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32 | | 16 maggio 2013 S i fa presto a dire: gli iscritti del Pd stracciano la tessera. A Roma non si può fare nep- pure quello: arrivati a quasi metà anno il tesseramento non è neppure cominciato, nei circoli le tessere non so- no state ancora distribuite. Perfino un neo-iscritto di peso, l’ex ministro Fabri- zio Barca, si è dovuto accontentare di un documento provvisorio: «Mi hanno dato una fotocopia a colori», racconta. È quel che resta del Pd dopo il suicidio collettivo nell’aula di Montecitorio al momento di eleggere il capo dello Stato e dopo le larghe intese, il governo in tandem con Silvio Berlusconi. L’8 settembre: Pierluigi Bersani dimissionario, la difficoltà di trovare un segretario-reggente che porti il partito al congresso. E in periferia uffi- ciali in rotta, rese dei conti sanguinose, la base infuriata, le sezioni occupate, i capi della rivolta che provano a conquistare posizioni. Mentre gli uomini di Matteo Renzi, per la prima volta, danno vita a un network nazionale, un partito nel partito: la prima a nascere è stata l’associazione “Adesso Vicenza”, ne seguiranno altre. “Adesso”, perché in realtà il momento del sindaco si è allontanato e bisogna attrez- zarsi a una marcia più lunga del previsto. Ecco la mappa della disgregazione del Pd dal Piemonte alla Sicilia. E i possibili lea- der del futuro Pd. Sempre che esista. Primo Piano SINISTRA NEL CAOS / LA RIVOLTA Protesta diffusa. Sedi occupate. Scontro tra i big. Da nord a sud, la mappa di faide e lotte di corrente che rischiano di dissolvere i Dem. DI TOMMASO CERNO E MARCO DAMILANO QUI COMO La sede del Pd occupata e la base in rivolta QUI VARESE I giovani Dem contestano le decisioni dei vertici Ogni Pd ha l 16 maggio 2013 | | 33 BRIANZA RIBELLE Per gli ex bersaniani doc sono i «due dissidenti brianzoli». Pippo Civati e Lucre- zia Ricchiuti, due enfant diventati grandi , scegliendo di non votare la fiducia al governo di Enrico Letta. Due che, lontano dalla Brianza, collezionano critiche e amarezze, ma quando tornano a casa fanno il pieno. Prendete il 2 maggio all’Urban Center di Monza. Convegno da cento posti, fossimo stati in era bersania- na. Una rivolta, con tanto di vigili urbani, in tempi di guerre dem. Mille ribelli con- tro il “partito traditore”. E gli agenti del Comune guidato dall’amico di Civati, Roberto Scanagatti, che chiedono di spo- starsi altrove. In una sala più grande. Ecco che l’incontro promosso dal segre- tario di Monza Alessandro Mitola, quello che ha scritto agli elettori chiedendo scusa per l’inciucio col Cavaliere, diventa simbolo della rottamazione lombarda in atto. Con correnti che si sfidano. E casac- che che cambiano. Mitola è oggi il grande oppositore di colui che era l’uomo forte, imbattibile, del Pd: il segretario lombar- do, Maurizio Martina. Quello che la base definisce “grande sconfitto”. Quello che aveva giurato che mai sarebbe anda- to a Roma. E che ha invece accettato il posto di sottosegretario offerto da Letta. Da Roma l’ordine è di anestetizzare le rivolte, in attesa del congresso. Ma le ri- volte sono troppe. Tanti piccoli focolai da Bergamo a Varese, da Mantova a Cremo- na. E ancora Brescia, Sondrio e Lodi. Deputati regionali che da renziani sfega- tati ora stanno con Letta. Come Alessan- dro Alfieri , capogruppo al Pirellone, all’improvviso mite con l’ex rivale Mar- tina: «La nomina è il riconoscimento dell’impegno profuso». Pure a Milano il clima s’è surriscaldato. Basti pensare che, quando la notizia del governo col Cavaliere è arrivata al vertice provinciale dei Dem, s’è alzato uno stri- scione: “Mai col Pdl”. E, tempo pochi istanti, metà sala era in piedi ad applau- dire. Fra tanti mugugni anonimi, poi, il segretario milanese Roberto Cornelli ha preso invece le distanze da Letta in QUI MONTEBELLUNA Delusione nel feudo della Puppato per l’intesa col Cav Foto: Ansa (2), D. Maccagnan a sua guerra

Inchiesta senza senso de L'Espresso sul Partito Democratico

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Si fa presto a dire: gli iscritti del Pd stracciano la tessera. A Roma non si può fare nep-pure quello: arrivati a quasi metà anno il tesseramento non è neppure cominciato, nei circoli le tessere non so-

no state ancora distribuite. Perfino un neo-iscritto di peso, l’ex ministro Fabri-zio Barca, si è dovuto accontentare di un documento provvisorio: «Mi hanno dato una fotocopia a colori», racconta. È quel che resta del Pd dopo il suicidio collettivo nell’aula di Montecitorio al momento di eleggere il capo dello Stato e dopo le larghe intese, il governo in tandem con Silvio Berlusconi. L’8 settembre: Pierluigi

