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Il labirinto della memoria

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Nicolò Maniscalco, giallo La memoria è molte cose! Per la biologia è un ammasso di proteine accumulate nelle cellule cerebrali. Per la psicologia è la capacità di riprodurre nella mente stati di coscienza passati. Per l’informatica è l’insieme dei dati archiviati su un dispositivo elettronico. Per la vittima è la ricerca della vendetta. I ricordi girano, girano… girano nella trama del labirinto della memoria e poi escono, a volte silenziosi altre volte con un’esplosione udita solo da chi se ne libera.

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In uscita il 25/6/2014 (14,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2014 (4,99 euro)

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NICOLÒ MANISCALCO

IL LABIRINTO DELLA MEMORIA

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IL LABIRINTO DELLA MEMORIA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-731-5 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Prologo Nel nord-ovest dell’Italia, a pochi chilometri dal mare, le Alte Vie della Liguria s’inerpicano verso la parte piemontese delle Alpi Marittime, al confine con la Provence francese. La catena montuosa fa parte della Via Lattea: una lunga striscia alpina il cui candore si può ammirare solo dopo l’ascensione su una di queste cattedrali naturali. Verso il finire della primavera, queste montagne si stagliano alte verso il cielo con le cime ancora spruzzate del bianco invernale. Poi, con l’arrivo dell’estate, il sole sale perpendicolarmente per sciogliere ancora un po’ di neve e liberare macchie verdi e spero-ni di roccia. Lì, racchiuso tra la natura incontaminata, c’è il Monregalese, nel sud della Granda, la provincia di Cuneo. Da quelle parti c’era un collegio femminile per ragazze dai quattordici ai diciotto anni, si-tuato tra le città di Mondovì e di Niella, lungo le sponde del fiu-me Tanaro. Era una notte di fine maggio e il collegio era immerso nel buio. Le ragazze del convitto dormivano ormai da ore, tutte tranne due che erano scivolate giù dai loro letti e dopo aver superato la vetra-ta del primo piano si erano calate nel cortile. Al riparo dei portici non erano facilmente visibili e, se nessuno avesse notato i letti vuoti, erano certe di farla franca. Non era la prima volta che succedeva, spesso lo facevano per fu-mare di nascosto e per parlare delle loro esperienze con i ragazzi, esperienze mai vissute, spesso immaginate. Quella volta però, la più grande aveva una sorpresa: era un segre-to!

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Fu per questo motivo che volle con lei solo la sua amica del cuo-re. «Allora fammi vedere, cosa ti ha dato?» chiese la più piccola. «Guarda.» «Cos’è?» «Erba.» «Erba?» «Sì, erba da fumare.» «Ma… io non fumo.» «Non è come fumare le sigarette. Vedrai questa ti farà ridere. Ri-dere e sognare.» La piccola non parve convinta, però non volendo far dispiacere l’amica, decise che avrebbe provato. Le prime boccate furono inframmezzate da una tosse insistente, tanto che la grande cominciò ad aver paura che le compagne si svegliassero o peggio che qualche suora, con il sonno più leggero, sentisse quei rumori, per loro fortuna il collegio ripiombò nel si-lenzio una volta smorzata la tosse. … ridere e sognare! La piccola, però dopo aver fumato, non rise! Non sapeva neanche lei perché quell’esperienza non le piacque per niente. Respirare il fumo di quell'erba non le dava le stesse sensazioni provate dalla sua amica più grande. La ragazza grande rideva e parlava, non smetteva di parlare, ma la piccola non la udiva, lei pensava solo a quanto si sentiva spor-ca, senza capirne fino in fondo il motivo. Forse il motivo era conosciuto solo al suo subconscio che aveva abbinato le sensazioni provate alla tragicità del suo recente passa-to senza lasciarle, appunto, nulla di conscio, se non la sensazione di aver commesso un errore nell’assecondare l’amica. Di fatto, sentì un mutamento profondo dentro di lei. Fu come se un animale si fosse ridestato da un letargo durato troppo a lungo.

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La piccola crebbe dopo quel mutamento, non fisicamente ma nel profondo del suo essere. Crebbe perché ora aveva un compito. Lei ne era all’oscuro in superficie, ma l’animale del suo incon-scio cominciò a elaborare progetti. Progetti ancora sconosciuti e pericolosi. La sua parte oscura poteva parlare con il suo cervello solo tramite i sogni. … ridere e sognare! Non rise, ma sognò! Da quella sera non smise più di sognare. Un sogno monotono sempre uguale. Quel fumo risvegliò ricordi sopiti dal tempo e sotterrati negli a-bissi della memoria. Da quella notte visse il suo sogno in equilibrio sull’incubo. Un sogno che scorreva lungo una trama indecifrabile. Le immagini uscivano dai magazzini della memoria, giravano nel labirinto interno cercando l’uscita, laddove ci sono i centri dell’incoscienza, fino a intravederne la struttura. Per il cervello erano solamente proteine vaganti tra le connessioni dei neuroni. Per il subconscio era e doveva rimanere un sogno! Peccato che il sogno vestisse di bianco e nero. Per la coscienza rimaneva un enigma da svelare, anche se l’esposizione onirica era chiara come la proiezione di un film… … l’uomo corre. La bambina corre. L’uomo afferra la bambina. La bambina non ha paura. L’uomo stringe la bambina. La bambina comincia a girare. L’uomo ride. La donna prende la bambina.

