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1 Comune di Forlì Istituto Storico della Resistenza di Forlì-Cesena Anno Scolastico 2016 2017 PROGETTO PERCORSO DI APPROFONDIMENTO DEI VALORI DEL 25 APRILE Il nostro viaggio nella memoria Istituto Tecnico Industriale Statale “Marconi” di Forlì Classe I G

Il nostro viaggio nella memoria - itisforli.it nostro viaggio nella... · delle scuole e contiene documenti e fotografie, provenienti dall’archivio di stato di Forlì-Cesena e dal

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Comune di Forlì – Istituto Storico della Resistenza di Forlì-Cesena

Anno Scolastico 2016 – 2017

PROGETTO

PERCORSO DI APPROFONDIMENTO DEI VALORI DEL 25 APRILE

Il nostro viaggio nella memoria

Istituto Tecnico Industriale Statale “Marconi” di Forlì

Classe I G

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INTRODUZIONE

Quest’anno scolastico abbiamo partecipato, come classe I G dell’ITIS “Marconi”

di Forlì, al progetto “Percorso di approfondimento sui valori del 25 Aprile”, il quale

ci ha consentito di visitare i luoghi forlivesi legati alle vicende del Secondo

conflitto mondiale e di conoscere gli avvenimenti ed i personaggi che hanno reso

possibile la liberazione dell'Italia dall’occupazione nazifascista; ci ha, inoltre,

permesso di approfondire la storia della persecuzione ebraica in Italia.

Il progetto, un vero e proprio “viaggio nella memoria”, si è articolato nelle

seguenti tappe:

1. Il 2 febbraio 2017 nella Sala comunale di Forlì, la classe ha incontrato il

rabbino capo di Ferrara, Luciano Caro, l’assessore allo sport del Comune

di Forlì, Sara Samorì, Paolo Poponessi e Franco D’Emilio; questi ultimi

sono stati i curatori della mostra “Stelle Gialle” e autori del catalogo che

porta lo stesso titolo. In questa uscita la classe ha appreso, attraverso i

racconti in prima persona del rabbino, molte notizie sulla Seconda guerra

mondiale e su come gli ebrei si sentissero a loro agio nel nostro paese

prima dell’emanazione delle leggi razziali e su come abbiamo poi sofferto

a causa delle discriminazioni e delle deportazioni nei campi di sterminio.

2. Abbiamo letto il romanzo storico-realistico “Il binocolo di Cesare”, scritto da

Elio Scialla: il testo è inerente al progetto, perché nel libro vengono

evidenziati i temi delle lotte sociali e partigiane al tempo della Seconda

guerra mondiale, dei disagi prodotti dalla guerra e di come al tempo i

ragazzi non godessero delle gioie dell’adolescenza. Giovanni, il nonno del

protagonista, è un oppositore dell'occupazione nazifascista e decide di

aiutare i partigiani che sulle montagne piemontesi opponevano resistenza

ai tedeschi; lo stesso fa il giovane protagonista, Cesare, pronto a dare il

suo contributo per liberare l’Italia, anche a costo di rinunciare all’amore

della sua ragazza.

3. Questi temi sono stati poi approfonditi nell'incontro tenutosi a scuola il 3

marzo 2017 con il partigiano Sergio Giammarchi, accompagnato dalla

ricercatrice storica Paoletti. Abbiamo potuto rafforzare le nostre

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conoscenze su quell'epoca, grazie al racconto delle vicende, vissute in

prima persona dal partigiano al tempo del 1943, quando l'unica ragione di

vita per tanti giovani (ma anche di adulti ed anziani) era di ritrovare la tanto

attesa libertà, anche al prezzo di perdere la propria giovinezza per colpa

della guerra. Quest’ultima, secondo lo stesso Giammarchi, è la rovina delle

famiglie, perché la guerra non guarda in faccia nessuno.

4. Il 10 marzo 2017, grazie anche alle ricerche del professor Gioiello,

abbiamo visitato i luoghi forlivesi della memoria, legati alla storia degli

ebrei nella nostra citta; abbiamo visitato piazza Saffi, dove c’era il negozio

di pellicceria di Roberto Matatia, e l'ex albergo commercio, campo di

concentramento provinciale, oggi stabile nel numero 79 di Corso Diaz,

luogo dove vennero reclusi almeno 14 Ebrei; successivamente siamo

passati per via Porta Merlonia e via Sara Levi Nathan, dove erano

presenti antiche comunità ebraiche (la giudecca) e per via Sant'Antonio

Vecchio – Calcavinazza (il ghetto degli ebrei forlivesi); infine, abbiamo

visitato il palazzo del provveditorato (ex-brefotrofio) nel quale, durante

l’occupazione nazifascista, vennero rinchiusi gli oppositori politici; prima di

ritornare a scuola siamo passati anche per le carceri di Forlì, dove

vennero rinchiusi tanti prigionieri ebrei.

5. Il 16 marzo 2017, in aula magna, abbiamo incontrato Luigi Casaglia e lo

storico Mario Proli. Quest’ultimo ci ha presentato il contesto storico negli

anni del Secondo conflitto mondiale, mentre Luigi Casaglia ha presentato il

libro “SS cella n°1”, che è il diario di suo padre Oreste. Oreste Casaglia

era un noto avvocato forlivese, che credeva fortemente nei valori della

patria, del diritto e della giustizia e che per questo ha deciso di difendere, a

rischio della sua stessa vita, i partigiani accusati in contumacia. Per questo

è stato imprigionato, interrogato e torturato nell’ex brefotrofio di Forlì; dopo

essere stato liberato nel 1945, è morto un anno dopo a causa delle torture

subite.

6. Altra tappa del nostro viaggio è stata la lettura del romanzo giallo “Venti

corpi nella neve” di Giuliano Pasini. La storia, ambientata nel 1995 a Case

Rosse, ha come protagonista il commissario Roberto Serra che per

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risolvere un caso di omicidio deve rivangare gli avvenimenti tragici, ancora

un eccidio compiuto dai tedeschi contro cittadini italiani indifesi, accaduti in

quel piccolo paesino durante la Seconda guerra mondiale.

7. Concluderemo il nostro viaggio nella memoria il 26 Aprile 2017 con l’uscita

didattica a Tavolicci, dove il 22 luglio 1944 vennero trucidati 64 civili.

Per quanto riguarda la relazione, insieme al professor Valente, abbiamo deciso di

strutturare le varie attività, prendendo spunto dalla trama del romanzo “Incontro

con l'Autore” di Elio Scialla, letto nel corso del primo quadrimestre: ci siamo divisi

in piccoli gruppi, costituiti da due o tre alunni; ad ogni gruppo è stato assegnato

dal prof. Valente un compito, come relazionare su una determinata attività o

esperienza svolta, scattare foto o preparare domande da rivolgere agli esperti

durante gli incontri; ogni relazione è stata poi, in classe, letta e rivista, grazie

anche alle riflessioni degli altri studenti, per poi essere riscritta in “bella copia”.

