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Foto Civico Museo di Erba
Il cortile di Villa San
Giuseppe
a Crevenna
ORARI:
Martedì dalle 09.00 alle 12.00
Mercoledì e venerdì dalle 14.30 alle 18.00
Per i gruppi e le scuole è possibile fissare altri giorni ed orari.
L‘ingresso e la visita guidata del museo sono gratuite.
Il museo è sito in Via Foscolo, 23 presso la villa San Giuseppe di Crevenna
22036 Erba (Como)
Tel.: 031/3355341
Fax: 031/3355341
E-mail: [email protected]
Sito creato da Valentina Monaldi e Barbara Cermesoni
Aggiornato da Stefania Severico e Lorena Seccotaro
Come
raggiungerci
I
l Civico Museo di Erba deve la sua esistenza a Fernanda
Isacchi, un’insegnante appassionata di archeologia e di
storia antica. L’Isacchi aveva nella sua mente un obiettivo
ben preciso: creare un museo che fosse una realtà
intermedia tra le due istituzioni maggiori di Como e di Lecco. E’
grazie alla sua determinazione che ancora oggi si può ammirare la sua
opera.
Il Museo, catalogato come Raccolta Museale dalla Regione
Lombardia, occupa un ruolo importante nell’area del Triangolo
Lariano oltre che per la conservazione dei reperti paleontologici e
archeologici di provenienza locale, anche per la tutela del patrimonio
storico e culturale del territorio.
Nelle sue sale si possono ammirare reperti che conducono il visitatore
in un viaggio dalle epoche più recenti alla preistoria, partendo
dall’Età Moderna finendo con le Ere geologiche, rappresentate dalle
Ammoniti rinvenute sull’Alpe Turati, una delle zone del Triangolo
Lariano più interessanti dal punto di vista paleontologico. Nel cortile
sono esposti due massi avelli, sarcofagi con relative coperture e
macine di granito.
Il Museo dà impulso ad attività di ricerca sia documentale sia sul
campo alla quale aggiunge un impegno didattico attraverso
conferenze, visite guidate e laboratori per le scuole.
Il museo è sito in Via Foscolo, 23, località Crevenna
22036 Erba (Como)
Come raggiungerci:
In auto
Da Milano Autostrada A9 Milano-Como-Chiasso, uscita Como sud, proseguire Como
centro
poi SS 342 Como-Lecco
Da Como SS 342 per Erba - Lecco, girare alla rotonda per Albese con Cassano, proseguire
per
Via Como, al cartello museo girare a sinistra in Via Bassi e proseguire fino al Museo
Da Lecco SS 639 per Erba - Como, Via Milano (SP 41), corso 25 Aprile, Via
Fatebenefratelli,
Via Clerici, girare a sinistra in Via U. Foscolo
In treno
Ferrovie Nord Milano, linea Milano-Asso, fermata Erba
Dalla stazione prendere la circolare, fermata davanti alla Villa S. Giuseppe
In autobus
Dalla Stazione Autolinee di Como autobus C40 per Erba-Lecco o dalla Stazione Autolinee
di Lecco autobus C40 per Erba-Como, in entrambi i casi fermata Erba-località Crevenna,
Stazione Carabinieri
Prendere Via Don Monza, Via Parini, Via Balbor, incrociare Via U. Foscolo e proseguire
fino al Museo
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Foto Civico Museo di Erba Foto Civico Museo di Erba
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Bibliografia:
ISACCHI F. 1975, Il Museo di Erba, Litotipografia G. Malinverno, Como.
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La presenza del Civico Museo di Erba si deve alla tenacia e forza di volontà della sua fondatrice:
Fernanda Isacchi, la quale si prefisse di rimediare alla mancanza di un museo del territorio erbese e del
Triangolo Lariano.
Nel 1958 questo vuoto territoriale fu colmato con la nomina dell‘Isacchi a Ispettore Onorario alle
Antichità della zona di Erba e di diversi comuni della Brianza, conferita dal Ministero della Pubblica
Istruzione. Emerse subito la necessità di creare a Erba un museo in cui far confluire i reperti rinvenuti.
Passarono pochi anni e il museo fu istituito per ordine dell‘allora Soprintendente alle Antichità Prof.
Mario Mirabella Roberti, in seguito al ritrovamento a Crevenna nel 1961 di una tomba romana a
cremazione risalente al I sec. a.C., nella quale fu rinvenuto un corredo funerario composto da
vasellame in argilla.
Il 5 luglio 1964 il museo fu inaugurato nella sede di Villa Majnoni. Era il museo più piccolo d‘Italia,
ma divenne rapidamente un tramite diretto tra l‘archeologia e i cittadini.
I materiali presenti in museo aumentavano di anno in anno grazie a nuove scoperte e donazioni di
collezionisti e la necessità di ampliamenti divenne impellente. Nel 1975 il Civico Museo fu trasferito
da Villa Majnoni a Villa San Giuseppe, in località Crevenna, dove si trova tutt‘ora. Si chiuse così una
lunga vicenda durata oltre un decennio, sorta per la necessità di avere a disposizione nuove sale e
conclusasi con il trasferimento del museo e delle sue collezioni in una sede più efficiente ed
appropriata.
Il museo ha svolto e svolge tutt‘ora attività di ricerca e di tutela del patrimonio archeologico e storico,
organizza visite, cicli di conferenze, attività didattiche rivolte alle scuole e pubblica i ―Quaderni
Erbesi‖, il cui primo numero uscì nel 1979. Interrotta nel 1998, la pubblicazione è stata ripresa nel
2008, dopo un’interruzione durata dieci anni.
L‘allestimento del Civico Museo di Erba risale al 1999 ed è costituito da materiali rinvenuti nel
Triangolo Lariano. È stato pensato avendo come modello lo scavo archeologico, in cui lo studioso
viene inizialmente in contatto con i materiali più recenti e progressivamente con quelli più antichi: il
percorso infatti va a ritroso nel tempo.
Partendo dall‘Età Moderna si giunge così alle Ere geologiche passando attraverso il Medioevo, il
periodo Tardo-antico, l’Età Romana, l’Epoca Protostorica e Preistorica. A ciò bisogna aggiungere la
sala detta ―del Collezionismo‖, che contiene oggetti donati al Museo da collezionisti privati.
Nella sala d‘ingresso sono esposti alcuni reperti che riassumono l‘arco cronologico presentato nelle
altre sale: alcune ammoniti provenienti dall‘Alpe Turati, un frammento di palo di palafitta dal lago di
Pusiano, un‘ara romana del I-II secolo a.C., un semicapitello risalente al X secolo d. C., uno stemma
dei Visconti in pietra.
La piccola ara romana (misura cm 91 di altezza, cm 38 di larghezza e cm 25 di spessore) presenta una
forma rettangolare con modanature ed è in serizzo ghiandone; sulla parte anteriore si nota un‘iscrizione
assai corrosa e praticamente illeggibile.
Il semicapitello, trovato nel parco di Villa San Giuseppe, in calcarenite, scolpito su tre lati con eleganti
intrecci di nastri viminei e fogliame, è una possibile reliquia della chiesetta di San Giorgio di
Crevenna.
Lo stemma Visconteo, risalente al XV secolo, è appoggiato su una lapide di epoca posteriore (1689)
ed è stato staccato dal parapetto del ponte della Malpensata sul fiume Lambro, a Erba.
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In questa sala è possibile ammirare due affreschi: uno opera di Andrea De Magistris e l‘altro di Mauro
Conconi.
Il visitatore inizialmente può ammirare l‘opera di Andrea De Magistris, risalente al 1490.
Il dipinto raffigura la Madonna del Latte tra San Rocco e San Sebastiano e proviene dall‘ex abbadia di
Sant‘Antonio; è stato restaurato dal pittore restauratore Angelo Airoldi nel 1974.
In origine si trovava, in stato di abbandono e rovina, sulla parete esterna di una casa (posta nell‘odierna
Via San Cassiano) accorpata all'Abbazia di Sant'Antonio.
L‘Abbazia di Sant‘Antonio operò come opera di carità, ospedale e ricovero per i bisognosi, i viandanti
e i pellegrini e fino al 1680 è indicata come Badia-Precettoria e Ospedale di Sant‘Antonio Abate; il
convento fu soppresso nel 1798.
L‘originale dicitura che incornicia l‘affresco, leggibile solo parzialmente, era: ―1490 Die 14
Septembris Magister petrus de petris de Sirtur f. f. hoc opus, Andreas filius Magistris Zentilini pinxit‖.
E‘ un lavoro che propone il ripetitivo schema della triade santorale consueta, con le tre figure che si
presentano separatamente, senza alcun legame fra loro se non quello di natura devozionale.
Una intristita Vergine compare piccola al disopra di una balaustra avendo i due Santi a figura intera e
sorregge tra le fasce un Gesù Bambino che porta al collo una collanina-amuleto di corallo.
Numerose immagini presentano il Bambino Gesù con al collo una collana di corallo, magari con
qualche pendaglio. Questa consuetudine è riscontrabile soprattutto nelle pittura cinquecentesche
quando il piccolo Gesù è raffigurato ignudo. Si può osservare tale pratica per esempio nell‘affresco di
Garbagnate Monastero, di Cermenate, di Vendregono, di Senna Comasco, di Corogna, di Ponzate. E‘
una ripresa della tradizione popolare per cui il corallo ha valore protettivo e propiziatorio: così come
era difeso il Bambino Gesù, così sarebbe stato il neonato dell‘offerente.