Bersani dimissionario, la difficoltà di trovare un segretario-reggente che porti il partito al congresso. E in periferia uffi-ciali in rotta, rese dei conti sanguinose, la base infuriata, le sezioni occupate, i capi della rivolta che provano a conquistare posizioni. Mentre gli uomini di Matteo Renzi, per la prima volta, danno vita a un network nazionale, un partito nel partito: la prima a nascere è stata l’associazione “Adesso Vicenza”, ne seguiranno altre. “Adesso”, perché in realtà il momento del sindaco si è allontanato e bisogna attrez-zarsi a una marcia più lunga del previsto. Ecco la mappa della disgregazione del Pd dal Piemonte alla Sicilia. E i possibili lea-der del futuro Pd. Sempre che esista.

Primo Piano sinistra nel caos / la rivolta

Protesta diffusa. Sedi occupate.

Scontro tra i big. Da nord a sud, la mappa di faide e lotte di corrente che rischiano di

dissolvere i Dem.Di TOMMASO CERNO E MARCO DAMiLANO

QUi COMO La sede del Pd occupata

e la base in rivolta

QUi VARESEi giovani Dem contestano le decisioni dei vertici

Ogni Pd ha la sua guerra

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brianza ribELLEPer gli ex bersaniani doc sono i «due dissidenti brianzoli». Pippo Civati e Lucre-zia Ricchiuti, due enfant diventati grandi , scegliendo di non votare la fiducia al governo di Enrico Letta. Due che, lontano dalla Brianza, collezionano critiche e amarezze, ma quando tornano a casa fanno il pieno. Prendete il 2 maggio all’Urban Center di Monza. Convegno da cento posti, fossimo stati in era bersania-na. Una rivolta, con tanto di vigili urbani, in tempi di guerre dem. Mille ribelli con-tro il “partito traditore”. E gli agenti del Comune guidato dall’amico di Civati, Roberto Scanagatti, che chiedono di spo-starsi altrove. In una sala più grande.

Ecco che l’incontro promosso dal segre-tario di Monza Alessandro Mitola, quello che ha scritto agli elettori chiedendo scusa per l’inciucio col Cavaliere, diventa simbolo della rottamazione lombarda in atto. Con correnti che si sfidano. E casac-che che cambiano. Mitola è oggi il grande oppositore di colui che era l’uomo forte, imbattibile, del Pd: il segretario lombar-do, Maurizio Martina. Quello che la base definisce “grande sconfitto”. Quello che aveva giurato che mai sarebbe anda-to a Roma. E che ha invece accettato il posto di sottosegretario offerto da Letta.

Da Roma l’ordine è di anestetizzare le rivolte, in attesa del congresso. Ma le ri-volte sono troppe. Tanti piccoli focolai da

Bergamo a Varese, da Mantova a Cremo-na. E ancora Brescia, Sondrio e Lodi. Deputati regionali che da renziani sfega-tati ora stanno con Letta. Come Alessan-dro Alfieri, capogruppo al Pirellone, all’improvviso mite con l’ex rivale Mar-tina: «La nomina è il riconoscimento dell’impegno profuso».

Pure a Milano il clima s’è surriscaldato. Basti pensare che, quando la notizia del governo col Cavaliere è arrivata al vertice provinciale dei Dem, s’è alzato uno stri-scione: “Mai col Pdl”. E, tempo pochi istanti, metà sala era in piedi ad applau-dire. Fra tanti mugugni anonimi, poi, il segretario milanese Roberto Cornelli ha preso invece le distanze da Letta in

QUI MontebeLLUnADelusione nel feudo della Puppato per l’intesa col Cav

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Primo Piano

pubblico. Beccandosi gli attacchi di quel-li che fino a poco prima invocavano Ro-dotà presidente. O gridavano al tradi-mento contro l’affossamento di Prodi. Come Emanuele Fiano che fa di necessità virtù: «L’alternativa a questo governo sarebbe un disastro per tutti gli italiani».

UNA MOLE DI GUAISotto la Mole, invece, le dimissioni del segretario piemontese del Pd Gianfranco Morgando e del leader torinese, la deputa-ta Paola Bragantini, sono arrivate dopo “l’oltraggio” di Letta: nessun piemontese nella squadra. Almeno del Pd. E così s’è rotto il vaso, già stracolmo di divisioni e malcontento, che nelle ultime settimane, complici le vicende nazionali, si sono manifestati con i movimenti OccupyPd e Pallacorda. I focolai di una protesta che punta a prendersi i vertici del partito contro “l’ancien régime sabaudo”. Gli aderenti alla “rivolta della Pallacorda”, di sapore rivoluzionario francese, si sono autoconvocati dopo la rielezione di Na-politano. E a guidarli con sempre maggior seguito di truppe sono in quattro, finora semisconosciuti: Fabio Malagnino, Matteo Franceschini Beghini, Davide Ricca e Diego Sarno. Ora sono forti. Una corrente peri-colosa perché, ripetono gli ispiratori, «al nostro interno ci sono iscritti con storie molto diverse, dall’ex Pds ai nuovi dem». Al fianco dei rivoluzionari, c’è pure la nuova Resistenza democratica, con tanto di pagina Facebook. È la vecchia guardia, nonni con i nipoti, quelli che a Torino hanno sospeso il servizio d’ordine il pri-mo maggio per protesta: «I dirigenti non hanno più la nostra fiducia», dice Diego Simioli. Volto conosciuto del Pci torinese. Che ora sta con i giovani.

