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CAPITOLO PRIMO 1 CAPITOLO PRIMO INQUADRAMENTO SISTEMATICO DELLE OPERAZIONI MILITARI ISTITUITE DALLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI SOMMARIO: 1. La definizione delle operazioni militari nell’ambito delle operazioni di pace. – 2. L’evoluzione delle operazioni militari. – 3. Segue. L’origine del modello. – 4. Segue. L’emersione di nuovi modelli: le operazioni di seconda generazione. 5. Segue. La crisi del modello: le operazioni in ex Iugoslavia e Somalia e le operazioni di terza generazione. 6. Segue. L’evoluzione nella recente prassi. 7. Il ruolo delle organizzazioni regionali. 8. Il fondamento normativo delle operazioni militari. 9. Segue. Il collegamento normativo con il Capitolo VII della Carta ONU. 10. Il quadro giuridico delle operazioni militari. 11. Segue. Il rapporto con gli Stati che forniscono le truppe. 12. Segue. I SOFAs e il rapporto con lo Stato ospite. 13. Segue. Le regole d’ingaggio. 1. La definizione delle operazioni militari nell’ambito delle operazioni di pace. La presente ricerca necessita di un inquadramento sistematico delle operazioni militari istituite dalle organizzazioni internazionali. Si vogliono, pertanto, isolare tali operazioni dal vasto contesto degli interventi riconducibili nell’ambito generale delle operazioni di pace 1 . La ricerca di una definizione delle operazioni di pace, principalmente istituite dalle Nazioni Unite, ma anche da altre organizzazioni internazionali, è condizionata 1 Nel documento ufficiale del 2008 sui principi e le linee guida delle operazioni di peacekeeping, le Nazioni Unite evidenziano la presenza di almeno cinque tipologie di intervento da parte dell’organizzazione nell’ambito delle operazioni di pace. Tali tipologie di intervento sarebbero: conflict prevention, che funzionerebbe come un early warning e sarebbe in una qualche maniera assimilabile ai buoni uffici del Segretario Generale; peacemaking, nell’ambito dei quali interventi si vorrebbe raggiungere lo scopo di portare a negoziare le parti in conflitto; peacekeeping, che sarebbe la classica funzione delle forze ONU di interporsi e preservare la pace; peace-enforcement, che identifica operazioni nel quale l’uso della forza è consentito per raggiungere obiettivi da mandato; peace-building, per la gestione della fase post conflittuale. Va detto che una simile classificazione è più che altro descrittiva in quanto la prassi non si è mai totalmente adeguata a tali impostazioni. Si veda, United Nations Peacekeeping Operations. Principles and Guidelines, 2008, pp. 17 19. Reperibile sul sito internet www.un.org .

INQUADRAMENTO SISTEMATICO DELLE OPERAZIONI MILITARI … · 12 Sul punto, pare interessante richiamare la giurisprudenza della Corte Speciale per la Sierra Leone e della Corte internazionale

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CAPITOLO PRIMO

1

CAPITOLO PRIMO

INQUADRAMENTO SISTEMATICO DELLE OPERAZIONI MILITARI ISTITUITE

DALLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

SOMMARIO: 1. La definizione delle operazioni militari nell’ambito delle operazioni di pace. – 2.

L’evoluzione delle operazioni militari. – 3. Segue. L’origine del modello. – 4. Segue. L’emersione

di nuovi modelli: le operazioni di seconda generazione. – 5. Segue. La crisi del modello: le

operazioni in ex Iugoslavia e Somalia e le operazioni di terza generazione. – 6. Segue.

L’evoluzione nella recente prassi. – 7. Il ruolo delle organizzazioni regionali. – 8. Il fondamento

normativo delle operazioni militari. – 9. Segue. Il collegamento normativo con il Capitolo VII della

Carta ONU. – 10. Il quadro giuridico delle operazioni militari. – 11. Segue. Il rapporto con gli Stati

che forniscono le truppe. – 12. Segue. I SOFAs e il rapporto con lo Stato ospite. – 13. Segue. Le

regole d’ingaggio.

1. La definizione delle operazioni militari nell’ambito delle operazioni di

pace.

La presente ricerca necessita di un inquadramento sistematico delle operazioni

militari istituite dalle organizzazioni internazionali. Si vogliono, pertanto, isolare tali

operazioni dal vasto contesto degli interventi riconducibili nell’ambito generale delle

operazioni di pace1.

La ricerca di una definizione delle operazioni di pace, principalmente istituite

dalle Nazioni Unite, ma anche da altre organizzazioni internazionali, è condizionata

1 Nel documento ufficiale del 2008 sui principi e le linee guida delle operazioni di peacekeeping, le

Nazioni Unite evidenziano la presenza di almeno cinque tipologie di intervento da parte dell’organizzazione

nell’ambito delle operazioni di pace. Tali tipologie di intervento sarebbero: conflict prevention, che

funzionerebbe come un early warning e sarebbe in una qualche maniera assimilabile ai buoni uffici del

Segretario Generale; peacemaking, nell’ambito dei quali interventi si vorrebbe raggiungere lo scopo di

portare a negoziare le parti in conflitto; peacekeeping, che sarebbe la classica funzione delle forze ONU di

interporsi e preservare la pace; peace-enforcement, che identifica operazioni nel quale l’uso della forza è

consentito per raggiungere obiettivi da mandato; peace-building, per la gestione della fase post conflittuale.

Va detto che una simile classificazione è più che altro descrittiva in quanto la prassi non si è mai totalmente

adeguata a tali impostazioni. Si veda, United Nations Peacekeeping Operations. Principles and Guidelines,

2008, pp. 17 – 19. Reperibile sul sito internet www.un.org.

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CAPITOLO PRIMO

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dall’assenza di contorni precisi attorno a un fatto giuridico nuovo e successivo rispetto

alla Carta di San Francisco2. Più in generale, non è facile definire, in termini astratti e

generici, un’operazione di pace nell’ambito delle Nazioni Unite, dovendo analizzare caso

per caso ogni singola operazione al fine di evidenziarne i tratti comuni che poi

contribuiscono a definire una prassi3.

Invero, le operazioni militari delle Nazioni Unite sono previste nella Carta di San

Francisco, precisamente nell’art. 42 che le prevede espressamente, ma tale articolo, per il

modo in cui era stato concepito, non è mai stato attuato per la mancata applicazione degli

articoli 43 e seguenti che impongono agli Stati membri l’obbligo di stipulare accordi con

il Consiglio di Sicurezza al fine di mettere a disposizione di quest’ultimo le forze armate

necessarie a tali operazioni4.

Le operazioni militari delle Nazioni Unite si collocano in maniera trasversale

rispetto alle varie classificazioni proposte e, secondo larga parte della dottrina,

comprendono tutte quelle operazioni che rientrano tra i due estremi delle missioni di

osservazione e delle missioni coercitive5.

L’evoluzione delle operazioni militari ha fatto sì che solo i due estremi siano

rimasti aderenti agli schemi originari, con la conseguenza che le varie tipologie di

operazioni militari hanno finito per ibridarsi, dando vita a missioni con mandati molto

2 Report of the Secretary General pursuant to the statement adopted by the Summit meeting of the

Security Council on 31 January 1992. An Agenda for Peace. Preventive diplomacy, peacemaking and

peacekeeping, UN Doc. A/47/217 – S/42111 § 46.

3 L. PINESCHI, Le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace, Padova, 1998, pp.

18 - 19

4 B. CONFORTI-C.FOCARELLI, Le Nazioni Unite, 8a ed., Padova, 2010, p. 263.

5 Si vedano inter alia, PINESCHI, Le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace,

cit., p. 23; H. McCOUBREY-N.D.WHITE, The Blue Helmets: legal regulation of United Nations Military

Operations, Aldershot, 1996, p. 1. In entrambe le opere e a testimonianza di un’unanimità di vedute sul

punto, si può notare come la nozione molto usata di peacekeeping sia considerata come una categoria che si

colloca nel mezzo dello spettro delle operazioni militari. Nel corso della presente trattazione, perciò, si

userà il termine più ampio di operazioni militari, per evitare di circoscrivere al solo peacekeeping la ricerca

escludendo così tutta una serie di altre operazioni.

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ampi comprensivi di funzioni diverse tra loro e, in certi casi, tipiche di operazioni

diverse6.

Tendenzialmente, il modello classico di operazione militare per il mantenimento

della pace (peacekeeping) è caratterizzato dall’invio di contingenti militari autorizzati ad

usare la forza solo in legittima difesa, operanti con il consenso delle parti ed imparziali

rispetto ad esse. L’esistenza del consenso7 fa sì che non si possa ricondurre il

peacekeeping nell’ambito dell’art. 42 della Carta delle Nazioni Unite e quindi non la si

possa considerare una misura coercitiva8.

Peraltro, le operazioni militari coercitive autorizzate dalle Nazioni Unite

costituiscono una categoria a sé stante e che presenta problematiche diverse rispetto a

quelle che presentano le altre operazioni militari. La quasi unanimità della dottrina9,

6 Nella prassi recente si può dare conto dell’istituzione di operazioni multifunzionali con elementi

di enforcement e di peace-building. Nella prassi più risalente è stato possibile rinvenire diverse categorie

“ibridate” di operazioni militari: si pensi, ad esempio alle missioni con mandati sia di osservazione militare

che di mantenimento della pace e di monitoraggio del cessate il fuoco (UNTSO, ancora attiva), ma si guardi

anche a quelle missioni che accanto a funzioni di peacekeeping sono state autorizzate ex capitolo VII anche

a svolgere azioni coercitive (UNPROFOR e UNOSOM II). Sul punto ancora PINESCHI, Le operazioni delle

Nazioni Unite per il mantenimento della pace, cit., pp. 24-41.

7 Enfatizza il ruolo del consenso nel determinare il successo di un’operazione di peacekeeping il

Prof. BOTHE, in M. BOTHE, Peace-keeping, in B. SIMMA (ed.), The Charter of the United Nations: a

Commentary, Oxford, 2002, p. 666.

8 G. ABI-SAAB, United Nations Peacekeeping Old and New, in D. WARNER, New dimensions of

Peacekeeping, Dordrecht, 1995, pp. 3-4.

9 Sul punto, la bibliografia è assai corposa. Si vedano U. VILLANI, L’ONU e la crisi del Golfo,

Bari, 2005; D. SAROOSHI, The UN and the Development of Collective Security: the Delegation by the UN

Security Council of its Chapter VII Powers, New York, 1999; N. BLOKKER, Is the authorization authorized?

Powers and practice of the UN Security Council to authorize the use of force by the coalitions of the able

and willing, in European Journal of International Law, 2000, pp. 541 ss.; FROWEIN-KIRSCH, Chapter VII.

Action with respect to Threats to Peace, Breaches of the Peace, and Acts of Aggression, in B. SIMMA (ed.),

The Charter of the United Nations: a Commentary, cit., pp. 701 ss.; A. ABASS, Regional Organizations and

the development of collective security. Beyond Chapter VIII of the UN Charter, Portland, 2004. E. DE

WET, The Chapter VII powers of the UN Security Council, Portland, 2004.

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infatti, identifica con il termine “operazioni coercitive” 10

, quelle missioni istituite o

autorizzate dalle Nazioni Unite ex capitolo VII e condotte dalle Nazioni Unite stesse,

oppure da una coalizione di Stati o da un’organizzazione regionale. Il significato di

azione coercitiva è diverso da quello di peacekeeping. Stando, infatti, alla presa di

posizione della Corte Internazionale di Giustizia nel parere su certe spese, le operazioni di

peacekeeping non possono essere considerate tali se presuppongono un’azione coercitiva

contro uno Stato, essendo necessario, per il dispiegamento stesso della missione, il

consenso di tutte le parti al conflitto11

. La recente prassi tuttavia, e come si vedrà più

avanti, dimostra come la distinzione tra peacekeeping ed azione coercitiva vada

confondendosi nei casi di quelle operazioni multifunzionali alle quali vengono demandati

compiti di coercizione nei confronti di entità non statali, soprattutto in caso di conflitti

armati non internazionali12

.

L’enorme varietà di operazioni di pace e le diverse classificazioni proposte nella

prassi ed in dottrina sono alla base di diversi tentativi di raggruppamento delle operazioni

militari in un insieme unitario. Un esempio è quello rappresentato dalla categoria delle

peace support operations, termine utilizzato in ambito NATO per descrivere quelle

10 In relazione alle azioni coercitive anche quelle operazioni militari che, condotte dalle Nazioni

Unite, sono autorizzate ex capitolo VII all’uso della forza non solo in legittima difesa (UNPROFOR e

UNOSOM II), la posizione ufficiale delle Nazioni Unite è sempre stata quella di ritenere che per azioni

coercitive si dovessero identificare solo quelle riconducibili nell’alveo dell’art. 42 della Carta, escludendo,

quindi, quelle operazioni, come UNPROFOR ed UNOSOM II che contengono riferimenti generali al

capitolo VII. In tal senso si è espresso il Segretario Generale delle Nazioni Unite. Si veda Report of the

Secretary General pursuant to Security Council Resolutions 982 (1995) and 987 (1995). UN Doc.

