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25 6 8 9/ 1 6 R5 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUARTA SEZIONE PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: LUISA BIANCHI FRANCESCO MARIA CIAMPI MARIAPIA GAETANA SAVINO GIUSEPPE GRASSO ANTONIO LEONARDO TANGA - Presidente - - Consigliere - - Consigliere - - Rel. Consigliere - - Consigliere - UDIENZA PUBBLICA DEL 03/05/2016 SENTENZA N.ggq t Z(g REGISTRO GENERALE N. 34594/2014 Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: DI GIAMBATTISTA CARLO N. IL 16/02/1962 DI MARCO MARINA N. IL 11/10/1955 AURIOLES FERNANDO N. IL 09/08/1966 TUTINO MARIKA N. IL 13/05/1972 avverso la sentenza n. 3305/2012 CORTE APPELLO di TORINO, del 22/01/2014 visti gli atti, la sentenza e il ricorso udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/05/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO Udito il Procuratore Ggnerale izzsor del Dott. che ha concluso per „V(QA,UNU Gekg-A-remmtko lA htta 4511 Udito, per la parte civile, l'Avv za alop , Uc£t i dif i er2sor Avv. k2AWALL 0"t~ Aik 0..JUS6 1 Uve', JJt cPitit e ,,,,,,Ifu guitik ?-bauz im.• Via Serbelloni, 1 | 20122 MILANO (MI) | [email protected] Direttore Responsabile Francesco Viganò | 2010-2016 Diritto Penale Contemporaneo

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI … · Spanò Adelina e Lo Bianco Carmela, pazienti ricoverate presso il reparto di ... a firma dell'avv. Alberto Ventrini, corredato

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25 6 8 9/ 1 6 R5

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUARTA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: LUISA BIANCHI FRANCESCO MARIA CIAMPI MARIAPIA GAETANA SAVINO GIUSEPPE GRASSO ANTONIO LEONARDO TANGA

- Presidente -

- Consigliere -

- Consigliere -

- Rel. Consigliere -

- Consigliere -

UDIENZA PUBBLICA DEL 03/05/2016

SENTENZA N.ggq t Z(g

REGISTRO GENERALE N. 34594/2014

Dott. Dott. Dott. Dott. Dott.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

DI GIAMBATTISTA CARLO N. IL 16/02/1962 DI MARCO MARINA N. IL 11/10/1955 AURIOLES FERNANDO N. IL 09/08/1966 TUTINO MARIKA N. IL 13/05/1972

avverso la sentenza n. 3305/2012 CORTE APPELLO di TORINO, del 22/01/2014

visti gli atti, la sentenza e il ricorso udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/05/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO Udito il Procuratore Ggnerale izzsor del Dott. che ha concluso per „V(QA,UNU Gekg-A-remmtko

lAhtta 4511

Udito, per la parte civile, l'Avv zaalop,

Uc£t i difier2sor Avv. k2AWALL 0"t~ Aik 0..JUS61 Uve',

JJt cPitit e ,,,,,,Ifuguitik ?-bauz im.• Via Serbelloni, 1 | 20122 MILANO (MI) | [email protected] Direttore Responsabile Francesco Viganò | 2010-2016 Diritto Penale Contemporaneo

RITENUTO IN FATTO

1. In sèguito alla unificazione di due procedimenti il Tribunale di

Torino, con sentenza del 5/7/2011, giudicò Di Giambattista Carlo, Di Marco

Marina e Cardu Gabriele, accusati di avere per colpa causato la morte di

Spanò Adelina e Lo Bianco Carmela, pazienti ricoverate presso il reparto di

rianimazione e terapia intensiva della clinica Casa di Cura Villa Maria Pia, ove

avevano previamente subito trattamenti chirurgici, il primo nella qualità di

amministratore delegato e direttore sanitario ad interim, la seconda quale vice

direttore sanitario e l'ultimo, quale responsabile del predetto reparto.

La colpa era consistita nel non avere disposto adeguati protocolli,

misure di vigilanza, istruzioni, al fine di prevenire la diffusione di infezioni

nosocomiali nel reparto di terapia intensiva, tenuto in special conto delle

condizioni di profonda defedazione dei pazienti ivi ricoverati. Infezione, nella

specie da enterobacter erogenes, che dopo aver attinto Campanino Maria,

aveva investito anche la Spanò e la Lo Bianco, portandole tutte a morte per

shock settico.

