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IL VASO DI PANDORA · P. De Fazio (Catanzaro) A. M. Ferro (Savona) P. Melo (Savona) D. Nicora (Savona) ... salute mentale e per la cura della psicopatologia conoscere il ruolo dei

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* Omaggio a Hermann Zapf *Progetto informatico di Tiziano Stefanelli

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IL VASO DI PANDORA

TRA PRASSI E TEORIA

APPUNTI DI VIAGGIO

QUATTRO PASSI PER STRADA

OLTRE...

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Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XXI, N.2, 2013
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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane

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<<Il Vaso di Pandora>>

Copyright © 1992 by REDANCIA Iscrizione per il Tribunale di Savona N° 418/93 – ISSN 1828-3748 Direttore Responsabile: Giovanni Giusto Direttore Scientifico: Carmelo Conforto

Comitato Scientifico: M. Amore (Genova) F. Comelli (Milano) G. Ferrigno (Genova) M. Marcenaro (Genova) A. Narracci (Roma) B. Orsini (Genova) R. Valdrè (Genova)

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La pubblicazione di ogni articolo è subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale. Referee: E. Aguglia (CT) G. Cassullo (TO) F. Scarsi (GE)

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Comitato di Redazione: Roberta Antonello, Paola Bartolini, Giuseppe Berruti, Panfilo Ciancaglini, Giovanni Del Puente, Luigi Ferrannini, Luca Gavazza, Luigi Gia, Maurizio Marcenaro, Emilio Maura, Paolo Francesco Peloso, Pasquale Pisseri, Cristina Rambelli, Pier Giorgio Semboloni Segretaria di Redazione: Federica Olivieri Redazione: Via Montegrappa, 43 – 17019 Varazze (SV) – P. IVA 00507810091 http://www.grupporedancia.it – http://www.publinet.it/pol/ital/riviste/pandora/index.htm e-mail: [email protected] Stampa: Marco Sabatelli Editore – Via Servettaz, 39 – 17100 Savona (SV) La rivista è pubblicata in quattro volumi all'anno Per abbonamento: Banca Unicredit – Agenzia di Savona, Piazza Sisto IV Codice IBAN: IT16 U020 0810 6000 0003 0016 623 Intestatario: La REDANCIA Coop Soc. ONLUS – Via Piave, 72 – 17019 Varazze (SV) P. IVA 03803140106 Abbonamento annuale: Italia privati Euro 50,00 Enti Euro 55,00

Estero privati Euro 80,00 Enti Euro 100,00 Fascicolo singolo Euro 20,00 Arretrato Euro 25,00

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXI, N. 2, 2013

Sommario

Editoriale Cristina Rambelli

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA Depressione Cronica/Ricorrente

Antonio Maria Ferro pag. 11

APPUNTI DI VIAGGIO Epidemiologia della schizofrenia: nuove acquisizioni e nuove

suggestioni Giacinto Buscaglia, Panfilo Ciancaglini

pag. 45

QUATTRO PASSI PER STRADA L’autore di reato con problemi psichiatrici

Pasquale Pisseri pag. 63

OLTRE… Il cuoco e l’informatica: ma che razza di menù!!

Roberta Antonello, Paola Bartolini pag. 73

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXI, N. 2, 2013

Table of contents

Editorial Cristina Rambelli

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA Chronic/Recurrent Depression

Antonio Maria Ferro pag. 11

APPUNTI DI VIAGGIO Epidemiology of schizophrenia: new acquisitions and new

suggestions Giacinto Buscaglia, Panfilo Ciancaglini

pag. 45

QUATTRO PASSI PER STRADA The offender with psychiatric disorders

Pasquale Pisseri pag. 63

OLTRE… Information technology and the cook: what kind of menu!!

Roberta Antonello, Paola Bartolini pag. 73

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Editoriale In questo numero de “Il Vaso di Pandora” gli autori hanno portato le loro considerazioni su argomenti estremamente discussi della psichiatria, arricchendo e attualizzando il tutto anche con il resoconto congressuale firmato da Pisseri. Il numero inizia con un articolo di Ferro che, attraverso un inquadramento storico dei sintomi della depressione, ripercorre la concezione del vissuto temporale nella depressione e affronta quindi successivamente nel dettaglio i diversi orientamenti del trattamento psicoterapico. Nell’articolo vengono confrontate le varie metodologie psicoterapiche sulla base anche di un’analisi dei relativi vantaggi e svantaggi, che offrono al lettore diversi spunti di riflessione sull’intervento integrato psicofarmacologico e psicoterapico della patologia depressiva resistente al trattamento. Nella seconda parte dell’articolo, l’autore entra quindi nella pratica clinica e fornisce delle indicazioni interessanti su come debba muoversi lo psichiatra/psicoterapeuta nella relazione con il paziente, prendendosi cura della sua sofferenza da un lato e, dall’altro, evitando di medicalizzare in modo irrazionale. Se il trattamento della sintomatologia depressiva è complesso e necessita di attenzione ed appropriatezza di trattamento, dall’altro il concetto di schizofrenia ha da sempre infiammato profonde discussioni nel corso degli anni, a partire dalla definizione diagnostica per giungere anche, e soprattutto, alle implicazioni patogenetiche: in tal senso Buscaglia e Ciancaglini affrontano il difficile tema della schizofrenia nel secondo articolo della rivista. Gli autori esortano qui il lettore a riflettere sull’importanza del ruolo dello studio nel tempo e nello spazio della distribuzione della schizofrenia nella popolazione. Nell’articolo sono discussi i progressi metodologici al fine della valutazione scientifica della schizofrenia. È indiscutibile la rilevanza che ha per la difesa della salute mentale e per la cura della psicopatologia conoscere il ruolo dei fattori biologici, psicologici e sociali (e delle loro interazioni) nella comparsa, nel decorso e nell’esito dei disturbi mentali.

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Infine, un capitolo non marginale della psichiatria generale è rappresentato dalla psichiatria forense che costituisce un importante esempio di collaborazione tra discipline diverse che affrontano la medesima problematica. Un confronto finalizzato a ottimizzare la collaborazione tra l’attività giudiziaria e talune situazioni d’interesse psichiatrico è descritto da Pisseri che riassume dettagliatamente gli argomenti trattati al Convegno dei Magistrati dal titolo “L’autore di reato con problemi psichiatrici”, svoltosi lo scorso 15 marzo. L’incontro è stato animato dalla partecipazione di professionisti che, nel quotidiano, si occupano di psichiatria e giustizia, e fornisce anche ulteriori nozioni e approfondimenti ai professionisti del settore e non solo. Il Convegno ha permesso di fare il punto della situazione sul trattamento degli autori di reato psichicamente compromessi, con vari e attualissimi riferimenti su leggi e opportunità di presa in carico/cura/riabilitazione. Mi sembra utile segnalare che il dibattito forse più interessante si è concentrato sulle reali possibilità a disposizione degli operatori del settore, anche e soprattutto in funzione della riforma riguardante gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Questo numero si presenta indubbiamente alquanto interessante, e invita il lettore ad approfondire diverse posizioni su specifici argomenti psichiatrici: questo confronto per paradosso, può rappresentare la modalità più vantaggiosa per far affiorare il valore dei presupposti che ci uniscono. Buona Lettura

Cristina Rambelli

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Tra prassi e teoria

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Antonio Maria Ferro

Depressione Cronica/Ricorrente

Introduzione “Destandosi un mattino da sogni inquieti Gregor Samsa si trovò tramutato nel suo letto in un enorme insetto. Se ne stava disteso sulla schiena, dura come una corazza, e per poco che alzasse la testa poteva vedersi il ventre abbrunito e convesso… Sotto i suoi occhi annaspavano impotenti le sue molte zampette di una sottigliezza desolante se raffrontate alla sua corporatura abituale «Che cosa mi è accaduto?» si domandò. Non stava affatto sognando… Per quanti sforzi facesse per girarsi sul fianco, ricadeva ogni volta indietro supino. Ci provò almeno un centinaio di volte, tenendo gli occhi chiusi per risparmiarsi la vista delle sue zampette sgambettanti, e smise soltanto allorché cominciò ad avvertire nel fianco una fitta leggera, sorda, mai provata in passato” (Kafka, 1915). Quello che Franz Kafka fa succedere a Gregor Samsa una mattina, a mio avviso è simile alle profonde alterazioni del sentimento di sé che Tellenbach (1974) descrive nello sviluppo del vissuto melanconico, riprendendo il Freud di Lutto e melanconia del 1915. Questa metamorfosi richiama anche la “tristezza vitale” di Schneider (1950) che invade il soggetto, s’impone a lui come un’oscura estraneità! Si tratta ancora di quella specie d’insopportabile oppressione “creaturale” quell’infelicità senza speranza che per Weitbrecht (1979) viene vissuta dalla persona depressa come esperienza di essere materialmente danneggiato. Gozzetti (1996) psichiatra e fenomenologo padovano, scriveva di

Psicoanalista Società Italiana di Gruppo Analisi, Socio Ordinario Società Italiana di Terapia Sistemica, Direttore Scientifico Centro Regionale per i Disturbi dell’Adolescenza e dell’Alimentazione di natura psichica ASL 2 Savonese.

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totale metamorfosi verso “l’essere del non essere in eterno” della Sindrome Cotard (1882). Metamorfosi e la depressione fredda, secondaria alla frattura mente-corpo, al blocco degli aspetti affettivi-emotivi che Jaspers (1913) definirà “il sentimento della mancanza di sentimento”. Kaplan (1997), ricorda come il disturbo depressivo maggiore unipolare tenda ad avere andamento cronico e a recidivare. Egli ricorda come dei pazienti che abbiano avuto un primo episodio depressivo maggiore:

- il 25% recidiva nei primi sei mesi;

- il 30-50% nei primi due anni;

- il 50-75% nei primi cinque anni. È ormai acquisita quindi la nozione che il disturbo depressivo tenda a divenire quasi parte integrante del vivere di questi pazienti: un dramma con il quale essi dovrebbero confrontarsi sempre. Nelle depressioni ricorrenti o croniche il primo episodio – scrive Kaplan – frequentemente è preceduto da “fattori che provocano stress”, molto meno questo avviene negli episodi successivi. Questo confermerebbe l’ipotesi di modificazioni persistenti, della biologia cerebrale e dei meccanismi psicopatologici profondi e radicati. In realtà, come mi aveva insegnato molti anni fa Luc Ciompi (1997), un altro fattore prognostico importante, a parità di gravità psicopatologica, resta l’atteggiamento di chi cura. La presenza di speranza di cambiamento, piuttosto che la rassegnazione alla cronicità, nella mente del terapeuta, costituisce, a mio avviso, una variabile che non va trascurata, variabile sulla quale tornerò in seguito. Una disamina, anche parziale, degli studi sui disturbi depressivi, conferma poi come l’incidenza di recidiva sia inferiore di molto nei pazienti che proseguono una profilassi farmacologia… a lungo? Nei periodi stagionali delle ricorrenze del disturbo? Per sempre? Ritengo inoltre che l’incidenza di recidive sia influenzata anche dalla possibilità, o meno, di un trattamento psicoterapico, magari focale, vuoi ad orientamento dinamico, cognitivo, interpersonale o ancor

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meglio un trattamento che recepisca in modo eclettico elementi di queste tre modalità terapeutiche, come cercherò di esemplificare nella seconda vignetta clinica dove utilizzo la psicoterapia breve ad orientamento analitico di Davanloo (1980) e Malan (1979), modificata. L’ipotesi allora che svilupperò in questo lavoro è che un intervento integrato possa influenzare positivamente le modificazioni biologiche e psicopatologiche persistenti della depressione cronica e/o ricorrente. Il pensiero di Glen Gabbard: alcune riflessioni sulle interazioni tra trattamenti farmacologici e psicoterapici Glen Gabbard (1994) premette l’importanza della componente biologica dei disturbi affettivi, legata soprattutto a: 1) fattori genetici; 2) neurobiochimici. Tuttavia, sulla base di molti studi e soprattutto di uno studio, ormai vecchio, sul trattamento della depressione (Elkin, 1989)1 Gabbard evidenzia come il placebo e la sola gestione clinica diano scarsi risultati nei tempi medio/lunghi (non bastano 8-12 settimane per la valutazione clinica come avviene invece in tanti studi “pseudoscientifici”) mentre l’integrazione di psicofarmacoterapia, gestione clinica e trattamento psicoterapico – per lui soprattutto la Psicoterapia Interpersonale – siano decisamente più efficaci. Ciò che prima era intuibile e confermato dall’esperienza, oggi risulta comprensibile scientificamente alla luce di quello che sempre più conosciamo sulle interconnessioni continue tra ambiente/cervello/mente (studi di neuroimaging, teorie dell’attaccamento, teorie sul trauma). Abbiamo così maggiori possibilità di verificare le ricadute – a questi tre livelli – che i nostri interventi possono o non possono avere. Ad esempio: la dimensione psicologica di un disturbo depressivo può risentire positivamente di trattamento psicofarmacologico, così come

1 Elkin et al. (1989): Archivio Generale Psichiatrico, 46: 971-982.

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un’esperienza di cura dialogico-interpersonale può modificare un funzionamento neurobiochimico alterato. L’aumento dell’interesse per gli studi, gli interventi sulla gravidanza e il puerperio a rischio di disturbo depressivo, s’iscrive in questa moderna visione “umanistica” del disturbo psichiatrico e della sua cura (la più precoce possibile!). Peraltro – ricorda Gabbard – nelle depressioni minori le terapie farmacologiche possono essere meno efficaci, mentre anche questi disturbi tendono ad essere ricorrenti e/o cronici e producono non poca sofferenza e “danni sociali”. D’altra parte la co-presenza di un disturbo di personalità tende a peggiorare l’esito del trattamento, anche per una ridotta compliance rispetto alla cura farmacologica. Credo sia utile qui ricordare almeno Tellenbach (1974) che individua il Typus Melancholicus, il cui tratto fondamentale è:

- un ancoramento all’ordine;

- un’alta esigenza nel lavoro, in temi di qualità e quantità;

- muoversi entro limiti umani sicuri e programmati come lontani dall’errore.

