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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE www.equogarantito.org IL VESTITO DELL’AVVENIRE Le trame di una moda solidale e sostenibile

IL VESTITO DELL’AVVENIRE...3.3 Dal “fast fashion” allo “slow fashion” 18 3.4 L’inquinamento da microfibre 19 3.5 “Today’s trends are tomorrow’s trash”, ovvero:

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

www.equogarantito.org

IL VESTITO DELL’AVVENIRE

Le trame di una moda solidale e sostenibile

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

(cc) Creative Commons Attribution - Non Commerciale - Non Opere Derivate 4.0 internazionali

Equo Garantito - Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale - è l’associazione delle organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale .

Da 20 anni rappresenta nel Paese, nella società civile, con i media e le istituzioni, le esperienze e la cultura dei suoi Soci: organizzazioni non profit che promuovono i prodotti e i principi di un’e-conomia di giustizia fondata sulla cooperazione e su relazioni paritarie tra i soggetti della filiera.

Equo Garantito lavora per:• promuovere il Commercio Equo e Solidale attraverso campagne di sensibilizzazione e informazione;• monitorare le organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale attraverso un sistema di garanzia che verifica che le attività delle organizzazioni socie siano conformi alla Carta Italiana dei criteri del Commercio Equo e Solidale e agli standard internazionali fissati da WFTO - organizzazione mondiale del Commercio Equo e Solidale;• realizzare attività di formazione ed educazione al consumo responsabile e sostenibile rivolte ai Soci aderenti, ai cittadini, agli studenti, alle aziende;• favorire ed incoraggiare, in collaborazione con istituzioni locali, nazionali ed internazionali, politiche a favore del Commercio Equo e Solidale e per un consumo e una produzione più eque e sostenibili.

Ad oggi Equo Garantito raggruppa 70 organizzazioni socie distribuite su tutto il territorio italiano, che impiegano 460 lavoratori e sono animate da 3.500 volontari e più di 25mila soci, in oltre 200 Botteghe del Mondo.

Info: www.equogarantito.org

Realizzato con il contributo dell’Unione Europea nell’ambito del progetto “Trade Fair, Live Fair - Raising Awareness and Mobilizing the European Public to Advance Consumption patterns that Nurture the Sustainable Development Goals (SDGs) CSO-LA/2016/151103-1/27”.

I contenuti riportati sono responsabilità solo di Equo Garantito e non riflettono necessariamente la posizione dell’Unione Europea.

Una pubblicazione di Equo Garantito - Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale

Autrici: Chiara Spadaro, Elisa NicoliProgetto grafico: Altra Economia Soc. Coop. - www.altreconomia.itFoto di copertina: tessitrice di Craft Link Vietnam, foto di AltraQualità

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

IndiceINTRODUZIONETessere la trama di filiere sostenibili, etiche e dignitose per i lavoratori 4

1. “WHO MADE OUR CLOTHES?” LA CAMPAGNA FASHION REVOLUTION 6 1.1 “Gli abiti più sostenibili sono quelli già presenti nel nostro guardaroba”. 6 Intervista a Carry Somers, co-fondatrice di Fashion Revolution Scheda. Il “Fashion Transparency Index”. Perché abbiamo bisogno di trasparenza 9 1.2 Fashion Revolution in Italia. Intervista a Marina Spadafora 11

2. ABITI PULITI: I DIRITTI UMANI E DEI LAVORATORI 12 2.1 La trasparenza 12 2.2. Il salario dignitoso 13 2.3 Urgent appeal: i casi Uniqlo e Ali Enterprises 14 Scheda. “Industria tessile: i diritti negati nelle fabbriche dell’India” 16

3. L’IMPATTO AMBIENTALE DELLE FILIERE TESSILI 17 3.1 I tessuti 17 3.2 L’inquinamento da prodotti chimici 17 Scheda. Il cotone: l’impatto della coltivazione delle materie prime 18 3.3 Dal “fast fashion” allo “slow fashion” 18 3.4 L’inquinamento da microfibre 19 3.5 “Today’s trends are tomorrow’s trash”, ovvero: il fine vita del tessile 19 3.6 Possibili soluzioni 19 Le certificazioni del tessile 19 I produttori ecologicamente consapevoli 20

4. FARE MODA IN MODO DIVERSO 22 CON IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE 4.1 I criteri 22 4.2 Perché acquistare in una Bottega del Commercio Equo e Solidale 24 4.3 I protagonisti delle filiere in Italia 25 4.4 La mappa dei produttori 28 Scheda. Progetto Quid 29

CONCLUSIONICome diventare un rivoluzionario della moda. Una piccola guida 30

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Come si possono garantire migliori condizioni di lavoro lungo tutta la filiera tessile, dalla distribuzione dei capi alla coltivazione, ad esempio, del cotone? Quali sono i rapporti di forza all’interno di questa filiera e quali i ruoli e le responsabilità di ciascun attore, dai lavoratori ai consumatori? E qual è il ruolo del Commercio Equo e Solidale nell’industria dell’abbigliamento?Sono le domande da cui è partito Patrick Veillard, Fair Trade policy advisor di Oxfam-Magasins du Monde (oxfam-magasinsdumonde.be), per fare un’analisi dell’impatto del Commercio Equo e Solidale sulla sostenibilità delle filiere tessili, che ha riportato nel report “Fair Trade textile and Decent Work” (2018). All’inizio, Veillard si interroga provocatoriamente sulla “necessità” di disastri tragici come quello avvenuto nel 2013 nella fabbrica del Rana Plaza, in Bangladesh, per poter risvegliare le coscienze e generare risposte capaci di regolamentare meglio il settore tes-sile, tutelando in primis i lavoratori; quindi, l’autore si concentra sulle iniziative volte a ridurre gli impatti negativi del mondo della moda, verso filiere più sostenibili.

In questo scenario, il Commercio Equo e Solidale gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di alternative etiche e sostenibili, attente ai bisogni dei lavoratori e sensibili a una riduzione dell’impatto ambientale. Il Com-mercio Equo e Solidale è infatti “una partnership economica, basata sul dialogo, sulla trasparenza e sul rispetto che cerca maggiore equità nel commercio internazionale. Contribuisce ad uno sviluppo sostenibile offrendo migliori condizioni commerciali e ne assicura i diritti, ai produttori e lavoratori marginalizzati, soprattutto nel Sud del mondo”, come si legge nella Carta internazionale del Commercio Equo e Solidale promossa dalla World Fair Trade Organization (WFTO, wfto.com) e da Fairtrade International (fairtrade.net). “Le organizzazioni del Commercio Equo e Solidale, supportate dai consumatori, sono impegnate attivamente nel sostenere i produttori, sensibilizzare e realizzare campagne per cambiare le regole e le pratiche del commercio internazionale convenzionale”. Ed è così anche per il settore tessile.

Il sistema di garanzia di WFTO - come spiega Patrick Veillard nel report “Fair Trade textile and Decent Work” - è “generico, cioè può essere adattato a qualsiasi tipo di prodotto (artigianato, tessile, cosmetica, ecc.), in quanto si basa sulle pratiche delle organizzazioni e sui principi generali della WFTO”. Si tratta di criteri “molto elaborati”,

Introduzione Tessere la trama di filiere sostenibili, etiche e dignitose per i lavoratori

I sarti si prevedeche lo consiglieranno.

Chiederanno al governoqualche decreto drastico

contro il vestito elasticoche dura in eterno.

Con o senza permesso,io lo invento lo stesso.

Gianni Rodari, Il vestito dell’avvenire

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che “permettono ai membri di migliorare continuamente” e rivolti per lo più ad organizzazioni “di piccole dimen-sioni, storicamente e filosoficamente coinvolte nel Commercio Equo e Solidale (...), il che assicura una forma di legittimità e di garanzia rispetto alla qualità sociale dei prodotti”.Il monitoraggio è fondato su “un mix di valutazioni interne ed esterne: rapporti di autovalutazione, audit esterni, visite e valutazioni da parte di altri membri di WFTO, e un meccanismo di supervisione”, ed è un sistema di garanzia basato sull’etichettatura dei prodotti, “che permette ai venditori e ai partner di comunicare meglio il loro impegno nel Commercio Equo e Solidale”.

Tra i marchi di moda del Commercio Equo e Solidale che Veillard cita nel report e che approfondiremo meglio nelle pagine di questo quaderno, ci sono “People Tree” nel Regno Unito e in Giappone (peopletree.co.uk); Altromercato, con la collezione “On Earth” (altromercato.it), e AltraQualità con “Trame di storie” (altraq.it), in Italia; EZA in Au-stria, con la collezione “Anukoo” (anukoo.com); Oxfam Intermón in Spagna, con “Veraluna” (oxfamintermon.org).La maggior parte delle organizzazioni di produttori di questo settore sono “di dimensioni molto piccole, con alcuni vantaggi in termini di partecipazione e responsabilizzazione dei lavoratori, la garanzia di migliori condizioni di lavoro e l’assenza di subappalti”, sottolinea Patrick Veillard. Ma i bassi volumi prodotti rendono i costi di produ-zione notevolmente superiori alla media del settore, con un forte impatto sui prezzi finali e quindi sulle vendite. “Una conseguenza di ciò è che le organizzazioni dipendono spesso da un numero limitato di acquirenti di nicchia del Commercio Equo e Solidale, la cui redditività finanziaria non è garantita”.Allo stesso modo, infatti, all’altro capo della filiera, i marchi “occidentali” di WFTO sono di solito di dimensioni molto limitate, ma anche molto reattive e innovative, “all’avanguardia nella gestione delle forniture, nei rapporti con i fornitori e nella qualità dei prodotti, in particolare sociale”, scrive Veillard. Tuttavia, il numero di marchi di moda del Commercio Equo e Solidale resta piccolo, “limitando così la possibilità di soddisfare le richieste dei consumatori che desiderano vestirsi in modo diverso”.

Nelle prossime pagine approfondiamo questi temi, facendo un aggiornamento del quaderno pubblicato da Equo Garantito nel 2015: “Tessile, il filo rosso. L’industria della moda tra diritti e business”. In questa nuova pubblicazione, curata alla fine del 2019, abbiamo anche dato ampio spazio a un altro tema ormai imprescindibile quando parliamo di equità e sviluppo sostenibile: l’attenzione all’impatto ambientale delle filiere tessili e la ricerca di alternative che non pesano sul Pianeta. Sono sempre di più, infatti, le produzioni che usano materiali ecologici e fibre naturali, e cresce l’attenzione verso il fine vita di questi materiali e la possibilità di riciclarli, scambiarli, rigenerarli nell’ottica di un’economia circolare, con minori scarti possibili.

Come scriveva nel report del 2015 David Cambioli (AltraQualità), “indossare un abito è una necessità e allo stesso tempo un modo di esprimersi, di comunicare qualcosa relativamente a se stessi e al proprio modo di essere. Un gesto quotidiano dunque, per tutti gli abitanti del pianeta e proprio per questo di estremo interesse per tutti coloro che si occupano di vestirci”. Ma con implicazioni enormi, se è vero che l’industria dell’abbigliamento genera un forte sfruttamento della manodopera ed elevati tassi di inquinamento lungo tutta la catena produttiva. Sta a noi consumatori, insieme alle associazioni di produttori e alle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale, tessere la trama di filiere sostenibili, etiche e dignitose per i lavoratori.

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creazione dei cappelli Panama “Pachacuti” è mappata: dalle piantagioni comunitarie dove cresce la paglia alla casa di ogni tessitore di copricapi, valorizzando le tradizioni, la qualità e la maestria artigianale delle Ande. Nel 2019 “Lyst” ha incluso Carry Somers (nella foto in basso)- insieme a Orsola de Castro, con cui ha fondato Fashion Revolution - tra le otto “icone sostenibili” che stanno rivoluzionando il mondo della moda, promuovendo una transizione etica di questo settore (lyst.com/news/sustainable-ethical-fashion). L’abbiamo intervistata.

Carry Somers, quante persone coinvolge oggi Fashion Revolution?

CS Fashion Revolution è il più grande movimento di attivismo della moda al mondo, con gruppi in azione in oltre 100 Paesi in tutto il globo. Ogni anno, milioni di persone partecipano alle nostre campagne e nell’aprile 2018 ci sono stati 1.800 eventi in 60 Paesi in occasione della “Fashion Revolution Week”, la settimana dedicata alla moda etica, equa e sostenibile.

Il 24 aprile 2013 sarà sempre ricordato come il giorno del drammatico crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh, una fabbrica dedicata alla produzione di abbigliamento a basso costo destinato ai mercati occidentali. Sono stati 1.138 i morti, principalmente giovani donne, e 2.500 i feriti: uno dei più gravi disastri industriali della storia. La “Fashion Revolution” è nata quel giorno, per fondare un movimento globale capace di costruire una visione critica del mondo della moda.

