondsworth, Penguin,1969; e J. Pinder, Economic Integration versus National Sovereignty: Differences between Eastern and Western Eu-rope, in «Government and Opposition», 24, 3, 1989.
61
2.5 La crisi della sedia vuota e il
Compromesso di Lussemburgo
Il pacchetto di proposte presentato dalla Commissione Hallstein in vi-
sta del passaggio al voto a maggioranza qualificata nel 1967 costituí
l’occasione per De Gaulle di tentare di bloccare il superamento dell’u-
nanimità. La crisi della sedia vuota del 1966, con l’assenza sistematica
dei rappresentanti francesi dalle riunioni delle comunità e il successi-
vo compromesso di Lussemburgo costituirono dunque una nuova ce-
sura che portò una nuova ondata di revisione teorica.
La visione intergovernativa trovò in tale periodo piena conferma del-
l’incedibilità della sovranità nazionale, perfino sul terreno economico
della “low politics”. De Gaulle e la Francia, il prototipo dello Stato na-
zionale europeo, si ergevano a difesa della sovranità nazionale spaz-
zando via le velleità di unificazione coltivate in forma radicale o mo-
derata dai federalisti e dai neo-funzionalisti.
La visione neo-funzionalista dovette rivedere completamente i propri
assunti. Nella seconda edizione del suo classico The Uniting of Euro-
62
pe, nel 1968 Haas propose una profonda auto-critica, riconoscendo il
ruolo centrale degli Stati e dei governi nazionali, i limiti delle elites
tecnocratiche sovranazionali, e soprattutto la possibilità che invece
dello spill-over si manifestassero altre dinamiche integrative o disinte-
grative. Su questa base si sviluppò un’ampia letteratura che mise in ri-
lievo tra gli altri i concetti di spill-around, build-up, retrench, muddle-
about, spill-back, encapsulate, ciascuno dei quali indicava una possibi-
le dinamica di rafforzamento o indebolimento dell’integrazione sia sul
piano istituzionale e dei meccanismi decisionali che dell’ampliamento
o riduzione dei settori coinvolti14. La teoria assumeva cosí una fisiono-
mia piú marcatamente analitica invece che normativa, potenzialmente
in grado di descrivere qualunque evoluzione del processo, ma senza
sviluppare un’analisi adeguata dei fattori che potevano portare ad uno
o ad un altro scenario e quindi senza poter prevedere i futuri sviluppi
del processo. Perdeva quindi qualunque capacità predittiva, oltre che
di guida dell’azione, avendo abbandonato una visione progressiva e
ottimista del processo, cosí come l’obiettivo ultimo dell’unità politica.
La tradizione federalista poteva osservare tutto ciò con relativo distac-
co, essendo sostanzialmente fuori gioco, continuando la propria revi-
14 Cfr. L.N. Lindberg and S.A.Scheingold, Europe’s Would-Be Polity: Patterns of Change in the European Community,Englewood Cliffs, NJ, Prentice Hall, 1970; L.N. Lindberg and S.A. Scheingold (eds.), Regional Integration; Theoryand Research, , Cambridge, MA, Harvard University Press, 1971; P.C. Schmitter, Three Neo-Functional Hypothesesabout European Integration, in «International Organization», XXIII, n. 1, 1969; P.C. Schmitter, A Revised Theory ofEuropean Integration, in Lindberg and Scheingold (eds) 1971.
63
sione e giungendo all’elaborazione del gradualismo costituzionale sin-
tetizzato dal programma: elezione europea, moneta europea, governo
europeo. In sostanza i federalisti prendevano atto del carattere gradua-
le del processo, pur ribadendo la necessità di un passaggio democrati-
co di natura costituente per giungere infine all’unificazione politica, e
si concentravano sulle condizioni di possibilità di un tale processo co-
stituente. Esso avrebbe potuto innescarsi solo quando l’Europa avesse
conseguito dei poteri significativi, in grado di incidere sulla vita dei
cittadini, mentre le proprie strutture istituzionali e decisionali non fos-
sero ancora pienamente democratiche, ma solo potenzialmente demo-
cratiche. L’elezione diretta del Parlamento europeo – allora sostanzial-
mente privo di poteri – e l’obiettivo della moneta unica venivano dun-
que identificati come tappe fondamentali del processo in grado di in-
nescare la contraddizione di un potere europeo senza un governo euro-
peo democratico, su cui fondare la rivendicazione di un processo co-
stituente volto a creare una costituzione federale e a dare un governo
all’Europa.
Nell’ambito di questa revisione teorica - che sostanzialmente coniuga-
va il gradualismo neo-funzionalista con il classico costituzionalismo
federalista – furono elaborati due utili schemi concettuali che costitui-
scono il fulcro delle proposte teoriche.
64
La teoria di Moravcsik, che unisce aspetti liberali ad un impianto so-
stanzialmente intergovernativo e assai simile alla tradizione realista,
sottolinea l’intensità delle preferenze nazionali, piuttosto che le risorse
di potenza dei vari Stati come elemento determinante dei risultati delle
negoziazioni, poi analizzate in un quadro strettamente intergovernati-
vo e alla luce di una preferenza sistematica per gli interessi economici
su quelli politici e strategici come determinanti dei comportamenti sta-
tuali nelle negoziazioni. Si tratta di un teoria assai raffinata e di grande
utilità, sostenuta da uno studio storico ampio e dettagliato, ma che pre-
senta due limiti di fondo. Da un lato l’analisi di Moravcisk parte dalla
nascita della CEE nel 1957, tralasciando dunque la CECA e il tentati-
vo della CED, rispetto ai quali la priorità dei motivi economici su
quelli politici risulta difficilmente sostenibile. Dall’altro considera
quasi solo gli Stati piú importanti, dotati grosso modo di risorse di po-
tere analoghe, e rispetto ai quali l’intensità delle preferenze ha quindi
un ruolo decisivo, che magari non sarebbe riscontrato se l’analisi
prendesse in esame anche tutti gli Stati piccoli con risorse molto piú
limitate e la cui intensità delle preferenze potrebbe portare a risultati
negoziali piú limitati, forse spiegabili mediante il differenziale di pote-
re.
Un limite comune a tutte le macro-teorie, poi ampiamente colmato
dalla letteratura relativa al costituzionalismo europeo, riguarda la sot-
65
tovalutazione sistematica del ruolo della Corte di Giustizia nell’avan-
zamento del processo. Si tratta di un limite strutturale e compensibile
per le teorie intergovernative che si concentrano sugli Stati membri e
le loro negoziazioni; meno per quelle neo-funzionaliste, che sottoli-
neando l’importanza della creazione di elites tecnocratiche sovrana-
zionali, avrebbero potuto individuare anche nella Corte, oltre che nella
Commissione un’istituzione sovranazionale con tali caratteristiche; e
decisamente strana per le teorie federaliste, alla luce del ruolo che la
Corte suprema ha avuto nello sviluppo dei poteri del governo federale
americano, e delle osservazioni di Hamilton sul ruolo cruciale del po-
tere giudiziario all’interno delle federazioni.
2.6 Le componenti del processo: co-
struzione, integrazione, unificazione
Nel corso della loro revisione teorica i federalisti cercarono di capire
perché le loro previsioni si fossero rivelate fallaci e di analizzare me-
glio i vari aspetti del processo per concettualizzarli in termini piú con-
gruente con la realtà storica.
66
In primo luogo abbandonarono qualunque teleologia determinista. Al-
bertini ipotizzò un possibile asse continuo dalla semplice cooperazio-
ne tra Stati nazionali dotati di sovranità esclusiva, cioè priva di qua-
lunque elemento di sovranazionalità, fino allo Stato federale europeo,
caratterizzato da una potenziale e relativa prevalenza della sovranazio-
nalità. Il processo di integrazione europea andava considerato come il
periodo in cui entrambi gli elementi convivevano. Il concetto di sta-
tualità, e la creazione di uno Stato federale europeo costituivano dun-
que il concetto limite superato il quale il processo di integrazione ve-
niva meno, avendo raggiunto il suo possibile obiettivo massimo che lo
rendeva irreversibile. 15Ma, è bene sottolinearlo, tale potenziale punto
finale dell’integrazione, non costituiva in alcun modo lo sbocco neces-
sario del processo, né la sua finalità dichiarata, e quindi non è in grado
di motivare e spiegare i comportamenti dei principali attori nel proces-
so. Al contrario il processo andava considerato “a fisarmonica”, ovve-
ro in grado di produrre le condizioni per giungere alla fondazione del-
lo Stato federale europeo, senza però che tali condizioni venissero ne-
cessariamente sfruttate.
15 Cfr. M. Albertini, Quattro banalità e una conclusione sul Vertice europeo, (1961), e I problemi della pace e il Parla-mento europeo, (1984) entrambi ora in Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999a;Va detto che in variperiodi i federalisti hanno coltivato la speranza che qualcuno dei passi intermedi potesse essere sufficiente a garan-tire l’irreversibilità del processo. Questo ha una spiegazione psicologica, perché attribuire un ruolo decisivo all’obi-ettivo intermedio che si sta rivendicando in un dato momento costituisce certo un forte elemento di sostegno nellamobilitazione – propria e degli altri – a sostegno di tale tappa intermedia.
67
A questo punto rimaneva però da studiare e comprendere i meccani-
smi del processo, in modo da predisporsi a sfruttare le occasioni favo-
revoli che esso poteva creare. Un primo schema concettuale di grande
utilità per mettere a fuoco i vari aspetti del processo e poterne poi ana-
lizzare l’interazione è costituito dalla distinzione tra costruzione, inte-
grazione e unificazione.
Il concetto di “unificazione” si riferisce specificamente al processo
politico relativo al superamento della sovranità nazionale assoluta ed
esclusiva mediante il suo trasferimento o messa in comune a livello
europeo riguardo a un numero limitato e definito di questioni. Si tratta
dunque del concetto piú generale, che permette di cogliere il significa-
to storico di lungo periodo di ciò che viene solitamente chiamato pro-
cesso di integrazione europea. L’unificazione dunque ricomprende sia
la fase gradualista dell’integrazione sia la possibile ed eventuale deci-
sione di costituire uno Stato federale europeo. Il significato storico del
processo era l’unificazione di piú Stati, e si svolgeva lungo due binari:
l’integrazione (economica) e la costruzione di istituzioni sovranazio-
nali.
Il termine “integrazione”, la cui connotazione semantica richiama
qualcosa di tecnocratico, andrebbe invece utilizzato per focalizzare
l’ampiezza delle competenze e dei poteri attribuiti al livello europeo,
che storicamente si sono accumulate principalmente mediante un pro-
68
cesso di integrazione economica lungo una via sostanzialmente neo-
funzionalista. Il termine “costruzione” identifica il processo di costru-
zione istituzionale a livello europeo, che può essere analizzato me-
diante criteri di carattere costituzionale o federale. La sua connotazio-
ne semantica richiama l’elemento di progettualità e volontà politica
necessario per “costruire” l’Europa o meglio le sue istituzioni ed i suoi
meccanismi decisionali.
In sostanza il processo di unificazione risultava essere una funzione
del trasferimento di competenze dal livello nazionale a quello europeo
con la relativa messa in opera di politiche pubbliche europee (integra-
zione) e della costruzione di istituzioni e meccanismi decisionali per
gestire tali competenze. La decisione di creare il mercato comune, e in
seguito la politica agricola comune, il mercato unico, la moneta unica,
lo spazio di libertà interna previsto dal Trattato di Schengen, sono tutti
esempi di integrazione. L’elezione diretta e poi l’estensione dei poteri
del Parlamento europeo, l’introduzione e poi l’estensione del voto a
maggioranza qualificata in seno al Consiglio, la creazione della Banca
Centrale Europea, e altri aspetti relativi alle procedure decisionali e al-
l’assetto istituzionale dell’unione sono invece esempi di costruzione
istituzionale.
Si tratta di una visione sostanzialmente ripresa di recente da Moravc-
sik che distingue tra il “substantive agreement” - raggiunto in uno dei
69
“grand bargains” che scandiscono le tappe del processo - relativo alle
questioni economiche (politiche, fondi, ecc.) e la “institutional choice”
che risulta sempre subordinata e funzionale al primo ed essenziale ac-
cordo.
Moravcsik dà la priorità dunque alla integrazione, alla istituzione di
politiche europee e al trasferimenti di competenze ed eventualmente
risorse, rispetto alle scelte istituzionali, pur ammettendo che l’elemen-
to di novità caratterizzante la Comunità e poi l’Unione sia proprio il
suo quadro istituzionale. Al contrario, Albertini sostiene che il livello
di costruzione costituisca la variabile fondamentale per valutare il pro-
cesso, poiché il raggiungimento di determinati obiettivi, anche econo-
mici, non sia possibile senza un quadro istituzionale sufficientemente
democratico ed efficiente.
Secondo Albertini, il grado di costruzione istituzionale determinava il
grado di integrazione possibile, come dimostrava l’insuccesso dell’in-
tegrazione positiva in un quadro istituzionale inadeguato, e piú tardi la
necessità del voto a maggioranza qualificata, ovvero del superamento
dell’unanimità e dei veti nazionali, per realizzare il Mercato unico – su
quest’ultima tesi concordano anche i filoni intergovernativo e neo-fun-
zionalista.
Per raggiungere determinati obiettivi condivisi sono necessari mecca-
nismi decisionali adeguati e istituzioni sufficientemente forti e legitti-
70
me da un punto di vista democratico: ad esempio l’introduzione del
voto a maggioranza in Consiglio, previsto nell’Atto Unico Europeo
del 1986 soltanto per ciò che riguardava la creazione del mercato uni-
co, era evidentemente legata all’obiettivo di giungere al mercato unico
entro il 1992, il che richiedeva l’adozione di oltre trecento direttive,
un obiettivo impensabile all’unanimità. Ciò non toglie che poi la mag-
gior parte delle deliberazioni possano esser state prese all’unanimità,
dal momento che quando si può decidere a maggioranza qualificata,
tutti gli Stati hanno l’interesse a strappare le maggiori concessioni alla
proprie preferenze in cambio del proprio voto a favore. Al contrario,
quando vige l’unanimità vi è una minore disponibilità al compromesso
perché ciascun governo ha la consapevolezza di poter comunque bloc-
care qualunque decisione sgradita che non accolga pienamente le pro-
prie richieste.
Al contempo la storia del processo mostra anche il caso opposto di
aspetti della costruzione istituzionale che ha innescato altri mutamenti
tanto a livello di costruzione quanto di integrazione. Due esempi sono
particolarmente rilevanti. La creazione della Corte di Giustizia con un
potere vincolante ha portato ad un ampliamento delle competenze del-
le Comunità e dei poteri delle sue istituzioni mediante l’affermazione
giurisprudenziale dei principi della prevalenza e diretta applicabilità
delle norme comunitarie, oltre che dei poteri impliciti. Allo stesso
71
modo l’elezione diretta del Parlamento europeo ha innescato un pro-
cesso di continuo e progressivo accrescimento dei poteri dello stesso
Parlamento nel corso di tutte le successive modifiche ai Trattati – un
elemento della costruzione. Inoltre, l’iniziativa del Parlamento con
l’approvazione nel 1984 della bozza di Trattato di Unione Europea,
noto anche come Progetto Spinelli, che includeva tra l’altro la creazio-
ne di un mercato unico e la prospettiva della moneta unica, favorí il ri-
lancio del processo mediante l’Atto unico che recepiva una parte dei
contenuti di quel progetto, in particolare rispetto all’obiettivo del mer-
cato unico, cosí come altre parti sono state riprese dai successivi Trat-
tati.
2.7 I tempi e gli attori del processo:
crisi-iniziativa-leadership
Secondo i federalisti la spinta di fondo del processo di unificazione
europea era legata alla crisi storica dello Stato nazionale, già denun-
ciata nel Manifesto di Ventotene, ovvero nell’impossibilità per gli Sta-
72
ti nazionali di garantire il proprio sviluppo economico e la propria si-
curezza, obiettivi che richiedevano Stati di dimensione ben più ampia,
come dimostrava il successo degli Usa e dell’Urss che di fatto si spar-
tivano il mondo e l’Europa. Questa situazione strutturale e di lungo
periodo è nascosta dall’ideologia dominante del nazionalismo, ma si
manifesta attraverso l’esistenza di problemi di carattere sovranaziona-
le, che occasionalmente possono portare a crisi gravi e quindi social-
mente percepite su questioni specifiche, che Albertini chiama «crisi
dei poteri nazionali». Si tratta di una visione simile a quella proposta
da autori della tradizione realista che considerano l’integrazione euro-
pea come un mero strumento degli Stati nazionali per affrontare alcuni
problemi comuni di tipo economico e politico non risolvibili da un
singolo Stato. La differenza è che i federalisti considerano le crisi dei
poteri nazionali come un sintomo ed un riflesso della crisi storica del-
lo Stato nazionale, e quindi tendono ad individuare strutturalmente
delle soluzioni di carattere sovranazionale.
L’idea di fondo è che, come sostiene la tradizione intergovernativa, di
fronte ad un problema sovranazionale gli Stati tenteranno normalmen-
te la via della mera cooperazione. Pertanto, è necessaria una “crisi” su
un problema sovranazionale – ovvero che riguardi piú Stati e non sia
risolvibile da nessuno di essi singolarmente preso - perché gli Stati
possano decidere e portare a termine un trasferimento o una messa in
73
comune della sovranità se le personalità e le organizzazioni europeiste
e federaliste avranno la capacità e la forza di portare avanti tale propo-
sta[9]. La crisi può riguardare tanto uno Stato nazionale quanto la Co-
munità e poi l’Unione europea nel suo insieme. Una volta infatti che
l’Ue arrivi a svolgere un ruolo decisivo per affrontare determinati pro-
blemi una crisi dell’Ue stessa può innescare una finestra di opportuni-
tà per rilanciare la dinamica integrativa o disintegrativa.
L’importanza della percezione sociale della crisi, ovvero di un singolo
problema e del suo carattere sovranazionale va sottolineata. La richie-
sta americana di riarmo tedesco di fronte alla guerra di Corea può es-
sere considerata come una crisi di lieve entità, come dimostra il fatto
che dopo la caduta della Ced si è proceduto alla creazione di un eser-
cito tedesco senza particolari tensioni con la Francia, anche in virtù
della collocazione di entrambe dentro il quadro atlantico. Ma l’idea di
un esercito tedesco fu percepita socialmente come un grave pericolo e
questo permise di proporre e quasi portare a compimento la creazione
di un esercito europeo. Al contrario la crisi di Bretton Woods fu gra-
vissima, ma il progetto di unione monetaria negli anni settanta fallí, e
fu realizzato solo dopo il crollo del muro di Berlino, al fine di ancora-
re la Germania riunificata all’Europa, europeizzandone l’elemento di
potenza, il marco.
74
Il concetto di crisi ha una valenza teorica fondamentale. La crisi dei
poteri nazionali è chiamata a spiegare le finestre di opportunità e quin-
di i tempi dei dibattiti, delle scelte e delle tappe del processo di unifi-
cazione. Inoltre, è la natura della crisi che determina il tipo di avanza-
mento possibile. La crisi legata alla richiesta americana del riarmo te-
desco a seguito della guerra di Corea spiega sia il tempo della propo-
sta dell’esercito europeo, sia il fatto che una personalità come Monnet,
spesso considerato un neo-funzionalista, abbia proposto di creare l’e-
sercito europeo, ovvero un trasferimento di sovranità relativo al punto
di maggior potenziale resistenza nazionale. A una crisi sul terreno mi-
litare non si poteva rispondere con una soluzione economica, cosí
come alla caduta di Bretton Woods hanno fatto seguito i progetti di
unificazione monetaria, piuttosto che un rilancio dell’integrazione sul
terreno della difesa.
Infine, il concetto di crisi permette di chiarire il ruolo di diversi attori,
che può variare significativamente nel corso del processo. Il ruolo del-
le personalità ed organizzazioni europeiste e federaliste dipende dalla
loro capacità in un dato momento di individuare il problema sovrana-
zionale su cui può scatenarsi una crisi socialmente percepita, e quindi
di mobilitare consenso intorno a proposte volte a far avanzare il pro-
cesso di unificazione in maniera da risolvere almeno in parte tali crisi.
Nelle fasi in cui questa capacità si manifesta, questi attori hanno un
75
ruolo e le loro proposte si fanno strada nel dibattito pubblico; quando
manca, scompaiono dalla scena politica. Allo stesso modo, la loro atti-
vità propagandistica, in assenza di una crisi, difficilmente può portare
a decisioni che comportino un avanzamento concreto del processo di
unificazione, sia rispetto al trasferimento di competenze – integrazio-
ne – che rispetto alla costruzione istituzionale e al rafforzamento dei
meccanismi decisionali sovranazionali – costruzione.
