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appunti per Oss
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Il paziente in urgenza psichiatrica
E’ fondamentale con questo tipo di paziente l’ascolto..quando il soggetto è in stato
di sofferenza acuta si deve sentire ascoltato e perciò deve esserci un sufficiente
spazio di comprensione.. Non bisogna utilizzare un interventismo immediato che
può risultare privo di ascolto..ed è deleterio..
Una corretta relazione di aiuto prevede diverse fasi:
- 1° fase - di presentazione – “sono Francesco, sono un operatore di questo
reparto, mi dica…”;
- 2° fase - di ascolto del paziente - con disponibilità e mantenendo però
sempre il ruolo ed il contesto in cui ci si trova – “dovrò riferire quanto mi sta
dicendo all’infermiere o al medico perché mi pare un’informazione utile per
comprendere il suo stato attuale…;
- 3° fase - di conclusione - è la fase conclusiva della relazione di aiuto ed è
bene tenerla a mente in quanto nelle situazioni d’urgenza il paziente tende ad
occupare molto spazio e tempo e può assorbire in modo eccessivo la nostra
attenzione, soprattutto nell’eccitamento maniacale.
Nella fase di ascolto è bene incoraggiare l’espressione dei sentimenti del paziente
attraverso le tecniche per favorire la comunicazione e l’ascolto attivo.
Nelle situazioni di ansia certi pazienti esprimono bene i loro sentimenti in modo
colorito. In situazioni di depressioni gravi e scompensi psicotici è necessario un
nostro intervento per far sì che il paziente verbalizzi il suo vissuto. Il depresso
grave non riuscirà a riferire i suoi sentimenti subito; è necessario attendere e
comunicare disponibilità (“avrà modo di dirmi come si sente ..” o “mi chiami pure
se sente delle cose da riferire”).
Non bisogna mai verbalizzare una banalizzazione ed evitare sentimenti di ironia
di fronte a certi comportamenti bizzarri di uno psicotico scompensato o di un
paziente maniacale. L’operatore deve saper disciplinare il proprio
comportamento emotivo di fronte al paziente.
Il paziente in fase acuta ha anche bisogno di rassicurazione - la sua sofferenza è
dominata da angoscia e insicurezza. Anche l’aggressività è determinata da un
angoscioso sentimento di paura e di minaccia. Dopo un valido ascolto delle
sofferenze e bisogni del paziente (eccitamento maniacale, scompenso con visioni
e progetti deliranti o intenzionalità suicidiaria) un atteggiamento rassicurante da
parte di tutta l’équipe è terapeutico. Non dire al paziente frasi del tipo: “Stia
tranquillo, non è niente”. Rassicurare significa adoperare la dovuta fermezza in
tutte le situazioni che lo richiedono. Il paziente acuto, soprattutto lo psicotico,
coglie molto bene lo stato d’animo dell’interlocutore e i sentimenti che questi
avverte verso di lui. L’operatore nelle situazioni d’urgenza dovrà mantenere la
calma il più possibile (anche in situazioni di vero pericolo). Il paziente avverte
subito ogni sentimento di paura o impazienza dell’operatore e ciò crea ancora
più tensione e agitazione. Il paziente in fase di scompenso acuto (affetto da
allucinazioni ed idee deliranti di tipo persecutorio) si può sentire braccato e senza
scampo e può vivere il ricovero come un sopruso a suo danno e potrebbe avere
un comportamento aggressivo.
L’operatore deve dimostrare la massima calma, evitare atteggiamenti ostili,
aggressivi (contro-aggressivi) e dosare rassicurazione e fermezza ( x es.
somministrazione terapia) comunicandogli protezione poiché si è cercato di
capire cosa voglia dire vivere perseguitati. Questo atteggiamento spesso risolve
la crisi e fa mantenere al paziente l’idea di essere aiutato e fiducioso.
Si mette in atto un’azione terapeutica con modalità pratiche sicure e ferme. Il
medico dopo attenta valutazione darò una terapia orale o endovenosa (flebo) o
intramuscolare (puntura). Le terapie farmacologiche devono essere proposte al
paziente con decisione e fermezza. E’ eticamente corretto informarlo su quanto
gli verrà somministrato ed è anche corretto e terapeutico che percepisca che
quanto gli verrà somministrato è ciò di cui ha bisogno. Se il paziente è stato
ascoltato e capito l’azione terapeutica viene più accettata dal paziente anche se
la sofferenza psicotica è intensa. Certi pazienti in scompenso psicotico possono
presentare vissuti persecutori che non permettono invasioni corporee e la
terapia può essere vissuta come molto minacciosa. E’ importante evitare
tentennamenti, indecisioni che possono aumentare l’angoscia del paziente. Un
fare sicuro, accompagnato da parole e atteggiamenti rassicuranti e calmi porta il
paziente a fidarsi. Questo atteggiamento (da tenere nella fase di bisogno acuto)
si prospetta come un fare maternalistico e una buona madre sa e fa.