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La bambina si sente protetta. La donna e la bambina salgono sulla giostra. L’uomo cavalca il cavallo bianco. La giostra è una barca. La donna stringe la bambina. La bambina è protetta. Il ragazzo scende dalla giostra. La bambina urla. Il ragazzo vola verso la bambina. La bambina è felice. Il ragazzo sale in barca. La bambina abbraccia il ragazzo. La donna ride e piange. La barca scivola sull’acqua. Il cavallo bianco traina la barca. Il grosso pescecane sale sulla barca. La bambina ha paura. I palloni si gonfiano riempiendo per intero la giostra. La bambina non è più sulla barca. Le teste dell’uomo e della donna cadono in acqua. L’acqua è piena di fiamme. Il ragazzo urla. La bambina ha paura. La voce del ragazzo è acuta. L’altro uomo esce dall’acqua. La bambina non riesce a vedere interamente il viso dell’altro uomo. L’altro uomo sorride. La bambina vede le labbra sottili. La bambina non ha paura. L’altro uomo si trasforma in un occhio. Il pugnale trafigge l’occhio…

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Capitolo 1 Il freddo si avvertiva, ma il clima non era gelido, lo è raramente nelle città affacciate sul mar Mediterraneo, anche se il tempo non prometteva nulla di buono. La sera era buia a causa delle nubi nere e dense, nubi autunnali, che oscuravano il quarto di luna. La pioggia non cadeva ancora ma era solo una questione di minu-ti e poi si sarebbe scatenato un nubifragio. Uno di quelli che fa cadere acqua a barili, tanta da lasciare alla città Genova solo la speranza di saperla accogliere tutta, senza che questa trasformi le vie in rivoli e fiumi come troppe volte, succede. La donna attendeva a bordo dell’auto, tamburellando sulla finta pelle che ricopriva il volante con le unghie corte e curate, non si trattava di nervosismo, era solo impazienza. Il ragazzo non si vedeva ancora, ma lei sapeva che sarebbe arriva-to perché lo aveva seguito, fino a vederlo con quel bastardo che si guadagnava da vivere vendendo la merda che i ragazzi sbandati si sparano in vena. La pioggia cominciò a cadere nel momento in cui lo vide uscire dal vicolo, illuminato dall’unico lampione all’angolo della strada. Barcollava, evidentemente si era appena fatto. Lo vide appoggiar-si a un muretto e chinarsi su se stesso fino a raggiungere il terre-no. Con tutta la calma necessaria, la donna scese dall’auto e si aggiu-stò la falda del cappello guardando in alto, verso le nubi che get-tarono le prime gocce sul suo viso struccato. Era una donna giovane e molto attraente. Esplorò con lo sguardo la via: non c’era nessuno, quella non era la serata giusta per una passeggiata. Solo quelli che avevano fretta di rientrare dopo il la-

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voro e qualche balordo erano ancora in giro proprio come quel ragazzo. La donna attraversò la strada a passo svelto fino a raggiungerlo. Lui era immobile con gli occhi socchiusi. Lei lo fissava, mentre sul suo volto andava disegnandosi un ghi-gno simile a un sorriso. Il ragazzo alzò la testa e la squadrò, infine, aprì la bocca mostran-do la dentatura rovinata dalle troppe dosi e, con un filo di voce, disse: «Sei tu! Da dove spunti?» L’atteggiamento della donna lo spaventava. Cercò un minimo di forza che non poteva trovare nei muscoli troppo rilassati dal vele-no che aveva in corpo. «Che cazzo vuoi?» biascicò. «Liberarti. Voglio solo liberarti dalle catene di questo tuo mondo schifoso» gli rispose, mantenendo il ghigno sul viso. La voce della donna lo colpì come un dardo: infatti, non era la voce che conosceva, quella l’aveva già sentita, questa era diversa, era la voce acuta e in falsetto di un ragazzo adolescente. La paura s’impossessò di lui, fece per alzarsi, ma la porcheria che aveva in corpo glielo impedì. Nella mano destra della donna comparve come per incanto una pistola. Era un’arma automatica piccola e micidiale. Il ragazzo cominciò a rotolare lungo il marciapiede nel vano ten-tativo di sottrarsi al suo destino. I suoi movimenti erano lenti. Andò a sbattere contro le ruote di un'auto posteggiata, poi cominciò a strisciare. Esausto dalla paura e dagli effetti della droga, si fermò e girò lo sguardo verso la donna. «Non puoi farlo… non puoi…» balbettò annebbiato. Rise delle parole del ragazzo: una risata folle! Così gli dimostrò di poterlo, anzi di volerlo fare! Alzò il braccio e gli pose la canna con il silenziatore sulla nuca. «Buon viaggio» gli disse, con la voce in falsetto, mentre premeva il grilletto.