Tutto ciò implica che nessuno - nemmeno i federalisti, come sostengo-
no invece Milward e Moravcsik – ritiene che gli Stati nazionali possa-
no decidere una cessione di sovranità per motivi federalisti in senso
ideologico, ovvero per il perseguimento dell’unità europea in quanto
ideale condiviso. Al contrario, una visione ideologica favorevole è
solo una condizione necessaria, ma non sufficiente, per permettere di
assumere decisioni relative a trasferimenti di competenze o di poteri
all’Europa nel momento in cui tale scelta risulti la miglior soluzione
per rispondere a una crisi. Una visione ideologica nazionalista invece,
non permette comunque di assumere una tale decisione, per quanto
costosa possa essere la mancata soluzione della crisi: il differenziale di
crescita economica, dei livelli di disoccupazione, e del tasso di infla-
zione tra gli Stati europei e gli Stati Uniti dopo il crollo di Bretton
Woods mostrano il costo della mancata unificazione monetaria euro-
76
pea negli anni settanta; specialmente se paragonati ai positivi effetti
manifestatisi sull’economia europea con la nascita dell’Euro.
Le crisi dei poteri nazionali sono sostanzialmente dei catalizzatori di
decisioni, perché se sono socialmente percepite costringono i governi
a prendere delle iniziative per risolverle. Pertanto, determinano delle
finestre di opportunità per far avanzare il processo di unificazione ri-
spetto ai problemi su cui la crisi storica dello Stato nazionale si mani-
festa in quel momento. Le crisi costituiscono quindi una condizione
necessaria – per le ragioni che sottostanno alle analisi intergovernative
relative alla tendenziale indisponibilità dei governi nazionali a cedere
competenze e/o poteri all’Europa - ma non sufficiente per l’avanza-
mento del processo. Le crisi - che non sono determinate da nessun at-
tore volontariamente, sebbene la loro percezione sociale sia legata an-
che ai comportamenti degli attori politici - offrono delle opportunità,
che per essere colte richiedono l’intervento attivo di altri soggetti. Il
loro ruolo è spiegato dai concetti di iniziativa e leadership (europea
occasionale).
Il secondo elemento dello schema concettuale sviluppato dai federali-
sti per comprendere la dinamica del processo è dunque l’iniziativa. Di
fronte ad una crisi si possono fornire diverse risposte, piú o meno effi-
caci e con un diverso rapporto tra costi e benefici per i diversi gruppi
coinvolti, e non tutte implicheranno un avanzamento del processo di
77
unificazione europea. È quindi fondamentale che qualcuno prenda l’i-
niziativa di elaborare e proporre delle soluzioni alla crisi che compor-
tino tale avanzamento. Dal momento che solitamente i governi tente-
rebbero la via della mera cooperazione, questo ruolo è piú facilmente
fatto proprio dalle personalità e dai movimenti europeisti e federalisti.
Il ruolo di Monnet, Spinelli, e delle organizzazioni che li appoggiava-
no, è stato spesso quello di individuare in modo chiaro e preciso il ca-
rattere sovranazionale della crisi, e di proporre quindi delle soluzioni
che comportavano un avanzamento del processo di unificazione[26].
L’iniziativa individua il ruolo delle idee nel processo, analogamente a
quanto sottolineato recentemente dal costruttivismo sociale. L’idea di
Monnet della messa in comune della sovranità su un settore specifico
e limitato (e tuttavia fondamentale per i rapporti internazionali, in
quanto alla base dell’industria pesante), diversa dalla semplice coope-
razione, ma meno impegnativa di una completa unione politica, ha de-
terminato l’avvio ed anche in gran parte alcune caratteristiche di tutto
il processo. Ma ogni tappa del processo è stata pensata e proposta in
rapporto alle crisi del periodo. Egualmente l’idea dell’unificazione po-
litica pareva talmente difficile e lontana, che i governi europei sembra-
vano disposti a creare un esercito europeo non affiancato e diretto da
un governo democratico europeo, finché Spinelli non ha denunciato la
contradditorietà e la pericolosità di un simile progetto. Per ogni tappa
78
del processo è possibile individuare le personalità che per prime hanno
ideato una determinata proposta e hanno iniziato a raccogliere consen-
so intorno ad essa.
Ma le idee e le proposte, per quanto forti, vanno poi trasformate in de-
cisioni concrete, e la questione del potere torna quindi in gioco. A tal
fine è stato sviluppato il concetto di leadership europea occasionale.
Solo se un governo nazionale o un’istituzione europea elabora o fa
propria una proposta emersa dall’iniziativa di altri e la inserisce nell’a-
genda politica, questa ha la possibilità di essere adottata. Chi compie
tale passo e costruisce il consenso intergovernativo necessario alla de-
cisione finale esercita di fatto una leadership europea – anche quando
si tratti di un leader o di un governo nazionale. Si tratta però di una
leadership occasionale perché legata alla volontà di risolvere la crisi
cui la proposta integrativa si collega; se fosse dovuta al semplice desi-
derio di unire l’Europa si manifesterebbe infatti in maniera continuati-
va.
L’idea della natura occasionale della leadership la collega teoricamen-
te alla crisi, spiegando perché non sia possibile per alcun leader nazio-
nale dedicarsi prioritariamente alla costruzione europea, come invece
personalità come Monnet e Spinelli, il cui ruolo è stato però quello
dell’iniziativa piuttosto che quello della leadership. La letteratura in-
tergovernativa ha spesso sottolineato che i leaders nazionali protagoni-
79
sti di importanti decisioni integrative erano mossi dalla volontà di ri-
solvere problemi e rafforzare cosí il potere dello Stato nazionale piut-
tosto che dalla volontà di unire l’Europa, criticando aspramente la let-
teratura agiografica su quelli che Milward chiama i “santi europei”16.
Il concetto di leadership europea occasionale di fatto recepisce l’aspet-
to corretto di tale critica, riconoscendo al contempo il ruolo e la fun-
zione europea svolta in determinate fasi da statisti nazionali. Ovvia-
mente, un’inclinazione ideologica favorevole all’unità europea rimane
comunque necessaria per poter assumere un tale ruolo nel portare
avanti soluzioni alle crisi che facciano avanzare il processo di unifica-
zione.
Un quarto aspetto andrebbe in realtà aggiunto a questo schema concet-
tuale costituito da crisi, iniziativa e leadership europea occasionale,
ovvero la permanenza di tali condizioni per tutta la durata del proces-
so decisionale e di ratifica di una data proposta. Se la crisi socialmente
percepita viene risolta o se la percezione sociale del problema come
crisi viene meno, o se viene a mancare la leadership europea occasio-
nale, l’iniziativa che collegava questi due elementi difficilmente avrà
uno sbocco positivo. Ad esempio, nel caso della caduta della Ced si
verificarono entrambe queste situazioni: al momento del voto dell’As-
semblea nazionale francese, la guerra di Corea era finita e il clima di
16 Cfr. A.S. Milward, The European Rescue of the Nation-State, London, Routledge, 1992: specialmente pp. 318-344; eA. Moravcsik, The Choice for Europe, London, University College of London Press, 1998.
80
scontro con l’Urss era venuto meno con la morte di Stalin; e si erano
avvicendati diversi governi di diversa composizione partitica portando
all’esclusione dalla compagine governativa sia di Pleven che di Schu-
man.
Questo quarto aspetto è ovviamente estremamente rilevante ai fini dei
risultati pratici dei processi decisionali, ma non della concettualizza-
zione delle condizioni di possibilità per gli avanzamenti del processo.
Lo schema crisi-iniziativa-leadership è infatti sostanzialmente volto a
individuare le condizioni in cui gli Stati ed i governi nazionali posso-
no accettare un trasferimenti di competenze e/o di poteri all’Europa.
Si tratta di una formulazione teorica volta a sviluppare il paradosso
proposto da Spinelli degli Stati nazionali come ostacolo e strumento
del processo di unificazione. In condizioni normali, gli Stati nazionali
rappresentano degli ostacoli perché cercano di mantenere la propria
sovranità. Tuttavia, di fronte ad una crisi socialmente percepita relati-
va ad un problema di carattere sovranazionale, è possibile che in occa-
sione di una iniziativa tempestiva ed efficace si manifesti in almeno
uno Stato membro o nelle istituzioni europee una leadership europea
occasionale, in grado di innescare un processo decisionale che, pur do-
minato dagli Stati, porti ad un avanzamento del processo di unificazio-
ne europea.
81
Questo schema concettuale permette di identificare diverse funzioni
necessarie per giungere a decisioni che facciano avanzare il processo
di unificazione. Tali funzioni possono essere svolte da diversi attori in
diverse fasi. Pertanto, questo schema risulta in grado di valorizzare,
sebbene limitandone la portata, le indicazioni di tutte le teorie rispetto
agli attori principali nel processo di unificazione.
La percezione sociale di una crisi su un problema sovranazionale può
essere favorita da personalità e movimenti europeisti e federalisti, da
partiti, da governi bisognosi di spostare la responsabilità della crisi ad
altri – l’Europa – da gruppi sociali organizzati particolarmente colpiti
dalla crisi e consapevoli del suo carattere sovranazionale e dai mass
media legati a tutti questi soggetti. Questa prospettiva supera comple-
tamente la discussione sull’influenza di specifici settori politici o so-
ciali nelle scelte dei governi nel corso di tutto il processo, che sottosta
ad esempio all’intera indagine di Moravcisk. Al contrario, mette in ri-
salto la necessità di individuare caso per caso i soggetti rilevanti, sen-
za trascurare la possibilità che lo siano in un singolo caso o piú volte,
ma non necessariamente in ogni occasione o in forma continuativa,
senza per questo che possano però essere completamente ignorati da
un’analisi adeguata del processo stesso.
Il ruolo delle organizzazioni degli agricoltori nella nascita e nell’ini-
ziale sviluppo della PAC, inclusi i rafforzamenti istituzionali ad essa
82
legati non può essere ignorato, nonostante non abbiano giocato un
ruolo rilevante in nessun altro caso. Il ruolo delle personalità e dei mo-
vimenti europeisti e federalisti rispetto alla Ceca, al tentativo della
Ced, all’Euratom, all’elezione diretta del Parlamento europeo, alla
creazione del Consiglio europeo, o alla creazione dell’unione moneta-
ria è stato certamente rilevante, anche se in altre fasi o rispetto ad altre
questioni non siano riusciti a giocare un ruolo incisivo.
Rispetto all’iniziativa, la tradizione federalista ritiene che una nuova
proposta integrativa difficilmente potrà infatti venire dai politici na-
zionali che sono normalmente impegnati nella lotta per il potere nazio-
nale, che non vogliono cedere una volta conquistato, e con il quale
tendono solitamente a cercare di affrontare i problemi con cui si devo-
no confrontare. Pertanto, quello dell’iniziativa è il compito specifico
delle personalità e dei movimenti europeisti e federalisti. Questi hanno
le maggiori probabilità di riuscire ad elaborare una proposta di solu-
zione delle crisi dei poteri nazionali che comporti una cessione di so-
vranità nazionale e faccia progredire il processo di unificazione, per-
ché quest’ultimo è la loro priorità politica e sono autonomi dal potere
nazionale. Tale autonomia permette di dialogare con tutte le forze po-
litiche, nella consapevolezza che le decisioni relative all’integrazione
europea devono essere tendenzialmente bipartisan, dal momento che
83
coinvolgono governi nazionali di diversi Paesi e di volta in volta di di-
verso colore politico.
L’europeismo organizzato costituisce quindi la classe politica dell’uni-
ficazione europea, chiamata a mobilitare l’europeismo organizzabile –
politici favorevoli all’integrazione europea, cui però non assegnino la
priorità, e persone che hanno abbandonato la vita politica nazionale
perché consapevoli della crisi dello Stato nazionale ma che non hanno
ancora maturato l’alternativa federalista - e l’europeismo diffuso, ov-
vero il sostegno generico all’unità europea presente nell’opinione pub-
blica.
Appare scontato che autori federalisti mettano in risalto il ruolo delle
personalità e delle organizzazioni europeiste e federaliste. Tuttavia,
tale scelta non è affatto necessaria allo schema teorico volto a concet-
tualizzare le condizioni di possibilità degli avanzamenti del processo.
A tal fine è sufficiente individuare un’iniziativa, un’idea portata avanti
da una persona o da un gruppo che riesca a farsi strada nel dibattito
pubblico e ad esser fatta propria da una leadership europea occasiona-
le ed eventualmente ad essere adottata. Ad esempio la tradizione neo-
funzionalista ha sottolineato il ruolo della Commissione come guida
del processo in vari periodi, specialmente sotto la guida di Monnet,
Hallstein e Delors (va tuttavia osservato che tali personalità sono spes-
so considerate e si consideravano federaliste, seppure non formalmen-
84
te aderenti alle organizzazioni federaliste). Anche il Parlamento euro-
peo, dopo la sua elezione diretta, è stato protagonista di diverse inizia-
tive, a partire dal Trattato di Unione europea, la cui ispirazione è però
chiaramente venuta da una personalità federalista come Spinelli.
Per quanto riguarda invece la leadership europea occasionale, essa ri-
chiede un certo potere, e può quindi essere assunta solo da un governo
nazionale – o semplicemente da un primo ministro o un ministro degli
esteri – piú difficilmente da un parlamento nazionale, dalla Commis-
sione, o dal Parlamento europeo eletto direttamente. Proprio per que-
sto diversi storici e teorici dell’integrazione hanno potuto sottolineare
il ruolo di leaders politici nazionali o di leaders delle istituzioni euro-
pee, prendendo ad esempio una fase specifica del processo. Così come
è evidente che le indagini con una base teorica intergovernativa, che si
soffermano quindi sulle negoziazioni intergovernative che portano a
una decisione potranno solo individuare il ruolo dei vari governi in
tale fase ed eventualmente appurare l’esistenza di una leadership euro-
pea occasionale. Si tratta però solo dell’ultima fase e condizione per
l’avanzamento del processo. Pertanto tali approcci non riescono nem-
meno a porsi alcune fondamentali domande, riguardo tra l’altro ai
tempi dell’integrazione. Ad esempio, Moravcsik sostiene da un lato
che la convocazione di una conferenza intergovernativa (Cig) median-
te un voto a maggioranza al Consiglio europeo di Milano del 1984 fu
85
un fatto straordinario tanto che per alcuni giorni non fu nemmeno
chiaro se la Gran Bretagna avrebbe partecipato alla Cig. Tuttavia non
si domanda a che cosa fu dovuto tale evento, e spiega il successivo ri-
sultato di tale Cig con la convergenza normativa sul neo-liberalismo
proposto dalla Sig.ra Thatcher e dal presidente americano Reagan.
Non si capirebbe in tal caso l’opposizione britannica ad una trattativa
che non poteva che finire con un proprio successo, né si spiegherebbe
la rottura del compromesso di Lussemburgo con un voto sulla convo-
cazione di una Cig.
Le teorie intergovernative, ed in particolare il liberal intergovernmen-
talism elaborato da Moravcisk, sono molto utili ed efficaci per spiega-
re i negoziati che portano ad una decisione, in cui gli attori decisivi
sono i governi nazionali. Ma si tratta solo dell’ultima fase di un pro-
cesso decisionale assai piú lungo e che vede coinvolti numerosi e di-
versi attori in diverse epoche e fasi del processo di unificazione e i cui
tempi non sono facilmente spiegabili da una prospettiva puramente in-
tergovernativa.
86
2.8 Il processo di integrazione euro-
pea e le sovranità nazionali nei periodi
di crisi
Sono stati tratteggiati due schemi concettuali elaborati dalla tradizione
federalista, che però non hanno un carattere normativo o intrinseca-
mente federalista, ma coniugano alcuni utili elementi delle altre tradi-
zioni teoriche in un quadro più articolato e flessibile.
Il primo riguarda l’identificazione dei vari aspetti del processo di uni-
ficazione europea - ovvero il trasferimento di competenze (integrazio-
ne) e la creazione di istituzioni e meccanismi decisionali specifici e a
carattere sostanzialmente sovranazionale (costruzione) - e la loro inte-
razione. Contrariamente a quanto sostenuto da Albertini e Moravcsik
rispetto alla prevalenza dell’integrazione sulla costruzione (o vicever-
sa), bisogna mettere a fuoco l’interazione continua e l’inscindibilità
dei due aspetti. Il problema attualmente è che se il Pe non esercita un
ruolo decisionale pieno in materia economica e finanziaria, questo
dipende dall'attuale struttura dei Trattati; non si può imputare all'at-
teggiamento dei governi in tempo di crisi. Analogamente, se la Com-
87
missione non ha sempre svolto un ruolo incisivo, se talora è apparsa al
rimorchio della Presidenza del Consiglio Europeo, di nuovo questo è
da imputare alla stessa Commissione.
Per raggiungere determinati obiettivi nell’integrazione, come la crea-
zione del mercato unico ad esempio, si sono rese necessarie delle mo-
difiche istituzionali e processi decisionali che riguardano la costruzio-
ne istituzionale. Al contempo alcune modifiche istituzionali, come l’e-
lezione diretta del Parlamento europeo, hanno prodotto una domanda e
una dinamica di riforme istituzionali e di aumento dell’integrazione
mediante l’attribuzione alla Comunità e poi all’Unione di nuove com-
petenze. Si tratta dunque di due aspetti decisivi e che si influenzano
reciprocamente, senza che uno possa essere considerato come una va-
riabile dipendente dell’altro.
Il secondo schema teorico riguarda l’individuazione della dinamica
del processo di integrazione, o più specificamente delle condizioni di
possibilità del suo avanzamento. Da un altro punto di vista, lo schema
cerca di mettere a fuoco le condizioni in cui gli Stati nazionali posso-
no divenire strumento invece che ostacolo dell’unificazione europea.
Lo schema crisi-iniziativa-leadership rappresenta una risorsa teorica
flessibile per analizzare il ruolo di diversi attori nelle varie fasi del
processo senza assegnare aprioristicamente ad uno o all’altro un ruolo
prevalente lungo tutto il processo. Permette inoltre di comprendere
88
meglio i tempi del processo e la natura delle iniziative suscettibili di
trovare uno sbocco decisionale concreto, in quanto rispondenti alla
crisi dei poteri nazionali che si manifestano mediante l’acutizzarsi di
problemi sovranazionali.
Il concetto di crisi dei poteri nazionali è anche di grande utilità per
comprendere i tempi e la natura dei passi integrativi compiuti in cia-
scuna fase del processo di unificazione europea, andando a colmare un
punto debole di tutte le tradizioni di pensiero. Il tempo e la natura del-
la crisi determinano l’avvio del dibattito sull’avanzamento dell’inte-
grazione o della costruzione sul terreno della crisi: a una crisi di natura
militare negli anni cinquanta si rispose con la proposta di un esercito
europeo; a una crisi di natura monetaria all’inizio degli anni settanta
con la proposta della moneta unica.
La teoria risulta pertinente anche messa in relazione al periodo attuale,
infatti a fronte della crisi mondiale dalla quale l'Eurozona non si è an-
cora totalmente ripresa, i leader mondiali stanno parlando di cessione
della sovranità nazionale per quanto riguarda le riforme strutturali. Lo
stesso Mario Draghi, attuale presidente della Bance Centrale Europea,
sostiene che i Paesi dell'Eurozona non sono in grado di riformarsi da
soli e sarebbe quindi meglio allora che intervenga direttamente l'Eu-
ropa da Bruxelles.
89
Da sole le crisi non sono però sufficienti: senza un’iniziativa e una
leadership adeguata, le finestre di opportunità create dalle crisi posso-
no non essere colte, portando spesso alti costi per i cittadini europei,
come nel caso della mancata unificazione politica e monetaria che
hanno comportato il declino politico degli Stati europei, e un aumento
del divario economico con gli Stati Uniti. L'Europa deve rialzarsi se-
guendo le indicazioni fornitegli dal Fondo Monetario Internazionale e
effettuare tutto ciò che è necessario per far ripartire un'economia anco-
ra oggi in difficoltà.
90
CAPITOLO III
ACCORDI TRA
FONDO MONETARIO
INTERNAZIONALE E
UNIONE EUROPEA PRIMA
E DURANTE LA CRISI
DEL 2008-2013.
91
3.1 Dal ''Serpente monetario'' all’U-
nione Economica e Monetaria Euro-
pea del 1999
Dopo il già accennato fallimento del progetto Bretton Woods negli
anni ’60, i cambi fissi riescono finalmente a stabilizzarsi, quindi nel
1972 gli Stati dell’allora Comunità Economica Europea (CEE) Ger-
mania occidentale, Francia, Italia, Benelux si accordarono per mante-
nere un margine di fluttuazione predeterminato e ridotto tra le valute
comunitarie e tra queste il dollaro, creando così un sistema simile a
quello di Bretton Woods ma riservato ai soli paesi membri CEE. Nac-
que il Serpente Monetario che ebbe pochi anni di vita in quanto inca-
pace di contenere le fluttuazioni dei cambi e in disaccordo sulla politi-
ca economica da perseguire per contrastare gli effetti della crisi petro-
lifera, molti degli stati partecipanti abbandonarono il sistema durante
la sua breve vita.