In seguito alla valutazione medica il paziente potrà superare la crisi acuta e
tornarsene a casa o essere ricoverato. In caso di ricovero il paziente deve essere
informato della decisione di rimanere in reparto; dovrà ricevere informazioni sul
suo stato di salute e sulla terapia (cura). Se il paziente è contrario al ricovero è
bene che gli operatori lo accolgano in reparto e gli sappiano dare, con sicurezza e
fermezza, tutte le informazioni che lo riguardano usando un linguaggio adatto a
quel paziente. E’ importante trasmettere sicurezza ad un paziente che deve
essere ricoverato: informarlo su come il reparto è organizzato (regole del
reparto, orari di visita, decisioni mediche). L’operatore in reparto potrà
accogliere i motivi di sofferenza del paziente, dovuti all’ospedalizzazione e non
convincerlo a tutti i costi che si troverà bene. Se il paziente ricoverato sente che
può esternare le sue lamentele e che queste vengono ascoltate con attenzione si
dispone meglio verso un rapporto di fiducia col personale, nonostante la sua
sofferenza e insofferenza verso l’ambiente ospedaliero.
Quindi il compito del personale di reparto è quello di predisporsi come persona
preparata a comprendere i bisogni profondi di un sofferente e di farvi fronte con
professionalità e sicurezza.
Il paziente aggressivo
Esistono temperamenti più aggressivi di altri o caratteri più pronti di altri a
reagire in modo impulsivo, violento (una sorta di relazione precoce con
l’ambiente che struttura l’individuo più verso l’odio che l’amore).
Queste tendenze aggressive possono essere presenti come tratti di personalità e
possono configurare un disturbo di personalità (soprattutto nello psicopatico, nel
borderline, nel narcisistico e nel paranoico).
Una risposta terapeutica adeguata nella situazione critica di aggressività si ha
solo se il personale considera l’azione del paziente come una risposta inadeguata
allo stato di malessere legato al disturbo psicopatologico.
Vi sono diverse fasi del ciclo dell’aggressività che devono essere conosciute per
usare appropriate misure di prevenzione e di contenimento assistenziale.
Nella fase antecedente l’escalation di scatenamento gli operatori devono riuscire
a cogliere i segni verbali e non verbali che possono indicare un’imminente
esplosione di aggressività. I segnali d’allarme sono:
- Espressione facciale tesa o arrabbiata; irrequietezza (passeggiare su e giù);
- Stato di allerta come se il paziente cercasse qualcosa;
- Contrazioni muscolari; dilatazione pupille;
- Rifiuto di comunicare a parole con sguardo fisso, aumento volume della voce;
- Ricerca di vie di fuga;
- Racconti deliranti a contenuto violento.
Nella fase di escalation aumenta l’agitazione psicomotoria nel paziente ed è
necessario intervenire proprio in questa fase con la massima tempestività,
allertando tutti gli operatori presenti per evitare il passaggio alla fase violenta
vera e propria. Se il paziente è aiutato a verbalizzare la sua rabbia riuscirà più
facilmente a trovare vie alternative allo sfogo psicomotorio (bisogno di passare
all’atto). Può far diminuire la tensione proporgli, se si può, una passeggiata o un
esercizio fisico.
E’ meglio che l’ambiente sia poco stimolante e poco affollato (è da preferire) e si
deve cercare un approccio relazionale col paziente.
I consigli per l’approccio relazionale nella fase di escalation sono:
- Mostrare un atteggiamento non minaccioso;
- Mantenere la calma al cospetto del paziente;
- Rivolgersi a lui chiamandolo per nome (ciò rafforza il senso del
riconoscimento e la sua autostima),
- Usare un tono di voce basso ed evitare il contatto diretto con gli occhi (lo
sguardo fisso negli occhi altrui è un segnale primordiale di attacco);
- Permettere che il paziente abbia un’interazione verbale, possibilmente con un
solo operatore (ciò favorisce il senso di accudimento);
- Incoraggiare il paziente a parlare delle sue preoccupazioni o paure o sospetti;
- Evitare un avvicinamento fisico eccessivo (oltre l’ampiezza di un braccio
esteso) per non accrescere nel paziente spiacevoli sentimenti di invasione o
costrizione. Se il paziente è alla ricerca di un contatto fisico, cercare di
distrarlo con domande;
- Evitare movimenti bruschi e spiegare sempre al paziente le proprie intenzioni.
Se il caso necessita di sedazione farmacologica rapida (decisione medica) anche
questa intenzione dovrà essere opportunamente riferita al paziente.
Se questi procedimenti non sono efficaci (e durante questo tempo il paziente va
attentamente osservato, senza dargli la sensazione di controllo diretto) si passa
alla fase critica di aggressione vera e propria. In questo caso l’operatore imparerà
a mantenere ancor di più la calma (manifestare la propria paura fa aumentare
l’aggressività del paziente) e sarà opportuno, per la sicurezza del paziente e degli
altri, prendere la decisione di squadra del contenimento fisico temporaneo. Tale
restrizione deve essere considerata un evento eccezionale e temporaneo al solo
fine di tutelare il paziente e per garantire un ambiente di cura sicuro.
La strumentazione per il contenimento fisico è presente in ogni reparto
ospedaliero. L’operatore socio-sanitario, però, ha una mansione di
collaborazione, e non di diretta responsabilità, durante i vari momenti di un
contenimento fisico temporaneo (vi deve essere anche una buona intesa tra gli
operatori). E’ bene che il paziente sia sempre rassicurato sul fatto che la misura di
contenimento fisico è stata assunta per aiutarlo e non certo per punirlo.