“Vogliamo che i nostri vestiti ci facciano sentire orgogliosi”, scrive Fashion Revolution nel dossier “How to be a Fashion Revolutionary” - curato nel 2018 insieme al British Council e liberamente scaricabile dal sito fashionrevolution.org -, al quale ci siamo ispirate per i contenuti di queste pagine.“Non vogliamo sentirci in colpa per il fatto che i nostri vestiti sono stati fatti da operaie e operai che non sono pagati abba-stanza per poter mandare i loro figli a scuola, o che vivono nel timore di ritorsioni se si uniscono a un sindacato per difendere i loro diritti. Non vogliamo che il cotone delle nostre camicie sia stato coltivato con pesticidi che avvelenano la terra e i contadini”.

Una delle reazioni alla strage del Rana Plaza è stata quindi quel-la di “ripensare completamente il contenuto dei nostri armadi”, a partire da una domanda semplice solo in apparenza: “Chi ha fatto i miei vestiti?”. Ne è nata una campagna internazionale e collettiva, diventata virale con lo slogan #whomademyclothes, che dal 2013 ha raggiunto diversi risultati.

1.1 “GLI ABITI PIÙ SOSTENIBILI SONO QUELLI GIÀ PRESENTI NEL NOSTRO GUARDAROBA”. INTERVISTA A CARRY SOMERS, CO-FONDATRICE DI FASHION REVOLUTION“Pachacuti” (panamas.co.uk), il marchio di moda ideato dalla fashion designer inglese Carry Somers, co-fondatrice di Fashion Revolution, 20 anni fa è stato tra i pionieri della trasparenza lungo tutta la filiera produttiva. Ogni fase del processo di

1. “Who made our clothes?” La campagna Fashion Revolution

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Carry Somers, Co-fondatrice di Fashion Revolution

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rency Index” è stato uno strumento utile per aprire un dialogo con i principali marchi e rivenditori di moda del mondo su ciò che possono fare per essere più trasparenti. Sul piano culturale, invece, Fashion Revolution sta lavorando per cambiare il comportamento dei consumatori. Negli ultimi decenni, abbiamo assistito a un ciclo di crescita accelerata del settore della moda che sta mettendo indebitamente sotto pressione le nostre risorse planetarie e le persone coinvolte in questa filiera, dalla produzione fino allo smaltimento delle eccedenze. In generale, la nostra azione è volta a sensibilizzare e incoraggiare le persone a cercare dei modi diversi di rifornire i propri guardaroba, senza acquistare capi nuovi, ma sperimen-tando ad esempio il riuso e lo scambio di abiti, il noleggio o la personalizzazione di indumenti vintage. Gli abiti più sostenibili, infatti, sono quelli già presenti nel nostro guardaroba. Per farlo capire, organizziamo periodicamente dei corsi online, diffondiamo materiali gratuiti utili a cittadini e formatori, e realizziamo una fanzine. C’è una sensibilità crescente su questi temi, come dimostra il sempre maggior numero di persone che si uniscono a Fashion Revolution.

Quali sono i temi emergenti e le urgenze su cui vi concentrerete nel 2020?

CS Una delle nostre aree di interesse saranno gli impatti ancora “invisibili” dell’industria della moda: ad esempio, la moderna schiavitù e il lavoro forzato, ma anche le microfibre e le sostanze chimiche tossiche presenti nei nostri abiti. A livello personale, sono entusiasta di essere stata selezionata per partecipare a “eXXpedition Round the World” (exxpedition.com), una circum- navigazione del globo di due anni con un equipaggio tutto al femminile, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza degli impatti devastanti sull’ambiente e sulla salute delle plastiche

Quali sono gli obiettivi raggiunti finora da Fashion Revolution?

CS Sosteniamo una maggiore responsabilità sociale e ambien-tale nella filiera della moda, con particolare attenzione alla trasparenza. La quarta edizione del “Fashion Transparency Index” (vedi scheda a p. 9, ndr), pubblicato nell’aprile 2019, analizza 200 tra i più grandi marchi e rivenditori di moda del mondo sulla base della loro trasparenza. Il 2019 è stato il primo anno in cui i marchi hanno ottenuto un punteggio superiore al 60%, a dimostrazione del fatto che stanno adottando misure concrete e tangibili per incidere di più sulle loro politiche, pratiche e sul loro impatto sociale e ambientale. I dati raccolti mostrano un netto miglioramento rispetto al 2017, quando nessun marchio aveva ottenuto più del 50% del punteggio. In termini di tracciabilità, 70 marchi hanno pubblicato quest’anno un elenco dei loro primi produttori, dove i capi sono tagliati, cuciti e confezionati; erano solo il 12,5% nel 2016. È il risultato delle pressioni che abbiamo fatto, insieme ad altre organizza-zioni, sulle aziende e rappresenta un significativo risultato in termini di crescita della trasparenza delle filiere tessili.

Carry, oggi quali sono le campagne in corso a livello internazionale?

CS Abbiamo bisogno di cambiamenti sistemici di vasta portata per affrontare la povertà, la disuguaglianza economica e di genere, il cambiamento climatico e il degrado ambientale. Questo cambiamento deve avvenire su tre livelli: istituzionale, industriale e culturale. Una maggiore regolamentazione istituzionale è sicuramente la chiave per livellare le condizioni e far muovere i ritardata-ri. La due diligence (ovvero la “diligenza dovuta”, un’attività di approfondimento di dati e informazioni sull’oggetto di una trattativa) e le relazioni richieste per legge stanno già iniziando a concretizzarsi in Francia e Svizzera, e sono oggi discusse anche a livello europeo. Il “California Transparency in Supply Chains Act” (disponibile sul sito oag.ca.gov/SB657, ndr) e il “Modern Slavery Act” (2015) del Regno Unito hanno entrambi contribuito a obbligare i marchi nel rendere pubbli-che le informazioni sulle attività delle loro filiere. Sempre nel Regno Unito, recentemente abbiamo collaborato con “Trai-dcraft Exchange” (traidcraftexchange.org) su una petizione per chiedere al Governo di creare un database di aziende tenute a pubblicare moderne dichiarazioni di schiavitù e abbiamo anche contribuito alla recente indagine dell’“Environmental Audit Committee” sulla sostenibilità dell’industria della moda. A livello globale, siamo al secondo anno di sperimentazione di un toolkit a favore del dialogo politico su questi temi, in collaborazione con il British Council, che quest’anno si svolgerà in Kenya e in Ruanda.In secondo luogo, sul piano industriale, il “Fashion Transpa-

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Fanzine 04: Fashion Craft Revolution

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parte del cambiamento nel mondo della moda, ad esempio limitando i nostri consumi, comprando meno e meglio. Ma anche facendo pressione verso le aziende produttrici, affinché riducano il loro impatto ambientale. Sul tema del consumo di massa, dei rifiuti tessili, del riciclo e della moda circolare abbiamo pubblicato nel 2018 la fanzine “Loved Clothes Last”: una vera dichiarazione d’amore verso quei vestiti che durano una vita. La trovate sul nostro sito.

Tutte le fanzine di Fashion Revolution si possono scaricare dalla library online: fashionrevolution.org/fashion-revolution-fanzine-library.

monouso e delle sostanze tossiche negli oceani. I tessuti sono una delle principali fonti di microplastiche: rappresentano oltre un terzo dell’inquinamento microplastico globale. Da febbraio a marzo 2020 navigherò dalle Galapagos all’Isola di Pasqua per circa 2.000 miglia verso il South Pacific Gyre, contribuendo a condurre esperimenti innovativi a bordo per misurare i livelli e i tipi di plastiche nelle acque superficiali, nelle colonne d’acqua e nei sedimenti, al fine di creare un database globale che sarà utilizzato dai ricercatori di tutto il mondo. Contribuirò anche a svelare come siamo entrati in questo pasticcio e come possiamo contribuire a spostare la nostra mentalità verso un futuro più sostenibile ed equilibrato, che incoraggi la transizione verso un sistema rigenerativo.

Che messaggio vorresti dare ai giovani di “Fridays For Future” sulla moda etica?

CS Considerando la necessità di agire con urgenza sul cam-biamento climatico e guardando alle comunicazioni sempre più diffuse dei grandi marchi sui loro impegni per ridurre l’impatto ambientale, dobbiamo sempre chiederci: stanno facendo abbastanza? Per molti aspetti, infatti, i principali marchi di moda hanno svolto un ruolo chiave nell’accelerare il riscaldamento globale e sono responsabili di ripetute violazioni dei diritti umani che persistono nelle catene di fornitura glo-bale. I grandi marchi di moda hanno l’imperativo morale, ma anche la capacità, di attuare un cambiamento su scala globale, e questo li mette in una posizione di potere. Noi dobbiamo accelerare il ritmo di questo loro cambiamento. Nell’esta-te 2019 abbiamo pubblicato le nostre “Climate Emergency Measures”, delle risorse che mettiamo a disposizione per essere

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Plastica recuperata in mare durante una delle traversate della nave di exxpedition.com

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Il “Fashion Transparency Index”. Perché abbiamo bisogno di trasparenza

Per arrivare a una conoscenza profonda delle filiere produttive, del trattamento dei lavoratori del tessile e dell’impatto ambientale delle produzioni, Fashion Revolution pubblica dal 2016 il “Fashion Transparency Index”. L’edizione 2019 (disponibile sul sito fashionrevolution.org/about/transparency) ha esaminato e classificato 200 tra i più grandi marchi e rivenditori di moda e abbigliamento, sulla base delle informazioni che hanno divulgato sui loro fornitori, sulle politiche e pratiche delle filiere e sull’impatto sociale e ambientale dei prodotti.Il “Fashion Transparency Index” utilizza una metodologia di rating per valutare la divulgazione pubblica delle informazioni da parte dei marchi in cinque aree: politiche e impegni, governance, tracciabilità della catena di fornitura, valutazione e risanamento dei fornitori, e nuove “questioni di rilievo” che riguardano la parità di genere, il lavoro dignitoso, l’azione per il clima e il consumo e la produzione responsabili.La metodologia si concentra esclusivamente sulla divulgazione al pubblico delle informazioni sulla catena di approvvigionamento. Pertanto, la ponderazione dei punteggi è intesa a sottolineare i crescenti livelli di divulgazione dettagliata. Quando il punteggio di un singolo indicatore è zero, non significa necessariamente qualcosa di male, ma solo che l’azienda non ha rivelato pubblicamente i propri impegni. Inoltre, l’indice non valuta le performance etiche o di sostenibilità dei marchi, ma la trasparenza, ovvero quante informazioni divulgano sui diritti umani, le politiche, le pratiche e l’impatto ambientale.

Politiche & impegni

1

• Quali sono le politiche ambientali e sociali del marchio?

• Come sta mettendo in pratica le sue politiche?

• Come decide a quali tematiche dare priorità?

• Quali sono i suoi obiettivi futuri per migliorare il suo impatto?

Governance (Gestione)

2

• C’è coscienza a livello del consiglio di amministrazione dell’impatto sociale ed ambientale del marchio?

• È possibile contattare un dipartimento specifico o una singola persona senza difficoltà per porre delle domande?

• Come collega i diritti umani e i problemi ambientali alla performance dei suoi dipendenti e dei suoi fornitori?

Tracciabilità

3

• Il marchio pubblica una lista dei suoi fornitori, dal livello delle materie prime a quello della lavorazione?

• Se sì, quanti dettagli condividono?

Valutazione dei fornitori

4

• Come verifica l’applicazione delle sue politiche sui fornitori?

• Come risolve gli eventuali problemi trovati negli stabilimenti dei fornitori?

• I risultati delle valutazioni vengono divulgati?

• Come possono essere segnalati reclami da parte dei lavoratori?

Questioni di rilievo

5

• Cosa sta facendo il marchio per affrontare le problematiche della parità di genere e dell’empowerment femminile?

• Cosa sta facendo per supportare la libertà di associazione e il pagamento dei living wages (salari dignitosi)?

• Cosa sta facendo per ridurre lo spreco e favorire il riciclo, per contrastare il cambiamento climatico e promuovere una produzione sostenibile?

Inoltre, considerando che le donne rappresentano circa il 75% delle persone che lavorano nell’industria della moda, dalla fabbrica al negozio, stupisce il silenzio generalizzato dei marchi sui loro sforzi per raggiungere la parità di genere. Poco più di un terzo dei marchi sostiene progetti di empowerment femminile; solo tre marchi hanno diffuso dati sulla violenza di genere nelle strutture dei fornitori. Il 63% dei marchi ha pubblicato politiche sulla parità retributiva, ma solo il 33,5% ha diffuso il divario retributivo annuale di genere all’interno dell’azienda.

I MARCHI CHE PUBBLICANO L’ELENCO DEI FORNITORI

2017

2018

2019

Produttori di primo livello

32%

55%

70%

LE CINQUE AREE DI RATING DELLA TRASPARENZA NEL “FASHION TRANSPARENCY INDEX” 2019

Tratto da “Fashion Transparency Index” 2019

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

Il 2019 è il primo anno in cui 5, tra marchi e rivenditori, hanno un punteggio superiore al 60%. Il punteggio medio è 21%. Infatti, mentre alcuni marchi cominciano a rivelare maggiori informazioni sulle loro politiche, sulle loro pratiche e sull’ impatto sociale ed ambientale del loro lavoro, ci sono ancora troppi ritardatari. Da un punto di vista ambientale (tema che approfondiamo meglio nel capitolo 3), l’industria globale dell’abbigliamento e delle calzature rappresenta l’8% delle emissioni mondiali di gas serra, quasi quanto le emissioni totali dell’Europa. Se questa tendenza dovesse continuare, l’impatto climatico della moda aumenterà del 49% entro il 2030.