Anche le varie fotografie sono state scelte di comune accordo. Infine, tre alunni

hanno raccolto il materiale prodotto e hanno scritto l’introduzione.

Questo progetto ha rafforzato le nostre conoscenze sulla Seconda guerra

mondiale e sulla storia degli Ebrei, sul modo di operare dei nazifascisti e

sull’amore per la patria che avevano i partigiani; in più è stato molto interessante,

perché ci ha permesso di capire più a fondo la storia della nostra città, e di

studiare Storia “sul campo”.

Ringraziamo in modo particolare il professor Valente, che ci ha consentito di

partecipare a questo progetto e che ci ha guidato nelle varie tappe del “viaggio

della memoria”, il professor Gioiello, che ci ha accompagnato nella visita dei

luoghi di Forlì, legati alla storia degli ebrei, e che ci fa fornito preziose

informazioni e documenti; il provveditore Di Forlì, che ci ha permesso di visitare

le celle sotterranee del provveditorato (ex brefotrofio) e la Dirigente scolastica

che ci ha consentito di incontrare a scuola il partigiano Giammarchi e Luigi

Casaglia.

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1 – INCONTRO CON IL RABBINO CAPO LUCIANO CARO

Giovedì 2 Febbraio 2017, assieme ad altri studenti dell’ITIS Marconi, abbiamo

partecipato, nel salone comunale di Forlì, ad un incontro organizzato col rabbino

capo di Ferrara, Luciano Caro.

All’incontro erano presenti anche

l’assessore agli Eventi Istituzionali e

Manifestazioni Pubbliche, Sara Samorì,

ed i curatori della mostra documentaria

itinerante “Stelle Gialle”, Paolo

Poponessi e Franco D’Emilio, che hanno

anche pubblicato il testo “Stelle Gialle,

Ebrei della provincia forlivese nella notte

fascista”: si tratta di un catalogo, realizzato dopo la suddetta mostra, che si è

tenuta a Forlì nel 2015, riguardante i tristi avvenimenti legati agli ebrei della

provincia forlivese, al tempo delle leggi razziali del 1938 e delle deportazioni

avvenute durante la Seconda guerra mondiale.

“Stelle Gialle” è un importante oggetto di studio e di informazione per noi ragazzi

delle scuole e contiene documenti e fotografie, provenienti dall’archivio di stato di

Forlì-Cesena e dal centro di cultura ebraica, riguardanti la storia della

persecuzione ebraica italiana, nello specifico di quella forlivese.

In particolare, vengono analizzati il fascismo e le leggi razziali che portarono e

aggravarono l’antisemitismo e il rifiuto del diverso.

Per prima ha preso la parola Sara Samorì che ha introdotto l’argomento; poi la

parola è passata a Franco D’Emilio che ci ha spiegato come questo catalogo sia

di immensa importanza per i seguenti motivi:

è uno strumento di conoscenza

è una testimonianza di avvenimenti che non vanno dimenticati

è una prova che le accuse anti-ebraiche siano infondate

è un “documento” che confuta il negazionismo”

è un testo che dimostra che anche gli Italiani hanno avuto un ruolo

determinante nella persecuzione e nello sterminio degli Ebrei

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è utile per far sì che razzismo e antisemitismo non si ripetano più nella

storia.

Franco D’Emilio ha concluso, ringraziando le persone che hanno collaborato alla

realizzazione del documentario Stelle Gialle.

La parola è poi passata a Paolo Poponessi che ha rimarcato quanto questa

mostra e questo catalogo siano serviti anche per far comprendere che lo stato

italiano ed i cittadini italiani si siano resi colpevoli di persecuzioni contro gli Ebrei;

inizialmente, dal 1938 al 1943, con la “persecuzione dei diritti”, attraverso la

quale gli ebrei furono allontanati dalle scuole, furono espulsi dai posti pubblici, fu

vietato loro di svolgere il servizio militare e di possedere beni: le discriminazioni

al popolo Italiano e all’opinione pubblica vennero fatte credere come “un

semplice incidente” e tanti cittadini italiani si opposero agli ebrei. Poi, dopo il

1943, con la “persecuzione delle vite”, attraverso deportazioni e stermini. Fu una

fase di grande disagio durante la quale gli italiani si schierano contro altri italiani:

infatti, molti ebrei sono stati uccisi all’interno dello stato italiano.

Infine, è stata la volta del rabbino capo; lo stesso ha iniziato il suo intervento

dicendo che per gli ebrei il giorno della memoria non è uno, ma lo sono tutti i

giorni, per chi è sopravvissuto alla

guerra e allo sterminio; ha rimarcato che

tutte le mostre e le testimonianze di oggi

non servono per dare la colpa a

qualcuno, ma per far ricordare ciò che è

accaduto durante la Seconda guerra

mondiale, perché ciò non riaccada mai

più.

Ci ha raccontato, inoltre, come prima del 1938 gli ebrei si considerassero più

italiani degli italiani, abitando le “nostre” terre da più di 2000 anni (avevano diviso

il nome Italia in 3 parti che, messe insieme significano in ebraico “isola della bella

rugiada”); solo quando, nel 1938, uscirono le leggi razziali e i loro diritti vennero

limitati da un giorno all’altro, rimasero sbalorditi e non riuscirono a crederci.

Diventarono pericolosi agli occhi degli italiani che pensavano che essi potessero

sabotare il paese e non furono più considerati cittadini. Vennero cacciati dalle

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scuole, dalle loro residenze con mille scuse o pretesti (per esempio, se abitavano

in una casa che aveva una finestra che dava sul mare) e poi deportati e

sterminati selvaggiamente, soprattutto ad Auschwitz. Molti ebrei vennero uccisi in

seguito a denunce fatte da italiani in cambio di denaro, mentre altri si sono

salvati grazie proprio agli italiani che li ospitavano a loro rischio e pericolo.

Le leggi razziali dichiaravano che una sola razza era privilegiata e doveva

governare, mentre tutte le altre, di “serie B”, dovevano essere eliminate.

Il piano del nazismo, ritenuto diabolico dal rabbino, prevedeva lo sterminio degli

ebrei come un “esperimento” per testare un metodo rapido ed efficace per

eliminare intere popolazioni. Se la Seconda guerra mondiale fosse stata vinta dai

tedeschi, sarebbe arrivato anche il momento dello sterminio degli italiani (prima

quelli del sud e poi quelli del nord).

Nel campo di sterminio di Auschwitz sono morte circa 1,5 milioni di persone; si

contavano circa 20.000 uccisioni al giorno di “oggetti”, perché le persone ebree

venivano considerate peggio di oggetti. Le vittime ebree italiane ammontarono a

circa 9000, tra cui anche anziani e bambini di pochi giorni. Chi è sopravvissuto

vive con un senso di grande rimorso e infelicità nei confronti di tutti quelli che

invece sono morti.