Sarebbe bene permettere ai pazienti di poter esternare, nella successiva fase di
recupero e di miglioramento dell’aggressività, i loro vissuti nei pregressi momenti
critici. Ciò permette di offrire al paziente l’immagine di un operatore in ascolto,
focalizzato sui sentimenti. Parlarne con realismo in un secondo tempo può
rafforzare il senso di fiducia nel personale da parte del paziente ed evitargli, se
possibile, vissuti persecutori legati al contenimento fisico.
L’operatore coinvolto in una relazione assistenziale che viene sfortunatamente
aggredito è bisognoso del supporto e della solidarietà dei colleghi. Il gesto
aggressivo verso un operatore causa una comprensibile alterazione emotiva
importante che può ripercuotersi sull’intero gruppo curante e sul contesto di
cura. Si possono mettere in moto emozioni correlate alla paura per la pericolosità
reale o presunta del paziente, rischiando posizioni di insicurezza di gruppo che
possono sfociare in atti anti-terapeutici contro il paziente.
L’elaborazione dei vissuti dell’operatore aggredito trova nella logica del lavoro di
gruppo il suo naturale sbocco: esternare le emozioni negative, il senso di
impotenza, di sconfitta, l’eventuale desiderio di reagire al paziente aggressivo o
di volerlo allontanare, devono essere una possibilità presente nell’organizzazione
del contesto di cura e queste emozioni devono trovare giusto ascolto e
comprensione. Da questa elaborazione ne deriverà un ri-pensamento su quanto
accaduto e si eviteranno anche quelle rigide posizioni contro-aggressive che
testimoniano, in realtà, un senso di insicurezza psicologica e di latente pericolosa
passività.
Il paziente confuso
Il paziente in stato di confusione mentale, affetto cioè da “delirium”, ha perduto
le organizzazioni cognitive principali per cui non sa dove si trova, che tempo fa,
chi è e non riconosce chi gli sta vicino. La principale attenzione, in questo caso, è
di tipo assistenziale stretto, onde evitare che il paziente possa farsi del male
inconsapevolmente.
Dovrà essere osservato in ogni atto quotidiano (vestirsi, lavarsi, mangiare,ecc.)
poiché tutto gli appare estremamente difficile e potrà mettere in atto misure
alternative pericolose per sé (può confondere la notte con il giorno, la finestra
con una porta, ecc.). A volte è necessario mettere in atto misure contenitive per
evitare comportamenti pericolosi, che vanno sempre temuti.
Le cause mediche che possono causare uno stato di temporanea sofferenza
cerebrale (la fase post-operatoria, tumore cerebrale, disidratazione,
intossicazione, meningite, un farmaco, ecc.). E’ bene rivolgersi a questi pazienti
con linguaggio chiaro e frasi semplici che ripetano, possibilmente, i dati della
realtà: che giorno è, che ora è, dove è la sua stanza, cosa è successo un attimo
prima, chi siamo, cosa sta facendo. L’adozione di una routine quotidiana riduce la
confusione.
Il paziente confuso può proporsi all’operatore con un pensiero o un bisogno
inadeguato (dice che deve andare ad aprire il negozio di notte, x es.) o con gesti
senza una finalità precisa ed utile (spostare di continuo il comodino, x es.). In
questi casi è bene assecondare a parole il paziente, sino a quando risulterà
possibile, non contrariarlo, non opporvisi e offrirgli un adeguato
accompagnamento evitando che si faccia del male. A volte è utile condividere
con lui i suoi progetti confusi e le idee del momento.
Il paziente depresso
Solitamente, la forma grave maggiore viene accolta in SPDC (Servizio Psichiatrico
di Diagnosi e Cura) perché è ritenuto indispensabile in questi casi un approccio
assistenziale adeguato e un trattamento farmacologico specifico, e per il rischio
di suicidio che questa patologia comporta.
Le forme cosiddette minori trovano un appropriato trattamento presso gli
ambulatori del CSM (Centro di Salute Mentale) o presso il Day Hospital.
Il modo adeguato per assistere una persona depressa può essere quello di
pensare al nucleo fondamentale della sua sofferenza psicopatologica. I
sentimenti fondamentali dell’umore depresso sono: il senso della perdita, la
colpa e la rabbia. Il modo migliore per comprendere un depresso è pensarlo in
lutto, come se avesse avuto la morte di una persona cara. Il senso di perdita nel
lutto è una mancanza che si è venuta a creare, un vuoto, un senso di
smarrimento. Il depresso perde il riferimento sicuro, il significato basilare del
mondo, l’amore che lo sosteneva. Per il depresso la realtà perde il suo significato
quotidiano, routinario, leggero, progressivo, progettuale. Non c’è più alcun
desiderio, alcun movimento dell’animo, alcun futuro, se non la percezione di un
fermo e paralizzante male interiore che ha annerito il tutto.