S/1995/444 del 30 maggio 1995, § 60.

11 ICJ, Certain Expenses of the United Nations (Article 17, paragraph 2, of the Charter), 20 luglio

1962, ICJ Reports 1962, p. 151

12 Sul punto, pare interessante richiamare la giurisprudenza della Corte Speciale per la Sierra

Leone e della Corte internazionale penale. In entrambe le giurisdizioni, e, rispettivamente, nei casi contro i

leader del RUF e contro Abu Garda, il semplice riferimento al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite

non è stato ritenuto sufficiente a configurare le missioni UNAMSIL in Sierra Leone e AMIS in Sudan,

come azioni coercitive, nonostante l’ampiezza dei rispettivi mandati. Si vedano SCSL, Prosecutor v. Issa

Sesay (RUF Case), Case No. SCSL-04-15-T, Trial Chamber Judgment, 2nd

March 2009, § 1911; ICC, The

Prosecutor v. Abu Garda (Abu Garda Case), Case No. ICC-02/05-02/09, Pre Trial Chamber Decision, 8th

February 2010, § 114.

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operazioni multifunzionali, condotte in modo imparziale nell’ambito o in supporto di

un’organizzazione internazionale. Nella definizione fornita della NATO, vengono incluse

le forze militari, diplomatiche e umanitarie e vengono incluse all’interno di tale categoria

anche le nozioni di peacekeeping, di peace-enforcement e di peace-building13

.

Occorre notare che la dottrina NATO sulle peace support operations non

confonde le classiche distinzioni tra peacekeeping e peace-enforcement e, più di tutto,

non confonde tali operazioni con le azioni di enforcement tipiche di interventi unilaterali

al di fuori del quadro delle organizzazioni internazionali14

. Inoltre, anche in relazione

all’uso della forza, la posizione ufficiale della NATO nulla di diverso dice rispetto alle

impostazioni tipiche delle operazioni di pace sopra ricordate, nelle quali l’uso coercitivo

della forza è visto come un’estrema possibilità15

.

La stessa nozione di peace support operations è in realtà piuttosto generale in

quanto tiene conto sia delle operazioni militari, sia di quelle operazioni che sono

caratterizzate da una più ampia presenza civile.

Per quel che concerne la presente ricerca, si vogliono escludere quelle operazioni

autorizzate ex capitolo VII della Carta, ma condotte da una coalizione di Stati. Si

considereranno, invece, le operazioni militari istituite dalle Nazioni Unite e, più in

generale, dalle Organizzazioni internazionali, comprese quelle regionali.

13 NATO, AJP-3.4.1, Peace Support Operations, luglio 2001, p. 36, § 0202. “The term Peace

Support Operations is now widely used by many civilian agencies to describe their activities in complex

humanitarian emergencies. PSOs are multi-functional operations, conducted impartially, normally in

support of an internationally recognised organisation such as the UN or Organisation for Security and Co-

operation in Europe (OSCE), involving military forces and diplomatic and humanitarian agencies. PSO are

designed to achieve a long-term political settlement or other specified conditions. They include

Peacekeeping and Peace Enforcement as well as conflict prevention, peacemaking, peace building and

humanitarian relief.”

14 Ibidem, §§ 0216 – 0217.

15 Ibidem, § 0218.

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2. L’evoluzione delle operazioni di pace.

Le operazioni di pace delle Nazioni Unite sono state classificate nel corso degli

anni in base a criteri sempre diversi. In primis vi è chi16

, in dottrina, ha optato per una

classificazione legata all’evoluzione delle operazioni di pace rispetto alla loro funzione

identificando tre generazioni di operazioni di pace17

.

Si ritiene opportuno fornire un quadro storico dell’evoluzione delle operazioni

militari delle Nazioni Unite cercando, in questo excursus, di dare conto dei modelli e di

delinearne le caratteristiche.

3. Segue. L’origine del modello

Le Nazioni Unite identificano la missione di supervisione in Palestina del 194818

come la prima operazione di pace19

. L’Operazione UNTSO, in realtà, può essere

qualificata come una missione composta esclusivamente da osservatori. Mancherebbero,

quindi, i requisiti che identificano il primo modello di operazioni di pace militari e che

sono alla base del peacekeeping classico.

L’origine del tradizionale modello delle operazioni di pace va, quindi, fatta risalire

alla missione UNEF I del 1956, istituita dall’Assemblea Generale20

a seguito della crisi

nel Canale di Suez. Come si è detto poco sopra, per quanto UNEF I non sia stata in ordine

temporale la prima operazione delle Nazioni Unite, si può affermare che essa sia il primo

16 Si vedano su tutti, CONFORTI–FOCARELLI, Le Nazioni Unite, cit., p. 266, P. PICONE, Il peace-

keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria, in Rivista di Diritto

Internazionale, 1996, p. 5 ss.

17 PICONE, Il peace-keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria,

loc. ult. cit.

18 L’operazione UNTSO (United Nations Truce Supervision Organization) istituita dal Consiglio

di Sicurezza con risoluzione il 29 maggio 1948. UN Doc. S/RES/50 (1948).

19 UNITED NATIONS, The Blue Helmets: a review of United Nations Peacekeeping, New York,

1990, p.1

20 Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 998 del 4 novembre 1956, UN Doc. A/RES/998 (ES-I)

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esempio di operazione di peacekeeping in quanto ne incardina le caratteristiche principali

ormai consolidate21

nella prassi ed accettate dalla dottrina22

.

Peraltro, la missione in parola rappresenta un punto di riferimento anche per

l’ancora attuale dibattito sulle competenze dell’Assemblea Generale in tema di

mantenimento della pace e della sicurezza internazionale in quanto rimane uno dei due

esempi di operazioni di pace istituite dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e non

dal Consiglio di Sicurezza23

.

UNEF I, si diceva, è stata un’operazione importante in quanto, istituita dalle

Nazioni Unite, era costituita da contingenti militari messi a disposizione dagli Stati

membri mediante specifici accordi ed infine condotte sulla base di direttive generali

impartite dal Segretario Generale24

. La circostanza in virtù della quale i contingenti siano

21 I tre principi delle operazioni di peacekeeping sono stati per la prima volta enunciati dall’allora

Segretario General Dag Hammarskjold, nel 1958 (UN Doc. A/3289 del 4 novembre 1956 e A/3302 del 6

novembre 1956). Si veda, ancora, e a conferma, il più recente documento delle Nazioni Unite sulle

operazioni di pace: United Nations Peace Operations. Principles and Guidelines, cit., p. 31

22 Si veda inter alia, A. ORAKHELASHVILI, The legal basis of UN operations, in Virginia Journal of

International Law, 2003, pp. 485 ss.

23 Istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 1001 (ES-I) del 5

novembre 1956. UNEF I rimane uno dei due precedenti nella storia delle operazioni di pace ad essere

istituiti dall’Assemblea Generale, insieme alla missione UNSF in Nuova Guinea nel 1962. Il dibattito sulle

competenze dell’Assemblea Generale in tema di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale

risale al 1950, al tempo dell’autorizzazione agli Stati nel caso della guerra in Corea. Allora la stessa

Assemblea Generale approvò la risoluzione n. 377/V del 3 novembre 1950, denominata Uniting for Peace,

con la quale stabilì esplicitamente che, in caso di inerzia del Consiglio di Sicurezza, l’organo plenario

dell’ONU sarebbe stato competente a prendere decisioni in materia di mantenimento della pace e della

sicurezza, compresa l’istituzione di forze armate. La Corte internazionale di giustizia nel parere su Certe

Spese ha aperto alla possibilità che l’Assemblea Generale possa istituire forze di peacekeeping, vista la

natura della misura in questione, che, a parere della Corte non andrebbe inquadrata nei poteri coercitivi di

cui all’art. 42 della Carta dell’ONU, la qual circostanza avrebbe invece escluso la competenza dell’organo

plenario delle Nazioni Unite a favore del Consiglio di Sicurezza. Parte della dottrina, invece, ha rilevato

alcune difficoltà nell’accettare le competenze dell’Assemblea Generale per quel che riguarda l’istituzione di

operazioni militari, essendo queste da considerarsi azioni coercitive a tutti gli effetti (su tutti, CONFORTI-

FOCARELLI, Le Nazioni Unite, cit, p. 313). La stessa dottrina esprime dubbi sull’esistenza di una norma

consuetudinaria che attribuirebbe tale competenza alla Corte, neppure se fatta derivare dalla risoluzione

Uniting for Peace (Id., pp. 316-317).

24 PINESCHI, Le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace, cit., p. 1.

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stati messi a disposizione dagli Stati mediante specifici accordi e non su base permanente

può essere considerata la prima caratteristica delle operazioni di peacekeeping, ed un

primo tratto distintivo rispetto alle operazioni che erano originariamente previste nell’art.

42 della Carta, che invece prevedevano la realizzazione degli accordi di cui agli artt. 43 e

seguenti.

Il suo mandato iniziale era limitato all’interposizione tra le parti in conflitto per

garantire il cessate il fuoco e prevenire la ripresa delle ostilità25

. Le caratteristiche che

hanno contraddistinto l’operazione e che ancora oggi contraddistinguono il modello delle

operazioni di pace, sono tendenzialmente quattro: il consenso dello Stato sul cui territorio

le forze sono dispiegate, la neutralità rispetto alle parti in conflitto, l’uso della forza

circoscritto alla legittima difesa dei militari e alla tutela della missione, il reperimento dei

militari attraverso accordi ad hoc stipulati dalle Nazioni Unite con gli Stati membri26

.

La migliore dottrina27

, alla luce delle caratteristiche suesposte, identifica

nell’operazione UNEF I l’origine della prima generazione di operazioni di pace. Questo

primo modello non troverebbe il suo fondamento giuridico nella Carta delle Nazioni

Unite, non esistendo, come si diceva, una norma ad hoc che disciplini le operazioni di

25 R. HIGGINS, United Nations Peacekeeping 1946-1967: documents and commentary, Oxford,

1969, pp. 221 ss.

26 CONFORTI – FOCARELLI, Le Nazioni Unite, cit., p. 267; S. MARCHISIO, L’Onu. Il diritto delle

Nazioni Unite, Bologna, 2000, p. 260. Alcuni autori aggiungono ai quattro principi altri due che, tuttavia,

non hanno trovato riscontro nella maggioranza della dottrina, come elementi fondanti delle operazioni in

parola: tali elementi sarebbero la tendenziale astensione dei membri permanenti dalla partecipazione alle

operazioni di pace e il controllo delle Nazioni Unite sulle forze militari. Si veda a tal proposito, M

.GOULDING, The evolution of United Nations Peacekeeping, in International Affairs, 1993, p. 451.

27 Si veda su tutti, PICONE, Il peace-keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e

amministrazione fiduciaria, cit., p. 6; ma anche W.J. DURCH, The evolution of UN Peacekeeping: case

studies and comparative analysis, New York, 1995, pp. 122 ss.

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pace. Il peacekeeping classico, andrebbe, quindi, ricondotto all’esistenza di una

consuetudine formatasi all’interno della Carta stessa28

.

L’allora Segretario Generale Dag Hammarskjold, il quale suggerì come base

giuridica il consenso degli Stati interessati, pose forti limiti all’uso della forza, escludendo

la possibilità di ricorrere alle norme di cui al capitolo VII e ammettendo solo la legittima

difesa personale delle forze militari dispiegate29

. Nonostante ciò, UNEF I è da

considerarsi un’operazione militare, la prima delle Nazioni Unite che, con la sua

istituzione, si allontanarono dal modello delle operazioni di mera osservazione30

.

Il modello è stato poi confermato nella prassi delle operazioni di pace

immediatamente seguenti ed ha contribuito a creare una tipologia di operazioni,

denominate per l’appunto di peacekeeping, largamente utilizzata nel corso degli anni.

Appartengono a questa prima fase di operazioni la forza di peacekeeping dispiegata nel

1964 nell’ambito del conflitto a Cipro tra la Turchia e la Grecia (UNFICYP), la seconda

missione UNEF (II) istituita nel 1973 durante la guerra dello Yom Kippur e la seguente

(1974) missione di osservatori UNDOF nella stessa zona, la missione in Libano (UNIFIL)

del 1978 e la prima fase della missione in Congo, nel 1960 (ONUC)31

.

28 Così CONFORTI – FOCARELLI, Le Nazioni Unite, cit., p. 272; PICONE, Il peace-keeping nel

mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria, cit., p. 7; L. BALMOND, A propos du

cadre juridicque des operations de maintien de la paix, in IIHL, International Humanitarian Law Human

Rights and Peace Operations. Atti della Tavola Rotonda, Sanremo, 2008, pp. 70 – 71.