Con la medesima sentenza il predetto Tribunale giudicò anche Aurioles

Fernando e Tutino Marika, accusati di avere per colpa causato la morte di

Campanino Maria, la quale, nonostante l'assenza di acuzie che rendesse

indifferibile l'intervento, era stata sottoposta, in data 7/11/2006, ad

intervento di neurochirurgia, per rimuovere una malformazione arterio-venosa

al cervello, senza il previo studio angiografico, atto a prevenire complicanze

emorragiche in soggetto affetto da cerebrovasculopatia cronica; di avere

erroneamente praticato l'intervento, operando su una parte diversa del

cervello, sicché la malformazione non veniva rimossa; di aver nuovamente

sottoposto la paziente a trattamento chirurgico appena due giorni dopo, a

causa del quale era sopraggiunta emorragia cerebrale, che aveva imposto altri

numerosi interventi invasivi e, peggiorate le condizioni della paziente, caduta

in corna profondo, era stato necessario disporne ricovero presso il reparto di

terapia intensiva, ove, poco tempo dopo decedeva per le conseguenze della

contratta infezione nosocomiale di cui si è detto.

Infine, quest'ultimi due imputati erano chiamati a rispondere del delitto

di cui all'art. 110, 479, cod. pen., perché nella loro qualità di medici chirurghi

in servizio presso la clinica sopra nomata, convenzionata col Servizio sanitario

nazionale, avevano falsamente attestato nel registro operatorio che la

craniotomia alla quale la Campanaro era stata sottoposta il 7/11/2006 era

stata eseguita da sinistra, contro il vero, essendo stata eseguita da destra.

Il Tribunale di Torino assolti gli imputati Di Giovambattista, Di Marco e

Cardu, limitatamente al decesso della Spanò, e la Tutino dal reato di cui

1

all'art. 479, cod. pen., nel resto affermò la penale responsabilità degli

imputati, esclusa l'aggravante di cui all'art. 589, comma 3, cod. pen.,

unificando sotto il vincolo della continuazione i reati addebitati all'Aurioles;

imputati condannati, in solido tra loro e col responsabile civile Villa Maria Pia

Hospital s.r.I., a risarcire i danni cagionati alle parti civili, da liquidarsi in

separato giudizio civile, ponendo ad immediato carico anticipazioni

provvisionali.

1.1. La Corte d'appello di Torino, con sentenza del 22/1/2014,

parzialmente riformando la sentenza di primo grado, nel resto confermata,

assolse Cardu Gabriele per non avere commesso il fatto, ridusse la pena

inflitta agli altri imputati e, dichiarò, infine <<che la condanna degli imputati

Tutino e Aurioles alla rifusione delle spese delle parti civili deve intendersi

pronunciata anche in solido con il responsabile civile Villa Maria Pia Hospital

s.r.l.»

2. Avverso la sentenza d'appello Aurioles Fernando, Tutino Marika, Di

Giambattista Carlo e Di Marco Marika ricorrono per cassazione.

Nell'interesse del Di Giambattista e della Di Marco risultano depositati

due ricorsi.

2.1. Con il primo, a firma dell'avv. Cesare Zaccone, viene prospettato,

con l'esposta unitaria censura, vizio motivazionale.

Secondo i ricorrenti la Corte di merito aveva sbrigativamente affermato

la penale responsabilità degli imputati senza tener conto dell'operato del

consulente tecnico del P.M. e della svolta istruttoria (audizione dei medici in

servizio presso il reparto di terapia intensiva), addirittura sostenendo che le

linee guida interne non prevedevano misure adeguate a fronteggiare

l'insorgere d'infezioni nosocomiali. Al contrario, non vi fu affatto

sottovalutazione o trascuratezza, essendosi adempiuto a precisi protocolli da

parte del personale addestrato ed esperto; i risultati dell'emocultura praticata

sul prelievo proveniente dalla Spanò era giunto in clinica il giorno 28/12,

quando oramai l'intervento sulla Lo Bianco era in corso e, comparso stato

febbrile il 29/12, era stato praticato prelievo per emocultura anche a costei.

2.2. Con il secondo ricorso, a firma dell'avv. Francesca Romano De

Vita, vengono illustrati due motivi.

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2.2.1. Con il primo motivo, denunziante vizio motivazionale, si

contesta la fondatezza dell'accusa di disorganizzazione della struttura, la

mancanza di protocolli, di misure di vigilanza e di adeguate istruzioni.