Il 55% dei 200 marchi del “Fashion Transparency Index 2019” ha pubblicato l’impronta annuale di carbonio nei propri siti aziendali, anche se solo il 19,5% ha divulgato le emissioni di carbonio della propria catena di approvvigionamento, dove si verifica oltre il 50% delle emissioni. Mentre il 43% dei marchi ha pubblicato una strategia o una tabella di marcia per la conversione verso materiali sostenibili, solo il 29% ha divulgato la percentuale dei propri prodotti realizzati con tali materiali. Inoltre, solo il 26,5% dei marchi ha spiegato quello che sta facendo per ridurre l’eccedenza di produzione e i rifiuti tessili; il 23,5% offre ai propri clienti sistemi di riciclaggio in negozio o online, e solo il 26% spiega come stanno investendo in forme di economia circolare per ridurre gli scarti. È da notare che il 54% ha diffuso i propri obiettivi per ridurre l’impronta ambientale, ma solo il 40% ne ha diffusi sui diritti umani.

10

PRATICHE DI ACQUISTO DELL’AZIENDA

3% 6,5%

Rivela un metodo perisolare il costo del lavoronelle trattative sui prezzicon i fornitori

Pubblica la propria politica di pagamento dei fornitori entro 60 giorni

QUANTO SONO TRASPARENTI I 200 PIÙ GRANDIFASHION BRANDS MONDIALI?

Rispetto alle pratiche d’acquisto, solo 6 dei 200 marchi indica un metodo per isolare e calcolare il costo del lavoro nel processo di negoziazione dei prezzi con i fornitori. 13 marchi (il 6,5%) indicano una politica di pagamento dei fornitori entro un massimo di 60 giorni. Solo quattro hanno pubblicato la percentuale dei pagamenti dei fornitori effettuati puntualmente, secondo quanto concordato. “Dato che i grandi marchi si aspettano fiducia e trasparenza dai fornitori, anche loro dovrebbero condividere pubblicamente maggiori informazioni sui propri impegni per essere dei partner commerciali responsabili”, sottolinea Fashion Revolution.

0 1-10 11-20 21-30 31-40 41-50 51-60 61-70 71-80 81-90 91-100

Punteggio finale (%)

TRASPARENZA

10 brands(5%) punteggio

0% nel 2019

Punteggio medioè 53 su

250 (21%).

Non un solo brandsupera il 70%

Num

ero

di b

rand

s

20

40

60Solo 5

brands hanno un punteggio

più alto di oltre il 60%

Tratto da “Fashion Transparency Index” 2019

Tratto da “Fashion Transparency Index” 2019

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

1.2 FASHION REVOLUTION IN ITALIA. INTERVISTA A MARINA SPADAFORA “Scegliere cosa acquistiamo ci aiuta a creare il mondo che vogliamo: ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e ogni momento è buono per iniziare a farlo”. La stilista Marina Spadafora, coordinatrice in Italia della campagna Fashion Revolution, è convinta che il cam-biamento possa partire dalla nostra sensibilità verso il Pianeta.

Marina Spadafora, cosa significa per lei “Fashion Revolution”?

MS Significa prendere coscienza di ciò che significa acqui-stare un capo d’abbigliamento, per costruire un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente.

Per fare questo, lei punta sulla prospettiva dell’e-conomia circolare.

MS Esatto. Da un lato è necessario arrivare a una riduzione della produzione; dall’altro, dobbiamo riuscire a rivaloriz-zare in modi nuovi gli scarti che comunque restano, attra-verso forme di economia circolare. Esistono, infatti, due tipi di circolarità: la prima è quella dei materiali naturali. Se utilizziamo le fibre naturali nella produzione dei capi - per esempio cotone, lino, canapa, eucalipto, bamboo... e molte altre -, alla fine del loro ciclo di vita avremo molti meno problemi nello smaltimento, perché questi tessuti sono naturalmente dei nutrienti per la Terra. Ma, ad esempio, il cotone biologico è solo l’1% della produzione mondiale di cotone. Abbiamo molta strada da fare.

E qual è l’altro tipo di circolarità a cui fa riferi-mento?

MS Quella che prevede, alla fine dell’uso di un capo, la possibilità di dividerne le diverse componenti e fibre, e riciclarlo correttamente per generare da questi materiali di scarto un nuovo prodotto. Si tratta di una sensibilità e un’attenzione che dobbiamo diffondere tra gli stilisti e i produttori, ma anche tra i consumatori, mettendo al centro i giovani per costruire un futuro migliore anche nel campo della moda.

Marina Spadafora è stata insignita nel 2015 - quando era direttrice creativa di “Auteurs du Monde”, la linea di moda etica di Altromercato - del prestigioso “Women Together Award” (womentogether.org), proprio per il suo impegno per una moda sostenibile ed etica.

Marina Spadafora durante la premiazione

del Woman Togheter Award

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

La campagna #GoTransparent ha prodotto nel 2017 il report “Follow the thread” - in italiano: “Segui il filo. L’esigenza di trasparenza della catena di fornitura nell’industria dell’ab-bigliamento e delle calzature” (disponibile in inglese sul sito cleanclothes.org) -, con cui la CCC, insieme a 8 Ong e alle fe-derazioni sindacali, sottolinea l’importanza della trasparenza della catena di approvvigionamento e riassume le risposte di oltre 70 aziende.Per sostenere una maggiore trasparenza delle ditte produt-trici, la Clean Clothes Campaign sta predisponendo un nuovo strumento che sarà pronto nel 2020: il “Transparency Tool”.

La Campagna Abiti Puliti (abitipuliti.org) è la sezione italiana della “Clean Clothes Campaign” (CCC, cleanclothes.org), una rete di più 250 partner in 17 paesi europei che collabora anche con le organizzazioni di diritti del lavoro in Canada, Stati Uniti e Australia per arrivare a un miglioramento delle condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda globale. La trasparenza e il salario dignitoso sono oggi i due filoni principali di intervento di Abiti Puliti, come racconta Francesco Verdolino della Campagna italiana. “Due ambiti che spesso si intersecano, ma che possiamo affrontare anche singolarmente”, spiega.

2.1 LA TRASPARENZASe leggiamo l’etichetta di una maglietta, possiamo trovare scritto - ad esempio - “Made in China”. “Ma in quale delle migliaia di fabbriche del Paese è stata realizzata? Quali erano le condizioni di la-voro dei lavoratori, soprattutto donne, in queste fabbriche?” Sono queste le domande alle quali la Clean Clothes Campaign vuole rispondere quando parla di trasparenza.“L’impegno per una maggiore trasparenza nella propria catena di fornitura rende possibile all’a-zienda di collaborare con le società civile nell’i-dentificare, valutare ed evitare potenziali o reali impatti negativi per i diritti umani”, spiega Fran-cesco Verdolino.In inglese si chiama transparency pledge: la Clean Clothes Campaign chiede alle aziende di pubbli-care a scadenze regolari sul proprio sito una lista di tutti i siti produttivi dove vengono realizzati i capi, seguendo queste voci:

• nome completo di tutte le unità di produzione e degli impianti di trasformazione autorizzati;• indirizzi dei siti produttivi;• società madre dell’azienda in quel sito;• tipologie di prodotti realizzati;• numero di lavoratori per ogni sito produttivo.

2. Abiti Puliti: i diritti umani e dei lavoratori

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1. Le imprese di sgranatura ricevono il cotone da molti coltivatori e lo ven-dono al mercato globale attraverso i trader.

2. I filatori usano cotone di diverse origini per produrre il filato; gli sta-bilimenti tessili producono la stoffa

Coltivazione, sgranatura, commercio

Filatura, tessitura, tintura

IL MARCHIO ORDINA I SUOI CAPI

Taglio, cucitura, rifinitura Ricamo, stampa, lavaggio

Immagazzinamento, spedizione

4. La fabbrica CMT spedisce i capi all’in-grosso al marchio che ha commissionato l’ordine.

5. Il marchio rivende i capi globalmente, in negozi al dettaglio e online.

Vendita

3a. La fabbrica CMT (dall’inglese cut-make-trim, “taglia-fai-rifinisci”) realizza i capi.3b. La fabbrica CMT che non ha le capacità interne per processi più piccoli, li subappalta ad un’altra struttura, che poi rispedisce i capi alla fabbrica CMT.

LA CATENA DI APPROVVIGIONAMENTO DELL’INDUSTRIA DELL’ABBIGLIAMENTO GLOBALE

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l’istruzione; e infine, mettere da parte una piccola somma per le spese impreviste. Come spiega Francesco Verdolino, “c’è una corrispondenza con il tema della trasparenza: il salario equo, infatti, è uno degli aspetti della trasparenza. In questo senso, uno dei nostri obiettivi è garantire il salario dignitoso ai lavoratori delle fabbriche dove i marchi si riforniscono”. Nel report “Salari su misura 2019. Lo stato delle retribuzioni nell’industria globale dell’abbigliamento” (consultabile in italia-no e inglese dal sito abitipuliti.org), la Clean Clothes Campaign ha dimostrato come i principali marchi dell’abbigliamento non riescano ancora a mantenere l’impegno del salario vivibile (in inglese, living wage). Secondo lo studio, la povertà nell’industria dell’abbigliamento sta peggiorando. “Nessun grande mar-chio di abbigliamento intervistato è stato in grado di dimostrare, al di fuori della propria sede centrale, che i lavoratori della sua catena di fornitura siano effettivamente pagati abbastanza per vivere con dignità e sostenere una famiglia”, si legge. “I marchi di abbigliamento e i distributori stanno quindi violando le norme sui diritti umani riconosciute a livello internazionale e i propri codici di condotta”.Lo studio analizza le risposte di 20 grandi marchi della moda sui loro progressi nell’implementazione di un salario vivibile

“È una piattaforma online in cui per ciascun marchio saranno pubblicate delle informazioni legate alla trasparenza, dalla filiera alle buste paga, su scala internazionale e multilingue - spiega Francesco Verdolino -. Per raccogliere questi dati stiamo incrociando le informazioni da database già esistenti, facendo delle interviste direttamente ai lavoratori e distribuendo un questionario alle aziende”. Si tratta di una mole importante di dati, che sarà anche sintetizzata in un report su scala interna-zionale dedicato alla trasparenza, oltre che in singole schede sui marchi di moda: materiali che saranno disponibili online per attivisti, formatori, consumatori e istituzioni che vogliano approfondire il tema, sensibilizzare i cittadini e promuovere politiche eque.

2.2. IL SALARIO DIGNITOSOIl salario dignitoso per la Clean Clothes Campaign è un con-cetto familiare. Perciò è quel salario netto minimo che spetta a tutti i lavoratori senza bonus, benefit e straordinari e che permette al lavoratore/trice e alla sua famiglia di vivere con dignità e soddisfare i bisogni fondamentali, come provvedere ai pasti, pagare l’affitto, le spese mediche, i vestiti, i trasporti e

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SINTESI IN NUMERI DEL RAPPORTO “SALARI SU MISURA 2019. LO STATO DELLE RETRIBUZIONI NELL’INDUSTRIA GLOBALE DELL’ABBIGLIAMENTO”

20 impresevalutate

7 marchi calcolano se i prezzi pagati ai fornitori sonosufficienti a pagare ai lavoratoriun salario vivibile

E Quasi tutti i marchi hanno conseguito un grado E, non mostrando alcuna evidenza significativa e documentata che un salario vivibile sia corrisposto ai lavoratori0 marchi con un chiaro piano

temporale per definire lemodalità con cui corrispondereun salario vivibile nella lorocatena di fornitura

5 marchi utilizzanoindicatori specificiper misurare se stanno pagandoun salario vivibile

Il sostegno attivo per la libertà di associazione sindacale resta

un tema di scarsa attenzionecon performance molto basse

da parte dei marchi

85% dei marchihanno

assunto unimpegno verso

un salario vivibile

20% dei marchi valutatihanno fornito alcuni dati circa i salari pagati ai dipendenti dei loro fornitori