29 Va fin da ora sottolineato come la questione dell’uso forza nelle operazioni militari anche della

prima generazione sia dubbia, proprio con riguardo alle stesse parole dell’allora Segretario Generale al

tempo dell’istituzione UNEF I. Infatti, l’espressione usata da Hammarskjold secondo il quale l’uso della

forza sarebbe dovuto essere limitato solo “to the extent that consent of the parties concerned is required

under generally recognized international law” (UN Doc. A/3302 § 9) potrebbe indicare un’apertura ad un

concetto di legittima difesa più ampio.

30 M. ZWANENBURG, Accountability of Peace Support Operations, L’Aja, 2005, p. 13.

31 Per un elenco si rimanda a M. BOTHE, Peace-keeping, cit., in SIMMA (ed.), The Charter of the

United Nations: a Commentary, cit., pp. 665 – 667. Per un’elencazione più generale delle operazioni della

prima fase si rinvia al testo ufficiale delle Nazioni Unite, The Blue Helmets. A review of the United Nations

Peacekeeping, New York, 1990.

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CAPITOLO PRIMO

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Già nel corso delle operazioni di pace della prima generazione è possibile

evidenziare come il concetto di uso della forza solo per legittima difesa personale sia stato

espanso fino a ricomprendere situazioni ben al di là dei limiti originari posti da Dag

Hammarskjold32

. L’interpretazione dei principi che governano l’uso della forza nelle

operazioni di pace è stato, quindi, assai flessibile, sin dalla prima generazione di

operazioni, creando una situazione di incertezza intorno ai reali confini dell’istituto della

legittima difesa che, come detto, è da considerarsi un pilastro delle prime operazioni delle

Nazioni Unite33

.

Le difficoltà intorno ai limiti all’uso della forza sono sfociate in un vero e proprio

abbandono della legittima difesa, nel corso della prima operazione in Congo, nel 1960. In

quell’occasione, l’operazione, inizialmente di prima generazione, si dimostrò inadeguata

proprio sul punto delle restrizioni all’uso della forza in una realtà difficile quale una

guerra civile con il collasso delle istituzioni locali34

.

La risoluzione 161 del 196135

autorizzò l’ONUC ad usare la forza per evitare lo

scoppio della guerra civile e per espellere dalla regione del Katanga le milizie

32 Nel ribadire che l’uso della forza era consentito solo in legittima difesa, il Segretario Generale

specificava che tale concetto dovesse essere interpretato nel senso di vietare ai militari impiegati nelle

operazioni di pace, l’uso della forza a seguito di una loro iniziativa. Rimaneva peraltro possibile per gli

stessi militari utilizzare la forza in risposta ad un tentativo armato di costringerli a retrocedere dalle loro

posizioni, se queste si collocano nell’ambito del mandato di cui alla risoluzione istitutiva. UN Doc. A/3943

dell’8 ottobre 1958, § 179.

33 Si veda sul punto M. FRULLI, Le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e l’uso della

forza, in Rivista di diritto internazionale, 2001, pp. 354-355. L’Autrice pone in evidenza come il concetto

di legittima difesa sia stato oggetto di diverse interpretazioni, tra le quali, sarebbe possibile individuare due

filoni essenziali: la legittima difesa personale dei singoli componenti delle Forze delle Nazioni Unite ed un

concetto più ampio di legittima difesa che sarebbe riferibile all’Organizzazione e che quindi permetterebbe

un ricorso all’uso della forza per difendere gli obiettivi del mandato. L’Autrice sembra ritenere preferibile

la prima strada, in quanto la seconda comporterebbe un ricorso al capitolo VII della Carta, che non viene

mai esplicitamente menzionato nelle operazioni della prima generazione.

34 S. CHESTERMAN, The use of force in UN peace operations, in Peacekeeping Best Practices.

External Study, p. 7. Reperibile sul sito internet www.un.org

35 UN Doc. S/RES/161 (1961)

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paramilitari ivi presenti36

. Da notare l’esplicito abbandono della formula della legittima

difesa che trasformò l’operazione, da una tradizionale missione di pace, ad una di

enforcement37

.

Peraltro, l’ONUC ha posto ulteriori quesiti sulla necessità o meno di chiedere il

consenso laddove, nei casi di guerra civile, una o più zone del territorio siano sotto il

controllo de facto, di milizie non riconducibili al Governo che dovrebbe validamente

prestare consenso all’operazione38

. Se l’assenza di consenso di una o più parti in conflitto

è accompagnato, come nel caso del Congo del 1961, dall’esplicita autorizzazione all’uso

della forza, ciò comporta che la Forza delle Nazioni Unite si trovi a dover fronteggiare un

conflitto armato.

L’ONUC, tuttavia, non rimase un caso isolato nell’ambito della prima generazione

di operazioni. Nella missione a Cipro del 1974, ad esempio, lo stesso Segretario Generale

si espresse nel senso di ritenere possibile il ricorso alla forza in due circostanze ulteriori

rispetto alla legittima difesa: laddove vi fosse una violazione da parte di una delle Parti

del conflitto di specifici accordi presi per preservare il cessate il fuoco o laddove vi fosse

un tentativo di uso della forza contro le forze delle Nazioni Unite al fine di impedire loro

il raggiungimento degli obiettivi di cui al mandato39

.

36 Sul punto specifico delle limitazioni all’uso della forza nell’ambito di ONUC si veda G.

DRAPER, The legal limitations upon the employment of weapons by United Nations force in Congo, in

International & Comparative Law Quarterly, 1963, pp. 387 ss.

37 Ancora FRULLI, Le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e l’uso della forza, cit., pp.

363-364. Invero, l’Autrice ritiene che il vero elemento di trasformazione dell’operazione ONUC non sia

tanto da rinvenirsi nell’esplicita autorizzazione all’uso della forza, bensì nella decisione da parte del

Consiglio di Sicurezza di autorizzare la missione senza il consenso delle autorità territoriali. In specie, le

Nazioni Unite si schierarono apertamente con il governo centrale congolese e contro i gruppi paramilitari

che detenevano il controllo della regione del Katanga, ai quali l’ONU non chiese il consenso, nonostante

fossero “autorità territoriali de facto”.

38 Sul punto A. DI BLASE, The role of Host State consent with regard to non coercive actions by

the United Nations, in A. CASSESE (ed.), United Nations Peacekeeping: legal essays, Alphen aan den Rijn,

1978, p. 64.

39 UN Doc. S/5653 (1964), §§ 17 (c), 18 (c).

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Vi è, quindi, nella prima generazione delle operazioni di pace, un progressivo

scivolamento nel concetto di uso della forza, dalla legittima difesa personale di cui alla

missione UNEF I alla difesa del mandato della missione, di cui all’UNFICYP, passando

per l’azione di enforcement dell’operazione in Congo40

.

4. Segue. L’emersione di nuovi modelli: le operazioni di seconda

generazione.

La guerra fredda rallentò l’evoluzione delle operazioni di pace delle Nazioni

Unite. Con l’inizio degli anni novanta si ebbe una nuova evoluzione delle operazioni di

pace che portò larga parte della dottrina a parlare di una seconda generazione di

operazioni di pace41

.

Si potrebbe ritenere, in linea con la dottrina42

, che la prima operazione di pace,

post guerra fredda, a rientrare nel nuovo modello, sia stata l’operazione UNTAG in

Namibia nel 198943

, la quale aveva il mandato di garantire il libero svolgimento delle

elezioni in quello Stato e, più in generale, perseguiva obiettivi di tipo politico, piuttosto

40 T. FINDLAY, The use of force in UN Peace Operations, New York, 2002, p. 87.

41 Si veda inter alia R. LEE, United Nations Peacekeeping: developments and prospects, in Cornell

International Law Journal, 1995, p. 619; M. GRIFFIN, Retrenchment, reform and regionalization: trends in

UN peace support operations, in International Peacekeeping, 1999, p. 2. Per la dottrina italiana si vedano

ancora CONFORTI-FOCARELLI, Le Nazioni Unite cit., p. 267; PICONE, Il peace-keeping nel mondo attuale:

tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria, cit., p. 8; G. CELLAMARE, Le operazioni di peace-keeping

multifunzionali, Torino, 2001, pp. 205 ss; R. DREYER, State building and democracy in second generation

peacekeeping operations, in D. WARNER, cit., pp. 147 ss.

42 N. SHCRIJVER, Introducing second generation peacekeeping: the case of Namibia, in African

Journal of International and Compartive Law, 1994, pp. 1 ss.

43 UN Doc. S/RES/632 (1989) del 16 febbraio 1989. Invero, l’operazione UNTAG era stata

prevista sin dal 1978, con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 435 del 29 settembre. Il lasso di

tempo che intercorre tra le due date fu dovuto all’attesa della firma dell’accordo di pace tra Angola, Cuba e

Sud Africa che prevedeva il ritiro delle truppe dell’ultimo Stato dai territori della Namibia.

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che militare44

. Il successo di tale missione, dovuto anche all’interessamento delle grandi

potenze45

ed alla volontà delle parti di cooperare con le Nazioni Unite46

, segnò per

l’appunto l’inizio di una nuova tipologia di operazioni.

La principale caratteristica delle operazioni in parola è la preponderante presenza

della componente civile rispetto a quella militare, invertendo così la tendenza rispetto alle

operazioni di prima generazione47

.

Le operazioni della seconda generazione sono autorizzate con mandati molto ampi

che, accanto ai compiti tipici delle tradizionali operazioni di pace militari, comprendono

lo svolgimento di funzioni di natura sociale, per le quali la presenza di personale civile

specializzato si rende indispensabile. Un simile ruolo da parte delle Nazioni Unite è stato

enfatizzato al punto di ritenere che tali operazioni possano essere un fattore decisivo per

la trasformazione politica di un paese in fase di transizione48

. Proprio per questo motivo

la dottrina ha ravvisato la necessità di istituire operazioni di pace con mandati più ampi,

in grado di consentire alle Nazioni Unite di svolgere un ruolo fondamentale

nell’attuazione dei numerosi accordi di pace stipulati dopo la fine della guerra fredda49

.

Tali missioni vengono in dottrina aggettivate come multifunzionali, in quanto i

loro mandati comprendono compiti quali l’assistenza elettorale e umanitaria, il rimpatrio

44 L.M. HOWARD, UN Peace Implementation in Namibia: the Causes of Success, in International

Peacekeeping, 2002, p. 99.

45 Ibidem, pp. 102 ss.;

46 Così G.A. DZINESA, A comparative perspectives of UN peacekeeping in Angola and Namibia, in

International Peacekeeping, 2004, p. 656.

47 GOULDING, The evolution of United Nations Peacekeeping, cit., p. 456.

48 E. BERTRAM, Reinventing governments: the promise and perils of United Nations Peacekeeping,

in The Journal of Conflict Resolution, 1995, p. 388.

49 CELLAMARE, Le operazioni di peace-keeping multifunzionali, cit., p. 42.

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dei rifugiati, il monitoraggio sul rispetto dei diritti dell’uomo e, più in generale, compiti di

ricostruzione post-bellica50

.

In un simile contesto rimarrebbero invariati i principi cardine delle operazioni di

pace della prima generazione: consenso, imparzialità ed uso della forza solo in legittima

difesa, laddove ovviamente vi fosse una presenza militare nella missione. La presenza di

tutti gli elementi tipici è consolidata nella prassi e ciò ha portato molti autori a ritenere

non esistente una vera e propria linea di demarcazione tra operazioni di prima e di

seconda generazione, con la conseguente critica dell’ultima ‘etichetta’51

.

Il nuovo ruolo che andavano assumendo le forze delle Nazioni Unite venne

analizzato anche dall’allora Segretario Generale Boutros Ghali nel documento An Agenda

for Peace. In esso, veniva espressamente evocato il post conflict peace building come

un’autonoma categoria di operazioni di pace52

.

La rilevanza delle operazioni di seconda generazione, che non sono operazioni

esclusivamente militari, nella presente ricerca è dovuta al fatto che, nella prassi recente, le

operazioni multifunzionali non sono più caratterizzate da mandati esclusivamente votati

alla ricostruzione, bensì possiedono caratteristiche tipiche delle operazioni di

50 CELLAMARE, Le operazioni di peace-keeping multifunzionali, cit., pp. 180 ss.

51 Invero, l’esistenza di una linea di demarcazione netta tra operazioni di prima e seconda

generazione è tuttora oggetto di critiche da parte di autorevole dottrina che sosterrebbe come in realtà non

vi sia stato un vero e proprio passaggio da una generazione all’altra, bensì come l’originario modello di

peacekeeping sia stato ampliato dal punto di vista delle funzioni, da qui il termine multifunzionali. Inoltre,

la stessa dottrina, evidenzia come vi siano esempi di operazioni multifunzionali anche prima dell’ideale

passaggio da una generazione all’altra, ed addirittura sotto la vigenza della Società delle Nazioni. Si vedano

sul punto PICONE, Il peace-keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria,

cit., p. 10; CELLAMARE, Le operazioni di peace-keeping multifunzionali, cit., pp. 206 – 207.