Il Giudice d'appello per giungere alle contestate conclusioni aveva

valorizzato le dichiarazioni delle persone offese, obliterando tutte le altre fonti

di prova di senso contrario. Tali le dichiarazioni rese dai periti Marchiaro e

Testi, dalle quali emergeva che i protocolli interni esistevano ed erano stati

rispettati, tanto che alla comparsa del cluster epidemico era stato allertato il

Comitato Infezioni Ospedaliere (CIO); non potendo, tuttavia, il pur scrupoloso

rispetto delle regole precauzionali eliminare il rischio delle infezioni

ospedaliere.

2.2.2. Con il successivo motivo, sempre denunziante vizio

motivazionale, il ricorso pone l'accento sul fatto che la sentenza non aveva

affrontato l'osservazione difensiva con la quale si era contestata la

conclusione peritale secondo la quale al momento del ricovero della Lo Bianco

si erano già manifestati due casi di infezione provocata dal medesimo germe.

Non si era, infatti, considerato che il germe che aveva infettato la Spanò era

divenuto noto solo il giorno successivo all'ingresso della Lo Bianco nel reparto

di terapia intensiva, dopo l'intervento cardiologico che le era stato praticato.

Non potevasi, poi, addebitare agli imputati, come aveva fatto la sentenza

d'appello, il ritardo con il quale era pervenuto il risultato dell'analisi

batteriologica sul prelievo ematico della Spanò, sia perché trattavasi di

addebito non contestato, sia perché non potevasi imputare ai due ricorrenti i

tempi di operatività del laboratorio esterno al quale la struttura aveva inviato i

reperti.

Infine, siccome evidenziato nelle linee guida allegate ai motivi

d'appello, all'apparire di una infezione nosocomiale non era logico rispondere

chiudendo i reparti, se non in casi estremi ed eccezionali. Per questa ragione

l'isolamento della prima paziente (la Campanaro) che aveva presentato i

sintomi infettivi in una stanza a parte del medesimo reparto dovevasi

considerare misura adeguata.

2.3. Nell'interesse di Tutino Marika risulta essere stato depositato

ricorso, a firma dell'avv. Alberto Ventrini, corredato da due motivi di

doglianza.

2.3.1. Con il primo motivo, denunziante violazione di legge, anche

sotto il profilo dell'apparenza della motivazione, vengono enucleati tre aspetti

censuratori.

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2.3.1.1. La Corte torinese si era limitata, senza alcuno sforzo di

autonomo ragionamento, a far propria la motivazione di primo grado. Aveva,

così, finito per non considerare che al momento dell'insorgenza dell'infezione

la paziente Campanaro era in fase di netto miglioramento neurologico, sicché,

come avevano scritto i consulenti del P.M. «se non fosse insorta la sepsi da

enterobacter ero genes con la successiva evoluzione, la vicenda clinica della

signora Campanaro in via di grandissima probabilità avrebbe avuto una

evoluzione favorevole>>. Conclusione quest'ultima inopinatamente smentita

dalla Corte d'appello. Era, poi, da escludere che l'intervento di neurochirurgia

al quale la paziente era stata sottoposta ne avesse procurato stato

d'immunodepressione (le conclusioni dei consulenti delle parti civili e dei periti

trovavano convincente smentita in quelle dei consulenti della difesa).

2.3.1.2. L'insorgenza della grave infezione doveva considerarsi evento

sopravvenuto idoneo ad escludere il nesso di causalità, fattore eccezionale che

aveva dato luogo «ad uno sviluppo causale del tutto indipendente dal

processo eziologico posto in essere dal comportamento dell'agente>>. Non

solo, come aveva affermato il perito dott. Testi «non può esistere una prova

che quei protocolli erano concretamente applicati dal personale>>, ma dalle

testimonianze acquisite era emersa la scarsa attenzione posta dal personale

sanitario al rispetto delle precauzioni igieniche del caso. Doveva, poi,

dissentirsi dalla qualificazione come endogena dell'infezione che aveva colpito

la Campanaro, sulla base di quanto dedotto dai consulenti del P.M. e da quello

della difesa, che sostenevano più probabile trattarsi di reinfezioni da parte

dello stesso germe circolante nel reparto, a cagione della mancata cura delle

precauzioni da contatto da parte del personale addetto.

2.3.1.3. L'imputata non era materialmente intervenuta sulla paziente

in entrambi gli accessi chirurgici, non aveva effettuato scelte pre e post

operatorie, essendo tutto ciò rimasto nell'esclusiva responsabilità del dott.

Aurioles. Il criterio da seguire in siffatta ipotesi di collaborazione era quello

dell'affidamento, che ne delimita la responsabilità solo ai compiti

effettivamente assegnati al professionista chiamato ad un compito di mera

assistenza. Né la ricorrente era stata in grado dì verificare il corretto

svolgimento dell'intervento, stante la ristrettezza della breccia operatoria e la

peculiarità dell'operazione.