Il serpente monetario fu dichiarato quindi, progetto fallito e ci furono
alcuni anni di “caos finanziario” fino a quando il processo di integra-
92
zione monetaria17 e europea venne rilanciato nel dicembre del 1978
anno in cui il Consiglio Europeo decide di istituire a partire da marzo
del 1979 il sistema monetario europeo (SME).
Nel marzo del 1979, questo sistema fu rimpiazzato dal Sistema mone-
tario europeo
Gli elementi basilari erano:
• L'ECU o Unità di conto europea: un paniere di monete,
che fluttuavano entro il 2.25% (6% per la lira, a causa dell'elevato tas-
so di inflazione) attorno alla parità nei tassi di cambio bilaterali con al-
tri paesi membri.
• Un meccanismo di tasso di cambio.
I primi quattro anni dello SME furono abbastanza difficili perché ci
furono diversi shock finanziari dovuti principalmente all'aumento del-
l'inflazione a causa della seconda crisi petrolifera del 1979-80. Questa
crisi fece aumentare notevolmente l'inflazione, peggiorò la situazione
delle bilance dei pagamenti ed aumentò la disoccupazione. La diver-
genza nelle politiche nazionali degli stati appartenenti alla CEE co-
minciò a diventare evidente subito dopo l'elezione di Mitterand a pre-
17 È interessante osservare come tale scelta, di notevole lungimiranza politica, abbia anticipato di qualche decennio la scelta fatta dalle valute dei paesi dell’Eurozone (a parte il caso della Danimarca, che non partecipa all’Euro pur contin -uando a seguire le scelte della BCE). L’unica grossa differenza riguarda il “contenuto democratico” di tale delega: anziché effettuarla a favore di uno stato estero, e cioè la Germania, nel caso attuale essa è a favore di un’istituzione eu -ropea, la Banca Centrale Europea ed il Sistema Europeo delle Banche Centrali, partecipata da tutti i
paesi partner. 93
sidente nel 1981. In Germania l'opinione pubblica si orientò contro
l'inflazione e il debito pubblico, portando alla sostituzione della coali-
zione del Cancelliere Schimdt con quella di Kohl. Il consenso emerso
durante le negoziazioni dello SME sembrò essere svanito sotto il peso
di una combinazione di eventi sfavorevoli. Erano riemerse grandi dif-
ferenze politiche all'interno dell'Europa. Tra il settembre del 1979 e
marzo del 1983 ci furono sette riallineamenti.
Dopo l'aggiustamento avvenuto nel marzo del 1983 i due Paesi con
maggiore inflazione e cioè l'Italia e l'Irlanda, si trovarono con un livel-
lo dei prezzi maggiore rispetto a quello del 1979, lo SME quindi non
si dimostrò molto efficace nei loro confronti anche se la perdita di
competitività fu in qualche modo compensata da dei miglioramenti ri-
guardo all'area del dollaro. La Danimarca, i Paesi Bassi, il Belgio ave-
vano ottenuto una vera svalutazione della propria moneta.
Alla fine del 1983 i Paesi europei erano abbastanza delusi dal funzio-
namento dello SME e mettevano in luce il fatto che la convergenza
non era stata raggiunta e che troppa attenzione era stata dedicata alla
divergenza franco-tedesca lasciando da parte i problemi che si creava-
no nei paesi più piccoli.
Dopo il marzo del 1983 lo SME affrontò una fase più calma e più sta-
bile, non ci furono aggiustamenti per i successivi ventotto mesi e
quando ciò accadde riguardò solamente una valuta: la lira. La svaluta-
94
zione della moneta italiana avvenne nel luglio del 1985 senza una riu-
nione formale dei ministri ECOFIN, il governo italiano annunciò la
volontà di aumentare le tasse per sopperire al deficit del debito pubbli-
co. Nell'aprile del 1986, dopo le elezioni parlamentari francesi che
avevano sancito la "coabitazione" tra il presidente socialista ed una
maggioranza di centro destra nella Assemblea Nazionale, la Francia
chiese un aggiustamento della parità centrale ed ottenne una svaluta-
zione del franco del 6% rispetto al marco. Successivamente, in agosto,
le autorità irlandesi chiesero ed ottennero una svalutazione dell'8%. A
partire dal 1979 la situazione stava poco a poco migliorando: da un
grado appena sufficiente di convergenza che non riusciva ad evolversi
si era arrivati, successivamente, ad una coordinazione monetaria più
forte che faceva uso di maggiori strumenti rispetto al passato.
Riguardo alla coordinazione monetaria i maggiori cambiamenti si ot-
tennero con l'adozione dell'accordo di Basilea-Nyborg del Settembre
1987. Questo accordo, preparato dal Comitato dei governatori delle
Banche Centrali, comportava tre specifici cambiamenti nel funziona-
mento dello SME:
- fu resa più aperta la possibilità di ottenere prestiti a brevissimo
termine
- fu resa più facile la facoltà di regolare i crediti utilizzando l'ECU
aumentando il limite per i pagamenti in ECU.
95
- fu estesa la possibilità di ottenere prestiti dal Fondo Europeo di
Cooperazione Monetaria. Sebbene queste misure non abbiano comple-
tamente eliminato l'asimmetria, hanno tuttavia portato da un lato ad
una più equa distribuzione degli oneri di intervento tra i diversi paesi.
Dall'altro lato hanno contrapposto una maggiore resistenza delle ban-
che centrali, con la possibilità di interventi riequilibratori, agli attacchi
della speculazione internazionale favorita dal processo (in corso) di li-
beralizzazione dei movimenti di capitale.
Con la firma ne1 1986 dell’Atto Unico viene dato un nuovo impulso
al processo di integrazione economica europea con l’obiettivo di com-
pletare entro il 1992 il mercato interno. L'Atto Unico riuniva, quindi,
in un solo testo le disposizioni rivolte a istituzionalizzare la coopera-
zione politica europea (CPE) e quelle modificative dei trattati comuni-
tari. Ai sensi del suo art.1 “le comunità europee e la cooperazione po-
litica perseguono l'obbiettivo di contribuire insieme a far progredire
concretamente l'unione europea”. L'Atto Unico conteneva anche una
serie di importanti modifiche dei trattati istitutivi. Queste concerneva-
no soprattutto il ruolo del Parlamento che ne usciva potenziato, l'inclu-
sione del sistema monetario SME nel quadro comunitario, nella pro-
spettiva di una progressiva realizzazione dell'unione economica e mo-
netaria, la previsione di nuove competenze comunitarie in materia di
politica sociale, di ricerca, sviluppo tecnologico e politica ambientale.
96
La cooperazione in materia di politica estera veniva quindi, istituzio-
nalizzata anche se formalmente al di fuori del contesto giuridico co-
munitario.
L'Atto Unico Europeo è il risultato del primo grande tentativo di rifor-
ma del Trattato di Roma, riforma che era già riconosciuta necessaria
sin dalla conclusione del periodo transitorio: era anzi imposta dai mu-
tamenti radicali sopravvenuti nell'economia e nelle società degli Stati
membri.
Il corso degli anni e l'evoluzione delle relazioni internazionali avevano
messo dunque alla prova la solidarietà politica che era la finalità prima
dell'iniziativa europea: era ormai provato che senza una revisione dei
testi fondamentali dell'integrazione sarebbe venuta a mancare gran
parte dell'interesse essenziale al proseguimento dell'impresa.
La riforma principale introdotta dall'Atto Unico riguardava, come già
detto il completamento del Mercato interno che diventò formalmente
un obiettivo del Trattato e fu fissata una data per la sua realizzazione:
il 31 dicembre 1992. Altri articoli contenevano le disposizioni neces-
sarie per conseguire questo obiettivo, in modo particolare l'articolo
100 prevedeva che le misure per il ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri che avevano per oggetto il funzionamento del mer-
cato interno richiedessero l'approvazione a maggioranza qualificata
97
del Consiglio e non più all'unanimità, fatta eccezione per le riforme fi-
scali.
Altre parti dell'Atto Unico riguardavano le nuove politiche comunita-
rie: la politica regionale, la politica della ricerca e della tecnologia e la
politica dell'ambiente. Anche l'istituzione di un nuovo fondo trovava
spazio nel Trattato: il Fondo Regionale che diventò uno strumento, ac-
canto agli altri fondi, della coesione economica e sociale.
Come detto la cooperazione economica e monetaria non fu inserita nel
Trattato anche se la maggioranza degli Stati membri era disposta ad
inserirvi le procedure dello SME, al quale però la Gran Bretagna non
aveva aderito. Alla fine si giunse alla creazione dell'articolo 102, nel
quale si affermava che la cooperazione monetaria avrebbe tenuto con-
to delle esperienze acquisite grazie alla cooperazione nell'ambito dello
SME e allo sviluppo dell'ECU. L'ulteriore sviluppo della cooperazione
economica e monetaria avrebbe comportato procedure di modifica del
Trattato come previsto nell'articolo 236.
L'Atto Unico 18entrò in vigore il 1 luglio 1987 dopo il deposito degli
atti di ratifica da parte degli Stati membri. Falliva così il tentativo di
istituire una Unione Europea e ci si dovette accontentare di alcune ri-
forme sparse e inorganiche, insufficienti sia per la Commissione che
per il Parlamento Europeo.
18 Il Fondo Monetario Internazionale, Giuseppe Schiltzer, il Mulino 98
Quindi, con la realizzazione del mercato unico all’interno dell’Unione
sono contemporaneamente presenti:
– piena libertà degli scambi
– completa mobilità dei capitali
– tassi di cambio fissi
– autonomia nazionale nella conduzione della politica monetaria
Si arriva quindi al 1989 quando si assiste ai grandi cambiamenti del-
l’Europa dell’est dovuti alla caduta del muro di Berlino. Questi cam-
biamenti portano con se speranze ma anche paure in particolare autori-
tà politiche come Mrs. Thatcher sono spaventate all’idea di una Ger-
mania unita; di fronte allo spettro di tali timori si reagisce, come sug-
gerisce lo stesso cancelliere tedesco Kohl, procedendo ulteriormente
nel processo di integrazione Europea. Mitterand dichiara al Parlamen-
to Europeo che la sola risposta agli avvenimenti dell’est europeo è di
creare un’Europa politica: nasce quindi la decisione di creare la BERS
ossia Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Di fatto è
Kohl che detta un programma in 10 punti per procedere alla riunifica-
zione tedesca che avverrà il 12 settembre 1989 e i partner europei sa-
ranno costretti ad accettare tale riunificazione. Non a caso già l’8 e il 9
dicembre 1989 il Consiglio Europeo di Strasburgo decide di convoca-
re una conferenza Intergovernativa sull’Unione Monetaria Europea
(EMU) e si pronuncia a favore della riunificazione tedesca purché av-
99
venga nel quadro dell’integrazione Europea. Nel suo discorso al Parla-
mento Europeo Delors dichiara “we need an institutional structure
that can withstands the strains”
Sulla base di questo scenario Europeo il presidente della Commissione
Europea Jacques Delors nel 1989, riprendendo le conclusioni del Rap-
porto Werner, propone di realizzare l’unione monetaria in tre fasi e
sulla base di tre principi:
-il movimento verso l’obiettivo finale deve avvenire per fasi ma il pro-
cesso deve essere considerato come irreversibile
-vi deve essere un parallelismo tra integrazione monetaria e progressi
nell’integrazione e nella convergenza economica
-la partecipazione dei singoli paesi all’unione monetaria deve avvenire
con flessibilità, prevedendo che l’unione possa partire con un gruppo
ristretto di partecipanti
Il Comitato Delors ebbe quindi il merito di redigere in poco meno di
un anno un rapporto che conteneva tutti gli elementi che sarebbero
stati propri della futura unione economica e monetaria, ma il suo mag-
gior merito fu quello di intuire che essa non poteva fondarsi su una di-
mensione esterna improntata sui tassi di cambio, ma prendendo in
considerazione l’unione monetaria come un sistema nazionale biso-
gnevole di una base istituzionale forte: nel rapporto Delors trovano
origine la banca centrale europea e l’euro.
100
Attenendosi a tali Principi il Consiglio Europeo decise che la prima
fase della realizzazione dell’Unione Economica Monetaria sarebbe
iniziata il primo luglio 1990 data in cui sarebbero state abolire in linea
di principio, tutte le restrizioni alla circolazione dei capitali tra gli stati
membri. Per realizzare la seconda e terza fase, il Consiglio decise di
modificare il trattato che istituiva la CEE (trattato di Roma) al fine di
creare la necessaria infrastruttura istituzionale. L’esito fu il trattato sul-
l’Unione Europea firmato a Maastricht nel 1992.
La partecipazione all’Unione è subordinata al soddisfacimento di cin-
que criteri di convergenza economica:
– tasso di inflazione non superiore di 1,5 punti percentuali al livello
medio dei tre stati membri con il più basso tasso di crescita dei prezzi;
– tasso di interesse a lungo termine non superiore di 2 punti percentua-
li al livello medio dei tre stati
membri con il più basso tasso di crescita dei prezzi;
– rispetto dei margini di fluttuazione previsti dall’ERM nei due anni
che precedono l’ingresso nell’unione senza che nel periodo interven-
gano svalutazioni;
– disavanzo delle Amministrazioni pubbliche non superiore al 3% del
PIL;
– debito delle Amministrazioni pubbliche non superiore al 60 per cen-
to del PIL o, se superiore, in fase di riduzione con un ritmo adeguato.
101
Gli Stati membri devono assicurare che la propria legislazione nazio-
nale, incluso lo statuto della Banca Centrale, siano compatibili (“con-
vergenza legale”) con le norme del Trattato e dello Statuto della BCE
concernenti:
– il divieto di finanziamento monetario dei deficit pubblici e di acces-
so privilegiato alle istituzioni finanziarie
– l’indipendenza della banca centrale
• indipendenza personale degli organi decisionali
• indipendenza funzionale
• indipendenza finanziaria
– le prerogative della BCE
In seguito è da ricordare che il 1 gennaio 1994 anno in cui viene fon-
dato l’IME al quale sarebbe succeduta la Banca Centrale Europea.
Questa seconda fase fu dedicata ai preparativi tecnici per la creazione
della moneta unica, all’applicazione della disciplina di bilancio e al
rafforzamento della convergenza delle politiche economiche moneta-
rie degli stati membri dell’UE. La BCE fu quindi ufficialmente istitui-
ta nel giugno 1998 e fino allo scadere dell’anno potè dare concreta at-
tuazione ai preparativi svolti dall’IME.
La terza e ultima fase fu avviata il primo gennaio 1999: i tassi di con-
versione tra le valute degli undici stati membri inizialmente parteci-
102
panti furono fissati in modo irrevocabile, l’euro venne introdotto quale
moneta comune e il consiglio direttivo della BCE assunse la compe-
tenza per la politica monetaria unica nell’area dell’Euro.
Il 1 gennaio del 1999 segnò quindi, l’inizio dell’EMU, quando 11 Sta-
ti, membri , avrebbero incominciato ad utilizzare l’Euro come mone-
ta legale. Diversamente dalle altre riforme monetarie, l’euro voleva
rimpiazzare le valute nazionali dei membri partecipanti. Quindi nel
Maggio del 1990, 11 stati membri avevano ricoperto i criteri per la co-
stituzione di un mercato unico e l’introduzione di una moneta unica, e
fu istituita la Banca Centrale Europea (BCE) .
Nel 2001 le banconote euro furono introdotte obbligatoriamente, e il
30 giugno del 2002 le banconote nazionali smisero di aver corso lega-
le.
L’ EMU comportò molte problematiche per l’FMI; tra queste proble-
matiche ci furono quella su come eseguire la sorveglianza su questa
nuova valuta, quella di stabilire se e come le risorse del fondo avreb-
bero dovuto essere messe a disposizione della CEE, come le quote di
partecipazione al Fondo avrebbero dovuto essere colpite, se il Special
Drawing Rights (SDRs) avrebbe dovuto essere ridefinito, e come
l’Euro avrebbe dovuto esser usato nelle operazioni del Fondo.
Anche con la creazione del’EMU, l’individualità dei singoli membri
che la compongono, non è stata intaccata all’interno del Fondo, cioè
103
ogni stato membro CEE all’interno del Fondo rappresentava in ogni
caso se stesso. La ragione principale di ciò stava nel fatto che gli stati
membri della CEE avevano ceduto al “livello soprannazionale” solo
una parte della loro sovranità. Il trasferimento di competenza avrebbe
soprattutto riguardato la politica dell’Unione Monetaria, che era com-
petenza esclusiva della BCE, ai tratta appunto della politica del tasso
di cambio, che sarebbe stata nelle mani del Ministro dell’Economia e
della Finanza e della BCE. I membri del’ EMU volevano mantenere la
loro responsabilità personale per le altre questioni politiche.
3.2 Contatti tra FMI e Unione Euro-
pea: Interventi del Fondo sull'econo-
mia della Comunità Europea e condi-
zioni accordate per ricevere finanzia-
menti alla luce della situazione di crisi
La crisi del 2007-2009, i cui effetti si fanno ancora sentire sulle econo-
mie di tutto il mondo, è considerata la più grave dal dopoguerra. Ri- 104
corrente è stato il paragone con la grande crisi del ’29. E’ verosimile
che i mercati finanziari e l’economia globale siano stati sull’orlo del
baratro se non fossero intervenute prontamente, e massicciamente, le
autorità monetarie di tutto il mondo. Si è così avviato un ampio pro-
cesso di riscrittura delle regole sui mercati e sugli intermediari finan-
ziari e si è ripreso a parlare di riforma dell’architettura finanziaria in-
ternazionale (nonché, immancabilmente di una nuova Bretton Woods).
Il G20,19 come gruppo di ministri delle finanze e dei governatori delle
banche centrali, si è consolidato nella funzione di principale direttorio
dove concordare le linee di azione di intervento strategiche e per il
FMI si è aperto un nuovo ciclo di riforme che ne ha potenziato le ri-
sorse, gli strumenti e la struttura di governance.
3.2.1 Periodo pre-crisi finanziaria
2004-2007
Negli anni 2004-2007 l’economia mondiale aveva raggiunto tassi di
sviluppo sorprendenti, del 4-5% annuo. A tale risultato avevano con-
19 Il Fondo Monetario Internazionale, Giuseppe Schiltzer, il Mulino (pag 117-121) 105
tribuito sia le economie avanzate sia quelle emergenti. Sembravano
definitivamente alle spalle le turbolenze legate alle crisi finanziarie.
Tutto ciò si rifletteva in una riduzione significativa dell’esposizione
del FMI nei confronti dei paesi membri: lo stock di crediti ordinari
(cioè non agevolati), in continua flessione dal 2003, toccava un mini-
mo storico a marzo 2008. Al contrario, nei mercati finanziari e immo-
biliari andavano accumulandosi posizioni e squilibri che presto si sa-
rebbero rivelati insostenibili. A cominciare dagli Stati Uniti dove una
politica pubblica tesa a favorire la proprietà immobiliare presso i ceti
meno abbienti, in un contesto di bassi tassi di interesse, faceva pro-
gressivamente lievitare il fenomeno dei mutui subprime.
Questi ultimi non sono altro che mutui offerti a categorie dal basso
merito di credito e, di fatto, venivano concessi a soggetti che non sa-
rebbero mai stati in grado di ripagare il debito. I mutui erano tipica-
mente offerti a tassi inizialmente molto vantaggiosi, fissi per i primi
anni del mutuo e poi variabili. Un riflesso di tale politica era stato il
boom del mercato immobiliare registrato tra il 1995 e il 2005, quando
il numero di case vendute negli Stati Uniti è raddoppiato e il valore
degli immobili era di molto cresciuto. 20Era entrato in moto un mecca-
nismo nel quale l’aumento del valore degli immobili, aumentando il
valore della garanzia, consentivano alle famiglie di prendere in presti-
20 Ivi. 106
to dalle banche somme più elevate, con ciò contribuendo a far salire
ulteriormente i prezzi delle abitazioni. L’aumento dei tassi di interesse
operato dalla Fed già nel 2004, nonché il calo dei valori immobiliari
iniziato nel corso del 2006, avrebbero presto messo a nudo l’insosteni-
bilità dell’intero meccanismo. Il tasso overnight sui fondi federali che
fa da riferimento per tutto il sistema, raggiunge a giugno 2006 il
5,25% e i tassi sui mutui subprime si adeguano velocemente ai nuovi
livelli. Cominciano i primi fallimenti tra le famiglie e ciò contribuisce
a ridurre il valore degli immobili. La crisi si diffonde. Un campanello
d’allarme si ha nei primi mesi del 2007-il tasso di insolvenza sui mu-
tui subprime ha intanto raggiunto il 15%- con le difficoltà della New
Century Financial Corporation. Si tratta di una piccola banca della Ca-
lifornia sconosciuta ai più, ma tra le maggiori ad operare nel segmento
dei subprime. Sebbene la New Century venga messa presto sotto in-
chiesta dalle autorità competenti e dichiari fallimento ad aprile, il se-
gnale viene largamente sottovalutato dalle autorità di vigilanza ameri-
cane, che ritengono trattarsi di un caso isolato.