75% dei marchihanno resopubblica parteo tutta la listadei loro fornitori

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“Le migliaia di lavoratrici e lavoratori della Jaba Garmindo non sapevano nemmeno ci fossero dei problemi. Hanno scoperto della bancarotta e della chiusura soltanto attraverso le inchieste della stampa”, sottolinea la Campagna Abiti Puliti.Nel settembre 2019, dopo che per anni Uniqlo si è rifiutata di prendere parte seriamente a qualsiasi processo di mediazione, la Clean Clothes Campaign, insieme ai lavoratori indonesiani della fabbrica Jaba Garmindo, ha presentato una denuncia alla Fair Labor Association (FLA, fairlabor.org), come spiega Francesco Verdolino. L’atto è stato indirizzato a Fast Retailing - società madre del marchio Uniqlo - e al marchio tedesco s. Oliver, ovvero agli acquirenti più significativi negli anni prece-denti alla chiusura: oltre il 50% del volume di produzione della fabbrica nel 2014 era su loro commissione. Ora ci aspettiamo che FLA intervenga, in coerenza con quanto previsto dal suo codice di condotta e si adoperi concretamente per garantire un pieno risarcimento per i lavoratori della Jaba Garmindo.Dal 2016 la campagna #PayUpUniqlo ha ricevuto un significativo sostegno pubblico globale, portando all’avvio di un processo di mediazione tra Uniqlo e i lavoratori della Jaba Garmindo”. Tuttavia, Uniqlo ha poi rifiutato di impegnarsi in maniera significativa. “Risulta oltremodo stridente osservare che, mentre Uniqlo ignora le richieste di migliaia di lavoratrici che l’hanno reso uno dei brand più redditizi al mondo, il marchio acquisisce credibilità attraverso le recenti partnership con l’Organizzazione Interna-zionale del Lavoro e UN Women”, sottolinea la Campagna. Uniqlo ha infatti recentemente annunciato una collaborazione con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel più gran-

per i lavoratori che producono i loro vestiti. “Dalla ricerca è emerso che l’85% dei marchi si è impegnato in qualche modo a garantire che i salari siano sufficienti a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori, ma, al contempo, che nessuno di loro ha messo in pratica questo principio per nessun lavoratore nei Paesi in cui viene prodotta la stragrande maggioranza dei capi di abbigliamento”.Dei 20 marchi intervistati, 19 hanno ricevuto il voto più bas-so possibile, mostrando di non essere in grado di produrre alcuna prova che a un lavoratore che confeziona i loro capi di abbigliamento sia stato pagato un salario vivibile in qualsiasi parte del mondo. L’unica eccezione è stata Gucci che è riuscitaa dimostrare come, per una piccola parte della sua produzionein Italia, grazie alle trattative salariali nazionali, le paghe con-sentano a una famiglia di vivere con dignità in alcune zone del Sud e del Centro Italia. “I lavoratori che producono quasi tutti gli abiti che compriamo vivono in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al loro lavoro. È tempo che i marchi adottino misure efficaci di contrasto al sistema di sfruttamento che hanno creato e da cui traggono profitto”, ha aggiunto Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti. “Se i marchi fossero davvero impegnati a pagare un salario dignitoso, dovrebbero passare dalle parole ai fatti, scegliendo un parametro di riferimento credibile, informando i fornitori e aumentando i prezzi di acquisto in coerenza. Dovrebbero iniziare subito con i 50 maggiori fornitori e rendere pubblici i libri paga, a dimostrazione che ciò stia realmente accadendo. È una questione affrontabile, basta mettere mano alla redi-stribuzione della catena del valore e pagare di più i lavoratori”.

2.3 URGENT APPEAL: I CASI UNIQLO E ALI ENTERPRISES Un altro ambito di intervento di Abiti Puliti sono i “casi ur-genti” - in inglese, Urgent Appeal -, una metodologia messa a punto dalla Clean Clothes Campaign per sostenere i lavoratori dell’abbigliamento in casi specifici in cui i loro diritti sono stati violati. “Un appello urgente della CCC contiene una richiesta da parte dei lavoratori o delle loro organizzazioni per avere un sostegno pubblico a una situazione in cui i loro diritti non sono rispettati”, spiega la Campagna.Tra i casi urgenti che la campagna italiana sta seguendo c’è quello della fabbrica indonesiana Jaba Garmindo, uno dei fornitori di Uniqlo, terzo distributore di moda nel mondo. Una vicenda che ha origine nell’aprile 2015 con l’improvvisa chiusura di due stabilimenti indonesiani a Cikupa e Majalengka, senza pagare agli operai, all’80% donne, le indennità di licenziamento obbligatorie per legge, né diversi mesi di salario. Le chiusure sono avvenute dopo la bancarotta causata dal ritiro delle com-messe da parte dei principali acquirenti, in particolare Uniqlo.

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Nella foto, Warmi e Yaya protestano davanti a un negozio Uniqlo a Copenaghen. Warmi e Yaya hanno realizzato i vestiti di Uniqlo per anni e quando nel 2015 la ditta smise le ordinazioni, persero il loro lavoro. A 2.000 dei loro colleghi, la maggior parte donne, sono dovuti per legge 5,5 milioni di dollari

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dopo sette anni da quel disastro le fabbriche tessili del Paese restino insicure. Le iniziative avviate negli ultimi anni non sono riuscite a porre i lavoratori, né i sindacati che li rappresentano, al centro dei programmi di sicurezza. “La totale mancanza di un adeguato sistema di monitoraggio della sicurezza nell’indu-stria dell’abbigliamento in Pakistan è costata centinaia di vite umane negli ultimi anni. Così come l’assenza delle misure che potrebbero essere messe immediatamente in atto: ad esempio, assicurare che gli operai non restino mai bloccati all’interno degli edifici, o rimuovere i prodotti accumulati davanti alle uscite di emergenza”, ha dichiarato Khalid Mahmood, diret-tore del Labour Education Foundation in Pakistan. Il report evidenzia come tutte le iniziative avviate dal 2012 in Pakistan volte a migliorare la sicurezza sul lavoro siano in realtà carat-terizzate da scarsa trasparenza, e nessuna è stata sviluppata coinvolgendo i sindacati e le altre organizzazioni per i diritti dei lavoratori. L’esortazione della Clean Clothes Campaign è invece quella di considerare le richieste del movimento sindacale pakistano verso un accordo giuridicamente vincolante tra i brand dell’abbigliamento, i sindacati e i gruppi, locali e globali impegnati per i diritti dei lavoratori, sul modello dell’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici del Bangladesh.“Abbiamo visto in Bangladesh, dove sono emerse contem-poraneamente due iniziative in materia di sicurezza, che il coinvolgimento dei lavoratori, la trasparenza e la natura vin-colante sono essenziali per creare un programma di sicurezza di successo”, ha detto Deborah Lucchetti.Infine, il rapporto chiede ai Governi dei Paesi che ospitano le sedi dei principali marchi di abbigliamento e dei distributori di introdurre una legislazione obbligatoria di due diligence in materia di diritti umani, garantendo che i brand si assumano le loro responsabilità lungo tutta la catena di fornitura.

de progetto mai finanziato dal settore privato: 1,8 milioni di dollari per promuovere la protezione sociale, lo sviluppo delle competenze e il sostegno all’occupazione in Indonesia. Un altro caso di Urgent Appeal è legato dell’incendio alla fab-brica tessile Ali Enterprises (nella foto in basso), che nel 2012 in Pakistan uccise oltre 250 lavoratori e lavoratrici. Con il nuovo rapporto “I lavoratori tessili del Pakistan hanno bisogno di un accordo sulla sicurezza” (in inglese anche sul sito abitipuliti.org), nel settembre 2019 la Clean Clothes Campaign con l’Inter-national Labor Rights Forum, la Labour Education Foundation, la National Trade Union Federation e il Pakistan Institute of Labour Education and Research, ha denunciato come ancora

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Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti in un'azione di solidarietà ai lavoratori della PT Jaba Garmindo in occasione dell'apertura dello store Uniqlo a Milano

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“Industria tessile: i diritti negati nelle fabbriche dell’India”, di Maria Tavernini. Tratto da altreconomia.it, luglio 2019

Dal 2014 a metà 2019, 106 giovani ragazze si sono suicidate per lo stress e i ritmi disumani cui sono costrette a lavorare nelle fabbriche tessili indiane, quelle che producono il filo per cucire vestiti o magliette della moda a basso costo. È quanto emerge da una recente ricerca pubblicata da Fair Wear, una multistakeholder initiative che lavora con marchi di vestiario, fabbriche, sindacati, Ong e governi per migliorare le condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento. Tra i membri di Fair Wear ci sono 130 brand medio piccoli europei che producono in 160 fabbriche sparse nel subcontinente e sostengono un

modello diverso di produrre vestiti, che non passi necessariamente per lo sfruttamento dei lavoratori nelle fabbriche di India, Cina o Bangladesh. La ricerca evidenzia gli abusi esistenti o potenziali nell’industria del vestiario in India, analizzando le condizioni di lavoro nei tre maggiori hub di produzione: Delhi NCR al nord, e Bangalore e Tirupur al Sud. È l’unica pubblicazione fino a ora a dare un quadro completo sulle condizioni lavorative in tutta la filiera indiana, un settore che impiega 45 milioni di persone. I dati raccolti restituiscono l’immagine di fabbriche in cui i diritti lavorativi sono sistematicamente calpestati: giovani donne, lavoratori migranti e basse caste lavorano in condizioni disumane, per raggiungere target impossibili, senza diritti né garanzie sociali.Gli abusi sul lavoro nelle fabbriche indiane sono stati individuati tramite desk research, ricerca sul campo con il coinvolgimento di 20 interlocutori, associazioni di categoria, sindacati, Ong e autorità pubbliche, oltre agli audit fatti da Fair Wear e ai reclami ricevuti dai lavoratori tramite l’hot line ad hoc. La pubblicazione si rivolge ai brand per portarli a conoscenza degli impatti che hanno sui diritti lavorativi e per farli agire secondo i principi delle Nazioni Unite su diritti umani e aziende (UNGPs), che dovrebbero rappresentare il punto di riferimento in materia. È emerso che alcuni abusi attraversano tutta la filiera, da Nord a Sud, come le condizioni di sicurezza sul lavoro o la mancanza di sindacati, e quindi di accordi collettivi. Un altro fattore costante rilevato nella filiera è il forced overtime, lo straordinario non retribuito, uno degli indicatori di lavoro forzato dell’International Labour Organization (ILO). Sotto altri aspetti dai tre hub presi in analisi emergono importanti differenze strutturali e geografiche.“È interessante evidenziare come si sta muovendo l’industria: le esportazioni stanno perdendo mentre il mercato interno è in costante crescita dal 2008”, spiega ad Altreconomia Emanuela Ranieri, consultant in materia di diritti umani e aziende, cui Fair Wear ha commissionato la ricerca in India, “Il mercato esterno è calato del 6 per cento anche per la Brexit, i lavoratori a contratto, più vulnerabili perché meno protetti legalmente, sono aumentati così come i lavoratori migranti. Sta inoltre avvenendo una delocalizzazione delle fabbriche per abbassare i costi di affitto e manodopera. La gara al ribasso si è sempre giocata, anche in altri settori, ma adesso diventa una gara che va oltre la regione: se prima alzavi di 30 centesimi il costo della maglietta, un colosso del settore andava a produrre in Banglasdesh, adesso se ne va in Etiopia”. “È importante far capire al consumatore come viene prodotta la sua maglietta affinché possa costare 9,99 euro, l’obiettivo non è un boicottaggio di massa, ma è far cambiare politica alle imprese”, continua Ranieri. “Chi promuove l’equità dei diritti sta combattendo contro un modello globale di business”. Oggi la Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), intesa come la volontà delle imprese di gestire l’impatto sociale ed etico nei Paesi di produzione, si traduce spesso in azioni di mero compiacimento di consumatori e stakeholders, con un grosso ritorno d’immagine per l’azienda. Chi vuole davvero avere un impatto, oggi, adotta la Human Rights Due Diligence, che l’ONU ha definito come “un processo di gestione del rischio costante al fine di identificare, prevenire, mitigare e spiegare come un’azienda affronta gli impatti negativi che ha sui diritti umani”, riassumibile in “know your impact”. Il cambiamento, per avvenire, deve partire dall’alto e dal basso, e passa necessariamente per la diffusione di conoscenza e informazioni.

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Una lavoratrice in una fabbrica indiana

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3. L’impatto ambientale delle filiere tessili

L’inquinamento ambientale del settore tessile ha nume-rose sfaccettature: dalla materia prima al fine vita, infatti, l’impatto di un abito può essere molto pesante. In queste pagine approfondiamo il tema con l’aiuto di fonti come i report di Greenpeace (“Fashion At The Cross Roads”, 2017; “Toxic Threads: Polluting Paradise”, 2013; e “Timeout for fast fashion”, greenpeace.org), curato da Pesticide Action Network UK (pan-uk.org), Solidaridad e WWF; il libro di Altreconomia edizioni, “Plastica addio”, di Elisa Nicoli e Chiara Spadaro (2019, altreconomia.it).

3.1 I TESSUTIIniziamo chiarendo i diversi tipi di tessuti che si trovano in commercio. Nella maggior parte dei casi i filati non sono puri, ma sono un misto di fibre naturali e sintetiche. Il nylon/poliammide, l’acrilico, il poliestere e l’elastane/spandex/Lycra® sono fibre sintetiche; ci sono poi fibre semi-sintetiche da materia prima rinnovabile (cellulosa vegetale), come il rayon viscosa/modal, l’acetato, il TENCEL™/lyocell. Le fibre naturali in cellulosa (vegetali) sono, ad esempio, cotone (vedi scheda a pagina 18), lino, canapa, iuta, ramia, ortica, sisal e kenaf; quelle naturali di origine animale sono invece alpaca, angora, cashmere, mohair, seta, lana e la pelle.