Si passa poi all‘opera di Mauro Conconi1 (Milano, 1815 - 1860), raffigurante S. Maurizio con un elmo
e il cavallo (del quale rimane solo una parte) e con piccole figure di soldati in secondo piano sul lato
sinistro. L‘affresco si trovava a Erba, in frazione Mevate, in una cappelletta dedicata a San Maurizio.
Nel 1984 si è provveduto allo strappo dell‘opera, seguito da Angelo Airoldi, e al suo restauro.
Oltre agli affreschi sulle pareti è affisso anche un arazzo, donato dal dott. Furio Giazzi, notaio di Erba.
Si tratta di un pregevole pezzo risalente al XVII sec. dalle dimensioni di m. 2,60 x 1,80.
Su di esso sono raffigurati motivi floreali tessuti con fili d‘argento su fondo rosso-bordeaux, racchiuso
da una cornice lignea della stessa epoca, lavorata a mano.
Nel centro della sala è collocato un mappale dell‘epoca di Maria Teresa d‘Austria2, riguardante il
territorio di Erba - Incino (foto nella pagina precedente).
Vi è infine un arcile (o madia)3 in legno del XVII secolo, anch’esso donato da Furio Giazzi: Proviene
da una Villa del lago di Como
1 Mauro Conconi si iscrisse all‘Accademia di Brera nel 1832, fu allievo di L. Sabatelli e C. Bellosio con il quale
collaborò alle decorazioni delle ville reali, residenze dei Savoia. Nel 1842 partecipa ad una mostra assieme a
Francesco Hayez e Domenico Induno. Insieme ad Antonio Bottazzi ed Enrico Scuri è stato uno degli artisti più
affermati dell‘Età della Restaurazione. 2 Il catasto teresiano entrò in vigore nel 1760 sotto l‘Imperatrice Maria Teresa, salita al trono in seguito alla morte
del padre, Carlo VI (20 ottobre 1740). Già nel 1718 il catasto fu avviato da una giunta nominata da Carlo VI. Esso
fu una vera e propria innovazione: era un catasto geometrico con la raffigurazione precisa non della proprietà
complessiva, ma di ogni singola particella. In ognuna di essa era indicato il nome del proprietario, la destinazione
colturale, la stima e su questi dati veniva stabilito l‘imponibile che ogni contribuente doveva versare. Ciò suscitò
disagio fra la nobiltà milanese, abituata a influenzare a proprio favore la concreta assegnazione delle imposte e nel
1773 l’ostilità dei nobili e le vicende della guerra di successione austriaca interruppero la sua stesura, che venne
ripresa nel 1749 da Pompeo Neri (1706-1776). Economista, uomo politico, docente di diritto pubblico presso
l‘Università di Pisa fu l‘ispiratore di una delle riforme più richieste dai proprietari terrieri: la libera esportazione
del grano. Maria Teresa lo incaricò di attuare una riforma amministrativa in Lombardia. Tornato in Toscana nel
1766 realizzò il primo censimento generale della popolazione.
3Arcile: è una voce regionale che indica un tipo di madia diffusa soprattutto in Emilia-Romagna: è a forma di
cassone, con uno o più cassetti nella parte inferiore ed un coperchio in quella superiore. Tale coperchio, ribaltato o
sollevato, offriva un comodo piano per la lavorazione del pane. La madia si caratterizza per le dimensioni, le
borchie in ottone, i piedi ricavati direttamente dai montanti, dal grande vano interno posto sotto il coperchio a
fronte ribaltabile il quale permetteva di far respirare farina e pane, piano rifinito a becco di civetta.
Particolare della
decorazione
dell‘arazzo del
sec. XVII
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Affresco di
Mauro Conconi
L‘arcile del secolo XVII
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Affresco di
Andrea De Magistris
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Bibliografia:
- NATALE PEREGO, Una Madonna da nascondere, La devozione per la “Madonna del Latte” in
Brianza, nel lecchese e nel triangolo lariano, Cattaneo Editore, 2005
Pulpito ligneo del
tardo‗600
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Bibliografia:
CERNUSCHI S., La ceramica graffita. Pannello esposto nella Sala II del museo.
ISACCHI F., 1980 - Attività annuale del museo. Quaderni Erbesi, Vol. III: pp. 9, 10, 11, 5 (per il
pulpito di Sant‘Eufemia).
ISACCHI F., 1981 - Castelli e rocche medioevali nel Pian d’Erba. Quaderni Erbesi, Vol. IV: pp. 15-
50 (per i castelli e la ceramica da essi proveniente).
ISACCHI F., 1986 - Attività annuale del museo. Quaderni Erbesi, Vol. IX: pag. 11 (per la ceramica
del Castello di Casiglio).
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Si passa poi alla seconda sala, che ospita un pulpito ligneo del tardo ‘600.
Esso si trovava nella chiesa di Sant‘Eufemia in Erba ed è stato concesso in deposito al Museo nel 1970.
Durante le operazione di smontaggio, per poter farlo passare dall‘ingresso, fu collocato sotto il portico
di Villa Majnoni ove subì danni e il furto di tre statuine d‘oro raffiguranti la Madonna e due Santi.
Restaurato dai fratelli Meroni di Albavilla, ha riacquisito l‘originale bellezza.
La saletta ospita anche una vetrina contenente frammenti di ceramica decorata (immagini sottostanti) e
monete.
I frammenti di ceramica graffita e dipinta provengono da scavi occasionali effettuati a Erba, ad
Asso, a Lasnigo, a Valbrona - loc. San Rocco ed in castelli medievali della zona come Casiglio e
Pomerio. La sezione più consistente proviene dal 'butto' (discarica in un pozzo abbandonato di
ceramiche inutilizzabili) del Castello di Pomerio.
Il Museo dispone inoltre di una modesta collezione numismatica: nel 1971 è stato infatti rinvenuto in
località Cascina Malpirana un ripostiglio di 213 monete di epoca viscontea:
- 1 denaro o imperiale di Gian Galeazzo Visconti per Milano.
- 139 bissoli o imperiali nuovi di Giovanni Maria Visconti per Milano.
- 35 bissoli di Filippo Maria Visconti, Conte di Pavia, per quella città.
- 2 bissoli di Giovanni Visconti per Cantù.
- 5 denari di Franchino II Rusca per Como.
- 2 bissoli di Giovanni Visconti per Milano.
- 28 bissoli di Giovanni ed Ettore Visconti per Milano ed un denaro illeggibile.
Se si esclude l‘unico imperiale di Gian Galeazzo Visconti, le 212 monete rimanenti sono state emesse
nell‘arco di 4 o 5 anni (dal 1408-9 al 1412), dalle varie autorità.
APPENDICE
La ceramica graffita
La produzione della ceramica graffita in Italia va dal Medioevo fino al Seicento. L'origine di questa
tecnica deve essere cercata dapprima in area cinese (VI-IX sec d.C.), poi araba e persiana (X-XIV sec.
d.C.), con frequenti apparizioni contemporanee anche in Grecia e nelle isole Egee. In Italia arriva in
seguito ai contatti dei Veneziani con i Bizantini, secondo la tesi attualmente più accreditata. Per
imitazione da Venezia, la ceramica graffita si diffonde in tutta la pianura padana seguendo
un'evoluzione - non ancora ben definita nei suoi passaggi - da cui nasce la graffita arcaica. In questa
diffusione il Po ed i suoi affluenti sembrano aver svolto un ruolo di primaria importanza, dal momento
che questo tipo di ceramica si ritrova in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna oltre che in Piemonte e
Liguria. Sporadiche attestazioni si hanno anche in Italia centrale e meridionale ma in queste aree è
preponderante la produzione della maiolica, probabilmente per la maggior presenza di argille friabili e
giallastre, più adatte a questo tipo di ceramica. Di contro, per la ceramica graffita sono necessarie le
argille più resistenti e rossastre, molto frequenti in pianura padana, che esaltano il tipo peculiare di
lavorazione e di decorazione policroma.
Tecnica di produzione
La decorazione graffita è il risultato di un lungo processo produttivo.
L'oggetto da decorare viene modellato, poi lasciato essiccare e infine immerso in un'argilla fluida e
chiara che serve ad attenuarne il colore rosso e soprattutto ad annullare la porosità dell'argilla. Questo
'ingobbio', non ancora del tutto asciutto, viene inciso (da cui il nome di 'ceramica graffita') con una
punta dal decoratore.
Si procede quindi alla cottura dell'oggetto. Questo è il momento più delicato perché il minimo errore
può compromettere la qualità dell‘oggetto, per questo la cottura era seguita da veri e propri specialisti.
Si ottiene in questo modo il 'biscotto', che viene poi dipinto esaltandone così le raffigurazioni. I colori
usati sono derivati da ossidi metallici macinati e mescolati con fondenti: il verde si ottiene dal rame (il
'verde ramina'), il giallo-bruno dal ferro (il 'giallo ferraccia'), il nero-bruno dal manganese e il blu dal
cobalto ('zaffera'). I pigmenti finemente macinati sono disciolti in acqua e stesi col pennello.
Infine l'oggetto viene impermeabilizzato e reso lucido con un rivestimento di vetrina: si immerge in un
composto ottenuto dalla calcinazione di piombo metallico e sabbia al quale è aggiunto un fondente che
serve ad abbassare la temperatura di fusione, poi lo si cuoce per la seconda volta.
Parte della collezione di
monete dalla Cascina
Malpirana.
Foto Civico Museo di Erba
Nella sala sono conservati reperti di età diverse. Nella prima vetrina è possibile ammirare una spada
(spatha) in ferro longobarda.