La colpa, che consegue a questo male interiore, può invadere il vissuto
depressivo sino a forme di auto-colpevolizzazione delirante. In realtà il depresso
è un megalomane, è fortemente al centro del mondo, bisognoso di amore in
maniera così fondamentale da non accettare i limiti della realtà. In questi casi la
colpevolizzazione può toccare temi grandiosi (relativi a importanti fatti del
mondo: guerre, terrorismo, fame del mondo, ecc.) a testimonianza di una
bisognosa ricerca di importanza affettiva personale. Nei depressi minori il senso
di colpa si esprime ad un volume più basso, con ripensamenti, dubbi, insicurezze,
con il timore del giudizio altrui, con riflessioni critiche sulle proprie capacità).
Nel lavoro del lutto, con il quale stiamo paragonando il vissuto depressivo, trova
posto, inevitabilmente, il sentimento di rabbia. E’ naturale provare rabbia dopo
le prime reazioni conseguenti alla perdita di una persona cara (ci si può
arrabbiare con i medici per un mancato tempestivo intervento; con Dio perché
permette la morte; con se stessi per non essere stati presenti al momento
opportuno; col destino; col mondo intero). Il sentimento di rabbia è considerato
un passaggio necessario nel lutto. E’ presente nel depresso e può presentarsi in
maniera non passeggera. La mancata esternazione della rabbia in un depresso
grave deve far temere il rischio di un’implosione interna, di una scarica
aggressiva contro se stesso che può preludere ad un atto suicidiario.
L’esternazione di una certa rabbia, invece, può preannunciare una risoluzione
della sofferenza depressiva e una ri-organizzazione del vissuto psicopatologico di
perdita. L’operatore dovrà tener presente questo sentimento nella persona
depressa e la sua possibile esternazione, anche in modalità inadeguata,
soprattutto contro chi si prende cura di lui, e riuscire a continuare a concentrarsi
sui sentimenti del paziente per non rischiare di scivolare in atteggiamenti contro-
aggressivi (“che maleducato!”, “proprio con me se la prende!”, “se fa così, allora
non l’aiuto più!”), che non fanno altro che far sentire ulteriormente cattivo il
paziente già colpevole per sua patologia.
L’assistenza verso il paziente depresso dovrebbe essere improntata su un tipo di
offerta amorevole. Il compito non è però facile perché il depresso induce, col suo
modo di essere e di fare, sentimenti di impotenza, di irrealtà, di facile
scoramento, reazioni ostili perché frustra le nostre buone intenzioni e non ci
appaga.
Tenendo conto del sentimento di perdita, del vissuto di colpa e della spinta
rabbiosa, l’assistenza alla persona depressa si configura allora come una modalità
di cura delle funzioni vitali del paziente di stile maternalistico. L’operatore funge
da sostituto materno, e come se fosse una madre con il suo bambino, esplica
quelle attività di protezione e di supporto (aiutare il paziente a mangiare, a
lavarsi, a dormire, a muoversi, ecc.) con un saper fare sicuro e necessario.
Bisogna considerare ogni atto maternalistico di questo tipo, come quello che
necessariamente si mette in atto con altri pazienti regrediti o con pazienti
anoressiche ricoverate, come una piccola e preziosa dose di terapia relazionale.
Non servono parole al depresso grave allettato, ma quell’attenzione delicata e
premurosa che al neonato, bisognoso delle cure quotidiane, dedica una madre
attenta e affettuosa. Serve una grande pazienza dell’operatore perché il depresso
va rispettato in questa sua regressione psicologica, nei suoi tempi lenti, nel suo
senso di fallimento e di incapacità. Qualsiasi risposta che permetta al paziente di
veder riconosciuta la sua tristezza, la sua disperazione, il suo vivere colpevole, la
sua malattia, il suo senso di sofferenza è una risposta corretta. Molto spesso non
servono parole, ma un comportamento empatico di comprensione, un gesto,
anche il solo fermarsi ad ascoltare con attenzione. Saranno da evitare frasi del
tipo: “Deve farsi forza”, “Non ha nessun motivo per stare male”, “Ma non pensi a
quelle cose lì: guardi che bella giornata di sole!”. E’ da ricordare che il depresso è
come se continuasse a presenziare ad un funerale. Nei suoi confronti è più
naturale e adeguato un sentimento di compassione.
Ovviamente, l’operatore assieme a tutto il team curante, dovrà mantenere una
visione terapeutica e sufficientemente distaccata della patologia depressiva, per
non farsi inglobare eccessivamente in un sentimento di “con-doglianza” (soffrire
insieme). Dopo l’opportuna fase di accoglimento della sofferenza depressiva e di
assistenza paziente, silenziosa e protettiva di tipo maternage, bisognerà prendere
in considerazione un programma di accudimento del paziente che punti sulla
ripresa graduale della sua autostima e della sua autonomia. E’ come se il paziente
dovesse sentirsi ben compreso prima di migliorare e fidarsi degli operatori che lo
assistono. Capire il momento di passaggio tra la fase accogliente e l’altra più
autonomizzante è cosa non facile, passibile di errore e scelta da condividere con
l’intera équipe. La fase di recupero dell’autostima e di autonomizzazione nel
paziente depresso, deve prevedere un graduale lavoro di rinforzo su atti che
interessano la soddisfazione dei suoi bisogni di base prevedendo la possibilità di
non sostituirsi completamente al paziente. La lenta restituzione della
responsabilità di sé deve essere letta come il sopraggiungere, passo dopo passo,
di un ritrovato sentimento di fiducia di sé. Sarà magari, necessario, in questa
fase, rinforzare a parole il paziente con frasi del tipo: “Noto la sua fatica nel voler
recuperare energie”; “Mi pare che oggi ci creda un pochino di più di ieri”; e con
un atteggiamento rassicurante non verbale. Bisognerà che gli incitamenti non
siano eccessivi e occorrerà dare spazio alla verbalizzazione dei suoi sentimenti
rivolgendosi a lui con domande aperte sul suo stato d’animo, sulla sua
stanchezza, sulla tristezza che vediamo sul suo volto, sulla fatica che ci fa vedere.