Il rabbino capo ha concluso il suo intervento suggerendo ai ragazzi di pensare e

ragionare con la propria testa e di non farsi condizionare troppo dagli altri, perché

le grandi dittature della storia hanno governato sull’ignoranza del popolo e cioè

sull’incapacità di discriminare tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

La classe ha partecipato con molta attenzione alla manifestazione dimostrando

interesse, prendendo appunti, scattando foto e apprendendo direttamente dalla

voce di un sopravvissuto la reale storia di quei tempi duri di guerra.

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2 – IL BINOCOLO DI CESARE

“Il Binocolo di Cesare” è un romanzo realistico di Elio Scialla, scrittore che è stato

preside di una scuola media del Piemonte ed autore di numerosi romanzi di

diverso genere.

Il romanzo parla della vita di un adolescente di nome

Cesare Dalmastro che durante la Seconda guerra

mondiale deve lasciare la città di Torino e i suoi genitori

per andare a vivere nella casa di campagna del nonno a

Carassone, nella periferia di Mondovì, perché la guerra

aveva reso complicata la vita di tutti i cittadini a Torino a

causa dei bombardamenti.

Appena arrivato, con l’aiuto del nonno, decise di iscriversi alla scuola media: non

volle frequentare una scuola d’avviamento, bensì una che gli permettesse poi di

iscriversi al liceo; l’iscrizione fu vivamente sconsigliata dal preside della scuola di

Mondovì, il quale riteneva che un “figlio” di operai non potesse frequentare

proficuamente un liceo.

Cesare iniziò a seguire le lezioni dopo qualche settimana, perché la scuola

impiegò del tempo per formare una classe costituita dai ragazzi cosiddetti

“sfollati”, cioè che erano stati costretti ad abbandonare la propria città a causa

della guerra. Durante i primi giorni di scuola Cesare conobbe un ragazzo di nome

Luigi che diventò il suo migliore amico: nella classe i due non si relazionavano

molto con gli altri compagni, ad eccezione di due ragazze sedute davanti a loro:

Angela e Nerina. Durante la sua esperienza a Mondovì spesso Cesare si ritrovò

solo a custodire la casa del nonno, dovendo anche curare l’orto e gli animali,

perché il nonno, ex soldato della Prima guerra mondiale, andava in soccorso dei

partigiani che combattevano per la liberazione dell’Italia dai tedeschi.

Durante le lunghe assenze del nonno, Cesare riceveva diverse sue lettere

tramite una conoscente. Nelle lettere il nonno parlava della dura vita che

facevano i partigiani in montagna, i quali erano “soldati” che non facevano parte

di un esercito, ma di un movimento di resistenza contro i soldati tedeschi, e che

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per sopravvivere si facevano ospitare dalle persone che vivevano nei paraggi,

mangiando il poco che queste potevano offrire loro.

Durante l’estate Cesare passava il tempo a fare lunghe uscite in bici con Luigi,

Angela e Nerina, con la quale, frattanto, era nato un sentimento più forte

dell’amicizia che li ha uniti per diverse settimane.

Mentre il nonno era ancora in montagna, una sera Cesare fece conoscenza di

Giuseppe Barale e di Jonathan, due partigiani conoscenti del nonno; questi

erano venuti a cercare nonno Giovanni per avere da lui un rifugio e per

organizzare la lotta partigiana e preparare l’insurrezione generale; vista l’assenza

del nonno, Cesare trovò ai due un posto dove rifugiarsi, un luogo nascosto,

vicino alla casa di un amico del nonno, scoperto in una delle tante passeggiate

fatte con Luigi. I due lo ringraziarono e gli ordinarono di non dire a nessuno del

loro nascondiglio. Questo segreto, che Cesare mantenne gelosamente, causò un

litigio tra lui e Nerina, provocando la fine della loro storia d’amore.

Barale e Jonathan, quando arrivò il giorno in cui dovettero tornare nel loro

gruppo di partigiani in montagna, diedero a

Cesare un binocolo col compito di tenere

d’occhio il viadotto che era situato vicino

alla casa del nonno, perché i tedeschi,

probabilmente, lo avrebbero distrutto

durante la loro ritirata, per rendere

difficoltosa l’avanzata degli alleati; Cesare

li salutò, pronto a svolgere il suo compito;

purtroppo l’insurrezione non ci fu il giorno

seguente e Cesare dovette aspettare più di un mese per vedere i primi segnali

della ritirata tedesca. Quando i tedeschi finirono i preparativi per la ritirata,

durante il cuore della notte, distrussero il viadotto con una grande esplosione che

fece svegliare Cesare, il quale corse subito a controllare la situazione. Il giorno

seguente ci fu l’insurrezione generale ed i partigiani, insieme agli alleati,

passarono per le strade di Mondovì, festeggiando la fine della guerra e la

liberazione dell’Italia; Cesare accorse in città per trovare il nonno, ma ricevette il

compito da un partigiano: andare a comunicare alla ragazza che lo stesso

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partigiano era vivo; Cesare accettò senza fiatare e partì con la sua bicicletta;

dopo aver svolto anche quest’ultimo compito, tornò di fretta a casa dal nonno,

per rivederlo finalmente.

Durante l’estate Jonathan, con la sua jeep, andò a trovare Cesare ed il nonno e

portò loro della carne in scatola, che mangiarono insieme mentre parlavano.

Cesare passò il resto dell’estate dal nonno, senza rivedere più i sui amici che

erano tornati a Torino con le proprie famiglie.

Tornato, quindi, in bicicletta, a Torino, decise di andare, sempre con la sua

amata bicicletta, ad iscriversi al liceo classico; quando arrivò, scoprì che Barale

era diventato il preside del liceo e che i suoi amici si erano tutti iscritti in quella

scuola e che lo avevano iscritto nella loro stessa classe: quindi, l’anno

successivo si sarebbero rivisti.

Questo romanzo spiega molto bene la vita di un adolescente al tempo della

guerra: Cesare, infatti, trascorre i lunghi mesi del conflitto, affrontando

responsabilmente ed autonomamente le problematiche della scuola, la gestione

della casa del nonno, il supporto ai partigiani ed il rapporto amoroso con Nerina.

Il romanzo mette in evidenza i temi dell’amicizia, della solidarietà, dei disagi

prodotti dalla guerra, ma anche quelli fondamentali delle lotte sociali e di quelle

partigiane: queste ultime tematiche si collegano all’incontro fatto a scuola l’11

Marzo 2017 con il partigiano Sergio Giammarchi, che ha messo proprio in

evidenza la dura vita dei ragazzi a quel tempo: essi perdevano la loro giovinezza

per colpa della guerra e del regime nazifascista, e, da partigiani, lottavano in

prima linea per la libertà dell’Italia, dovendosi però nascondere in montagna e

vivendo e combattendo grazie anche all’aiuto della popolazione che abitava nei

dintorni.

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3 – INCONTRO CON IL PARTIGIANO SERGIO GIAMMARCHI

Il giorno 3 Marzo 2017 abbiamo partecipato ad un l'incontro, nell’aula 42-43 del

nostro istituto, con il partigiano Sergio Giammarchi e con la dott.ssa Elena

Paoletti, collaboratrice dell’Istituto Storico per la Storia della Resistenza di Forlì-

Cesena.