3.2 L’INQUINAMENTO DA PRODOTTI CHIMICISono diverse le sostanze tossiche che possono essere con-tenute nei tessuti, con un impatto enorme sulla salute dei lavoratori, ma anche sulla pelle di chi li indossa. Il contatto prolungato con un tessuto contenente sostanze tossiche può infatti causarne l’assorbimento attraverso i pori della pelle. Da un punto di vista ambientale, le sostanze inqui-nanti sono rilasciate direttamente nelle acqua dove manca il trattamento dei reflui, con gravi danni sugli organismi acquatici, sul suolo e le acque potabili. Tra queste sostanze, i perfluorocarburi (PFC) sono utilizzati per realizzare dei tessuti resistenti alle macchie, idrorepellenti e ignifughi.

di Elisa Nicoli

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Con la campagna “Detox” (detox-outdoor.org), Greenpeace chiede da anni alle aziende produttrici di materiale tecnico per l’uso sportivo di eliminare i PFC, che sono persistenti e durevoli nell’ambiente, e potenzialmente dannosi per il sistema riproduttivo e ormonale. Altre di queste sostanze - come gli ftalati - sono degli interferenti endocrini e vengono utilizzate nelle stampe al “plastisol”, inchiostro tessile per la serigrafia. L’antimonio è invece un metalloide tossico utilizzato nella produzione del poliestere. Molte sostanze tossiche sono impiegate nel processo di tintura, uno degli elementi più impattanti della lavorazione dei tessuti. La Commissione europea ha modificato le restrizioni esistenti sul nonilfenolo etossilato (NPE) ai sensi della legislazione REACH (“Registration, Evaluation, Authorisation and Restri-ction of Chemicals”), limitando dal 3 febbraio 2021 i residui di NPE sugli articoli tessili allo 0,01% in peso. Il nonilfenolo etossilato può decomporsi nel nonilfenolo (NP), quando viene rilasciato nelle acque: è un potente interferente en-docrino, che permane nell’ambiente. Il cadmio è un’altra sostanza estremamente tossica anche in basse quantità, che permane nell’ambiente. Il fosfato di tri-butile (TBP) è tossico per la vita acquatica e moderatamente persistente. Le ammine sono cancerogene e possono essere presenti nei tessuti, a causa dell’uso di alcuni coloranti azoici.

Sisal steso ad asciugare dopo la tintura presso Tintsaba, Swaziland

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3.3 DAL “FAST FASHION” ALLO “SLOW FASHION”La moda veloce ed economica, la cosiddetta “fast fashion”, ha cambiato il modo in cui ci vestiamo, ma anche il modo in cui pensiamo ai vestiti e cosa ne facciamo. Ne compriamo di più e li indossiamo meno: mentre i nostri armadi sono pieni di vestiti usati raramente, trattiamo gli abiti come articoli usa e getta. Dal 2000 al 2014 la produzione di abbigliamento è raddoppiata e nel 2014 siamo arrivati a una produzione annua di 100 miliardi di capi di abbigliamento. Rispetto a 15 anni fa, una persona media acquista il 60% di vestiti in più e li conserva per la metà del tempo. Dal 2002 al 2015 le vendite del settore sono quasi raddoppiate, passando da 1 trilione a 1,8 trilioni di dollari nel 2015: la prospettiva è quella di arrivare a 2,1 trilioni entro il 2025.

Abbigliamento in fibre naturali e materiali sostenibili nelle Botteghe del Commercio Equo e SolidalePa

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Il cotone: l’impatto della coltivazione delle materie prime

Il cotone rappresenta circa il 30% di tutte le fibre utilizzate nel settore tessile ed è ampiamente utilizzato in oggetti d’uso quotidiano come la biancheria, gli asciugamani e gli strofinacci, ma anche per l’abbigliamento. A livello globale, circa 30 milioni di ettari di terra sono coltivati a cotone; rappresentano oltre il 2% del totale dei seminativi e producono circa 25 milioni di tonnellate metriche di cotone l’anno. Il cotone è coltivato in circa 80 Paesi, da più di 100 milioni di famiglie, rappresentando spesso la loro principale fonte di reddito. L’impatto sociale, ambientale ed economico della coltivazione del cotone convenzionale è enorme. Se consideriamo i problemi ambientali, il cotone ha rappresentato nel 2009 il 6,2% del totale delle vendite mondiali di pesticidi e il 14,1% delle vendite di insetticidi per tutte le colture. Il massiccio uso di pesticidi causa problemi agli ecosistemi, riducendo la fertilità dei terreni e aumentando l’acidificazione del terreno. Come tutte le monocolture, il disboscamento causa erosione del suolo e perdita di biodiversità. La coltivazione del cotone richiede inoltre un ampio uso dell’irrigazione: l’impronta idrica media globale del cotone da seme è di 3.644 metri cubi per tonnellata, l’equivalente di quasi 1,5 piscine olimpioniche. Infine, larga parte delle aziende, sia piccole che grandi, utilizza sementi geneticamente modificate. Le problematiche sociali del cotone riguardano le condizioni dei lavoratori che operano in un ambiente malsano a causa del largo impiego di pesticidi, con gravi conseguenze sulla salute. Nel 2016, il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ha segnalato l’esistenza di lavoro minorile o forzato in 18 Paesi, di cui otto (India, Cina, Pakistan, Brasile, Uzbekistan, Turchia, Turkmenistan e Burkina Faso) responsabili di oltre l’80% della coltivazione globale annuale di cotone. E dal punto di vista economico, oltre a dipendere dalle oscillazioni del mercato, molti agricoltori sono indebitati a causa dell’impiego dei costosi pesticidi e fertilizzanti. Nel 2015/2017 la produzione di cotone “sostenibile” ha raggiunto il 12% dell’offerta globale, ma solo un quinto è scelto dalle aziende per questa caratteristica; il resto non ha mercato ed è venduto come convenzionale. Non esiste inoltre una definizione univoca del concetto “sostenibilità” nella coltivazione del cotone: questo termine include una molteplicità di standard internazionali che si concentrano spesso solo sugli aspetti sociali o ambientali. Tra questi, “Organic Cotton” (organiccotton.org) e altri standard generali per l’agricoltura biologica includono solo volontariamente dei criteri di sostenibilità sociale. La “Better Cotton Initiative” (bettercotton.org) è invece il principale standard che unisce obiettivi ambientali a quelli sociali e ha l’ambizione di rappresentare nel 2020 il 30% della produzione globale di cotone. “Fairtrade Cotton” (fairtrade.net) ha gli stessi obiettivi, ma solo per i piccoli coltivatori che non lavorano in Occidente.

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l’80% finisce nei rifiuti generici e quindi in discarica (56%) o in inceneritore (24%); solo il 20% è raccolto in maniera differenziata, per essere poi riutilizzato (il 40%, di cui il 90% in Paesi non occidentali), riciclato (50%) e incenerito o abbandonato in discarica (10%). Per ridurre la percentuale dell’80% di mancato recupero dell’abbigliamento dismesso, tutti gli Stati membri dell’U-nione europea entro il 2025 dovranno garantire la raccolta differenziata dei rifiuti tessili. Sembrerebbe che prolungare la vita di un vestito di soli nove mesi riduca il peso di CO2, acqua e rifiuti del 20-30% (WRAP, 2012). La diffusione però della “fast fashion” con prodotti di scarsa qualità non solo rende sempre più difficile il riutilizzo di questi capi come abbigliamento, ma fa anche diventare tutto il processo di riciclo molto difficoltoso e poco conve-niente. Paradossalmente, un capo 100% in poliestere avrà molta più probabilità di essere riciclato di uno al 50% cotone e 50% poliestere: se un tessuto è misto, infatti, è più difficile e costoso riciclarlo, e molto probabilmente finirà in discarica o verrà recuperata la sua energia in un inceneritore. Il cotone può essere riciclato dai rifiuti pre-consumo generati durante il processo di produzione tessile e dai rifiuti post-consumo che comprendono prodotti tessili di scarto. Attualmente il cotone è riciclato principalmente attraverso il riciclaggio meccanico delle fibre, che riduce la lunghezza e la qualità delle fibre e richiede l’impiego di una buona per-centuale di fibre vergini per garantire un’adeguata qualità. Il riciclaggio chimico, laddove riuscisse ad avere un basso impatto ambientale, potrebbe consentire di produrre fibre riciclate di qualità pari a quella delle fibre vergini.

3.6 POSSIBILI SOLUZIONI

Le certificazioni del tessileRiportiamo di seguito un elenco non esaustivo delle principali certificazioni sostenibili del tessile.• OEKO-TEX® (oeko-tex.com) con lo “Standard 100” ga-rantisce l’assenza nel prodotto finale di sostanze potenzial-mente dannose per il consumatore. Il logo “Made in Green” (madeingreen.com) aggiunge anche la garanzia che le fab-briche abbiano un basso impatto ambientale e che rispetti i lavoratori e vieti il lavoro minorile.• GOTS, Global Organic Textile Standard (global-standard. org), per i tessuti da fibre naturali organiche certificate (mi-nimo 70% della composizione). Stabilisce dei requisiti ri-conosciuti a livello mondiale in tutto il ciclo di produzione, che deve avere un basso impatto ambientale e sociale, dalla materia prima al prodotto finito. L’etichetta GOTS “biologico” deve contenere almeno il 95% di fibre biologiche certificate.

Il commercio globale di abiti usati raggiunge i 4,3 milioni di tonnellate, molti dei quali difficilmente potranno essere indossati di nuovo. L’aumento esponenziale dei volumi di capi d’abbigliamento prodotti, venduti e buttati aggrava i costi umani e ambien-tali dei nostri capi in ogni fase del loro ciclo di vita. Inoltre la velocità con cui consumiamo e acquistiamo l’abbiglia-mento obbliga i produttori a rispettare scadenze sempre più ravvicinate, il che incoraggia pratiche ambientalmente irresponsabili e la riduzione dei costi del lavoro.

3.4 L’INQUINAMENTO DA MICROFIBREIl problema delle microfibre è nuovo e ancora poco studiato, ma è intuitivo: i tessuti soffici come il pile e le maglie in acrili-co o poliestere rilasciano una enorme quantità di microfibre nel lavaggio. Fibre che finiscono in buona parte dei fiumi e poi nei mari, filtrate solo parzialmente dagli impianti di depurazione. Queste fibre sono considerate microplastiche primarie (ovvero piccole particelle di dimensioni inferiori ai 5 millimetri) e secondo un report dell’International Union for Conservation of Nature (J. Boucher, D. Friot, 2017; iucn.org), nel mondo occidentale le microplastiche primarie co-stituiscono la principale fonte di inquinamento da plastica negli oceani e sono costituite per due terzi da microfibre e dal deterioramento dei pneumatici su strada. Poco ancora si sa se i materiali di origine naturale siano effettivamente un’alternativa per ovviare a questa nuova problematica: un’altra indagine (A. Sanchez-Vidal, R.C. Thompson, M. Canals, W.P. de Haan, 2018) ha riscontrato come le fibre di cellulosa tinta di cotone e lino, e fibre artifi-ciali da cellulosa (come il rayon) costituiscano l’80% di tutte le microfibre nei fondali marini. D’altronde, le percentuali di composizione delle fibre immesse in commercio (al 60% sintetiche) si riscontrano anche nei campioni d’acqua prove-niente dai maggiori bacini oceanici: sono state trovate fibre al 57% da tessuti sintetici, al 31% non-sintetici e al 12% semi-sintetici, secondo un report di Adventure Scientists (2018, adventurescientists.org).

3.5 “TODAY’S TRENDS ARE TOMORROW’S TRASH”, OVVERO: IL FINE VITA DEL TESSILESulla base di quanto affermato da Greenpeace nel rapporto “Fashion At The Cross Roads” (2017), nei Paesi dell’Unione europea il 35% delle materie prime per la fabbricazione dei tessuti viene sprecato, mentre il 46% dei vestiti è buttato dai consumatori al cambio stagione. Di questa percentuale, ben

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prodotto finito. Da quel che ci risulta, tutte trascurano an-cora il suo fine vita. Certo è che se vengono rispettati deter-minati criteri ambientali durante la fase di produzione, è probabile che l’impatto del vestito a fine vita sia inferiore di uno creato in maniera convenzionale. Al fine vita ci sta pen-sando dal 2014 la “Partnership for Sustainable Textiles” (textilbuendnis.com), un’iniziativa con centinaia di membri provenienti dai settori dell’economia, della politica e della società civile, che cercano di migliorare le condizioni sociali e ambientali nella produzione tessile globale, dalle materie prime allo smaltimento.