E’ importante anche permettergli di esprimere le intenzioni suicidarie e la sua
rabbia, evitando di negare o banalizzare quanto percepisce o di farlo sentire
ulteriormente in colpa. Il depresso, per il suo fondamentale bisogno d’amore, è
molto recettivo ad ogni manifestazione di attenzione: l’operatore testimonierà
con la sua pazienza e disponibilità la capacità di accogliere la contraddittorietà
insita nella patologia depressiva, cioè la contemporanea richiesta di aiuto e il
tentativo di svalutare qualsiasi intervento, affermandone l’inutilità.
Il paziente depresso nevrotico enfatizza il suo malessere, sottolinea le
lamentazioni, porta in primo piano le sue insoddisfazioni esistenziali, enfatizza il
fatto che non è più quello di prima, che ha perduto capacità ed abilità. Spesso, la
relazione con questo tipo di persona è resa ancor più frustrante in quanto il
paziente mette in atto una sorta di incapacità a far tesoro dei suoi miglioramenti.
Anche se il paziente può rendersene razionalmente conto, non può fare a meno
di richiedere aiuto e contemporaneamente di rendere in qualche modo inefficace
l’aiuto ricevuto.
L’assistenza alle persone distimiche impone nell’operatore una capacità di
tranquillizzazione e di stabilità psicologica onde poter trasmettere al paziente
chiarezza e fermezza. Il distimico ha fondamentalmente bisogno di contenimento
psicologico del suo malessere e questo può essere affrontato se, nella relazione,
l’operatore rimane sufficientemente paziente, chiaro, rassicurante e fermo.
E’ necessario spostare l’attenzione dai sintomi (stanchezza, mal di testa, difficoltà
ad addormentarsi, a concentrarsi, per es.) al significato che questi possono
rappresentare; e ciò può essere utile al depresso nevrotico. Bisogna ricordare che
deve essere il paziente a giungere alla soluzione dei suoi problemi e che gli
operatori incontrati sulla sua strada possono fungere da strumenti riflessivi di
comprensione del problema.
Tollerare le frustrazioni e accettare il proprio senso del limite e della posizione è
cosa ancor più ardua per l’operatore se consideriamo che il depresso nevrotico
può attuare quella forma di richiamo e di impressione che è il tentato suicidio. Il
tentativo di suicidio è certamente espressione di un’intenzionalità ambivalente
tra il vivere e il morire. Con il gesto di richiamo suicidario si comunicano
sentimenti di disperazione e il desiderio di far cambiare il comportamento degli
altri. Il suicidio va sempre tenuto presente nei soggetti depressi gravi, anche e
soprattutto nelle fasi di relativo miglioramento dell’umore ed è buona norma per
l’operatore sanitario insistere nell’esplorare nel paziente l’ideazione suicidaria
anche quando appare migliorato.
I segni più importanti per individuare il rischio di suicidio rimangono:
- La patologia depressiva grave (più è presente colpa e distacco dalla realtà e
più c’è il rischio di suicidio);
- La presenza di rabbia espressa (meno è presente rabbia verso l’esterno e più è
temibile un gesto di rivolgimento dell’aggressività contro sé);
- Possibilità trasformativa o meno del soggetto (se per vari motivi non è
possibile una progettualità, una prospettiva di realtà nuova,
un’emancipazione del soggetto, la depressione si può configurare ancor di più
pericolosamente come sofferenza senza via di scampo per cui desiderare la
morte).
Le azioni per prevenire un atto autolesivo si concretizzano in salvaguardie
ambientali (evitare oggetti potenzialmente pericolosi), nel monitoraggio indiretto
continuo del paziente da parte del personale (anche durante le visite dei parenti
o amici, per cogliere qualche prezioso segnale sui rapporti che il paziente sta
vivendo) e nell’uso della terapia farmacologica antidepressiva.
Non va temuto che il parlare di morte col paziente depresso voglia dire, in
qualche misura, invitarlo al suicidio. Medici e operatori dovrebbero dimostrarsi
non impauriti di fronte ai contenuti di morte espressi dal paziente, sia diretti
(parlare della sua morte) sia indiretti (parlare della morte degli altri, di un
funerale di un conoscente). Ciò serve per favorire un clima di possibile fiducia per
evitare pericolose reticenze attorno al tema del desiderio della morte, caro
patologicamente al paziente.