Solo al fine di disattendere la subordinata richiesta di applicazione

dell'attenuante di cui all'art. 114, cod. pen., la Corte di Torino aveva

affrontato la tematica del ruolo svolto dalla Tutino.

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2.3.2. Con il secondo motivo, denunziante vizio motivazionale e

violazione di legge, si assume che i dottori Aurioles e Tutino dovevano essere

chiamati a rispondere delle sole lesioni personali procurate con l'erroneo

intervento chirurgico, stante che la morte era stata causata da un fattore

eccezionale sopravvenuto.

2.3.3. Con il terzo ed ultimo motivo, sempre denunziante vizio

motivazionale e violazione di legge, in ordine al mancato riconoscimento della

diminuente di cui all'art. 114, cod. pen.

La Corte d'appello aveva mal valutato il ruolo di secondo operatore

ricoperto dall'imputata attraverso motivazione sbrigativa ed erronea. Al più

potevasi a lei contestare un omesso o negligente controllo dell'operato del

dott. Aurioles, tale da aver potuto contribuire solo in via minimale all'evento.

2.4. Deve, infine, registrarsi il ricorso, a firma dell'avv. Francesca

Romana de Vita, depositato nell'interesse degli imputati Aurioles e Tutino,

corredato da due motivi di censura.

2.4.1. Con il primo motivo i ricorrenti allegano violazione di legge e

vizio motivazionale in quanto la sentenza, invece che prendere in analitica

rassegna i motivi d'appello, aveva sommariamente aderito alla decisione di

primo grado, senza neppure tenere conto delle risultanze istruttorie. Da esse

era emerso che la paziente prima del sopraggiungere dell'infezione era in fase

di ripresa neurologica e che, pertanto, la causa della morte, indipendente

dall'errore chirurgico, aveva interrotto il nesso di causalità, con la

conseguenza che ai due imputati avrebbe potuto essere contestato solo il

reato di cui all'art. 590, cod. pen.

2.4.2. Con il successivo motivo, denunziante i medesimi vizi, il ricorso

contesta la statuizione di condanna (evidentemente per il solo Aurioles) in

ordine al delitto di cui all'art. 479, cod. pen.

I Giudici d'appello non avevano tenuto conto della deposizione del dott.

Boccardi Alessandro, medico radiologo, il quale aveva refertato la TAC della

paziente Campanaro. Se si fosse posta la dovuta attenzione a tale escussione

si sarebbe dovuto concludere che l'intervento chirurgico «era iniziato da

sinistra verso destra e che la craniotomia (cioè l'apertura della breccia ossea,

successiva all'incisione ed allo scollamento della cute) era invece paramediana

e paramediana destra>>. Se a ciò si aggiunge che il referto della TAC non era

stato affatto nascosto avrebbe dovuto concludersi «al più per un errore in

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cui è incorso il dott. Aurioles nel compilare il verbale operatorio, non

mancando di rilevare che l'inizio dell'operazione era stato eseguito

correttamente da sinistra verso destra e che la craniotomia, anche se ha

oltrepassato la linea mediana verso destra, comunque riguardava la

prosecuzione di un intervento iniziato da sinistra e non da destra».

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Va osservato che dopo la sentenza di secondo grado è venuto a

maturare il termine massimo prescrizionale previsto dalla legge per i reati

contestati, in relazione ad un quadro impugnatorio che non appare

inammissibile, in quanto i proposti motivi (almeno in parte non inammissibili)

sibbene, come si vedrà, avuto riguardo alle statuizioni civili, non meritevoli di

accoglimento, tuttavia, legittimamente radicano il giudizio di cassazione e,

quindi, s'impone la declaratoria estintiva agli effetti penali.

La violazione di cui all'art. 479, cod. pen. risale al 7/11/2006 e l'ultimo

degli omicidi colposi si è consumato il 21/2/2007, pertanto, in base al connb.

disp. degli artt. 157 e 160, cod. pen. (anche nella nuova formulazione

derivante dall'intervento normativo operato con la I. 5/12/2005, n. 251) i reati

sono venuti a prescrizione dopo la sentenza d'appello, trascorsi sette anni e

sei mesi.