Per Kraus (1991) si tratta di un comportamento ipernomico privo di libertà. Gabbard cerca quindi di mettere a fuoco gli aspetti di un disturbo depressivo – ma qui sarebbe meglio parlare di personalità depressiva – aspetti che vanno affrontati in una terapia dialogica, anche per permettere al farmaco di fare, con minore difficoltà, il proprio dovere:

- cronici sentimenti di colpa;

- autostima costantemente bassa;

- tendenza ad autopunirsi o comunque inconsciamente, a negarsi momenti di felicità o almeno liberi dal soffrire;

- tendenza all’ipercriticità in relazione a tratti narcisistici patologici marcati;

- sentimento di disperazione costante “perché le cose non cambieranno”. Ricordo Istruzioni per rendersi infelici di Paul

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Watzlawick (1983), dove l’autore in modo paradossale “consiglia” come costruirsi la propria infelicità, con competenza e, finalmente, consapevolezza.

In questi casi gli antidepressivi, sempre necessari, soprattutto nelle “ricorrenze” del disturbo, vanno – secondo Gabbard – sempre accompagnati da una psicoterapia per le caratteristiche croniche della personalità. Roland Kuhn (1989) il grande psichiatra svizzero, ricorda che i farmaci psicotropi, in questo caso gli antidepressivi, ragionevolmente somministrati, hanno un’influenza evidente sui fenomeni della disposizione affettiva che è allora più facile esplorare e osservare con gli strumenti della psichiatria umanistica. Ritengo necessario presupposto per avvicinarci alla comprensione delle “fratture temporali” che caratterizzano la depressione cronica e/o ricorrente, conoscere – almeno un po’ – il pensiero di Ludwig Binswanger sul vissuto del tempo nella depressione maggiore cronica e/o ricorrente. Binswanger (1960) in Melanconia e mania – testo che l’illustre fenomenologo scrisse a settantanove anni nel 1960 – scrive: “l’indagine fenomenologia ed antropoanalitica in psichiatria non si conclude con la descrizione dei mondi dei malati… è necessario anche esaminare la peculiarità di questi mondi, di come si sono costituiti per chiarirne le forme costitutive”. Invita quindi ad esaminarne il loro costituirsi per:

- studiare i momenti strutturali costitutivi;

- cogliere le differenze costitutive. Per Binswanger la struttura intenzionale della coscienza è intesa come unità significante orientata, più che dalle pulsioni, dalla storia degli individui che proiettano in modo anticipatorio nel presente e futuro il loro passato. L’intenzionalità è quindi:

- da un lato momento strutturante e “protentivo” dell’esistenza;

- dall’altro è storia, sintesi di esperienze passate via via sedimentatesi nell’arco della vita.

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L’intenzionalità si situa nel flusso temporale in modo che il vissuto del tempo costituisca la Temporalità in un continuum tra un prima e un dopo. Binswanger, rifacendosi ad Husserl, ricorda come la temporalità stabilisca una correlazione tra gli eventi psichici dell’esistenza, permettendo all’individuo di riconoscervi la propria storia. Vi è un orientamento umano naturale, quasi obbligato, verso il futuro che Binswanger chiama “carattere intenzionale della coscienza temporale”. Gli accadimenti, le esperienze della vita, si presentano alla nostra coscienza che “li” conosce attraverso i vettori temporali (Husserl) della:

- Protentio (futuro),

- Retentio (passato),

- Praesentatio (presente). Ad esempio, mentre scrivo, ora, qui, sono nella Praesentatio, ma per andare avanti nel discorso sono già nella Protentio, ma per scrivere, qui ed ora, ho anche attivato la Retentio, altrimenti mi perderei, non ricorderei, non saprei ciò di cui scrivo mentre scrivo. Quindi l’analisi della Temporalità Costitutiva permette anche di cogliere la struttura del mondo nel paziente melanconico. Nella melanconia osserveremo l’intrecciarsi:

- di momenti retentivi con quelli protentivi e questo produrrà le autoaccuse, i sentimenti di colpa. Ricordo le espressioni linguistiche delle autoaccuse melanconiche: “se avessi fatto”, “se non avessi fatto”; “avrei dovuto”, “non avrei dovuto”. Questi “Se” sono vuote possibilità perché la libera possibilità legata alla Protentio è invasa dal passato. La nostra progettualità, imprigionata dal passato, diviene vuota intenzione e perde inevitabilmente la spinta volitiva, divenendo solo energia distruttiva che lascia il nostro Io in una disperata angoscia di fronte ad un futuro vuoto di significato o piuttosto di fronte ad un vuoto con unica possibilità futura; questo perché la Protentio alla quale si legano

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speranza, progettualità, curiosità, competitività, sogni, non è più al servizio del nostro futuro ma è imbrigliata dal passato: questo spiega perché il paziente melanconico non veda futuro (ed in realtà ha ragione a non vederlo il futuro in quel vuoto che trova davanti a sé).

Nella Melanconia osserveremo ancora l’intrecciarsi:

- di momenti protentivi con momenti retentivi e questo produrrà i deliri melanconici. Per Binswanger il delirio melanconico c’è sempre, è necessario saperlo trovare. Anche per quanto riguarda le tematiche deliranti vi è frequentemente una loro intercambiabilità, quello che resta costante è la peculiare alterazione della temporalità.

L’alterazione del flusso temporale turba quindi profondamente il flusso del pensiero stesso ed è per questo che la melanconia è disturbo psichiatrico grave. Nella melanconia quindi vi è una modalità difettosa delle tre dimensioni temporali e delle loro interrelazioni, per un difetto della struttura degli atti intenzionali temporali, per cui vi è la presunzione che l’esperienza melanconica – per altro ritenuta del tutto vera ed unica – continuerà per sempre. Binswanger individua nello Stato d’Animo Melanconico del Perdere quindi l’aspetto significativo della malattia melanconica. Il tema della perdita è quindi insito nella depressione: perdita dei beni materiali, della salute, dell’onore, delirio d’impoverimento, delirio ipocondriaco, delirio di colpa. I temi sono intercambiabili, quello che li unisce è la loro irriducibilità essendo vissuti come veri, unici ed eterni. Riassumendo, rispetto al vissuto temporale, nella melanconia vi è un allentamento ed anche un’inversione dei “fili della costruzione intenzionale della temporalità”, Retentio e Protentio sono utilizzate in modo alterato, ma non scompaiono. Nella melanconia Binswanger ribadisce quindi che vi è un difetto della temporalità, della capacità d’intenzionare il tempo in tempo vissuto: i

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vettori temporali s’intrecciano confusivamente e quando i momenti Retentivi invadono la Protentio assisteremo alle autoaccuse melanconiche, quando i momenti Protentivi invadono la Retentio compariranno i deliri melanconici. Ricordo come per l’autore il carattere dell’endogenicità nella depressione, resti centrale. Egli scrive “il paziente non si sarebbe malato ora, se non vi fosse stato un qualche motivo; egli sarebbe peraltro rimasto sano anche in questo caso se non fosse stato costituzionalmente predisposto”. Mutamenti dei quadri depressivi oggi e resistenze al cambiamento Richiamo ora un breve testo di alcuni anni fa L’epoca delle passioni tristi di Miguel Benasayag e Gérard Schmit (2003). Condivido con loro la constatazione di un continuo aumento di richieste d’aiuto ai nostri servizi, soprattutto da parte di giovani, delle loro famiglie ma anche dalle istituzioni e dalla società più in generale: una società che è attraversata – scrivono gli autori – da una “innegabile tristezza”. Siamo sempre più chiamati a riconoscere, accogliere, curare sofferenze psichiche che si esprimono in forme anche diverse dai classici quadri psicopatologici. Siamo consultati con domande che talvolta sembrano quasi impossibili. Benasayag scrive: “I nostri servizi sono così diventati, un po’ alla volta una specie d’imbuto in cui si riversa la tristezza diffusa che caratterizza la nostra società”. In realtà, mi sembra che anche la complessità naturale del vivere, del vivere in una società della crisi e della precarietà, rischi di essere letta subito come patologia, come malattia individuale. Non di rado queste nuove forme espressive della sofferenza psichica si caratterizzano per un sentimento permanente d’insicurezza, di precarietà, talvolta di vergogna e/o di rabbia e frustrazione indicibile.

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Insomma, queste ricadute psicopatologiche, queste forme depressive che tornano, ad esempio così diverse dalle classiche melanconie, possono essere viste anche come conseguenza di questa “precarietà del vivere” che, soprattutto nei giovani, sembra non trovare limiti e contenitori solidi, affettivi e affidabili. Simona Argentieri (2008), psicoanalista romana, introduce nel suo scritto L’ambiguità una riflessione che può essere utile per cogliere il denso intreccio tra psicopatologia e psicopatologia della vita quotidiana. Giovanni Jervis (1975), mio direttore quando lavoravo a Reggio Emilia, parafrasando Freud (1901) e la sua Psicopatologia della vita quotidiana scriveva a questo proposito, nel Manuale critico di Psichiatria, della “politica della vita quotidiana”. Simona Argentieri osserva come vi sia sempre più “…una sorta di ambiguità del pensiero che consente a livello individuale e collettivo di eludere la fatica delle proprie responsabilità e delle proprie scelte, in una deriva silenziosa ma inarrestata… dove è considerata ormai normalità una mentalità dominante dove sembra esservi sempre meno spazio per il conflitto, per la responsabilità, forse anche per la colpa, e comunque per l’etica e dove trova spazio sorprendente la malafede e il rifiuto di un tempo e di uno spazio mentale individuale e collettivo per il pensare”. Allora – come ricorda il filosofo Massimo Marraffa (2012) – “il sentirsi di esistere… il sentimento dell’unità dell’Io, della presenza di Sé a se stessi sono una facoltà psicologica mai garantite per sempre ma piuttosto un’acquisizione precaria ogni giorno faticosamente costruita”. Ancora Giovanni Jervis in L’idea di guarigione nella tradizione psicodinamica scrive che “…la costruzione del benessere psichico è processo dinamico che prosegue per tutta la vita” (Jervis, 1993). È evidente che questo discorso non riguarda solo il superamento delle passioni patologiche, delle malattie psichiche quanto la possibilità di vivere, onorando la nostra umanità, sapendo cogliere anche i pochi momenti possibili di un po’ di felicità.

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Interventi psicoterapici nei disturbi depressivi (Ricorrenti) Cronici Harold Kaplan, ma anche il professore statunitense di origine iraniana Habib Davanloo, docente di psichiatria alla McGill University di Montreal, che è stato uno degli inventori della psicoterapia breve-focale ad orientamento analitico con Peter Sifneos e Daniel Malan, sono punti di riferimento per queste riflessioni. Le tecniche d’intervento psicoterapico possono essere diverse, mi soffermo qui soprattutto sui tre approcci psicoterapeutici alla depressione proposti da Kaplan. Evidenzierò vantaggi e limiti di questi approcci ed introdurrò la proposta dell’utilizzo di un approccio eclettico che ha come riferimento prevalente la psicoterapia breve focale. Caratteristiche principali dei tre approcci psicoterapeutici alla depressione Approccio Psicodinamico L'apparato pulsionale del soggetto è talvolta “anestetizzato” per quelle cose che devono essere tenute “a distanza”. Appena ci si avvicina, ci si confronta con burrasche ove amore e odio si avvicendano rapidamente. Il lavoro psicoterapico dovrà favorire inizialmente l'instaurazione di un transfert positivo, di un buon clima transferale, a partire dal quale si potrà valutare fino a che punto è possibile un’evoluzione. I pazienti che risponderanno con un’iperattività all'immagine delle loro vecchie compensazioni, oppure, all'opposto, con una condotta depressiva, mostreranno tutta la loro forza delle loro difese. Coloro che invece apporteranno un reale calore, interesse, curiosità, il desiderio di comprendere, mostreranno di poter raggiungere il livello genitale (nevrotico).

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Sarà da questi dati che ci si orienterà sulla scelta e sulla conduzione della terapia. Il fine dell’Approccio Psicodinamico è:

- promuovere la modificazione della personalità attraverso la comprensione dei conflitti pregressi;

- avviare un’introspezione nelle difese, nelle distorsioni dell’Io e del Super-io.

Vantaggi dell'approccio psicodinamico Nel trattamento individuale l'approccio psicodinamico incoraggia il paziente a cercare le soluzioni dentro di sé, anziché dipendere dall'esterno o da fonti estranee. Inoltre la posizione di neutra accettazione da parte del terapeuta, assicura un atteggiamento non giudicante e obiettività. Limiti dell'approccio psicodinamico Per contro i limiti derivano dalla focalizzazione sui fenomeni intrapsichici che può oscurare altri fattori (ad esempio: interpersonali, ambientali). La regressione del transfert può produrre un’eccessiva idealizzazione del terapeuta e una sottostima del proprio valore personale. Un altro fattore limitante è dovuto ai requisiti dei pazienti che possono limitare l'utilità alla popolazione predisposta in senso verbale e psicologico all'introspezione e, soprattutto, il maggior limite può essere la lunga durata della terapia.