Il paziente psicotico
L’assistenza al paziente psicotico, soprattutto lo schizofrenico, si configura come
una complessa ed impegnativa modalità di relazione nei vari contesti di cura.
I punti essenziali da tenere a mente nel trattare con lo schizofrenico e lo psicotico
in genere sono:
- Questi pazienti non hanno un problema di intelligenza, non sono sciocchi o
tonti, anche se possono, in alcune circostanze, apparire tali;
- Non vanno considerati incapaci di comprendere per difficoltà di
apprendimento o problemi di ordine cognitivo (a parte qualche eccezione);
- Sono persone “entrate” in un altro mondo, per necessità vitale, e quindi
portatori di una dimensione molto diversa da quella comunemente condivisa
e necessitano di uno sforzo di comprensione da parte dell’operatore;
- Sono pazienti che hanno serie difficoltà nella comunicazione, nel pensiero,
nella percezione e negli affetti, incapaci di percepire correttamente la realtà e
di affrontare le relazioni col mondo esterno;
- Hanno difficoltà a mantenere un’alleanza di lavoro.
Il persistere dello stato patologico in questi pazienti è la conseguenza di un’intensa e
tenace resistenza al cambiamento, quale peculiarità della patologia psicotica. Il
paziente vive i tentativi di aiutarlo come prevaricazione ed attacco e ciò,
ovviamente, frustra l’operatore. E’ necessario prevedere un passaggio da una
posizione relazionale di paura e sospetto ad una posizione relazionale collaborativa:
è necessario cioè giungere ad un’alleanza di lavoro. L’assistenza e la relazione di
aiuto con lo psicotico è tutta racchiusa nel paziente sforzo messo in atto per
superare la sua lontananza e diffidenza . Lo psicotico ha grande paura dei suoi
bisogni (e della persona che potrebbe soddisfarli), così come dei suoi movimenti
emozionali. Col paziente psicotico non bisogna mai avere fretta. E’ inutile insistere,
forzarlo, fargli delle richieste quando lui ci fa capire che vuole essere lasciato in
pace. Dobbiamo fare in modo che sia lui a prendere delle iniziative, ad avvicinarsi
spontaneamente a noi e ad avanzare le sue richieste.
Una volta avvicinatosi all’operatore, questi sarà chiamato ad una disponibilità
comprensiva e non escludente; ci sarà disponibilità a tollerare le paure del paziente
e a non restarne sopraffatti, ad accettare i suoi bisogni, benché bizzarri, invece di
imporgli i nostri; ad adattarsi alle sue vicende evolutive anziché pretendere che sia
egli stesso ad adeguarsi ai nostri ritmi. Fornendo cure adeguate, come la mamma
con il suo bambino, ci si offre al paziente come figura concreta e reale. Se il paziente
trova risposte nuove rispetto al suo passato vissuto, più elastiche e disinteressate,
può iniziare a percepirsi più integro, meno a pezzi e impaurito, e iniziare a percepire
un senso di fiducia necessario a instaurare un rapporto collaborativo con
l’operatore. Un’assistenza che comunichi al paziente sicurezza e contenimento delle
sue paure è indispensabile allo psicotico. Anche la sola presenza costante può essere
rassicurante e vissuta come contenimento della sua angoscia. L’operatore e
l’infermiere in reparto sono vissuti dallo psicotico meno temibili e pericolosi rispetto
ai medici. Lo psicotico ha una necessità di controllo sugli altri e lo esercita scegliendo
come interlocutori persone che, ai suoi occhi, sono meno qualificate sul piano
professionale. Il personale di assistenza è vissuto come meno intrusivo e
destabilizzante del personale medico; ciò spesso facilita una relazione d’aiuto
collaborativa.
Trovare una via d’accesso, uno spiraglio non è facile. Il paziente fa la sua parte
presentandosi con modalità tali da provocare un allontanamento, ma anche
l’operatore può essere un ostacolo se mette in atto modalità difensive
complementari al paziente. Bisogna credere di essere differenziati dal paziente,
pensarsi in un ruolo per lui d’aiuto, saldi e con un gruppo alle spalle. Oltre agli
strumenti assistenziali pratici che l’operatore e l’infermiere attuano in reparto,
esiste lo strumento del dialogo.
Le parole rappresentano però un ulteriore ostacolo per lo psicotico: di solito egli
parla poco, e quando lo fa si esprime spesso in modo ermetico, chiuso, allusivo, non
chiaro, inafferrabile. Inoltre, egli ascolta poco e con disattenzione, assorto negli
stimoli patologici provenienti dal suo mondo.
Nel voler usare lo strumento della parola per incontrare uno schizofrenico,
bisognerà inevitabilmente pensarsi un po’ direttivi, anche se il paziente si sottrae
alla comunicazione, e non dimenticare il proprio ruolo. Si potranno mettere in
pratica le tecniche per favorire la comunicazione (chiarezza, continuità, domande
aperte) e qualche elemento di comunicazione terapeutica (ascolto, silenzio, focus
sui sentimenti, riflessioni, ecc.). Accettare e mentalmente annotare le domande a cui
il paziente non risponde, o risponde in modo bizzarro, perché probabilmente troppo
indagatorie, o vissute come tali, ci permette di aumentare la sensibilità di approccio
a quel paziente rispetto ai contenuti da evitare o per lui più accettabili. Di solito, le
domande più impegnative riguardano le emozioni, gli stati d’animo, le relazioni
significative e le pregresse esperienze di scompenso. Quando possibile invitare il
paziente a parlare di sé con domande aperte. Tale atteggiamento lo dispone a farci
conoscere la sua visione delirante del mondo.