4. L'esame dei motivi, sia pure condotto allo scopo di statuire sugli

interessi civili, che, come noto, non può prescindere dal quadro valutativo

penale (questa Corte resta investita ex novo, sia pure ai soli effetti civili, della

cognizione del giudizio penale, dovendo delibare sulla responsabilità degli

imputati, e, ove li ritenga colpevoli, decidere sulle domande civili), fa

escludere, per forza di cose, l'emergere di un quadro dal quale possa trarsi

ragionevole convincimento dell'evidente innocenza degli imputati.

Sul punto univoche si mostrano le valutazioni di legittimità.

In tema di declaratoria di cause di non punibilità nel merito in concorso

con cause estintive del reato, il concetto di «evidenza» dell'innocenza

dell'imputato o dell'indagato presuppone la manifestazione di una verità

processuale chiara, palese ed oggettiva, tale da consistere in un quid pluris

rispetto agli elementi probatori richiesti in caso dì assoluzione con formula

ampia (Cass. 19/7/2011, n. 36064).

Il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129 c.p.p.

quando le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la

commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale

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emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile (Cass. 14/11/2012,

n. 48642).

Ovviamente, è appena il caso di soggiungere che permanendo gli

effetti della costituzione di parte civile, salvi gli accordi interni tra le parti, la

pronuncia sulle statuizioni civili non è eludibile.

5. Nessuna delle prospettazioni censuratorie dei ricorrenti è condivisa

dal Collegio.

5.1. Le critiche mosse da Di Giambattista Carlo e Di Marco Marina con i

due ricorsi depositati nel loro interesse pretendono di affermarne la non

rimproverabilità penale sulla base di prospettazione formalistica che non

scalfisce il peso delle prove a carico.

Se, infatti, per un verso, non assume rilievo la circostanza che fossero

state predisposte linee guida, astrattamente funzionali ad impedire l'insorgere

ed il propagarsi d'infezioni nosocomiali, a fronte della concreta inadeguata

predisposizione di mezzi di prevenzione e di bonificazione (la Corte di merito

ha evidenziato la scarsa cura per l'igiene e per il mantenimento di sterilità

delle persone e degli ambienti, non solo testimoniata dai congiunti delle

vittime, ma riscontrata dalla ASL); per altro verso, gravemente imprudente è

risultata la protratta inattività, a fronte dell'irrompere dell'infezione, che ha

rinviato l'unico strumento veramente efficace, costituito dalla chiusura e

radicale disinfezione del reparto di terapia intensiva.

Emblematica la triste sequenzialità evidenziata dalla sentenza gravata.

La paziente Campanino Maria, ricoverata, dopo aver subito duplice intervento

di neurochirurgia al cervello, che l'aveva posta in condizioni di coma profondo,

presso l'unità di terapia intensiva della clinica dal 9/11/2006, presentati segni

d'infezione, il 15/11/2006 era stata sottoposta a prelievo ematico e spostata

in isolamento in altra stanza del reparto; il referto, giunto il 19 successivo,

aveva individuato il germe enterobacter erogene, che l'avrebbe portata a

morte per shock settico il 21/2/2007. Lo stesso giorno 19 venne ricoverata nel

medesimo reparto di terapia intensiva la paziente Spanò Adelina, reduce da

un intervento cardiochirurgico, che manifestò rapidamente gli stessi sintomi

della Campanino. Effettuato, il giorno successivo, anche alla Spanò prelievo

ematologico, il referto delle analisi, che comprovava la nnedesimezza del

ceppo batterico, acquisita anche attraverso la verifica del batteriogramma,

perveniva solo giorno 28 (la paziente sarebbe deceduta, sempre per

setticemia, 1'8/1/2007). Il giorno prima era stata ricoverata nel medesimo

reparto di terapia intensiva Lo Bianco Carmela, reduce anch'essa da un

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intervento di cardiochirurgia, la quale, immediatamente presentò i segni

dell'infezione e decedette sempre per la stessa causa il 18/1/2007.

E' piuttosto evidente che, anche a considerare non percepibile

l'insorgenza dell'infezione nosocomiale ai primi sintomi manifestati dalla

Campanino, ponendoli in relazione con quelli, peraltro sovrapponibili,

riscontrati nella seconda ricoverata presso quel reparto (gli imputati vennero

assolti a riguardo della morte della Spanò, seconda ricoverata sul presupposto

che avrebbero potuto non rendersi incolpevolmente conto della gravità della

situazione), l'ipotizzabilità di un tale situazione era ben ricavabile dal tipo di

batterio isolato (siccome rileva la sentenza si tratta di germe opportunista,

capace di colonizzare ambienti ospedalieri), dal tipo di reparto interessato, il

quale è chiamato ad ospitare pazienti gravemente defedati ed

immunodepressi e dall'emblematico susseguirsi delle manifestazioni infettive,

aventi le stesse caratteristiche.