52 Report of the Secretary General pursuant to the statement adopted by the Summit meeting of the

Security Council on 31 January 1992. An Agenda for Peace. Preventive diplomacy, peacemaking and

peacekeeping, cit., §§ 55-59.

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mantenimento della pace e persino elementi di enforcement53

, come si vedrà più avanti

nel corso della trattazione.

5. Segue. La crisi del modello: le operazioni di pace in ex Jugoslavia e

Somalia e la terza generazione di operazioni.

All’entusiasmo suscitato dal rapporto del Segretario Generale del 1992 seguirono

le due operazioni di più difficile attuazione della storia delle Nazioni Unite: in ex

Jugoslavia ed in Somalia.

Il Segretario Generale aveva aperto alla possibilità che le operazioni di pace delle

Nazioni Unite fossero autorizzate ad usare la forza non solo per legittima difesa ma anche

per azioni di enforcement, laddove ciò si fosse reso necessario per prevenire un

inasprimento della conflittualità nei territori di dispiegamento delle forze54

.

Sulla scorta di questo nuovo approccio, evidentemente innovativo rispetto ai

principi classici delle operazioni di pace55

, il Consiglio di Sicurezza autorizzò i

componenti delle missioni in ex Jugoslavia e Somalia a ricorrere alla forza armata in base

al capitolo VII per scopi ben precisi al di là della legittima difesa.

Per quel che riguarda UNPROFOR, in ex Jugoslavia, istituita nel febbraio del

199256

, il suo mandato originario è stato ampliato a più riprese a tal punto che le forze

53 Si veda, ad esempio l’operazione MONUSCO.

54 B. BOUTROS GHALI, Beyond Peacekeeping, in New York Journal of International Law and

Politics, 1992, p. 120.

55 C. GRAY, Host State consent and United Nations Peacekeeping in Yugoslavia, in Duke Journal

of Comparative and International Law, 1996, p. 241.

56 UN Doc. S/RES/743 (1992). Il mandato originario comprendeva compiti di demilitarizzazione

delle cosiddette aree protette, di monitoraggio delle attività di polizia e di facilitazione del ritorno nelle

stesse aree degli sfollati.

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ONU furono autorizzate ad usare la forza inter alia per rendere sicura la consegna degli

aiuti umanitari57

e per prevenire attacchi contro le safe areas58

.

La seconda operazione di pace in Somalia, UNOSOM II, venne autorizzata dal

Consiglio di Sicurezza nel marzo del 199359

per sostituire l’operazione UNITAF, guidata

dagli Stati Uniti. Fin dai momenti precedenti la sua istituzione l’allora Segretario

Generale si raccomandò affinché le forze militari fossero autorizzate a ricorrere a poteri

di enforcement ex capitolo VII della Carta60

. Di fatto, UNOSOM II può essere considerata

come un’operazione coercitiva che nasce come tale e che quindi, come UNPROFOR,

prende le distanze dal modello originario, anche se vi è dibattito sulla possibilità di

ricondurre comunque le due missioni nell’alveo delle operazioni di pace61

.

Invero, il mandato di UNOSOM II è piuttosto peculiare in quanto se è pur vero

che l’operazione è nettamente distante dal primo modello di operazione, è vero anche che

tra i compiti della forza vi sono sia elementi tipici delle operazioni di pace della prima

generazione, sia elementi tipici del post conflict peace building62

.

Le due operazioni appena esaminate sono considerate tra i più grandi insuccessi

delle Nazioni Unite nell’ambito delle operazioni di pace, non solo per il ricorso

all’autorizzazione all’uso della forza al di là della legittima difesa, ma anche e soprattutto

57 UN Doc. S/RES/776 (1992)

58 UN Doc. S/RES/835 (1992)

59 UN Doc. S/RES/814 (1993)

60 “UNOSOM II will not be able to implement the above mandate unless it is endowed with

enforcement powers under Chapter VII of the Charter”. UN Doc. S/25354 del 3 marzo 1993.

61 S. LALANDE, Somalia: major issue for future UN Peacekeeping, in E. WARNER (ed.), New

dimensions of Peacekeeping, Dordrecht, 1995, p. 76. L’Autore arriva a definire UNOSOM II come una

“non-peacekeeping operation”.

62 LALANDE, Somalia: major issue for future UN Peacekeeping, cit, p. 82. L’Autore evidenzia

come proprio l’eccessiva ampiezza del mandato abbia portato la missione ad un fallimento.

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per l’assenza del consenso delle parti, il che ha reso difficile l’attuazione del mandato di

entrambe le missioni63

.

La dottrina ha classificato le operazioni militari in ex Jugoslavia e Somalia come

appartenenti alla terza generazione di operazioni di pace, nella quale è possibile

individuare come precursore l’intervento in Congo del 196164

. Invero, l’ONUC non era

stata esplicitamente autorizzata ex capitolo VII della Carta, mentre questa autorizzazione

è un tratto comune a UNPROFOR e UNOSOM II che si pone come netta linea di

demarcazione rispetto alle operazioni del passato65

.

6. Segue. L’evoluzione nella prassi recente.

La prassi recente delle operazioni di pace ha mostrato una tendenza delle Nazioni

Unite, ed in particolare del Consiglio di Sicurezza, a fondare le operazioni di pace sul

Capitolo VII della Carta66

. Una simile inversione rispetto al passato si deve sicuramente

motivare con le difficili esperienze delle operazioni in Somalia e in ex Jugoslavia, scenari

nei quali, come si è visto, il tradizionale modello di peacekeeping, fondato sui tre principi

del consenso, della neutralità e dell’uso della forza solo in legittima difesa è andato

profondamente in crisi. Una simile situazione aveva portato il Segretario Generale delle

63 BOTHE, Peace-keeping, cit., in SIMMA (ed.), The Charter of the United Nations: a Commentary,

cit., p. 651.

64 PICONE, Il peace-keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria,

cit., p. 9.

65 Invero vi è parte della dottrina che non classifica UNPROFOR e UNOSOM II nel novero delle

operazioni di pace in senso stretto, essendo, esse, azioni coercitive. Si è già visto LALANDE, Somalia: major

issue for future UN Peacekeeping, loc. ult. cit., ma si veda anche M. BOTHE, Peace-keeping and the use of

force. Back to the Charter or political accident?, in International Peacekeeping, 1994, pp. 76 ss. Peraltro,

l’orientamento del Segretario Generale delle Nazioni Unite è stato quello di considerare le due operazioni

come rientranti nella categoria delle operazioni di pace. Non vi sarebbero, comunque, nella Carta delle

Nazioni Unite, ostacoli alla trasformazione di un’operazione di pace in un’azione coercitiva. In questo

senso, PINESCHI, Le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace, cit., pp. 39-40

66 N. BLOKKER, The Security Council and the Use of Force: on Recent Practice, in N. BLOKKER-

N.SHCRIJVER, The Security Council and the Use of Force: Theory and Reality – A need for Change?,

Leiden 2005, pp. 17 ss.

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Nazioni Unite a rivedere l’impostazione del peacekeeping enunciata nell’Agenda for

Peace, nel senso di ritenere che i tre principi del peacekeeping classico non fossero idonei

a rendere le operazioni di pace in grado di assolvere a funzioni importanti quali la

protezione delle missioni umanitarie e della popolazione civile67

.

Una simile presa di coscienza dell’inadeguatezza del peacekeeping tradizionale si

accompagnava, nello stesso periodo, ad una forte diminuzione delle operazioni condotte

dalle Nazioni Unite, principalmente per problemi di budget ma anche per problemi di

ordine più squisitamente politico68

. Il ‘congelamento’ delle operazioni di pace delle

Nazioni Unite finiva nel 1998 quando venivano istituite tre missioni in Africa sul modello

delle classiche operazioni di peacekeeping della prima generazione. Due di queste69

erano

caratterizzate da alcuni elementi di enforcement e pertanto erano state autorizzate, per le

parti rilevanti, ex Capitolo VII della Carta, la terza invece era connotata dai tre elementi

del peacekeeping tradizionale, senza compiti di enforcement70

. Nello stesso periodo vi

sono poi stati i primi esperimenti di amministrazione transitoria in Kosovo e Timor Est

67 Supplement to An Agenda for Peace: Position Paper of the Secretary General on the Occasion of

the fiftieth Anniversary of the United Nations, UN Doc., A/50/60-S/1995/1, §§ 33-35. In quel documento, il

Segretario Generale delle Nazioni Unite abbandonava la classificazione precedente e lo stesso concetto di

peace-enforcement.

68 Ad esempio, si veda la posizione degli Stati Uniti con riguardo alle operazioni di pace delle

Nazioni Unite espressa nella Presidential Decision Directive on Reforming Multilateral Peace Operations

(PDD-25) con la quale, venivano posti forti limiti alla partecipazione degli Stati Uniti a tali operazioni. Per

maggiori spunti sul dibattito si rinvia a D. SCHEFFER, Problems and prospects for UN Peacekeeping, in

ASIL Proceedings, 1995, pp. 285 ss.

69 La missione UNAMSIL in Sierra Leone fu stata istituita dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni

Unite con la risoluzione 1270 del 22 ottobre 1999 (UN Doc. S/RES/1270) con un mandato multifunzionale

e limitati poteri di enforcement ex capitolo VII. La limitatezza dei poteri di UNAMSIL è stata anche

sottolineata dalla Corte Speciale per la Sierra Leone nel processo ai leader del RUF, si veda SCSL, RUF

case, cit., § 1911. Simile mandato per la missione MONUC, in Congo, istituita con la risoluzione 1291 del

24 febbraio 2000 (UN Doc. S/RES/1291).

70 La missione UNMEE in Etiopia ed Eritrea, con compiti di monitorare il cessate il fuoco con il

consenso delle parti. UN Doc. S/RES/1320.

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che, come si vedrà71

, hanno posto le basi per un certo tipo di evoluzione delle operazioni

di pace.

Nel 2000, la percezione della necessità di un cambiamento nel modo di concepire

le operazioni di pace veniva evidenziata nel rapporto Brahimi72

, conclusivo del lavoro del

panel di esperti sulle operazioni di pace delle Nazioni Unite commissionato dal Segretario

Generale. Nel confermare i tre capisaldi del peacekeeping classico, consenso, neutralità

ed uso della forza in legittima difesa, nel documento veniva raccomandato l’uso, da parte

delle forze militari delle Nazioni Unite, di regole di ingaggio più robuste in grado di

conferire all’operazione una capacità deterrente più efficace di quella che era già stata

sperimentata nelle prime esperienze di peacekeeping73

. Per quanto il panel abbia tenuto

distinto il peacekeeping classico dal peace-enforcement, in dottrina74

si è discusso

sull’avvicinamento tra le due categorie operato nel rapporto e sull’introduzione di una

nuova forma di peacekeeping ‘muscolare’75

.

Il nuovo documento sulle operazioni di pace, approvato nel 2008, ritorna ancora

sul punto dell’evoluzione dei tre principi classici del peacekeeping, considerandoli ancora

attuali e fondamentali per il successo di un’operazione di pace76

.

È possibile individuare una decisa svolta per quel che concerne il concetto di

neutralità/imparzialità. Nel documento, infatti, viene chiarito e sottolineato che le forze

militari impiegate in un’operazione di pace devono essere imparziali rispetto alle parti al

71 Si rinvia infra

72 Report of the Panel on United Nations Peace Operations (Brahimi Report), 21 agosto 2000, UN

Doc. A/55/305, S/2000/809.

73 Id., § 51

74 M. FROHLICH, Keeping track of UN peacekeeping – Suez, Srebrenica, Rwanda and the Brahimi

Report, in Max Planck Yearbook of United Nations Law, 2001, p. 227.

75 N.D. WHITE, Commentary on the Report of the Panel on United Nations Peace Operations (The

Brahimi Report), in Journal of Conflict and Security Law, 2001, p. 130

76 United Nations Peacekeeping Operations. Principles and Guidelines, cit., p. 31

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conflitto, ma non neutrali rispetto all’esecuzione del mandato77

. Appare questa la

conferma di una virata verso un concetto di operazioni di pace simile a quello

dell’esperienza dell’operazione MONUC in Congo nel 1960. Viene, infatti, spiegato nel

documento come la pretesa volontà di essere imparziali rispetto alle parti non debba

trasformarsi in una giustificazione per il mancato intervento, laddove vi siano situazioni

che chiaramente ostacolano il processo di pace78

. In aggiunta, viene anche specificato che

la non neutralità rispetto al mandato deve anche tradursi nella necessaria sanzione di

quelle azioni intraprese dalle Parti, in violazione delle regole e dei principi internazionali

che l’operazione di pace, da mandato, si propone di cautelare79

.