L‘arma, ritrovata insieme ad un coltello (scramasax), faceva parte del corredo di un guerriero
seppellito in nuda terra ed è venuta alla luce durante i lavori di sterro per la costruzione della strada
provinciale diretta a Como - Lecco, nei pressi della Chiesa di Casiglio, nel maggio 1961.
L‘impugnatura è decorata ad agemina* d‘argento, consistente in motivi geometrici nella parte centrale
e in protomi animali ai lati, e trova un unico confronto, proprio per l‘impugnatura, in una spada con
impugnatura ed elsa con agemina d‘argento e di ottone scoperta nel 1965 a Ciringhelli (VR).
Proseguendo ci si trova di fronte ad un capitello in stile romanico rinvenuto in una abitazione nei
pressi della chiesa di Sant‘Eufemia, a Erba. Sembra sia da escludere un collegamento con i capitelli
noti della chiesa stessa. Di forma irregolare e in parte danneggiato, ha la parte superiore di forma
approssimativamente quadrata. I lati misurano circa cm 30,5 / 31, l‘altezza è di circa cm 10, la base
circolare ha un diametro di cm 25 / 26,5. Presenta nella parte superiore un incavo approssimativamente
quadrato, forse parte dell‘intaglio eseguito originariamente per agganciare il pezzo alle altre parti
architettoniche. Nella parte inferiore è stata ricavata, in un secondo tempo, una conca regolare
(secondo O. Zastrow, forse per riutilizzare il capitello come un piccolo mortaio, meno probabile un
riuso come acquasantiera). La decorazione, che si svolge su tutta la superficie laterale del reperto, è
composta da quattro larghe foglie appiattite e molto stilizzate, collocate agli angoli del capitello e
separate da quattro corolle, il tutto eseguito a rilievo molto basso e con forti solcature. O. Zastrow propone confronti con un piccolo capitello in calcare proveniente da Capiate di Olginate e
con un semicapitello in marmo proveniente dallo scomparso monastero benedettino di Abbadia
Lariana, opere entrambe datate ad una fase avanzata del sec. IX. Secondo l‘autore, è accettabile per il
capitello proveniente da Incino una datazione non posteriore al sec. X.
Lo stesso autore propone, considerata la totale estraneità del capitello rispetto ai rilievi supersiti di S.
Eufemia (certamente più tardi), che il capitello provenga da una cappella dedicata a S. Vito, annessa
alla chiesa di S. Eufemia e facente parte delle ricostruzioni del periodo romanico, di cui lo studioso
suppone l‘esistenza fino circa al sec. XII.
Impugnatura ageminata in
argento della spada
longobarda.
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Il capitello romanico
La sala contiene anche tre sepolture: due ad inumazione e due a cremazione. A quest‘ultima categoria
appartengono un‘urna di epoca romana e una sepoltura in una cista litica.
L‘urna, di forma rettangolare, risale al I - II sec. d.C. e venne alla luce all‘inizio del 1900 durante
l‘apertura di una nuova porta d‘accesso alla sacrestia della chiesa di S. Eufemia. Priva di fondo,
presenta sui due lati brevi delle metope a forma di lunetta, mentre sul lato frontale vi è un‘iscrizione
inquadrata in una cornice liscia che recita:
CANINIAE
L.F.
OPTATA
(A Caninia Optata, figlia di Lucio)
L‘altra sepoltura, proveniente da Crevenna, consiste in una fossa di forma pentagonale delimitata da
lastre di pietra locale e chiusa da un masso. Al suo interno si è conservato il corredo, che permette di
datare la sepoltura a metà del I sec. d.C. Esso comprende:
- 2 olpai*
- un‘olpe con versatoio
- un vasetto troncoconico
- un‘olla
- 2 ollette
- 2 patere*
- un vasetto troncoconico.
Per quanto riguarda le sepolture ad inumazione, nel Museo se ne conservano due, all’interno di casse
lignee appositamente costruite al momento della loro scoperta.
Hanno una forma rettangolare e sono realizzate in pietra, mentre il fondo è di terra. Solo una presenta
una sorta di ―cuscino‖ litico sul quale poggiava il capo del defunto.
Entrambe sono venute alla luce a Erba in loc. Balbo, e risalgono probabilmente al periodo
Tardoantico (IV-V sec. d.C.).
Su una delle pareti più lunghe è stata affissa una vetrina contenente oggetti provenienti sia da Erba
(fraz. Buccinigo) che da altre zone del Triangolo Lariano (da Ponte Lambro, da Valbrona, dalla
Valassina).
I reperti si compongono di tre armille* bronzee con estremità aperte a testa di serpente provenienti
dalla tomba 1 ritrovata a Ponte Lambro in fraz. Lezza, mentre dalla tomba 2 provengono un vago di
collana in pasta vitrea, una conchiglia ed una moneta forate per essere usate come ornamento (tutti
databili al IV sec. d.C.). Vi sono inoltre tre monete: un antoniniano dell‘imperatore Diocleziano (284-
305), una piccola moneta in bronzo dell’imperatore Costanzo II (337-361) e una dell'imperatore
Costantino (337-340), due borchie in bronzo, un probabile codolo* di coltello in ferro, un tegame in
pietra ollare*.
Sul pavimento sono invece collocati tre tegoloni piani a risvolto ritrovati a Erba in frazione Mercato
risalenti al I sec. d.C. Essi erano utilizzati per ricoprire tetti di grandi edifici.
Glossario:
*Agemina: tecnica orafa che trova particolare diffusione durante l‘Alto Medio Evo. Si ottiene
battendo sulla superficie di un oggetto in metallo non prezioso (ferro o bronzo) sottili laminette
d‘ottone, oro o argento per ottenere motivi ornamentali contrastanti. La battitura poteva essere
eseguita a freddo, previa incisione del disegno, oppure a caldo, senza incisione a bulino, con un
procedimento quindi più rapido.
*Olpe (pl. olpai): antico vaso greco o etrusco con collo allungato e cilindrico, bocca circolare e corpo
allargato alla base (si veda Dizionario De Mauro).
*Patera: sorta di scodella di argilla o di metallo (specialmente d‘oro o argento), molto bassa e priva di
anse, che veniva utilizzata per libagioni alle divinità (si veda Dizionario De Mauro).
*Armille:braccialetti.
*Codolo: parte terminale del coltello, quella che viene inserita nel manico.
*Pietra ollare o saponaria: pietra tenera e facile da lavorare, resistente alle alte temperature e che si
raffredda lentamente. E‘ stata usata fin dall‘Età del Ferro per preparare le forme destinate a
raccogliere il bronzo in fusione. In Età Romana e durante il Medioevo viene usata anche per realizzare
recipienti per la cottura dei cibi La sua lavorazione avveniva al tornio, con il sistema cosiddetto a
―cipolla‖, che permetteva di ricavare da un unico blocco di pietra una serie di recipienti di dimensioni
sempre minori. Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia dice che nel comasco esiste una pietra verde
che ―si cava e lavora al tornio in forma di recipienti per cuocere cibi e piatti da portata‖. Nome usato
per indicare varie rocce metamorfiche compatte e facilmente lavorabili, che si trovano solo nell‘arco
Alpino occidentale.
Bibliografia:
ISACCHI F., 1978 - Attività annuale del museo. Quaderni Erbesi, Vol. I: p. 10 (per l‘urna).
ISACCHI F., 1979 - Attività annuale del museo. Quaderni Erbesi, Vol. II: pp. 10, 11 (per la spada).
ZASTROW O., 1992 – La cappella di San Vito. In L’antica plebana di Santa Eufemia a Incino di
Erba. Paolo Cattaneo Grafiche – Oggiono – Lecco, 1992: pp. 79-90 (per il capitello).
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Armille a testa di
serpente
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Interno della tomba Tomba
a cremazione
Tombe ad inumazione
La vetrina con i materiali
del III-IV sec. d.C. e i tegoloni
Foto Civico Museo di Erba
Foto Civico Museo di Erba
La sala ospita quattro vetrine nelle quali sono custoditi reperti che risalgono a età differenti: le vetrine
1, 2 e 3 contengono oggetti riferibili all’età romana, mentre nella vetrina 4 si trovano reperti di età
preistorica e protostorica.
La prima che si incontra uscendo dalla sala III (vetrina 1) contiene oggetti datati al I sec. d.C.,
recuperati a Erba, Onno e Porlezza: vi sono reperti in ceramica (coppe, olpai) ed elementi bronzei (una
fibula del tipo ―Aucissa‖, quattro chiodi, due capocchie in ferro, una lama in ferro di età romana
imprecisabile e parte di una fistula aquaria* in piombo con bollo sul quale si trova l‘iscrizione PVERI).
Procedendo si incontra una vetrina ad arco (vetrina 2) nella quale sono collocati reperti e frammenti
ceramici di patere*, olpai, ollette, coppe, un piccolo balsamario ed un bicchiere del tipo a tulipano.
Oltre a ciò si conservano materiali in bronzo come un anello in ferro con estremità sovrapposte ed una
moneta purtroppo illeggibile: provengono da Albavilla (frazione Molena e Via Panoramica) e
risalgono alla fine del I sec. a.C. e all‘inizio del I sec. d.C.
Posti sul pavimento sono invece delle suspensurae di calidarium, a forma cilindrica di età romana
imprecisabile provenienti da Via Marchialo Molteno e dal parco di Villa Majnoni e sei tegoloni piani a
risvolto, alcuni con un marchio a tre cerchi concentrici, risalenti al I sec. d.C..