ZUFFE MARE E MONTINella piccola Val D’Aosta hanno un problema in più. Alle regionali di fine maggio rischiano il flop per colpa del caos romano. Proprio lassù, dove si aspet-tavano il traino della vittoria alle politi-che. Il leader valdostano del Pd, Raimondo Donzel, è sulle barricate. E per proteggere le Alpi da Annibale e dagli elefanti della dirigenza romana tenta di camuffarsi con le alleanze sulla scheda elettorale: «Sono un giapponese, a corto di munizioni, su un’isola del Pacifico», dice: «Ci presen-tiamo assieme ad Alpe e all’Union Valdo-

taine Progressiste. Ma è già una vittoria riuscire ad andare al ballottaggio». Dai monti al mare, in Liguria la battaglia parte da Savona. Dove c’è il fulcro dello scontro. Da una parte il coordinatore di Savona, Claudio Strinati, renziano, vuole mandare tutti i casa: «Dopo Bersani, bi-sogna azzerare le segretarie locali, pro-vinciali e regionali», proclama. Dall’altra parte il “suo” sindaco, Federico Berruti, renziano pure lui, dice di no e getta acqua sul fuoco, in un’inedita alleanza con Lo-renzo Basso, segretario del Pd ligure e non certo rottamatore. Ma il clima è rovente.

C’ERA UNA VOLTA L’EMILIAAddio al “Tortello magico”, come chia-mavano il triumvirato del re Pierluigi: Maurizio Migliavacca, Miro Fiammen-ghi e soprattutto Vasco Errani. E addio Emilia bersaniana. A partire dalla prima testa che cadrà nella terra rossa e sacra, quella del segretario, Stefano Bonaccini. C’è chi lo dà già sindaco di Modena,

altri lo vedono pronto per Roma in caso di nuove elezioni. Fatto sta che la sua defenestrazione, impensabile fino a po-che settimane fa, segna la fine del regno di Bersani nella sua Emilia. E per capire quanto la geografia nella roccaforte dell’ex Pci stia mutando, basta pensare che al posto dell’ortodosso Bonaccini potrebbe finire un dissidente, o così era fino a qualche giorno fa, come Paolo Calvano, segretario ferrarese, rottamato-re di professione. Una rivoluzione di ottobre, data del congresso, che vede schierati nelle trincee i vecchi dirigenti emiliani, depositari fino alla caduta di Bersani della Torah piddina. Ce l’hanno con la “rimozione collettiva” del caso di Franco Marini, abbattuto dai franchi tiratori sulla via del Colle. Vogliono fare autocritica, come ai vecchi tempi. Ma trovano la diga renziana. Al punto che i compagni sono pronti a diventare segua-ci di Letta pur di non capitolare al sin-daco, a caccia di una mediazione del

DA SINISTRA MATTEO RENZI, FABRIZIO BARCA E NICOLA ZINGARETTI

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ministro Graziano Delrio, più forte do-po l’ingresso nel governo. Cresce anche il potere di Matteo Ricchetti, il più vota-to alle primarie a Modena, eletto mister Parlamento, e volto sempre più presente nei salotti tv, il capofila dei renziani a Montecitorio. Un puzzle che rischia, come primo effetto, di far saltare Errani, l’intoccabile governatore in corsa prima delle elezioni per la vicepremiership. E ora sempre più debole.

DUE NORD-EST«Uno spritz in piazza?». A guardarla da Padova, sembra tutto come prima. Flavio Zanonato gira per la città come fosse ancora il sindaco. Prende in braccio la nipotina e schiva la scorta, che gli ha appioppato il ministero dopo gli spari di piazza Colonna. Eppure è quello l’epicen-tro del terremoto veneto. Quel signore che, all’improvviso, è diventato l’uomo Pd più forte, unico esponente del Nord-est al governo, fedelissimo bersaniano e pure nella manica di Letta. La sua nomi-na ha fatto da estintore al dissenso della