Per quel che riguarda l’uso della forza, viene ancora una volta ribadito che le due

categorie classiche di peacekeeping e peace-enforcement vanno tenute distinte. La

distinzione tra le due categorie viene collocata sul piano del consenso delle parti, come

anche la migliore dottrina insegna80

. Sul punto, permangono ancora delle perplessità su

quale consenso vada prestato affinchè l’operazione militare possa o meno considerarsi

coercitiva. Attualmente, la maggior parte delle operazioni militari delle Nazioni Unite

sono dispiegate in situazioni nelle quali, come per la missione ONUC del 1960, vi è la

possibilità che le forze internazionali siano impegnate in conflitti armati con attori non

statali che hanno il controllo de facto di una o più zone. Resta da chiedersi se il consenso

di tali entità sia necessario al pari del consenso dello Stato territoriale de jure. La

giurisprudenza internazionale penale, che si è già richiamata, ha avuto modo di affrontare

il problema chiarendo come, nei casi affrontati, la richiesta di intervento ad opera delle

parti di un conflitto sia già di per sé un criterio per considerare la missione come di

77 United Nations Peacekeeping Operations. Principles and Guidelines, cit., p. 33

78 Ibidem.

79 Ibidem.

80 BOTHE, Peace-keeping, cit., in SIMMA (ed.), The Charter of the United Nations: a Commentary,

cit., p. 652.

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peacekeeping e non di peace-enforcement81

. Il punto che, tuttavia, va ancora chiarito è

l’eventuale necessità di un rinnovo del consenso laddove il Consiglio di Sicurezza

modifichi il mandato di una missione autorizzandola sulla base del Capitolo VII ad

intraprendere azioni che vadano al di là dell’originario mandato.

Nel definire l’uso della forza nelle operazioni che il documento chiama di

peacekeeping ‘robusto’, viene rammentata la prassi più recente in tema di operazioni di

pace, laddove viene autorizzato, dal Consiglio di Sicurezza sulla base del capitolo VII,

l’uso di tutti i mezzi necessari per il raggiungimento degli obiettivi posti dal mandato82

.

Alcune di esse sono esplicitamente autorizzate ad utilizzare la forza per il raggiungimento

degli obiettivi del mandato. I contingenti militari della missione UNAMID, operazione

ibrida delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana in Sudan, nel mandato sono

chiaramente autorizzati dal Consiglio di Sicurezza a prendere tutte le misure necessarie al

fine di proteggere il proprio personale, di rendere sicuro e libero il movimento degli aiuti

umanitari, di supportare l’attuazione dell’accordo di pace che riguarda il Darfur, di

prevenire attacchi armati e infine di proteggere i civili83

. Stesso discorso può essere svolto

per l’operazione UNMIS, dispiegata sempre in Sudan con un mandato speculare a quello

di UNAMID84

.

81 RUF Case, ult. cit.; Abu Garda Case, ult. cit.

82 United Nations Peacekeeping Operations. Principles and Guidelines, cit., p. 34

83 UN Doc. S/RES/1769 (2007) del 31 luglio 2007, § 15 lett. (a).

84 UN Doc. /SRES/1590 (2005) del 24 marzo 2005, § 16.

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7. Il ruolo delle organizzazioni regionali.

Nella prassi degli ultimi anni è identificabile un coinvolgimento sempre maggiore

delle organizzazioni regionali per assolvere ai compiti legati al mantenimento della pace e

della sicurezza internazionale85

.

Sono quindi riscontrabili nella prassi esempi di operazioni militari condotte da

organizzazioni regionali a vario titolo ed intensità collegate con le Nazioni Unite86

.

Possono essere individuati diversi modelli di cooperazione tra Nazioni Unite ed

organizzazioni regionali nell’istituzione di operazioni militari87

.

Il primo modello è senz’altro quello rappresentato dalle operazioni militari istituite

dalle organizzazioni regionali dietro autorizzazione delle Nazioni Unite.

Vi può essere poi un supporto operativo che può essere messo a disposizione

dell’ONU dall’organizzazione internazionale o viceversa88

. L’esempio classico che può

essere fatto è quello della missione UNPROFOR, con il sostegno della NATO alle forze

di protezione delle Nazioni Unite. Vanno segnalate, anche, le operazioni IFOR (prima) e

SFOR (dopo) di supporto all’operazione UNTAES in Croazia, a seguito degli accordi di

Dayton89

.

85 La necessità che le Nazioni Unite si servissero dell’azione delle organizzazioni regionali era

sentita già nel 1992 ed infatti ne aveva fatta esplicita menzione il Segretario Generale nell’Agenda for

Peace (Si veda Report of the Secretary General pursuant to the statement adopted by the Summit meeting of

the Security Council on 31 January 1992. An Agenda for Peace. Preventive diplomacy, peacemaking and

peacekeeping, cit., §§ 61-65). Ulteriori interventi hanno poi confermato questo orientamento istituzionale:

si pensi al rapporto dell’High Level Panel del 2004 (UN Doc. A/59/565 (2004), §§ 270-273), al rapporto del

Segretario Generale In Larger Freedom del 2005 (UN Doc. A/59/2005 (2005) §§ 213-215).

86 In questa sede non si può dare conto ed analizzare tutte le missioni istituite dalle organizzazioni

regionali. Si rimanda pertanto a H. McCOUBREY, Regional Peacekeeping in the Post cold war era, in

International Peacekeeping, 1999, pp. 129 ss.

87 Si veda sul punto U. VILLANI, L’ONU et les organisations regionales, in Académie de Droit

International de la Haye, Recueil des Cours, 2001, p. 417.

88 Id., p. 418.

89 Istituita con la risoluzione n. 1037 del 1996. UN Doc. S/RES/1037 (1996) del 15 gennaio 1996.

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CAPITOLO PRIMO

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Il secondo modello riguarda il cosiddetto spiegamento in comune. Nel

supplemento al documento An Agenda for Peace, il Segretario Generale aveva inquadrato

questo modello come una forma di cooperazione in cui le Nazioni Unite rivestono un

ruolo di supporto rispetto all’organizzazione regionale in questione, la quale si fa carico

della maggior parte degli oneri dell’operazione90

. Vi è quindi una ripartizione di

competenze tra le due entità sul campo91

. L’esempio più attuale che può essere riportato è

quello della missione UNMIK in Kosovo, istituita con la risoluzione 1244 del 1999 dal

Consiglio di Sicurezza, il quale organo, agendo sulla base del Capitolo VII, oltre ad avere

costituito un’amministrazione transitoria delle Nazioni Unite, ha autorizzato la presenza

di una forza internazionale istituita in seno alla NATO: la missione KFOR92

. Questa,

come si vedrà più in seguito nel corso del lavoro, solleva diversi problemi di attribuzione

delle condotte.

Il terzo modello di cooperazione concerne le operazioni organizzate

congiuntamente dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni regionali93

. Recentemente, un

simile modello di cooperazione è emerso dall’analisi dell’operazione UNAMID in

Darfur, organizzata congiuntamente dalle Nazioni Unite e dall’Unione Africana. Questa è

definita come un’operazione ibrida ed ha, invero, un mandato di peacekeeping robusto

comprensivo di compiti di protezione dei civili e di monitoraggio.

Da ultimo, e sempre nella prassi più recente, si può individuare un quarto modello

di cooperazione nell’ambito delle operazioni militari: si tratta di una sorta di alternanza

90 Supplement To An Agenda For Peace: Position Paper Of The Secretary-General On The

Occasion Of The Fiftieth Anniversary Of The United Nations, cit., § 86.

91 VILLANI, L’ONU et les organisations regionales, loc. ult. cit.

92 Sulla natura di KFOR si veda in dottrina M. GUILLAUME, Le cadre juridique de l’action de la

KFOR au Kosovo, in C. TOMUSCHAT, Kosovo and the international community. A legal assessment, The

Hague, 2002, pp. 243 ss.

93 VILLANI, L’ONU et les organisations regionales, cit., p. 419.

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CAPITOLO PRIMO

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tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali e tra organizzazioni regionali stesse. È il

caso dell’operazione MINURCAT, nella Repubblica Centrafricana ed in Ciad.

La missione in parola è stata istituita con la risoluzione n. 1778 del 25 settembre

2007. Parte inizialmente come una classica operazione di pace multifunzionale, con una

preponderante presenza di personale civile rispetto a quello militare94

.

Originariamente, quindi, MINURCAT si colloca al di fuori delle operazioni

autorizzate ex capitolo VII in quanto le funzioni di protezione dei civili sono delegate alla

missione dell’Unione Europea, esplicitamente autorizzata nella stessa risoluzione 95

.

L’operazione, tuttavia, subisce una robusta trasformazione nel 2009, allo scadere

del mandato della missione dell’Unione Europea. Con la risoluzione 1861 di quell’anno,

il Consiglio di Sicurezza incrementa sensibilmente la componente militare di

MINURCAT autorizzandola, ex capitolo VII a fare ricorso a tutti i mezzi necessari per

proteggere i civili e per svolgere tutta una serie di altre funzioni nei territori del nord-est

della Repubblica Centrafricana96

.

Vi è quindi un caso di “missione ponte” con le Nazioni Unite e l’Unione Europea

che si sono alternate nell’adempiere alla funzione della protezione dei civili.

Sulla stessa linea anche l’operazione UNMIL, delle Nazioni Unite, in Liberia,

istituita ex capitolo VII dal Consiglio di Sicurezza nel 200397

. Nell’ambito

dell’operazione in parola è stato richiesto al Segretario Generale uno specifico transfer of

authority dalla precedente operazione istituita da ECOWAS (ECOMIL). Si può

94 UN Doc. S/RES/1778 (2007), § 3

95 Id., § 6.

96 UN Doc. S/RES/1862 (2009), § 7.

97 UN Doc. S/RES/1509 (2003)

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CAPITOLO PRIMO

25

accomunare a UNMIL anche l’operazione UNOCI98

, in Sierra Leone, anche in questo

caso, con un trasferimento di autorità dalla precedente missione di ECOWAS.

Va ancora detto, sebbene non possa in questa sede essere approfondito il discorso,

che le forme di coinvolgimento delle Organizzazioni regionali possono avere un duplice

fondamento giuridico: il capitolo VIII e il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.

Va, tuttavia, ribadito che, per quel che concerne il mantenimento della pace e della

sicurezza, la competenza principale rimane nel Consiglio di Sicurezza, con la

precisazione che le organizzazioni regionali si collocano in una posizione complementare

e subordinata rispetto a questo organo99

.

La sede naturale100

per autorizzare l’istituzione di operazioni militari da parte delle

organizzazioni regionali è il capitolo VIII, negli articoli 52, 53 e 54, ma, nella prassi sono

stati molto più frequenti i ricorsi al capitolo VII101

.

Vi è una sostanziale differenza tra i due fondamenti normativi, e il discorso andrà

approfondito più avanti nel corso dell’opera quando si affronteranno le questioni relative

alle catene di comando, soprattutto in relazione alle più recenti pronunce giurisprudenziali

in tema di diritti umani102

.

98 UN Doc. S/RES/1528 (2004)

99 Così la posizione ufficiale delle Nazioni Unite espressa nella risoluzione dell’Assemblea

Generale “Declaration on the Enhancement of Cooperation between the United Nations and Regional

Arrangements or Agencies in the Maintenance of International Peace and Security” del 1994. Si veda UN

Doc. A/RES/49/57 (1994) del 9 dicembre. Preambolo. Per un’analisi più diffusa si rimanda a U. VILLANI,

The Security Council authorization of enforcement action by Regional Organization, in Max Planck

Yearbook of United Nations Law, 2002, p. 537.

100 In questo senso la posizione ufficiale del Consiglio di Sicurezza che, con la risoluzione 1631 del

2005, nell’enfatizzare il ruolo delle Organizzazioni regionali, ribadiva che le forme di cooperazione tra

queste e le Nazioni Unite si sarebbero dovute fondare sul capitolo VIII. UN Doc. S/RES/1631 (2005).

101 In questo senso VILLANI, L’ONU et les organisations regionales, cit., p. 415.

102 Si veda Corte europea dei diritti umani, Behrami e Behrami c. Francia e Saramati c. Norvegia,

71412/2001 e 78166/2001, decisione del 31 maggio 2007.

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8. Il fondamento normativo delle operazioni militari

La ricerca di un fondamento normativo delle operazioni militari delle Nazioni

Unite si colloca nel più ampio discorso sul fondamento delle operazioni di pace e, più

nello specifico, di quelle di peacekeeping. L’incertezza è dovuta all’assenza di una norma

dedicata nella Carta delle Nazioni Unite103

.