Nella vetrina 3 sono conservati:
-elementi in ceramica recuperati a Tavernerio, Lasnigo e Valbrona, databili alla metà del I sec. d.C. e al
II sec. d.C. ;
-un dente di erpice in ferro, del I sec. d.C. proveniente da Proserpio;
-chiodi di età imprecisabile, lama di falcetto in ferro, una lama di coltello e una lama con codolo a tre
fori per l‘immanicatura: provengono da Lambrugo;
-una fibula in ferro e una in bronzo, un ardiglione di fibula in ferro, un vago di collana in pasta vitrea,
un amo di bronzo e una moneta bronzea, databili al I sec. a.C. e I sec. d.C.;
-un sesterzio di Vespasiano (67-79 d.C.), una lama in ferro pertinente ad un paio di cesoie e un’ascia
trapezoidale in ferro con foro per l‘immanicatura, diverse olle e patere e un dolio usato come cinerario,
databili al I e al II sec. d.C. e rinvenuti a Tavernerio.
Home
Ascia trapezoidale in
ferro
Nell‘ultima vetrina (vetrina 4) sono conservati materiali provenienti da diverse zone: da Castelletto
Ticino provengono un‘urna cineraria con decorazione a denti di lupo posta sulla spalla e coperta da
una ciotola rovesciata con funzione di coperchio, frammenti di urna, di ciotola e un bicchiere risalenti
all‘età del Ferro (VII sec. a.C.).
Dalla tomba III di Canzo (stabilimento Bognanco) sono stati recuperati elementi in bronzo: un
pendaglio “a occhiali” (o pendaglio “a doppia spirale”), armille, frammenti di armille e punte di
freccia databili al Bronzo Finale (1200/1150 - 900 a.C.) o forse all‘inizio dell‘età del Ferro (IX sec.
a.C.).
Dalla tomba I, databile alla prima fase dell‘età del Rame (o Eneolitico) (3.300 - 2.200 a.C.) provengono
frammenti di ossa, due denti forati alla radice e una conchiglia forata all‘apice.
Sempre da Canzo, dal Lago del Segrino, durante il secondo recupero nell‘insediamento dell‘antica età
del Bronzo (2.200 - 1.600 a.C), sono venute alla luce: ceramiche, gusci di molluschi, un macinello di
pietra, un dente forato, tre punte in osso e alcuni materiali litici in selce quali punte di freccia, un
raschiatoio e alcune schegge.
Nella vetrina sono esposte anche schegge in selce ritrovate nella grotta del Buco del Piombo: alcune di
esse sono di formazione naturale, mentre altre presentano tracce di ritocco e si datano al Paleolitico
Medio (130.000 - 35.000 anni fa) - inizio Paleolitico Superiore (35.000 - 10.000 anni fa): in particolare
i manufatti in questione si possono riferire a un periodo che va da 50.000 a 24.000 anni fa.
Diverse punte di freccia dell‘età del Bronzo (2.200 - 900 a.C.) provengono da Lambrugo, altre invece,
di Età neo-eneolitica (databili tra 4.000 e 3.200 a.C.) da Albavilla - frazione Molena, dal Buco del
Piombo e dalla Valle Bova.
Sono presenti anche schegge di selce ritrovate sul Monte Cornizzolo e risalenti al Mesolitico recente
(7.000 - 6.000 a.C.).
Nel museo è inoltre conservato un palo di palafitta proveniente dal Lago di Pusiano, scoperto negli anni
‗60 del 1900.
Schegge litiche dal
Buco del Piombo
Glossario:
*Olpe (pl. olpai): antico vaso greco o etrusco con collo allungato e cilindrico, bocca circolare e corpo
allargato alla base (si veda Dizionario De Mauro).
*Fistula aquaria: tubo da acquedotto in piombo di epoca romana.
*Patera: sorta di scodella di argilla o metallo (specialmente d‘oro o argento), molto bassa e priva di
anse, che veniva utilizzata per le libagioni alle divinità (si veda Dizionario De Mauro).
Bibliografia:
- CERMESONI B., 2003 - I materiali preistorici. In AA.VV., Il Buco del Piombo. Un castello in una
grotta. Museo Buco del Piombo, SAP (Società Archeologica Padana) (ivi altra bibl.).
- D‘ERRICO F., 1984 - L’industria litica del Cornizzolo. Rivista Archeologica dell‘Antica Provincia e
Diocesi di Como (R.A.C.), Vol. 165 (1983): 5-21.
- ISACCHI F., 1974 - Tombe preistoriche a Canzo. Rivista Archeologica dell‘Antica Provincia e
Diocesi di Como (R.A.C.), Vol. 152-155 (1970-1973): 39-50.
APPENDICE
Le palafitte dei laghi briantei
Circa 8.000 anni il territorio della Brianza era coperto in parte dal canneto, in parte dalla foresta e in
parte dalla brughiera e le popolazioni qui presenti vivevano in stazioni lacustri su palafitte (così
chiamate perché le abitazioni erano costruite su una selva di pali profondamente infissi nel terreno)
nelle insenature dei laghi di Pusiano, Annone, Montorfano.
La storia delle scoperte archeologiche in Brianza ebbe inizio nel 1856 quando nella torba di Bosisio,
alla profondità di circa tre metri, si scoprirono un bellissimo ―paalstab‖ o ascia di bronzo e varie punte
di freccia in selce.
Nel maggio del 1863 sulla punta orientale dell‘Isola dei Cipressi, nel lago di Pusiano, si riscontrò
l‘esistenza di un villaggio su palafitte. Le ricerche proseguirono quindi, sempre nel lago di Pusiano,
nella torbiera di Bosisio denominata ―Il Pascolo‖ e nella torbiera detta ―Comarcia‖, posta
nell‘insenatura orientale del lago, al confine con il Comune di Cesana Brianza: furono ritrovati, oltre ai
resti dei pali di sostegno, numerosi oggetti di uso comune, come cuspidi di freccia e strumenti in selce,
vasi e contenitori in argilla e in legno, asce in pietra con manici e impugnature in legno, strumenti e
ornamenti in osso e in bronzo (metallo con il quale si realizzavano ornamenti quali braccialetti, spilloni
per i capelli, pendenti per collane e armi quali coltelli, punte di freccia, spade).
Pesi da telaio e fusaiole in terracotta, pettini da telaio in legno e in corno di cervo, aghi in osso e lembi
di stoffa sono le documentazioni materiali dell‘attività di tessitura.
Nel 1967 i sommozzatori scoprirono, a 4 metri e mezzo di profondità, un piccolo villaggio sommerso.
I rinvenimenti di ossi di animali quali cervo e anatra indicano nell‘età del Bronzo la presenza di un
ambiente con zone paludose, canneti e boschi non troppo fitti con radure ricche di vegetazione erbacea
di cui si nutriva il cervo. Il rinvenimento di foglie e di pollini di alberi come betulle, abete bianco,
abete rosso, ontano e quercia attestano un clima continentale di tipo nord-alpino.
Bibliografia:
GAROVAGLIO A., 1878 — Torbiere di Bosisio e di Pusiano. Ultime scoperte. Rivista Archeologica
dell‘Antica Provincia e Diocesi di Como, Fasc. 14: 34-36.
MAGNI A., 1904 — I.L’antico lago Eupili. II.Le armi di selce di Bosisio. Rivista Archeologica
dell‘Antica Provincia e Diocesi di Como, Fasc. 48: 3-27.
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La vetrina con i materiali
preistorici e protostorici
Suspensurae
di calidarium
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Il Triangolo
Lariano
Il territorio
erbese
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Foto Civico Museo di Erba
Foto Civico Museo di Erba
Foto Civico Museo di Erba
Foto Civico Museo di Erba
Foto Civico Museo di Erba
Foto Civico Museo di Erba
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Reperti di Età
Romana
Vetrina 3 con
dolio cinerario
Palo di palafitta proveniente dal
Lago di Pusiano. Neolitico o Età del
Bronzo
Disegno raffigurante la ricostruzione di una
abitazione palafitticola
Foto Civico Museo di Erba
Le due sale raccolgono reperti paleontologici dell‘Ursus speleus, conosciuto anche come Orso delle
Caverne, e una collezione di ammoniti provenienti dall’Alpe Turati, che costituisce un giacimento di
notevole importanza per capire la loro evoluzione.
La prima segnalazione di Ammoniti avvenne nel 1856 da parte di un paleontologo austriaco, mentre il
primo studio fu effettuato pochi anni dopo da Giuseppe Meneghini. L‘Alpe Turati divenne rapidamente
famosa grazie alle ampie raccolte dell‘abate Antonio Stoppani, insigne paleontologo del tempo. In
seguito è stata fatta oggetto di scavi paleontologici da parte dell‘Università di Milano negli anni 1971-
1975 e negli anni 1997-1999.
Il riconoscimento della presenza presso l‘Alpe Turati di decine di strati fossiliferi sovrapposti rende
questa località unica in tutta l‘area compresa tra l‘Europa meridionale, l‘Africa settentrionale ed il
Medio Oriente, che in origine era occupata dal mare della Tetide. L‘Alpe Turati è quindi fondamentale
per la comprensione dell‘evoluzione delle ammoniti durante il Giurassico Inferiore. Inoltre, poiché le
ammoniti sono fossili con grande utilità stratigrafica, essa risulta anche fondamentale per la
ricostruzione della storia delle Alpi meridionali durante il Giurassico, ovvero all‘inizio della formazione
di un oceano dalla cui scomparsa ebbe origine la catena alpina.