Di fronte ad un paziente delirante non si deve tentare di correggerlo né tantomeno
renderlo ridicolo per quanto pensa; si deve pensare che il delirio è un’offerta che il
paziente ci fa ed esprime così il suo “diritto a delirare” e focalizzarsi sui sentimenti
sottostanti al racconto delirante.
Esempi di interventi verbali dell’operatore, dopo un’opportuna fase di ascolto del
delirio offerto dal paziente, possono essere questi:
- “mi sembra una situazione insostenibile; ho la sensazione di trovarmi di fronte
a qualcosa di molto strano”;
- “è difficile credere che la televisione controlli la sua mente, ma deve essere
molto angosciante vivere questa esperienza”;
- “deve essere brutto vivere perseguitati dalla Polizia”.
Esempi di interventi che, dopo un ascolto attento, possono aiutare il paziente a
fidarsi e a continuare a comunicare il suo modo di pensare sono:
- “vedremo di capire insieme cosa sta succedendo. Se la situazione diventa
pericolosa me ne parli e me ne accorgerò”;
- “ come si sente quando altri cercano di controllarla come mi ha detto?”;
- “mi parli di quando si è accorto che il suo vicino le mandava le scariche. Com’è
successo?”.
Ovviamente, nel rispondere al paziente sarà molto importante il tono usato e tutta
la modalità non verbale esibita, alla quale, come detto, il paziente è molto sensibile.
Sarà necessario, quindi, che l’operatore si disponga a questo delicato dialogo col
paziente, quando realmente se la sente di accogliere con sincerità e rispetto la sua
intimità. Un accorgimento è ovviamente quello di usare, nelle risposte al paziente, lo
stesso suo linguaggio, anche le precise parole, senza cercare traduzioni che possono
falsare il vissuto che il paziente vuole comunicare.
Nelle situazioni psicopatologiche non acute, come quelle di riabilitazione e di
stabilizzazione dei sintomi psicotici, è possibile, anche qui lentamente, proporsi con
modalità più paternalistiche e direttive. E’ importante, dal punto di vista
terapeutico, trasmettere al paziente psicotico di averlo in testa, di averlo comunque
pensato, di aver memorizzato quanto ci ha riferito in precedenza e di non aver
buttato al vento le sue cose. Ciò rassicura lo psicotico e lo pone di fronte ad una
persona concreta che lo può realmente aiutare. Lo psicotico potrà segnalare quali
sono, dal suo punto di vista, anche gli atteggiamenti ritenuti molesti da parte
dell’operatore e come questo si dovrebbe comportare per non urtarlo. Ovviamente,
l’operatore non dovrà dimenticare il suo ruolo e le conoscenze riguardo la malattia
mentale, per non farsi trascinare in posizioni pericolose.
Lo psicotico, di per sé, vive in un vuoto e può trasmettere, dopo un certo periodo,
sentimenti contagianti di questo tipo. Ma la noia può essere anche l’esito del senso
di delusione e di impotenza che il paziente suscita in noi. Anche dopo parecchio
tempo appare poco modificato, ripete le sue tematiche, sembra non aver fatto passi
avanti, non riconosce l’aiuto ricevuto.
Va tenuta presente, nel processo riabilitativo, la misura di quanto sia necessario
spingere per suscitare desideri e risvegliare risorse nel paziente e di quanto sia
necessario accettare lo stato di inerzia, di blocco, di chiusura e noia. Nel processo
riabilitativo bisogna situarsi in una zona di equilibrio tra tensioni emancipative e
forze calamitanti nella regressione.
La demenza
Che cos’è la demenza? E’ una malattia cerebrale causata dal deterioramento o
perdita delle cellule cerebrali; colpisce le funzioni mentali (memoria, attenzione,
concentrazione, linguaggio, pensiero). Si ripercuote sul comportamento.
La malattia di Alzheimer è un processo degenerativo di distruzione delle cellule
cerebrali. Colpisce la memoria, il pensiero, la parola; può causare confusione;
cambiamenti d’umore; disorientamento spazio-temporale; progredisce fino alla
completa dipendenza dagli altri e non è né infettiva né contagiosa.
I principali limiti psicologici sono l’amnesia – perdita significativa della memoria;
l’afasia – problemi di linguaggio; l’aprassia – difficoltà a compiere i movimenti;
l’agnosia – incapacità a riconoscere persone, cose, luoghi; disorientamento nel
tempo e nello spazio; …
Questi limiti possono determinare: la persona non finisce il discorso; utilizzo di
parole passe-partout; difficoltà a svolgere due azioni insieme; limitazione del campo
visivo-attentivo; ipersensibilità acustica; disorientamento nello spazio; confusione
nel tempo; difficoltà a coordinare i movimenti; stati d’ansia, agitazione,
vagabondaggio, aggressività…
I disturbi del comportamento sono: 1) la depressione; 2) l’ansia; 3) l’aggressività
psico-fisica; 4) deliri e allucinazioni; 5) disturbi del sonno e 6) vagabondaggio e
affaccendamento.