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* * * La cena era terminata e il maresciallo Carlo Santini si alzò dal ta-volo, raccogliendo la carta di credito con la quale aveva pagato il conto, poi aiutò la fidanzata ad alzarsi spostando la sedia con ga-lanteria, lei lo guardò e sorrise. Uscirono abbracciati dal locale mentre la pioggia continuava a cadere inesorabilmente, non avendo l’ombrello si misero a corre-re verso l’auto, ridendo. Stavano bene insieme. Paola Mieli era l’innamorata che più di una volta aveva chiesto a Carlo di sposarla, lui era quello che nic-chiava sulla faccenda. Il matrimonio non lo spaventava in manie-ra particolare, ma non si sentiva ancora pronto a creare una fami-glia, non con il tipo di lavoro che faceva. Sapeva bene che i cara-binieri sposati erano molti e che alla fine anche lui avrebbe fatto quel passo, ma, almeno per ora, preferiva lo status più sicuro di fidanzato, inoltre doveva ancora capire fino a che punto era in-namorato di lei. Erano giunti di corsa all’auto e il lampeggiare giallo successivo al bip confermò l’apertura ordinata dal telecomando in mano a San-tini. Non fecero in tempo a salire perché, all’improvviso, videro una donna correre all’impazzata verso di loro fino a schiantarsi sul cofano dell’auto. «Signora, cosa fa? Si calmi.» La donna si girò e lanciò un urlo strozzato, indicando con la ma-no in direzione dell’angolo tra la strada e il vicolo di fianco al ri-storante. L’urlo, per quanto coperto dal ticchettio della pioggia, fece uscire il ristoratore e i pochi avventori presenti. «Là, laggiù…» indicò la donna. Santini diresse lo sguardo nella direzione indicata e lo vide. Era una sagoma immobile; sembrava un grosso straccio buttato a terra.

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«Paola resta qui… Buon Dio, come piove! Sali in macchina e a-spettami» gridò alla fidanzata dirigendosi verso il corpo riverso sul terreno. Appena si rese conto dell’accaduto, prese il cellulare e compose un numero. «Giorgio, sono Santini. In Corso Torino c’è il cadavere di un ra-gazzo. Ha il foro di un proiettile nella nuca. Manda una pattuglia e avverti il Tenente.» «Comandi» ubbidì l’appuntato Giorgio Guerra. Chiuse il cellulare e si chinò sul ragazzo senza toccarlo, era evi-dente che ormai fosse morto. Si alzò e pregò la gente che aveva formato un capannello, nono-stante stesse piovendo a dirotto, di tenersi a debita distanza dal cadavere. Tornò da Paola e la vide abbracciata alla donna in preda a una crisi emotiva. Erano entrambe zuppe, la pioggia continuava a scendere copiosa. «Ascolta…» le disse, alzando un po’ la voce, come se questa po-tesse superare meglio la barriera d’acqua che li separava, «… mi dispiace, ma lo vedi anche tu che non posso allontanarmi…» Poi si rivolse alla donna: «… Signora ora la faccio accompagnare in ospedale e…» «No» rispose la donna, «sto un po’ meglio… ho posteggiato l’auto proprio dove ho visto…» Chiuse gli occhi nella speranza di scacciare l’immagine del ragazzo a terra, poi riprese: «… preferi-sco andare a casa. Vivo con i miei. Sono anziani, non voglio che stiano in pena. Sono… sono uscita tardi dal lavoro e loro mi stan-no aspettando!» «Come vuole» le disse Santini, un po’ perplesso. «Paola, accom-pagnala alla macchina, poi vai a casa, ti chiamo appena mi sarà possibile.» Poi, rivolto nuovamente alla donna: «Signora mi lasci le sue generalità, sa… giusto per eventuali ne-cessità delle indagini.»

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La donna annuì, un po’ sorpresa dalla richiesta, evidentemente non si aspettava di incontrare proprio un uomo di legge, ma dettò lo stesso quanto richiesto da Santini e questi, al riparo dell’abitacolo dell’auto lo annotò su un foglio, poi accennò appe-na un bacio sulla guancia a Paola e raggiunse l’auto-pattuglia ap-pena arrivata.

* * * La donna entrò in casa e si levò cappello e impermeabile. «Mamma, papà…» disse con la voce in falsetto, aprendo con la chiave la porta di una stanza buia. Non ebbe alcuna risposta: la stanza era vuota! Richiuse la porta a chiave, cercando di non far rumore e accese la luce nella stanza da letto. Lì, si spogliò completamente prima di entrare in bagno per farsi una doccia che le avrebbe levato di dos-so le tossine di quella serata. La doccia durò almeno una dozzina di minuti, il tempo necessario per recuperare la serenità, anche se sapeva bene che era impossi-bile, poi indossò l’accappatoio e ritornò nella stanza da letto. Dalla parete scostò un quadro che celava una cassaforte da quat-tro soldi, di quelle piccole e munite di una semplice serratura sen-za alcuna combinazione; la aprì con la chiave. Levò dalla borsa la Beretta calibro 22, estrasse il caricatore e v’inserì un nuovo proiettile prelevato da una scatoletta di plastica che era all’interno, poi svitò il silenziatore e depose il tutto nuo-vamente in cassaforte. Risistemò il quadro e raccolse i vestiti che si era levata, frugò nelle tasche trovando un piccolo bossolo che rigirò nella mano. Dopo averlo contemplato per vari minuti, si di-resse verso la cucina, prese da uno scaffale una bottiglietta di ve-tro con un liquido trasparente e leggermente verdognolo, vi buttò il bossolo, questo provocò lo svolgersi di un vapore brunastro. La donna posò la bottiglietta sul davanzale della finestra per sottrarsi ai vapori e attese la scomparsa del bossolo. Il liquido divenne un