Sembra opportuno partire dal primo dato giurisprudenziale disponibile, ossia il

parere della Corte Internazionale di Giustizia relativo a Certe spese delle Nazioni Unite.

In quell’occasione, la Corte, pur affrontando l’argomento solo in via tangente, si è

pronunciata nel senso di ritenere non invocabile il capitolo VII della Carta a fondamento

delle operazioni di peacekeeping UNEF I e ONUC104

. La motivazione era legata

all’assenza di un carattere coercitivo della misura, dato il necessario consenso dell’Host

State e l’assenza di un’autorizzazione all’adozione di misure ex capitolo VII mancando i

presupposti di cui all’art. 39105

.

Va ancora citato un ulteriore intervento giurisprudenziale da parte della Corte

internazionale di giustizia nel parere sulle Conseguenze giuridiche della continua

presenza del Sud Africa in Namibia. In quell’occasione la Corte ha enunciato in via di

principio che esiste la possibilità per il Consiglio di Sicurezza di utilizzare poteri generali

in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale conferitigli in virtù

dell’art. 24 comma 1 della Carta delle Nazioni Unite e al di là dei poteri specifici di cui al

comma secondo dello stesso articolo106

.

103 MARCHISIO, L’Onu. Il diritto delle Nazioni Unite, cit., p. 262.

104 ICJ, Certain expenses of the United Nations, Advisory Opinion of 20 July 1962, pp. 170 ss.

Reperibile sul sito internet www.icj-cij.org

105 Ibidem.

106 ICJ, Legal consequences for States of the continuing presence of South Africa in Namibia

(South West Africa) notwithstanding resolution 271 (1970), § 110. Reperibile sul sito internet www.icj-

cij.org

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CAPITOLO PRIMO

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Le pronunce qui sopra citate hanno portato alcuni autori ad affermare che le

operazioni di pace fossero da ritenersi fondate sui poteri generali del Consiglio di

Sicurezza, la cui esistenza, come visto, è confermata nel parere della Corte nel caso della

Namibia107

.

Peraltro, tale impostazione è stata criticata da altra dottrina la quale non riconosce

l’esistenza di tali poteri impliciti ex art. 24 comma 1, in quanto i poteri conferiti al

Consiglio di Sicurezza sarebbero elencati nel comma secondo dello stesso articolo, nel

quale viene fatto specifico riferimento, tra gli altri, alle norme dei capitoli VI, VII e VIII

della Carta. L’esistenza, quindi, di poteri impliciti sarebbe smentita dalla tassatività con

cui i poteri del Consiglio di Sicurezza sono elencati108

.

La stessa, critica, dottrina propone un orientamento che si colloca in contrasto con

quello precedente, fedele, invece, alle pronunce della Corte internazionale di giustizia.

Tale orientamento fonda, infatti, le operazioni di pace su una norma consuetudinaria

formatasi nell’ambito del capitolo VII della Carta109

. Precedente a tale orientamento vi

era, in dottrina, l’idea, ora abbandonata, che, in realtà, le operazioni di pace

concretizzassero le misure implicanti l’uso della forza di cui all’art. 42 della Carta110

.

107 MARCHISIO, L’Onu. Il diritto delle Nazioni Unite, cit., p. 264. Riconosce l’esistenza di poteri

impliciti del Consiglio di Sicurezza in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale

N.D. WHITE, Keeping the peace, Manchester/New York, 1997, p. 227.

108 Si veda B. CONFORTI, Diritto internazionale, VII ed., Napoli, 2006, p. 377.

109 CONFORTI-FOCARELLI, Le Nazioni Unite, cit., p. 272; U. LEANZA, Le operazioni di sostegno

della pace: i collegamenti tra peace-keeping e peace-enforcement, in SIOI, L’ONU: cinquant’anni di

attività e prospettive per il futuro. Atti dei convegni organizzati a Torino, Bologna, Palermo, Napoli e Bari,

Roma, 1996, p. 597; M. CONDINANZI, L’uso della forza ed il sistema di sicurezza collettiva, in S.M.

CARBONE-R. LUZZATTO-A. SANTAMARIA (a cura di), Istituzioni di diritto internazionale, Torino 2011, p.

362. Quest’ultimo autore dà conto dell’esistenza di altri orientamenti altrettanto validi, ma appoggia quella

dottrina che sostiene che le operazioni di pace sul capitolo VII, al fine di identificare una base unitaria a

fronte delle numerose tipologie di intervento delle Nazioni Unite.

110 B. CONFORTI, L’azione del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace, in P. PICONE

(a cura di), Interventi delle Nazioni unite e diritto internazionale, Padova, 1995, p. 8. Lo stesso autore, in

opere più recenti, imposta tale orientamento prescindendo dall’indicazione dell’art. 42, ammettendo

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CAPITOLO PRIMO

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L’orientamento prevalente in dottrina, tuttavia, giustifica le operazioni di pace

sulla base di un altro fondamento giuridico: l’esistenza di una norma consuetudinaria

formatasi a cavallo dei capitoli sesto e settimo della Carta111

, in quel limbo giuridico

denominato capitolo VI e mezzo112

.

La collocazione delle operazioni di pace in una via di mezzo tra i capitoli sesto e

settimo risponde all’esigenza di conciliare due diverse anime di tali interventi: se da un

lato, infatti, non vi è dubbio che si tratti di azioni di tipo militare113

, dall’altro non è

possibile individuare quell’elemento di coercizione che riporterebbe tali operazioni

totalmente nell’alveo del capitolo VII114

. A tal proposito, verrebbero in rilievo le norme di

cui agli artt. 36 e 40 della Carta delle Nazioni Unite, rispettivamente appartenenti al sesto

ed al settimo capitolo, che evidenziano, da un lato il ruolo di facilitatore che svolge

l’organizzazione nel contesto di un’operazione di pace e dall’altro il carattere provvisorio

della misura, la quale non pregiudica gli interessi delle parti115

.

Con riguardo al peacekeeping in senso stretto, vi è chi enfatizza, come possibile

base giuridica, l’art. 40 della Carta116

. Fondando le operazioni di pace su tale articolo, a

parere della dottrina citata, il Consiglio di Sicurezza avrebbe la possibilità di adottare un

l’impossibilità di fondare su tale norma le risoluzioni istitutive delle operazioni di pace. Si veda CONFORTI-

FOCARELLI, Le Nazioni Unite, loc. ult. cit.

111 WHITE, cit., p. 228; M.N. SHAW, International Law, VI ed., Cambridge, 2008, p. 1225; S.R.

RATNER, The new UN peacekeeping. Building peace in lands of conflict after the cold war, New York,

1996, p. 58; BALMOND, cit, p. 58; A. TANZI, Prospects of revision of the UN Charter, in SIOI, Prospects for

reform of the UN System. International symposium, Padova, 1993, pp. 465 ss.. condivide tale orientamento

PICONE, Il peace-keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria, cit., p. 7.

112 Nella definizione che fu dell’allora Segretario Generale Dag Hammarskjold. Si vedano i

rapporti dell’allora Segretario Generale A/3964 del 9 ottobre 1957 e A/3943 del 9 ottobre 1958.

113 Ancora CONFORTI-FOCARELLI, Le Nazioni Unite, cit., p. 271.

114 RATNER, The new UN peacekeeping. Building peace in lands of conflict after the cold war, cit.,

p. 57.

115 Ibidem.

116 H. NASU, International law on peacekeeping. A study on article 40 of the UN Charter,

Leiden/Boston 2009, p. 32.

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approccio più flessibile nell’istituzione e, soprattutto, nelle eventuali e successive

modifiche del mandato delle operazioni117

.

9. Segue. Il collegamento tra le operazioni militari e il capitolo VII della

Carta delle Nazioni Unite.

Si è avuto modo di vedere come il Consiglio di Sicurezza, nell’istituire le

operazioni di pace più recenti, abbia fatto esplicito riferimento al capitolo VII della Carta,

contribuendo a formare una prassi meritevole di essere analizzata, soprattutto in relazione

alle operazioni militari, che formano oggetto della presente ricerca.

Come si è già avuto modo di vedere, le operazioni in ex Jugoslavia e Somalia,

esempi di azioni di enforcement autorizzate ex capitolo VII, hanno palesato le difficoltà di

un modello che prendesse le distanze dai tre capisaldi del peacekeeping tradizionale.

Stante ciò, le operazioni istituite successivamente non furono autorizzate ex capitolo VII.

Nella prassi recente, tuttavia, è possibile notare una reviviscenza del ricorso, da

parte del Consiglio di Sicurezza, al capitolo VII; principalmente ed a una prima analisi si

potrebbe tracciare una linea divisoria tra operazioni di peacekeeping classico118

, laddove

non vi è alcun riferimento al capitolo VII della Carta e missioni più ambiziose, nella quale

il riferimento al capitolo VII è frequente. Un simile riferimento può essere posto a

fondamento dell’autorizzazione al dispiegamento di una missione119

, oppure nel testo di

una risoluzione istitutiva, nell’autorizzare la missione ad usare la forza per l’adempimento

del mandato120

.

117 NASU, International law on peacekeeping. A study on article 40 of the UN Charter, cit., p. 34.

118 UNIFIL in Libano; UNMIT a Timor Leste; MINURSO nel Sahara Occidentale; UNDOF tra

Siria ed Israele, UNTSO, in Medio Oriente; UNMOGIP, tra India e Pakistan.

119 Ad esempio MONUSCO, in Congo; UNOCI in Sierra Leone.

120 Ad esempio MINURCAT in Ciad e Repubblica Centro Africana; UNAMID nella zona del

Darfur, in Sudan; UNMIS in Sudan; MINUSTAH, ad Haiti, nell’estensione del mandato a seguito della

risoluzione n. 1892 del 2009.

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CAPITOLO PRIMO

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Vi sono diversi possibili fattori che portano il Consiglio di Sicurezza a fare

riferimento al capitolo VII: la necessità di indicare che il mandato va oltre il semplice

monitoraggio, permettere l’uso della forza per questioni che normalmente rientrano nella

domestic jurisdiction dell’Host State, chiarire che lo spiegamento della forza è

indipendente dal consenso dello Stato interessato oppure obbligare le parti a cooperare

con le Nazioni Unite121

.

Nella prassi delle operazioni attualmente in corso, è interessante richiamare il

paradigmatico esempio della risoluzione 1244 del 1999 con la quale il Consiglio di

Sicurezza delle Nazioni Unite, sulla base del capitolo VII, ha istituito la missione

UNMIK in Kosovo ed autorizzato la missione KFOR della NATO ad utilizzare la forza

per il mantenimento della sicurezza122

. Nel caso appena citato, l’aver utilizzato il capitolo

VII come fondamento giuridico di un mandato così ampio, ha permesso alle Nazioni

Unite di assegnare alla missione UNMIK obiettivi di breve e lungo termine, quali, per

quanto riguarda i primi, la cessazione delle ostilità e per quanto riguarda i secondi

l’amministrazione territoriale. Tutti obiettivi riconducibili, secondo dottrina, all’art. 41

della Carta, che pur non li menziona esplicitamente123

. Probabilmente, il fondamento

giuridico del capitolo VII ha consentito alle forze internazionali dispiegate una maggiore

discrezione sui mezzi da impiegare nell’adempimento del mandato124

.

Invero, parte della dottrina ritiene che il fondamento giuridico di operazioni quali

quella in Kosovo non fosse da rinvenirsi in quelle norme, essendo sempre necessario il

consenso dello Stato interessato ed essendo quindi ancora valida la teoria del capitolo VI

121 Così C. GRAY, International law and the use of force, New York, 2008, p. 295.

122 UN Doc. S/RES/1244 (1999)

123 Così R. WOLFRUM, International administration in post-conflict situations by the United

Nations and other international actors, in Max Planck Yearbook of United Nations Law, 2005, p. 669.

124 M. RUFFERT, The administration of Kosovo and East Timor by the International Community, in

International and Comparative Law Quarterly, 2001, pp. 613 ss.

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e mezzo come fondamento consuetudinario di tali operazioni125

. Altra dottrina, facendo

riferimento a quanto detto prima, ossia all’implicita autorizzazione, che sarebbe

contenuta nell’art. 41 della Carta, dell’istituzione di amministrazioni territoriali, ritiene

perfettamente possibile l’invocazione del capitolo VII per simili operazioni126

.