Non meno gravemente colpevole deve ritenersi, inoltre, la importante

carenza organizzativa costituita dall'assenza di un proprio laboratorio di

analisi, nonostante l'impegnativa attività chirurgica praticata all'interno della

struttura e l'affidamento dei campioni ad un laboratorio esterno, gestito da

terzi, senza assicurarsi e pretendere che i referti urgenti giungessero nel

tempo necessario minimo ed indispensabile all'espletamento delle analisi. Una

tale carenza non costituisce affatto un addebito nuovo e ancor meno

l'addebito del fatto del terzo. Esattamente al contrario, rappresenta

l'epifenomeno della intollerabile trascuratezza con la quale veniva gestita ed

organizzata l'attività della clinica.

L'aver voluto disporre il collocamento della Lo Bianco in quel reparto di

terapia intensiva, dopo la sottoposizione alla delicata operazione al cuore,

integra senz'altro una intollerabile leggerezza, i cui rischi erano agevolmente

percepibili, dopo che in quel nefasto reparto si erano gravemente infettate,

con la medesima sintomatologia, già due pazienti ed essendo già certo

(almeno per la prima) che la natura del batterio isolato era per lo meno

compatibile con un fenomeno epidemico nosocomiale. Né può affermarsi in

contrario che una tale situazione era divenuta palese sol quando la Lo Bianco

si trovava già sul tavolo chirurgico, in quanto il batterio in discorso era stato

individuato il 19/12/2006. In ogni caso, a tutto concedere, si sarebbe ben

potuto ovviare predisponendo il ricovero della Lo Bianco presso unità di

terapia intensiva di altro presidio, se del caso, ospedaliero. Condotte, queste,

che sarebbero state sicuramente salvifiche.

5.2. Non meritano di essere accolte neppure le tre censure di Tutino

Marika di cui al ricorso a firma dell'avv. Alberto Ventrini.

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5.2.1. Quanto al primo profilo del primo motivo, con il quale la

ricorrente nega la sussistenza del nesso eziologico, assumendo che il decesso

era stato procurato da «uno sviluppo del tutto indipendente dal processo

eziologico posto in essere dal comportamento dell'agente», devesi osservare

che un tal ragionamento ignora il contenuto precettivo della nozione di

causalità accolta dal nostro codice penale all'art. 41, co. 1, il quale predica

l'indifferenza causale del concorso di «cause» sopravvenute, oltre che

simultanee, in quando il rimprovero penale colpisce il soggetto che abbia dato

l'avvio con la sua azione od omissione, anche con il concorrere e l'intrecciarsi

successivo di altri fattori favorenti o predisponenti (che, ovviamente, da un

punto di vista epistemologico, costituiscono non meno di concause), alla

consequenzialità determinante l'evento. Salvo a constatare che le «cause

sopravvenute» siano state tali da potersi affermare che da sole abbiano

determinato l'evento (art. 40, cit., co. 2).

Cioè, come si ritiene abbastanza pacificamente, si deve trattare di

fattori sopravvenuti, anche consistenti nel fatto illecito altrui (art. 41, co. 3,

cod. pen.), che, per la loro eccezionalità, da porsi in relazione alle categorie di

eventi ipotizzabili, debbano considerarsi, seppure a costo di una qualche

forzatura logica (prezzo pagato all'apprezzabile fine di circoscrivere alla

prevedibilità umana la rimproverabilità penale), causa sufficiente, così da far

attribuire ad essi la paternità dell'evento. Sono noti gli esempi scolastici che si

sogliono fare (il fulmine che colpisce l'ospedale ed uccide la vittima di lesioni,

ivi ricoverata per la cura; l'incidente stradale dell'ambulanza che trasporta il

ferito, ecc.).

Sono cause sopravvenute o preesistenti, da sole sufficienti a

determinare l'evento, quelle del tutto indipendenti dalla condotta

dell'imputato, sicché non possono essere considerate tali quelle che abbiano

causato l'evento in sinergia con la condotta dell'imputato, atteso che, venendo

a mancare una delle due, l'evento non si sarebbe verificato (cfr. Cass., Sez. 5,

n. 11954 del 26/01/2010, dep. 26/03/2010,Rv. 246549).