Nell’agosto del 2007 viene sospesa l’attività di alcuni fondi europei di
investimento a carattere speculativo a causa dell’impossibilità di stabi-
lire il valore dei loro portafogli. E’ ormai evidente che la crisi non è
più appannaggio esclusivo degli Stati Uniti ma è di natura sistemica, e
che i mutui problematici sono molti di più di quanto si pensi. I mutui
107
infatti impacchettati in titoli complessi che vengono rivenduti da una
banca all’altra, tramite società veicolo create all’uopo, al fine di fra-
zionare il rischio. Ma nessun organismo di vigilanza o organizzazione
internazionale è in grado di quantificare l’esatto ammontare dei titoli a
rischio, a causa dell’estrema dispersione e opacità di tutto il meccani-
smo. Le difficoltà si propagano e il panico comincia a diffondersi sui
mercati; il mercato interbancario si blocca perché nessuna banca si
fida di prestare fondi alle altre. Il 9 agosto c’è un primo intervento
concentrato delle banche centrali per fornire liquidità al sistema. Ma a
settembre dello stesso anno la crisi si aggrava con le difficoltà della
banca britannica Northern Rock, che subisce una corsa agli sportelli
come non si vedeva da decenni. Nel giro di pochi mesi le autorità sa-
ranno costrette a ricorrere a una misura estrema: la nazionalizzazione
(febbraio 2008).
Che la crisi sia gravissima lo si cominciò a capire quando ne sono in-
vestiti i colossi della finanza americana, le storiche banche d’investi-
mento, che oltre a prestare fondi assistono le grandi imprese in tutte le
operazioni finanziarie complesse (fusioni e acquisizioni, emissioni di
debito, aumenti di capitale,ecc..). Bear Sterns, sull’orlo del fallimento,
viene acquisita dalla rivale JP Morgan21 nel marzo del 2008, ma in se-
ria difficoltà sono anche Merrill Lynch e Lehman Brothers. Intanto la
21 Usa, il governo fa causa alle banche: non sono state trasparenti su mutui. Repubblica. Esteri. 2 settembre 2011 108
crisi nel settore dei mutui si aggrava e vengono coinvolte le storiche
agenzie pubbliche Fannie Mae e Freddie Mac che annunciano gravi
perdite nei bilanci. Si tratta di due maxi-istituti di credito fondiario
creati dopo la Grande Depressione, molto conosciuti dagli americani
perché sono quelli che permettono di ottenere mutui-quelli normali,
non subprime a tassi vantaggiosi. Oltre il 50% dell’intero mercato dei
mutui negli Stati Uniti è in qualche modo riconducibile ad essi. Fon-
damento del sogno americano di possedere un’abitazione. Fannie Mae
e Freddie Mac non possono essere lasciati fallire: in settembre verran-
no commissariati e successivamente nazionalizzati.
Sempre a settembre Merrill Lynch viene acquisita da Bank of America
ma per Lehman Brothers il Tesoro americano decide di non interveni-
re: non vi è altra soluzione che il fallimento. Si scatena il panico sui
mercati, che temono un effetto domino e le autorità sono costrette a
nuovi interventi di emergenza. Entra in crisi anche il colosso assicura-
tivo Aig, che viene però soccorso dalle autorità americane, le quali vo-
gliono evitare una seconda Lehman. Altri operatori falliscono, mentre
in Europa la crisi investe alcuni tra i maggiori gruppi finanziari e im-
mobiliari. Non bastano più le politiche monetarie: vengono dappertut-
to rinforzati gli schemi a garanzia dei depositi e i governi varano piani
di intervento impegnando ingenti risorse pubbliche. Morgan Stanley e
Goldman Sachs, le sole grandi banche d’affari statunitensi rimaste in
109
vita, vengono trasformate in banche commerciali in modo da poterle
sottoporre alla normale vigilanza bancaria e consentire il loro accesso
agli sportelli della Fed. L’instabilità ha ormai contaminato altre regio-
ni-Europa dell’est, Medio Oriente, Asia e America Latina- e da finan-
ziaria la crisi si è trasformata in vera e propria crisi reale: il commer-
cio mondiale del 2009 accuserà un crollo del 10,7%, il più grave dal
dopoguerra. I paesi maggiormente in difficoltà sono costretti a ricorre-
re a prestiti di emergenza del FMI per valori intorno al 10% dei rispet-
tivi PIL, ben oltre il valore delle proprie quote presso il FMI.
Nella primavera del 2009 i mercati finalmente si stabilizzarono grazie
agli interventi delle autorità, ma è vera e propria recessione. Nell’anno
il PIL mondiale si contrae dello 0,6%, quello delle economie avanzate
addirittura del 3,2%; nel Regno Unito e in Giappone si registrarono
cali nell’ordine del 5%. Sul finire del 2009 nuove tensioni emergono
sui titoli di stato di alcuni paesi europei, la Grecia in primo luogo, a
causa della difficile situazione delle finanze pubbliche e del conse-
guente declassamento deciso dalle agenzie di rating. Arriva inoltre, il
caso di Dubai World, colosso statale che opera in vari settori del pic-
colo stato mediorientale, dall’immobiliare all’energetico, al finanzia-
mento. Nei mesi successivi tuttavia le politiche monetarie e fiscali di
tutto il mondo vengono mantenute largamente espansive. Nella prima-
vera del 2010 tuttavia la crisi della Grecia arriva a un punto di non ri-
110
torno. Anche per evitare il contagio ad altri paesi dell’Unione (Porto-
gallo, Irlanda e Spagna) a maggio l’UE approva, insieme al FMI, un
piano di salvataggio a favore della Grecia per complessivi 110 miliardi
di euro (80 a carico dell’Unione e 30 a carico del FMI)
3.2.2 Crisi finanziaria 2008-2013
La crisi economica del 2008-2013 ha avuto avvio nel 2008 in tutto il
mondo in seguito ad una crisi di natura finanziaria (originatasi negli
Stati Uniti con la crisi dei subprime). Viene considerata dagli econo-
misti come una delle peggiori crisi economiche della storia, seconda
solo alla Grande Depressione iniziata nel 1929. Alla crisi finanziaria
scoppiata nel 2007 son seguite una recessione, iniziata nel secondo tri-
mestre del 2008 e una grave crisi industriale scoppiata nell’autunno
dello stesso anno con una forte concentrazione della produzione e de-
gli ordinativi. L’anno 2009 ha poi visto una crisi economica generaliz-
zata, pesanti recessioni e vertiginosi crolli di Pil in numerosi paesi del
mondo e specialmente nei paesi del mondo occidentale. Tra la fine del
2010 si è verificata una parziale ripresa economica.
Tra il 2010 e il 2011 si è conosciuto l’allargamento della crisi ai debiti
sovrani e alle finanze pubbliche di molti paesi soprattutto ai paesi del-
111
l’Eurozona (impossibilitati ad operare manovre sul tasso di cambio o
ad attuare politiche di credito espansive e di monetizzazione) che in
alcuni casi hanno evitato l’insolvenza sovrana (Portogallo, Irlanda;
Grecia) grazie all’erogazione di ingenti prestiti da parte del’Fondo
Monetario Internazionale (FMI) e dell’Unione Europea (UE) denomi-
nati ‘piani di salvataggio’, volti a scongiurare possibili default, a prez-
zo però di politiche di bilancio fortemente restrittive sui conti pubblici
(austerità) con freno a consumi e produzione e alimentazione della
spirale recessiva.
La situazione in Europa sviluppò sia un tentativo di salvataggio delle
banche da parte del Governo Europeo che la generalizzata presenza
nelle banche di asset "tossici" che favorì l'allargamento della crisi, in-
taccando direttamente anche diversi paesi europei: le borse del vec-
chio continente accumularono sin dallo scoppio della crisi molteplici
perdite. La crisi dei mutui toccò per prima la Northern rock, quinto
istituto di credito britannico, specializzato nei mutui immobiliari. A
metà settembre del 2007, la diffusione della notizia che la banca non
sarebbe stata in grado di ripagare i suoi clienti a causa dell'impossibili -
tà di rifornirsi sul mercato interbancario, innescò il panico tra i rispar-
miatori che presero d'assalto gli sportelli nel tentativo di recuperare i
propri depositi.
112
La Banca d'Inghilterra e Financial Service Authority (FSA), l'ente che
controlla il settore creditizio, diffusero proclami che invitavano alla
calma i correntisti. Secondo i quotidiani britannici Northern rock ave-
va continuato tuttavia a concedere ai clienti prestiti sino a cinque volte
l'ammontare dei salari e fino al 125% del valore delle case, nonostante
tutti gli avvertimenti sull'instabilità economica e il possibile crollo del-
le quotazioni degli immobili. La Banca centrale britannica procedette
quindi alla nazionalizzazione dell'istituto impegnando circa 110 mi-
liardi di sterline. L'intervento della Banca d'Inghilterra fu poi all'intero
sistema bancario, attraverso interventi di ricapitalizzazione e acquisti
ingenti di bond a favore di vari istituti.
A beneficiare degli aiuti di stato sono stati anche altri due grandi gros -
si gruppi finanziari: Dexia e Fortis. La prima, banca specializzata nei
prestiti alle collettività locali, finanziandosi in gran parte a breve ter-
mine, vendendo obbligazioni agli investitori o indebitandosi verso al-
tre banche, si trovò particolarmente esposta alla crisi del credito e al
clima di sfiducia tra gli istituti finanziari non più disposti a prestarsi
denaro tra loro. Il governo belga intervenne per primo iniettando liqui-
dità per tre miliardi di euro insieme agli azionisti belgi. Anche il go-
verno francese, in parte attraverso Cdc, la Cassa Depositi transalpina a
controllo statale, intervenne riservandosi una parte consistente del ca-
pitale della banca.
113
Il Lussemburgo partecipò al piano di salvataggio con una relativamen-
te piccola quota di capitale. Anche il gruppo bancario belga-olandese
Fortis subì una parziale nazionalizzazione. Pesantemente danneggiata
a fine settembre dal crollo della borsa, ricevette il soccorso dei governi
di Belgio, Olanda e Lussemburgo.
La valutazione al ribasso delle stime sulla solidità di Hypo Real Estate
e la conseguente richiesta di rifusione da parte dei creditori causò il ri-
schio di tracollo dell'istituto tedesco. Guidata dal governo di Berlino,
dalla Banca centrale tedesca e dalla BaFin, l'authority tedesca di con-
trollo dei mercati finanziari, il piano di salvataggio della HRE fu il più
grande della storia tedesca. Il governo tedesco intervenne anche su Sa-
chsen Lb, West Lb e Ikb, optando per una strategia diretta ad assicura-
re la capitalizzazione di banche e compagnie assicurative e la garanzia
sui titoli di nuova emissione. Altri piani di salvataggio vennero predi-
sposti da Svezia, Danimarca, Portogallo, Grecia e Olanda.
I tre maggiori mercati bancari europei beneficiati dagli aiuti furono
quelli Germania, Francia e Gran Bretagna. Ai dieci maggiori istituti di
credito europei furono destinati 620 miliardi. In totale è stato calcolato
che il costo dei salvataggi bancari nel mondo produsse un aumento del
debito consolidato dei paesi del G7 (dove era compresa anche l'Italia)
di 18.000 miliardi di dollari, fino a un livello di indebitamento mai
toccato di 140.000 miliardi. Dell'ammontare totale dei 18.000 miliardi,
114
5.000 miliardi furono il prodotto dell'azione delle banche centrali del
G7 (ossia Fed, Banca del Giappone, Banca d'Inghilterra e Bce).
Esattamente il 2 maggio 2010 venne varato un finanziamento da 110
miliardi di euro alla Grecia, in cambio di forti interventi di austerità da
parte del governo greco, appoggiato dall’Unione Europea e dal Fondo
Monetario Internazionale dopo che l’euro era già sceso sotto un cam-
bio di 1,3 contro il dollaro. Dopo un venerdì terribile,l'8 maggio, i ver-
tici Ecofin annunciarono il lunedì successivo la creazione di un fondo
europeo da circa 750 miliardi di euro per il sostegno dell’Eurozona.-
Fonti vicine al vertice tra ministri e Fondo Monetario Internazionale
hanno detto al Times che il piano in gestazione avrebbe tre aspetti: la
ricapitalizzazione delle banche europee vulnerabili, il fondo di bailout
da 440 miliardi, innalzato fino a tremila miliardi e il default pilotato
della Grecia, consentendo al paese di rimanere all'interno della Euro-
zona. 22“La questione non è più se la Grecia andrà in default quanto
assicurare che ci sia la potenza di fuoco finanziaria per far fronte a
un default e assicurare che il contagio non si diffonda attraverso l'Eu-
rozona quando succederà”, ha detto, parlando da Washington, Gerard
Lyons, chief economist della banca Standard Chartered. Tanto più im-
portante quindi, cercare di costruire una sorta di Tarp (Troubled asset
relief program era il nome del programma costruito dopo la crisi Leh-
22 L'economia europea, di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan, il Mulino 115
man in Usa da Tim Geithner) per l'Europa. Ma, secondo quanto ha af-
fermato il responsabile per l'Europa del FMI Antonio Borges, è essen-
ziale che anche l'Europa faccia la sua parte per salvarsi e riesca a su-
perare la palude degli interessi particolari. Il piano prevedeva, per la
prima volta nella storia dell'Europa, prestiti bilaterali dagli stati della
zona euro per 440 miliardi, 60 di fondi del bilancio Ue e fino a 250
miliardi di contributi prestati dal FMI (pari a un terzo del totale), non-
chè la possibilità (mai avvenuta in passato) di intervento della BCE, in
grado agire sul mercato secondario dei titoli di stato acquistando ob-
bligazioni pubbliche.
Il crollo degli indici borsistici della seduta dell'8 maggio aveva mo-
strato come il caso della Grecia pesasse sul futuro stesso della tenuta
dell'unione monetaria europea. I dubbi del governo di Berlino e i timo-
ri di un allargamento del "contagio" ad altri stati periferici come il
Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e, dopo che la si era ritenuta inattacca-
bile, anche l’Italia finirono per generare il panico nei mercati.
Presto, l'inefficacia dei piani di austerità e la profonda crisi dell'econo-
mia del paese (il debito in rapporto al Pil salì rapidamente al 160%),
indussero l'Institute of international finance (IIF), la BCE e l'UE ad
avviare complesse trattative per la ristrutturazione (riduzione) del de-
bito greco, decidendo il coinvolgimento del settore privato (banche,
fondi d’investimento, fondi pensioni e hedge fund), ormai anche di-
116
sposto a un severo "haircuit" (taglio) dei bond greci impossibili da
rimborsare per le finanze elleniche, di cui larghe posseditrici appariva-
no numerose banche francesi e tedesche. Il 26 ottobre 2011 si decise
un abbattimento forfettario del debito del 50% a carico dei creditori
privati. Alla vigilia del vertice del G20 convocato a Cannes per il 3 e 4
novembre Papandreou rese nota la volontà da parte sua di indire un re-
ferendum sull'accordo europeo per il salvataggio del paese. Pochi
giorni prima lo stesso Papandreou aveva operato la sostituzione im-
provvisa dei vertici delle forze armate, secondo alcuni, nel timore di
possibili golpe.
La diffusione della notizia del referendum portò a un'ondata di vendite
sul mercato borsistico. Pochi giorni dopo il premier greco rassegnerà
le dimissioni, venendo sostituito da un ex membro della Bce,Luca
Papademos, sostenuto da una maggioranza parlamentare e trasversale.
Le trattative per l'abbattimento del debito (o per un "default controlla-
to", come è stato definito) proseguirono per diversi mesi e tra difficol-
tà, innescando timori sulle borse, soprattutto per la possibilità che il
taglio del debito potesse non essere sufficiente ad evitare l'insolvenza
delle casse greche; inoltre nuove misure economiche e riforme venne-
ro richieste, soprattutto dalla Germania, al governo23 Papademos a
condizione dell'ottenimento di un secondo piano di assistenza finan-
23 Matthew Higgins, Thomas Klitgaard, Saving Imbalances and the Euro Area Sovereign Debt Crisis in Current Issues in Economics and Finance, vol.17, nº5, 2011.
117
ziaria, approvate in definitiva dal parlamento greco a febbraio 2012
(con tagli dei salari minimi e messa in mobilità di 15.000 statali). Nel-
la notte del 21 febbraio infine, l'Eurogruppo, raggiunto un accordo con
I'IIF per un taglio del valore nominale dei titoli greci del 53,5% (che
saliva in termini reali a un valore vicino al 75%) e di una riduzione del
debito greco di circa 100 miliardi, concesse con riserva un prestito di
130 miliardi alla Grecia evitandone l’insolvenza. Lo stato greco in
cambio fu costretto ad accettare un controllo più stringente dei bilanci
da parte della Troika (UE, BCE, FMI), con il rafforzamento della mis-
sione dei contabili della Commissione e del Fondo monetario presso
Atene.L'operazione di finanziamento venne confermata con l'adesione
allo swap da parte dei creditori (nella misura del 95%) il 9 marzo.
3.2.3 G20 di Londra del 2009
La riflessione su come evitare il ripetersi in futuro di episodi di insta-
bilità di tale portata ha dato corso, a livello sia nazionale sia sovrana-
zionale, a passaggi molto importanti. Sul piano formale, va evidenzia-
ta l’affermazione del G20 quale principale “direttorio” del sistema
monetario e finanziario internazionale, in sostituzione del G7/G8. Il
gruppo riunisce, sia a livello di capi di stato che di ministri delle Fi-
118
nanze e Governatori delle banche centrali, 19 paesi più l’Unione Euro-
pea. Il FMI partecipa alle riunioni del G20, il che dà la possibilità al
Direttore generale, per la prima volta nella storia dell’organizzazione,
di interloquire regolarmente con capi di stato e di governo di econo-
mie sistemiche.
Nel summit tenutosi nel 2008 a Washington i Leaders del Gruppo dei
20 presero in considerazione sfide realmente concrete per l’economia
mondiale e per il mercato finanziario. Il gruppo dei G20 si dichiarò
molto determinato nel cooperare e lavorare insieme per realizzare ri-
forme necessarie al sistema finanziario mondiale.
Ciò che fu di principale discussione, fu come intervenire sulla immi-
nente crisi economica mondiale che aveva comportato nel 2008 l’ap-
plicazione di misure straordinarie alle economie dei paesi facenti parte
del G20, per supportare l’economia mondiale e stabilizzare i mercati
finanziari. Si stabilì che queste misure devono continuare e si deve
fare in modo che una crisi del genere si verifichi nuovamente. Stabili-
rono inoltre che i ministri della finanza lavoreranno per portare avanti
le linee guida da loro stabilite durante questo incontro che riguardava-
no: azioni volte a stimolare l’economia mondiale, a incrementare la li-
quidità, a rafforzare il capitale delle istituzioni finanziarie, a protegge-
re i risparmi e i depositi,a indirizzare i deficit regolatori, a congelare il
credito dei mercati e hanno lavorato per assicurare che le istituzioni fi-
119
nanziarie internazionali possono provvedere un supporto critico all’e-
conomia mondiale.
I nostri ministri della finanza lavoreranno, quindi, per assicurarsi la
riuscita di tali obiettivi e saranno responsabili per lo sviluppo e l’in-
cremento di queste raccomandazioni, disegnate sul lavoro in corso di
rilevanti istituzioni come l’FMI.
Il FMI espanse il Financial Stability Forum e fu incrementato il suo
controllo su altre istituzioni; fu stabilito che quest’ultimo, data la sua
universale collaborazione e messi a disposizione esperti di finanza
macroeconomica, dovrebbe, in stretta collaborazione con il FSF e altre
istituzioni, prendere un ruolo predominante nella crisi attuale. Venne
inoltre stabilito di prendere visione delle risorse del FMI e del World
Bank Group e altre banche e stare pronti a incrementarle dove neces-
sario, cioè effettuare gli interventi necessari.
Il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe condurre una sorveglian-
za di tutti i paesi, dando una maggiore attenzione al loro settore finan-
ziario e integrando il controllo con l’aiuto della World Bank.
In seguito a ciò i leader di Francia, Germania, Italia e Regno Unito,
ossia dei 4 paesi dell'Unione Europea facenti parte del G-20, assieme a
quelli dei due paesi esterni più importanti (Spagna e Paesi Bassi) si in-
contrarono a Berlino il 22 febbraio 2009 per preparare il Summit di
120
Londra e per coordinare le loro azioni. L'incontro fu stato organizzato
dal cancelliere tedesco Angela Merkel.
Venne deciso che i mercati, le istituzioni finanziarie e gli assetti finan-
ziari creati su larga scala, nonché i fondi speculativi, dovranno essere
soggetti a controlli appropriati. Inoltre, furono chieste sanzioni severe
contro i paradisi fiscali, nonché contro i paesi che ne ostacolano la
scoperta. Infine, venne chiesto il raddoppio dei fondi disponibili del
FMI.