Durante il Giurassico (140 - 110 milioni di anni fa) l‘avanzamento dei mari favorì l‘aumento delle forme
di vita marine, in modo particolare delle ammoniti: una sottoclasse estinta della classe Cephalopoda
(Phylum Mollusca), che ha dominato gli ambienti marini per 325 milioni di anni, dall’inizio Devoniano
(390 milioni di anni fa) alla fine del Cretaceo (65 milioni di anni fa). Il loro nome proviene da Ammone,
dio degli Etiopi, originariamente raffigurato con una testa di ariete dal corno ritorto. Fu poi unito a Ra,
dio del Sole (Amon-Ra), assumendo caratteri di divinità assoluta e universale.
Si trattava di organismi con una conchiglia esterna di forma conica con avvolgimento planispirale,
suddivisa in camere per la presenza di setti. Le parti molli dell‘organismo occupavano l‘ultima camera,
aperta verso l‘esterno. Erano dotate di tentacoli per catturare le prede e del sifone, che garantiva il
movimento in acqua. Fino all‘epoca dell‘estinzione dei dinosauri (65 milioni di anni fa) sono stati gli
invertebrati marini più efficienti. Poiché raramente le parti molli degli organismi lasciano impronte
fossili, poco è conosciuto delle loro caratteristiche anatomiche e fisiologiche: la maggior parte delle
informazioni al riguardo sono dedotte dal confronto con il Nautilus, l‘unico rappresentante vivente della
sottoclasse dei Nautiloidea, la quale raggruppa i Cefalopodi più simili alle ammoniti.
Per tutto il periodo in cui sono vissute, le ammoniti hanno avuto un‘evoluzione molto veloce, con
continue e rapide modificazioni morfologiche: di conseguenza è riconoscibile una grandissima varietà di
forme, classificabili in numerosi generi (più di 3000) e specie (più di 15000), tutte con una durata molto
breve nel tempo geologico.
Presso il Civico Museo di Erba, dopo un‘introduzione sulle caratteristiche e sull‘importanza delle
ammoniti, se ne possono ammirare 40 specie, rappresentate da diverse decine di esemplari, provenienti
dalla collezione depositata presso il Museo di Paleontologia dell‘Università degli Studi di Milano.
Ammonite ritrovata
sull‘Alpe Turati.
Home
Bibliografia:
MANCADORI F., 2002-2001 — Biostratigrafia e ammoniti del Toarciano medio-inferiore dell’Alpe
Turati. Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e
Naturali, a.a. 2000-2001.
PELOSIO G., 1960 — Ammoniti del Lias superiore dell’Alpe Turati (Erba, Como). Parte IV e ultima.
Memorie della Società Italiana di Scienze Naturali, Milano, Vol. 17.
PINNA G., 1963, 1966, 1968 — Ammoniti del Lias superiore dell’Alpe Turati (Erba, Como). Memorie
della Società Italiana di Scienze Naturali, Milano, Voll. 13, 14, 17.
TERRACCIANO F., 1998-1999 — Biostratigrafia e ammoniti del Toarciano medio-inferiore dell’Alpe
Turati. Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e
Naturali, a.a. 1998-1999.
VENZO, 1952 — Nuove faune ed ammoniti del Domeriano-Aleniano dell’Alpe Turati e dintorni (Alta
Brianza). La successione stratigrafica. Atti della Società Italia di Scienze Naturali, Museo Civico di
Scienze Naturali, Milano, Vol. 91.
MANZONI A., PAGANI G., 2000 - L’orso delle caverne: pp. 15-18. Ed. Edlin, Milano.
Classe I C dell‘Istituto ―G. D. Romagnosi‖ di Erba, a.s. 2007-2008 - Lo chiamavano Ursus Spelaeus.
2008
Blocco di rosso ammonitico
Nella sala V sono conservati anche i resti dell‘Ursus spelaeus, meglio noto come Orso delle Caverne.
L‘Ursus spelaeus è uno dei mammiferi fossili meglio conosciuti.
Nel passato, quando venivano trovati i loro resti, si pensava che appartenessero a draghi o grifoni: solo
alla fine del 1794 J. C. Rosenmüller e J. Ch. Heinroth definirono la specie ―Ursus spelaeus‖.
Quest‘orso, oggi estinto, apparve sul continente europeo circa 300.000 anni fa durante il Pleistocene
medio, nel corso del periodo interglaciale tra le glaciazioni Riss e Würm e si estinse tra i 20.000 e i
18.000 anni fa, alla fine dell’ultima glaciazione (quella di Würm).
L‘Ursus spelaeus apparteneva alla famiglia degli Ursidi e fu chiamato con questo nome per l‘abitudine
di trascorrere il letargo durante il periodo invernale in grotte, dove sono stati trovati i suoi resti. Proprio
durante il letargo le femmine partorivano.
I motivi che portarono alla scomparsa dell‘Ursus spelaeus non sono ancora noti del tutto.
Probabilmente i fattori climatici hanno reso difficoltosi sia gli incontri tra conspecifici sia
l‘approvigionamento di cibo, inoltre la presenza di nemici naturali come l‘uomo che viveva nelle stesse
grotte per ripararsi dal freddo durante l‘inverno che lo cacciava sia per la carne che per la pelliccia.
L‘orso delle caverne era un animale caratteristico del continente europeo. Il suo areale si estendeva nel
sud dell‘Inghilterra, nell‘Italia settentrionale e centrale, nel Nord della Spagna e nella zona del mar
Caspio. Nei periodi glaciali gli orsi popolavano le aree forestali di pianura e pedemontane, mentre in
quelli interglaciali, caratterizzate da un clima più mite, potevano salire in alta quota o a latitudini più
elevate. Nella provincia di Como ne sono stati trovati i resti nei seguenti siti: Buco dell‘Orso a Laglio,
Buco della Noga in Valsolda, Buco della Volpe a Cernobbio, Buco della Tonda in Valle d‘Urio a
Carate Urio, Caverna Generosa sul Monte Generoso a San Fedele Intelvi, Buco dellla Volpe o Tana a
Erbonne e Buco del Piombo a Erba.
Attraverso la ricostruzione di alcuni scheletri si è potuto riscontrare che l‘animale poteva raggiungere
150 centimentri di altezza circa. Un altro particolare che lo contraddistingue dagli orsi attuali è la
lunghezza delle zampe anteriori rispetto a quelle posteriori.
La dieta dell‘Ursus spelaeus era quasi esclusivamente vegetariana, nonostante la sua mole: ciò è
confermato da osservazioni compiute sui reperti: i denti mostrano, a livello dei molari, un‘ampia
superficie triturante, tipica degli animali che si nutrono di vegetali, inoltre sono state trovate ossa
mascellari alterate a causa della actinomicosi provocata da un fungo (Actinomyges Bovis) presente negli
animali che si nutrono di vegetali.
Zampa anteriore sinistra di orso
delle caverne.
La ricostruzione è stata effettuata
con reperti appartenenti ad
individui diversi.
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Mandibola di Ursus Speleus
Durante l‘ultima grande glaciazione (80.000 – 12.000 anni fa) diversi massi erratici furono trasportati
dai ghiacciai quaternari nella nostra regione e abbandonati quando i ghiacciai si ritirarono. In epoche
successive (V – VI sec. d.C.) all‘interno di alcuni di esse furono scavate delle tombe: sono questi i
cosiddetti massi-avelli. Si tratta di tombe ad inumazione complete di canaletti per la fuoriuscita
dell‘acqua e di bordi ben definiti sui quali appoggiare il coperchio litico.
Dalla distribuzione dei massi-avelli risulta che la maggior concentrazione si trova nell‘area del
Triangolo Lariano e della Brianza, anche se alcuni reperti isolati si trovano in Val d‘Intelvi, in Val
Menaggio, nel Canton Ticino, in Val Bregaglia, in Val Codera e nei dintorni di Como.
Un problema che riguarda questo tipo di sepoltura è la sua datazione, per la mancanza di fonti e
tradizioni che possano fornire elementi sicuri.
Solo due fra i massi-avelli finora ritrovati sembrano essere stati rinvenuti intatti, purtroppo però
occasionali scopritori li hanno vuotati di ciò che era in essi contenuto senza tener conto delle
metodologie che l‘archeologia richiede.
Nel cortile del museo se ne trovano due:
- Uno proveniente da Asso loc. Fraino, nel quale è stata scavata una tomba di m 1,70 x 0,80 all‘interno e
m 2 x 1,10 all‘esterno, con profondità di m 0,40. E‘ un monolite in serizzo ghiandone del peso di 56 q.li,
la cui altezza massima è di m 0,90. Giaceva sepolto in un prato al confine tra Asso e Lasnigo e nel 1961
fu segnalato dal Dott. L. Castelletti. Il suo recupero avvenne nel 1963.
È dotato di cuscino in pietra all‘estremità e di parte della copertura (mentre la parte restante è stata
utilizzata per costruire il piano di una fontana vicina alla cappelletta chiamata ―dei morti di Valmorea‖).
Nel bordo si trova il solco sul quale veniva appoggiata la sbarra di ferro utilizzata per fissare la
copertura. Al suo interno non è stato ritrovato il corredo.
- L‘altro masso-avello, un blocco monolitico in granito verdone del peso di 89,5 q.li e di m 3,80 di
lunghezza, fu scoperto nel 1968. In esso furono ritrovate anche alcune ossa, così come nell‘area
circostante, dal cui scavo emersero frammenti di ossa e dieci crani. Un teschio, intero e completo di
mascella e denti, sembrava appartenere ad un individuo adulto di circa 30 anni.