Il Collegio condivide l'indicazione, maturata in sede di legittimità,

secondo la quale ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del

nesso causale tra condotta ed evento, il concetto di causa sopravvenuta da

sola sufficiente a determinare l'evento si riferisce non solo al caso di un

processo causale del tutto autonomo, ma anche a quello di un processo non

completamente avulso dall'antecedente, e però caratterizzato da un percorso

causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed

eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto

imprevedibili a seguito della causa presupposta (Sez. 2 n.

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17804 del 18/03/2015, dep. 29/04/2015, Rv. 263581). Indicazione, che nello

specifico settore della responsabilità per colpa nell'esercizio dell'arte medica

ha trovato precisazione ulteriore in un arresto di legittimità incentrato sul

punto (Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015, dep. 28/07/2015, Rv. 264365), nel

senso che è configurabile l'interruzione del nesso causale tra condotta ed

evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e

incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato

dalla prima condotta.

E' ben evidente che le emergenze processuali offrono un quadro che

non consente in alcun modo di ritenere che la morte della paziente sia da

ritenersi dipesa in via esclusiva dalla male gestio dell'infezione nosocomiale.

Quest'ultima, infatti, non costituisce un fattore causale atipico ed eccezionale,

trattandosi, anzi di uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto in caso

di non brevi permanenze presso i reparti di terapia intensiva, ove lo sviluppo

di processi infettivi e tutt'altro che infrequente, in ragione delle condizioni di

grave defedazione fisica dei pazienti, del loro stato di immobilità. A voler

utilizzare i parametri ricognitori di cui alla sentenza da ultimo citata, non si

rinviene l'innesco di un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo

rispetto all'originario.

La possibilità di andare incontro ad infezioni nosocomiali, o, a maggior

ragione, endogene, al contrario, era del tutto prevedibile, avuto riguardo alle

competenze sanitarie minime che possano pretendersi da un medico, tenuto

conto delle condizioni di profondo degrado fisico, defedazione ed

immunodeficienza nelle quali era stata ridotta la paziente, a seguito dello

sciagurato duplice erroneo intervento chirurgico al cervello (l'errore, almeno

questo, non è negato dalla Tutino e, per vero, neppure dall'Aurioles), che

l'avevano costretta, in stato tetraplegico flaccido e coma profondo, ad un

lungo ricovero in terapia intensiva (dal 9/11/2006 al 21/2/2007, quando la

stessa venne a morte per shock settico).

Con argomenti, pienamente convincenti, in questa sede non

censurabili, in quanto, peraltro, fondati sul ragionato vaglio dei diversi ed

anche contrastanti apporti di periti e consulenti, la Corte di merito, dopo aver

evidenziato l'inopportunità dell'intervento chirurgico a teca cranica aperta,

essendo disponibili tecniche enormemente meno invasive (radiologia

interventista), nonché l'insussistenza di ragioni d'urgenza tali da giustificare il

precipitare in una tale impegnativa operazione, ha puntualmente

stigmatizzato il grossolano errore chirurgico, che aveva portato, ad operare il

lobo parietale sano,e, ancor più, la precipitosa decisione di sottoporre la

paziente, senza aspettare che la stessa riprendesse le forze e senza farlo

precedere da un accurato studio angiografico, ad un nuovo, e questa volta

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definitivamente devastante, intervento al cervello, che era stato causa di una

massiva emorragia intracranica.

Né appare logico contraddire il ragionamento della Corte di merito

laddove evidenzia che la paziente, ridotta in corna profondo (gli asseriti segni

di miglioramento, peraltro contrastati dall'opinione della anestesista, a tutto

concedere, rappresentavano solo tenui aspettative per un futuro non

prossimo), era stata posta in condizioni di essere vittima di una infezione, che

nelle sue condizioni era prevedibile potesse avere attecchimento ed epilogo

infausto, in quanto costretta, nelle condizioni fisiche che si son viste, ad un

lungo ricovero presso l'unità di terapia intensiva.

5.2.1.1. Non ha fondamento l'ultimo profilo di censura di cui al

predetto primo motivo, con il quale la ricorrente nega la propria

responsabilità, in quanto si era limitata, nella qualità di aiuto, ad assistere

l'Aurioles, secondo il criterio dell'affidamento.

Vero che il capo dell'equipe operatoria è titolare di una qualificata

posizione di garanzia nei confronti del paziente, in ragione della quale è

tenuto a dirigere e a coordinare l'attività svolta dagli altri medici, sia pure

specialisti in altre discipline, controllandone la correttezza e ponendo rimedio,

ove necessario, ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali o comunque

rientranti nella sua sfera di conoscenza e, come tali, siano emendabili con

l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (cfr.,

Cass., Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015, dep. 28/07/2015, Rv. 264366).