La ricercatrice Paoletti ci ha illustrato sinteticamente la storia del Fascismo, dalla

presa del potere di Mussolini alla caduta del nazifascismo in Italia. Il suo discorso

si è soffermato sia sull'obbedienza al Duce (anche i bambini, ad esempio, erano

costretti al giuramento di fedeltà a Mussolini) sia sulla costruzione dell’uomo

nuovo, attraverso l’educazione

dei giovani affidata a

organizzazioni collaterali

(Balilla, tanto per fare un

esempio) sia sull’importanza

della parola guerra: già da

bambini si veniva educati al

combattimento.

Poi ha illustrato gli avvenimenti del luglio del 1943 (sbarco in Sicilia degli alleati),

soffermandosi, in particolare, sul 25 luglio 1943, quando cadde il fascismo (il re

fece arrestare Mussolini e affidò il governo a Badoglio) e mettendo in evidenza

che da quella data fino all’8 Settembre (circa 40 giorni) gli italiani assaporarono

la libertà, dopo anni di dittatura; successivamente all’armistizio ci furono la

liberazione di Mussolini e la nascita della Repubblica di Salò, con l’Italia divisa in

due. Infine, la dott.ssa ha evidenziato l'impegno degli italiani per contrastare

l'occupazione nazifascista, a partire dall’8 Settembre del 1943, e si è soffermata

sulla Resistenza italiana, caratterizzata da scioperi, da manifestazioni di protesta,

dalla stampa clandestina e dalla contropropaganda clandestina, dal boicottaggio

(economico, del lavoro e dell'esercito), dal sabotaggio (danneggiamento di

strutture), dal sostegno ai partigiani; a partire dall'8 Settembre del 1943 sono

nate organizzazioni anti-fasciste: nelle città ci furono piccoli gruppi di persone,

mentre in montagna si ebbero vere e proprie brigate. Il 9 settembre dello stesso

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anno venne istituito il CLN (Comitato di liberazione nazionale).

La parola è poi passata al partigiano Sergio Giammarchi, che è nato il 24 maggio

del 1926 e ha vissuto direttamente il periodo fascista, la Seconda guerra

mondiale e la Resistenza. Dopo la quinta elementare, pur volendo, non ha potuto

proseguire gli studi, perché la sua famiglia non era benestante e fu costretto a

lavorare dallo zio per poche lire a settimana.

Il partigiano si è soffermato sulla parola guerra: ha raccontato di come l’Italia sia

stata in guerra consecutivamente

dal 1936/37 fino al 1945: prima

in Africa, poi in Spagna, per

appoggiare il dittatore Franco,

poi in Albania, in Francia per poi

arrivare alla gelida guerra in

Russia, dove fu ancora più

evidente il divario di equipaggiamento tra i soldati italiani e quelli sovietici: l'Italia

aveva armi più arretrate, solo i moschetti, mentre i russi avevano i “parabelli” e

mortai.

I bambini venivano “preparati” a combattere già da piccoli; a tal proposito ha

raccontato l’esperienza vissuta a 11 anni, quando frequentava la quinta

elementare: un giorno, lui e la sua classe, vestiti da balilla e muniti di cucchiai e

moschetti, furono condotti dalla scuola elementare (oggi De Amicis) a piedi nel

bosco di Ladino; qui le classi partecipanti vennero divise in due squadre, una

bianca e una rossa, e gli alunni compirono manovre militari di diverso genere;

alla fine dell'esercitazione arrivò l'esercito per fornire agli studenti il cibo che fu

mangiato con il cucchiaio in gavette! Poi tornarono a scuola, dopo aver percorso

a piedi, a soli 11 anni ed in meno di una giornata, più di 25 chilometri.

Ha ricordato, inoltre, che ha visto parecchie violenze fatte dai fascisti e dai

nazifascisti: agli oppositori del regime veniva fatto bere olio di ricino, alle donne

venivano tagliati i capelli e, se portavano il rossetto, le loro labbra venivano

ricoperte di catrame.

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Durante l’occupazione tedesca la

vita divenne più pesante, il

regime più duro e violento – Il

popolo perdona, il perdonato non

perdona il popolo – ed il numero

di oppositori e di renitenti alla

leva crebbe fortemente: a Forlì il

primo antifascista ad essere ucciso fu Fabbri il 20 Settembre del 1943.

Un'altra data importante fu il 14 gennaio del 1944, quando venne instaurata la

pena di morte con il “Bando Graziani” per i renitenti alle lega della Repubblica

Sociale Italiana.

Giammarchi ha raccontato anche un’altra esperienza significativa e dolorosa:

vide morire a Forlì cinque ragazzi che si erano trattenuti in piazza Saffi, anche

dopo la sua chiusura: lo stesso giorno vennero scoperti e condotti in tribunale,

dove vennero condannati a morte, senza praticamente processo; vennero poi

caricati su di un camion e portati in un vicolo ceco per scontare la condanna: i

cinque vennero fucilati da dei soldati italiani, obbligati dagli stessi tedeschi.

Sergio capì che ora di opporsi alle violenze ed al regime nazifascista: “Se

dovevamo morire, saremmo morti in Romagna”, ci ha detto. Giammarchi divenne

partigiano e assieme a suoi due compagni, Casadei e Mambelli, creò

un’associazione di resistenza chiamata “Giovine Italia” che poi confluì nella

Brigata Corbari. In seguito, ha ricordato il pomeriggio del 18 agosto del1944

quando furono appesi i cadaveri di quattro partigiani, suoi amici, in piazza Saffi:

Adriano Casadei, Silvio Corbari, Iris Versari e Arturo Spazzoli.

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Il partigiano alla fine ha detto che la guerra è brutta, che non guarda in faccia a

nessuno, che è la rovina di tante incolpevoli famiglie; sono i guerrafondai che

vogliono la guerra, in ogni momento, per arricchirsi e per acquisire potere: il

popolo non c’entra, non la vuole, ma la subisce; a tal proposito, ha ricordato due

avvenimenti con protagonista Casadei: trattò bene un prigioniero tedesco che, in

un’altra occasione, gli risparmiò poi la vita. Ha specificato, dopo una domanda di

un alunno, che, a differenza dei tedeschi, loro non hanno mai ucciso una

persona a sangue freddo: combattevano per la liberazione dell’Italia, e di

conseguenza, per difendere l’Italia, uccidevano; nel suo gruppo formato da 137

componenti, furono uccisi dai tedeschi 58 compagni. Ha sottolineato che sono

stati sempre in prima linea, non sono mai scappati, semmai ritirati per poi poter

riattaccare. Infine, ha fatto un appello a noi giovani a rifuggire dalla guerra e

dall’odio ed a cercare di risolvere tutte le nostre controversie con il dialogo e con

la parola.