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po’ più verdastro; ripose nuovamente con cura la bottiglietta nello scaffale. Tornò nella stanza da letto, poi si levò l’accappatoio e nuda com’era, s’infilò sotto le lenzuola. Si addormentò come una bambina; sperava così di dimenticare, ma sapeva che non era possibile. Poi, a epilogo della tragedia il sogno tornava, chiaro e dettagliato come un film… … l’uomo corre. La bambina corre. L’uomo afferra la bambina. La bambina non ha paura. L’uomo stringe la bambina. La bambina comincia a girare. L’uomo ride. La donna prende la bambina. La bambina si sente protetta. La donna e la bambina salgono sulla giostra. L’uomo cavalca il cavallo bianco. La giostra è una barca. La donna stringe la bambina. La bambina è protetta. Il ragazzo scende dalla giostra. La bambina urla. Il ragazzo vola verso la bambina. La bambina è felice. Il ragazzo sale in barca. La bambina abbraccia il ragazzo. La donna ride e piange. La barca scivola sull’acqua. Il cavallo bianco traina la barca. Il grosso pescecane sale sulla barca. La bambina ha paura. I palloni si gonfiano riempiendo per intero la giostra. La bambina non è più sulla barca.

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Le teste dell’uomo e della donna cadono in acqua. L’acqua è piena di fiamme. Il ragazzo urla. La bambina ha paura. La voce del ragazzo è acuta. L’altro uomo esce dall’acqua. La bambina non riesce a vedere interamente il viso dell’altro uomo. L’altro uomo sorride. La bambina vede le labbra sottili. La bambina non ha paura. L’altro uomo si trasforma in un occhio. Il pugnale trafigge l’occhio…

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Capitolo 2 I carabinieri erano impegnati a tenere lontano i curiosi, mentre cingevano la zona del crimine con un nastro bianco e rosso nell'attesa dell’arrivo delle autorità inquirenti. «La situazione mi sembra chiara…» stava dicendo il tenente Gui-do Barbera, accorso sulla scena con la seconda pattuglia, «… sembra il solito regolamento di conti tra balordi.» «Proprio così, signore…» rispose Santini, «… il RIS e il medico legale ci potranno dire qualcosa in più, sempre che riescano a tro-vare tracce utili sotto questo diluvio.» «Ecco il magistrato» disse Barbera, indicando la Fiat Croma mar-rone metallizzato appena arrivata. «Dottore… Ho paura che ci si presenterà una brutta nottata» commentò il tenente riparando il sostituto procuratore Ettore Mi-glio sotto il suo ombrello. «Già. Che cosa abbiamo?» chiese questi uscendo dall’auto. «Un cadavere. Un ragazzo con un buco nella nuca provocato da un colpo d’arma da fuoco e con altri buchi un po’ dappertutto provocati da siringhe» rispose Santini. «Un tossicomane?» «Sì. E’ una vecchia conoscenza. Un piccolo spacciatore.» «Va bene, appena il medico l’ha esaminato e il RIS ha finito i ri-levamenti consegnatelo alla Mortuaria» disse il magistrato a Bar-bera risalendo sulla Croma; poi aggiunse: «Tenente, mi faccia a-vere un rapporto domani, entro la giornata.» «Signorsì. Il maresciallo glielo preparerà non appena avremo il referto autoptico» confermò, guardando Santini e assegnandogli, implicitamente, il caso. Lui annuì.

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* * * C’erano stati tuoni, fulmini e scrosci d’acqua per tutta la notte, ma Claudia Volpe, brigadiere dell’Arma, non aveva sentito alcun rumore, il suo sonno era sempre molto profondo. Solo la combi-nazione dei due suoni, quello del cellulare e quello della radio-sveglia, la obbligò a svegliarsi. Diede una manata alla radio per spegnerla e prese il cellulare. «Sì, chi parla?» «Dormigliona. Sono le sette, svegliati» le disse Santini. «Sono sveglia! Ancora un po’ rimbambita ma sveglia. Che cosa succede?» «Ieri sera hanno eliminato un tossico, l’ha trovato una donna… una certa Gazzani… Marisa Gazzani. Io ero lì. Ero appena uscito dal ristorante con Paola, ho seguito i primi rilevamenti. Ora pre-parati e sbrigati a venire in caserma.» «Va bene…» disse facendo uno sbadiglio portentoso, «… co-mandi.» Claudia si alzò e in meno di trenta minuti si presentò in caserma. Tra i sottufficiali del gruppo di Santini, Claudia era senza dubbio un punto di riferimento. Era stata tra le prime del suo corso e a-veva superato brillantemente l’esame per vicebrigadiere ancora giovanissima. Solo tre anni dopo aggiunse un baffo ai suoi gradi, ora era la vice di Santini e tra i migliori carabinieri del reparto di Barbera. Il rapporto tra Claudia e Santini era improntato oltre che sulla ge-rarchia, anche sulla stima e l’amicizia. Dopo pochi mesi di colla-borazione stavano per avere una relazione, ma la cosa non poteva funzionare perché erano simili e perciò sarebbero stati reciproca-mente troppo esigenti, per non parlare, inoltre, delle regole dell’Arma in merito a un coinvolgimento sentimentale tra due appartenenti allo stesso gruppo operativo. Quell’esperienza troncata sul nascere lasciò egualmente in loro una sensazione di vuoto, un fiore non colto. Erano coscienti che