Il recupero del masso fu effettuato nel 1971.
L‘avello in esso scavato è rozzo, privo di copertura e incompiuto nella lavorazione del bordo, è però
visibile il solco che doveva tenere il ferro della copertura (che nonostante i sondaggi non è stata
ritrovata). E‘ privo di cuscino sul fondo. Le sue dimensioni sono: lunghezza m 1,95, larghezza m 0,70,
profondità m 0,45.
Vicino al masso sono state trovate due pietre squadrate a mano: forse due pezzi di acroteri* della
copertura.
Accanto ai massi avelli nel cortile sono collocati anche due sarcofagi. Essi vennero alla luce durante gli
scavi condotti nel 1981 per la recinzione di una casa in loc. Arnigò. La ruspa urtò contro un lastrone in
pietra e questo fatto determinò l‘interruzione dei lavori.
La scoperta fu segnalata alla Soprintendenza Archeologica della Lombardia che eseguì un sopralluogo.
Ci si trovò di fronte a un sarcofago romano contenente ancora lo scheletro.
Di forma parallelepipeda, in serizzo ghiandone, il sarcofago presenta le seguenti dimensioni: m 2,47 di
lunghezza, m 1,25 di larghezza, m 1 di altezza.
Considerata la totale assenza del corredo, l‘avello venne datato al IV-V sec. d.C..
In seguito a questo ritrovamento la Soprintendenza affidò il reperto al Museo di Erba e le operazioni di
recupero del materiale furono affidate a Fernanda Isacchi, fondatrice e direttrice del Museo nonché
Ispettore Onorario della Soprintendenza.
La Isacchi volle approfondire lo scavo da ogni lato e vennero alla luce nuove pietre, che si rivelarono
essere quattro angolari, frammenti del fondo e delle pareti di un secondo sarcofago situato
orizzontalmente dietro il primo. Anch'esso era privo di corredo e conteneva solo delle ossa umane.
Il sarcofago misura m 2,41 di lunghezza, m 1,15 di larghezza e m 0,88 di altezza.
All‘atto del ritrovamento uno dei sarcofagi era quasi sovrapposto all‘altro, ma la ruspa aveva scomposto
qua e là i vari pezzi.
Al termine dello scavo la ditta Porro sotto la guida dell‘Isacchi provvide al sollevamento ed al recupero
delle sepolture, ora collocate nel cortile del Museo.
Glossario:
*Acroterio: ornamento posto alla sommità del frontone di un tempio o sul coperchio di un sarcofago.
Masso avello proveniente da
Magreglio.
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Masso avello proveniente da Magreglio.
Masso avello proveniente da
Fraino.
Sarcofago
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Lariano
Il territorio
erbese
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Foto Civico Museo di Erba
LABORATORI DIDATTICI PER LE SCUOLE
IN COLLABORAZIONE CON LA COOPERATIVA
―DIRE FARE GIOCARE‖ DI CASTELLANZA
Il Museo offre alle scuole di ogni ordine e grado la possibilità di effettuare laboratori didattici
inerenti l‘archeologia e la storia dell‘arte, realizzati in collaborazione con la Cooperativa Dire fare
Giocare di Castellanza (VA).
Da alcuni anni il Museo collabora con le scuole primarie di Erba organizzando laboratori didattici
aventi lo scopo di avvicinare i bambini all‘archeologia e alla storia del territorio in cui vivono.
Attraverso questo tipo di attività si cerca per mezzo del gioco e del divertimento di spiegare ai
bambini come si svolge il lavoro dell‘archeologo e di insegnare loro le tecniche di costruzione di
oggetti preistorici, il modo con cui nei diversi periodi venivano realizzati e decorati vasi in ceramica
e in vetro, o ancora con quali tecniche si possono creare un mosaico, un affresco o un bassorilievo.
Le lezioni ―pratiche‖ sono precedute da una parte introduttiva in cui operatori didattici professionisti
danno un inquadramento storico e tecnologico dell‘argomento.
Nel corso di una seconda lezione ciascun bambino realizza un oggetto con la tecnica presa in
considerazione o nel caso del laboratorio di scavo gli alunni insieme simulano uno scavo vero e
proprio.
Laboratori per l’ Anno Scolastico 2008-2009 -Laboratorio di scavo archeologico Uno scavo quasi vero, nel corso del quale gli allievi
sperimentano la simulazione di un intervento di scavo stratigrafico. Dopo un‘introduzione basata su
esempi di scavo dal vero, sulla presentazione di documenti e testimonianze ritrovati nel territorio e
su disegni esemplificativi, vengono illustrati in modo semplice i diversi aspetti dello scavo
archeologico e la differenza tra campagna di scavo vera e propria e recupero d‘emergenza. In
seguito, guidati da un archeologo, gli alunni simulano uno scavo, imparando così a conoscere i
concetti di quadrettatura e di stratigrafia, l‘attrezzatura utilizzata per diverse fasi di recupero degli
oggetti e per la documentazione di ciascuno strato, i tipi di reperti che si possono rinvenire, i metodi
di datazione degli stessi
DURATA 3 ORE
-Laboratorio La tessitura nel Neolitico: laboratorio di tessitura con telaio da tavolo e
sperimentazione della tessitura su telaio verticale secondo le tecniche del periodo Neolitico: si tratta
della prima forma di tessitura realizzata dall‘ uomo
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo oggetti preistorici: realizzazione in creta di riproduzioni ispirate
principalmente ai reperti archeologici di età preistorica rinvenuti nella zona
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Dall’ argilla al...vaso: riproduzioni di oggetti in argilla (vasi, oggetti d’arredo, elementi
architettonici, suppellettili, tavolette iscritte, giocattoli), con riferimento alle civiltà greca, romana,
fenicia e giudaica e alle culture della penisola italica
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo un’epigrafe: realizzazione in creta di riproduzioni di epigrafi di età
romana rinvenute nella zona
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo un mosaico romano: utilizzo ed assemblaggio di materiali di vario tipo
(piccole pietre, tessere in vetro) per realizzare mosaici con figure geometriche. Le riproduzioni sono
ispirate principalmente ai mosaici di età romana dell‘Italia settentrionale
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Moda e abbigliamento presso i Romani: riproduzione di elementi dell‘ abbigliamento
e dell‘ ornamento femminile e maschile in uso presso i Romani
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo oggetti d’ornamento: utilizzo ed assemblaggio di materiali di vario tipo
per realizzare oggetti d‘ornamento in uso nelle varie epoche storiche: collane, fibule, elementi
decorativi a sbalzo. Le riproduzioni sono ispirate principalmente ai reperti archeologici di età
romana, tardoromana e medievale dell‘Italia settentrionale
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo antiche armi: realizzazione in cartapesta di armi, spade, punte di lancia,
scudi e altre riproduzioni ispirate principalmente ai reperti archeologici di età protostorica, romana e
medievale rinvenuti nella zona. Rifinitura secondo tratti e motivi decorativi dell‘ epoca
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo motivi decorativi su vasi: riproduzione di motivi decorativi su vasi in
argilla (biscotto) o su vetri, ad imitazione degli schemi decorativi di vasi e oggetti d‘uso tipicamente
basso-medievali e rinascimentali
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Vasi Fenici in vetro: decorazione di bottiglie e vasi in vetro utilizzando colori atossici
ad acqua con riferimento ai motivi decorativi utilizzati dai Fenici
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Giochi e giocattoli del mondo antico: riproduzioni di giochi (da tavolo, d’ingegno,
d‘abilità) e giocattoli con materiale di riciclo e non, con riferimento alle civiltà del Vicino Oriente
(Mesopotamia), dell’ Egitto, dell’India e della Cina
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo un bassorilievo: realizzazione di un bassorilievo riproducente uno stemma
nobiliare antico o un motivo figurativo. La riproduzione si ispira principalmente ai reperti
archeologici di età medievale, rinascimentale o moderna rinvenuti nella zona. Rifinitura secondo
tratti e motivi dell‘ epoca
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo un codice miniato: riproduzione di motivi decorativi floreali o di piccole
miniature su carta pergamena prendendo spunto da codici bassomedievali e rinascimentali conservati
nei principali archivi del territorio oppure da modelli opportunamente semplificati
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Realizziamo una vetrata: riproduzione di una vetrata, realizzata ispirandosi
principalmente a motivi decorativi semplificati di età medievale e rinascimentale. Rifinitura secondo
tratti e motivi decorativi dell‘ epoca
DURATA 3 ORE
-Laboratorio Cucina degli antichi
Home
Sale museali
Pubblicazioni
Biblioteca
Il Triangolo
Lariano
Il territorio
erbese
Area bambini
News & Links
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1978
VOLUME I INDICE
Fernanda Isacchi Nascita e sviluppo del Museo di Erba
Adriano Alpago Novello Introduzione all’ architettura dell’ antico Iran