I Ministri delle Finanze e le Banche centrali dei G-20 si incontrarono
ad Horsham il 14 marzo 2009, per preparare il Summit di Londra. Per
spronare la crescita globale il più in fretta possibile, i partecipanti de-
cisero di approvare azioni coordinate e decise per stimolare la doman-
da dei mercati e l'assunzione dei lavoratori. Inoltre, fu deciso di com-
battere ogni forma di protezionismo e mantenere stabili il commercio
e gli investimenti stranieri.
I partecipanti decisero inoltre di mantenere le scorte di credito introdu-
cendo ulteriore liquidità e ricapitalizzando il sistema bancario, e di im-
plementare rapidamente i piani di stimolo. Le banche centrali decisero
di mantenere una politica di tassi bassi per tutto il tempo che si sareb-
be rivelato necessario. Infine, i leader decisero di aiutare i paesi emer-
genti ed in via di sviluppo attraverso un potenziamento del FMI.
121
Per rafforzare il sistema finanziario, i partecipanti proposero di regola-
re in modo appropriato tutte le principali istituzioni finanziarie, regi-
strare tutti i fondi speculativi o i loro manager e costringerli a fornire
informazioni appropriate sui rischi che corrono gli investitori. Fu pro-
posto inoltre di implementare la regolazione per prevenire rischi ai si-
stemi ed eventuali freni ai cicli economici, incluse limitazioni del rap-
porto di indebitamento, che amplifica i suddetti cicli.
Infine, furono annunciate nuove misure per prevenire e risolvere le
crisi, attraverso il rafforzamento del FMI e del FSF.
A Londra, il 2 aprile 2009 e a Pittsburg, nel settembre dello stesso
anno, proprio il G20 ha approvato una serie di decisioni molto impor-
tanti nell’azione di contrasto alla crisi, tra cui : a)la triplicazione delle
risorse a disposizione del FMI per finanziamenti ordinari, da 250 a
750 miliardi di dollari; b) una nuova allocazione di dsp, per un contro-
valore di 250 miliardi di dollari (di cui 100 a favore di Pvs e mercati
emergenti), in modo da aumentare la liquidità internazionale.
La riforma complessiva degli strumenti del FMI avvenuta nel 2009 ha
dato vita alla Flexible Credit Line (Fcl), un nuovo sportello finanziario
da utilizzare ai fini preventivi ed attualmente è il principale strumento
di intervento a fini preventivi di cui il FMI dispone. La Fcl permette
esborsi elevati e rapidi da rimborsare entro cinque anni e può essere ri-
chiesta solo da paesi con una posizione economico-finanziaria solida e
122
politiche considerate rigorose dal FMI. E’ incorso anche un rafforza-
mento del Financial Sector Assessment Program(FSAP), fondato nel
1999, è un'analisi completa e approfondita del settore finanziario di un
paese; l’idea è quella di applicarlo all’intera membership, con partico-
lare riguardo alle economie di rilevanza sistemica.
Uno degli accordi generali del summit di Londra fu quello che dimi-
nuiva la predominanza statunitense e che rigirava le responsabilità dei
singoli governi negli affari, infatti la direzione in cui ci si muove è
quella di garantire un peso maggiore alle economie emergenti: in base
a quanto sinora approvato, questo dovrebbe aumentare di circa 5-6
punti percentuali la categoria nel suo complesso. Si discute anche di
modificare la composizione e il funzionamento del Consiglio di Am-
ministrazione e di coinvolgere maggiormente i Governatori nelle que-
stioni strategiche. Secondo Robert Hormats, vice presidente della
Goldman Sachs International, Gli Stati Uniti stanno diventando meno
dominanti mentre altre nazioni stanno guadagnando influenza.
123
3.4 La proposta di creare un
fondo monetario europeo
24Tra le questioni maggiormente discusse in occasione della grave cri-
si che ha interessato la Grecia, di particolare rilevanza è stata la crea-
zione di un Fondo Monetario per l’Europa. Va detto che l’episodio
greco ha costituito uno dei banchi di prova più importanti per il grado
di coesione interno dell’Unione. Un default della Grecia avrebbe infat-
ti rischiato, secondo molti, di compromettere definitivamente l’euro.
Così l’Europa si è mossa in soccorso della Grecia approvando il piano
salvataggio di 80 miliardi di euro, con supporto del FMI di 30 miliar-
di. Ci sono state numerose remore nei confronti di un intervento ester-
no del FMI, ma ci si è resi subito conto che l’Europa non dispone di
meccanismi di intervento adatti ad affrontare i defaults sovrani. I moti-
vi sono vari. In primo luogo per affrontare crisi di dimensioni rilevanti
non basta la politica monetaria: occorre mettere in campo piani di sal-
vataggio che impegnino risorse pubbliche. E l’Unione è molto debole
sul piano fiscale. 25In secondo luogo, gli interventi devono essere ef-
24 Fascicolo del Settembre 1980 della Review della Banca Nazionale del Lavoro ha pubblicato gli atti di un convegno organizzato a Ginevra nel dicembre 1979 sul tema ''Il Fondo Monetario Europeo''
25 Tratto dall'allegato alle Conclusione della Presidenza del Consiglio Europeo, Luglio 1978. 124
fettuati con la massima rapidità possibile per poter essere efficaci. In-
fine, è necessario che l’accesso ai fondi da parte del paese membro in
difficoltà sia sempre condizionato all’adozione di un programma di
stabilizzazione e rientro (come avviene per i finanziamenti del FMI) e
che questo sia approvato dall’Unione. Diversi politici e alti funzionari
europei si sono da subito espressi in favore della creazione di un fondo
monetario per l’Europa o anche solo per i paesi dell’eurozona. Gli
sprechi suggeriscono la creazione di un European Monetary Fund
(EMF) in grado di agire nella veste di prestatore in ultima istanza al
pari del FMI. La novità della proposta sta nel meccanismo di contribu-
zione al Fondo: infatti l’onere ricadrebbe solo sui paesi membri che
violano i criteri di Maastricht. La proposta prevede che ogni paese
membro possa attingere fondi per un’entità non superiore ai contributi
versati, previa approvazione di un programma di aggiustamento da
parte dell’Eurogruppo. Prevede anche la possibilità di un vero e pro-
prio default nel caso in cui il paese non riesca ad ottemperare alle con-
dizioni previste al programma di aggiustamento, mantenendo però
condizioni di mercato ordinate (orderly default). La proposta ha fatto
molto discutere. Un passo in direzione dell'EMF è stato compiuto il 10
maggio del 2010, quando l’Unione ha messo in piedi un meccanismo
di mutuo soccorso che dovrà fungere da “rete di protezione” per l’in-
tera europa. Sono a disposizione fino a 500 miliardi di euro da utiliz-
125
zarsi in favore dei paesi membri in grave difficoltà economica o fi-
nanziaria, purché derivante da circostanze eccezionali e al di fuori del
loro controllo. I finanziamenti sono concessi alle medesime condizioni
e modalità di un prestito del FMI. Quest’ultimo ha peraltro dichiarato
la sua disponibilità a partecipare agli eventuali interventi che si ren-
dessero necessari, fornendo un sostegno finanziario aggiuntivo.
3.5 Il Meccanismo Europeo di
Stabilità
Il 17 dicembre 2010 il Consiglio europeo ha concordato sulla necessi-
tà per gli Stati membri della zona euro di istituire un meccanismo per-
manente di stabilità. 26Il presente meccanismo europeo di stabilità
(MES) a partire dal 1 luglio 2012 ha sostituito e assunto il compito at-
tualmente svolto dal Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF) e
dal meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (EFSM). Tutta-
via si è stabilito che i 17 paesi membri dell’eurozona avrebbero avuto
accesso al MES solo se firmatari del Trattato sulla stabilità (1 marzo
2012), sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e
26 Consiglio Europeo - T/MES 2012 126
monetaria, noto come Fiscal Compact. Mentre la partecipazione degli
altri 10 paesi dell’Unione Europea rimane su base volontaria.
E’ opportuno ricordare in questa sede che il MES, concettualmente
ispirato al FMI, è stato dotato di un capitale di 700 milioni di euro di
cui può disporre mediante prestiti 27(art 16), linee di assistenza finan-
ziaria precauzionale (art14), prestiti agli stati membri per la ricapita-
lizzazione delle istituzioni finanziarie (art15), nonché ai fini dell’ac-
quisto di obbligazioni sia sul mercato primario che secondario (art 17
e 18). Il MES opera in ogni caso sulla base di una stretta condizionali-
tà che può assumere molteplici forme: dagli aggiustamenti di tipo ma-
croeconomico al rispetto di condizioni di ammissibilità prestabilite
(art 12).
In conclusione, il MES coopera strettamente con il Fondo monetario
internazionale (FMI) nel forni-re un sostegno alla stabilità finanziaria
dell’eurozona e la partecipazione attiva del FMI è prevista sia a livello
tecnico che finanziario. Anzi, lo Stato membro della zona euro che ri-
chiederà l’assistenza finanziaria dal MES dovrà rivolgere, ove possibi-
le, richiesta analoga al FMI.
27 T/ESM 2012 ''TRATTATO CHE ISTITUISCE IL MECCANISMO EUROPEO DI STABILITÀ TRA IL REGNO DEL BEL-GIO, LA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA LA REPUBBLICA DI ESTONIA, L’IRLANDA, LA REPUBBLICA EL-
LENICA, IL REGNO DI SPAGNA, LA REPUBBLICA FRANCESE, LA REPUBBLICA ITALIANA, LA REPUBBLICA DICIPRO, IL GRANDUCATO DI LUSSEMBURGO, MALTA, IL REGNO DEI PAESI BASSI, LA REPUBBLICA D’AUSTRIA, LA
REPUBBLICA PORTOGHESE, LA REPUBBLICA DI SLOVENIA, LA REPUBBLICA SLOVACCA E LA REPUBBLICA DIFINLANDIA''
127
In linea con la prassi del FMI, in casi eccezionali si prende in consi-
derazione una forma adeguata e proporzionata di partecipazione del
settore privato, soprattutto quando si tratta di finanziare pro-grammi di
aggiustamento macroeconomico.
In modo del tutto analogo ai prestiti del FMI, i capi di Stato o di go-
verno sono costretti a concedere lo status di creditore privilegiato ai
prestiti del MES, pur accettando che lo status di creditore privilegiato
del FMI prevalga su quello del MES. Ciè significa che lo stato aderen-
te al MES decide per tutto il periodo di durata del prestito di rinuncia-
re al finanziamento dei mercati internazionali tramite l’emissione dei
titoli di stato, perchè nessun investitore sano di mente presterebbe i
suoi soldi ad uno stato sapendo che il suo prestito verrebbe rimborsato
sempre dopo quelli del FMI e del MES.
Al pari di una qualsiasi altra banca il MES è dotato di un consiglio dei
governatori (equivalente al sindacato degli azionisti) e di un consiglio
di amministrazione, nonchè di un direttore generale e dell'altro perso-
nale ritenuto necessario.
Come abbiamo già detto i 17 governatori sono nominati direttamente
dagli stati e dai governi dei paesi membri del MES e ogni governatore
potrà a sua volta nominare “un amministratore e un amministratore
supplente tra persone dotate di elevata competenza in campo econo-
mico e finanziario”.
128
Il consiglio dei governatori ha anche il compito di nominare il diretto-
re generale fra i candidati a-venti la nazionalità di un membro del
MES e il suo mandato sarà di cinque anni rinnovabile una sola volta.
Il direttore generale decade comunque dalle sue funzioni qualora lo
decida il consiglio dei governatori.
A differenza del consiglio dei governatori della BCE dove ogni paese
rappresenta un voto, nel MES il meccanismo di voto è basato sulle
quote di partecipazione al capitale sociale, dato che per tutte le deci-
sioni più importanti dei governatori o degli amministratori è necessa-
ria la presenza di un quo-rum di due terzi dei membri aventi diritto di
voto che rappresentino almeno i due terzi dei diritti voti. Il numero dei
diritti di voto di ciascun paese membro del MES, rappresentato fisica-
mente dal governatore o dall’amministratore delegato, è pari al nume-
ro di quote versate e assegnate a tale membro sul totale del capitale.
E’ previsto anche un meccanismo di votazione d'urgenza nei casi in
cui la Commissione europea o la BCE, in base ai loro elementi di in-
formazione, concludano che è necessaria la concessione di un prestito
o l'attuazione di assistenza finanziaria per un dato paese. In caso di
mancato pagamento, da parte di un paese membro del MES, di una
rata del prestito da rimborsare o di una quota del capitale ancora da
versare i governatori o gli amministratori di questo paese membro non
129
potranno più esercitare i propri diritti di voto per l’intera durata di tale
inadempienza.
Per consentire l’integrazione del MES all’interno degli altri trattati eu-
ropei, il 25 marzo 2011 il Consiglio europeo presieduto da Herman
Van Rompuy ha disposto la modifica dell’articolo 136 Del Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea inserito nel titolo VIII (‘Politica
economica e monetaria’), capo 4, (‘Disposizioni specifiche agli Stati
membri la cui moneta è l’euro’) includendo questo paragrafo: "Gli
Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo
di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabili-
tà dell'intera zona euro. La concessione di qualsiasi assistenza finan-
ziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una ri-
gorosa condizionalità."
La modifica di tale articolo comporta in primo luogo un obbligo di ra-
tifica da parte dei paesi membri e, in secondo luogo, che ogni stato
possa decidere autonomamente la metodologia di modifica consistente
in referendum o percorso parlamentare. L’articolo in esame prevede
inoltre che il Con-siglio possa adottare misure concernenti gli Stati
dell’area euro per rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della
disciplina di bilancio e/o per elaborare gli orientamenti di politica eco-
nomica compatibili con quelli adottati per l’insieme dell’Unione. La
modifica, introdotta mediante la decisione del Consiglio europeo, in-
130
serisce nella norma un terzo paragrafo ai sensi del quale gli Stati del-
l’area euro “possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare
ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel
suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria neces-
saria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condi-
zionalità”.
La ratio dell’emendamento è evidentemente quella di disciplinare il
caso della inoperatività della clausola di divieto di salvataggio conte-
nuta nell’art 125 TFUE che come sopra rilevato, si verifica allorchè
gli effetti della crisi del debito di uno stato membro rischino di propa-
garsi nell’intera area euro. La disposizione infatti definisce i termini di
un intervento di sostegno finanziario da parte de-gli Stati membri del-
l’euro in favore di un partner, qualora la crisi di bilancio di quest’ulti-
mo rischi di avere effetti sistemici, ossia metta in pericolo “la stabilità
dell’area euro nel suo insieme”. Il problema giuridico principale posto
da questo emendamento e dal Trattato MES che vi ha dato seguito è
rappresentato dal loro coordinamento con l’art 125 TFUE. In effetti,
mentre quest’ultima disposizione mira, come visto, a sottoporre gli
Stati alla disciplina del mercato, escludendo fenomeni di moral ha-
zard, la nuova disciplina posta dall’art 136 TFUE e dal MES sembra
allentare tale disciplina, giacche la prospettiva di un aiuto da parte de-
gli altri Stati dell’area euro nel caso di rischi di crisi sistemica aumen-
131
ta la possibilità che le politiche economiche squilibrate di uno o più
Stati non vengano adeguatamente punite dal mercato mediante l’incre-
mento dei tassi di interesse.
La questione peraltro è stata posta alla Corte di giustizia nel quadro di
un rinvio pregiudiziale diretto ad accertare la compatibilità con i trat-
tati sui quali è fondata l’Unione della decisione del Consiglio europeo
di modifica dell’art 136 TFUE e del MES. Nella sentenza Pringle, resa
il 27 novembre 2012, la Corte è giunta alla conclusione che non vi è
conflitto tra le due disposizioni mediante un’interpretazione teleologi-
ca della clausola di ‘non salvataggio’.
Anzitutto la Corte ha sostenuto che l’art 125 TFUE non è diretto a vie-
tare all’Unione e ai suoi Stati membri qualsiasi forma di assistenza fi-
nanziaria di un altro Stato membro. Ciò deriverebbe da due considera-
zioni. Da un lato, se l’art 125 TFUE vietasse qualsiasi assistenza fi-
nanziaria, l’art 122 TFUE, che come visto prevede una tale assistenza
in determinate circostanze, avrebbe dovuto precisare che esso costitui-
sce una deroga a detta norma. Dall’altro, l’art 123 TFUE il quale come
accennato vieta alla BCE e alle banche centrali degli Stati membri di
concedere scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione cre-
ditizia, sarebbe formulato in termini più rigorosi di quelli della clauso-
la di ‘non salvataggio’ prevista all’art 125 TFUE; pertanto il divieto
contenuto in quest’ultimo non avrebbe portata assoluta
132
In secondo luogo, riconoscendo che l’obiettivo dell’art 125 TFUE
consiste nel garantire che gli Stati membri restino soggetti alla logica
del mercato allorquando contraggono debiti, la Corte ha ritenuto che
tale norma non vieta la concessione di un’assistenza finanziaria se le
condizioni collegate a siffatta assistenza sono tali da stimolare lo Stato
beneficiario all’attuazione di una politica di bilancio virtuosa. Ad av-
viso della Corte, le condizioni di assistenza previste dal MES rispon-
dono a questo requisito, in ragione di tre ordini di rilievi. Primo: nono-
stante l’intervento del MES, lo Stato beneficiario dell’assistenza rima-
ne responsabile dei propri debiti nei confronti dei propri debitori, ed
anzi assume o un nuovo debito nei confronti del MES che dovrà esse-
re rimborsato maggiorato di un margine adeguato, ovvero le obbliga-
zioni di pagamento connesse ai titoli di debito acquistati dal MES. Se-
condo: il MES non prevede un sostegno fin dal momento in cui uno
stato incontra difficoltà a trovare un finanziamento sul mercato, bensì
stabilisce che tale sostegno venga accordato sola-mente se a) lo Stato
già si trova o rischia di trovarsi in gravi problemi finanziari, b) risulti
indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro
nel suo complesso ed, infine, c) lo Stato beneficiario accetta le rigoro-
se condizioni economiche dirette a garantire il perseguimento di una
politica di bilancio virtuosa. Terzo: le regole di raccolta di capitale
previste dal MES sono tali per cui nel caso di mancato versamento da
133
parte di uno stato membro, gli altri stati non si fanno garanti di que-
st’ultimo, che pertanto resta tenuto a versare la sua parte di capitale.
Le suddette argomentazioni ci sembrano più dettate dal comprensibile
obiettivo politico di consentire la creazione di uno strumento finanzia-
rio per la stabilità dell’area euro che da una rigorosa interpretazione
della lettera e della ratio economica dell’art. 125 TFUE.
Anzitutto ci pare debole la prima serie di considerazioni, relativa alla
portata del divieto contenuto nella norma suddetta. Sul rapporto tra
l’art. 122 e l’art.125 TFUE, la Corte sostiene che la circostanza che il
primo non affermi esplicitamente di rappresentare una deroga del se-
condo significa che quest’ultimo non esprime un divieto assoluto di
assistenza finanziaria. Tuttavia, alla Corte sembra sfuggire che la natu-
ra delle due disposizioni e’ profondamente diversa; l’art. 122 TFUE
prevede una assistenza finanziaria nel caso di rischi non provocati dal
beneficiario della stessa ( eventi naturali o circostanze che sfuggono al
controllo dello Stato), mentre l’art. 125 TFUE disciplina l’ipotesi in
cui i rischi siano collegati ad una condotta volutamente tenuta dallo
Stato (impegni finanziari assunti da quest’ultimo). Dunque, tra le due
disposizioni non sussiste un rapporto tale da poter impiegare l’una
(art. 122 TFUE) per interpretare l’altra (art. 125 TFUE). Senza contare
che - anche rimanendo sul piano interpretativo scelto dalla Corte il
rapporto tra regola generale e deroga non deve essere necessariamente
134
esplicito. -Anche la considerazione relativa al linguaggio usato nel-
l’art.125 TFUE,che sarebbe meno rigoroso rispetto a quello impiegato
nell’art.123 TFUE, non e’ convincente. Infatti , per un verso non
e’chiaro a quale più rigorose espressioni si riferisca la Corte, per l’al-
tro e’ evidente che si si considera il diverso oggetto nelle due disposi-
zioni, il divieto espresso nell’art.125 TFUE e’ parimenti perentorio ri-
spetto a quello contenuto nell’art 123 TFUE. Ma le perplessità mag-
giori riguardano la seconda serie di considerazioni della Corte, secon-
do le quali le condizioni di applicabilità dell’art.136 TFUE, così come
specificate nel Trattato MES stimolano gli Stati beneficiari dell’aiuto
ad una condotta di bilancio virtuosa e pertanto non contrastano con
l'art 125 TFUE.
I punti deboli del ragionamento sono due.