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Approccio cognitivo Si basa sulla teoria dell'apprendimento. Parte dal presupposto che la psicopatologia sia in gran parte attribuibile al modo in cui le persone apprendono a gestire il proprio ambiente psicosociale, a modificare il proprio umore e ad interpretare gli eventi che accadono intorno a loro. La vulnerabilità alla depressione sarebbe mediata dall’acquisizione di abilità e di apprendimento durante l'arco della vita. Lo scopo è quello d’istruire i pazienti a gestire l'umore e a sviluppare strategie di coping, in modo d’affrontare il proprio ambiente psicosociale. Viene utilizzato soprattutto in riferimento ai pensieri distorti legati a visioni negative apprese del Sé, come ad esempio: non mi merito cose buone, non valgo niente, ho fatto sempre e solo errori, non potrà mai cambiare nulla, non potrò mai cambiare. Qui il terapeuta evidenzia gli aspetti cognitivi distorti, gli assunti errati e cerca di favorire l’autocontrollo sugli schemi di pensiero, fornendo anche un contenuto di pensiero alternativo. Vengono così utilizzati ad esempio schemi di lettura ritualizzata preparati insieme come concreto aiuto per “cacciare” il pensare nocivo. Queste “correzioni” sono possibili solamente in un contesto relazionale emotivo-empatico vivo e significativo. Qui vi è una grande differenza rispetto alle terapie comportamentali dove non è rilevante la dimensione relazionale empatica, ma piuttosto l’utilizzo di strumenti suggestivi. Vantaggi dell'approccio cognitivo-comportamentale I vantaggi di questa tecnica derivano dalla tangibilità e obiettività del trattamento, dalla breve o fissa durata, che è economicamente più vantaggiosa e può favorire risultati in tempi brevi, incrementare l'aspettativa di un rapido cambiamento, incoraggiando l'ottimismo. Il

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terapeuta, che qui ha un compito più attivo, può direttamente intervenire per interrompere gli schemi depressivi e suggerire alternative al pensiero errato. Limiti dell'approccio cognitivo-comportamentale Per contro, i limiti derivano dall'enfasi che può portare a trascurare la persona nel suo insieme, soprattutto a trascurare la componente affettiva. L'interesse per i sintomi trascura la storia pregressa, le aree di problemi complessi e i conflitti nascosti. Il suggerimento attivo e la direttività possono indebolire l'autostima del paziente attraverso l'imposizione del punto di vista e dei valori del terapeuta. Infine, i pazienti complessi e introspettivi, possono trovare l'approccio troppo semplicistico o superficiale. Approccio Interpersonale Impiega tecniche d’indagine, chiarimento, rassicurazione, analisi della comunicazione e d’incoraggiamento a tentare strategie alternative di coping. S’incentra su aree problematiche prevalenti nei pazienti depressi, affrontando aspetti riguardanti prevalentemente il trattamento delle transizioni di ruolo, il trattamento dei contrasti nei rapporti interpersonali. Fornisce soprattutto la possibilità di un’esperienza interpersonale diversa da quella abitualmente sperimentata, favorendo l’insight emotivo in un’atmosfera empatica. È possibile l’apertura dell’intervento anche ai familiari; viene dato spazio all’esame del ruolo del coniuge nella predisposizione del paziente alla depressione e agli affetti della malattia sul matrimonio.

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Si forniscono informazioni sulla malattia e sulle tecniche di cura e sui meccanismi di funzionamento degli psicofarmaci: il fine è di abituare a comunicazioni chiare ed esplicite per migliorare, sul campo, la capacità di comunicazione interpersonale. Come per la terapia psicodinamica è necessario che il terapeuta abbia un’esperienza pregressa di psicoterapia personale individuale o almeno di gruppo. Vantaggi della psicoterapia interpersonale La durata del trattamento è breve, solitamente dieci sessioni, ha una maggiore efficacia nella depressione moderata-severa, rispetto alla depressione lieve, può dare migliori risultati anche in associazione con farmacoterapia. Limiti della psicoterapia interpersonale Il lavoro del terapeuta è concentrato prevalentemente sul funzionamento sociale attuale del paziente. I meccanismi di difesa e i sogni vengono esaminati come un riflesso di problemi interpersonali attuali. Vi è un'enfasi nel legittimare il paziente nel ruolo di malato. La psicoterapia breve e la psicoterapia “duttile” Un modello cui faccio maggiore riferimento, nella pratica clinica, è quello della psicoterapia breve che io preferirei chiamare duttile o eclettica. Essa dal punto di vista teorico si fonda sia su aspetti propri della psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale sia di quella ad orientamento psicodinamico. Si differenzia dalla psicoterapia

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breve ad orientamento analitico di Davanloo, in quanto prevede l’utilizzo sinergico della terapia psicofarmacologica, dell’utilizzo di elementi della terapia cognitiva e sistemico-relazionale.2 Il modello che propongo è quello della Psicoterapia breve ad orientamento analitico, sperimentata ad esempio da Malan alla Tavistock Clinic di Londra e, soprattutto, da Davanloo alla McGill University di Montreal. La tecnica di Davanloo si differenzia dalla tecnica psicoanalitica, perché usa il “vis-à-vis”, lo scambio verbale diretto ed un’attività del terapeuta per dirigere l’attenzione del paziente verso le aree più significative delle problematiche sintomatiche, caratteriali e affettive, utilizzando una P(ressione) modulata. Il presupposto è ritenere che l’individuo tenda a riproporre nelle relazioni umane e ancor più nella relazione con il terapeuta modalità relazionali, a partire dall’esperienze cognitivo-emotivo dei primi anni di vita. Lo scopo è aprire rapidamente verso il mondo dell’inconscio del paziente, cercando di fargli vivere un’esperienza emozionale correttiva, proprio a partire da quanto egli sperimenta nella relazione di cura: “dove vi è la possibilità di avere una visione diretta delle forze psicologiche dinamiche, responsabili dei sintomi e dei disturbi del carattere del paziente” ricorda Davanloo. Egli evidenzia da un lato la possibilità di lavorare sull’alleanza terapeutica inconscia, che rappresenta il bisogno di benessere del paziente, dall’altro di lavorare sulle resistenze strutturate in difese contro sentimenti dolorosi e impulsi inaccettabili.

2 È evidente che presuppone psicoterapeuti con molteplici esperienze di training formativo: mi si potrebbe obiettare che allora è poco praticabile! Tuttavia mi chiedo perché per un intervento chirurgico impegnativo si pretende ottima competenza e allora perché per interventi di terapia di patologie così complesse come i disturbi depressivi, soprattutto se già ricorrenti o addirittura ritenuti cronici, non si deve pretendere psichiatri e psicoterapeuti con notevole competenza? Mi chiedo se questa consuetudine in psichiatria, di dare poca importanza alla competenza individuale dello specialista, non sottenda ancora una visione della clinica legata allo stigma e al poco rispetto nei confronti dei malati psichici.

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Egli lavora soprattutto sul transfert, ma in modo rapido, fin dalle prime sedute, stimolandolo e chiarificandolo subito con il paziente, evitando così lo sviluppo di una “nevrosi da transfert” centrale nella psicoterapia analitica, che rende però estremamente lungo il lavoro terapeutico. Il modello della tecnica è visualizzato nei “due triangoli” il triangolo del conflitto, il triangolo delle persone: Il triangolo del conflitto Il triangolo delle persone

Il triangolo del conflitto colloca ai vertici la difesa D, l’ansia A e l’impulso con i sentimenti nascosti I/S. Il triangolo delle persone colloca ai vertici, il transfert T, le persone della vita attuale C (current people) e le figure significative del passato P (parenti). Una parte considerevole dei disturbi depressivi è sensibile a questa terapia con esclusione dei pazienti con precedenti suicidari, con forme melanconiche gravi, con passaggi all’atto frequenti. Tuttavia l’utilizzo di un’adeguata terapia psicofarmacologica, durante il trattamento psicoterapico, ne può estendere l’uso anche a queste situazioni cliniche, fatta eccezione per i pazienti con passaggi all’atto frequenti.

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Il mio lavoro consiste allora nell’aiutare il paziente a riconoscere come egli si difenda D da sentimenti impulsi conflittuali I/S che generano Ansia e sintomi nelle relazioni attuali C e nella relazione con noi T, fino a rintracciarne le origini nel rapporto con le figure significative del passato P. A fasi di pressione (P) sui meccanismi di difesa inconsci, legati soprattutto a intensa rabbia, mortificazione, sentimento di colpa, fasi in cui si suscitano situazioni molto vive emotivamente, seguono fasi di consolidamento durante le quali tutti gli aspetti vengono rivisti e analizzati (fase cognitiva). Si permette così: a) l’esperienza di sentimenti e impulsi profondi; b) la comprensione del modo in cui erano stati interiorizzati fino ad allora; c) l’apprendimento cognitivo-emotivo della somiglianza e delle differenze tra le relazioni attuali e quelle parentali attraverso il banco di prova di quanto egli sta sperimentando nella relazione di cura. Infatti, l’ambivalenza inconscia di queste relazioni introiettate è una delle cause dei sintomi dell’ansia, della colpa e dell’apatia. Nel paziente che soffre di depressione cronica e/o ricorrente, si evidenzia quindi frequentemente un nucleo affettivo primario costituito da: 1) rabbia, anche omicida – scrive Davanloo – 2) colpa; 3) dolore per la/le perdite. Questo lavoro sui triangoli del conflitto e delle persone, è utile anche per valutare e a volte ravvivare, nei limiti del possibile capacità e funzioni cognitive, verificando la congruità della carica emotiva ad esse collegate. Non sempre in realtà nasce la possibilità di accedere all’inconscio e ai sentimenti e impulsi più complessi e più radicati, poiché il paziente che soffre di depressione cronica ha una maggiore difficoltà a differenziare tra i vertici dei triangoli. Peraltro, quando egli è troppo stimolato nel lavoro introspettivo, può in realtà accentuare le difese, con il riemergere di ansia e vistosi quadri sintomatologici.

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Occorre quindi cautela, una notevole dimensione empatica e una capacità del terapeuta di moderare la sua “vis curandi”, richiamando spesso l’alleanza terapeutica conscia e inconscia. Un concomitante trattamento psicofarmacologico, al contrario di quanto ritiene Davanloo, è a mio avviso utile per accelerare la riduzione dei sintomi, migliorare l’attenzione e lo slancio vitale e permettere così una migliore partecipazione all’impegnativo lavoro psicoterapico. Se il lavoro proseguirà bene, il paziente inizierà a: a) separare la rabbia dalla colpa, riconoscendo anche i concomitanti sentimenti positivi verso le figure oggetto di aggressività; b) riconoscere le sequenze difensive in gioco; e potrà c) riattraversare le relazioni originarie, che nel continuum del processo vitale hanno accompagnato il paziente, attraverso la comprensione della natura delle relazioni attuali con il T(erapeuta) e con il mondo esterno per lui significativo. Viene evidenziato allora a noi e al paziente il dispendio energetico somato-psichico legato all’ansia e alle difese usate spesso in modo autolesivo; si permetterà il recupero dell’energie psicofisiche, magari ormai gracili, ma finalmente libere; si aiuterà a tollerare – avendone sperimentato nell’hic et nunc della relazione terapeutica l’effetto benefico – l’inevitabile ambivalenza verso gli oggetti interiorizzati e verso il mondo attuale. Qualche volta egli raggiungerà finalmente un’affettuosa o almeno tollerante convivenza con queste relazioni interiorizzate, i propri cari, spesso i cari estinti, che sempre ha portato con Sé. La nostalgia – in greco dolore nel ritorno – così liberata dalla dimensione del rammarico, della rabbia, della colpa, può divenire un tempo attuale condivisibile con tante presenze, finalmente più leggere.

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Vantaggi della psicoterapia breve Si fonda su un numero di sedute definito, da quattro a dieci, con frequenza settimanale/quindicinale o mensile. Favorisce la presa di coscienza e la drammatizzazione a vari livelli che riguardano le relazioni parentali – il ricordo del passato – le relazioni attuali e future “hic et nunc”, la relazione sul proprio corpo, la relazione con le proprie emozioni e frustrazioni: il vivere male nel mondo. Limiti della psicoterapia breve Non è idonea a trattare pazienti con gravi quadri melanconici, con il rischio di passaggio all'atto e condotte autolesive, con deficit cognitivi e comorbilità somatica medio-grave, che vivono in precarie condizioni socio-economiche. Non prevede l'utilizzo associato di farmaci. Psicoterapia breve “duttile” e trattamento psicofarmacologico Con un approccio integrato si può utilizzare la psicoterapia breve nella prima fase del trattamento, durante il periodo di “latenza” degli antidepressivi. L’obiettivo è quello di stabilire un’alleanza per la cura, migliorare la compliance, ridurre il ricorso a terapie farmacologiche invasive. Peraltro, come sopra scritto, Roland Kuhn, ricorda che i farmaci antidepressivi influenzano positivamente i fenomeni della disposizione affettiva, che divengono così più facili da riconoscere e curare.