base. Tanto che i giovani di OccupyPd hanno liberato la sede, i renziani hanno applaudito parlando di «profilo autore-vole» e mancavano solo le campane. Gli ha votato la fiducia pure Laura Puppato, titolare di omonima corrente. E pensare che pochi giorni prima proprio Laura, impegnata a convincere Casaleggio dei buoni propositi anti-Tav dei democratici, aveva avuto uno scontro al vetriolo con Zanonato: «Piccolo gerarca», gli aveva detto. E lui: «Melliflua e col buon senso di una massaia». Ma dopo la chiamata al governo la signora Laura s’è calmata. E in Veneto s’è ridisegnata la mappa del potere. Salgono i lettiani, come la segre-taria regionale Rosanna Filippin, senatrice di Bassano del Grappa, il padovano Fede-rico Ossari e il veronese Gianni Dal Moro, capo della segreteria politica di Letta. Ogni capobastone ha il suo referente: a Venezia c’è Andrea Martella, coordinatore della segreteria di Veltroni; per France-schini c’è il sottosegretario Pierpaolo Baretta; mentre Rosy Bindi si affida alla padovana Margherita Miotto. In pace

forzata i renziani, tutti sindaci che hanno messo in piedi l’associazione “Adesso!”: Achille Variati a Vicenza, Jacopo Massaro a Belluno e Roger De Menech a Ponte nelle Alpi.

Nel vicino Friuli tira un’aria diversa. La vittoria di Debora Serracchiani alle regionali è stata una boccata d’ossigeno per il Pd. La rottamatrice ante-litteram, pronta ad aiutare Renzi, ha fatto fuori le mele marce già prima del voto politico. Via l’ex capogruppo e signore delle tesse-re Gianfranco Moretton, avanti l’ex sinda-co di Pordenone Sergio Bolzonello (record storico assoluto di voti alle regionali nel Pd), che sarà vicepresidente, e Cristiano Shaurli, poco più che trentenne, che gui-derà la maggioranza regionale. Per non far saltare il quadro, poi, c’è un patto di lealtà con gli ex bersaniani, a partire dal senatore Carlo Pegorer, terza legislatu- Fo

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I BERSANIANI SENZA PIù UN CAPO GUARDANO A ENRICO LETTA.I RENZIANI DOC PROGETTANO IL BLITZ NELLE REGIONI ROSSE. E BARCA TENTALA SINISTRA

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Primo Piano

ra, aplomb inglese, inventore della candi-datura di Riccardo Illy nel 2003. Obiet-tivo: rompere l’asse Lega-Pdl nel Nord-est e tentare di far penetrare il Pd renzia-no nelle corde di un elettorato storica-mente impermeabile alla sinistra.

TOSCANA RENZIANAIl processo è andato in scena la settimana scorsa nello storico circolo fiorentino Vie Nuove, affollatissimo. «Scusate il ritar-do, aspettavamo i parlamentari che sono in giro per l’Italia...», ha provato a dire la segretaria cittadina Lorenza Giani, tra-volta dai fischi. Presenti solo quattro parlamentari, Rosa Maria Di Giorgi, David Ermini, Filippo Fossati, Elisa Si-moni. Provano a spiegare le ultime mosse romane, il governo Letta con Berlusconi, la sala insorge: «Abbiamo votato Bersani alle primarie per dire di no a Berlusconi e ora siamo al governo con lui! Parlate di questo!». «I nostri parlamentari sono inadeguati, ci hanno consegnato le peg-giori pagine del centrosinistra italiano», attacca uno dei rivoltosi, il segretario del circolo del quartiere 4 Francesco Piccione. A Prato, epicentro dell’insurrezione, è partito il tour nazionale dell’ex ministro

Barca, presenti in prima fila la segretaria Ilaria Bugetti e il deputato renziano Mat-teo Biffoni. Una rivolta spontanea, senza capi a soffiare sul fuoco. Anche perché già alle primarie di autunno i votanti dei gazebo rovesciarono l’antica nomencal-tura rossa per promuovere i giovani lega-ti al sindaco rottamatore. Al punto che a Firenze si prepara per il 2014 un derby tutto renziano per la poltrona di sindaco, se Renzi dovesse passare a un incarico nazionale: il deputato Dario Nardella (in

ascesa) contro il potente presidente del consiglio comunale Eugenio Giani. E le alleanze si stanno rapidamente rimesco-lando. Il segretario regionale Andrea Man-ciulli, ieri tendenza anti Renzi, oggi tesse la tela con Matteo. Resiste il governatore Enrico Rossi, che punta alla segreteria nazionale. Il primo test importante per la tenuta del partito saranno a fine mese le elezioni comunali di Siena. Il Pd arriva all’appuntamento devastato dalla faide e dalle inchieste sul Monte dei Paschi. Do-

C’è chi ha fatto gli scongiuri perché se ne restasse in Thailandia. Il suo buen retiro dopo la sconfitta di Walter Veltroni alle politiche del 2008. Ci ha messo su casa e s’è pure inventato un festival del cinema italiano, che gira da Bangkok a Manila. E invece no. Goffredo Bettini è tornato in gran forma nella sua Roma. Di nuovo king maker del Pd nella rivincita contro Gianni Alemanno per il Campidoglio.Classe ’52, iscritto al Pci dal ’66 («Per via cinematografica, cioè presentando i film sovietici alla sezione Campo Marzio, perché ero troppo giovane per fare la tessera»), sta di nuovo affondato sul suo vecchio sofà marrone fra libri e scartoffie. Sul tavolo, però, spunta l’ultima fatica: “Carte segrete” scritto col vecchio amico Carmine Fotia. E in uscita per Aliberti. Un testamento politico? O la storia della sua «depressione, quella che mi venne dopo la svolta dell’89?». O ancora una fotografia impietosa del Pd che va in frantumi? C’è tutto questo. Ma, in quelle pagine, c’è soprattutto altro. Il suo ritorno in campo.