28Anzitutto, se da un lato è vero che gli Stati beneficiari dell’assistenza
rimangono responsabili dei propri debiti nei confronti dei propri debi-
tori, ed anzi assumono nuovi impegni nei confronti del MES, dall’al-
tro è altrettanto certo che tali responsabilità finanziarie sono comun-
que inferiori a quelle che graverebbero sullo Stato se quest’ultimo do-
vesse procurarsi le risorse sul mercato.29 Il senso ultimo dell’interven-
to di assistenza e’ infatti proprio quello di offrire allo Stato in difficol-
tà mezzi finanziari a condizione agevolate rispetto a quelle del merca-
28 L'euro, di Lorenzo Bini Smaghi, il Mulino29 L'Unione Europea, di Piero S.Graglia 135
to. Dunque l’esistenza di una normativa di sostegno finanziario come
quella costituita dall’art 136 TFUE e dal MES riduce l’efficacia della
disciplina del mercato che rappresenta invece l’obbiettivo dell’art 125
TFUE.
Un secondo punto debole e’ costituito dall’idea che la prospettiva o la
concreta applicazione di una rigorosa condizionalità induca lo Stato
beneficiario dell’aiuto a perseguire una politica di bilancio virtuosa. In
realtà l’evidenza empirica relativa agli interventi di assistenza decisi
negli ultimi anni sembrerebbe dimostrare il contrario. Per un verso, la
prospettiva dell’imposizioni di condizioni rigo-rose sulle politiche di
bilancio può indurre lo Stato a non reagire prontamente alla crisi, col
fine di esimersi dall’adozione di misure impopolari e di scaricare la
responsabilità dell’eventuale adozione delle stesse sui soggetti di go-
verno del MES, ossia sugli Stati dell’Eurogruppo, sulla Commissione
e sulla BCE. Per altro verso, l’applicazione di una condizionalità rigo-
rosa ha dimostrato di avere effetti recessivi sull’economia dello Stato.
Se e quando questi effetti si producono, sono più spesso necessarie po-
litiche di debito di bilancio che di contenimento dello stesso. Pertanto
l’uso della rigorosa condizionalità esplicitamente contemplata sia nel-
l’art.136 TFUE che nel MES, rischia paradossalmente di spingere nel
medio periodo verso condotte non in linea con la disciplina di bilancio
per-seguita dall’art.125 TFUE.
136
Dalle osservazioni ci sembra di poter trarre due ordini di conclusioni.
Secondo la Corte l’art.125 TFUE ,consta all’emendamento
dell’art.136 TFUE e alla conseguente creazione del MES, che questi
ultimi atti siano effettivamente in linea con la clausola di ‘non salva-
taggio’, quando piuttosto che essi integrino e precisino la portata di
tale clausola, nel senso che essa non si applica quando la crisi finan-
ziaria di uno Stato membro pone rischi sistemici. Ciò alla luce della
presenza di consapevolezza che, in tal caso, i costi di ‘non salvatag-
gio’ non solo possono essere assai superiori a quelli connessi con un
intervento di assistenza, ma rischiano di dover ricomprendere quelli
derivanti dalla sparizione stessa della moneta unica. I suddetti atti
dunque, oltre che ad essere permessi seconda la procedura di modifica
semplificata dei trattati prevista dall’art.48, par.6 TUE, sono presuppo-
sti dal principio fissato nell’art 3, par. 4, di tale Trattato secondo il
quale l’Unione istituisce un’unione economica e monetaria la cui mo-
neta è l’euro.
In secondo luogo, l’emendamento dell’art. 136 TFUE e la creazione
del MES se da un lato rischiano di avere l’effetto di allentare la disci-
plina di bilancio, dall’altro danno concretezza al principio di solidarie-
tà tra Stati membri evocato dall’art. 3, par. 3 TUE, ben al di là del so-
stegno finanziario previsto dall’art.122 TFUE. Come accennato , que-
st’ultima disposizione, prevede un tale tipo di sostegno nel caso in cui
137
uno Stato membro si trovi o rischi di trovarsi in gravi difficoltà deri-
vanti da calamità naturali o da circostanze eccezionali che sfuggono al
suo controllo. Per sua natura dunque esso è attivabile solo in casi assai
circoscritti e in modo temporaneo. Diversamente le condizioni per
l’assistenza prevista dall’art.136 TFUE e dal MES riguardano la ne-
cessità di salvaguardare la stabilità complessiva della zona euro e que-
sta assistenza può protrarsi per tutto il periodo in cui tale necessità
sussiste.
3.6 La Riforma delle regole relative
alla sorveglianza sui bilanci: le modi-
fiche al patto di stabilità, il semestre
europeo, la regola del pareggio di bi-
lancio.
Come sopra anticipato l’Unione a proceduto a modifiche anche delle
regole relative alla sorveglianza pubblicistica dei bilanci. Più per ra-
138
gioni politiche che giuridiche, tali modifiche sono state apportate in
maniera non sistematica e mediante strumenti di natura assai disomo-
genea. Tra questi figurano, un accordo di natura politica, il c.d. patto
Euro-Plus, cinque regolamenti ed una direttiva, noti come Six-Pack, e
il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’u-
nione economica e monetaria, c.d. Fiscal Compact. Cercando di clas-
sificare concettualmente gli interventi operati, non di rado criptici e/o
pletorici, si può affermare che il processo di riforma si e’ mosso in tre
direzioni. La prima direzione e’ stata quella di rafforzare l’impianto
del Patto di stabilità, sia relativamente alla parte preventiva che a quel -
la correttiva. In estrema sintesi e limitandosi alle innovazioni più si-
gnificative, i cambiamenti introdotti sono i seguenti.
Per quanto riguarda la parte preventiva del Patto, al fine di promuove-
re il raggiungimento da parte degli Stati membri degli obbiettivi di bi-
lancio a medio termine, la riforma introduce un benchmark di spesa
che implica che l’aumento di spesa annua non debba eccedere un rate
di riferimento di crescita di medio termine del PIL. Ciò affinché i pro-
fitti in eccesso non siano spesi ma allocati per la riduzione del debito.
Inoltre nel caso di scostamento sensibile della posizione di bilancio
dall’obbiettivo a medio termine, e’ introdotta la possibilità che il Con-
siglio imponga allo Stato una sanzione rappresentata da un deposito
fruttifero pari allo 0,2% del PIL dell’anno precedente. Per quanto ri-
139
guarda invece la parte correttiva del Patto , si e’ anzitutto proceduto a
dare maggior enfasi al criterio del rapporto tra deficit e PIL, predispo-
nendo un parametro numerico di valutazione dei progressi di riduzio-
ne del debito verso il valore di riferimento definito nel quadro del Pat-
to di stabilità (60%); in base alle nuove regole, in via di principio, si
considera che il suddetto rapporto si stia riducendo e si avvicini al va-
lore di riferimento con un ritmo adeguato se il differenziale rispetto a
tale valore e’ diminuito negli ultimi tre anni ad un ritmo medio di 1/20
l’anno. In secondo luogo, e’ stato introdotto un nuovo tipo di sanzione
nell’ambito della procedura relativa alla correzione dei disavanzi pub-
blici eccessivi delineata nell’art.126 TFUE, rappresentata dall’obbligo
di un deposito non fruttifero pari allo 0,2% del PIL applicabile ad uno
stadio antecedente rispetto alle sanzioni già previste dall’articolo men-
zionato. Infine si e’ cercato di rendere più automatica e meno soggetta
alle mediazioni politico-diplomatiche la procedura di imposizione del-
le sanzioni sia quelle previste dal Patto di stabilità riformato, sia quelle
previste dall’art.126 TFUE. In questa ottica si sono introdotte regole
generalmente definite di riverse majority secondo le quali le misure di
impostazione di sanzioni stabilite dalla Commissione sono sempre sta-
te approvate dal Consiglio, a meno che quest’ultimo non vi si opponga
con maggioranza qualificata. La seconda direzione e’ nel senso di in-
trodurre un’articolata disciplina per il coordinamento delle politiche
140
economiche degli Stati membri. I capisaldi di questa disciplina sono
sostanzialmente due: da un lato il c.d. Semestre europeo, dall’altro, nel
quadro di tale Semestre, una procedura diretta a prevenire e corregge-
re gli squilibri macroeconomici degli Stati membri.
Il Semestre europeo consiste nella formalizzazione in un ciclo proce-
durale di orientamento, valutazione e sorveglianza da parte delle isti-
tuzioni europee delle politiche economiche nazionali. Esso
comprende :a) l’elaborazione e la sorveglianza sull’attuazione degli
indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e
dell’Unione conformemente all ‘art 121 TFUE; b) la formulazione e la
verifica sull’attuazione degli orientamenti in materia di occupazione in
conformità dell’art. 148, par.2 TFUE; c) la presentazione e la valuta-
zione di nuovi programmi di stabilità o dei programmi di convergenza
degli Stati membri; d) la presentazione e la valutazione dei programmi
nazionali di riforma degli Stati membri a supporto della strategia del-
l’Unione per la crescita e l’occupazione; ed infine, e) la sorveglianza
di bilancio volta a prevenire e correggere gli squilibri macro economi-
ci. Quest’ultima come accennato, costituisce il secondo caposaldo di
questa riforma. Essa consiste in una procedura di sorveglianza, fonda-
ta sull’art.121 TFUE, diretta ad identificare e a prevenire l’emergere di
squilibri macroeconomici all’interno dell’Unione, ossia quegli svilup-
pi macroeconomici che hanno o potrebbero avere effetti negativi sul
141
corretto funzionamento dell’economia di uno Stato e in particolare
quelli che potrebbero riverberarsi negativamente sull’andamento del-
l’intera unione economica e monetaria. La procedura prevede due fasi.
Nella prima, che costituisce un meccanismo di allerta , la Commissio-
ne monitora e compie una prima valutazione della situazione econo-
mica e finanziaria di tutti gli Stati membri, segnalando quali tra questi
possono presentare rischi di squilibri. I risultati della valutazione della
Commissione sono discussi dall’Eurogruppo e nel Consiglio (Ecofin)
ove gli Stati hanno l’occasione di presentare le loro valutazioni. Tenu-
to conto di tali discussioni, la Commissione effettua un esame appro-
fondito della situazione solo di questi Stati membri che, a suo avviso,
presentano maggiori rischi di squilibri. Queta seconda fase, ove l’in-
dagine avviene sulla base di un più ampio numero di indicatori rispet-
to a quella precedente, può sfociare nell’accertamento di uno squili-
brio macroeconomico. In tal caso la Commissione adotta una racco-
mandazione ai sensi dell’art.121, par.2 ovvero un avvertimento, ai
sensi dell’art.121, par 4 TFUE, nell’ipotesi in cui ritenga che lo squili-
brio macroeconomico accertato sia “eccessivo”, ossia in grado di com-
promettere il buon funzionamento dell’intera area euro.
La terza direzione di modifica delle regole relative alla disciplina
pubblicistica dei bilanci e’ stata quella di stabilire l’inserimento negli
ordinamenti nazionali della regola del pareggio di bilancio. Tale previ-
142
sione e’ contenuta nell’art.3, par .1 del Fiscal Compat, il quale preve-
de che gli Stati contraenti , in aggiunta e fatti salvi gli obblighi ai sensi
del diritto dell’Unione europea, applicano le seguenti cinque regole.
Primo, la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una
parte contraente deve essere in pareggio o in avanzo. Secondo, la re-
gola suddetta si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della
pubblica amministrazione e’ pari all’obbiettivo di medio termine spe-
cifico per il Paese quale definito nel Patto di stabilità e crescita rivisto,
con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del pro-
dotto interno lordo ai prezzi di mercato. A tale riguardo le parti con-
traenti assicurano una rapida convergenza verso l’obbiettivo di medio
termine, ma la tempistica della convergenza e’ proposta dalla Com-
missione, che deve tener conto dei rischi specifici di sostenibilità per
gli Stati. Terzo le parti contraenti possono deviare dall’obbiettivo di
medio termine solo in circostanze eccezionali. La definizione di circo-
stanze eccezionali fa riferimento ad eventi inconsueti non soggetti al
controllo dello stato che hanno rilevanti ripercussioni sulla situazione
finanziaria della pubblica amministrazione oppure a periodi di grave
recessione economica ai sensi del Patto di stabilità e crescita riforma-
to, purché la deviazione temporanea non comprometta la sostenibilità
di bilancio a medio termine. Quarto, quando il rapporto tra debito pub-
blico e PIL e’ significativamente inferiore alla soglia del 60% e sono
143
bassi i rischi di sostenibilità a lungo termine, il limite inferiore del-
l’obbiettivo di medio termine può arrivare sino a un disavanzo struttu-
rale annuo dell’1%. Infine, quinto, qualora vengano constatate devia-
zioni significative dall’obbiettivo di medio termine o dal percorso di
avvicinamento ad esso, dovrà operare automaticamente un meccani-
smo di correzione che includa l’obbligo dello Stato di attenuare misu-
re per correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito.
Di non inferiore rilevanza è il contenuto del par.2 dell’art.3 del Fiscal
Compact.30 Ai sensi di tale disposizione, la summenzionata regola sul
pareggio di bilancio deve produrre effetti nel diritto nazionale delle
parti contraenti al più tardi entro un anno dopo l’entrata in vigore del
trattato, tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente “prefe-
ribilmente costituzionale”, o il cui rispetto fedele e’ in altro modo ri-
gorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio.
Inoltre, si prevede l’obbligo degli Stati di istituire a livello nazionale il
meccanismo automatico di correzione di cui al par. 1 sulla base di
principi comuni proposti dalla Commissione europea - riguardanti in
particolare, la natura, la dimensione e il quadro temporale delle azioni
correttive da intraprendere, anche in presenza di circostanze eccezio-
nali, e il ruolo e l’indipendenza delle istituzioni responsabili a livello
nazionale per sorvegliare il rispetto delle regole sul pareggio di bilan-
30 Frontiers of Development Economics: The Future in Perspective, a cura di J.S. Gerald M. Meier e Nicholas Stern, World Bank, 2000.
144
cio. Vale la pena sottolineare che il rispetto degli obblighi derivanti dal
suddetto art. 3, par 2 del Fiscal Compact, e’ monitorato sia dalla Com-
missione europea sia dalla Corte di giustizia. Infatti ai sensi del suc-
cessivo art.8, la Commissione e’ invitata a presentare alle parti con-
traenti una relazione sulle disposizioni adottate da ciascuno Stato in
ottemperanza dell’ art. 3, par. 2. Se la Commissione conclude che uno
Stato non ha rispettato tale disposizione le altre parti adiscono, anche
collettivamente, la Corte di giustizia. Tale azione può anche essere
esperita unilateralmente da una parte, anche indipendentemente dalle
conclusioni della Commissione, se essa ritiene che un altro Stato sia
venuto meno agli impegni di cui art. 3 par. 2. Ai sensi del par. 2 del-
l’art. 8, la mancata esecuzione della sentenza della Corte consente a
qualsiasi parte contraente di iniziare una seconda procedura di fronte
alla Corte di giustizia diretta a chiedere l’imposizione di sanzioni fi-
nanziarie secondo i criteri stabiliti dalla Commissione nel riquadro
dell’art. 260 TFUE. La Corte, qualora constati che lo Stato non si e’ef-
fettivamente conformato alla propria sentenza, può comminargli il pa-
gamento di una somma forfettaria o di una penalità adeguata alle cir-
costanze e non superiore allo 0,1% del suo PIL.
145
3.6.1 Segue: Le innovazioni connesse
alla regola del pareggio di bilancio
Le prime due serie di modifiche menzionate, vale a dire il rafforza-
mento del Patto di stabilità e la nuova procedura volta ad identificare e
a prevenire l’emergere di squilibri macroeconomici, contengono senza
dubbio novità rilevanti ed incisive ai fini della disciplina pubblicistica
dei bilanci statali. Tuttavia esse rappresentano un approfondimento ed
irrobustimento di un impianto preesistente. Infatti la prima interviene
sul Patto di stabilità, mentre la seconda è attuativa dell’art 121 TFUE.
Del tutto inedita e concettualmente innovativa è invece la revisione
dell’inserimento della regola del pareggio di bilancio a livello delle si-
tuazioni degli Stati membri. Le novità più significative sembrano tre.
Anzitutto le regola fissata nell’art 3, par 1, lett (a) del Fiscal Compact
innova, almeno sul piano formale, il principio di virtuosità del bilancio
consacrato nel Patto di stabilità. In quest’ultimo, come anche sopra ri-
cordato, il benchmark oltrepassato con il quale si entra nell’area di il-
legittimità e si supera il 3% del PIL, il disavanzo è ammesso dal Patto.
Diversamente, la regola dell’art 3 stabilisce che la posizione di bilan-
cio della pubblica amministrazione debba essere “in pareggio o in
146
avanzo”, dunque esclude, almeno in via di principio, che ci possa es-
sere un disavanzo. E’ ben vero che con la riforma del Patto di stabilità
del 2005, un saldo prossimo al pareggio di bilancio o in attivo può
rappresentare l’obiettivo a medio termine individuato per qualche sta-
to membro, ma a livello di diritto primario e di principio il Patto am-
metteva (e ammette) l’esistenza di un deficit, mentre tale non è il caso
in base alla regola del pareggio di bilancio.
In secondo luogo, l’art 3, par 2 del Fiscal Compact rappresenta lo stru-
mento attraverso il quale si è compiuta una prima declinazione nel set-
tore della politica economica e monetaria del principio di solidarietà
tra Stati membri fissato all’art 3, par 3 TUE. Infatti , nel quinto capito-
lo del MES viene riconosciuto e accettato che la concessione dell’as-
sistenza finanziaria prevista da tale trattato è subordinata, a decorrere
dal 2013, alla ratifica del Fiscal Compact da parte dello stato interes-
sato e, dopo la scadenza del periodo di recepimento dell’art 3, par 2
del Fiscal Compact, al rispetto dei requisiti stabiliti da tale disposizio-
ne. Con questa ulteriore e inedita clausola di condizionalità si stabili-
sce che la solidarietà degli Stati è riconosciuta solo se in cambio viene
data, a livello costituzionale, garanzia di disciplina di bilancio.
In terzo luogo l’art 3 del Fiscal Compact rappresenta ad oggi l’unico
caso in cui gli impegni derivanti dall’appartenenza all’Unione Euro-
pea richiedono adempimenti definiti a livello costituzionale. Ci pare
147
che ciò denoti al tempo stesso una forza e una debolezza del sistema
dell’Unione. L’elemento di forza consiste nella dimostrazione che
l’appartenenza all’Unione può implicare anche una modifica sostan-
ziale della costituzione degli Stati membri. Si tratta di un fenomeno
inedito. Non si è infatti di fronte né ad una tradizionale espressione del
principio del primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale,
compreso quello di natura costituzionale, né ad una classica ‘clausola
europea’ ossia una modifica costituzionale richiesta ai fini dell’adatta-
mento dell’ordinamento statale a quello dell’unione. In questo caso
l'appartenenza all'Unione ha imposto l'adozione- e non la disapplica-
zione- di una norma nazionale di livello costituzionale, il cui contenu-
to ha carattere materiale, e non di rinvio o di adattamento. Per contro,
la debolezza del sistema è manifestata dalla circostanza che l inseri-
mento del pareggio di bilancio nelle costituzioni rappresenta fonda-
mentalmente una risposta all'inefficacia delle disposizioni di discipli-
na dei bilanci già previste dai trattati ed operanti secondo le dinamiche
tradizionali del diritto dell'Unione. Si è più sopra ricordato il numero
delle violazioni del Patto di stabilità e le ragioni per le quali non si
sono mai applicate le sanzioni previste dall'art 126 TFUE. L'obbligo di
recepimento della regola del pareggio di bilancio va dunque inteso
come una decisione diretta a rafforzare, attraverso disposizioni di na-
tura costituzionale, una disciplina europea che ha palesato un'incapaci-
148
tà congenita di assicurare l'obiettivo perseguito. Naturalmente la novi-
tà e la rilevanza sul piano concettuale dell'obbligo dell'inserimento in
costituzione della norma sul pareggio di bilancio non implicano neces-
sariamente un altrettanto alto grado di concreta efficacia della norma
medesima. Si vuole dire con ciò che sull'effettiva utilità di tale regola
è lecito nutrire dubbi ed al riguardo è opportuno attendere la sua con-
creta applicazione all'interno degli ordinamenti nazionali. A tal propo-
sito si consideri quanto avvenuto nell'ordinamento italiano. Com'è
noto, nel nostro Paese l'art 3 del Fiscal Compact ha comportato la mo-
difica dell'art 81 Cost. Quest'ultimo, che originariamente conteneva
solo l'obbligo della copertura delle spese, ha recepito il pareggio di bi-
lancio stabilendo sostanzialmente due regole. Per un verso che tra en-
trate e spese sussista equilibrio che tenga conto delle fasi avverse e
delle fasi favorevoli del ciclo economico. Per l'altro il ricorso all'inde-
bitamento è consentito al fine di considerare gli effetti del ciclo econo-
mico e previa autorizzazione delle camere adottata a maggioranza as-
soluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.