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E il curante? La possibilità di mettersi in relazione con “l’Altro da noi”, qualsiasi forma esso assuma, presuppone che venga mantenuta viva quella capacità squisitamente umana che è data dall’empatia. Edith Stein (1916) definisce l’empatia come “il fondamento degli atti in cui viene colto il vissuto altrui”. Così ne parla anche Eugenio Borgna (2010) mettendo in discussione la modalità prevalente di far diagnosi oggi in Psichiatria, rappresentata dal Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali dell’Associazione degli Psichiatri Americani: “…come posso giungere alla diagnosi in Psichiatria se non riesco a fare sgorgare dalla vita interiore dei pazienti le ragioni ferite dei loro cuori… se non ho mai conosciuto queste esperienze umane, prima ancora che nella psicopatologia, nella mia anima o nella mia immaginazione?”. Egli ci riporta alla possibilità o non possibilità di vivere in modo empatico la relazione con gli altri. Momento centrale del trattamento è quindi l'assetto mentale del terapeuta. Nel rapporto con i pazienti depressi, il terapeuta, può attivare meccanismi controtransferali atti a proteggersi dall'ansia e a preservare la propria integrità narcisistica. È inevitabile che questi meccanismi possano presentarsi, ma è fondamentale che il terapeuta se ne renda conto, al fine di evitare agiti pericolosi o dannosi. Bisogna entrare in sintonia con quel “noi diverso ma comunque nostro” che il paziente depresso ci evoca. A questo proposito resta fondamentale Sigmund Freud nello scritto Il Perturbante dove, considera la sorprendente vicinanza tra l’Heimliche e Unheimliche, ovvero il familiare e il non familiare (Freud, 1919). Lo straniero, e per straniero qui intendo proprio i nostri pazienti più complessi, e i depressi cronici lo sono, e le situazioni familiari che ci appaiono impossibili, possono presentarsi ospitali al nostro incontro e noi al nostro incontro con loro. Possono altresì presentarsi del tutto

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inospitali perché l’angoscia, che proviene dalla loro condizione di sradicamento e di alienazione, spesso non consente di esprimere la loro ospitalità, la loro possibilità di chiedere aiuto, costringendoli a rimanere chiusi, troppo estranei, talvolta irritanti. In realtà per ospitare pazienti gravi, come quelli affetti da gravi melanconie, è necessario rendere possibile in noi operatori e nelle istituzioni in cui operiamo lo spazio, soprattutto mentale, per ospitarli. Credo che la depressione ricorrente e/o cronica quindi non debba esser mai un alibi per non provare a curare sia il corpo che la mente di una persona sofferente. Non si è giustificati a non trattare la depressione. Concludo con due relazioni cliniche e con Ingmar Bergman e il suo film “Fanny ed Alexander”. Primo caso: è esplicativo di un intervento di psicoterapia breve eclettico Luigina è una donna di settantun anni, ha due figlie e dei nipoti; per anni ha gestito con i genitori, poi con il marito ed infine anche con le figlie un bel negozio d’arredamento, che è sempre migliorato nel tempo. Con il marito faceva molti viaggi e forse le figlie pativano, dei genitori, questo loro stare così bene insieme, da soli. Il marito è morto quattro anni fa, lasciandola sola nella villa costruita in campagna: Luigina amava stare in città ed era andata a vivere fuori per accontentare il marito, che peraltro aveva fatto costruire e arredare la casa, come la moglie aveva voluto. Soffre in modo continuativo di depressione da quattro anni, è sempre stata una persona sensibile e piuttosto bella, amata dai genitori che avevano severe regole morali, amata soprattutto dal marito che “stravedeva per me, come faceva anche mia mamma” ricorda Luigina.

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In questi ultimi anni ha sofferto di calcolosi renale – ha già avuto due interventi tramite litotritore – è dimagrita fino a divenire quasi anoressica e soprattutto è divenuta molto depressa. Le figlie sono preoccupate, lei è disperata e vive in modo molto doloroso e greve. Il corpo esile, è rigido, contratto, gli occhi dalle palpebre pesanti, si aprono talvolta in modo angoscioso. Non riesce a stare in pace neppure quando va a letto, molto presto alla sera, per non dormire quasi nulla. Durante la prima visita prendo informazioni, senza eccedere, sulla sua vita, sulla sua salute e sulle sue relazioni, cerco di cogliere se vi è fluidità nel pensiero e nel percepire se stessa, gli altri ed anche il sottoscritto che dialoga con lei. Non sento un prevalere dell’organicità, sostenuto in questa impressione dai risultati di molteplici indagini somatiche che mi porta a conoscere. Deve fare ancora un intervento per la calcolosi renale, per cui, d’accordo con la paziente, rinvio l’inizio di un progetto terapeutico quando avrà superato l’intervento. Nel secondo incontro propongo una terapia psicofarmacologica, sorretta da informazioni sul disturbo depressivo, operando un’iniziale e parziale medicalizzazione: “una malattia che fa stare male come le altre gravi”, le dico, per detendere gli aspetti più angosciosi legati all’apatia, l’anedonia e il sentimento di colpa. Questo dialogo in parte avviene anche con le figlie che l’hanno accompagnata, sostanzialmente per fare loro capire, ma anche alla paziente che ascolta, che non si tratta di un problema di “maggiore volontà da mettere nella vita”, perché la depressione l’ha prosciugata per ora quella vita: “se avesse avuto un incidente, una grave malattia somatica non pretenderebbe troppo, non le richiedereste di fare di più”. Nel terzo incontro, dopo quindici giorni, la paziente comincia a migliorare, grazie alla terapia farmacologica; posso iniziare a lavorare sui triangoli di Davanloo, soprattutto su quello delle emozioni: il senso di colpa, la demoralizzazione, il dolore, la perdita d’interesse vitale.

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Nel quarto incontro lavoro di più sul triangolo delle persone: emerge il conflitto con se stessa, per come tiene in sé le relazioni con il marito e le figure genitoriali. Emerge soprattutto una struttura di carattere ambivalente, tra il senso di dovere nel fare propria una cultura piuttosto rigida portata da genitori amati e la spinta a vivere i propri desideri trasgredendo anche alcune delle regole introiettate. Porto poi l’attenzione sulle relazioni attuali, con le figlie e con il marito, non ancora sufficientemente sepolto. Racconta come, dopo due interruzioni volontarie di gravidanza, per la paura di restare ancora incinta avesse dopo i quaranta-quarantacinque anni ridotto notevolmente i rapporti sessuali; di questo ora si sente colpevole “lui era buono, accettava tutto ma così non l’ho fatto felice”. Nel quinto incontro, con la tecnica della “Life review”, enfatizzo quegli aspetti positivi del carattere di Luigina che avevano sempre affascinato il marito: “lei ora non sa più vedere le cose buone che aveva, ed ha dentro di sé, ma che il marito vedeva”. Così il marito, comincia a divenire una presenza meno persecutoria e più accogliente. Torno allora al triangolo del conflitto e aiuto l’emergere di sentimenti rimossi: Luigina commossa ma viva prende il coraggio di raccontare delle serate passate a casa a pregare in modo ossessivo e tetro chiedendo perdono al marito, forse anche per essere rimasta viva. Passo poi ad affrontare la rabbia sottostante: in realtà questo marito che la costringe ad implorare perdono è un “fantasma” persecutore, una presenza inquietante che la costringe, fra l’altro, a rimanere prigioniera in quella casa che già non gradiva quando vi andò a vivere. Quella casa, dentro di lei, è ora divenuta una casa “odiosa” dove non vi sono vie di scampo. Nel settimo incontro, aiuto la paziente a riconoscere l’ambivalenza dei suoi sentimenti e introduco la differenza tra i suoi vissuti e i dati della realtà: “lei in fondo è troppo severa con se stessa, mentre il marito sarebbe contento che la sua Luigina tornasse al negozio, cercasse ancora le cose che le possono fare

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piacere”… “suo marito aveva sempre amato di lei la perseveranza, ma anche quella sua simpatica, capricciosa leggerezza”. Luigina sorride, si distende mentre scompare la contrazione muscolare e la corazza del corpo si è ormai molto attenuata: mi sembra ancora bella ed è ora curata nella persona. Ci sembra di rivedere la ragazzina birichina, amante delle cose belle. La casa, mi dice poi, è tornata vivibile, dorme sempre poco ma ci sta meglio e con calma vedrà cosa farne, forse venderla “ma senza rimetterci”. Intanto è tornata, dopo tanto tempo in negozio: “faccio un po' di fatica, non ricordo come prima le cose, ma mi piace ancora”. La rabbia verso il marito e poi anche verso le figlie, che non la capivano e sole lavoravano nel negozio, ha potuto emergere, slegandosi però dai sentimenti di colpa, anche perché riconosciamo insieme come i suoi sentimenti siano anche profondamente positivi verso queste figure care. Luigina riconosce anche emotivamente la sua ambivalenza che così non produce più colpa e angoscia. Siamo ormai ad un buon punto della terapia! Secondo caso: alcune vicissitudini nell’integrazione tra psicoterapia e psicofarmacologia Maria ha quarantaquattro anni, è alta, bionda, potrebbe essere bella, ma prevale un non so che di estraneo, quasi di devitalizzato, di automa; è sposata con un bell’uomo che le vuole bene, non hanno figli. Lavora in un’azienda con un posto di responsabilità. Soffre da anni di crisi depressive e, soprattutto, è molto infelice: nella sua mente sono ospiti sgraditi pensieri ossessivi, sentimenti di colpa per ogni possibile momento di felicità. Tutto questo si è aggravato un anno fa con la morte dell’unico fratello di cinque anni più vecchio per un tumore.

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Maria è rimasta orfana del padre a venti mesi: la madre con i due figli era tornata per motivi economici a vivere nella sua famiglia d’origine, dove vi era un fratello, alcolista, che terrorizzava costantemente la donna e i suoi figlioli. Non vi era mai un po’ di pace. Io penso che quest’uomo attaccasse continuamente la possibilità, soprattutto mentale, di vivere della sorella con i suoi due bambini. Maria trae un notevole beneficio dalla terapia psicofarmacologica basata su antidepressivi a dosaggi medi alti, bassissimi dosaggi di neurolettico non sedativo e una leggera cura per il difficile dormire. Asserisce che così bene non si sentiva da anni e le sembra finalmente di poter tornare a vivere. Dopo alcuni mesi di terapia psicofarmacologica, che viene lasciata inalterata, chiede d’iniziare un percorso psicoterapeutico. In realtà, quasi subito dopo l’inizio dei nostri colloqui, comincia a peggiorare e i farmaci sembrano non essere più in grado di lenire la sua sofferenza. Decido di mantenere la stessa terapia perché penso che l’inizio della psicoterapia sia in un qualche modo responsabile del peggioramento, piuttosto che una ridotta efficacia della terapia farmacologia. Scopriamo insieme che forse è proprio l’idea di dedicare uno spazio a se stessa, uno spazio per essere un po’ meno infelice, che viene attaccato dal ritorno dei pensieri melanconici e ossessivi. Forse si sente colpevole per questo spazio-tempo che ha iniziato a dedicare a se stessa, mentre il fratello è morto e la mamma è sola: in realtà mi dice che la mamma vive bene da sola ed esorta sempre Maria a farsi la sua vita. È come se Maria avesse ancora nella mente questo zio che distrugge ogni cosa – relazione oggettuale interiorizzata e rimossa, ma il persecutore interno fa ancora il suo mestiere! – che distrugge anche il nostro spazio d’incontro.

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E allora le comunico quanto penso dicendole che i pensieri ossessivi e tristi sono in un qualche modo questo zio che non è mai stato “sepolto” del tutto. Lei rimane stupita ma interessata dalle mie parole. Si commuove come vi fosse finalmente la possibilità d’entrare in contatto con quella se stessa piccola, maltrattata e, allora come adesso, inevitabilmente impotente di fronte a tanta forza distruttiva. La paziente va migliorando e gli psicofarmaci tornano a fare il loro buon lavoro… gradualmente la terapia è stata ridotta, ma siamo entrambi d’accordo che va mantenuta ancora perché Maria è finalmente in grado di accettare tutti gli aiuti che possono essere utili per essere un po’ felice. Spero ora che la donna di quarantaquattro anni possa finalmente aiutare quella bambina e ridarle speranza per una vita migliore. “Fanny e Alexander” La giovane e bella attrice, sposa di uno dei tre figli di Elena, la grande matriarca – Ingrid Thulin, nel film – di questa ricca e singolare famiglia, rimasta vedova va sposa al Vescovo Protestante della città. È la discesa nella melanconia più disperata, in una casa, in una famiglia, dove vi è spazio solo per un’arida intransigenza, per la colpa e soprattutto per il biasimo per ogni ricerca di un po’ di felicità. Tuttavia una parte di lei, rappresentata dal figlio Alexander, non si rassegna e risalirà dall’incubo melanconico mentre il Vescovo, che rappresenta l’attacco rancoroso al vivere le passioni, troverà una fine che non suscita commozione. La giovane donna e i suoi figli, Fanny e Alexander che rappresentano il desiderio di tornare a vivere, sono nuovamente nella grande famiglia. Vi è una festa gioiosa per una nuova nascita, una bimba che rappresenta anche la possibilità della vita di tornare più leggera. Bergman, che per anni ha sofferto di terribili

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depressioni, fa dire a Gustav Adolf, il figlio che dirige il teatro di famiglia: “…noi siamo gente che si muove, che sa vivere nel mondo piccolo, delle piccole cose, ma così, quando arriva la felicità, quando arrivano quegli attimi di felicità, li sappiamo vivere…”. Questo è un antidoto, che mi sembra sempre più raro, al prevalere delle passioni tristi, rancorose, anche violente che colorano male il vivere quotidiano in questa epoca della crisi e della precarietà. Conclusione Pierre Fédida (2001) ricorda che siamo posti di fronte ad uno strano paradosso: il fenomeno della depressione diventa sempre più comune e diffuso, lo psichiatra ha a disposizione strumenti farmacologici decisamente migliori per ben curare, ma paradossalmente non concede più tempo all’osservazione ed all’ascolto dei malati negandosi così e negando a loro la possibilità di buone cure integrate, che sarebbero oggi veramente possibili. Credo che gli psicofarmaci antidepressivi siano molto utili, tuttavia dobbiamo imparare a chiedere ai farmaci antidepressivi quello che essi possono dare mentre non dobbiamo dimenticare di chiedere a noi stessi di essere degli psichiatri, degli psicoterapeuti, che mantengono una dimensione ampia, umanistica della cura, dove inevitabilmente la relazione con l’altro e la capacità di leggere che cosa gradualmente in essa si sviluppa, devono restare fondamentali, pena perdere il senso del nostro operare, non fornire un senso alla sofferenza dell’altro e quindi sviluppare ahimè cattive pratiche terapeutiche.

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RIASSUNTO L’ipotesi sviluppata è che un intervento integrato, psicofarmacologico e psicoterapeutico, influenzi positivamente le modificazioni biologiche e psicopatologiche, persistenti nella depressione cronica e/o ricorrente. Viene richiamata la concezione del vissuto temporale nella depressione di Binswanger. Vengono riportate le opinioni di Kaplan, Gabbard e Davanloo soprattutto in merito a vantaggi e limiti dei più significativi approcci psicoterapeutici. Viene affrontato il tema dei mutamenti espressivi nelle depressioni oggi, con i contributi di Benasayag-Schmidt, Simona Argentieri e Pierre Fédida. Infine vengono presentate alcune vignette cliniche inerenti la psicoterapia di pazienti depressi. PAROLE CHIAVE Depressione cronica e/o ricorrente, psicoterapia dei disturbi depressivi, mutamenti espressivi dei quadri psicopatologici.