Giorgio Luraschi La storia antica di Erba e del Triangolo Lariano
Cesare Piovan La preistoria del territorio comasco
Giancarlo Frigerio I massi avello del territorio comasco
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1979
VOLUME II INDICE
Marco Bomman La “Voragine degli orsi”
Vincenzo Fusco Primo esame dei resti ossei della “Voragine degli orsi”
Marco Bomman Nuova prosecuzione nella grotta “Buco del Piombo” da parte del “CAI Speleo
Club Erba”
Adriano Alpago Novello Bisanzio, Costantinopoli, Instambul architetture di una capitale
Ernesto Brivio La Basilica di Sant’ Ambrogio in Milano
Fernanda Isacchi Malta e Creta Introduzione
Paolo Bellingardi Malta e Creta
Carlo Perogalli Cappadocia architettura cavata nel paesaggio
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1980
VOLUME III INDICE
Paolo Maggi Introduzione: Plinio Il Vecchio
Cesare Piovan Vita e morte ai tempi dei Plinii
Giancarlo Frigerio Agricoltura, artigianato e commercio al tempo dei Plinii
Stefano Della Torre I ritratti di Plinio il Vecchio
Giorgio Luraschi L’eredità di Roma nel territorio comasco. Le istituzioni politiche, sociali,
economiche e religiose
Adriano Alpago Novello Armeni e Kurdi nell’Azerbaijan iraniano
Angelo Mira Bonomi La cultura della Golasecca dai suoi antecedenti all’invasione gallica e alla
dominazione romana
Carlo Perogalli Architettura greca, ellenistica, romana in Anatolia
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1981
VOLUME IV INDICE
Fernanda Isacchi Castelli e rocche medioevali nel pian d’ Erba
Adriano Alpago Novello Musei d’ architettura del nord europeo: Polonia, Danimarca, Norvagia
Umberto Sansoni Arte rupestre della Val Camonica
Ernesto Brivio Architettura paleocristiana milanese
Carlo Perogalli Turchia orientale. L’ aspetto meno accessibile e più esaltante dell’ Anatolia
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1982
VOLUME V INDICE
Adriano Alpago Novello Ricerche di archeologia cristiana nella Siria del nord
Paolo Maggi Ricordo di Virgilio nel bi millenario della morte
Carlo Perogalli Architettura in legno dei Carpazi: Museo d’architettura all’aperto
Adolfo Merazzi e Marco Bomman Grotte ossifere nel comaco
Fernanda Isacchi Le chiese di Erba
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1983
VOLUME VI INDICE
Mariano Bianchi Una parentesi su Villa Amalia
Adriano Alpago Novello “Città carovaniere” romane d’ Oriente
Mario Mirabella Roberti Milano romana
Ernesto Brivio Il Tesoro e il Museo del Duomo
Carlo Perogalli Architetture antiche di Lidia, Caria, Licia, Pamfila e Cilicia (Anatolia meridionale)
Pietro Pensa Le tormentate vicende delle infeudazioni ducali nella Brianza e sulla Riviera del
Lario
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1984
VOLUME VII INDICE
Adriano Alpago Novello Architettura “minore” in Val Belluna (Medio Piave)
Stefano Della Torre Le vedute del Museo Gioviano
Ugo Magri Introduzione ai due articoli successivi
Raffaele De Marinis Como, Prestino: scavo di un abitato dell’età del ferro
Ugo Magri Recenti scoperte nell’insediamento di Como preromana
Carlo Perogalli Architettura classica, bizantina, gotica a Cipro
Pietro Pensa Il contrabbando in Brianza durante la guerra tra Venezia e il duca Francesco Sforza
Giorgio Gagliardi L’insediamento dell’età del bronzo antico sulla sponda nord del Segrino
(Canzo)
Francesco Fedele Note sulla fauna e sui manufatti ossei del Segrino (Canzo)
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1985
VOLUME VIII INDICE
Adriano Alpago Novello Architetture monastiche dell’ Haghion Oros (Monte Athos)
Ernesto Brivio Il contributo dei “Maestri” brianzoli al Duomo di Milano
Max Paleari Henssler Storia delle armi da fuoco per la caccia
Giorgio Luraschi Le due fondazioni di Como
Carlo Perogalli Chiese bizantine nel Pelopponeso
Pietro Pensa L’impresa della Rocca di Baiedo
Giorgio Gagliardi Indizi di insediamento protostorico/romano in località Ca’ Bianca di Caslino d’
Erba
Giorgio Gagliardi Monete e pesa monete nei terreni della Vallassina
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1986
VOLUME IX INDICE
Adriano Alpago Novello “Bere al proprio pozzo”
Gian Pietro Brogiolo Nuove indagini archeologiche nella Lombardia
Umberto Sansoni Arte preistorica d’ Europa
Carlo Perogalli Monumenti della Bulgaria
Eugenio Mario Guglielmi Culto e immagine popolare nel territorio manzoniano
Giorgio Gagliardi L’abitato preistorico di Asso
Francesco Fedele– Giorgio Gagliardi Ricerche sul giacimento del Buco del Piombo
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1987
VOLUME X INDICE
Adriano Alpago Novello Architettura di Ouro Prệto (“segni” del barocco tra le due sponde dell’
Oceano)
Ernesto Brivio I recenti lavori di restauro nel Duomo di Milano
Mario Salvo La genesi urbana di Como
Carlo Perogalli Architettura a Creta
Rodolfo Pozzi Le olimpiadi antiche
Gagliardi Le gallerie della Valle di Cornacchiere o del Liscione ( Comune di Valbrona)
Luigi M. Gaffuri Due affreschi provocatori nella chiesetta di San Pietro in Buccinigo d’ Erba
Raffaele Serio 1944: i bombardamenti aerei di Erba nei documenti ufficiali
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1988
VOLUME XI INDICE
Adriano Alpago Novello L’ architettura della memoria
Carlo Perogalli Architettura selgiuchide in Anatolia
Eugenio M. Guglielmi Valtellina e Brianza icone e stilemi
Mario Di Salvo Terragni e la sua opera
Alessandro Pizzoccheri Gli affreschi del Salone delle Battaglie nel Castello di Melegnano
Giorgio Gagliardi L’ abitato preistorico di Caslino d’ Erba ( Como)
Virginio Longoni Brianza Giacobina
V. Fusco - V. Visconti di Modrone Una nuova caverna ossifera: la Grotta dell’ Orso sul Monte
Generoso
Maria Fortunati Pontelambro–Schieppo:un edificio abitativo di età tardoromana
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1989
VOLUME XII INDICE
Maria Fortunati Pontelambro,loc. Schieppo: scavo di un edificio abitativo di età romana
Leopoldo Pozzi Monete medioevali del Museo di Erba
Adriano Alpago-Novello Architetture dell’ Arabia Felix (Yemen del Nord)
Eugenio M. Guglielmi La civiltà etrusca
Giorgio Luraschi La Sindone alla luce della ragione
Ernesto Brivio Vita e miracoli di San Carlo Borromeo nei quadroni secenteschi del Duomo di
Milano
Carlo Perogalli Caravanserragli Selgiuchidi
Giampiero Guerreschi I nuovi scavi all’ Isolino di Varese (1977-1986)
Pietro Pensa Il furore del fitto a grano, tragedia della Brianza
Ercole Ceriani Lavori di restauro nella Chiesa di San Pietro Apostolo a Buccinigo
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE DELL‘ ANNO 1990-91
VOLUME XIII INDICE
Eugenio Guglielmi Venezia e il suo mito in terraferma
Alberto Pozzi Il megalitismo della Scozia e delle isole Orcadi
Carlo Perogalli Architettura degli ottomani in Turchia
Rodolfo e Maria Grazia Pozzi Har Karkom è il Monte Sinai?
Adriano Alpago-Novello Architetture di legno nella Norvegia meridionale. Le Stavkirke
Eugenio Guglielmi San Gregorio di Caslino d’ Erba: tra prodigio e realtà
Ernesto Brivio La vetrata liberty a Milano
Carlo Perogalli Architettura delle Isole dell’ Egeo I
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE
VOLUME XV INDICE
Sauro Gelichi e Isabella Nobile S. Eufemia: storia di una scoperta il Battistero di S. Giov. Battista
Virginio Longoni Il Battistero di San Giovanni Battista di Incino
Raffaele Serio 1944: i bombardamenti aerei di Erba nei documenti U.S.A.A.F.
Virginio Longoni Sull’origine dei comuni rurali nel pian d’Erba e nel Triangolo Lariano
Adolfo Merazzi La speologia nel Triangolo lariano
M. Bomman, A. Merazzi, Giampietro Rossi, M. Zagaglia I sistemi carsici e le principali attivià del
Triangolo Lariano
Archivio Speleo Club Erba Il fenomeno sparso
Giovanni Folini, Paolo Sechi Altri aspetti del fenomeno carsico nel Triangolo Lariano
Bruno Maria BosatraS. Antonio Abate nelle nostre campagne.Tra arte e Folklore
Giovanni Bertacchi Da Carella un sonetto alla brianza
Carlo Perogalli Architettura delle Isole del’Egeo III
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE
VOLUME XIV INDICE
Sergio Tosetti Luigi Riboni, Emiliana Ballabio Oratorio di San Bernardino di Arcellasco d’ Erba
Virginio Longoni Fonti per la storia dell’ Erbese
Luigi Viganò Villiam Extruxit Amaliam
Carlo Perogalli Architettura delle Isole dell’ Egeo II
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE
VOLUME XVI INDICE
Virginio Longoni I signori di Carcano
Giorgio Mauri All’Ombra dei Cipressi
Barbara Parravicini La ferrovia da Milano al Piano d’ Erba
Il progetto dell’ ingegnere Ambrogio Campiglio
Le vicende della ferrovia
Eugenio Guglielmi “Santi di carta” Devozione, Fede e Tradizione
Adolfo Merazzi La speologia nel Comasco attraverso la stampa quotidiana e periodica
Carlo Perogalli Architettura delle Isole dell’ Egeo IV
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE
VOLUME XVII INDICE
Don Alessandro Vismara Brevi note sulla diffusione del culto di Sant’ Eufemia
Angela Ciceri Un modello di Bramante sotto Santa Marta?