Nella depressione i sintomi più comuni sono: l’apatia, la stanchezza, il sonno
irregolare; inappetenza e perdita di peso; la tristezza, il mutacismo, l’irritabilità e
l’aggressività.
Consigli: svolgere semplici attività; stimolare le capacità residue, terapia della
reminescenza.
L’ansia è una sensazione di imminente pericolo e di apprensiva preoccupazione per
sé in assenza di un pericolo reale e non identificabile. Incapacità di star fermi.
Le cause possono essere determinate dal disorientamento spazio-temporale; dalla
confusione passato/presente; dall’incapacità di riconoscere le persone e le cose;
dalla presenza di deliri e di allucinazioni; dal clima teso (per es. tensione dei
caregivers, ecc.).
Consigli: rassicurare con il contatto fisico, distrarre, mantenere l’ambiente stabile e
orari regolari, mantenere l’atmosfera serena…
Le cause dell’aggressività verbale-fisica sono la paura o il senso del pericolo; la
reazione difensiva; la frustrazione, il dolore, le infezioni, ecc.
I consigli sono di stare calmi, rassicurare con il contatto fisico, mantenere una via di
fuga, dare spazio sufficiente, ridurre la confusione, distrarre, fargli fare qualcosa di
utile, semplificare le attività, avvisare prima di effettuare interventi, elogiare i
successi, capire le cause scatenanti e prevenire (rumori, calore, ospiti sgraditi), non
discutere, non dimostrare paura, non bloccarlo con la forza, non rimproverare, non
banalizzare, non mostrarsi offesi, individuare risorse tranquillizzanti.
Prevenzione: elogiare i successi; stabilire una routine; mantenere il senso
dell’umorismo, non raccogliere le provocazioni, utilizzare la comunicazione non
verbale e proporre compiti semplici.
Le allucinazioni e i deliri possono essere fonte di grande angoscia, possono
determinare paure intense e comportamenti aggressivi.
Le allucinazioni sono una percezione errata della realtà, qualcosa che la persona
crede di udire, sentire, vedere, ma che non esiste. In genere sono cose di natura
spiacevole (nella psicosi e in particolare nella schizofrenia le allucinazioni sono
soprattutto uditive).
I deliri sono convinzioni errare della realtà; in genere possono essere di gelosia,
latrocinio e di persecuzione.
Consigli: non smentire, rassicurare, distrarre, scoprire le cause ed eventualmente
modificare l’ambiente.
L’insonnia – cosa fare? - programmare il tempo – affinché trascorra delle giornate
attive; evitare o limitare i “sonnellini” durante il giorno, evitare “stimoli forti” nelle
ore serali, controllare l’alimentazione (es. mangiato troppo o troppo poco…),
controllare le cause del disagio (caldo, freddo, rumori, dolore…).
Il vagabondaggio e l’affaccendamento
Il vagabondaggio è l’attività di deambulazione incessante della persona malata che
tende a continuare a camminare senza una meta e uno scopo precisi, rispondendo a
un impulso/bisogno interiore incontrollabile.
L’affaccendamento è caratterizzato da gesti e comportamenti ripetitivi svolti senza
finalità (come strofinare lenzuola o abiti, lisciare superfici, manipolare bottoni e orli,
spogliarsi, arrotolare i pantaloni al ginocchio, svitare, smontare, lacerare e
distruggere oggetti, sottrarre, nascondere e spostare oggetti da una parte all’altra
dell’ambiente).
Consigli quando il vagabondaggio e l’affaccendamento diventano eccessivi:
individuare le possibili cause, i farmaci non calibrati, la noia, il bisogno di scaricarsi, il
disorientamento, i bisogni fisiologici, il troppo caldo o il troppo freddo.
La terapia occupazionale
L’obiettivo è di mantenere l’autonomia il più a lungo possibile, contenere il
decadimento fisico e mentale, stimolare interessi e motivare.
Aree di intervento: attività della vita quotidiana e ambiente.
Attività vita quotidiana: alimentazione, vestizione, prendersi cura di sé, cucinare
(ricette di una volta), cucire, fare maglia, disegnare, leggere, sfogliare giornali,
giocare, ricordare vecchi detti, filastrocche, proverbi, curare l’orto, socializzare,
musica, ballo.
Ambiente protesico: adattarlo al soggetto e facilitare l’orientamento, evitando
pericoli.
Le attività dovrebbero stimolare i 5 sensi, essere brevi e ripetute (per la riduzione
dell’attenzione), essere iniziate dal caregiver e adattate agli interessi individuali.
Terapia reminescenza
Perché: il ricordo e la nostalgia possono essere fonte di soddisfazione e di
idealizzazione.
Scopo: ridurre l’isolamento, migliorare il tono dell’umore e incrementare la
funzionalità cognitiva mnesica. Nel paziente demente viene impiegata per il
recupero delle esperienze piacevoli della propria vita anche tramite l’ausilio di
fotografie ed oggetti.