Secondo noi quest'esperienza è stata molto significativa: ci è servita per

rafforzare le nostre conoscenze su questo periodo storico, caratterizzato da

difficoltà, violenze, povertà e disagi; per capire la forza di volontà di ogni italiano

nel proteggere la patria, a costo anche della propria vita. Ci ha aiutato a

comprendere, inoltre, come i ragazzi della nostra età di allora abbiano vissuto

dolorose e difficili esperienze, a volte davanti ai propri occhi, e con che forza e

motivazione siano riusciti a reagire, opponendo resistenza, per un grande ideale.

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4 – VISITA DEI LUOGHI DELLA MEMORIA FORLIVESI

Il giorno 10 Marzo 2017, accompagnati dai professori Maurizio Gioiello e Valente

Roberto, abbiamo visitato i luoghi della memoria forlivesi; in particolare, ci siamo

soffermati nei posti dove gli ebrei hanno vissuto e patito, per conoscere storie ed

avvenimenti accaduti a Forlì al tempo del ventennio fascista e dell’occupazione

nazifascista.

La prima tappa del nostro “viaggio” nella

memoria è stata Piazza Saffi n. 3 . Abbiamo

visto quello che un tempo era un negozio di

pellicceria, (oggi è presente una profumeria

che conserva il portone originale in legno), che

aveva come proprietari i fratelli ebrei Matatia.

Nissim e suo figlio Roberto furono arrestati ed

inviati nel campo di sterminio di Auschwitz

dove morirono; la stessa orribile sorte colpì

anche agli altri componenti della famiglia di

Nissim Matatia: Matilde, Camelia e Nino.

Gli ebrei erano riusciti perfettamente ad

integrarsi nella società italiana ed in quella forlivese: ne sono prove a Forlì le

presenze della ditta Saralvo, in via delle Torri, ed il negozio Del Vecchio, che si

trovava in corso Vittorio Emanuele, oggi corso

della Repubblica. Abbiamo anche osservato una

delle lapidi presenti nell’atrio del palazzo

comunale (piazza XC Pacifici), dove compaiono i

nomi di alcuni ebrei tra i soci fondatori e

finanziatori della Croce Rossa. I docenti, inoltre,

ci hanno fatto mostrato le copie di alcuni

documenti (vedere l’allegato “Itinerario tra i

luoghi della memoria forlivesi”, a cura del prof.

Gioiello), in cui è possibile rintracciare i nomi di

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ben 15 famiglie ebree residenti a Forlì nell’estate del 1938.

Ci siamo poi spostati in corso Diaz, fermandoci nei pressi dell’ex Albergo

Commercio, dove alla fine del 1943 venne allestito il campo di concentramento

provvisorio provinciale.

Nel campo finirono almeno 14 ebrei: uomini, ragazzi (Nino e Camelia, i due figli

di Nissim Matatia) e donne, alcune anche anziane (le quattro sorelle Forti), quasi

tutti poi finiti ad Auschwitz. Nell’allegato suddetto è possibile vedere la copia

della fattura di 400 lire per la costruzione nell’edificio del divisorio in legno, che

separava 10 stanze dalle altre; i lavori, mai pagati, furono effettuati dalla

Cooperativa Lavoranti Falegnami di Forlì.

Percorrendo via Diaz abbiamo incontrato altre strade che rimandano alla storia

degli ebrei a Forlì. Gli ebrei forlivesi, prima della bolla papale del 1555 di Papa

Paolo IV che di fatto li ghettizzava, vivevano in una “giudecca”, che altro non era

che un gruppo di strade nelle quali gli ebrei si insediavano spontaneamente. La

giudecca comprendeva le attuali via Porta Merloria, via Sara Levi Nathan e via

Caterina Sforza. Con la bolla gli ebrei furono costretti a trasferirsi nella strada

Calcavinazza (oggi Sant’Antonio Vecchio). Successivamente, nel 1593, con la

bolla papale di Clemente VIII, gli ebrei furono espulsi; in realtà a Forlì la comunità

ebraica continuò ad essere presente, come attestano vari documenti.

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Con l’arrivo di Mussolini al potere e con la promulgazione delle leggi razziali la

comunità ebraica fu attaccata nuovamente e duramente: doveva sparire dalla

faccia della terra, perché considerata inferiore a quella ariana. Dovevano essere

cancellati non solo gli individui, ma anche tutti gli edifici o nomi che facevano

risalire a tale etnia; questo accadde anche a Forlì: la vecchia via dei Giudei, oggi

via Sara Levi Nathan, prese il nome di via 23 Luglio 1938, a seguito di un

discorso antisemita tenuto da Mussolini a Forlì in tale data.

Dopo aver percorso via Sara Levi Nathan e Caterina Sforza, dove si trovava il

cimitero degli ebrei, ci siamo recati all’ex Brefotrofio, oggi sede dell’Ufficio

Scolastico Provinciale di Forlì-Cesena, situato in via Salinatore n. 24. L’edificio

fu fatto costruire negli anni venti dai fascisti per il mantenimento dei figli illegittimi

abbandonati; successivamente venne utilizzato da tedeschi per imprigionare e

torturare gli oppositori politici. Nella struttura furono trasferiti 23 dei 60 poliziotti

responsabili a Roma dell’eccidio delle

Fosse Ardeatine e nelle quattro celle

del sotterraneo vennero reclusi, in

condizioni estreme, fino a 50 prigionieri,

tra gli altri Oreste Casaglia, il cui figlio

Luigi abbiamo avuto il privilegio di

conoscere a scuola. Prima di entrare

nell’edificio, i docenti ci hanno letto alcuni passi tratti dal diario “SS – Cella n. 1”

di Oreste Casaglia, nei quali vengono descritte le dure condizioni di vita dei

prigionieri politici. Successivamente, al primo piano dell’edificio, abbiamo

incontrato il Provveditore, al quale abbiamo illustrato le tappe del nostro viaggio

della memoria; il Provveditore ha fatto un breve discorso che ci ha colpito molto:

ci ha invitati ad agire, in quanto noi siamo il futuro e che spetta a noi costruire un

mondo migliore, servendoci delle lezioni del passato; poi ci ha gentilmente

consentito di scendere nel seminterrato e di visitare alcune stanze, che nel 1944

erano state adibite a celle di reclusione. Quindi, alcuni di noi, accompagnati dai

professori, sono scesi nel seminterrato (dove oggi è presente un archivio) e

hanno potuto osservare le celle “ampie” 2 metri per 3, dove furono stipati fino a

12 prigionieri politici.

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Queste stanze hanno una minuscola finestra in alto e sono davvero piccole: le

finestre nel 1944 vennero murate per i due terzi e protette da una muro

paraschegge in modo che potessero entrare poca luce ed aria; nei mesi d’estate

molte persone soffocavano, data la quasi inesistente presenza di ossigeno che,

tra l’altro, andava divisa tra dodici individui; all’interno le condizioni di vita erano

pessime: ci siamo chiesti come effettivamente potessero vivere in quelle

condizioni tanti prigionieri, senza avere il minimo per sopravvivere.