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SUMMARY The hypothesis developed is that an integrated, psychopharmacological and psychotherapeutic intervention, can influence the psychopathological and biological changes, persistent in chronic depression and/or recurrent, positively. In this article we can find Binswanger’s concept of temporal experience in depression. Also the views of Kaplan, Gabbard and Davanloo regarding especially benefits and limitations of the most significant psychotherapeutic approaches. We can also find the issue of expressive changes in today’s depressions, with contributions from Benasayag-Schmidt, Simona Argentieri and Pierre Fédida. Finally we present some clinical vignettes concerning the psychotherapy of depressed patients. KEY WORDS Recurrent and/or chronic depression, psychotherapy of depressive disorders, expression changes in psychopathological states.

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Appunti di viaggio

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Giacinto Buscaglia, Panfilo Ciancaglini

Epidemiologia della schizofrenia: nuove acquisizioni e nuove suggestioni

a Paola Panizza

La prima difficoltà che dobbiamo affrontare per descrivere la distribuzione e i fattori causali della schizofrenia è il dubbio che si tratti di un’entità nosologica ben definita. Sappiamo che esistono movimenti di opinione che sostengono che la schizofrenia non esiste e pratiche antipsichiatriche fondate sul rifiuto della nosologia e della terapia, sull’autodeterminazione e sulla presenza di ex utenti nello staff. Possiamo citare due strutture residenziali, “La Casa di Hilde” fondata da Giuseppe Bucalo in Sicilia e la “Weglaufhaus” (Casa del Fuggitivo) di Berlino, come esempi di queste impostazioni. Esperienze molto interessanti, come quella degli “uditori di voci”, propongono modelli di cura alternativi alla psichiatria tradizionale, anche se meno radicali dei precedenti. “…se a dieci ricercatori esperti, che hanno dedicato le loro carriere alla schizofrenia, venisse chiesto di fare una lista dei 10 fatti più importanti che loro conoscono al di là di ogni dubbio, è molto probabile che non ce ne sarebbero due uguali” (DeLisi, 2006). Del resto i confini della schizofrenia sono molto sfumati. Il disturbo schizoaffettivo si costituisce come area di sovrapposizione nei confronti dei disturbi bipolari, mentre il disturbo schizotipico di

Psichiatra, Dipartimento Salute Mentale ASL 2 Savonese. Psichiatra, gruppo “Redancia”.

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personalità e i disturbi psicotici brevi creano un ponte tra la schizofrenia e condizioni di “normalità”. Anche l’ampia variabilità del decorso, in mancanza di markers biologici, è un elemento di difficoltà per l’individuazione di un quadro nosologico unitario. Esistono molte altre malattie in medicina caratterizzate, come la schizofrenia, dall'eterogeneità nella sintomatologia e dei fattori eziopatogenetici, ma il problema nella schizofrenia è ancora più complesso perché all’eterogeneità si associa la mancanza a tutt'oggi di un marker biologico definito. La sindrome da fatica cronica, i cui criteri diagnostici ricordano quelli della schizofrenia, originariamente descritta come una vaga costellazione di sintomi di debolezza, mal di testa, dolori, è stata scomposta in una serie di sindromi con eziologia semplice (malattia di Lyme, Virus di Epstein-Barr) e in condizioni psichiatriche eterogenee (disturbi somatoformi e depressione) con manifestazioni apparentemente simili. Infine, il tentativo di restringere i criteri diagnostici (molto allargati dalla psichiatria americana rispetto a quella europea) potrebbe essere una delle cause per cui i dati per lungo tempo sono stati difficilmente confrontabili e fonte di confusione. Jim van Os (2011) nel commentare un lavoro di altri autori sottolinea la difficoltà di discutere “fatti” di un costrutto che non rappresenta un’entità nosologica. Fino agli anni Settanta del secolo scorso, la schizofrenia era ritenuta una malattia “processuale” con esito invariabilmente peggiorativo e invalidante. Le osservazioni si basavano quasi esclusivamente su popolazioni di pazienti manicomiali o di dimessi dagli ospedali psichiatrici. D’altronde fino alle pionieristiche ricerche di Shepherd nulla si sapeva dei disturbi psichici e delle malattie mentali nella popolazione. Grazie ad alcuni grandi studi internazionali, i cui risultati furono pubblicati negli anni Ottanta (tra cui Jablensky 1980 e 1988, Ciompi 1980 e 1989, Zubin 1983, Harding 1988) si poté stabilire che l’esito

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della malattia non era necessariamente peggiorativo e che gli elementi di contesto influenzavano l’efficacia delle cure. Queste acquisizioni sono tuttora valide ma altre conclusioni derivate dalle stesse ricerche si sono rivelate erronee. Una prima questione riguarda l’incidenza. In una ricerca del 1986 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che aveva lo scopo d’identificare l'incidenza della schizofrenia in 8 località in 7 nazioni, l'incidenza annuale si collocava in un range da 16 a 42 x 100.000 abitanti. Utilizzando criteri più restrittivi il range si riduceva da 7 a 14 x 100.000 abitanti. Gli autori commentavano: “i risultati forniscono un forte sostegno all’ipotesi che la malattia schizofrenica si manifesti con una frequenza simile in popolazioni differenti” (Sartorius et al., 1986). “Le evidenze portano alla singolare conclusione che, al contrario di quasi tutte le altre condizioni, l’incidenza della schizofrenia è indipendente dall’ambiente ed è una caratteristica delle popolazioni umane” (Crow, 2000). Da questa, come da altre descrizioni, derivava il profilo di un disturbo di origine biologica con una componente ereditaria di gran lunga prevalente sui fattori socio ambientali. Le ricerche svolte negli anni Duemila hanno modificato questa impostazione. Nel 2006 McGrath, in un articolo il cui titolo era piuttosto esplicito “Variazioni nell’incidenza della schizofrenia: dati versus dogmi”, compie un’ampia revisione dell’argomento, che viene confermata anche da dati successivi. Sintetizzando per punti. L’incidenza della schizofrenia varia in modo significativo nelle diverse aree geografiche Valore mediano: 15,2 per 100.000 all’anno.

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Range da 7,7 a 43,00 (80% centrali della distribuzione cumulativa). L’incidenza della schizofrenia ha significative variazioni per sesso Risk ratio maschi/femmine 1,4. L’età media d’insorgenza è di 22-23 anni, con un ritardo delle femmine di 3-4 anni. L’esordio è più precoce nei maschi, con un’eccedenza che in età infantile può arrivare fino a 2,5/1. Al contrario, le forme ad esordio tardivo, oltre i 40 anni sono quasi esclusivamente femminili. Il decorso nei maschi è più sfavorevole, anche se la prevalenza non presenta differenze specifiche per genere. L’incidenza della schizofrenia ha significative variazioni relative al contesto di vita Chi nasce in città ha un rischio doppio rispetto a chi nasce in zone rurali. Il trasferimento in età infantile dalla città alla campagna costituisce un fattore protettivo. Questi dati consentono una diversa interpretazione dell’eccesso di casi nei centri urbani rispetto alla teoria della deriva sociale, focalizzando l’urbanizzazione come vero e proprio fattore causale. L’incidenza della schizofrenia ha variazioni significative per lo stato di migrante Risk ratio da 1/3 a 1/5.

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Il dato varia in funzione della proporzione tra comunità immigrata e popolazione generale: il rischio diminuisce con l’aumentare del numero dei migranti. Il fattore implicato sarebbe quello dell’esclusione e della marginalizzazione sociale. L’incidenza della schizofrenia varia nei diversi periodi dell’anno Nascere in inverno e primavera aumenta il rischio di ammalare. L’incidenza della schizofrenia varia a seconda dei periodi storici Studi condotti nella zona sud-est di Londra tra il 1965 e il 1997 mostrano un raddoppio dei tassi negli ultimi decenni. Al contrario, una sistematica review della letteratura evidenzia dati d’incidenza minore negli studi più recenti rispetto a quelli precedenti. Queste contraddizioni potrebbero dipendere dalla difficoltà di selezionare campioni identici per esposizione ai fattori di rischio. La prevalenza della schizofrenia varia ampiamente nelle diverse aree geografiche Il dato più significativo è quello di una notevole variabilità con oscillazioni tra 160 e 1.200 casi per 100.000 abitanti con media 400. Si è notato che la prevalenza della schizofrenia nei paesi sviluppati è significativamente più alta rispetto ai paesi in via di sviluppo. Anche l'esito è diverso (migliore nei paesi in via di sviluppo), nonostante nei paesi “poveri” la quota dei pazienti psicotici trattati non supera il 30%, mentre nei paesi industrializzati è ben oltre l’80%.

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La schizofrenia è responsabile dell’1,1% del totale di anni di vita persi a causa della disabilità (DALYs, Disability Adjusted Life Years) e del 2,8% complessivo di anni vissuti in condizioni di disabilità. Il fatto che una malattia con incidenza relativamente bassa abbia una prevalenza alta ed un forte impatto di disabilità significa che molte delle persone che ammalano rimangono a lungo in trattamento e che lo stesso è poco efficace, almeno per ciò che riguarda le competenze relazionali e sociali. È probabile che, almeno in parte, questo dipenda dall’immagine distorta della malattia e delle relative conseguenze sui trattamenti. Vediamone alcune:

- spesso il trattamento farmacologico è considerato il fulcro della terapia a discapito degli interventi psicosociali;

- non viene sufficientemente valorizzato il vissuto del paziente ed il significato simbolico del delirio;

- l’impatto della stigmatizzazione, soprattutto per quanto riguarda l’imprevedibilità e la pericolosità è molto forte e ostacola la guarigione.

Ciò che ha radicalmente modificato il quadro d’insieme, favorendo la confutazione dei “miti” sulla schizofrenia è stata l’introduzione di criteri diagnostici dimensionali invece che categoriali. Le ricerche sono state condotte anziché su soggetti "puri", sicuramente schizofrenici, su gruppi di popolazione che presentano costellazioni variabili di sintomi di quella che viene chiamata “sindrome psicotica multidimensionale complessa”, caratterizzata da quattro tipi di sintomi:

- psicosi (deliri ed allucinazioni);

- deficit motivazionali (avolizione, amotivazione);

- sregolazione affettiva (depressione, mania);

- alterazione dei processi d’informazione (deficit cognitivo). Oggi sappiamo che questi sintomi sono presenti anche in una parte della popolazione che non ha mai ricevuto diagnosi di psicosi. Inoltre, “un numero sempre più corposo di evidenze suggerisce che esperienze deliranti e allucinatorie sono più frequenti nella popolazione generale rispetto alla prevalenza di casi di disturbi psicotici, facendo

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supporre l'esistenza di un continuum sintomatologico tra soggetti della popolazione generale e casi clinici di psicosi” (Van Os et al., 2002). Per gli stessi autori “esplorare i fattori di rischio che modulano l'espressività dei sintomi psicotici in popolazioni non cliniche può contribuire meglio a chiarire l'eziologia della psicosi piuttosto che ricerche ristrette a pazienti al punto estremo della distribuzione della dimensione psicotica”. In questa prospettiva i disturbi psicotici possono essere visti come disturbi dell'adattamento al contesto sociale. Rimane dimostrata una componente ereditaria, ma la comparsa del disturbo è correlata a fattori ambientali. L'ipotesi è che l'esposizione a questi fattori abbia un impatto sullo sviluppo del cervello "sociale" durante periodi considerati sensibili. La schizofrenia può essere considerata l’esito più sfavorevole, che colpisce lo 0.5-1% della popolazione nel corso della vita, della sindrome psicotica multidimensionale complessa descritta in precedenza, presente nel 2-3% della popolazione ed evoluzione, a sua volta, di una vulnerabilità che caratterizza il 10-20% delle persone.

52 Fig. I – Complexity of the psychotic disorder phenotype in aetiological research (da Jim Van Os, 2010). Il profilo della vulnerabilità prevede bassa intensità dei disturbi, loro appartenenza ad una sola delle quattro aree della sindrome e livelli moderatamente alti d’ereditarietà. Interazioni gene-ambiente fanno crescere i livelli dell'espressione fenotipica, con una più alta correlazione delle quattro dimensioni, fino a superare il filtro dei servizi psichiatrici. Nei disturbi affettivi e psicotici la soglia dei servizi è superata per la necessità di chiedere un aiuto (più frequente nelle femmine), mentre nei deficit motivazionali e nei disturbi cognitivi per una progressiva riduzione della competenza sociale (più frequente nei maschi).

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A questo punto si arriva alla diagnosi clinica e il ruolo dell'ereditarietà è più alto, arrivando fino all’80-90%. I fattori ambientali maggiormente implicati nella genesi della schizofrenia sono i seguenti:

- traumi dello sviluppo, sia in senso dell'abuso che dell'abbandono;

- appartenenza ad un gruppo etnico minoritario;

- crescere in un contesto urbano;

- uso di cannabis;

- traumi perinatali: stress prenatale e deficit nutrizionale della madre, livelli materni serici di piombo e omocisteina, incompatibilità Rh, bassi o alti livelli neonatali di vitamina D, toxoplasmosi prenatale, infezioni virali o batteriche, complicazioni varie in gravidanza e alla nascita.

La sensibilità ai fattori di rischio è modulata geneticamente e produce i suoi effetti secondo una tempistica dello sviluppo cerebrale che inizia col concepimento e arriva intorno ai venticinque anni. L'importanza dei fattori ambientali si coglie solo se si costruiscono sottogruppi maggiormente vulnerabili. La figura mostra la differente sensibilità all'urbanizzazione e all'uso di cannabis tra un sottogruppo a rischio genetico (G+) e il gruppo di controllo (G-).