I produttori ecologicamente consapevoliDi seguito, proponiamo una lista - non esaustiva - delle realtà più interessanti da un punto di vista ambientale. Ci sono diversi artigiani italiani che propongono vestiti 100% da lino (nicolettafasani.com) e/o 100% da canapa (kanvaru.com). Rifò (rifo-lab.com), vende invece prodotti al 100% in cashmere e lana rigenerata.Nudie Jeans® (nudiejeans.com, abbigliamento etico e da materie prime sostenibili) e Patagonia (eu.patagonia.com) offrono la riparazione gratuita o a prezzi ragionevoli anche fuori garanzia.Recolution (recolution.de) è una delle poche marche che pro-pone vestiti casual con un unico tipo di filato (con l’eccezione dei calzetti): 100% cotone organico o 100% TENCEL™. Sono anche vegani, con il logo “PETA-Approved Vegan”.Bleed® (bleed-clothing.com) propone delle giacche anti-pioggia senza PFC, grazie alla membrana monomateriale SYMPATEX® (sympatex.com), pensata in una logica di energia circolare ed è in parte creata anche da un filo ottenuto al 100% da bottiglie in PET post consumo, chiamato Newlife™ e realizzato da una ditta italiana (sinterama.it).MUD Jeans (mudjeans.eu) raccoglie jeans che hanno più del 96% di cotone (il resto è di solito elastane) e li manda da

• Bluesign® è un’etichetta che viene applicata a prodotti re-alizzati con tessuti e accessori realizzati in base a stringenti criteri di sicurezza e ambientali, in ogni fase della catena di fornitura: le fabbriche devono operare in maniera più effi-ciente, riducendo le emissioni, nonché il consumo di acqua, energia e prodotti chimici, dai quali i lavoratori devono essere adeguatamente protetti, così come i consumatori finali.• Fair Wear Foundation (fairwear.org) è un’organizzazione senza scopo di lucro che lavora con marchi di abbigliamento, fabbriche, sindacati, ONG e governi per migliorare le condi-zioni di lavoro dei lavoratori dell’abbigliamento in 11 paesi di produzione in Asia, Europa e Africa. Chi fa parte dell’or-ganizzazione deve rispettare una serie di criteri per tutti i fornitori coinvolti.• Fairtrade® (fairtrade.it) è il marchio equosolidale più diffu-so, che coinvolge 1,66 milioni di agricoltori e lavoratori in 75 paesi. Nato alla fine degli anni ’80, è attualmente composto da due organismi indipendenti: Fairtrade International, che stabilisce gli standard Fairtrade di sviluppo sociale, economico e ambientale e sostiene i produttori, e FLOCERT, che ispeziona e certifica le organizzazioni di produttori e i distributori. Oltre al cotone Fairtrade, esiste anche uno Standard Fairtrade per il Tessile che impone la produzione etica di un tessuto o di un capo di abbigliamento.• World Fair Trade Organisation (WFTO, wfto.com) è una rete globale di organizzazioni di Commercio Equo e Solidale fondata nel 1989, composta da circa 350 aziende e network, che ha un impatto su quasi un milione di nuclei famigliari nel mondo. WFTO ha sviluppato uno standard basato sui 10 criteri del Commercio Equo e Solidale che stabiliscono i comportamenti delle realtà produttive e commerciali che mettono le persone e il pianeta davanti al profitto, e un sistema di monitoraggio dei propri soci. Nel 2013 ha rafforzato questo sistema di garanzia, inserendo gli audit condotti da terze parti e l’utilizzo del logo WFTO sui prodotti. Più di 100 soci di WFTO si occupano di abbigliamento e accessori.• Equo Garantito (equogarantito.org) è l’Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale. Il Registro Equo Ga-rantito qualifica le Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale grazie ad un sistema di monitoraggio che verifica i requisiti e gli elementi di valutazione, i quali traducono in pratica i principi contenuti nella Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale di cui Equo Garantito è depositario dalla sua fondazione nel 2003. Equo Garantito prevede la possibilità di apporre il marchio “Equo Garantito” sui prodotti che vengono prodotti e/o distribuiti dai suoi soci, cinque dei quali producono abbigliamento e accessori.

Le certificazioni tessili riguardano solo una parte del ciclo di vita di un capo d’abbigliamento: dalla materia prima al Ch

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I maglioni di Rifò, prodotti al 100% in cashmere e lana rigenerata

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Tra i produttori di abbigliamento tecnico per sportivi, inol-tre, troviamo:Vaude (vaude.com), che ha già sostituito le sostanze chimiche PFC (come abbiamo scritto a pagina 17) con materiali più ecocompatibili. Picture (picture-organic-clothing.com): grazie all’eco-design pensano fin da subito al fine vita del prodotto; il cotone è 95% organico e 5% riciclato; il loro poliestere contiene un minimo di 50% di materia prima riciclata da bottiglie di plastica; sono trasparenti (è possibile vedere l’esatta collocazione di tutti i loro fornitori); evitano sostanze chimiche dannose per la salute dei lavoratori e dei consumatori e non usano PFC; forniscono assistenza per la riparazione.Icebreaker® (eu.icebreaker.com): propongono il Cool-Lite™, un tessuto in lana merino (allevato in maniera rispettosa) e TENCEL™. Hanno l’obiettivo di eliminare entro il 2023 tutti i restanti prodotti sintetici nella loro linea.Rewoolution (rewoolution.it) propone tessuti tecnici per lo più costituiti da 100% lana merino, da animali allevati in maniera etica. Tutto il loro processo è tracciato, fino al lanificio storico Reda, alimentato ad energia rinnovabile, in Italia.La marca Houdini (houdinisportswear.com) assicura di non mescolare mai materiali naturali con materiali sintetici, in modo da rendere i suoi prodotti facilmente riciclabili, bio-degradabili o entrambi.I prodotti per sport acquatici Fourth Element OceanPositive (fourthelement.com) utilizzano l’Econyl®, così come il 78% dei costumi di Twothirds (twothirds.com). L’Econyl® (econyl.com) è un nylon ottenuto dal riciclo anche di reti da pesca.

Recover (recovertex.com) in Spagna, per ottenere un filato che riutilizza fino al 40% nei suoi jeans. Il cotone può infatti essere riciclato, ma difficilmente può tornare a costituire il 100% di un vestito: per questioni tecniche normalmente si usano percentuali di cotone riciclato piuttosto basso, assieme al filato vergine.Il progetto Swedish Stockings (se.swedishstockings.com) impiega al 100% scarti di nylon e elastane pre e post consumo per realizzare le proprie calze, in un impianto a basso impatto ambientale. Il negozio Friendly Shop di Padova raccoglie calze bucate per inviarle in Svezia, per poter essere riciclate adeguatamente.Il progetto della ONG “I was a SARI” (iwasasari.com) recupera sari indiani utilizzati e li trasforma in altri oggetti, garantendo un lavoro equamente pagato alle artigiane di Mumbai coin-volte, recuperando prezioso tessuto che altrimenti finirebbe in discarica.La calabrese Cangiari (dal dialetto, cambiare, ndr, cangiari.it), che dieci anni fa è stata una dei primi marchi eco-etici di fascia alta della moda italiana, valorizzando la lavorazione tradizio-nale a telaio delle majistre. Usa solo materiali bio, certificati G.O.T.S. ed è un progetto della cooperativa sociale GOEL, che nella Locride combatte la ‘ndrangheta, pratica l’agricoltura biologica e propone percorsi di turismo sostenibile (goel.coop)Dal 2011, la londinese “People tree” (peopletree.co.uk) usa solo fibre equosolidali e naturali o da materie prime rinnova-bili, come il TENCEL™. Il cotone è organico e certificato GOTS, e la filiera di People Tree è priva di sostanze inquinanti, tutela le risorse idriche e usa materiali biodegradabili. Valorizza l’artigianato tradizionale e sostiene i produttori in progetti di protezione ambientale.Smateria è un’impresa sociale fondata nel 2006 da due donne italiane a Phnom Pehn, in Cambogia. Oltre l’80% dei dipen-denti è donna. Crea borse a partire da reti da pesca, sacchetti di plastica e anche le rifiniture sono realizzate con tessuti riciclati dalle fabbriche. È commercializzata in Italia da RAM: associazioneram.it/smateria-in-italia. La spagnola Soruka, con sede a Barcellona (soruka.com), realizza borse a prezzi accessibili con pelle riciclata e scar-tata dalle fabbriche, evitando sprechi. Ogni borsa è diversa dall’altra: in Italia sono commercializzate da AltraQualità.“National Handicraft Exports” (NHE, cottonleather.com) è un’azienda di New Delhi specializzata in produzione ecologiche ed eco sostenibili. Per le sue creazioni utilizza il “cottonleather”, un materiale che nell’aspetto ricorda la pelle, prodotto riciclando il cotone: è durevole, biodegradabile e privo di agenti tossici. Oltre all’attenzione per l’aspetto eco-logico, NHE si fa carico di fornire ai lavoratori un ambiente di lavoro igienico e sicuro e di corrispondere loro un compenso equo. In Italia sono partner di AltraQualità.

Un modello di borsa Soruka, realizzata a Barcellona con pelle riciclata

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4. Fare moda in modo diverso con il Commercio Equo e Solidale

4.1. I CRITERIIl Commercio Equo e Solidale ci mostra un’altra strada. Si basa su modalità di produzione e commercio che mettono le persone e il Pianeta prima dei profitti. Il Commercio Equo e Solidale mette anche in relazione produttori e consumatori attraverso una maggiore traspa-renza delle filiere, dimostrando che è possibile più giustizia nel commercio mondiale. Un percorso che cerca anche di coinvolgere i cittadini nella riscrittura delle regole del com-mercio, con un’attenzione ai bisogni dei piccoli produttori, delle lavoratrici e dei lavoratori. Il Commercio Equo e Solidale è un partenariato per il cam-biamento e lo sviluppo sostenibile.

Anche nel processo produttivo dell’abbigliamento e nel sistema moda intervengono aziende che aderiscono ai criteri del Commercio Equo e Solidale. Le attività di tali lavoratori ed artigiani nel Sud del mondo sono monitorate dal sistema di garanzia della World Fair Trade Organization o dalla certificazione Fairtrade International. In Italia, Equo Garantito monitora, secondo uno standard condiviso, le attività dei propri soci - organizzazioni che im-portano i prodotti equosolidali e/o li vendono nelle Botteghe del Mondo, facendo campagne di informazione e sensibiliz-zazione-. La nuova versione della Carta Internazionale del Commercio Equo e Solidale pone al centro i valori fondanti del Commercio Equo e Solidale e si apre alle sfide della lotta al cambiamento climatico e del raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) concordati dall’ONU.

• creare le condizioni per un commercio equo e solidaleLe condizioni commerciali applicate dagli importatori del Commercio Equo e Solidale mirano a permettere ai produt-tori e ai lavoratori di avere uno standard di vita dignitoso, in grado di soddisfare i bisogni quotidiani in termini di benessere economico, sociale e ambientale. L’impegno a creare partnership commerciali a lungo termine permette ad ambo le parti di cooperare e crescere attraver-

so la condivisione delle informazioni e una pianificazione congiunta.

• raggiungere una crescita economica inclusiva Il Commercio Equo e Solidale lavora con organizzazioni inclusive e democratiche che sono attive nel promuovere l’educazione, la salute e i servizi sociali nelle proprie co-munità. Le Organizzazioni di Commercio Equo e Solidale supportano tali associazioni e cooperative per accrescere le loro competenze nel gestire aziende vincenti, sviluppare le capacità produttive e aumentare l’accesso al mercato.

• garantire un lavoro dignitoso e il soste-gno per migliorare redditi e salari Il Commercio Equo e Solidale verifica il rispetto delle leggi locali e convenzioni internazionali sulla libertà di associa-zione e contrattazione collettiva, sull’eliminazione delle discriminazioni e del lavoro forzato, creando un ambiente di lavoro sicuro e sano. Inoltre, le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale lavorano per raggiungere salari dignitosi per i propri lavoratori nelle filiere produttive e per assicurare ai piccoli produttori mezzi di sussistenza sostenibili grazie alle proprie aziende.

• valorizzare e promuovere il lavoro fem-minileLe donne hanno il diritto di ricevere uguale pagamento e trattamento rispetto agli uomini, e di avere accesso alle stesse opportunità. Le Organizzazioni del Commercio Equo e Solidale non solo rispettano questo principio di non discri-minazione, ma promuovono l’equità di genere nelle proprie operazioni includendo le donne nel processo decisionale. Per milioni di donne, i progetti del Commercio Equo e Soli-dale sono stati la prima opportunità di prendere decisioni sui redditi familiari, e gli studi d’impatto dimostrano che ciò migliora i risultati in settori quali la salute, l’istruzione e lo sviluppo sociale.

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• proteggere i diritti dei bambini e inve-stire nelle generazioni futureNelle filiere equosolidali, oltre che monitorando la con-formità con gli standard nazionali e internazionali, lo sfruttamento dei minori è affrontato permettendo alle famiglie di guadagnare un reddito sufficiente senza ricor-rere al lavoro minorile. Ciò porta alla comprensione, nelle comunità, dell’importanza del benessere dei bambini, delle esigenze educative e del diritto al gioco. Ai giovani vengono offerte opportunità nelle loro comunità, consentendo loro di imparare le competenze richieste per la loro futura vita lavorativa di agricoltori e artigiani. I leader delle Orga-nizzazioni di Commercio Equo e Solidale, specialmente le donne, sono un potente modello imprenditoriale per i più giovani.