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quella fosse una sensazione irrazionale, perché razionalmente sa-pevano che era meglio così. Fu proprio Claudia a presentare la sua amica Paola a Santini. Paola era stata sua compagna di corso all’università, ma mentre lei terminò gli studi laureandosi in psicologia, il brigadiere Volpe li abbandonò, rapita dal suo lavoro di carabiniere. Claudia stava entrando in caserma ancora in borghese nel mo-mento in cui Santini, anche lui in borghese, ne usciva. «Claudia, vieni con me. Andremo a medicina legale, l’autopsia comincerà a breve.» «Perché non aspettiamo che sia finita» propose lei con un ghigno di simulato disgusto. «Dai, andiamo che può essere una giornata lunga.» «Mi devo mettere in divisa?» «No. Vieni così» le rispose. Salirono su un’auto di servizio e si diressero verso il quartiere di San Martino, dove risiede tuttora l’Istituto di Medicina Legale. «Buon giorno dottore.» «Buon giorno maresciallo» disse il medico, poi rivolse un cenno del capo verso Claudia: «Brigadiere.» «Buon giorno» rispose lei. «Vogliono partecipare all’autopsia?» chiese cortesemente il me-dico con un sorriso sarcastico, sapendo che Claudia non gradiva la cosa. «No. Ci sarà sufficiente il rapporto autoptico non appena pronto. Il magistrato lo vorrebbe entro oggi» rispose Santini, guardando la sua vice. «Lo avrà.» Ciò detto il medico entrò in sala con un cenno di saluto. Il tecnico d’anatomia patologica aveva già preparato il cadavere ponendolo a pancia in giù sul lettino d’acciaio, sotto una grossa lampada con varie luci, per mettere in mostra la ferita alla nuca.

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Il medico prese un calibro e misurò il foro d’ingresso del proietti-le. «Quasi sicuramente una ventidue» disse. «Bene. Cominciamo.» Dopo una buona mezz’ora, un uomo alto, sulla quarantina, qua-rantacinque anni al massimo, si avvicinò a Santini e Claudia se-duti su una panca in sala d’attesa. L’uomo era affranto, ma il suo atteggiamento tradiva l’aspetto di un uomo sicuro di sé. «E’ qui che fanno le autopsie?» chiese con voce flebile, che mal si addiceva al personaggio. «Sì» rispose Santini. «E’ probabile che lì ci sia mio figlio. Dovrò… devo fare il rico-noscimento» disse l’uomo, mentre due lacrime si sforzavano di scendere lungo le guance rugose. Santini tirò fuori il tesserino di carabiniere e disse: «Sono il ma-resciallo Santini. La mia collega è il brigadiere Volpe. Stiamo in-dagando sull’omicidio di suo figlio. Lei è il signor Mancuso, ve-ro?» L’uomo apparve sorpreso e abbassando lo sguardo rispose: «Sì, sono Giuseppe Mancuso. Mio figlio si chiama… chiamava Walter. E’… è morto. Lo sapevo che alla fine sarebbe successo. Da quando mia moglie è mancata, non è più stato lo stesso. L’ho perso tanto, tanto tempo fa.» «Conosciamo suo figlio, lo abbiamo arrestato varie volte.» L’uomo annuì e crollò sulla panca al fianco di Claudia. Lei lo guardò con compassione e disse: «C’è sempre una motiva-zione, un dramma in famiglia o nella vita, per drogarsi. Le soffe-renze da affrontare sono…» S'interruppe perché Santini le mise una mano sulla spalla, convin-to che l’uomo avesse fatto quelle riflessioni sul figlio almeno un migliaio di volte. Il padre di Walter scrollò la testa e racchiuse il volto tra le mani.

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In quel momento uscì il medico dalla sala autoptica con il referto in mano.

* * * L’ufficio del sostituto procuratore Miglio era sito all’interno del Palazzo di Giustizia in Piccapietra, nel centro di Genova. Quel pomeriggio, il giorno dopo il delitto, nell’ufficio della pro-cura, oltre al magistrato c’erano Santini e Claudia. … ventitré anni, nato a Genova… Miglio stava leggendo il rapporto consegnatogli dai due carabi-nieri. … Walter Mancuso, abitava in Via D’Albertis nel quartiere di San Fruttuoso, con il padre, ma era più fuori di casa che dentro, una volta è stato arrestato in via Biga, nella casa di una certa Daniela Infanti, anche lei nullafacente e tossicodipendente… «A prima vista può sembrare un regolamento di conti…» disse Santini, «… ma abbiamo trovato qualcosa di strano.» «Vale a dire?» chiese Miglio. «Un biglietto…» rispose Santini. «… Un semplice pezzo di carta con un disegno. Glielo abbiamo trovato nella tasca posteriore dei jeans.» Il maresciallo mostrò il biglietto avvolto in una busta di plastica. Il disegno mostrava un viso insolito e per certi versi mostruoso, era formato da un solo occhio stilizzato su cui era stato sovrappo-sto un pugnale, sotto spiccava un sorriso senza labbra e non c’era il naso. Il tutto era stato un po’ slavato dalla pioggia di quella not-te.