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Fig. II – Evidence for vulnerable subgroups and gene-environment interaction using proxy measures of genetic risk (da Jim Van Os, 2010). Nella figura successiva viene rappresentato il timing dello sviluppo del cervello umano, delle abilità funzionali e dell'impatto dei fattori ambientali. Le frecce rappresentano l'impatto di fattori ambientali associati con la sindrome psicotica. Le barre indicano approssimativamente i periodi dello sviluppo durante i quali i processi si verificano.

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Fig. III – Schematic illustration of the approximate timing of the development of the human brain, functional abilities, and impact of environmental exposures (da Jim Van Os, 2010).

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Le conoscenze sull’origine e lo sviluppo dei disturbi psichici si sono enormemente accresciute negli ultimi decenni. Il libro di Goldberg e Goodyer uscito nel 2005 e tradotto in italiano nel 2009 ne offre una sintesi esemplare, mettendo a disposizione dei clinici utili informazioni non solo per il trattamento ma anche per la prevenzione. Il passaggio dai modelli categoriali a quelli dimensionali costituisce il presupposto per un corretto approccio ai concetti di vulnerabilità, interazione gene-ambiente, trauma e fattori di rischio. Gli studi più recenti ci consentono d’ipotizzare che non solo i disturbi depressivi, d’ansia, da abuso di sostanze e di personalità rientrino nell’ormai classico modello dei cinque livelli e quattro filtri (Goldberg & Huxley, 1980; Goldberg & Goodyer, 2005), ma anche quelli psicotici. I sintomi psicotici, i deficit motivazionali, la sregolazione affettiva e i deficit cognitivi sono presenti nel 10-20% della popolazione come espressione fenomenica di una vulnerabilità che, ricordiamo, non va mai disgiunta dalla resilienza che rappresenta la seconda, non meno importante, componente della predisposizione. L’impatto dell’ambiente e dei fattori di rischio può condurre alla psicosi multidimensionale complessa descritta in precedenza circa un decimo di queste persone. Si tratta, per ora, di un’ipotesi che necessita di ulteriori conferme ma è evidente che, se intendiamo la schizofrenia come l’esito più sfavorevole di patologie meno gravi, si aprono nuove e diverse prospettive per ciò che riguarda la prevenzione e gli interventi precoci. Non è negli scopi del lavoro approfondire questi aspetti. Sottolineiamo, tuttavia, il ruolo dell’epidemiologia nell’offrire informazioni ai clinici per il miglioramento della prevenzione e della cura precoce dei disturbi psicotici, soprattutto alla luce dei recenti sviluppi, che sembrano aver corretto errori metodologici che hanno rallentato l’evoluzione delle conoscenze sull’argomento.

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RIASSUNTO

Gli autori sottolineano la difficoltà di descrivere la distribuzione e i

fattori causali della schizofrenia nel momento in cui appare sempre più

discutibile come entità nosologica ben definita.

Si considera, successivamente, l’evoluzione delle conoscenze

epidemiologiche sull’argomento: dalla concezione processuale agli studi

internazionali sulla popolazione degli anni Ottanta del secolo scorso.

Le conoscenze acquisite con questi ultimi sono attualmente in parte

confermate (variabilità del decorso e influsso dell’ambiente sull’esito

del trattamento) e in parte smentite (stabilità e ubiquitarietà

dell’incidenza dovuta quasi esclusivamente alla componente genetica).

L’analisi di questi “errori metodologici” e il loro influsso sul modello di

malattia portano a riflettere su un corretto uso delle evidenze della

letteratura nella pratica clinica e nell’organizzazione dei servizi.

Vengono poi elencate le più recenti acquisizioni sull’incidenza e la

prevalenza della malattia.

Parte della letteratura più recente propone un modello di nascita e

sviluppo della schizofrenia assimilabile a quello di Goldberg per i

disturbi psichici comuni e cioè un continuum tra disturbi nella

popolazione e patologie psicotiche che impattano con i servizi sanitari.

Questo modello, che si è sviluppato nell’ambito delle più aggiornate

acquisizioni sulle interazioni gene-ambiente, necessita di ulteriori

conferme ma è di indubbia utilità per chi opera nel campo della

prevenzione e degli interventi precoci nei disturbi psicotici.

PAROLE CHIAVE

Schizofrenia, epidemiologia, interazioni gene-ambiente.

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SUMMARY

The authors emphasize the difficulty of describing distribution, and the

causal factors of schizophrenia in the moment in which it appears

more and more questionable as a well defined nosological entity. It is

therefore considered that the evolution of epidemiological knowledge

in the topic from a process-based view to international studies on the

population of the eighties of last century. Knowledge acquired in this

way are currently partially confirmed (variability of the course and

environmental influences on the outcome of treatment) and denied in

part (stability and ubiquity of the incidence due almost exclusively to

the genetic component). The analysis of these "procedural mistakes"

and their influence on the disease model led to reflect on the proper

use of evidences in the literature in clinical practice and organization of

services. It then lists the most recent findings on incidence and

prevalence of the disease. Part of the recent literature suggests a model

of onset and development of schizophrenia similar to that of Goldberg

for common mental disorders that is a continuum between disorders in

the population and psychotic diseases who impact on health services.

This model, which was developed as part of the latest acquisitions on

gene-environment interactions, needs further confirmation, but is

certainly valuable for those working in the field of prevention and early

intervention in psychotic disorders.

KEY WORDS Schizophrenia, epidemiology, gene-environment interaction.

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Quattro passi per strada

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Pasquale Pisseri

L’autore di reato con problemi psichiatrici

Il 15 marzo 2013 si è svolto a Genova nella sede del Centro di Cultura Formazione Forense l’incontro di studio su “L’autore di reato con problemi psichiatrici”, organizzato e introdotto da Donatella Aschero, Magistrato del Tribunale di Savona, con attenzione rivolta a tre topiche fondamentali: problemi generali posti dall’intreccio fra esigenze cliniche e vincoli giuridici nel corso dei procedimenti e dell’eventuale misura di sicurezza; cambiamenti legati al superamento in corso degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari; gestione dei disturbi psichici insorti durante la detenzione. La dottoressa Aschero ha presentato il convegno rimarcando che il confronto fra Giudici e professionalità diverse, sempre più fondamentale, ha però spazi spesso limitati e compressi. Gli strumenti penal-processuali non hanno tenuto il passo con i progressi della psichiatria: accade che il Magistrato per far fronte a esigenze medico-psichiatriche all’interno del processo cerchi di adattare norme non a questo strettamente finalizzate, creando però così successive difficoltà. Quando e come utilizzare gli articoli del Codice Penale e di Procedura in modo non contrastante con le esigenze di cura? Come rapportarsi con i Centri Clinici Penitenziari e con gli SPDC? Ha quindi introdotto i vari relatori. L’area di più stretto interesse forense ha visto gli interventi di Marco Pellissero Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Genova, di

Neuropsichiatra, già Primario SPDC Savona, Consulente Scientifico del gruppo “Redancia”.

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Annalisa Giacalone Magistrato del Tribunale di Genova, di Gianluigi Rocco Psichiatra Forense, di Maria Laura Fadda Magistrato di Sorveglianza di Milano, di Massimo Cusatti Magistrato del Tribunale di Genova. Hanno invece trattato dei vari dispositivi di cura e organizzativi Roberto Maggi Responsabile dell’ Osservazione Psichiatrica nella Casa Circondariale Cittadina, Luigi Ferrannini Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Genova, Franco Scarpa Direttore dell’OPG di Montelupo Fiorentino, Graziella Giusto Funzionario della Regione Liguria. Cusatti nel suo intervento ad ampio raggio ha trattato vari aspetti problematici dei procedimenti riguardanti l’indagato psichicamente infermo: il diritto alla difesa da salvaguardare anche al di là della volontà espressa dall’interessato; la via giudiziaria talora vista come estrema “soluzione” a difficoltà non altrimenti superabili dalla famiglia del paziente; l’esigenza di garantire cure psichiatriche adeguate anche in condizioni di detenzione; la necessità di una valutazione critica del rapporto, difficilmente univoco, fra malattia e reato; l’ambiguità del concetto di vizio parziale di mente; i problemi posti da un’incapacità temporanea al momento del reato seguita da un ritorno alla normalità psichica; quelli relativi all’urgenza posta dall’arresto di persona psichicamente sofferente ma da ritenere imputabile fino a prova contraria e quindi da ricoverare se necessario in SPDC, con passaggio di competenza all’OPG se subentra un giudizio di non imputabilità. Pellissero ha trattato della prevenzione del reato, collegandola all’attuale crisi del tradizionale concetto di pericolosità; ha fornito dati numerici sull’attuale popolazione degli OPG (803 più 289 in Casa di Cura e Custodia), cui si affiancano 3.038 pazienti in libertà vigilata; ha segnalato il rischio che gli OPG sopravvivano in forma diversa, anche

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se in Italia – a differenza che in altri paesi europei – il ricorso alle misure di sicurezza va scemando. Anche Rocco, nel suo intervento concertato con Giacalone, ha messo in guardia contro la deduzione diretta dal riscontro di disturbo mentale a un giudizio d’incapacità; ha sottolineato l’importanza dell’intuizione e di possibili premonizioni nella sempre difficile valutazione della pericolosità; ha ricordato la necessità di un lavoro fortemente integrato con il Giudice, gli Avvocati, l’eventuale Tutore o Amministratore. Ha aggiunto concretezza al discorso portando ricordi della propria esperienza clinica e psichiatrico-forense. Anche Annalisa Giacalone ha trattato della pericolosità, che va verificata periodicamente e da valutare in rapporto non soltanto al dato strettamente psicopatologico ma anche alla gravità del reato e al contesto sociale più o meno supportivo. Va quindi evitato ogni giudizio di non pericolosità condizionata e cioè subordinata, ad esempio, alla regolarità e adeguatezza del trattamento o ad un buon sostegno familiare e sociale; aspetti questi che andavano già inclusi nella valutazione globale. Ha anche additato il rischio che la nuova legge non porti cambiamenti realmente decisivi, e che le nuove strutture a distribuzione regionale divengano nuovi OPG. Daniela Verrina, partendo dal principio indiscusso che nessuna misura o sanzione deve nuocere alla salute, ha fatto notare che il Magistrato di Sorveglianza, pur dotato di ampi poteri formali, di fatto non ha grandi possibilità di concreti interventi, anche perché, in caso di reclamo avanzato da un detenuto, il solo interlocutore diviene l’Amministrazione Penitenziaria. Franco Scarpa ha parlato dell’attuale situazione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari che, inevitabilmente, hanno carattere ancora carcerario. Dal 1° aprile prossimo dovranno cessare gli ingressi in

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OPG; ma non tutte le circa 500 licenze finali esperimento avranno esito positivo. La legge 09/2012 si limita a cambiare i luoghi dell’incontro fra controllo e cura, senza incidere in profondità sull’attuale modalità d’intervento, imperniata su quel concetto di pericolosità sociale che fra l’altro è profondamente in discussione. Personalmente aggiungerei che una netta differenziazione fra i luoghi di cura destinati ai pazienti autori di reato e quelli che accolgono pazienti esenti da vincoli giudiziari ha certo un senso organizzativo ma non ne ha di ordine clinico, almeno per un’ampia fascia di pazienti: la tipologia degli uni non si discosta da quella degli altri, e nell’esperienza maturata dalle nostre Comunità non risultano differenze significative sul piano della gestione, al di là degli adempimenti e limiti imposti per legge dal Magistrato. Sappiamo che su questo aspetto ha posto l’attenzione la Società Italiana di Psichiatria, preoccupata che venga in qualche modo paradossalmente ostacolato il processo virtuoso, innescato dalla nota sentenza della Corte Costituzionale, di una gestione dell’autore di reato non differenziata da quella degli altri pazienti. I Rappresentanti Regionali della Società “si sono dimostrati preoccupati di non poter più mantenere i progetti territoriali per i pazienti autori di reato, la cui pericolosità sociale non richieda l’inserimento nelle strutture alternative all’OPG. Questo perché esiste il rischio che una volta disponibili le strutture alternative all’OPG vi sia una ridotta attitudine da parte dei Magistrati, dei Periti e dei Servizi Territoriali stessi a realizzare progetti esterni alle strutture che comportano un minimo rischio di recidiva. Occorre instaurare una prassi operativa di comunicazione fra Magistrati, Periti e Operatori dei servizi delle ASL, che devono essere coinvolti nelle decisioni di cura dei pazienti già in fase progettuale”. È verosimile che questo rischio venga ridotto dalla prevedibile – e per una volta benefica – insufficienza quantitativa dei posti disponibili nelle

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nuove strutture: cruciale sarà l’attenzione a che i limiti posti dalla legge alle loro dimensioni non vengano aggirati. Ulteriori perplessità la SIP ha espresso sulla tempistica, avanzando il fondato dubbio che il divieto di nuovi ingressi negli attuali OPG, quando le nuove strutture sono lontane dall’esser pronte, crei situazioni d’abbandono ad alta nocività clinica e rischio. Credo meriti una riflessione anche il criterio territoriale imposto da questa legge. Certo è evidente che il dispositivo finora in atto ha spesso reciso brutalmente i legami con il territorio d’origine, favorendo la cronicità e il persistere ingiustificato dell’internamento anche a misura di sicurezza scaduta. Ciò conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che il riferimento territoriale è una variabile significativa nella scelta del luogo di cura anche per questa tipologia di pazienti: credo che esso vada riflessivamente pensato, non perseguito con rigidità burocratica che consideri esclusivamente i confini regionali. Intanto, perché il rispetto di questi non sempre garantisce al meglio il legame con il territorio. Esempio evidente la Liguria, la cui conformazione geografica fa sì che i riferimenti territoriali e i relativi collegamenti di singole zone con remote aree intraregionali possano essere meno efficaci di quelli con viciniori distretti extraregionali: per Imperia e Savona il Cuneese, per Genova l’Alessandrino, per La Spezia la provincia di Pisa. Inoltre, non è affatto raro che i legami del paziente autore di reato con il territorio d’origine si siano formati con ambienti di forte degrado sociale e ricchi di potenziali criminogeni; in questi casi una presa di distanza può rivelarsi opportuna, in piena coincidenza dell’esigenze terapeutiche con quelle di sicurezza sociale. La destinazione del paziente dovrebbe quindi essere ragionatamente clinica. Ferrannini ha richiamato alla necessità di mantenersi in un’ottica psicosociale per una comprensione dei cambiamenti epidemiologici attualmente segnalati, con diminuzione dei disturbi schizofrenici e