• coltivare la biodiversità e l’ambienteLa protezione della biodiversità e la tutela delle risorse naturali sono pilastri fondamentali nel Commercio Equo e Solidale, per questo moltissime filiere sono biologiche o di economia circolare. I piccoli agricoltori e gli artigiani

sono tra i più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico ed è importante che siano supportati nello svi-luppo e nell’investimento in strategie di adattamento e mitigazione.

• influenzare le politiche pubbliche e coinvolgere i cittadini nella costruzio-ne di un mondo equo e solidaleLe Organizzazioni del Commercio Equo e Solidale rea-lizzano campagne di sensibilizzazione e fanno pressioni sui diversi livelli dei governi nazionali e internazionali. Le politiche pubbliche possono incoraggiare le imprese a fare sempre più acquisti secondo le condizioni del Com-mercio Equo e Solidale, per scardinare le pratiche inique del commercio convenzionale. Grazie alle campagne di informazione, i consumatori sono consapevoli dell’im-patto delle proprie scelte di acquisto. In questo modo il Commercio Equo e Solidale contribuisce alla promozione di consumi responsabili compatibili con i limiti ecologici del nostro pianeta.

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una nuova collezione ogni due mesi. Noi non abbiamo fretta: facciamo gli ordini ai produttori con un anno in anticipo, per non metterli in difficoltà con la produzione, e proponiamo due collezioni in un anno. D’altra parte, è necessaria una scelta di responsabilità a monte anche da parte dei consu-matori, che invece di comprare tante magliette di scarsa qualità in una sola stagione - che dopo pochi lavaggi sono da buttare -, possono sceglierne meno, ma di grande valore e che dureranno anni. E la qualità, seppur a fronte di un costo più alto, è uno dei motivi per cui i clienti tornano nelle nostre Botteghe: sanno che indossando quel capo stanno facendo anche una scelta che tutela la dignità del lavoro e il futuro del Pianeta.

Dove pensi che andrà la moda del Commercio Equo e Solidale?

CP Da un lato, spero davvero che cresca: abbiamo bisogno che sempre più persone facciano delle scelte di consumo critico anche nella moda, per far sì che questo settore soprav-viva e continui a garantire dignità per i lavoratori e tutela dell’ambiente. D’altra parte, ci scontriamo con dinamiche che mettono in difficoltà la nostra sostenibilità: sostenere i progetti di moda solidale nel tempo è una bella sfida. Anche per questo, gli importatori italiani del settore stanno facendo sinergia verso un progetto comune, che vedrà presto la luce, perchè fare sistema è diventato un obiettivo irrinunciabile per il successo di tutti. La scommessa, grazie a un grande sforzo di collaborazione tra questi attori, è quella di arrivare a una maggiore efficienza della filiera, per garantirne la sostenibilità futura.

4.2 PERCHÉ ACQUISTARE IN UNA BOTTEGA DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALEIntervista a Chiara Piano, responsabile della Bottega di via Ga-lata di La Bottega Solidale Altromercato (bottegasolidale.it), che a Genova ha tre sedi e più di 30 anni di storia, con una grande attenzione alla moda solidale. Chiara lavora per Bottega Solidale da vent’anni, dopo un periodo iniziale come volontaria.

Come si è trasformata la moda equa e solidale in questi 20 anni?

CP Ho visto molti cambiamenti nel tempo, all’inizio chi spo-sava i nostri valori non era più di tanto attento alla qualità dei prodotti; oggi invece il consumatore è molto più esigente. Mi ricordo che in Bottega avevamo dei pantaloni nepalesi, molto larghi e corti di gamba. Solo quando ho avuto l’occa-sione di fare un viaggio di turismo solidale in Nepal ho capito che il taglio di quei pantaloni era dovuto alla popolazione locale, di statura molto piccola. Noi li prendevamo come li facevano per loro stessi. C’è un abisso tra allora e le proposte di moda che abbiamo oggi nelle Botteghe del Commercio Equo e Solidale: c’è stata una grande evoluzione nella cura del prodotto finale, pensato per i gusti dei consumatori oc-cidentali, e insieme anche una crescita dei produttori. Ed è proprio questo ultimo aspetto la grande differenze tra noi e chi produce moda per profitto: l’investimento nella crescita dei lavoratori e delle lavoratrici dei paesi da cui importiamo i prodotti, che così possono acquisire delle competenze a tutto tondo, da spendersi non solo nelle filiere del Commercio Equo e Solidale.

Come sono fatti oggi i capi di abbigliamento equo e solidale?

CP Sono capi di altissima qualità, sia dal punto di vista delle materie prime - e quindi della durata dei vestiti stessi - che dello studio dei modelli. C’è una cura e una ricerca sulle tendenze future, per la ricerca di una corrispondenza con i desideri dei nostri consumatori. Ma resta sempre un grande rispetto per le culture dei produttori: la ricerca verso il pro-dotto finale è da sempre fatta insieme a loro, valorizzandone le tecniche tradizionali, come i ricami o i batik. Cerchiamo, insomma, di conciliare le nostre necessità di mercato con le tradizioni dei produttori e il rispetto dell’ambiente, sce-gliendo materie prime naturali.

Quali sono le difficoltà delle filiere tessili solidali?CP La sostenibilità economica non è semplice da raggiungere. Siamo “schiacciati” tra l’alta moda e le grandi catene indu-striali, che propongono capi a prezzi bassissimi e lanciano

Chiara Piano di La Bottega Solidale

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altromercatoAltromercato è un’impresa sociale formata da 105 soci e 225 Botteghe del Mondo, che gestisce rapporti con 155 organizzazioni di produttori in oltre 45 Paesi del mondo. Collabora con migliaia di artigiani e contadini, il cui lavoro viene rispettato ed equamente retribuito, perché si basa su una filiera trasparente e tracciabile, che tutela i produttori, l’ambiente e garantisce la qualità dei prodotti.“On Earth” è il marchio che contraddistingue le collezioni Altromercato. Un nome che esprime la visione e la promessa della società cooperativa: “Condividiamo tutti un unico Pia-neta, le nostre azioni e il nostro stile di vita hanno un impatto su di esso e su chi lo abita”. Per questo da anni Altromercato ha scelto un approccio etico nello sviluppo delle collezioni di moda, creando una filiera ad alto impatto sociale e a basso impatto ambientale.Altromercato lavora con circa 20mila artigiani che vivono in sei diverse nazioni: dal Kenya al Perù, dal Vietnam all’India. Questa filiera equosolidale garantisce che tutti i lavoratori, in gran parte donne, operino in ambienti sicuri, senza sfrut-tamento e percependo un salario equo. “I nostri produttori sono spesso piccole realtà, per questo li sosteniamo prefinanziando gli ordini e con programmi

4.3 I PROTAGONISTI DELLE FILIERE IN ITALIADi seguito riportiamo alcune informazioni sulle organizza-zioni di Commercio Equo e Solidale più attive nel settore moda e poi sui loro partner commerciali, sulle organizza-zioni di produttori delle filiere tessili e di accessori in Asia, Africa e America Latina. Questi importatori, AltraQualità, Altromercato, Equo Mercato, La Bottega Solidale e RAM, sono monitorati da Equo Garantito, l’Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale, nella loro relazione con i produttori attraverso un sistema di garanzia che verifica il sostegno a produttori economicamente svantaggiati, la trasparenza, correttezza e stabilità nella gestione della relazione commerciale, degli accordi e del prezzo.

altraqualitàCooperativa di Commercio Equo e Solidale, AltraQualità dal 2002 importa e distribuisce in Italia prodotti artigianali e alimentari dal mondo da 30 produttori partner di Asia, Africa e America Latina e una quindicina tra cooperative sociali e aziende etiche europee. “Tutti i nostri prodotti sono importati secondo una filiera trasparente e garantita senza sfruttamento del lavoro, una scelta di sostenibilità che negli anni ci ha permesso di cre-scere, dimostrando che un modello economico eticamente connotato può essere una concreta alternativa”, spiega lo staff di AltraQualità. Con la collezione tessile “Trame di Storie”, AltraQualità vuole sperimentare un nuovo modo di pensare e realizzare la moda, intervenendo su tutto il processo produttivo legato all’abbigliamento e, più ampiamente, sul sistema moda stesso. Ogni collezione dimostra come sia possibile conciliare responsabilità sociale e ambientale con un design originale e materie prime di elevata qualità. “La provenienza e la diver-sità dei nostri partner è un’altra ricchezza e un importante valore per “Trame di Storie”: sono organizzazioni e piccole realtà di paesi come Bangladesh, Colombia, India, Vietnam e Thailandia e cooperative sociali italiane che garantiscono ai propri dipendenti condizioni di lavoro sicure e compensi adeguati, che in alcuni casi utilizzano tecniche produttive a basso impatto ambientale e in altri materie prime naturali o riciclate”. La maggior parte dei capi sono venduti attraverso le Botteghe del Mondo.

Via Arturo Toscanini, 11 • 44124 Ferrara (FE)www.altraq.it

Una lavoratrice di Creative Handicraft

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la bottega solidale O’press è una linea di t-shirts della Cooperativa sociale La Bottega Solidale di Genova che nasce dall’incontro dei valori del Commercio Equo e Solidale e un progetto sociale di formazione ai detenuti. Attualmente il processo di stampa serigrafica viene fatto artigianalmente da quattro persone detenute, regolarmente assunte dalla Cooperativa, nella Casa Circondariale di Genova Marassi. Persone che attra-

di formazione”, aggiunge Altromercato. I produttori, sono infatti considerati veri e propri partner che condividono i principi del Commercio Equo e Solidale, impegnati in pro-getti sociali, a sostegno delle comunità locali e delle parti più deboli delle società di appartenenza.Nello sviluppo delle collezioni Altromercato, grande atten-zione è posta anche all’impatto ambientale: nella scelta dei materiali e nelle tecniche di lavorazione. Sono privile-giati i materiali naturali e le lavorazioni artigianali, a basse emissioni. È inoltre incentivato l’uso di materiali riciclati e di pratiche a basso impatto, dalla logistica al packaging.

Viale Cesare Cattaneo, 6 • 22063 Cantù (CO)www.equomercato.it

Via Francia, 1/C • 37135 Verona (VR)www. altromercato.it

equomercatoLa cooperativa EquoMercato è nata nel 1993 a Cantù (Como, equomercato.it), su iniziativa di due volontari appena rien-trati in Italia dopo diversi anni di cooperazione in Burundi. Tra i soci fondatori di Equo Garantito, EquoMercato oggi conta 17 soci, di cui cinque lavoratori della cooperativa. Rispettando i criteri del Commercio Equo e Solidale, Equo-Mercato importa per le Botteghe del Mondo italiane prodotti alimentari, cosmetici e di artigianato da piccole cooperative e associazioni di produttori di Africa, Asia e America Latina. EquoMercato ha inoltre avviato diverse collaborazioni con cooperative sociali e realtà dell’economia solidale per la realizzazione di prodotti che utilizzano materie prime im-portate con i criteri equosolidali.

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Un lavoratore di MKS “Madhya Kalikata Shilpangan”, India

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

ramNata nel 1988 come importatore del Commercio Equo e Solidale, l’Associazione RAM serve alcune delle principali Botteghe del Mondo in Italia, negozi e un certo numero di aziende, con forniture personalizzate. Partecipa a varie fiere, vende attraverso il proprio sito web e occasionalmente gestisce propri temporary shop. Oltre all’artigianato etnico, simbolo di culture diverse, RAM promuove cultura ed edi-toria, prodotta autonomamente, sui temi dell’economia informale, del Fair Trade e del Turismo Responsabile. Attuale area di provenienza dell’artigianato che importa è il sud est asiatico (India, Cambogia).RAM supporta dall’Italia il lavoro dei partners nei paesi stra-nieri, che i Responsabili Progetto dell’Associazione visitano con una certa regolarità. Nella visione dell’Associazione, l’artigianato è “strategia generatrice di reddito” per gli e le artefici delle merci, tutti/e appartenenti a cooperative, associazioni o piccole aziende il cui lavoro comporta sempre una ricaduta sociale di rilievo sulle comunità produttrici. Oltre a questo “zoccolo duro” di importazioni, negli ultimi anni RAM ha avviato collaborazioni con realtà italiane di artigianato manuale e di economia carceraria. Oggi RAM è anche il riferimento italiano di Smateria, azienda cambo-giana di alto profilo sociale specializzata nella manifattura di accessori di qualità, provenienti in massima parte da operazioni di riciclo.