Questi ultimi sono rappresentati -sempre in linea con il Fiscal Com-
pact- da gravi recessioni economiche, da crisi finanziarie o gravi cala-
mità naturali. Mi domando però se una simile disciplina potrà mai
avere applicazione disgiuntamente o in dissonanza dalle disposizioni
del Patto di stabilità e della procedura di sorveglianza degli equilibri
149
macroeconomici. Potrà concretamente, ad esempio, darsi il caso in cui
lo stato italiano decida di procedere al ricorso all'indebitamento senza
aver concertato tale iniziativa a livello europeo ed in base alle valuta-
zioni esperite conformemente alle disposizioni dell'Unione? Se ciò è
assai irrealistico, la regola costituzionalizzata relativa al pareggio di
bilancio sembra superflua.
3.7 Fiscal Compact
Tra gli atti adottati per far fronte alla crisi si distinguono due catego-
rie: alcuni si collocano all'interno, altri all'esterno del diritto dell'Unio-
ne. Nella prima categoria rientrano il Six Pack, l'istituzione del Mes e
la modifica dell'art 136 Tfue31; nella seconda tutti gli altri atti,sia pure
con qualche particolarità per quel che riguarda il Fesf e il Patto Euro
Plus. Le regole contenute nel Fiscal Compact mirano a rafforzare il
Patto di stabilità, il quale era già incluso nei trattati europei già parten-
do dal Trattato di Maastricht, e le vigenti procedure per deficit eccessi-
31La Costituzione è stata novellata all'art. 81 in data 18 aprile 2012 (Temi dell'attività Parlamentare - Il pareggio di bilan-cio in Costituzione), legge costituzionale n.1/2012, pubblicata nella G.U. del 23 aprile 2012 (LEGGE COSTITUZIONALE20 aprile 2012, n. 1); il nuovo articolo reca al comma primo:Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del pro-prio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico; il novellato secondo commastatuisce invece che:Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e,previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi ec-cezionali.
150
vo art. 5 Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’u-
nione economica e monetaria ‐ Tscg introdotte successivamente. Per
adottarlo serviva una revisione dei vigenti trattati dell’Unione Tue e
sul Funzionamento dell’Unione Tfue. Tuttavia, a causa del rifiuto del
Regno Unito, poi appunto seguito dalla Repubblica Ceca, non è stato
possibile percorrere tale strada, la quale avrebbe richiesto la firma e
ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Si noti che questi Stati avreb-
bero potuto tenere un atteggiamento più cooperativo con gli altri senza
necessariamente divenire parti del Tscg: sarebbe infatti stato sufficien-
te consentire a modifiche del Tue e Tfue negoziando appositi protocol-
li di opting out come avviene attualmente per l’acquis Schengen. Il
Regno Unito aveva però avanzato durante i negoziati richieste volte a
pregiudicare la possibilità di introdurre in futuro una tassa sulle transa-
zioni finanziarie, cosa che gli altri Stati non hanno accettato. D’altro
canto, com’è noto, il Fiscal Compact è stato comunque fortemente vo-
luto dalla Germania, non solo per ragioni elettorali, ma anche adottato
per rassicurare i mercati finanziari internazionali sulla stabilità dei bi-
lanci degli Stati europei. Tale Stato ha potuto persuadere gli altri ad
accettare più stretti vincoli di bilancio, dall’alto del proprio ruolo di
maggior contribuente del Fondo Salva Stati Mes. Per tali ragioni il
Tscg ha preso dunque la via di un’integrazione differenziata, non al-
l’interno del quadro dei Trattati istitutivi com’è stato il caso delle di-
151
sposizioni relative all’euro ai tempi del Trattato di Maastricht, ma al-
l’esterno degli stessi. Si potrebbe a prima vista pensare che il fatto di
procedere all’adozione del Tscg solo fra alcuni Stati membri dell’U-
nione europea, senza la partecipazione di due Stati che nemmeno ap-
partengono alla zona euro, sia pienamente fisiologico, non solo perché
esempi di integrazione differenziata fra gli Stati membri dell’Ue me-
diante strumenti di diritto internazionale non sono affatto inediti si
pensi all’accordo di Schengen o a quello di Pruem che disciplina la
cooperazione transfrontaliera, ma anche perché il Tscg, rivolto princi-
palmente, anche se non esclusivamente, alla stabilità dell’eurozona, ri-
guarda una materia che per definizione è nata come un’integrazione
differenziata fra gli Stati membri dell’Unione europea. Com’è noto, da
un lato per entrare a far parte della zona euro è necessario rispettare i
parametri fissati dal Trattato di Maastricht, e all’altro gli Stati che pur
rispettando tali parametri non desiderano entrarvi godono di una dero-
ga prevista dai Trattati stessi. In realtà, il fatto di non aver potuto pro-
seguire in un’integrazione differenziata “interna” al sistema dei Tratta-
ti istitutivi, dovendosi invece ricorrere alla via “esterna” del Trattato
internazionale, comporta una serie di conseguenze che il presente la-
voro cercherà di chiarire. La stretta correlazione con le norme sull’eu-
ro e sul Patto di stabilità contenute nei Trattati hanno comunque indot-
to ad agganciare il più strettamente possibile il Tscg al quadro dei
152
Trattati dell’Ue, anche se nei limiti imposti dalla natura “esterna” del
primo. Occorre innanzitutto chiarire quale tipo di integrazione diffe-
renziata si potrà produrre all’entrata in vigore del Tscg. In realtà già
attualmente sia l’euro che la politica economica sono realtà a geome-
tria variabile. Sotto il primo profilo, accanto ai diciassette Stati del-
l’Eurozona e ai due con deroga Danimarca e Regno Unito, occorre in-
fatti considerare non solo i rimanenti otto Stati membri dell’Unione
europea, ma anche quegli Stati non membri che pure utilizzano l’euro
in virtù di accordi internazionali San Marino, Vaticano e Monaco o per
loro decisione Montenegro e Kosovo. Sotto il secondo profilo, al c.d.
“Patto Europlus”, riedizione più stringente del Patto di stabilità e cre-
scita, adottato nel 2011 aderiscono attualmente tutti gli Stati membri
dell’Unione europea salvo il Regno Unito, la Repubblica Ceca, la Sve-
zia e l’Ungheria. Quello che qui interessa analizzare è tuttavia solo
l’effetto di geometria variabile che si produrrà con il Fiscal Compact
all’interno dell’Unione europea.Per raffigurare tale situazione si pos-
sono immaginare quattro cerchi concentrici: il più interno – e più ri-
stretto – riguarda gli Stati che avranno ratificato il Fiscal Compact, un
numero che non può essere inferiore a dodici membri della zona euro,
soglia che l’art. 14 par. 2 del Tscg prescrive per l’entrata in vigore del-
lo stesso. Un secondo cerchio, più ampio, riguarda gli Stati dell’euro-
zona che non ratificheranno il Tscg; tale cerchio è solo potenziale, in
153
quanto nulla esclude che tutti i membri dell’eurozona ratifichino que-
st’ultimo, ma recenti dichiarazioni di alcuni Stati fanno pensare che
non si tratti di un’ipotesi del tutto irreale. Un terzo cerchio riguarda gli
Stati non membri della zona euro firmatari del Tscg che lo ratifichino;
ad essi, in virtù dell’art. 14 par. 4 dello stesso, si applicheranno solo le
parti III e IV del nuovo Trattato vale a dire gli artt. 3‐11, anche se
ovviamente il Tscg sarebbe loro applicato integralmente qualora en-
trassero nella zona euro. Anche a tali Stati si estende, in particolare,
l’impegno di cui all’art. 9 Tscg, di cercare di promuovere una posizio-
ne unitaria all’interno dell’Ue per favorire il buon funzionamento del-
l’Uem e la crescita economica, attraverso una rinforzata convergenza
e competitività. Almeno una volta l’anno i capi di stato e di governo di
questi Stati parteciperanno all’Eurosummit, secondo quanto previsto
dall’art. 12 par. 3 del Tscg.32 Il quarto cerchio è rappresentato dagli
Stati che pur non ratificando il Fiscal Compact siano invece parti del
Patto Europlus. Un quinto cerchio esterno comprende il Regno Unito
e la Repubblica Ceca33, ma in esso si potranno situare anche tutti que-
gli Stati del quarto cerchio che poi non ratifichino il Tscg. Anche que-
st’ultimo cerchio non è comunque rigidamente circoscritto, in quanto
l’art. 15 del Tscg apre quest’ultimo all’adesione degli Stati dell’Ue che
non lo hanno firmato, sulla base di un semplice deposito dello stru-
32 Europa, firmato il nuovo patto di bilancio, la Repubblica, 2 marzo 2012.33 Cinque premi Nobel: “Pareggio di bilancio? Una camicia di forza per l’economia” – Il Sole 24 Ore 154
mento di accessione dello Stato che intende aderire. In realtà, all’inter-
no di questa costruzione concentrica, è immaginabile anche un sesto e
ancora più ristretto cerchio. L’art. 10 del Tscg prefigura infatti la pos-
sibilità che gli Stati aderenti instaurino una cooperazione rafforzata ex
artt. 20 Tue e 326 Tfue in materie che siano essenziali per il buon fun-
zionamento dell’area euro, senza arrecare pregiudizio al mercato inter-
no. Quest’ultimo articolo sembra trasformare per gli Stati aderenti al
Tscg in un obbligo internazionale quella che per i Trattati Ue è solo
una opportunità. Tuttavia, poiché per creare una cooperazione raffor-
zata in seno all’Ue sono attualmente sufficienti otto Stati membri, non
si può escludere che tale cooperazione avvenga in una sfera ancora più
ristretta all’interno dei membri del Fiscal Compact. Occorre poi consi-
derare che il Fiscal Compact è legato in quanto in un certo senso ne
costituisce il contrappeso e il contraccambio al futuro Meccanismo eu-
ropeo di stabilità Mes, il c.d. “fondo salva Stati” che dovrebbe sosti-
tuire l’attuale Fondo europeo di Stabilità Finanziaria. Com’è stato de-
ciso dal Consiglio europeo del 24/25 marzo 2011, il Mes sarà stabilito
con un Trattato internazionale fra gli Stati dell’eurozona, come un ente
finanziario disciplinato dal diritto internazionale e avrà sede a Lus-
semburgo. Gli Stati contraenti sottolineano che l’accesso ai finanzia-
menti di tale Fondo sarà possibile solo per gli Stati che abbiano ratifi-
cato entro il 1º marzo 2013 il Fiscal Compact e onorino gli impegni di
155
cui all’art. 2 comma 3 di quest’ultimo. Anche se si può discutere sulla
capacità di condizionare giuridicamente l’applicabilità del Mes, è evi-
dente il suo potere deterrente, poiché gli azionisti di maggioranza del
futuro Fondo di Stabilità, non a caso tenaci promotori del Fiscal Com-
pact, avrebbero un’ottima scusa per non ammettere uno Stato agli aiuti
del Fondo Salva Stati.Come si vede, il Tscg può aumentare, con riferi-
mento all’integrazione in materia economica e monetaria, il grado di
differenziazione fra gli Stati membri dell’Ue, inclusi quelli dell’euro-
zona. Inoltre, anche nell’ipotesi che tutti i firmatari lo ratifichino, esso
introduce, attorno alla zona euro, una fascia “satellitare” di Stati che
pur non condividendo, almeno per il momento, la moneta comune si
impegnano a rispettare i vincoli e le procedure di stabilità fissati dal
Tscg. Si noti che gli Stati non appartenenti all’eurozona non possono
nemmeno beneficiare del “Fondo salva Stati”. Solo adottando l’euro
diverranno membri a pieno titolo anche del Trattato Mes, anche se po-
trebbero partecipare alle decisioni di quest’ultimo nell’assai improba-
bile ipotesi che decidano di supportare, dall’esterno, un’operazione di
salvataggio di uno Stato dell’eurozona condotta dal Mes. Ci si può
dunque chiedere quale interesse abbiano questi Stati ad agganciarsi ai
parametri rigorosi del Fiscal Compact, accettando il “bastone” senza
nemmeno la prospettiva della “carota” del Mes. La risposta più verosi-
mile va cercata nel desiderio di tali Stati di rassicurare i mercati sulla
156
tenuta della propria valuta nazionale, scoraggiando la speculazione in-
ternazionale. L’impossibilità di ricorrere alla revisione dei Trattati isti-
tutivi ha influenzato sotto molti aspetti la fisionomia del Tscg. Que-
st’ultimo avrà indubbiamente la conseguenza di aumentare sia il grado
di integrazione differenziata all’interno ed all’esterno della zona euro
che il metodo intergovernativo. C'è però una fascia “satellitare” di Sta-
ti che pur non condividendo, almeno per il momento, la moneta comu-
ne si impegnano a rispettare i vincoli e le procedure di stabilità fissati
dal Tscg. Si noti che gli Stati non appartenenti all’eurozona non posso-
no nemmeno beneficiare del “Fondo salva Stati”. Solo adottando l’eu-
ro diverranno membri a pieno titolo anche del Trattato Mes, anche se
potrebbero partecipare alle decisioni di quest’ultimo nell’assai impro-
babile ipotesi che decidano di supportare, dall’esterno, un’operazione
di salvataggio di uno Stato dell’eurozona condotta dal Mes.
Questo Trattato non imprime una direzione definitiva all’integrazione
economica e monetaria e, in ultima analisi, all’Unione europea. Lo
stesso Tscg art. 16 prevede che dopo cinque anni dalla propria entrata
in vigore le Parti contraenti adottino i passi necessari per incorporarne
la sostanza nel quadro giuridico dell’Ue, nel rispetto delle norme di
quest’ultima. Si profila dunque per il Fiscal Compact un percorso si-
mile a quello degli Accordi di Schengen, nati sul piano “esterno”, in-
ternazionale, e poi incorporati con il Trattato di Amsterdam all’interno
157
della struttura giuridica dell’Unione europea. Poiché le modifiche ne-
cessarie riguardano la parte III del Tfue e non comportano estensioni
di competenze dell’Ue l’euro è fra l’altro competenza esclusiva del-
l’Unione, per trasformare il Tscg in diritto dell’Ue sarà possibile se-
guire la procedura di revisione speciale di cui all’art. 48 comma 6 Tue,
dunque senza fare ricorso né ad una Convenzione né ad una Conferen-
za intergovernativa. Parimenti a quanto è già stato fatto per modificare
l’art. 136 Tfue, il governo di uno Stato membro, il Pe e la Commissio-
ne potranno presentare il relativo progetto al Consiglio europeo, che
delibererà all’unanimità previa consultazione del Pe, della Commis-
sione e della Bce. La decisione potrà entrare in vigore solo previa ap-
provazione degli Stati membri conformemente alle loro norme costitu-
zionali. È evidente che, benché la procedura di revisione semplificata
comporti rispetto alla procedura di revisione ordinaria un minor ricor-
so agli organi democratici e meccanismi decisionali più rapidi, l’una-
nimità richiesta in seno al Consiglio europeo potrebbe continuare a pa-
ralizzare l’incorporazione del Tscg. Quanto al Trattato Mes, una sua
incorporazione non sembra affatto probabile, poiché, come si è detto,
esso mira a stabilire, sulla falsariga del Fmi, un’organizzazione inter-
nazionale autonoma. Il Tscg ed il Trattato Mes sono il frutto di deci-
sioni fortemente invocate, ma a lungo rimandate, e poi prese sul filo di
contingenze, anche elettorali, interne agli Stati membri e di emergen-
158
ze, sempre più convulse, legate ai mercati. I due trattati, diversi ma
complementari, sono il frutto congiunto del compromesso, non sappia-
mo ancora quanto efficace, fra gli Stati che invocano il rigore e quelli
che chiedono la solidarietà. E riempiono anche un vuoto che la Com-
missione europea per troppo tempo ha lasciato nella gestione della cri-
si, e che solo tardivamente e grazie all’impulso del Pe ha cercato di
colmare con il “six pack” proposta di cinque regolamenti e una diretti-
va. In effetti, nella drammaticità della presente situazione cresce nei
cittadini europei, ma anche nella comunità internazionale, la domanda
di un’Europa più efficace nel difendere la moneta che accomuna la
maggior parte dei suoi Stati membri. E in nome di questa domanda si
ha la percezione che qualunque azione, a qualunque livello e con qua-
lunque metodo l’Unione prenda sia comunque meglio dell’inazione, e
del balletto di dichiarazioni politiche prive di effetti. Certamente la
crisi attuale è anche frutto della percezione da parte dei mercati di
un’Europa troppo debole, troppo divisa, troppo tentennante. In que-
st’ottica l’adozione del Fiscal Compact e del Mes era necessaria. Ma
nel lungo periodo la soluzione non può consistere in un’integrazione à
la carte e nella frammentazione di tante regole che dovrebbero agire in
sinergia e invece si applicano a diverse cerchie di Stati, con una geo-
metria variabile e volubile, che non può che aumentare la sfiducia ver-
so l’Unione europea e verso tutti i suoi Stati membri.
159
Dunque la modifica dell'art 136 Tfue è avvenuta con decisione del
Consiglio europeo, previo parere della Commissione, del Pe e della
Bce; e ciò in conformità alla procedura di revisione semplificata del-
l'art 48 par 6.
In Italia la ratifica34 del Trattato e’stata attuata con la legge
114/23.07.2012,G.U. 28.07.2012.
Il Fiscal Compat è entrato in vigore a partire dal 1 gennaio 2013 e le
principali disposizioni del nuovo trattato estendono e rafforzano i trat-
tati precedenti, in particolare il Patto di stabilità e crescita (1999), ma
non tengono conto delle differenti situazioni economiche e non posso-
no di certo favorire un reale coordinamento di politiche economiche.
Il Patto di stabilità e crescita si componeva di tre voci principali:
-divieto di disavanzi pubblici superiori al 3% del Pil;
-divieto di un debito pubblico superiore al 60% del Pil;
-presentazione, alla fine dell’anno, di un programma di stabilità;
Era previsto che se il saldo strutturale risultava in disavanzo, esso do-
veva essere ridotto di almeno lo 0,5% del Pil all’anno. Una volta rag-
giunto l’equilibrio, i paesi dovevano impegnarsi a mantenerlo. Però
nel 2005 cinque dei dodici paesi della zona avevano un deficit supe-
riore al 3% del Pil., poiché non hanno potuto impegnarsi a seguire una
politica fiscale predefinita per quattro anni, e ulteriore danno compor-
34 Il Fiscal Compact, IAI, a cura di Gianni Bonvicini e Flavio Brugnoli 160
tò la crisi, generando squilibri in Europa tra i paesi del Nord, che gua-
dagnavano in termini di competitività ed eccedenze commerciali, e i
paesi del Sud, con la Spagna travolta da una bolla immobiliare e dal-
l’aumento del debito privato e Italia, Portogallo e Grecia alle prese
con debiti pubblici sempre più al di fuori dei limiti stabiliti. Il Trattato
possiede una matrice giuridica esterna al diritto dell’Unione: non pote-
va scaturire, di certo, attraverso strumenti intra Ue attivando i poteri
normativi degli articoli 136 e 352 del Trattato sul funzionamento del-
l’Unione europea ,ovvero alla procedura di cooperazione rafforzata
per l’impossibilità di ottenere la firma e ratifica da parte di tutti gli
Stati membri, ma dopo cinque anni dalla entrata in vigore del Trattato,
questo verrà incorporato nella sostanza nel quadro giuridico dell’Ue,
fatto contrastato apertamente dalla dottrina come motivo di invalidità.
Per di più le norme del Fiscal Compat rafforzano in un modo del tutto
singolare, con regole più restrittive, molti degli obblighi già esistenti
nel diritto Ue malgrado il fatto che la tecnica di produzione normativa
si sostanzi nella compressione del metodo comunitario a beneficio di
quello intergovernativo. Quindi il Trattato (fortemente sostenuto dalla
Germania e dalla BCE) costituisce il rafforzamento del pilastro econo-
mico dell’Unione economica e monetaria tramite regole volte a raffor-
zare la disciplina fiscale attraverso un patto di bilancio in grado di po-
tenziare il coordinamento delle politiche economiche e a migliorare la
161
governance della zona euro e stabilità dell’euro nell’ottica di un com-
promesso che diminuisca gli squilibri tra paesi creditori e paesi debito-
ri. La vigenza delle norme e’ assicurata dai meccanismi di correzione
automatica supportati dal controllo della Commissione Europea Corte
di giustizia dell’Unione Europea, cui spetterà sia il compito di vigilare
sull’effettivo recepimento delle norme del Trattato all’interno dei sin-
goli ordinamenti nazionali, sia quello di applicare i provvedimenti
sanzionatori nei confronti degli Stati inadempienti. Queste due istitu-
zioni europee sono deputate di diritto ad imporre decisioni vincolanti e
sanzioni fino allo 0,1% del Pil, da pagare al fondo ESM (European
Stability Mechanism). A questo proposito, nell’aprile 2012 il parla-
mento italiano ha approvato alcune modifiche alla Costituzione per re-
cepire la disposizione del fiscal compact e il Senato varò la legge di
attuazione del dettato costituzionale (legge 24 dicembre 2012, n 243)
il cui contenuto prevedeva che la regola entri in vigore nel 2014 ed e’
riferita al saldo per il complesso delle amministrazioni pubbliche .