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«Sul foglietto abbiamo trovato solo impronte confuse che ora so-no al vaglio del RIS, ma non appartengono al Mancuso e la cosa è sicuramente strana» disse il maresciallo riprendendo il biglietto. «Potrebbe essere un messaggio dell’assassino» disse Miglio, ab-bozzando una possibile soluzione. «Già, ma cosa vuol dire?» rifletté a voce alta Claudia. «Per ora non lo sappiamo, inoltre, non si può escludere lo stesso un regolamento di conti o una soluzione spiccia per un problema di droga o di soldi, il disegno potrebbe non essere collegato all’assassino» concluse il magistrato. «Infatti, potrebbe essere così! Inoltre, anche la dinamica dell’omicidio sembrerebbe tipica dell’esecuzione: un colpo alla nuca! E’ strano per la malavita, però, l’uso di una calibro 22» convenne Santini che aggiunse cambiando discorso: «Ho convo-cato in caserma la Gazzani, la testimone.» «Bene. Non si tratta di una testimone oculare, però.» «No. Non lo è…» disse Santini. «… Ha trovato il cadavere dopo il delitto. Non ha visto né l’esecutore materiale né lo svolgersi dell’azione. Passava di lì, a suo dire, di ritorno dal lavoro e ha no-tato il ragazzo a terra, si è avvicinata e nel vedere il foro del pro-iettile, ancora sanguinante, è stata colta dal panico ed è corsa in direzione del ristorante.»

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Capitolo 3 … uomo, dall’apparente età di ventitré, ventiquattro anni… Santini era nel suo ufficio, all’interno della caserma, e stava ri-leggendo il referto autoptico del medico legale. … si evidenzia il foro di un proiettile calibro 22 nella zona della nuca. Il proiettile è penetrato nel cranio sotto l’osso occipitale ed è sta-to leggermente deviato dall’osso atlante. La deviazione ha provocato l’attraversamento del cervelletto e dell’emisfero cerebrale destro, il proiettile è di piombo dolce e quindi ha perso la sua energia nell’impatto, fino a incastrarsi al-la base dell’osso frontale. Il suddetto proiettile è stato estratto e contrassegnato come re-perto. Il colpo è stato esploso a bruciapelo come testimoniano le tracce d’antimonio e piombo rinvenute sui bordi della ferita, quest’episodio è stato la causa della morte, che è giunta istanta-nea. Sul cadavere sono stati rilevati vari ematomi provocati da inie-zioni per via endovenosa, probabilmente per inocularsi sostanze stupefacenti. Nessun segno evidente di lotta: sotto le unghie non è stata riscon-trata alcuna traccia di materiale organico non appartenente al cadavere. Un campione del sangue del soggetto, uno d’urina prelevata in vescica e una ciocca di capelli, sono stati inviati al laboratorio di tossicologia per la ricerca di droghe d’abuso e dei loro metaboli-ti.

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Il cadavere non presenta segni evidenti di malattie in atto o di malformazioni. Gli organi sono di dimensioni e peso nella norma, a eccezione del fegato che appare ingrossato e con un parenchima grasso ma non cirrotico… Posò il documento e prese poi dal dossier del caso il referto dell’esame tossicologico e lesse: … l’esame tossicologico sui campioni di sangue è stato eseguito in cromatografia liquida ad alta pressione. Dal referto si rileva-no concentrazioni elevate d’oppiacei. L’esame sulle urine del soggetto ha confermato la presenza di metaboliti d’oppiacei e di tetraidrocannabinoidi. Nei capelli del soggetto è stata rilevata la presenza d’oppiacei e di derivati della Cannabis. Dai dati estrapolati, si può affermare che la vittima è stato un e-roinomane abituale e un fumatore di Cannabis. Durante il delitto era sotto l’effetto dell’eroina… Tra i documenti Santini sbirciò anche il referto del laboratorio d’analisi che confermava la presenza d’anticorpi per i virus HCV e HIV. «Tanti paroloni per descrivere un tossicodipendente sieropositivo ucciso da un proiettile calibro 22» rifletté tra sé Santini. Prese poi il primo rapporto del RIS che evidenziava l’assenza di tracce sul luogo del delitto, compresa l’assenza del bossolo, con l’ovvia deduzione che era stato usato un revolver oppure che l’assassino aveva asportato il bossolo. Chiuse il rapporto e lo infilò in una cartellina con la coperta di cartoncino. Si alzò e fece per uscire dall’ufficio, ma rimase a fissare il dos-sier, riaprì la cartellina e prese la fotografia del disegno con quel viso strano, cominciò a contemplarlo.