Ultima tappa del nostro viaggio nella memoria dei luoghi forlivesi è stato il

carcere della Rocca. Durante gli anni del nazifascismo era la sede di transito di

detenuti destinati poi verso i campi di lavoro o di concentramento. In esso furono

rinchiusi fino a 71 ebrei. Il professore Gioiello, all’esterno della Rocca, ci ha letto

alcuni passi davvero toccanti, tratti dal diario di Suor Pierina Silvetti, che svolse

opera di assistenza dei carcerati; la stessa suora ricorda l’eccidio di 7 donne

ebree avvenuto il 17 Settembre 1944 all’aeroporto di Forlì.

19

A tal proposito, gli insegnanti ci hanno raccontato (non abbiamo potuto visitare i

luoghi per mancanza di tempo) di altri eccidi avvenuti all’interno dell’aeroporto, in

fosse scavate dall’esplosione di bombe: in totale ci furono quattro massacri, tra il

Giugno e il Settembre del 1944, nei quali complessivamente furono uccise 52

persone, di cui ben 19 ebrei.

Il nostro viaggio nella memoria è stato davvero interessante, in quanto ci ha

consentito di “fare” storia dal vivo, sul campo, e di leggere (ad ogni tappa) e di

toccare con mano documenti con i

quali si ricostruisce la Storia;

l’esperienza ha catturato la nostra

attenzione, anche perché abbiamo

trattato storie, argomenti e fatti

accaduti nel nostro territorio; ci

siamo anche immedesimati nelle

sofferenze dei poveri ebrei che

hanno pagato a caro prezzo, con

atroci sofferenze e spesso con la morte, colpe non loro, a causa della follia di

menti malate: “L’antisemitismo non è mai lo scopo, è sempre e soltanto il mezzo,

la misura di contraddizioni senza via d’uscita. L’antisemitismo è lo specchio dei

difetti del singolo, della società civile e del sistema statale. Dimmi di che cosa

accusi gli ebrei, e ti dirò quali colpe hai”. ( Vasily Grossmann).

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5 – INCONTRO CON LUIGI CASAGLIA

Il giorno 16 marzo abbiamo partecipato, nell’aula magna del nostro istituto, ad un

incontro con Luigi Casaglia che una decina di anni fa ha pubblicato, con il titolo di

SS cella n. 1, il diario di suo padre Oreste Casaglia; questi fu un noto avvocato

forlivese, recluso ingiustamente per alcuni mesi dai nazifascisti nei sotterranei

dell’ex brefotrofio di Forlì. All’incontro

ha partecipato anche lo storico Mario

Proli che ci ha presentato, in sintesi, il

contesto storico degli anni del

Secondo conflitto mondiale; ci ha

illustrato i motivi per i quali la

Germania divenne nazista e ci ha introdotto la figura di Oreste Casaglia.

Oreste Casaglia, nato nel 1896, è stato un famoso avvocato antifascista di Forlì,

che ha avuto nella sua vita professionale rapporti con persone importanti; all’età

di circa cinquant’anni, durante gli anni della guerra, ha deciso di difendere di

fronte al Tribunale Speciale i partigiani accusati in contumacia, a rischio della

propria vita, in quanto credeva fortemente nei valori della patria, del diritto e della

giustizia. Accusato ingiustamente dai fascisti, è stato recluso dalle SS come

oppositore politico, a partire dal 15 Agosto 1944, nell’ex brefotrofio di Forlì, in una

delle celle 2 metri per 3 (che abbiamo avuto modo di visitare nel nostro “viaggio”

nella memoria), in condizioni disumane. Fu scarcerato alcuni mesi dopo, ma morì

nel 1946 per le sofferenze patite durante la detenzione. Ad Oreste Casaglia è

stata dedicata una via di Forlì, quella che dal parco urbano Franco Agosto

conduce ai Musei di San Domenico.

Luigi Casaglia, quando ha preso la parola, ci ha mostrato l’immagine di un

fogliettino scritto con il sangue da suo padre, durante la prigionia: non avendo

una penna, Oreste decise di prendere una piccola scheggia di legno dalla porta

che chiudeva la sua cella, di incidersi un dito e con il sangue di scrivere un

messaggio da consegnare fuori dalla prigione; c’era scritto: “qui ci uccidono tutti”.

Quindi, Luigi Casaglia ci ha raccontato la vita del padre e si è soffermato sul

giorno di Ferragosto del 1944; i suoi ricordi erano nitidi: mentre lui leggeva un

libro nel giardino della casa a Villa Grappa, vide arrivare degli uomini in borghese

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che arrestarono suo padre; Luigi pianse nel vedere allontanarsi suo padre:

Oreste Casaglia fu messo su una macchina grigia e fu portato in prigione nell’ex-

brefotrofio, perché era stata trovata una lettera anonima che lo accusava,

indirizzata ai fascisti e da questi poi passata alle S.S. Venne rinchiuso in una

cella di dimensioni ridotte in cui vi era una piccola finestra, parzialmente murata e

protetta da un muro antischegge, dalla quale passava poca aria; nella cella non

c’era nessun arredo, veniva servito un unico “pasto” (una brodaglia) al giorno,

non era presente un medico, i prigionieri non avevano la possibilità di incontrare i

propri familiari né di prendere l’ora d’aria; avevano a disposizione appena un’ora

nella quale provvedere (in cinquanta!) ai bisogni corporali e all’igiene personale;

in sostanza, i reclusi vivevano in condizioni molto dure e difficili: tale trattamento

veniva utilizzato dai tedeschi per indebolire le forze e fiaccare l’animo dei

prigionieri, in modo che gli stessi potessero essere più deboli durante gli

interrogatori e più facilmente potessero confessare e dare alle SS le informazioni

utili. Gli interrogatori avvenivano cinque o sei giorni dopo l’arresto ed erano

preceduti ed accompagnati da grandi torture e violenze. Dalla prigione si usciva

o per morire, con fucilazione o impiccagione, o per essere deportati in Germania.

Mentre i prigionieri “vivevano”, o meglio sopravvivevano, nei sotterranei

dell’edificio, nell’ala opposta dello stesso i soldati delle SS organizzavano feste e

facevano baldoria fino a tarda notte.

Nella cella con Oreste ci furono anche un comunista, Giovanni Golfarelli (gli

vennero bruciati i piedi), il cui nome fu

tenuto nascosto per proteggere la sua

famiglia, ed un carabiniere che poi

venne deportato in Germania, dove, per

fortuna, riuscì a salvarsi.

Nell’ex brefotrofio erano presenti 23 dei

60 soldati responsabili della strage delle

Fosse Ardeatine; tra di essi c’era anche

il vice di Kappler: furono inviati a Forlì, ci ha detto Luigi, per controllare e

combattere i partigiani che erano presenti nei territori di Forlì, Ravenna e Pesaro.