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aumento dei bipolari e dei disturbi di personalità. Ciò si deve ad un cambiamento dei criteri diagnostici? Ad un mutamento dei contesti sociali e della percezione del malessere psichico? Ad altri fattori ancora? Ha additato i rischi di una “psichiatrizzazione” che individui come disturbo reazioni semplicemente umane a motivazione individuale o sociale, conducendo ad iniziative terapeutiche improprie in situazioni che sarebbe meglio non sottoporre a cure mediche. Analogo rischio si ravvisa nel Decreto Marino che affida senz’altro il problema degli internati non più pericolosi ai Dipartimenti di Salute Mentale anziché agli organi del Servizio Sanitario Nazionale; questa seconda alternativa avrebbe opportunamente evitato un eccesso di delega. Maria Laura Fadda, ricordato che nel campo s’intrecciano diverse disposizioni non sempre ben armonizzabili, ha fornito dati sull’elevata concentrazione di disturbi psichici fra i detenuti nei 18 carceri lombardi: 100 pazienti psicotici, 153 bipolari, 428 disturbi di personalità; ciò che rende indifferibile l’istituzione di reparti di Osservazione Psichiatrica Intracarcerari. Si sta creando in Lombardia la rete di piccole strutture previste dalla legge. Anche se la gestione sarà sanitaria, non verrà meno la funzione di controllo del Magistrato di Sorveglianza. Maggi ha riferito sull’intervento dello Psichiatra nella Casa Circondariale di Genova Marassi, intervento che supera la tradizionale attività di consulenza per vedere un intervento integrato del DSM, scorporato dalla medicina penitenziaria. Il Reparto di Osservazione Psichiatrica, vicino all’attivazione, è destinato a sostituire l’ex “alta sorveglianza” per i detenuti a rischio di acting anche di tipo autolesivo. L’utenza prevista va dalle situazioni borderline fino alle patologie psichiatriche maggiori in fase non di crisi acuta: per quest’ultima evenienza si mantiene ovviamente la competenza del SPDC.

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Graziella Giusto ha aggiornato i presenti sull’attività della Regione Liguria che intende creare un sistema integrato. Per la Sanità Penitenziaria viene attivato un Osservatorio, e si mette a punto un programma triennale per la salute in carcere, di cui farà parte il Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze. Ha confermato prossimo all’attivazione il Reparto di Osservazione Psichiatrica nel Carcere di Marassi. Quanto all’attuazione delle nuove disposizioni sui pazienti autori di reato finora destinati agli OPG, già da un anno l’Amministrazione ha emesso delibera sulla riorganizzazione del settore. L’oratrice dà atto che già le attuali strutture comunitarie a gestione pubblica e privata, non specificamente dedicate a pazienti autori di reato, formulano e attuano progetti personalizzati per tali soggetti. Verrà comunque attivata una struttura dedicata, definita come “Servizio di stabilizzazione” in vista di una successiva presa in carico territoriale. Collocata nell’area spezzina, consterà di due moduli di diversa intensità terapeutica, per complessivi 25 posti. L’incontro ha visto un’ampia e viva partecipazione di operatori del Diritto e della Salute Mentale; è stata quindi, come auspicato dalla promotrice dottoressa Aschero, un’importante occasione d’incontro interdisciplinare sul piano teorico e operativo, importante come tale e per gli attualissimi temi trattati. Credo che debba costituire non un punto di arrivo ma l’inizio di un’approfondita discussione su un cambiamento che come tale era da tempo atteso ma che va monitorato e, nei limiti del possibile, pilotato affinché, evitando soluzioni “gattopardesche” conduca invece ad un reale profondo cambiamento nella futura realtà operativa. Nota: in una successiva intervista il Ministro annuncia l’intenzione di prorogare i termini per la definitiva chiusura degli OPG.

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PAROLE CHIAVE Infermità mentale, incapacità d’intendere e volere, ospedale psichiatrico giudiziario, riforma, pericolosità. KEY WORDS Mental disorder, understanding and willing incapacity, judiciary mental hospital, reform bill, dangerousness.

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Roberta Antonello, Paola Bartolini

Il cuoco e l’informatica: ma che razza di menù!! Premessa Ricordo la televisione e il mio cuoco che andava dietro per veder se c’era qualcuno. Avevo dieci anni. Ricordo il mio primo cellulare visto con sospetto e anche con critica, esibizione d’importanza (un breve sketch televisivo di non so chi faceva vedere un ladro che fuggiva e il suono del suo cellulare lo faceva beccare). Sono passati più di vent’anni da quel 1990 in cui iniziava la vera rivoluzione informatica, l’introduzione di mezzi comunicativi completamente diversi, dai fax alle email, poi internet, la rete virtuale. Ora è nel nostro contesto, nessuna battuta ma molte perplessità, pareri diversi, comunicazioni d’allarme o d’entusiasmo, condanne o sentenze che portano a ritenere ancora confusa la comprensione di qualcosa che ormai appartiene al nostro mondo e non possiamo scotomizzare. Insomma c’è confusione, mentre i nostri nipoti navigano come noi accendiamo la luce. Cos’ha cambiato questa rivoluzione tecnologica, che impatto ha portato su chi l’ha vissuta e la vive nel quotidiano? Ci interroghiamo chiedendolo a tre persone diverse per età, sesso e professione. E sperando di andare OLTRE, capire di più e dare spunti di riflessione, non di giudizio. La rete c’è, conosciamola meglio.

Psichiatra, Supervisore Comunità gruppo “Redancia”. Psichiatra, CT Villa del Principe (GE).

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Prima intervista Maria è una signora di quarantun anni, sposata con due figlie di otto e dieci anni. Il marito è medico, è laureata in lettere, ha avuto un’educazione borghese con molti stimoli, ma anche molta richiesta d’indipendenza precoce. Lavora nella preparazione di eventi, dopo altre esperienze lavorative nel campo della moda, ed è una madre vicina alle figlie. Ha ampiamente utilizzato e utilizza internet per lavoro. Ma il suo utilizzo personale oltre al lavoro è limitato, né sembra aver modificato le sue abitudini, portato risorse culturali. È uno svago, un mezzo comodo per i propri hobbies, poche comunicazioni su facebook, uso per le foto e le email. Le bimbe rispondono a questo modello, usano, la maggiore soprattutto, il loro Mac per le foto e lo scambio delle stesse con le amiche, la condivisione del loro hobby preferito, lo sci, si messaggiano su questi temi, sulla scuola. La madre è tranquilla sull’assoluta innocuità del mezzo. Sono disinvolte nelle applicazioni che interessano a loro. Diverso è il rapporto con il cellulare per Maria. L’uso del telefonino a partire dai vent’anni d’età diventa elemento ansiogeno, come riferisce. È collegato alla paura. Il controllo che le permette il telefonino sulle persone significative le causa angoscia: se qualcuno non risponde al cellulare è morto. Sia il marito che la madre devono comunicare i loro spostamenti e rispondere sempre. Non dà il cellulare alle figlie per la propria angoscia, ma si contraddice: quando è utile per loro lo dà (ad esempio in gite sciistiche). L’aspetto è criticato e cerca di contenere il contatto telefonico con la madre ed il marito. Questa è la componente negativa insieme al non poterne fare a meno. L’aspetto della messaggistica telefonica è prevalente, è una scelta rispetto al contatto telefonico verbale. Maria usa molti aggettivi: intrigante, ambiguo, misterioso, “è come un gioco”. Il messaggio è unilaterale. Ci mette dentro la sfida, il mettere davanti all’altro cose che può capire o non capire. C’è anche la paura che un dialogo non le

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permetta di esprimere il suo pensiero fino in fondo, c’è la paura di non essere capita. Dice “io sono molto aggressiva”, evitare il dialogo telefonico tramite un sms potrebbe permetterle da una parte di essere molto aggressiva per l’assenza del limite posto dall’altro, dall’altra potrebbe essere un modo per contenere e limitare l’aggressività che l’altro stimola e di esprimere il proprio pensiero con maggior riflessività. La messaggistica l’aiuta perché scrivere serve per mantenere, per arginare la paura di perdere il suo pensiero, così come le foto la tranquillizzano dal perdere la memoria. La vista è il senso prevalente, che rassicura sulla perdita. “Per me scrivere è catartico” (oggetto senza resistenza) dove sciolgo i nodi ed esplodo nell’aggressività come nell’amore. Ma è anche rifiuto e paura del dialogo, “tappo la bocca all’altro e la tappo un po’ anche a me”. In tutta l’intervista Maria è collaborante, sincera, cerca le esatte parole per esprimere i vari sentimenti che accompagnano le stesse parole. Mostra flessibilità nei giudizi ed interesse. Seconda intervista Francesco, professore universitario, sessant’anni, è da sempre all’avanguardia nell’uso del mezzo informatico nella comunicazione, il suo utilizzo è prevalentemente culturale. Gli preme sottolineare il potenziale culturale di cui è entusiasta. Fondatore di uno dei primi siti specializzati sulla psichiatria, s’interessa da sempre di aspetti psicologici e sociali delle nuove tecnologie. Molto disponibile, è interessato all’argomento. Subito constata che ormai il mondo web è un ambiente che fa parte della realtà che ci circonda, di cui non possiamo non tenere conto in senso fenomenologico. Nel corso dell’intervista si definisce in due modi: sia l’intellettuale, sia lo psichiatra attento alla psicopatologia. Come psichiatra si augura che il DSM futuro consideri a parte la psicopatologia legata alla realtà

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virtuale. Questa è una realtà che dobbiamo considerare come psichiatri per capire il contesto in cui il paziente vive. Così come tutti noi non possiamo scotomizzare questo contesto che ci appartiene come realtà che ci circonda. Bill Gates affermava negli anni Ottanta che nel virtuale “l’oggetto è senza resistenza”. Riprendendo il concetto di Jaspers, che la realtà sta nella coscienza dell’essere come tale, non possiamo oggi non includervi il mondo virtuale. Francesco afferma che, mentre per Freud e la psicoanalisi l’oggetto è qualcosa di diverso da me, esterno, qui l’oggetto è parte di me, non è solo una rappresentazione, è un oggetto: la mia rappresentazione nel mondo virtuale è qualcosa che fa parte di me, non è un oggetto esterno o altro da me, ma è in me, fa parte di me. Francesco dice che il dialogo non è unilaterale ma possibile. Insiste sull’importanza di conoscere i codici della comunicazione virtuale, proprio perché ritiene inarrestabile questa rivoluzione tecnologica, invoca l’educazione dei giovani a fornire loro la giusta patente per entrare nel web. Condanna chi se ne sente fuori perché rischia un apartheid, un danno a sé e alla società, tanto più se è un intellettuale, un maestro, un riferimento culturale. Questa rivoluzione tecnologica inarrestabile per forza coinvolgerà tutti e determinerà una rivoluzione sociale direttamente proporzionale all’acquisizione di molti. Béla Kun dice che le rivoluzioni sociali avvengono quando s’impone una rivoluzione tecnologica, in questo caso dev’essere acquisita da molti, altrimenti diventa strumento di controllo da parte di pochi. L’interesse economico prevarrà sulla cultura e sulla valenza democratica del mezzo. Come psichiatra Francesco affronta anche i pericoli, la tossicità, gli effetti psicopatologici dell’utilizzo di questa tecnologia. La possibilità di costruirsi un falso sé, il rischio di scissione-fusione, e la dipendenza. Ovviamente tutti questi aspetti iatrogeni non dipendono dal mezzo, ma dalla personalità di chi vi accede e anche dall’invasione di modi sempre più “easy”, semplificati, per accedervi “senza patente”.

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Francesco sottolinea nuovamente quanto sia importante conoscere i codici della comunicazione per non essere esposto ai rischi di tossicità. Se al bambino insegniamo solo come accedere ai siti, sicuramente non lo aiutiamo e tuteliamo. Non potrà farne un uso corretto, completo, vedrà un mondo parziale che più gli è facile cogliere. È importante che la scuola insegni i codici e non avvengano usi più semplicistici. La conseguenza e il pericolo sono la manipolazione da parte di chi gestisce la rete. Ai detentori del potere economico fa gioco un popolo di teledipendenti via internet piuttosto che un popolo attivo attraverso internet. Il potere economico ha bisogno dei “superficialoni”! La conclusione della densa intervista è che tre sono i possibili rischi: la patologia; l’uso del potere da parte di pochi; l’abbassamento culturale attraverso la diffusione di un uso di livello limitato. Terza intervista Luigi, cinquantatré anni, è un giornalista, responsabile di una testata del quotidiano forse più diffuso in Italia. Ci accoglie con il suo cellulare in mano da cui non riesce a momenti a togliere lo sguardo perché le email dei colleghi lo raggiungono. Da un elogio dell’oggetto, “sollievo” che permetteva di non dover lasciare in ogni luogo il proprio nome per essere raggiungibile (ricordate l’amico di Woody Allen in “Provaci ancora Sam”, impegnato in ambito economico, in particolare in Borsa? Esilarante esempio della schiavitù telefonica in anteprima), dalla gioia di potersi muovere, fare una passeggiata, andare in bici, passa al vederlo diventare man mano un invasore. Luigi viene raggiunto a sproposito, in maniera maleducata, la gente non si presenta ma impone la sua presenza “Luigi senti, dimmi…” al posto di “scusi la disturbo, sono Pinco è Luigi? È libero?”. Certo è indispensabile, il suo lavoro lo richiede.