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Udì bussare alla porta. «Sì. Avanti» rispose. «Carlo, è arrivata la Gazzani, l’ho fatta aspettare in sala-interrogatori» disse Claudia. «Bene, andiamo.» Il maresciallo ripose il disegno nella cartellina del dossier. L’aula degli interrogatori era un locale spoglio, al centro del qua-le c'era un grosso tavolo circondato da sei sedie interamente di legno; nella parete di fronte alla porta c’era una libreria ricca di faldoni e cartellette, due telecamere troneggiavano negli angoli sopra la libreria. Lì, Santini e la Volpe trovarono seduta Marisa Gazzani lungo il lato del tavolo. Carlo si sedette di fronte a lei e Claudia a capota-vola. La donna appariva diversa da come la ricordava Santini la sera dell’omicidio, quella volta era in preda al terrore, ora davanti a lui c’era una donna affascinante, con lunghi capelli scuri sulle spalle e un trucco elegante. Santini guardò in direzione della telecamera e cominciò l’interrogatorio. «Grazie per essere venuta. Comprendiamo come sia stata una brutta esperienza per lei, come sta ora, meglio?» chiese pleonasti-camente. «Sì, grazie, maresciallo» disse la donna con un tremore nella voce che faceva trasparire l’ansia di chi, apparentemente, non è abitua-ta ad avere a che fare con la legge e ne ha paura. «Abbiamo preparato già un verbale con le dichiarazioni che mi ha rilasciato. Vuole leggerlo e dirci se desidera aggiungere o cam-biare qualcosa?» La donna prese il verbale e lo scorse velocemente per poi dire: «Sì. Mi pare che le cose stiano così. Lo spavento che ho provato! Quel… povero ragazzo! Si sa chi l’ha ucciso?»

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«Non ancora.» «Era un drogato, vero?» «Come fa a dirlo?» chiese Santini incuriosito. «Non so. L'ho immaginato credo.» «Sì, era un tossicodipendente, un eroinomane» confermò Santini. «Lei è solita passare da Corso Torino a quell’ora di sera?» chiese improvvisamente Claudia. La donna sembrò sorpresa dalla domanda. «No…» rispose. «… Normalmente esco prima dal lavoro, ma l’altra sera avevo da controllare dei preventivi per un lavoro piut-tosto importante, così mi trovai…» Rivide la scena nei suoi pensieri. Chiuse gli occhi fino alla scom-parsa dell’immagine del ragazzo steso a terra. Li riaprì poco dopo in direzione di Claudia. Questa riprese: «Che lavoro fa?» «Sono un’impiegata. Lavoro in un’impresa edile. E’ un’azienda in salute con molti operai. Ho un diploma di geometra, ma il mio lavoro riguarda più la contabilità e gli aspetti economici che i progetti e i lavori veri e propri.» «Qual è il nome della ditta?» chiese Santini. La donna cominciava a preoccuparsi per tutte quelle domande, strinse i pugni e deglutì abbondantemente. La situazione non sfuggì ai due carabinieri. «GM Costruzioni Edili. E’ una S.p.A. con un buon giro d’affari. Il proprietario, il signor Mancuso è una persona in gamba e…» Nel sentire quel nome Santini ebbe un sussulto e guardando pri-ma Claudia, che annuì, e poi la donna, chiese: «Mancuso. Forse Giuseppe Mancuso?» La donna cominciò a tremare per la reazione dei due carabinieri. Attese un briciolo di coraggio prima di rispondere: «Sì.»

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Capitolo 4 La dottoressa Paola Mieli lavorava come psicologa dell’età ado-lescenziale nei locali dell’Azienda Sanitaria di Genova, ed era la responsabile del servizio. Con lei lavoravano altre due psicolo-ghe. Il servizio si occupava dell’assistenza ai giovani disadattati provenienti da famiglie spesso problematiche: erano, per lo più, piccoli delinquenti abbandonati al loro destino da parte di genitori a volte non migliori dei figli; spesso si trattava di ragazzi con problemi di droga, tra loro c’erano quasi tutti quelli usciti dal tunnel dei quali il SERT, il Servizio per il recupero dei tossicodi-pendenti, non si occupava più e che erano, per questo, ancora più vulnerabili. Quel giorno Paola era alle prese con due genitori che non ne vo-levano sapere di ritirare una denuncia nei confronti del figlio, reo di rubare continuamente il loro denaro per procacciarsi dosi sem-pre più cospicue d’eroina e di altre porcherie. Paola cercava di far ragionare i due, con lo scopo d’inserire il ragazzo in un pro-gramma di recupero, ma questi non si davano per vinti. Quelle erano le situazioni più difficili da affrontare: due genitori all’apparenza normali, ma in pratica assenti nei confronti del fi-glio, erano certi che una punizione esemplare fosse il rimedio ai mali di quel figlio che non avrebbero mai voluto così. A nulla valevano le argomentazioni di Paola sui disastri che il carcere minorile poteva arrecare ai ragazzi disadattati, creando possibili delinquenti futuri. I genitori erano convinti che un ra-gazzo fuori della società come il loro, non potesse essere educabi-le con la ricerca dei propri malesseri. Paola si arrese e i due irriducibili genitori poterono uscire convin-ti di aver agito per il bene del figlio; tutto questo, mentre Santini aspettava in sala d’attesa.