Sul modello della risoluzione 1244 del 1999 si colloca la risoluzione con cui è

stata istituita l’operazione UNTAET in Timor Est, ora, al contrario di UNMIK, non più

operativa e sostituita dall’operazione UNMIT dal 2006127

. Le Nazioni Unite avevano

inizialmente autorizzato un’operazione a Timor Est, sulla base del capitolo VII

(INTERFET)128

. Con la successiva risoluzione numero 1272 del 1999 il Consiglio di

Sicurezza ha poi istituito UNTAET, operazione diversa da INTERFET, con compiti di

amministrazione129

. Le due risoluzioni istitutive prima di INTERFET e poi di UNTAET

sono diverse sul punto del consenso dello Stato indonesiano. La prima, infatti, menziona

esplicitamente il consenso, al contrario della seconda, per la quale il richiamo al capitolo

125 Così E. DE WET, The direct administration of territories by the United Nations and its member

States in the post cold war era: legal basis and implications for international law, in Max Planck Yearbook

of United Nations Law, 2004, p. 314. Invero, l’operazione in Kosovo è stata pionieristica sotto molti profili

ed è il primo esempio di operazione multidimensionale il cui fondamento giuridico è da rinvenirsi nel

capitolo VII, non essendo riscontrabile nella prassi alcun precedente. Si veda sul punto CELLAMARE, Le

operazioni di peace-keeping multifunzionali, cit., p. 222. L’Autore, muovendo dall’esame della prassi

riguardante le cosiddette operazioni di peacekeeping multifunzionali conclude proprio per l’inammissibilità

della teoria secondo la quale tali operazioni troverebbero il loro fondamento giuridico nel capitolo VII.

Peraltro, lo stesso Autore riconosce che i tratti comuni alle operazioni in parole sarebbero in una qualche

maniera riconducibili ad un’implicita attuazione degli articoli 40 e seguenti della Carta delle Nazioni Unite.

126 Si veda inter alia J. FRIEDRICH, UNMIK in Kossovo: struggling with uncertainty, in Max Planck

Yearbook of United Nations Law, 2005, pp. 233-235.

127 UN Doc. S/RES/1704 (2006)

128 UN Doc. S/RES/1264 (1999). Si trattava, invero di un’operazione lontana dai canoni classici

del peacekeeping tradizionale, essendo stata condotta da una coalizione di Stati ed essendo connotata da

elementi di coercizione.

129 UN Doc. S/RES/1272 (1999)

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CAPITOLO PRIMO

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VII si è reso quindi necessario per conferire alla missione i mezzi necessari per

l’adempimento dell’ampio mandato130

.

Nel quadro delle attuali missioni, la prassi iniziata con UNMIK ha segnato le

successive esperienze e le operazioni di pace delle Nazioni Unite attualmente operative

nel panorama mondiale ricalcano il modello proposto e contengono espliciti riferimenti al

capitolo VII.

A tal proposito, l’attuale missione delle Nazioni Unite in Congo è paradigmatica.

MONUSCO ha sostituito la precedente operazione MONUC. Il passaggio di funzioni tra

le due operazioni, con conseguente istituzione della più recente, si è avuto con la

risoluzione 1925 del 28 maggio 2010131

. L’operazione è stata istituita ex capitolo VII,

sulla base dell’identificazione ex articolo 39 dell’esistenza di una minaccia alla pace ed

alla sicurezza internazionale.

Il mandato di MONUSCO vede come obiettivo prioritario la protezione dei

civili132

, anche nella forma di assistenza al governo della Repubblica Democratica del

Congo133

. Di particolare interesse notare come l’operazione abbia anche compiti di

supporto al Governo per quel che riguarda le operazioni militari contro i gruppi armati del

Lord’s Resistance Army (Uganda) e delle Democratic Forces for the Liberation of

Rwanda (FDLR)134

.

Nell’adempiere a questa prima parte del mandato, la componente militare di

MONUSCO è autorizzata a ricorrere all’uso della forza, in virtù della già richiamata

formula “all necessary means”.

130 GRAY, International law and the use of force, cit., p. 296.

131 UN Doc. S/RES/1925 (2010) del 28 maggio.

132 Id., § 12 lett. a)

133 Id., § 12 lett. b)

134 Id., § 12 lett. h)

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CAPITOLO PRIMO

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Peraltro, il mandato di MONUSCO è tale da ricomprendere compiti tipici delle

operazioni multifunzionali e, quindi, compiti di peace-building. Per questa seconda parte

del mandato la forza ONU non è autorizzata ad usare la forza, fatta eccezione per la

funzione di cui alla lettera t) del paragrafo 12, che riguarda la confisca di armi la cui

presenza sul territorio violi precedenti obblighi internazionali del Governo.

La recente tendenza appena esaminata può anche essere motivata alla luce della

necessità di proteggere i civili, affermatasi come vero e proprio mandato delle Nazioni

Unite per quel che concerne le operazioni di pace. Nella risoluzione 1674 del 2006 il

Consiglio di Sicurezza prende una posizione forte sul tema della protezione dei civili

durante i conflitti armati facendo assurgere tale compito ad obbligo per le Nazioni

Unite135

.

10. Il quadro giuridico delle operazioni militari.

Le operazioni militari delle Nazioni Unite sono di norma istituite dal Consiglio di

Sicurezza o dall’Assemblea Generale, finora, nella prassi, in due casi, come già messo in

evidenza. L’autorizzazione allo svolgimento della missione è di regola seguita da una

serie di atti volti alla scelta dei contingenti ed alla definizione del quadro giuridico entro

cui operano, di norma, i militari coinvolti. Le missioni sono composte da contingenti

nazionali ed allora si rende necessaria un’armonizzazione della componente nazionale

con la natura internazionale dell’operazione136

.

135 UN Doc. S/RES1674 (2006) del 28 aprile 2006.

136 Così il Segretario Generale delle Nazioni Unite nel secondo rapporto sulla missione UNEF. UN

Doc. A/3943, 9 ottobre 1958, § 127.

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CAPITOLO PRIMO

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11. Segue. Il rapporto con gli Stati che forniscono le truppe.

Le forze di pace delle Nazioni Unite possono essere considerate organi di quella

organizzazione137

. L’accordo concluso con gli Stati che forniscono le truppe e il

cosiddetto “Transfer of Authority” (TOA), contribuiscono ad integrare i contingenti

nell’apparato istituzionale delle Nazioni Unite. In virtù di tali atti, lo Stato che fornisce le

truppe riconosce il controllo esclusivo delle Nazioni Unite sui componenti della forza ed

accetta che questi servano l’Organizzazione e non più lo Stato di provenienza138

. I

contingenti militari costituiscono quindi parte integrante dell’Organizzazione ed i singoli

militari sono considerati agenti dell’Organizzazione139

. Da ciò deriva la piena autorità del

Segretario Generale, in coordinamento con il Consiglio di Sicurezza, per quel che

riguarda lo spiegamento, l’organizzazione, la condotta e la direzione dell’operazione140

.

Dal momento che le operazioni di pace non sono uno strumento previsto dalla

Carta delle Nazioni Unite, la realizzazione degli accordi di cui all’art. 43 non può essere

funzionale al reclutamento dei contingenti militari che comporranno la missione141

. Tale

operazione avviene, quindi, mediante accordi speciali di volta in volta stipulati tra le

Nazioni Unite e i governi degli Stati che intendono fornire le truppe. Per quanto la prassi

137 In questo senso si veda inter alia, CONFORTI-FOCARELLI, Le Nazioni Unite, p. 273.

138 BOTHE, Peace-keeping, cit., in SIMMA (ed.), The Charter of the United Nations: a Commentary,

cit., p. 691.

139 United Nations Juridical Yearbook, 1996, p. 450. Lo status dei militari impiegati nelle

operazioni di pace delle Nazioni Unite è stato affrontato anche dal Tribunale internazionale penale per l’ ex

Jugoslavia, nel caso Blaskic, laddove venne posta la domanda su chi avrebbe dovuto fornire

l’autorizzazione ai componenti militari della missione UNPROFOR per testimoniare nel processo. La

camera d’appello del Tribunale ribadì come quei militari fossero parte di una missione internazionale e non

dovessero essere considerati membri dei rispettivi eserciti nazionali. Si veda, ICTY, Prosecutor c. Blaskic,

Caso n. It-95-14-AR108bis, 2 ottobre 1997.

140 F. SEYERSTED, United Nations Forces in the Law of Peace and War, New York, 1966, p. 97.

Per una digressione più ampia sui poteri del Segretario Generale si rinvia a PINESCHI, Le operazioni delle

Nazioni Unite per il mantenimento della pace, cit., pp. 230 ss. L’Autrice pone in evidenza come il

Segretario Generale cambia il doppio ruolo di dare esecuzione alle decisioni del Consiglio di Sicurezza, che

rimane il decisore unico politico, e di dirigere la missione.

141 MARCHISIO, L’Onu. Il diritto delle Nazioni Unite, cit., pp. 261, 264.

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sul punto non sia totalmente univoca142

, si può concludere che è compito del Segretario

Generale la ricerca di potenziali Stati fornitori di truppe e che è competenza del Consiglio

di Sicurezza la conclusione di tali accordi, conclusione che, peraltro, può essere delegata

al Segretario Generale in piena conformità con la Carta delle Nazioni Unite143

. La

determinazione dell’organo competente a concludere tali accordi è stata oggetto di un

nutrito dibattito144

ed è stata affrontata, in termini generali, dalla Corte Internazionale di

Giustizia145

.

Le condizioni alle quali i contingenti vengono messi a disposizione delle Nazioni

Unite sono negoziate caso per caso tra l’Organizzazione e gli Stati146

. Occorre ricordare

che il Segretario Generale ha predisposto nel 1991 un modello di accordo147

tra le Nazioni

Unite e gli Stati fornitori. La prima versione è stata poi riscritta nel 1996148

ed emendata

nel 1997149

, fino all’attuale versione, denominata Memorandum of Understanding

between the United Nations and [participating State] contributing resources to [the

142 PINESCHI, Le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace, cit., p. 243.

143 A. GIOIA, The Legal Position of States Contributing Troops to United Nations Peac-Keeping

Forces: Recruiment, Control, Status and Withdrawal of National Contingents, in A. DE GUTTRY (ed.),

Italian and German Participation in Peace-Keeping: From Dual Approches to Co-operation, Pisa, 1996, p.

56.

144 Per un’analisi più approfondita sul dibattito inerente alla determinazione dell’organo

competente a concludere gli accordi tra le Nazioni Unite e gli Stati fornitori delle truppe, si rinvia a

PINESCHI, Le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace, cit., pp. 238 ss.

145 Nel parere relativo a certe spese delle Nazioni Unite, la Corte dovette dirimere la questione

delle competenze del Segretario Generale a selezionare i contingenti ed a concludere gli accordi con i

rispettivi governi. La Corte concluse nel senso di ritenere conforme alla Carta una simile competenza in

capo al Segretario Generale. Si veda ICJ, Certain expenses, cit.

146 Invero, occorre ricordare che nulla vieta alle Nazioni Unite di stipulare accordi formali ad hoc

con gli Stati fornitori.

147 UN Doc. A/46/185, 23 maggio 1991.

148 UN Doc. A/50/995, 9 luglio 1996.

149 UN Doc. A/51/967, 27 agosto 1997.

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United nations Peacekeeping Operation] ed approvata dall’Assemblea Generale nel

2007150

. Il documento appena citato è, come detto, un modello di accordo formale che

riguarda i diritti e gli obblighi giuridici delle Nazioni Unite e degli Stati fornitori e si

propone due obiettivi: la gestione logistica e finanziaria dei contingenti e la specificazione

degli standard relativi alla condotta dei militari impiegati, con particolare riferimento alle

nuove misure di prevenzione e di sanzione degli abusi sessuali151

.

Fin da subito è possibile notare come il documento rechi alcune importanti

disposizioni in merito proprio alla disciplina dei contingenti nazionali, la quale

rimarrebbe sotto la responsabilità del comandante del contingente, mentre le Nazioni

Unite dovrebbero svolgere un ruolo di assistenza e preparazione152

. Inoltre, è stabilito

che, in caso di violazione di regole di condotta, la responsabilità primaria delle indagini

spetti sempre ai Governi di provenienza dei contingenti, fatta salva la possibilità per le

Nazione Unite di dare avvio a procedure di fact finding153

. Per quel che concerne la

giurisdizione in relazione ad eventuali crimini commessi dai militari, vige quella dello

Stato di provenienza154

. Quest’ultima disposizione è assai importante e denota come,

sebbene le forze di pace si possano qualificare come organi delle Nazioni Unite, le

questioni disciplinari rimangano nella sfera di competenza degli Stati fornitori. Ciò si

rende necessario in quanto le Nazioni Unite sono prive di apparati giurisdizionali in grado

150 UN Doc. A/61/19 (Part III), 12 giugno 2007. Peraltro, il documento è incluso nel capitolo nono

della più recente edizione del manuale relativo al Contingent-owned Equipment (COE), disponibile sul sito

internet: http://www.un.org/en/peacekeeping/sites/coe/index.shtml

151 B.OSWALD-H.DURHAM-A.BATES, Documents on the Law of UN Peace Operations, Oxford

2010, p. 51.