La nuova proposta politica dell’inventore di due sindaci della capitale: Francesco Rutelli («Quando glielo proposi, mi disse: se mi candidate, vado a piedi da Roma a Milano. E io capii che era sufficientemente pazzo per fare il sindaco di Roma») e Walter Veltroni. E ora la terza prova: Ignazio Marino. È la strada per riprendersi il suo ruolo, prima in città, poi nel “suo” Pd, quello che già nel 2005 teorizzò a un allora potentissimo Massimo D’Alema («Che mi rispose: bella idea, Goffre’, ma irrealizzabile»).Ecco che, mentre tutto intorno crolla, dal suo studio in una viuzza laterale in zona Sapienza, Goffredone tira i fili dell’ultima scommessa dell’Urbe e sorride alle critiche: «Io uomo di apparato? Li guardi i grandi apparati: questa stanza è biblioteca, studio, soggiorno e sala da pranzo. Ho un telefono. E di là c’è un bagno», elenca: «Ah, certo, poi c’è il mio autista, un pensionato. Pensi che doveva portare mia madre, 92 anni, a Fiuggi, e l’ha portata a Chianciano. Questo sono io». Piccolo dettaglio, al suo

sessantesimo compleanno lo scorso 5 novembre si presentò mezza Roma, se non tutta: «Beh, che vuol dire? Quella è una gentilezza degli ospiti».Va detto che se il dottor Ignazio gli piace, c’è un però. Qualche lacuna da colmare. Nelle strategie elettorali. Nel modo di porsi. Nell’empatia con la pancia romana: «Questa è una città che, se la sinistra non fa innovazione politica, trova sempre una scusa per votare a destra. È il ventre molle di Roma», racconta. E con chi ha sempre catalogato Bettini come “ala destra” del

È tornato il re di Roma dI TOMMASO CERNO

DEBORA SERRACCHIANI. A DESTRA: GOFFREDO BETTINI. SOTTO: IGNAZIO MARINO

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po Mussari è saltato anche l’ex sindaco Franco Ceccuzzi, costretto a ritirarsi do-po aver vinto le primarie. Ora il candida-to è Bruno Valentini, anche lui renziano. Anche se i veri trionfatori sono i fratelli Alfredo e Alberto Monaci, ex democristiani che a Siena hanno sbaragliato i puledri dell’ex partitone rosso.

CORRENTI dEl GOlFOCambiano le correnti del Pd nel Golfo partenopeo. E basta ascoltare il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca. «Un parti-to di anime morte», diceva. Poi Letta l’ha piazzato sulla poltrona di viceministro alle Infrastrutture e il vento è girato. Bocciato così senza appello il Pd locale, un partito che a Napoli non è stato in grado di eleggere nemmeno il presidente del consiglio provinciale, si riparte dal congresso campano. Con un inedito gioco d’alleanze. Il segretario uscente, Enzo Amendola, da sempre ombra di D’Alema, e il suo vice, puntano proprio su De Luca per tenersi il partito. Ma dovranno vedersela con il caos delle al-tre province. Avellino in testa. Con le comunali in arrivo e le primarie annul-late con tanto di battaglia legale fra le

correnti ed epilogo davanti al giudice, Letta ha preso il potere anche lì. I bersa-niani si erano ritirati perché, nello scon-tro, gli altri avevano candidato per il Pd un esponente della lista di Renata Polve-rini. E alla fine, secondo la regola Dc, è spuntato il costruttore Paolo Foti, che unisce i seguaci del premier ed ex bersa-niani. Per non farsi mancare niente, però, l’ex sindaco Pd Giuseppe Galasso soster-rà il candidato del centrodestra. Il tutto all’ombra (lunga) del «semplice eletto-

re», come si autodefinisce, Nicola Man-cino. Chiude Caserta, dove siamo all’an-no zero, secondo gli iscritti: «Qui il partito non è mai nato. Abbiamo un segretario abusivo». Infatti da quando quello vero, Dario Abbate, s’è dimesso per il Parlamento, poi non eletto, s’è aperta l’era di Ludovico Feole, coinvolto pure nella storiaccia di assenteismo alla Pro-vincia. Feole, candidato a sindaco in un comune della provincia, è vicino al con-sigliere regionale Nicola Caputo, un tem-po bindiano ora vicino a Renzi. E così il partito è diviso in due blocchi: da una parte i lettiani, la fronda Graziano-Ab-bate-Stellato e dall’altra i renziani, che contano anche sulla deputata Pina Pi-cierno, area Franceschini.