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Esiste un’invasione necessaria, utile, quella che anticipa una notizia, permette di progettare il lavoro del lunedì, ma queste invasioni utili hanno creato la dipendenza. Non esce senza telefono e questo gli dispiace. Eppure è utile, indispensabile. Luigi si muove con rispetto verso gli altri, verso i familiari, ne fa un uso affettivo e discreto. Si controlla. Risponde immediatamente agli sms dei figli perché lo sentano affettuoso, loro invece aspettano, registrano l’importanza e rispondono in tempi diversi. Si colpevolizza perché l’occhio corre sui messaggi anche durante l’intervista. Eppure sta lavorando. Non segue un suo piacere. Nel corso dell’intervista spiega come ha sempre voluto controllare i suoi bisogni ed impulsi, gustando la sua capacità di saper attendere la soddisfazione di un bisogno, questo è in contrasto con il modo prepotente dell’invasione ed è anche un’offesa alla sua attenzione. Insomma il fastidio di averne bisogno, lui che controlla i suoi bisogni è messo in corner da quell’oggetto. Come una volta, la telefonata ha per Luigi una sua importanza, una telefonata persa è associata ad una cosa negativa. La sua età lo rimanda a quando il suono del telefono fisso poneva il quesito: cos’è successo? Qualcosa di grave? Il cellulare ha rotto questa connessione per i giovani, non per lui. L’oggetto è ansiogeno, permette di raggiungere i familiari ma anche di rimanere sospesi per una non risposta. Il cellulare impone un’accelerazione del pensiero, si dice abituato per mestiere, ma aggiunge anche che le comunicazioni degli stolti che non sanno filtrare le notizie importanti fanno cortocircuitare il cervello. Il telefono è una trasmissione di una comunicazione spesso non elaborata. Il tablet rappresenta per il giornalista di nuovo un oggetto affascinante e fastidioso “sul tablet faccio tutto, leggo, gioco, guardo mail, TV, riesco a fare tutto e non mi doso più… mentre leggo un libro vado a vedere cosa succede nel mondo, guardo questo, quell’altro, un minestrone senza sapere, senza sapore, lapsus!”.

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L’analogia con lo zapping televisivo lo porta a considerare la funzione del giornale: internet dà l’informazione autonomamente, il giornale è fatto da chi sceglie per te la notizia. Il taglio della notizia. E anche il passato gli viene come stimolo, non si piega al computer per l’impaginazione, forza il computer, forza l’impaginazione perché ha conosciuto la base, il lavoro dei tipografi. Questo manca ai giovani. Il tablet oggetto affascinante l’ha costretto ad un ripensamento, alle sei di mattina ha già letto le testate giornalistiche, corre ma per cosa!? Riflette sugli effetti tossici. L’effetto perverso della rete virtuale rende simile il lavoro dell’inviato speciale a quello che copia dieci minuti dopo, il giornalista non pensa a quello che sta facendo, perde la sua funzione di dare un’informazione “buona” che suscita dubbi, che fa riflettere, la sua funzione di intellettuale, internet ha portato all’equivoco che tutto ciò che non è mediato è vero. “Le fotografie non dicono bugie, ma i bugiardi sanno fotografare benissimo” cita. Il linguaggio di internet tanto è più semplice, tanto più non dà, non va in profondità. E vi accedono i più sprovveduti con un autovoyerismo pericoloso (facebook), se apparentemente i mezzi di comunicazione aumentano la comunicazione, l’individuo è sempre più solo in un non dialogo. L’email, nel contesto aziendale, può essere autoritaria, la comunicazione di servizio per email ha un altro impatto rispetto alla discussione. È un diktat. Non posso più dire “guarda il pezzo è sbagliato, siediti e ne parliamo” no, i tempi rapidi e le modalità di risposta imposti dall’uso della posta elettronica mi permette solo di correggerlo e di non spiegare nulla. Risbaglierà. Il dialogo è contratto, diminuito, si esegue senza troppe domande. Insomma, invece di usare la velocità del mezzo per migliorare la qualità, la si usa per aumentare la produzione. Il tempo risparmiato è buttato.

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L’intervista con Luigi, sensibile e gentile, finisce in un’atmosfera un po’ velata dalla malinconia, il rimpianto di tempi più lenti, la necessità di dominare l’oggetto, la paura dell’onnipotenza che l’oggetto può dare e di un’accelerazione mortifera per il pensiero. Conclusioni Parlare, dialogare, esprimere le proprie emozioni, esporsi all’attacco, mostrare la propria rabbia distruttiva o vendicativa, non è mai stata cosa semplice per molti. Poco importa se l’oggetto che mediava questo era il diario segreto, la lettera anonima o la lettera non spedita, lettera e diario non erano oggetti negativi di per sé, lo diventavano se prendevano il posto alla capacità di comunicare la propria sofferenza o i propri sentimenti totalmente. Se diventavano l’unico sfogo. E intrappolavano in una solitudine senza confronto. E preludevano a “vado a prendere le sigarette… torno” o “basta vado a vivere da mia madre” o atti molto più cruenti come la cronaca ci sbatte in faccia ogni giorno. Il confronto può essere facilitato dall’uso della scrittura, degli sms, solo se come premesse, pensiero solitario verso il potersi spiegare meglio all’altro. In un dialogo. Corre Maria il rischio di fermarsi per paura? Scontro o abbandono, sensazione che mai nessuno capirà quello che prova veramente e lei stessa se lo deve imprimere con foto, immagini e scritti per paura di perdersi, o meglio non essere riconosciuta dall’altro. Il cellulare diventa la rassicurazione che l’altro è ancora vivo, e non a caso è la madre o il marito che suscitano l’angoscia di morte. Le figlie no, (nell’intervista dice di darlo alla bimba quando va a sciare perché possa essere d’aiuto alla stessa). Non diversamente il Professore parla chiaramente di un effetto tossico di cui la psicopatologia dovrebbe interessarsi quando l’oggetto diventa fonte di scissione: io sono quello che rappresento nel mio mondo

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virtuale, io sono quello che stravince, o uccide, o conquista, mentre continuo ad essere un altro nel mondo reale, ma non come Batman che sapeva di essere due persone, no, sono scisso, confuso, imprevedibile e posso fondermi con la mia rappresentazione-oggetto nel mondo virtuale fino a devastare il mondo reale con comportamenti che si collegano a questa patologica fusione (penso agli omicidi americani nelle scuole preceduti da ampia documentazione del tipo nel suo sito web). O posso coltivare un’immagine di me diversa, una sorta di falso sé sostenuta dalla rete, dalle comunicazioni in rete, solitudine, assenza di contatto, assenza di risposte emotive, solo quelle che provoco con la mia rappresentazione oggetto falso. E arriviamo alla dipendenza che sembra preoccupare tutti. Il Professore ovviamente la fa riferire alla personalità dell’individuo, cosa indiscutibile, ma la facilitazione alla dipendenza sembra nelle interviste colpire in fondo i più anziani, affascinati da questi mezzi, da questa grande possibilità. Luigi ne è preoccupato, non Maria. Cosa accomuna le interviste? La spiegazione del Professore su quanto il potere economico avrà in mano la possibilità di fare di una rivoluzione tecnologica potenzialmente portatrice di un cambiamento sociale, un ulteriore mezzo invece per non essere uno strumento democratico ma di manipolazione ci riporta alla nostra vecchia TV, che trasmetteva sceneggiati di opere letterarie ad italiani che negli anni ‘50-60 non le conoscevano, trasmissioni come “Non è mai troppo tardi” o “La donna che lavora”, informazioni… vediamo oggi cos’è la TV!! Ma il Professore è anche il portavoce delle enormi possibilità culturali che il mezzo permette e permetterà in modo democratico. Accomuna una forte preoccupazione che questa rivoluzione tecnologica possa portare certo ad un ampiamento della nostra cultura, della nostra capacità di riflettere, pensare, inventare, scambiare opinioni e/o invece accelerarci in un vuoto senza pensiero. Sì i nostri nipoti navigano come noi accendiamo la luce ma verso dove?

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Sta a noi pensarci e, seguendo il consiglio del Professore, comunque tenere in testa una realtà che è nel nostro contesto, che ci appartiene. O forse accompagnare il mondo web, e questa è la nostra riflessione conclusiva, seguirlo passo, passo, senza eludere, scotomizzare, non avere nessuna certezza, conservarci il nostro pensiero, il nostro dramma, il nostro personale specchio degli eventi. Commento Tale lavoro è molto stimolante pur riguardando solo, in via diretta, persone che sono “sorprese” dall’avvento del mezzo tecnologico e da esso “catturate”. Mi consente di pensare che chi, come Maria, ha problemi di controllo e angosce di perdita si confronterà con cellulare ed email modificando le difese dall’angoscia con mezzi che, ambiguamente, per la loro straordinarietà, possono rinforzarla incessantemente. Allora cellulare-umanizzato cui demandiamo la nostra sicurezza. Non sono ovviamente cambiate le forme dell’angoscia, sono presenti altri strumenti per potenziarla e trasformarne la patoplastica. Quello che indubbiamente paghiamo è un ingresso “spregiudicato” nella vita altrui e uno “pseudo-contatto”, virtuale, con la liberazione di emozioni di ogni tipo, protetti da anonimato, assenza del motore empatico o comunque dal contatto con l’esperienza emotiva “reale” dell’altro, cosa che impedisce la creazione del “campo” di cui parlano i Baranger. Ancora, la rapidità di accesso e di risposta inibisce profondamente, spesso, uno “spazio-tempo per creare i pensieri”, la “triangolazione” di cui parla Britton, tra gli altri.

Carmelo Conforto

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Caro Lettore,

lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria. A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad un arricchimento dei temi trattati. La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale.

Note per gli Autori 1. Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di Pandora”.

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7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due: (Racamier et al. 1981, p.184).

8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale.

9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere unicamente gli Autori citati nello scritto. La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello: - Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford. Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va in fondo. Es.: - Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere: - Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19. - Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19. Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore singolo. La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello: - Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977. Oppure, quando l’Autore è lo stesso: - Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952 La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello: - Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168.

10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole, sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda esplicativa.

La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione.

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Centro Terapeutico “Villa del Principe”

Via Peschiera 6 – 16122 Genova (GE) Tel. e Fax 010.8376374 – email: [email protected]

Direttore Sanitario: Dott. Marco Massa Disturbi Alimentari Responsabile di Presidio: Prof. Antonio Maria Ferro Direttore Scientifico: Prof. Giovanni Giusto Direttore di Comunità: Dott. Luca Gavazza Consulente Psichiatra: Dott.ssa Paola Bartolini Coordinatori: Dott.ssa Cristina Foppiani Dott. Lorenzo Maura Il Centro Terapeutico “Villa del Principe” si trova a Genova in pieno centro cittadino, e occupa un’intera palazzina di tre piani con giardino interno. Offre servizi di tipo residenziale e semiresidenziale per il trattamento delle patologie psichiatriche, servizi strutturati all’interno di tre prevalenti aree d’intervento: riabilitazione psicosociale di gravi malattie psichiatriche sul modello della Comunità Terapeutica, trattamento di riabilitazione intensiva per i Disturbi Alimentari e programmi brevi di cura e riabilitazione per pazienti post-acuti, provenienti dai reparti psichiatrici degli ospedali cittadini (funzione svolta come Struttura Extraospedaliera Post-Acuti, nell’ambito del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL 3 Genovese). La struttura è in grado di accogliere fino a 22 ospiti in regime residenziale e 15 in regime di Centro Diurno.

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Il percorso di cura del paziente si sviluppa in varie fasi: invio da parte dei Servizi Territoriali competenti, accoglienza con formulazione di un progetto terapeutico condiviso. L’attuazione del trattamento si avvale di modelli d’intervento diversi, in particolare i pazienti affetti da Disturbo Alimentare hanno spazi autonomi e programmi di trattamento specifici, e si svolge con verifiche periodiche del progetto. Vengono anche effettuati studi di follow-up a medio-lungo termine. Il Centro, nel complesso, si propone di offrire un modello d’intervento finalizzato alla presa in carico integrata, alla cura e alla riabilitazione del paziente con patologia psichiatrica. In quanto struttura intermedia, Villa del Principe si pone come possibile punto di passaggio tra il ricovero ospedaliero e il regime di trattamento ambulatoriale. Il concetto di struttura intermedia fa anche riferimento alla possibilità di fornire uno spazio che potremmo definire “transizionale”, vale a dire un luogo dove saggiare le residue potenzialità della persona e fornirne stimoli “ottimali” per favorire il reinserimento sociale e lavorativo. Possiamo considerare come primo obiettivo quello di creare una “residenza emotiva” all’interno della quale si possa articolare il percorso terapeutico specifico; a tal fine gli operatori sono formati a gestire con consapevolezza elementi relazionali e affettivi, con particolare riguardo all’analisi dei bisogni specifici del paziente. L’équipe si caratterizza per un alto livello di preparazione specifica, con formazione universitaria e specializzazione post-lauream. La formazione prosegue in itinere attraverso la partecipazione a seminari e convegni, la supervisione individuale e di gruppo, l’eventuale analisi personale e altre occasioni di studio e confronto. L’équipe è composta da varie figure professionali: psichiatri, psicologi psicoterapeuti, infermieri professionali, tecnici della riabilitazione psichiatrica e dietiste. L’intervento comunitario proposto dall’équipe si fonda sul presupposto che la terapia si attua nel gruppo e attraverso il gruppo: accanto perciò agli interventi individuali, il Centro Terapeutico utilizza strumenti che hanno a che fare con la residenzialità, la partecipazione alla vita comunitaria, l’appartenenza ad un gruppo.

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Centro Terapeutico “Villa del Principe”