In particolare si prevede :
la definizione del saldo in termini strutturali (che favorisce un utilizzo
anti-ciclico del bilancio ossia spingere il PIL reale nella direzione PIL
potenziale allo scopo di ridurre l’ampiezza del ciclo; il bilancio dello
stato varia in funzione del variare del PIL, perché le entrate diminui-
scono e le uscite aumentano in recessione di conseguenza, nelle fasi
162
estreme del ciclo, il bilancio dello stato e’ fortemente diverso dal suo
valore nelle fasi intermedie del ciclo.) l’introduzione di regole per ga-
rantire la compatibilità degli obbiettivi di bilancio stabiliti a livello na-
zionale con le scelte di bilancio degli enti locali, l’introduzione di una
regola sulla spesa (in base alla quale la spesa non può crescere più del
Pil potenziale, in linea con quanto stabilito a livello europeo), l’istitu-
zione di un Fiscal Council indipendente presso il parlamento: rappre-
senta un organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli anda-
menti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle re-
gole di bilancio, che dovrà compiere valutazioni indipendenti sull’ap-
plicazione della regola e più in generale sulla gestione della politica fi-
scale. Il Fiscal Compact contiene ripetuti riferimenti a funzioni e com-
piti delle istituzioni dell'Unione, quelli relativi alla Corte di Giustizia
sono autorizzati dall'art 273 Tfue. Il funzionamento del Fiscal Com-
pact non è destinato a bloccarsi né a giustificare contenziosi da parte
degli stati non partecipanti. La ragione di ciò risiede nella natura del
Fiscal Compact. Le norme rendono più rigorosi taluni obblighi già esi-
stenti nel diritto Ue (art 3: tetto ai disavanzi regola sul pareggio di bi-
lancio nel diritto interno, meccanismi correttivi automatici) sollecitano
gli Stati contraenti ad utilizzare certi meccanismi dei Trattati (art 10:
ricorso alle cooperazioni rafforzate e alle misure ex art 136 Tfue) li
obbligano a sostenere e dare seguito alle raccomandazioni e proposte
163
della Commissione in talune materie (art 7: in tema di procedure per
disavanzi eccessivi; atr ( nel caso di mancato recepimento delle regole
sul pareggio di bilancio). Complessivamente il Fiscal Compact, si li-
mita a dettare regole di condotta più restrittive per gli Stati partecipan-
ti, senza alterare le normali competenze delle istituzioni dell' Unione
infatti il bilancio annuale di ogni Stato dell’Eurozona deve chiudersi
“in pareggio o in avanzo”, ed in ogni caso ciascun Paese dovrà rispet-
tare l’impegno di non superare lo 0,5% di incremento del deficit. Tale
limite è elevato all’1% per quei paesi con un rapporto Debito/Pil al di
sotto o pari al 60%. In sostanza si vieta a ciascun Paese dell’Unione
Europea di spendere ogni anno più di quanto viene incassato. E sem-
bra logico, ma questi hanno bisogno di una politica fiscale espansiva
essendo in deficit per via di una spesa forte per interessi. Per rispettare
le regole sono costretti a pagare sempre più tasse e a ridurre ulterior-
mente la spesa pubblica peggiorando la loro crisi economica. In Italia
il debito pubblico italiano ammonta attualmente a circa 2.107 miliardi
di euro che, rapportato ad un Pil di circa 1.580 miliardi (prodotto in-
terno lordi del 2011), da’ un rapporto Debito/PIL superiore al 126%.
Per arrivare al rapporto del 60% imposto dal Fiscal Compact, ed evita-
re che scattino le sanzioni dell’Unione Europea, sarà necessario ridur-
re il rapporto Debito/PIL del 3% ogni anno per i prossimi 20 anni. Si
dovrà mantenere il deficit strutturale entro lo 0,5% del Pil e ridurre di
164
un ventesimo il debito pubblico, per portare il rapporto debito/Pil dal-
l’attuale 120% (circa) al 60% ossia di ridurre ogni anno di 45 miliardi
di euro. Tutte queste misure restrittive applicate alla vita reale diventa:
tassa sulla casa (nuova tassa Tasi), poi il pignoramento e riduzione
delle pensioni e dell’età pensionabile, riduzione della spesa pubblica,
delle prestazioni sociali diminuzione del numero dei funzionari e dei
salari ed eliminazione dei servizi per i meno abbienti in particolare sul
fronte della sanità, istruzione media e universitaria che stanno diven-
tando un privilegio solo per i ricchi che possono pagare. Quindi in Ita-
lia c’è una progressiva riduzione dei servizi sociali che rappresenta la
garanzia di uno stato sociale. Il “pacchetto fiscale” creò così in Italia,
una pressione fiscale mai vista e mai subita dagli italiani di quasi
44,4%.
Secondo molti economisti l’austerità è nello stesso tempo ingiusta,
inefficiente e antidemocratica. Lo ha sostenuto ad esempio l’economi-
sta Jean-Paul Fitoussi in una intervista all’Unità aggiungendo che se
“l’obbiettivo è di ridurre il debito in misura più forte di quanto non si
riduca il Pil tutto questo ammazza il popolo e non risponde alla crisi”.
Uno studio di tre istituti economici indipendenti, ImK (Germania),
Ofce(Francia), Wifo(Austria), affermava che tra il 2010 e il 2014 que-
ste misure avranno l’effetto di ridurre di circa 7 punti il Pil della zona
euro con 25 punti (Grecia) e di ampliare il divario nord-sud. Anche il
165
capo economista del FMI Olivier Blanchard nel World Economic Ou-
tlook 2012 e poi con un apposito working paper che l’austerità e’ con-
troproducente perché deprime l’economia. E questo e’ molto significa-
tivo, perche’ il FMI e’ da sempre schierato sul fronte delle politiche
dell’offerta, con una forte attenzione alla solidità dei bilanci pubblici.
Luc Eyraud e Anke Weber spiegano nel working paper “The Challen-
ge of Debt Reduction during Fiscal Consolidation" che in presenza dei
moltiplicatori fiscali maggiori di 1 trovati da Blanchard, l’austerità
provocava l’aumento del rapporto debito/PIL, poiché riduceva il deno-
minatore più di quanto riusciva a ridurre il numeratore e quando tale
rapporto era già elevato (come in Italia), rendeva controproducente il
consolidamento fiscale. Ancor più: mettevano in guardia rispetto alla
reazione dei mercati finanziari , i quali, vedendo crescere il debito
pubblico, chiedevano tassi di interesse più elevati, peggiorando ulte-
riormente la situazione. Inoltre i governi, constatando l’inefficacia del-
le loro scelte, sono facilmente indotti a richiedere di anno in anno nuo-
vi “sacrifici”. Una centinaia di economisti di tutto il mondo riuniti in-
torno a Premi Nobel come Joseph Stiglitz e Paul Krugman hanno sti-
lato una lettera per criticare e respingere la ratifica del trattato e l’as-
surdità della politica economica attualmente in atto in Europa, soste-
nendo che oggi in Europa sarebbe possibile una espansione coordinata
della produzione, dell’occupazione e dei servizi pubblici, democratiz-
166
zando le istituzioni UE istituendo un controllo della finanza, tra cui il
divieto di scambio di titoli di Stato sul mercato OTC, limitando seve-
ramente la cartolarizzazione e i derivati e tassando i movimenti specu-
lativi di capitali. Come sostenne John Maynard Keynes: “il momento
giusto per l’austerità è il boom, non la recessione.” La cosa migliore,
suggerisce lo studio pubblicato dal FMI è rimandare il consolidamento
fiscale dopo che l’economia sia tornata a crescere.. Sul Financial
Time, Muenchau sostiene che il Fiscal compat deriva da una legge co-
stituzionale tedesca che cercava di eliminare per sempre il deficit di
budget. Il deficit strutturale avrebbe dovuto essere ridotto, quasi allo
zero “ eppure non c’e’ nessuna teoria economica che affermi che il de-
ficit giusto sia zero”, in realtà Muenchau si dimentica che fino a Key-
nes, tutto il pensiero liberale partiva dal presupposto che il bilancio
dello stato doveva essere in pareggio. Per Muenchau bisogna stimola-
re l’ambiente macroeconomico con riforme strutturali che aiutino la
crescita nel lungo periodo. E poi l’Italia ha tasse altissime, sarebbe la
cosa più stupida aumentarle ancora: visto l’elevato moltiplicatore fi-
scale, ciò significa che se si risparmia un euro, l’economia si contrae
di due euro, o di un euro e mezzo, ma non c’è una espansione miraco-
losa. Ad ogni modo esiste una teoria che giustifica l’austerità: in una
situazione normale un bilancio in pareggio significa non solo poche
tasse ma anche l’aspettativa di poche tasse e quindi molte risorse di-
167
sponibili per gli investimenti e molta fiducia da parte dei consumatori,
dei risparmiatori e degli investitori. Secondo questa teoria, quando gli
investitori e i consumatori non vedono all’orizzonte minacce di nuove
tasse sono quindi ben disposti a usare il loro denaro per consumi e in-
vestimenti e così i risparmiatori, che sono ben disposti a prestare il
loro denaro agli investitori senza paura che l’inflazione possa danneg-
giarli. Questa e’ la politica dell’offerta sostenuta da Trichet, Merkel,
Scahuble quando parlavano di fiducia. Alcuni criticano il Fiscal Com-
pact perché e’ di stampo neoliberista e pensano che il Fiscal Compact
segna una nuova tappa nella doppia offensiva, contro l’autonomia del-
le politiche di bilancio nazionali e contro la prassi della politica eco-
nomica (di ispirazione keynesiana diffusa in tutto il mondo). Infatti
l’approccio liberista afferma che il mercato e’ efficiente, e che se la
produzione ha subito un calo, ciò dipende da problemi di offerta ( pro-
duttività’ e competitività insufficiente, salari troppo elevati, mercato
del lavoro troppo rigido, ecc.) e quindi non e’ possibile avere una pro-
duzione molto maggiore senza riforme strutturali. In concreto si sta at-
tuando una politica neoliberista che intende affidare le istituzioni poli-
tiche a organismi indipendenti composti da esperti e tecnocrati, che
non sono responsabili di fronte al popolo e ai cittadini. La politica
economica deve essere paralizzata con regole vincolanti. Europa si
muove dunque da neoliberista verso la democratizzazione della politi-
168
ca economica. In un lecito magistalis all’Università di Firenze il go-
vernatore della Banca d’Italia afferma che bisogna puntare sulla com-
petitività e per questo serve una misura organica ad equilibrare i conti
e’ una precondizione di successo per attuare riforme nazionali e per ri-
durre lo spread al fine di costruire una piena unione economica e mo-
netaria.
Jean Claude Trichet ex –governatore della BCE sostiene che il Fiscal
Compat e’ una manovra simile a quella della politica monetaria di li-
quidità innescata nel 2011 per mettere in crisi e salvare poi i debiti so-
vrani europei cosa che ha fatto superare il terrore del default dei debiti
sovrani dei Paesi periferici: nonostante che nel 2012 le loro economie
sono crollate, ma sono le conseguenze della inevitabile terapia che i
mercati chiedevano con insistenza, infatti Grecia, Irlanda, Portogallo,
Spagna ed Italia sono sulla buona strada perché i governi procedono
nel risanamento finanziario e nelle riforme strutturali. A sette anni dal-
l’inizio della crisi, i loro deficit pubblici europei erano ancora troppo
alti e si doveva intervenire con decisione, con una frenata brusca: tasse
e tagli alla spesa pubblica senza pietà. Questa tragica situazione può
finire e dar vita ad una realtà diversa, che c’e’ già nel cuore degli euro-
pei, ossia che si possa uscire dalla crisi fondando gli Stati Uniti d’Eu-
ropa. Bisogna creare l’Unione economica e fiscale nell’ottica di una
cooperazione più stretta fra la Commissione e i Tesori nazionali che si
169
può istituzionalizzare con la creazione di un Istituto fiscale europeo e
alla creazione di un Tesoro, responsabile di fronte al Parlamento euro-
peo e al Consiglio, incaricato dalla gestione della politica economica e
fiscale. Il tutto porta ad un governo democratico della economia euro-
pea in un completamento della federazione (scopo già insito nel Trat-
tato di Maastricht, ma dopo un breve periodo di espansione, e’ arrivata
la crisi finanziaria che ha alimentato a sua volta la crisi dei debiti so-
vrani). Bisogna unirsi in uno Stato federale: si tratta di trasferire a li-
vello europeo il potere che e’ stato finora custodito gelosamente dagli
Stati membri di gestire in autonomia le decisioni fondamentali di poli-
tica economica. La crisi del debito sovrano ha mostrato che i modesti
avanzamenti istituzionali ottenuti con il Trattato di Lisbona sono del
tutto inadeguati e che e’ indispensabile arrivare alla costruzione di uno
Stato federale in Europa.
170
VI CONCLUSIONE
La costruzione dell’Unione monetaria europea 35aveva tra i suoi scopi
anche quello di proteggere i paesi dell’area dell’Euro dalle turbolenze
speculative dei mercati valutari, con l’obiettivo di costruire una valuta
forte in grado di costituire uno scudo contro eventuali crisi finanziarie.
In effetti, durante le crisi del 1996-97 e del 2000, la presenza dell’euro
ha impedito che la speculazione internazionale potesse coalizzarsi in
funzione anti-europea. Tuttavia, tale argomentazione crolla quando la
crisi finanziaria, partendo dal cuore dell’egemonia statunitense, non
solo porta al fallimento o al rischio di fallimento delle principali Sim
(Società di intermediazione mobiliare) occidentali ma comincia ad
avere effetti anche sull’economia “reale”. La risposta delle autorità
monetarie di mezzo mondo e dei governi principalmente colpiti è stata
35 Cfr. John Maynard Keynes, Teoria generale del’occupazione, dell'interesse e della moneta, trad. it. a cura di T. Cozzi, UTET, Torino 2006, p. 570: “Il possessore del capitale può ottenere un profitto, perché il capitale è scarso proprio come il possessore della terra può ottenere la rendita perché la terra è scarsa. Ma, mentre vi può essere una ragione intrinseca di questa scarsità, non vi sono ragioni intrinseche della scarsità del capitale” e abbiamo sostituito il termine “capitale” con il termine “conoscenza” e il termine “interesse” con quello di “profitto”.
171
quella di fornire il più possibile liquidità per tamponare le falle aperte-
si nel settore del credito e degli immobili. Tali interventi, che hanno
mobilitato ingenti quote di denaro pubblico, sono stati però intrapresi
a livello europeo in ordine sparso, con livelli di coordinamento quasi
esclusivamente tecnico ma mai politico. Il risultato è che ogni Stato
europeo, in concreto, si è mosso in autonomia e con modalità differen-
ziate. In realtà, si sconta il fatto di aver puntato esclusivamente sull’u-
nione monetaria, senza preoccuparsi di creare le premesse per una po-
litica fiscale europea con un budget autonomo dall’influenza degli sta-
ti membri. Oggi mancano gli strumenti per un intervento fiscale coor-
dinato in grado di poter attutire i contraccolpi reali della crisi finanzia-
ria. E’ un ulteriore sintomo del fallimento della costruzione economica
e sociale dell’Europa. Questo è un mondo dove gli europei stanno nel-
la metà sbagliata. Mentre in America la Grande Concentrazione è fini-
ta, in Europa la crisi si prolunga, perchè così impongono le politiche
nefaste che vanno sotto il nome di austerity. Dobbiamo riscrivere non
solo le regole della finanza ma anche rifondare un patto sociale inde-
bolito dall'allargamento delle diseguaglianze. Divincolarsi dal pensie-
ro unico neoliberista è il passaggio obbligato per iniziare a riparare l'e-
norme disastro sociale che si è prodotto. Nella realtà attuale non sono
date le premesse economiche e politiche perché un nuovo patto sociale
(new deal) possa realizzarsi. Esso è quindi una mera illusione. Il new
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deal fordista era Stato l’esito di una assemblaggio istituzionale (Big
Government) che si era basato sull’esistenza di tre presupposti:
- uno Stato nazione in grado di sviluppare politiche economiche nazio-
nali in modo indipendentemente, seppur coordinato, da altri stati;
- la possibilità di misurare i guadagni di produttività e quindi di
provvedere alla loro redistribuzione tra profitti e salari;
- relazioni industriali tra parti sociali che si riconoscevano reciproca-
mente ed erano legittimate a livello istituzionale, in grado di rappre-
sentare in modo sufficientemente univoco (il che ovviamente non
escludeva margini di arbitrarietà) gli interessi imprenditoriali e della
classe dei lavoratori.
Nessuno di questi tre presupposti è oggi presente nel capitalismo co-
gnitivo. L’esistenza dello Stato-Nazione viene messa in crisi dai pro-
cessi di internazionalizzazione produttiva e globalizzazione finanzia-
ria, che rappresentano, nelle loro declinazioni in termini di controllo
tecnologico e delle conoscenze, dell’informazione e degli apparati bel-
lici, le basi di definizione di un potere imperiale sovranazionale. Nel
capitalismo cognitivo, al limite è possibile immaginare– come unità di
riferimento per le politiche economiche e sociali – un’entità spaziale
geografica sovranazionale (e non a caso i paesi che sono oggi protago-
nisti a livello mondiale, dagli Stati Uniti al Brasile, dall’India alla
Cina, sono in realtà spazi continentali molto diversi dal classico Stato
173
nazionale europeo). La comunità europea potrebbe rappresentare, da
questo punto di vista, una nuova definizione di uno spazio pubblico
socio-economico in cui implementare un nuovo new deal. Ma, allo
Stato attuale delle cose, la costruzione dell’Europa procede lungo li-
nee di politica monetaria e fiscale che rappresentano la negazione del-
la possibilità di creare uno spazio pubblico e sociale autonomo e indi-
pendente, non condizionato dalla dinamica dei mercati finanziari.
Sulla validità delle politiche di austerity, e sulla loro efficacia ai fini
del raggiungimento di un doppio scopo, il risanamento delle finanze
dello Stato e un decente ritmo di sviluppo economico, gli economisti
sono divisi da sempre. Senza andare a scomodare i fantasmi di Pareto
e Smith, e senza rimandare indietro fino a Keynes, oggi i più presti-
giosi studiosi si fronteggiano sulla base dei dati, della realtà e delle
difficoltà che molti paesi ancora incontrano pur essendo usciti dal tur-
bine del 2008-2012. Il più critico è Paul Krugman, il premio nobel di
Priceton. Innanzitutto ha demolito la tesi di Kenneth Rogoff e Carmen
Reinhart dell'Università di Harvard che nel 2010 avevano sostenuto di
aver trovato la base scientifica della necessità di abbattere il debito
pubblico sotto il 90% pena la condanna alla recessione eterna. Krug-
man ha causato, con le sue provocazioni nella condanna Conscience
of a liberal sul ''New York Times'', perfino il mea culpa di Oliver Blan-
chard. E' il capo economista del Fondo monetario internazionale: ha
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spinto per anni tutti i paesi del pianeta al rigore e alla riduzione del de-
ficit ma poi ha finito con l'ammettere che i tagli eccessivi della spesa
pubblica in tempi di recessione hanno gravi effetti moltiplicatori in ne-
gativo. Secondo Krugman, solo un intervento pubblico diffuso e conti-
nuo, addirittura più ampio di quello intrapreso da Obama per tirar fuo-
ri gli USA dalla crisi, ha effetti di medio termine significativi e davve-
ro risolutivi. Eppure la disputa continua: gli economisti, soprattutto
quelli di scuola tedesca oltre ai classici monetaristi dell'antica scuola
di Chicago di Milton Friedman, continuano a mettere in guardia con-
tro gli eccessi di finanza pubblica e ad ammonire contro l'azzardo mo-
rale che questi eccessi implicitamente conterrebbero. La disputa conti-
nua, e nessuna teoria è stata provata come efficace in modo inconfuta-
bile.
Quindi quando usciremo da questa crisi noi europei? Ancora la rispo-
sta deve essere trovata. D'altronde quando il presente deraglia, preve-
dere il passato armati del senno di poi è esercizio di dubbia utilità. Si
può solo provare però a ripercorrerlo senza pretese di post-veggenza,
nel tentativo di comprendere gli errori commessi. Per non ripeterli,
magari. Ma anche per propiziare un opportuno esame di coscienza.
Perché se l'incapacità fa danni, la rimozione della realtà ne fa anche di
più. Il mondo è stato attraversato da molte crisi, che come abbiamo
detto sono una caratteristica tipica dell’economia, soprattutto di tipo
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capitalistico. Si è visto che quando una crisi si conclude, gli Stati che
ne sono stati attraversati, possono ricominciare a crescere raggiungen-
do anche livelli più alti di quelli che precedevano la recessione. Inoltre
lasciano dietro di sé un patrimonio di nuove conoscenze: errori da non
ripetere, nuove regole e una maggior consapevolezza.
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