Pci, e non capisce da dove gli sia venuto di candidare Marino, radicaloide anti-sistema, lui va di fioretto: «Non l’ho scelto io. Ho detto che Sassoli e Gentiloni mi sembravano non sufficientemente competitivi. Mi ero offerto di correre e sono stato vissuto come una minaccia. Allora è uscito Marino, che però è molto più simile al primo Rutelli di quanto sembri». E via rubricando. «L’ex sindaco allargava alla borghesia romana», rimasta senza riferimenti dopo il crollo della Dc. Adesso il problema è opposto. «La destra crolla e a noi non ne viene nulla, significa che, così come siamo, non piacciamo. E allora meglio il voto di protesta che il Pd». Già. Non gli si parli del Pd. Il disastro. L’apocalisse. E non gli si parli neppure di Epifani, a uno convinto che gli italiani detestino soprattutto due cose, i sindacalisti e i socialisti. «Nei miei libri c’era scritto tutto», dice: «Basta guardare cos’hanno fatto a Roma. Il partito decapitato con un espediente burocratico», e Marco Miccoli dichiarato incompatibile

dai garanti in piena campagna elettorale. Un caos. Si corre senza struttura, senza dirigenti, senza sezioni. Ed ecco che Marino potrebbe sancire la fine di un’era, quella che lo stesso Bettini inventò vent’anni fa e che chiama “l’ego di Roma”. La sinistra forte. L’auditorium. I grandi musei. Il Giubileo. Le cose in pompa magna: «Oggi serve meno Roma e più romani, un sindaco della solitudine delle persone». Certo, c’è da lavorare. Soprattutto al ballottaggio, «quando si deve parlare a tutti i romani, cosa che Marino dovrà cominciare a fare», aggiunge. Forse già con l’asso nella manica dell’alleanza con Alfio Marchini, il terzo incomodo insieme a un M5S che i sondaggi non leggono troppo minaccioso nella capitale. Chissà. Non si parla, a casa

Bettini, di patti o intese, ma a naso i voti andranno lì: «Marchini? Era ancora meglio se avesse partecipato alle primarie», glissa. Ed ecco l’altra parola chiave: primarie. Quella che da un po’ gli frulla in testa. La corsa alla segreteria del Pd. In ottobre. Pazza idea? «Beh, per fare politica bisogna essere pazzi. Altrimenti, non appena capisci cosa gli altri dicono di te alle tue spalle, scappi via», se la ride. E così ha preparato la sua mozione congressuale. Sta scritta lì, nelle ultime pagine di “Carte segrete”. Lo presenterà al teatro Eliseo di Roma il 13 maggio e avrà tutta l’aria del grande ritorno a cavallo del Pd. «Un partito dove ci sarebbe bisogno di capi, più che di leader. I capi pensano a chi viene dopo. I leader solo alla cronaca. E non basta più».

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lA BRIANZA dI CIVATI CONTRO I VERTICI MIlANESI. POI lO SCONTRO IN EMIlIAE TOSCANA. FINOAl CASO SICIlIA

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PUGLIA D’ALEMA ADDIOOccupyPd ha conquistato la sede di via Re David a Bari. Assemblea permanente dei giovani democratici guidati dal segre-tario regionale Pierpaolo Treglia e dalla neo-deputata Liliana Ventricelli. In Puglia, la ex roccaforte dalemiana, il Pd pencola a sinistra, la base spinge per un nuovo partito di sinistra con Nichi Vendola. Il sindaco Michele Emiliano capeggia nel backstage la rivolta.

LUPO FERITOC’è un lupo ferito nel Pd siciliano. È l’omo-nimo segretario regionale Giuseppe Lupo. La bocciatura del “suo” sottosegretario Sergio D’Antoni è il messaggio forte e chia-ro che arriva da Letta. E non è un caso. C’è chi s’è schierato fra le armate di palazzo Chigi e combatte sull’altra sponda. È Pino Apprendi, ex deputato regionale e ambascia-tore del premier nell’isola. Punta alto e vuol mettere una croce pure su Crocetta: «Ab-biamo assistito a un lento distacco del go-

vernatore dal Pd. Avrebbe potuto guidare il partito e invece lo ha spaccato», tuona. E subito da Roma altro regalino: un bel rospo per Rosario digerire l’esclusione dal sotto-governo di Beppe Lumia, punta di dia-mante del Megafono, il suo movimento. E così, se da tempo tra Crocetta e i maggio-renti del Pd non corre buon sangue, per l’esclusione dei “politici” dalla giunta, la guerra di Sicilia diventa nazionale. E gli attriti sono finiti addirittura alla Procura

di Agrigento, che indaga su presunte estor-sioni per le candidature regionali. Sullo sfondo denunce e lotte che lacerano il partito, alla vigilia delle elezioni che a giugno vedranno il rinnovo di 141 comu-ni. Fra cui Messina e Siracusa. E Catania, che schiera l’eterno Enzo Bianco, uno che in tempi di rottamazione non suona pro-prio come un salto nel futuro.

hanno collaborato Fabio Lepore, Michele Sasso, Natascia Ronchetti, Nello Trocchia