152 Memorandum of Understanding beyween the United Nations and [participating State]

contributing resources to [the United nations Peacekeeping Operation], Art. 7 ter

153 Id., Art. 7 quater

154 Id., Art. 7 quinquiens

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di servire allo scopo155

. A tal proposito si potrebbe sostenere che le leggi nazionali degli

Stati fornitori di truppe assolvono ad un ruolo di attuazione degli obblighi internazionali

delle Nazioni Unite, in quanto sono queste, e non gli Stati, ad avere il controllo sulle forze

dispiegate sul campo156

.

12. Segue. Gli Status of Forces Agreements ed il rapporto con l’Host State

Contribuiscono a definire lo status dei militari impiegati in una missione di pace

gli Status of Forces Agreements (d’ora in poi SOFAs) tra le Nazioni Unite e l’Host State.

Si tratta del cosiddetto ius in praesentia, ossia di quell’insieme di regole che determinano

il quadro giuridico entro cui operano le forze militari, ma non ne giustificano la

presenza157

. Per quadro giuridico si intende quell’insieme di regole che determinano lo

status dei componenti di una missione, il riparto di giurisdizione in caso di illeciti civili o

penali, i privilegi e le immunità delle persone che a vario titolo sono impiegate nella

missione158

.

In teoria tali accordi dovrebbero essere conclusi per ogni missione ed all’inizio di

essa, ma, nella realtà, può anche accadere che non vengano proprio conclusi, o che ciò

accada molto dopo l’inizio della missione stessa159

. Anche nel caso dei SOFAs, come per

gli accordi con gli Stati fornitori, un intervento del Segretario Generale, nel 1990, ha

155 BOTHE, Peace-keeping, cit., in SIMMA (ed.), The Charter of the United Nations: a Commentary,

loc. ult. cit.

156 Ibidem.

157 P.J. CONDERMAN, Status of Armed Forces on Foreign Territory Agreements, in Max Planck

Encyclopedia of International Law, www.mpepil.com, § 34.

158 OSWALD-DURHAM-BATES, Documents on the Law of UN Peace Operations, cit., p. 35.

159 J.M. THOUVENIN, Le Statut des forces de maintien de la paix des Nations Unies, in

International Law Forum, 2001, § 106. Per citare alcuni esempi riportati dall’autore si potrebbe fare

riferimento all’operazione delle Nazioni Unite in Somalia (UNOSOM), laddove, in assenza di un vero

governo effettivo non fu possibile la conclusione del SOFA. Inoltre, si può citare l’operazione MINURSO,

nel Sahara occidentale, nell’ambito della quale, il SOFA fu concluso solo un anno dopo l’inizio della

missione.

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posto le basi per un tentativo di armonizzazione dei rapporti con l’Host State con

l’introduzione di un Model SOFA160

. Il valore giuridico del modello proposto dal

Segretario Generale è stato enfatizzato dall’Assemblea Generale nel 1998, quando, con

raccomandazione, l’organo plenario delle Nazioni Unite raccomandò che, in assenza o

pendente la conclusione di un SOFA, il Model fosse applicabile in via provvisoria161

.

È interessante notare come, nel Model SOFA, per quel che concerne le immunità

ed i privilegi dei componenti di un’operazione di pace, vengano individuate quattro

categorie di persone, ciascuna con un diverso status dal punto di vista giuridico. Il

rappresentante speciale del Segretario Generale, il comandante della componente militare

ed il capo di quella civile della missione godono delle immunità e dei privilegi di cui alle

sezioni 19 e 27 della Convenzione sull’Immunità e i Privilegi delle Nazioni Unite del

1946162

. Si tratta di un trattamento equiparato a quello riservato ai diplomatici163

.

Equiparati al rango di “officials” ai sensi degli articoli V e VII della Convenzione sono i

membri del segretariato generale delle Nazioni Unite assegnati alla componente civile

della missione164

. Gli osservatori militari e civili sono da considerare come “experts on

mission” ai sensi dell’articolo VI della stessa Convenzione165

. Tale articolo conferisce ai

così denominati esperti un’immunità funzionale ed i privilegi connessi allo svolgimento

160 Model Status of Forces Agreement for Peacekeeping Operations, UN Doc. A/45/594, 9 ottobre

1990.

161 Un Doc. A/RES/52/12, 9 gennaio 1998, § 7. È possibile riscontrare nella prassi un chiaro

esempio di applicazione provvisoria del Model SOFA, nell’istituzione della missione in Etiopia ed Eritrea.

Si veda a tal proposito le relative risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 1118 del 27 marzo 1998 e n.

1320 del 15 settembre 2000.

162 Model Status of Forces Agreement for Peacekeeping Operations, cit., Art. VI, sezione 24.

163 Convention on the privilegies and immunities of the United Nations, adottata dall’Assemblea

Generale con risoluzione il 13 febbraio 1946. Si veda nello specifico, UN Doc. A/RES/22 (I) A, Art. V, sez.

19 e Art. VII, sez. 27

164 Model Status of Forces Agreement for Peacekeeping Operations, cit., Art. VI, sezione 25

165 Model Status of Forces Agreement for Peacekeeping Operations, cit., Art. VI, sezione 26

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della funzione nell’ambito delle Nazioni Unite166

. Di fatto alcuni di tali privilegi sono

coincidenti con quelli previsti per gli agenti diplomatici. Notevolmente diverso lo status

del personale facente parte della componente militare della missione, per il quale le

immunità ed i privilegi sono esclusivamente quelli concordati con lo Stato ospite167

.

Il Model SOFA regola anche il riparto di giurisdizione nel caso in cui i

componenti di una missione si rendano responsabili di un illecito ai sensi delle leggi

locali. La sezione 47 dell’articolo VI provvede per l’esclusività della giurisdizione dello

Stato d’invio sui militari impegnati nelle operazioni di pace168

. Le disposizioni sono

diverse laddove a commettere un illecito sia un componente civile: in simili situazioni

potrebbe anche essere iniziato un procedimento giurisdizionale da parte dell’Host

State169

. Casi di questo tipo sono stati specificamente previsti nei SOFAs relativi alle

missioni UNMIS e UNAMID, laddove, peraltro, veniva concordato con il Governo del

Sudan un impegno da parte di quest’ultimo al rispetto del Patto sui Diritti Civili e Politici

del 1966 qualora fossero instaurati procedimenti contro civili componenti di una missione

delle Nazioni Unite170

.

Il Model SOFA rappresenta, quindi, un documento importante per le operazioni di

pace delle Nazioni Unite. Vi sono però dubbi sulla natura consuetudinaria di tale atto: non

sono mancate voci che hanno difeso una risposta affermativa sul punto, anche

anteriormente all’approvazione del Model SOFA, sostenendo che in assenza di un

accordo preciso tra le Nazioni Unite e l’Host State, le norme contenute in accordi

166 Convention on the privilegies and immunities of the United Nations, Art. VI, sez. 22 e 23.

167 Model Status of Forces Agreement for Peacekeeping Operations, cit., Art. VI, sezione 27.

168 Id., Art. VI, sezione 47.

169 Ibidem.

170 Agreement between the Government of Sudan and the United Nations concerning the status of

the United Nations Mission In Sudan, reperibile sul sito internet

http://unmis.unmissions.org/Default.aspx?tabid=525;

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precedenti avrebbero potuto essere considerate come principi generali di diritto171

. Per la

verità parrebbero permanere dubbi su una simile impostazione anche a ragione

dell’attuale orientamento del Consiglio di Sicurezza, il quale tende ad imporre, con

risoluzione, l’applicazione del Model SOFA in via provvisoria, cosa che sarebbe

superflua nel caso in cui lo stesso documento fosse considerato diritto consuetudinario172

.

Ormai è prassi consolidata173

, quella del Consiglio di Sicurezza di imporre con

risoluzione l’applicazione del Model SOFA. Peraltro, si era ritenuta comunque applicabile

la Convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite, in caso di mancata

applicazione, anche provvisoria, del Model SOFA174

.

13. Segue. Le regole d’ingaggio.

L’uso della forza da parte dei militari impegnati nelle operazioni delle Nazioni

Unite è governato dalle regole d’ingaggio175

. Queste determinano i casi in cui i militari

possono ricorrere alla forza, l’intensità di tale intervento, le armi che possono essere

utilizzate, il trattamento da riservare ai detenuti e le autorizzazioni che devono essere

richieste ed ottenute dai comandanti176

.

171 E. SUY, Legal aspects of UN Peace-keeping Operations, in Netherlands International Law

Review, 1988, p. 320.

172 ZWANENBURG, Accountability of Peace Support Operations, cit., p. 37.

173 Per citare un esempio, si può fare riferimento alla risoluzione con cui il Consiglio di Sicurezza

ha autorizzato l’operazione nella Repubblica Centrafricana ed in Ciad (MINURCAT). UN Doc S/RES/1778

(2007) del 25 settembre 2007, Parte operativa, § 4.

174 Posizione confermata in un’opinione dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Legali del

2004. In UN Juridical Yearbook, 2004, pp. 323 ss. Reperibile sul sito internet

http://untreaty.un.org/cod/UNJuridicalYearbook/pdfs/english/ByVolume/2004/chpVI.pdf#page=6

175 In generale, sulle regole d’ingaggio si veda INTERNATIONAL INSTITUTE OF

HUMANITARIAN LAW, Rules of engagement handbook, Sanremo 2009.

176 United Nations Peacekeeping Operations: Principles and Guidelines, cit., pp. 14 e 35.

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Parte della dottrina ritiene che tali regole non siano strumenti giuridici in senso

stretto, ma che siano strumenti che assolvono al ruolo di garantire che i militari impegnati

nelle operazioni di pace si conformino al diritto ad essi applicabile, sia nazionale che

internazionale177

.

Tendenzialmente, accanto alle regole d’ingaggio stabilite in sede ONU, ogni

contingente può essere vincolato da ulteriori restrizioni stabilite dal Governo del proprio

Stato d’invio178

. Il problema che può verificarsi talvolta è il potenziale contrasto tra le

regole di ingaggio che promanano dalle Nazioni Unite e quelle decise in sede

nazionale179

.

Le regole d’ingaggio, nel caso delle operazioni militari delle Nazioni Unite, sono

sviluppate dal DPKO (Department of Peacekeeping Operations), previa, talvolta, la

consultazione degli Stati fornitori. I documenti riguardanti le regole d’ingaggio sono

secretati e, quindi, non di pubblico dominio.

Nonostante ciò, il DPKO ha predisposto un documento sulle regole d’ingaggio, da

distribuirsi ad ogni contingente, denominato “Soldiers Pocket Card” e tendenzialmente

allegato ad ogni documento che definisce le linee guida per gli Stati che forniscono le

truppe180

.

177 G. J. CARTLEDGE, Legal constraints on Peacekeeping Operations, in H. DURHAM-T.L.H.

McCORMACK, The changing face of conflict and the efficacy of international humanitarian law, The Hague,

1999, p. 132.

178 ZWANENBURG, Accountability of peace support operations, cit., p. 17.

179 D. STEPHENS, The lawful use of force by peacekeeping forces: the tactical imperative, in

International Peacekeeping, 2005, p. 165. L’Autore menziona tra gli altri possibili casi, quello in cui le

forze militari delle Nazioni Unite si trovino a dover ricorrere all’uso della forza per difendere proprietà

della missione. Molti Stati, infatti, criminalizzano l’uso della forza in tali circostanze, creando quindi una

situazione di discrasia con altri soldati che sarebbero legittimanti in base alle loro leggi nazionali e,

ovviamente, in virtù delle regole d’ingaggio ONU.

180 Si veda, ad esempio per tutti, la “Soldier Pocket Card” allegata alle linee guida per gli Stati

fornitori dei contingenti nell’ambito dell’operazione UNMIS, reperibile sul sito internet www.un.org e

pubblicata in OSWALD-DURHAM-BATES, cit., p. 564.

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Nello scorrere le regole della pocket card, si può notare come il documento si

concentri su alcuni aspetti essenziali delle regole di ingaggio e li presenti in maniera

molto sommaria.

Alcuni principi meritano di essere richiamati fin da ora, anche se poi verranno

ripresi più avanti nel corso della trattazione. I principi di proporzionalità e necessità

nell’uso della forza sono citati all’inizio del documento e permeano tutte le successive

regole.

Vi è inoltre un’interessante definizione di cosa possa essere considerato atto ostile

e cosa no. Può ricadere nella prima categoria qualsiasi azione il cui intento è la

causazione della morte o di un ferimento o della distruzione di un bene protetto181

.

L’accertamento degli intenti appena menzionati dovrebbe sempre essere verificato da un

superiore in grado e si fonda, in ogni caso, su fattori che vanno confermati caso per caso.

181 Sul potere, peraltro messo in dubbio dallo stesso Autore, delle forze delle Nazioni Unite di

difendere le proprietà nel corso di un conflitto armato si veda C. K. PENNY, “Drop that I’ll shot..maybe”:

International Law and the use of deadly force to defend property in peace operations, in International

Peacekeeping, 2007, p. 353 ss.