Ci ha mostrato, inoltre, le foto dei ventitré soldati tedeschi e ci ha illustrato

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brevemente i mestieri che essi svolgevano prima della guerra: erano tutte

persone normalissime che si erano poi trasformate in belve feroci. I 23 sono

morti tutti di morte naturale

intorno agli anni ’80, ad

eccezione di uno che fu ucciso a

Bologna nel 1945.

Nella prigione ad Oreste

Casaglia vennero fatti tre

interrogatori; nel primo c’era il

maresciallo con un nervo di bue e lui si offrì di buttare la spazzatura al fiume; nel

secondo gli chiesero informazioni sul suo patrimonio familiare: Oreste pensò di

andare incontro alla morte, perché la confisca dei beni era l’ultimo passo prima

della pena di morte; proprio tra i due interrogatori, in una delle uscite dalla

prigione per buttare l’immondizia, Casaglia scrisse e consegnò il biglietto di cui

abbiamo parlato prima. Ricevute le notizie, tanti si misero in moto per salvarlo;

infatti, nel terzo interrogatorio l’inquisitore divenne molto amichevole: gli amici e

parenti comprarono con una colletta un paio di scarpe ed una borsetta in pelle di

coccodrillo per la moglie del capitano delle S.S, che era solita frequentare la

profumeria Zanotti di Forlì. Oreste non fu deportato per un supplemento di

indagini; successivamente, grazie anche all’aiuto del vescovo di Forlì, venne

liberato, perché le SS si resero conto che era innocente; fu liberato una sera di

Ottobre del 1945, quasi in segreto, in quanto i fascisti non erano contenti della

sua liberazione; nonostante la sua innocenza si dovette nascondere prima in un

ospedale di Faenza e poi dietro l’altare in legno di una chiesa nelle campagne

faentine. Dopo qualche anno morì a causa delle sofferenze patite.

Luigi Casaglia ha concluso il racconto ponendosi una domanda fondamentale:

come è possibile che l’uomo sia capace di compiere tutto ciò? Come è possibile

che uomini normali diventino delle belve feroci, responsabili delle più grandi

violenze? Secondo Luigi tutto è partito da Adolf Hitler: egli visse in una famiglia

nella quale il padre picchiava tutti i componenti; poi Adolf rimase da solo e

divenne uno straccione; nel 1914 volle arruolarsi nell’esercito tedesco ma si

prese una “sgasata” e finì in ospedale; si risvegliò quasi cieco; successivamente

23

pensò di essere il messia di un’entità superiore. In seguito, si circondò di

psicopatici come lui e così in lui aumentò la follia; purtroppo inculcò le sue idee ai

tedeschi, anche ai bambini, fin dalle elementari, così da attrarre giovani per la

guerra. Casaglia ritiene che nell’uomo ci sia l’istinto di essere migliore e

superiore agli altri; il nazismo inculcava proprio questa idea nella mente di tutti;

inoltre, era necessaria anche la presenza di un colpevole: gli ebrei vennero

considerati come capro espiatorio.

Luigi Casaglia ha terminato il discorso dicendoci di fare attenzione al nostro

futuro, a chi ci dice bugie ed a chi da la colpa dei problemi e delle difficoltà agli

altri, perché in questo modo si possono ricreare situazioni già viste in passato; ci

ha fatto notare che possono nascere persone intelligenti e acculturate come

Einstein e Mozart, ma anche individui psicopatici come Hitler.

Prima di salutarci, chiudendo l’incontro, Mario Proli ci ha detto che Luigi Casaglia

è come un agricoltore: ha trovato le memorie del padre e, pubblicandole, le ha

coltivate, rese vive, messe a disposizione di tutti per non dimenticare.

L’incontro in aula magna è stato costruttivo e molto interessante, anche perché

Luigi Casaglia ha saputo esprimere al meglio le memorie del padre, facendoci

rivivere momenti difficili della nostra storia.

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6 – VENTI CORPI SULLA NEVE

Giuliano Pasini, scrittore e blogger italiano, nato nel 1974 sull'Appennino

Emiliano, scrive un romanzo thriller con riferimenti storici alle stragi compiute

dalle truppe nazi-fasciste tra il 29 settembre ed il 5 ottobre 1944 nell'Appennino

Bolognese, intitolato: “Venti corpi nella neve”.

Il protagonista è Roberto Serra, un commissario in servizio in un piccolo paese

sulle colline dell'Appenino emiliano, chiamato Case Rosse.

Bisogna premettere che fin da bambino Serra aveva il “dono” di cadere in una

specie di stato ipnotico, attraverso il quale riusciva ad “entrare” nelle menti delle

persone coinvolte in un assassinio ed a provare i loro sentimenti e pensieri; gli

psicologi chiamavano “danza” tale capacità di Roberto. Lo stesso aveva scoperto

di avere, o acquistato, questo dono, il giorno in cui furono assassinati dalla mafia

i suoi genitori: ragazzino, era stato presente quando i sicari si avvicinarono in

moto alla loro auto e freddarono, prima il padre, con un colpo ravvicinato alla

testa, poi la madre, facendole esplodere il cervello. Lui rimase miracolosamente

illeso, ma profondamente segnato da questo evento per tutta la vita. Crescendo

aveva intrapreso la carriera del padre nelle Forze dell'ordine ed era stato

arruolato in un reparto speciale, che sfruttava il suo dono per indagare sui casi

più difficili. Ogni volta che Serra studiava un caso si lasciava coinvolgere

dall'indagine e dai suoi protagonisti: poteva entrare nella mente dell'assassino,

carpirne i pensieri; oppure era la vittima a chiamarlo, a costringerlo a “danzare”,

a soffrire le sue pene. Inoltre, Roberto, oltre a vivere le sofferenze della vittima,

sentiva forte in sé la responsabilità di fare giustizia al martire; per questo si

gettava a capofitto nell'indagine e non si dava pace, finché non fosse riuscito a

catturare i responsabili. La sua non era vita. Per questo motivo si era ritirato a

Case Rosse, per cercare un po' di pace e provare a vivere una vita normale. Ma

era tutto inutile, il destino lo inseguiva ovunque.

Case Rosse, 1995. L’anno si apre con tre omicidi: vengono trovati i cadaveri di

un uomo, di sua moglie e della loro figlia di nove anni, in mezzo a un campo, il

Prà Grande, ribattezzato Monte della Libertà. Per Serra è l’inizio di una nuova

indagine. La famiglia è stata brutalmente uccisa con colpi di arma da fuoco

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sparati a una distanza così ravvicinata da aver quasi fatto esplodere i loro visi. È

un’esecuzione, non c’è dubbio.

Nell’indagare su un omicidio così efferato, Serra si sente colpito, travolto: torna a

“danzare”. Questa volta è la bimba a chiamarlo. Gli trasmette le sue emozioni:

prima la felicità di indossare una nuova gonna per l'occasione della festa di

capodanno da trascorrere con i genitori, poi, immediatamente dopo, la paura ed

il terrore, la voce stridula di un estraneo che irrompe in casa, che li costringe ad

inginocchiarsi, che li minaccia con un fucile, ed infine gli spari. Il commissario

sente l'obbligo di smascherare il colpevole per fare riposare in pace la famiglia

massacrata. Come sua abitudine, non avrà pace finché non ci riuscirà e,

assieme al collega Manzini, tenterà di risolvere il caso.