Primo Piano

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Differenza voti del Partito Democratico al Senato nelle elezioni politiche del 2013 rispetto al 2008 e relativa variazione %

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da -8% a -4%

da -4% a -2%

da -2% a -0%

-11,31%

-9,43%

-3,99%

-6,28%

-5,42%

-0,93%

Piemonte -201.217

Lombardia -154.615 Trentino Alto Adige -10.262

Friuli Venezia Giulia -49.267

Liguria -101.708

Calabria -114.881

Sicilia -220.023

Sardegna -91.896

Basilicata -41.853

Campania -219.384 Puglia -271.158

Lazio -334.882

Molise -7.853

Abruzzo -81.272

Marche -121.689

Toscana -225.472

Umbria -64.152

Emilia Romagna -216.346

Veneto -138.363

Emorragia di voti

vinCenzo de LuCA e miCheLe emiLiAno

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Primo Piano sinistra nel caos / dieci anni dopo

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ossessionatida silvio

Il Partito democratico è fallito? Non mi rassegno al venir meno del pro-getto di una sinistra di governo. Ma certo, il disegno originale di un nuovo soggetto in un contesto bi-

polare e bipartitico si è esaurito». Era stato Michele Salvati, economista, diret-tore del “Mulino”, a lanciare esattamente dieci anni fa con un lungo articolo sul “Foglio” l’“Appello per il Partito Demo-cratico”. Il saggio si concludeva con un apologo buddhista citato da Bertolt Brecht: «Chi avvisato del pericolo si rifiu-ta di correre ai ripari merita di perire». Chissà se quel momento è arrivato...Perché il progetto del Pd è fallito?«Per un motivo esterno: la presenza di Berlusconi come antagonista, un perso-naggio unico che ha creato nel centrosini-stra dal ’94 in poi come riflesso l’anti-berlusconismo. Un comodo motivo di unità identitaria: più difficile sarebbe cercare di capire cosa dire, cosa essere. Ed è questa la vera causa del fallimento. Il Pd è nato troppo tardi, il momento giusto era il 2001, quando si poteva collegare il Pd all’Ulivo di Romano Prodi, invece ci si è arrivati stancamente anni dopo. Ma è nato anche troppo in fretta quando è stato costruito da Veltroni in risposta a un’emergenza. E nell’uno e nell’altro caso ex Pci ed ex sinistra Dc sono rimasti insie-me, senza tanti interrogativi, tutti al riparo dell’anti-berlusconismo».Di chi è la colpa della nascita mancata? «Dei dirigenti politici, certo. Ricorda? In

quell’articolo chiedevo a D’Alema e Mari-ni di restare fuori dal Pd: difficile che da loro potesse venire una riflessione nuova e adeguata alla crisi della politica. Ma anche gli intellettuali non hanno aiutato».A chi si riferisce?«Prima di tutto a me stesso, naturalmente. E poi penso a quell’unica grande corrente composta dal gruppo Espresso-Repubbli-ca, Micromega, Libertà e Giustizia che ha conquistato l’egemonia interpretativa del nuovo partito. Sono stati gli intellettuali, i giornali, le riviste a formare la mentalità dei quadri del Pd, la cultura del militante medio, molto più che i circoli, o come si chiamano, del partito pesante sognato da Bersani».Ma è il partito che deve formare i suoi dirigen-ti ed elettori, professore, e non c’è riuscito!«La formazione spettava ai vertici, certa-mente. Ma guardi i risultati: i ragazzi del Pd cresciuti negli ultimi anni e ora arriva-ti in Parlamento oscillano tra un’identità di sinistra non ben definita, quella dei giovani turchi, e un moralismo di tipo azionista e berlingueriano di cui si ritro-vano tracce anche tra gli insospettabili».Fuori i nomi.«Stimo molto Fabrizio Barca, il suo straor-dinario percorso intellettuale. Ma nel suo documento ho ritrovato il mito del grande partito educatore e salvatore della Nazio-ne, il partito moderno principe a metà tra Gramsci e Berlinguer. Un modello che era già in crisi quando esistevano Dc e Pci, fi-guriamoci ora, in una società non più

educabile, composta da individui esposti a più stimoli. Il quadro medio del Pd è quello che è. Nel Labour Party, per dire, ci si divi-de tra chi rimpiange il welfare del trenten-nio post-bellico e i liberal-democratici alla Tony Blair. Da noi quelli che ora si dicono seguaci della sinistra europea lo sono di-ventati dopo aver considerato per decenni la socialdemocrazia una parolaccia. All’ombra dell’anti-berlusconismo, sono rimaste le ricette antiche: dire solo le cose che suonano bene alle orecchie dei militan-ti, nessun nemico a sinistra. E un rapporto privilegiato con il centro cattolico».Nelle votazioni per il Quirinale, un pezzo del Pd ha votato per il cattolico Marini, un altro per il laico Rodotà: non è stato velleitario pensare di tenere insieme nello stesso par-tito culture così distanti?«Marini e Rodotà sono due facce dello stesso problema. Rodotà è l’esponente più radicale di una visione rigorista, se nel Pd ci fosse la corrente Micromega-Libertà e Giustizia lui ne sarebbe il capo indiscusso. Ma entrerebbe in collisione con l’ala cattolica. C’è un terzo filone, in realtà, quello che si richiama a Beniamino Andreatta e a Prodi: cattolici adulti come Stefano Ceccanti o Giorgio Tonini che hanno una visione laica della politica, Andreatta aveva una fede fortissima ma da ministro disse di no al Vaticano sul buco dello Ior. Una cultura che si contrap-pone ai cattolici integralisti ma anche al laicismo quando assume le asprezze di Rodotà».