Via Molino Nuovo 8a • 16030 Avegno (GE)www.associazioneram.it

verso l’impegno e la grande passione che mettono nel loro lavoro cercano di dare un senso alla loro detenzione. Perché “il carcere è un ozio senza riposo”. Perché una detenzione esclusivamente punitiva non rende la nostra società più giusta e neanche più sicura. Perché l’Articolo 27 della nostra Costituzione, al comma 3 recita: “Le pene non possono con-sistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

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Un momento della lavorazione delle magliette realizzate da O’Press

Abbigliamento di Tonlè, Cambogia

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P.za Embriaci 4/1 • 16123 Genova www.bottegasolidale.it

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

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BANGLADESHINDIA

NEPAL

CAMBOGIA

VIETNAM

KENYA

ECUADOR

CILE

INDIA1 Auromira. Piccola azienda

tessile del Sud dell’India, che utilizza per i suoi prodotti sia tessuti tradizionali indiani prodotti al telaio manuale, sia tessuti prodotti al telaio elettrico, impiegando soprattutto donne.

2 Armstrong Knitting Millsdal 2013 una realtà imprenditoriale che ha fatto dell’etica sociale ed ambientale e dell’organizzazione del lavoro i suoi punti di forza. Ha sede a Tirupur nel cuore del distretto tessile indiano. Oltre l’80% della loro produzione è certificata biologica, secondo lo standard GOTS. Attinge i due terzi del proprio fabbisogno energetico da un parco eolico di proprietà. (armstrongknittingmills.com)

3 Assisi Garaments nasce da un progetto della congregazione delle suore di San Francesco di Assisi per dare sostegno e formazione a ragazze sordomute o con grossi problemi familiari. Dal 1994 dà lavoro a ragazze provenienti principalmente dal Tamil Nadu e dal Kerala, alle quali

viene fornito vitto, alloggio, fondi previdenziali, oltre a un dignitoso salario mensile e formazione costante. (assisiorganics.com)

4 Creative HandicraftUn’organizzazione creata da donne a beneficio di moltissime donne povere e marginalizzate.(creativehandicrafts.org)

5 Asha. Una delle più importanti organizzazioni di Commercio Equo e Solidale attive in India. Ha sede a Mumbai, nell’Uttar Pradesh, ma i gruppi che fanno capo all’organizzazione sono distribuiti nel subcontinente indiano. (ashahandicrafts.com)

6 MKS. “Madhya Kalikata Shilpangan” è nata a Calcutta dall’iniziativa di un gruppo di persone già inserite nell’ambito dell’artigianato equo e solidale, che desideravano iniziare un progetto proprio.

7 EMA. L’“Equitable Marketing Association” è stata fondata nel 1977 da alcuni piccoli gruppi ed è basata a Calcutta, nel nordest dell’India, da dove promuove la produzione artigianale di varie realtà indiane.

8 Manjeen Handicraft. Dal 2000 fornisce supporto agli artigiani svantaggiati di Delhi e dintorni. (manjeen.org)

9 Silence. Nata nel 1976 sotto forma di un gruppo informale di artisti non udenti e diversamente abili, che intendevano, con la vendita dei loro prodotti, sostenersi economicamente e dar voce al loro silenzio.

10 Artisan Well. Un piccolo laboratorio artigiano situato nella zona meridionale di Kolkata che oggi è cresciuto in maniera consistente, grazie unicamente al sostegno delle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale. In costruzione un nuovo laboratorio in un villaggio fuori città: un passo avanti notevole.

NEPAL11 KTS. “Kumbershwar

Technical School” si propone di offrire a tutti le stesse possibilità: un obiettivo non scontato in uno dei Paesi più poveri al mondo, con alti tassi di analfabetismo soprattutto femminile. (kumbeshwar.com)

12 Manushi (“donna piena di energia”). Un’organizzazione nata su iniziativa di Padmasama Shakya, docente universitaria, in risposta alle richieste di aiuto pratico avanzate da donne povere nei villaggi. (manushiarts.com)

13 Sana Hastakala. Nata con il supporto dell’Unicef come progetto di assistenza agli artigiani, oggi è una rete di produttori con un punto vendita nella capitale, Kathmandu. (sanahastakala.com)

14 WSDO. La “Women’s Skill Development Organization” è stata fondata nel 1975 per dare una formazione artigianale alle donne, per apprendere l’arte della tessitura.

VIETNAM15 Craftbeauty è una impresa

sociale vietnamita fondata da una giovane coppia con l’obiettivo di creare valore e lavoro per persone in difficoltà, in particolare donne, supportando con formazione e progetti le fasce più deboli della popolazione, come disabili, agricoltori in difficoltà

4.4 LA MAPPA DEI PRODUTTORI

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

Progetto Quid

Quid è un marchio italiano di moda etica e sostenibile nato nel 2012 per creare un’opportunità lavorativa per persone - soprattutto donne - che hanno un passato di fragilità. Il loro lavoro parte dal riuso di tessuti di rimanenza delle migliori aziende del made in Italy per dargli una nuova vita, creando vestiti e accessori originali. Oggi la cooperativa sociale Quid, che ha sede ad Avesa (VR), dà lavoro a più di 100 persone e vende le proprie collezioni di moda e accessori in cinque negozi monomarca - a Verona, Vallese (VR), Bassano del Grappa (VI), Cadriano (BO) e Mestre (VE) -, in oltre 100 negozi che hanno deciso di supportare il progetto e anche online. Quid ha una storica collaborazione con la sezione femminile della casa circondariale di Montorio, a Verona, dove gestisce un laboratorio di sartoria da quattro anni. E qui, alla fine dell’estate 2018, la cooperativa ha avviato un nuovo progetto con la sezione maschile del carcere. “Una nostra collaboratrice si occupa di formare sette o otto detenuti per sezione, in modo che una volta usciti dal carcere possano avere una concreta chance di reinserimento, che in termini sociali significa abbattere la recidiva dell’80%”, ha spiegato al quotidiano L’Arena la fondatrice e presidente di Quid, Anna Fiscale. Quid crea prodotti per diversi partner sostenitori del progetto, tra cui alcuni abiti e accessori per Altromercato. Il progetto ha vinto numerosi premi legati all’economia sociale (nel 2014, l’“European Social Innovation Competition” e nel 2017 il “Civil Society Prize” del Comitato Economico e Sociale Europeo) e alla sostenibilità ambientale (nel 2017 è una dei progetti segnalati dal “Momentum for Change” del Segretariato dell’ONU per i cambiamenti climatici e nel 2017 vince il Premio per lo Sviluppo Sostenibile promosso da Legambiente con Ecomondo).(Tratto da “EmpowHER. Una prospettiva di generesul Commercio Equo e Solidale”, curato dalla rete Veneto Equo nel dicembre 2018 e disponibile sul sito equogarantito.org)

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e con redditi incerti e stagionali, artigiani e sarti dei villaggi, esperti nelle tecniche tradizionali ma esclusi dal mercato.

16 Craft Link. Fondata nel 1996, si occupa di sostenere i gruppi di artigiani svantaggiati in Vietnam supportando la produzione artigianale e la vendita dei prodotti. (craftlink.com.vn)

CAMBOGIA17 Tonlè è un laboratorio che

produce linee di abbigliamento ed accesori di moda a marchio proprio, un’impresa sociale che ospita artigiani in formazione, con la collaborazione delle ong del luogo. L’80% del materiale usato da Tonlè proviene da operazioni di riciclo, col riutilizzo di tessuti scartati dalle fabbriche tessili che in Cambogia producono per l’esportazione. I designer dell’organizzazione selezionano i tessuti più adatti a creare proprie collezioni originali, tra quelli raccolti dalle fabbriche, lavorando poi fianco a fianco ai produttori per creare articoli unici. Lo scarto finale non supera il 2/3%, ottimo risultato se si considera che quello delle fabbriche di solito è il 50%.

BANGLADESH 18 Artisan Hut, dal 2018.

Specializzata nella produzione di abbigliamento, dalla realizzazione dei tessuti al capo finito. La sua storia ha inizio a Dhaka nel 2002, per valorizzare le abilità tradizionali dei tessitori e dei sarti bengalesi e al contempo migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro.

ECUADOR19 Salinas, dal 2016. Le

50 micro-imprese di Salinas coinvolte nella rete del Commercio Equo e Solidale, la cui sede centrale è la FunorSal (“Fundación de organizaciones campesinas de Salinas”) lavorano diverse materie prime, alimentari e tessili. L’Asociación de desarollo social de artesanas “Texal” è nata nel 1976 con

l’obiettivo principale di costruire una prospettiva lavorativa per le donne disoccupate e analfabete, valorizzando le tecniche artigianali tradizionali. La tracciabilità della filiera della lana è un altro degli aspetti importanti del progetto: le pecore pascolano sui prati dei villaggi vicini, la loro lana viene filata alla filanda del paese, dove le donne la acquistano e la utilizzano per confezionare caldi capi di abbigliamento. Le donne creano anche cestini in paglia, raccogliendo sui prati l’erba dell’altopiano desertico andino, seccandola, ripulendola e infine intrecciano con l’ago e un’altra fibra vegetale, la cabuya, creando dei cestini resistenti e di qualità.

CILE20 Pueblos del Sur. Nata in

seguito alla decisione di uno dei fondatori di sottrarsi alle persecuzioni della dittatura di Pinochet. In Europa ha conosciuto “Oxfam - Magasins du Monde”; poi è tornato in Cile dove ha messo in pratica ciò che aveva imparato.

KENYA21 Bombolulu,

Un’organizzazione gestita a Mombasa dall’Associazione dei Disabili fisici del Kenya. Ospita laboratori di artigianato, alloggi per i lavoratori e dal 1994 un centro culturale.(apdkbombolulu.org)

Oltre ai progetti nel Sud del mondo, Altromercato collabora con il progetto Quid, nato a Verona, per proporre alle Botteghe del mondo collezioni integrate e coordinate, e talvolta con progetti nelle carceri per capsule di prodotto (principalmente t-shirt stampate).

 

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QUADERNO DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

ConclusioniCome diventare un rivoluzionario della moda. Una piccola guida

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Sii curioso. Guarda i tuoi vestiti con attenzionePuoi iniziare semplicemente capovolgendo un abito e osservando le cuciture. Guarda le cuciture ondulate e dove sono state tagliate le estremità libere dei fili: queste sono tracce del lavoro svolto dalle persone che hanno fatto i tuoi vestiti.Leggi l’etichetta. Ti dirà in che paese è stato fatto quel capo e che materiali sono stati utilizzati. Ma non dove sono state coltivate le fibre, né come; non ti dirà dove sono state filate, tessute, tinte e stampate. Non saprai nulla del filo, delle cerniere, né dei bottoni…

Puoi farti delle domande: da dove provengono i materiali? Dove è stato fatto? Com’è lavorare lì? Che tipo di persone sono coinvolte nella produzione? Come sono le loro vite? Essere interessati alle risposte a questo tipo di domande è il primo passo per cambiare la storia delle persone che realizzano i nostri abiti.

Chiedi spiegazioniai grandi marchi: chi ha fatto i miei vestiti?Alcuni brand non risponderanno. Altri potrebbero dirti dove sono stati fatti i tuoi vestiti, ma non chi li ha fatti. Altre ti indirizzeranno verso la responsabilità sociale delle imprese a cui fanno riferimento. In pochi ti dimostreranno di sapere davvero qualcosa su chi crea i loro vestiti. Le aziende migliori ti chiederanno il numero di RN (“Registered Number”) impresso sui tuoi vestiti, dal quale si può risalire a informazioni più dettagliate.

Consuma meno e cerca sempre le alternative possibiliPrima di acquistare un nuovo abito, pensa sempre alle alternative possibili: potresti acquistarlo di seconda mano? È etico e sostenibile? Davvero ne hai bisogno? Soffermandoci un attimo prima di comprare, possiamo cambiare il mondo. Un abito alla volta.

4Diventa un “fashion detective”Indaga sui tuoi vestiti, informati, leggi e ricostruiscine la storia a partire dal singolo capo per arrivare alla sua “famiglia”. Tante associazioni diffondono report e materiali su specifiche questioni della filiera tessile, come i salari equi, le sostanze chimiche tossiche o il lavoro minorile. Visita i loro siti, leggi i loro lavori e partecipa ai loro eventi.Puoi anche farti aiutare da delle app - come “Good on you” (goodonyou.eco), “Not my style” (notmystyle.org) o “Faer” (wearefaer.com) - per approfondire l’impatto sociale e ambientale dei vestiti.

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“Poichè buona parte dell’industria dell’abbigliamento genera un forte sfruttamento

della manodopera ed elevati tassi di inquinamento lungo tutta la catena produttiva,

il Commercio Equo e Solidale gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di alter-

native etiche e sostenibili, attente ai bisogni dei lavoratori e sensibili a una riduzione

dell’impatto ambientale.”

Chiara Spadaro

Una pubblicazione di Equo Garantito - Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale

www.equogarantito.orgSede Legale: Via Arezzo, 6 • 00161 Roma • [email protected] Sede Operativa: Via della Chimica, 29 • 36031 Dueville (VI) • [email protected]

OrganizzazioneSocia

Realizzato con il contributo dell’Unione Europea nell’ambito del progetto “Trade Fair, Live Fair - Raising Awareness and Mobilizing the European Public to Advance Consumption patterns that Nurture the Sustainable Development Goals (SDGs) CSO-LA/2016/151103-1/27”.

I contenuti riportati sono responsabilità solo di Equo Garantito e non riflettono necessariamente la posizione dell’Unione Europea.