Tuttavia, deve considerarsi negligente il comportamento del chirurgo il quale,

posto in posizione di subordinazione rispetto ad altro medico componente la

medesima equipe, si fidi acriticamente delle scelte operate da quest'ultimo,

pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l'erroneità

(Cass., Sez. 4, n. 35953 del 15/05/2014, dep. 19/08/2014, Rv. 260165).

Deve condividersi il rimprovero mosso dai giudici del merito, anche ad

accettare la fornita versione l'imputata aveva «dato un contributo colposo

accettando l'approccio chirurgico senza esigere un preventivo studio

angiografico>>. Non può l'imputata, professionista munita della medesima

specializzazione dell'operatore principale trincerarsi dietro l'affidamento,

essendo del tutto evidente che ben rientrava nelle sue competenze rendersi

conto della necessità di un tale accertamento diagnostico preventivo, ben

potendo prevedere che, in difetto, le conseguenze avrebbero potuto essere

tragiche. Inoltre, aveva omesso di vigilare sul corretto posizionamento della

paziente, così da evitare che si procedesse ad intervenire su una parte del

cervello non interessato dalla patologia (anche in tal caso trattasi di compiti

doverosi che dalla Tutino era da attendersi, proprio perché specializzata in

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neurochirurgia). Senza contare che, nel complesso, non vigilò con

adeguatezza sul complessivo corretto svolgimento dei due interventi.

Come già si è anticipato non si contesta all'imputata di non essersi

sostituita tout court al primo chirurgo, o di non aver dato mostra di

competenze di settore a lei ignote, ma assai più ragionevolmente di essere

venuta meno ai compiti che le erano propri quale neurochirurgo e secondo

operatore. Il medico componente della équipe chirurgica in posizione di

secondo operatore che non condivide le scelte del primario adottate nel corso

dell'intervento operatorio, ha l'obbligo, per esimersi da responsabilità, di

manifestare espressamente il proprio dissenso, senza che tuttavia siano

necessarie particolari forme di esternazione dello stesso (Cass., Sez. 3,

n. 43828 del 29/09/2015, dep. 30/10/2015, Rv. 265260).

Costituisce solo un argomento banalmente giustificativo aver affermato

che le dimensioni ridotte della breccia operatoria non le aveva consentito di

seguire l'intervento. Il rilievo che l'apertura cranica possa apparire ristretta

potrebbe essere comprensibile solo se proveniente da un soggetto che non

sia medico e, per giunta specializzato in neurochirurgia, in quanto, invece,

sicuramente adeguata a consentire non solo l'inserimento degli strumenti

operatori del caso, ma, ovviamente, anche una adeguata ispezione. Peraltro,

in difetto, verrebbe da chiedersi cosa ci stia a fare il secondo operatore, se

totalmente oscurato il campo operatorio dal primo, non sia in grado di

collaborarlo in un intervento, peraltro, di assai lunga durata (uno dieci e l'altro

undici ore), che richiede, anche solo per ragioni fisiologiche, un certo

avvicendamento.

5.2.1.2. Il secondo motivo, in realtà costituente appendice dei primi

due profili di doglianza di cui al primo motivo, non può che seguire lo stesso

destino di questi, in quanto, come si è visto, deve escludersi il sopraggiungere

di un fattore eccezionale.

5.2.1.3. Il terzo motivo, con il quale la ricorrente rivendica l'attenuante

di cui all'art. 114, cod. pen., è assorbito dall'epilogo.

5.3. Non merita miglior fortuna il ricorso a firma dell'avv. Francesca

Romana De Vita, proposto nell'interesse dell'Aurioles e della Tutino.

5.3.1. Al primo motivo, diretto a contestare il nesso di causalità, già si

è già risposto.

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ppe Gras o)

CORTE SUPREMA DI CASWAGIA IV Sezione Penale

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

21 GIU, 2916 1:9-A

L ICA ERE Paid Lesumnoompeih

IV" i

5.4. Il secondo motivo, con il quale l'Aurioles assume l'insussistenza

del delitto di falso, non conclama l'evidenza d'innocenza, perché lo stesso

meriti una pronuncia assolutoria di merito, essendo basato, nella migliore

della ipotesi, su una ricostruzione ipotetica, che relega la difformità

dell'annotazione sul verbale operatorio ad un errore, per nulla

incontrovertibile allo stato degli atti.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché i 'riti

sono estinti per prescrizione. Rigetta i ricorsi agli effetti civili.

Così deciso in Roma il 3 maggio 2016.

Il liere estensore Il Pr idente

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