Per Serra si rivelerà un’indagine tra il presente e quel che è accaduto in un

passato che sembrava dimenticato, ben nascosto sotto la neve di Case Rosse,

ma ancora troppo vivido nelle memorie degli abitanti: una rappresaglia, avvenuta

esattamente cinquant’anni prima, aveva messo fine alla vita di venti abitanti del

paese, delle quali tredici facevano parte della famiglia del capo della Brigata

partigiana Y, Sfregio, ucciso anche lui nella rappresaglia.

Il protagonista, così come il lettore, per risolvere il caso ha bisogno di capire ed

analizzare il contesto storico degli avvenimenti di cinquant'anni prima. Roberto

Serra, grazie all'aiuto ricevuto dallo scrittore e storico Virgilio Aldrovandi, che

aveva documentato nel libro “Arrivano i lupi” gli episodi della resistenza

partigiana nelle colline bolognesi, viene a conoscenza dei dettagli dell'eccidio del

Prà Grande avvenuto il 1 Gennaio 1945.

Protagonisti di questa parte del romanzo, ambientata alla fine del 1944, sono

Francesco Ferri, detto Sfregio, il partigiano a capo della brigata Y, ed Enrico

Zanarini, detto il Boia dell'Appenino, prima repubblichino poi componente delle

SS. Sfregio, insieme ad alcuni dei suoi compagni, organizzò una missione per

distruggere alcune attrezzature militari nemiche e per liberare il cadavere di un

vecchio appeso nella piazza del paese, ma i partigiani commisero un errore

fatale, quello di uccidere due soldati tedeschi. La conseguenza di tutto questo fu

la rappresaglia di quaranta civili inermi, fatti ostaggi per ottenere la resa e la

cattura dello stesso Sfregio che era stato riconosciuto e denunciato da un

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compaesano fedele ai nazifascisti: questo traditore della patria è Berto Guerzoni,

il contadino assassinato dallo stesso omicida della famiglia ritrovata morta nel

1995 al Prà Grand. Sfregio si consegnò al Boia, nel vano tentativo di salvare la

propria famiglia; fu, invece, costretto ad assistere, insieme ad altri dieci abitanti

del paese, all'uccisione della moglie, del figlio e degli altri componenti della sua

famiglia, prima che venisse anch'egli brutalmente assassinato. L'unico della

famiglia Ferri rimasto vivo fu Valerio, il figlioletto minore di tre anni, salvato dai

compagni partigiani di Sfregio e adottato da uno di loro.

La famiglia assassinata cinquant'anni dopo, su cui indaga Serra, risulta la

discendente di quella del Boia dell'Appennino. Questo conferma che

l'esecuzione, avvenuta cinquant'anni dopo l’eccidio, è un atto di vendetta.

Il commissario Serra scoprirà che l'assassino è il collega Valerio Manzini, che

aveva assunto il cognome del padre adottivo, ma altro non è che l'unico

superstite della famiglia Ferri: cioè il figlioletto Valerio, cresciuto dal compagno

partigiano del padre, il Professore, che gli aveva impresso nella mente

l'ossessione di fare giustizia ai familiari martirizzati. Giustizia che non aveva

avuto alla fine della guerra, perché il Boia, fuggito in Sud America, non era mai

stato arrestato e incriminato per i delitti e le atrocità commesse.

Il romanzo si conclude con Serra che si trova faccia a faccia con l'assassino;

mentre cerca di avvicinarsi a lui, cade nello stato di ipnosi, immedesimandosi nel

collega. Sente le grida e i lamenti e rivive il dolore e le sofferenze inflitte ai martiri

dai nazifascisti: comprende così che un essere umano non può vivere con quelle

“voci” che tutti i giorni gli martellano pesantemente la testa, chiedendogli

vendetta. Accade poi che, mentre Serra si trova inginocchiato davanti a Manzini

e con la pistola puntata in fronte, nella mente dell'assassino compaiono due voci

ben distinte che gli dicono che tutto quello che stava facendo era inutile. Il

commissario Serra, che in quel momento era nella testa del collega ormai

impazzito, riconosce la voce dei suoi genitori. Manzini ormai stremato, decide di

ricongiungersi alla famiglia e, puntandosi al petto la pistola, porge fine alla sua

vita e alla missione comandatagli dai martiri.

Serra, pur provando infinita pietà per il collega Manzini, non lo giustifica e non gli

perdona l'efferato atto di violenza nei confronti di una famiglia innocente e di una

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bambina di solo nove anni: è diventato anch'egli un boia. Diverso sarebbe stato

se avesse rivolto il suo odio e la sua vendetta solo verso i diretti responsabili del

martirio della sua famiglia: Enrico Zanarini ed il vile e servile Guarzoni. Hanno

forse diritto di continuare a vivere persone capaci di tanta crudeltà? Eliminarli

significherebbe solo fare un favore all'umanità intera. Ci verrebbe da pensare

che forse era con questo spirito che, alla fine della guerra, chi aveva sofferto

tanto, appostato sul ponte di Gualdo, aspettava il ritorno dei fascisti traditori.

Enrico Zanarini è realmente esistito, mentre gli altri personaggi e le vicende del

libro sono frutto dell’immaginazione dello scrittore; lo sfondo storico è ricostruito

in modo realistico, in quanto le rappresaglie nazifasciste a scapito di inermi civili

sono realmente accadute in tutto l'Appennino tosco-emiliano e romagnolo

durante gli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale. Ricordiamo, per esempio,

quello di Boschi di Ciano (vicino Zocca), avvenuto nel mese di luglio del 1944

con protagonista Enrico Zanarini, al quale probabilmente lo scrittore si ispira.

Possiamo, inoltre, ricordare la strage di Monte Sole, più nota come strage di

Marzabotto, così ben documentata nel film L'uomo che verrà, del 2009, diretto da

Giorgio Diritti e ambientato nel 1944, nel quale vengono raccontati gli eventi

antecedenti la strage con gli occhi di una bimba di otto anni. Le SS, appoggiate

da reparti di soldati dell'esercito, misero in atto feroci rastrellamenti sulle colline

dell'Appennino: interi casolari vennero incendiati; vecchi, donne e bambini

vennero trucidati, dopo esser stati raccolti nei cimiteri e nelle chiese. Tutto questo

fu messo in atto per rappresaglia nei confronti delle azioni di resistenza delle

Brigate partigiane, che in quei luoghi operavano, e dell’opera dei civili che

appoggiavano o semplicemente non denunciavano i Partigiani.

Più vicino a noi, possiamo ricordare la strage del Carnaio del 25 luglio 1944, con

la fucilazione di quasi 30 civili (10 per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani),

dopo i rastrellamenti e la devastazione delle case coloniche.