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Osservò l’uscita dei genitori e poi entrò nello studio. Paola, che non si attendeva la visita del fidanzato, gli sfoderò un gran sorriso. «Ciao! Come mai qui?» gli chiese, dandogli un bacio furtivo sulle labbra. Lui le sorrise e si sedette sulla poltroncina di fronte alla scrivania. «E’ per il caso che sto seguendo, quello del ragazzo trovato in Corso Torino la sera che eravamo al ristorante.» «Dovrei saperne qualcosa?» chiese Paola, sedendosi a sua volta dietro la scrivania. «Potresti» rispose. «Dimmi di che si tratta e vediamo se posso esserti utile.» «Mancuso. Walter Mancuso. Era il nome del ragazzo.» Lei rimase in silenzio, poi scrollò il capo. «Non mi dice nulla, però potrebbe essere un paziente delle mie colleghe. Aspetta…» disse, avviandosi verso un classificatore per poi aprirne un cassetto con la targhetta L-N. «… Sì. Eccolo qua. Walter Mancuso. E’ seguito da Donatella, da vari anni. Ora mi ricordo: è stato un paziente del SERT fin dall’età di diciassette anni, ma non è mai uscito dalla spirale della droga. E’ stato arre-stato tre volte, proprio dai carabinieri…» «Sì. E’ stato nostro ospite. Quello che m’interessa è conoscere che rapporto aveva con il padre e tutto quello che circondava la sua esistenza: cosa faceva? Come viveva?» «Come mai sei tanto interessato a questo caso?» «Abbiamo l’impressione che sia un caso facile solo in apparenza. Ci sono elementi poco chiari, da approfondire. Forse si tratta del solito fiuto da poliziotti, ma non ci costa nulla approfondire un po’ le cose prima di affrontare il caso cercando l’assassino tra i soliti sbandati legati al mondo della droga.» «Vediamo se Donatella ne sa di più» disse Paola alzando la cor-netta del telefono sulla scrivania e pronunciando qualche parola. Una giovane donna aprì la porta ed entrò. Indossava un camice bianco sbottonato; s’intravedeva il colletto di una camicia bianca

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spuntare da un maglione blu a girocollo su un paio di jeans. Sul taschino del camice c’era un cartellino di plastica con incisa la scritta: A.S.L. – GE3 – Servizi Sociali – Dr.ssa Donatella Firenze – Psi-cologa. La donna non era appariscente, ma aveva un piglio simpatico e, in un certo senso, era attraente. Aveva lunghi capelli neri e un vi-so affettato, senza trucco, su un corpo ben proporzionato e snello, s’intravedeva in lei una donna certamente sportiva. Si poteva affermare che fosse l’opposto di Paola che, al contrario vestiva elegantemente e aveva una femminilità sempre molto cu-rata. Santini conosceva già Donatella come una delle due assistenti della fidanzata. «Ciao» la salutò con un sorriso. «Ciao Carlo. Come mai qui?» «Sono in servizio e forse mi potete aiutare.» «Di pure» disse, sedendosi di fianco a Santini. «Carlo è interessato alla brutta storia di un ragazzo che hai segui-to tu. Walter Mancuso» intervenne Paola. Donatella divenne seria. Il sorriso sfoderato all’arrivo di Carlo si spense. «Quello che è stato ucciso in Corso Torino?» chiese, sapendo già la risposta. «Sì. Proprio quello. Lo conoscevi da tanto?» «Da quando il padre ha chiesto il nostro aiuto, circa tre anni fa.» «Come mai si è rivolto a voi?» chiese Santini. «Il padre è rimasto vedovo quando Walter aveva solo quattordici anni. La moglie si uccise dopo un lungo periodo d’esaurimento; era rientrata dopo aver fatto delle commissioni dalle parti di Via Donghi, vicino a casa, si avvelenò con un'intera boccettina di barbiturici. Il padre abita ancora nel quartiere di San Fruttuoso, in

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Via D’Albertis, credo…» Donatella prese dalla scrivania il dos-sier che Paola aveva prelevato dal classificatore e cominciò a leg-gerlo velocemente. «… Sì. Ecco qua l’indirizzo: è come dicevo, anche se ora è un uomo benestante è rimasto nel quartiere popola-re che l'ha visto crescere. Allora, Giuseppe Mancuso venne da me senza il figlio, era disperato. L’avevano indirizzato da noi i colle-ghi del SERT, le terapie con il metadone non servivano a niente, Walter non aveva il minimo interesse a smettere, anche se riuscì per un breve periodo ad allontanarsi dalla droga, grazie alla co-munità di Don Gallo, dove era stato inviato dal tribunale dei mi-nori in seguito a un arresto…» «Sì, spesso succede così con i tossicodipendenti che arrestiamo, sempre che non abbiano commesso reati gravi e scelgano la via del recupero» disse Santini. «Nel caso di Walter, non mi sembra che si possa parlare di reati gravi…» continuò Donatella, «… più che altro spacciava per ri-cavare per sé le dosi quotidiane. A ogni modo, il padre si preoc-cupò dello stato del figlio ed ebbe il suo da fare per convincerlo a venire qua al consultorio. Walter, inizialmente non mi sembrò un cattivo soggetto, ma aveva preso molto male la morte della ma-dre; questo fatto, unito alle solite compagnie sbagliate, ormai l'a-veva indotto a far uso di droghe. Cominciò con l’alcool, qualche spinello e piombò pressoché subito nell’eroina.» «Non si può dire che il Mancuso non sia perseguitato dalla sfor-tuna, prima la moglie, poi la tragica vita condotta dal figlio fino alla sua morte» terminò Santini scrollando il capo. «Comunque sia, da quanto afferma Donatella, non riesco a veder-ci nulla di particolare. Sembra proprio la solita trama del ragazzo abbandonato a se stesso che ha la sfortuna di incontrare altri ra-gazzi sbandati» disse Paola. «Già. Sembra così. Farò due chiacchiere con il Mancuso per ve-dere se viene fuori qualcosa» terminò Santini.

* * * Fine anteprima.Continua...