Ieri era l’antiberlusconismo a dare un comodo motivo di identità. Anche per colpa di intellettuali e giornali. Oggi il Pd è intrappolato nell’alleanza con il Cavaliere. Il j’accuse di uno dei fondatori colloQuio coN Michele sAlvAti Di MARco DAMilANo

16 maggio 2013 | | 41

Dimentica Enrico Letta che citando il suo maestro Andreatta distingue tra la “politica” (l’ideologia) e le “politiche” (le cose da fare). È lui il vero Blair italiano?«No, perché quello di Blair e di Tony Gid-dens era un progetto fortemente legato alla politica, non un semplice pragmati-smo. Letta, invece, risponde alla necessità tutta italiana di mettere in campo ricette né di destra né di sinistra, per non spacca-re il governo».Può riuscire nell’impresa?«Gli sforzi sono meritori, ma le possibilità di sopravvivenza non molto elevate. A meno che lo spirito dell’appena defunto Andreotti non si reincarni in Letta spin-gendolo a rivelare un’abilità fuori dal co-mune...».Perché è così scettico? Lei stesso aveva chiesto per la nuova legislatura un governo “tipo Monti”: è il governo Letta-Alfano? «È quello che spera il vero ispiratore e costruttore dell’operazione, il presidente Napolitano. E me lo auguro anch’io. Ma questo è un governo che va molto oltre l’esperienza Monti. Una condanna di Berlusconi al processo Ruby potrebbe far cadere tutto. E poi bisognerebbe finalmen-te raccontare la verità agli italiani: invece viviamo in una fase di disprezzo nei con-

fronti della politica, l’idea che chi ha sem-pre detto falsità possa ora dire la verità rasenta l’incredibile».Cosa dovrebbe dire il premier?«Sento parlare di alleggerimento e di elimi-nazione dell’Imu: una balla colossale. Sento ripetere che l’Europa deve allentare la linea del rigore. Certo, un po’ aiuta: ma la crescita arriverà quando la Pubblica amministrazio-ne sarà civile o quando le imprese tecnolo-gicamente avanzate saranno molte di più. Dobbiamo essere più bravi, o meno medio-cri. E salvaguardare chi non ce la fa, i veri poveri: resta una cosa di sinistra. Ma questo non lo dice né la cosiddetta destra né il Pd».Cosa dovrebbe fare Matteo Renzi? Conqui-stare il partito per poi puntare alla premier-ship? O restare lontano dal Pd?«A lui viene più facile muovere un’Opa dall’esterno, ha il ragionevole sospetto che se entra nel tritacarne del partito rischia di uscirne distrutto. Ma se Letta dovesse avere successo con il governo diventerebbe per Renzi un rivale interno più temibile di Barca, con una preparazione maggiore. Per ora Renzi è uno straordinario acchiappavoti, una macchina di consenso. Ma serve una squadra e un progetto che diano robustezza alle sue intuizioni: la rottamazione non basta più, lo sa benissimo».

Può convivere con Barca?«Non vedo ragioni contrarie. Ma anche Barca non avrà vita facile: tra i giovani turchi non ho visto commenti entusiasti alla sua iniziativa. Anche lui, come Renzi, vuole cambiare in profondità l’attuale Pd. Anche se la linea strategica non è affatto chiara».Resta la necessità di nominare un segretario o un reggente. Alla vigilia dell’assemblea del Pd circolava lo schema: un centrista al gover-no, la sinistra alla guida del partito, un mini-compromesso storico...«La battaglia risolutiva sarà al prossimo congresso, ora serve una figura di transizio-ne. E poi bisognerà vedere in che direzione evolve il sistema politico. La botta della sconfitta di Bersani è stata enorme, ci sarà un periodo di grande confusione».Letta è un ex dc, come il suo vice Alfano: se il suo governo riesce nascerà un nuovo cen-trosinistra, il partito di centro con spezzoni di Pd e Pdl alleato con un partito socialista?«Non è uno scenario da escludere. Berlusco-ni non è eterno, ci sono Casini e Monti che coltivano il disegno di fondare un nuovo partito di centrodestra senza gli estremisti berlusconiani, senza la Santanché e la Bian-cofiore. Ma siamo in una situazione indeci-frabile e difficile. E quando il morto non muore e il vivo non nasce bisogna stare at-tenti: può diventare anche pericolosa». n

Il presIdente del consIglIo, enrIco letta. nell’altra pagIna: mIchele salvatI