Luigi Viganò Quattro documenti inediti relativi al Convento di S. Maria degli Angioli di Erba
Giancarlo Corti Malattie e cure nell’antica brianza
Adolfo Merazzi, Marco Bomman, Maurizio Zagaglia Alla scoperta del Buco del Piombo
Virginio Longoni Un ricordo del Parini ad Erba
Virginio Longoni L’ albero della verità nel Triangolo Lariano
Maria Grazia e Rodolfo Pozzi La Cina sconosciuta: il villaggio neolitico Banpo e le pitture
rupestri di Huashan
Charles E. McClennen e Albert J. Ammerman Relazione geologica preliminare della ricerca sul
campo condotta sui laghi di Alserio, Pusiano e Segrino vicino ad Erba
VITA DEL MUSEO E CONFERENZE
VOLUME XVIII INDICE
Raffaele Riva L’ archeologia industriale nell’ alta valle del Lambro
Roberto Andreoni Gli antichi sodalizi sacerdotali ambrosiani ed i consorzi clericali fioriti in
Vallassina e nella pieve di Incino
Felice Mauri Ulteriori notizie e antefatti relativi alla costruzione della chiesa di Santa Maria in
Erba alta
Roberta Masciardi, Sabrina Nadar, Barbara Parravicini L’ oratorio di S. Bernardino a Pomerio
Angela Ciceri Alle origini della chiesa dei Magi di Carpesino
Antonello Marieni La Pieve di Incino e le testimonianze cartografiche giacenti presso l’ archivio
diocesano di Milano, apparenti all’età dei Borromei
Virginio Longoni Il Triangolo Lariano al tempo del Parini
Virginio Longoni Giovanni Segantini e l’imminente cantenario
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Bibliografia:
VISMARA A., 1997 - Brevi note sulla diffusione del culto di Sant‘Eufemia, antica titolare della Pieve di
Incino. Quaderni Erbesi, Vol. XVII: pp. 9-20.
ZASTROW O., 1992—L’antica plebana di Santa Eufemia a Incino d’Erba. ―Quei del Masigott‖,
Comitato Restauri Santa Eufemia. Paolo Cattaneo Grafiche, Oggiono (LE).
Notizie sulla diffusione del culto di Sant‘Eufemia, antica titolare della pieve di Incino.
Eufemia era celebrata sia dalla Chiesa greca che da quella latina, le quali ne commemoravano il
martirio avvenuto in data 16 settembre.
Con la riforma liturgica, voluta dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), nel calendario
romano la festa della martire fu soppressa e sostituita con quella dei santi Cornelio, papa, e
Cipriano, vescovo di Cartagine. Anche il calendario ambrosiano si adeguò, interrompendo questa
celebrazione che poteva risalire all‘epoca di Sant‘Ambrogio.
In ambito occidentale rimangono varie località ed un buon numero di chiese che le sono dedicate.
Nella venerazione di Sant‘Eufemia si possono individuare elementi di comunione tra le due grandi
chiese dell‘oriente e dell‘occidente.
I racconti del martirio
Le fonti antiche sono concordi nell‘affermare che la vergine Eufemia subì il martirio durante la
persecuzione di Diocleziano, il 16 settembre dell‘anno 303, nella città di Calcedonia in Asia
Minore.
Dalla storia sappiamo che negli ultimi anni del terzo secolo si andavano addensando nubi di
tempesta sopra i cristiani: le disgrazie naturali che avevano colpito l‘impero, alcune brucianti
sconfitte militari nella lotta contro i barbari e il violento incendio scoppiato nel palazzo imperiale
furono visti come vendette degli dei trascurati. Tutto ciò aveva spinto Diocleziano ad emanare nel
303 e nel 304 editti persecutori sempre più rigidi nei confronti dei cristiani. La persecuzione risultò
particolarmente violenta nelle regioni orientali dell‘Impero, dove si ebbero schiere di martiri.
I racconti della vita e del martirio di Sant‘Eufemia risultano composti in epoca tarda e si conoscono
cinque versioni della ―passione‖. Eufemia si presenta come una persona eminente sotto vari aspetti:
per il rango sociale, per la cultura che possedeva e soprattutto per la fermezza nella fede.
Tra i vari racconti che narrano il suo martirio, compare come elemento comune il fuoco. Asterio,
vescovo di Amasea tra il 388 e il 410, attesta in una omelia di aver ammirato splendide pitture nel
nartece* di una chiesa imprecisata. In esse era raffigurato il martirio della giovane e nell‘ultima la
vergine appariva avvolta dalle fiamme con le braccia levate al cielo, mentre consumava sul rogo la
sua vita.
L‘iconografia successiva ha raffigurato altri supplizi: la spada, la sega, la ruota dentata e il leone
che si accovaccia ai suoi piedi invece di azzannarla.
Probabilmente per la ferocia dei tormenti subiti la martire cristiana fu subito circondata da
vivissima venerazione.
Il culto praticato sul suo sepolcro fu assicurato dal vescovo Asterio. I cristiani e i suoi concittadini
le eressero un monumento sepolcrale e ogni anno ne celebravano una solenne festa.
La celebre basilica sepolcrale di Calcedonia non esiste più, ma si può riconoscerla attraverso la
descrizione fattane da Evagrio il Pontico (536-600) nella sua Storia Ecclesiastica: vi si accedeva
attraverso un elegante porticato il cui colonnato riprendeva all‘interno fino alla grande rotonda
sormontata da una cupola, al centro della quale si trovava l‘urna d‘argento contenente le spoglie
della martire. La grandiosità e la bellezza del monumento indicano quanto fosse divenuta celebre la
martire.
A Milano e nei territori dipendenti da Milano, la diffusione del culto di S. Eufemia si deve ai
vescovi Abbondio di Como e Senatore di Milano.
La chiesa di Sant‘Eufemia di Incino d‘Erba
La prima chiesa risale alla seconda metà del V sec. e fin da allora deve essere stata dedicata alla
Santa. Di essa esiste ancora parte dell‘alzato, soprattutto nella zona absidale.
Col passare del tempo la chiesa subì delle modifiche e ampliamenti che hanno concorso alla
configurazione dell‘attuale edificio ma che non hanno cancellato del tutto la fisionomia originaria:
fu costruita a poi parzialmente distrutta una navata laterale, fu inglobato nell‘aula il portico
antistante la facciata, scomparve l‘antica cripta, mentre sul finire del sec. XI venne edificata la torre
utilizzando materiali di spoglio.
L‘abside a pianta semi circolare è suddivisa nella parte esterna da quattro lesene ed è circondata
alla base da una fascia decorativa in mattoni. Su di essa è possibile osservare le aperture originarie,
anche se ora la luce filtra solo da una finestra.
Sopra l‘ingresso, all‘esterno, è posta una pregevole statua in marmo di piccole dimensioni
rappresentante una figura con un libro aperto, palmizi e animali.
All‘interno vi sono:
- un crocifisso ligneo del XIV secolo con Cristo sofferente, ai lati vi sono le lunette con Maria e
l‘apostolo Giovanni e in basso, anche se ora non è più ben visibile, il calice che raccoglie il sangue;
- l‘acquasantiera in pietra risalente al 1212, un piccolo capolavoro dell‘arte romanica;
- l‘affresco nella cappella della Madonna, nella quale si trovano due tele legate alla vita di Maria;
- l‘altare ligneo dorato del XVII secolo, del quale mancano numerose statue, che furono rubate in
diverse occasioni (l‘ultima nella primavera del 2007).
La chiesa ha avuto il suo periodo di massimo splendore nei primi secoli del 1000 e
successivamente è entrata in una fase di decadenza. Nel 1584 S. Carlo porta la dignità prepositurale
da S. Eufemia a S. Maria di Villincino, l‘attuale prepositura, lasciando però un comando ai
canonici: ogni anno, in occasione della terza domenica di ottobre , si ricorda questo momento con
la processione del clero da S. Maria a S. Eufemia, festa che ora si presenta con il nome di ―Sagra
del Masigott‖, momento di festa pagana e religiosa.
Nel 1994 sono stati effettuati nella piazza di fronte alla chiesa degli scavi archeologici da parte del
Museo Civico Archeologico ―P. Giovio‖ di Como (con la direzione del Prof. Sauro Gelichi
dell‘Università ―Cà Foscari‖ di Venezia‖ e della in Dott.ssa Isabella Nobile de Agostini,
conservatrice del Museo Civico di Como). Lo scopo di questa campagna di scavo era quello di
portare alla luce il battistero di S. Giovanni Battista, sito davanti alla chiesa. La costruzione del
battistero è contemporanea all‘edificazione della prima chiesa plebana, ma, caduto in rovina, fu
abbattuto nei primi anni del ‗600. Grazie agli scavi sono state rinvenute le tracce di alcune
sepolture poste ai lati del battistero e risalenti all‘VIII-IX secolo: due cappelle, una con tre tombe a
cassa in lastre di pietra (sepolture di famiglia che vennero più volte aperte) e l‘altra con una sola
tomba (interpretata da S. Gelichi come un piccolo mausoleo, dal momento che conteneva una sola
inumazione e non venne mai riaperta) ed altre tombe nel lato orientale della piazza (le quali
testimoniano che questa area era adibita a cimitero), databili dal XIV al XVII secolo.
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Bibliografia:
GELICHI S., 2001 – La periodizzazione. In GELICHI S., NOBILE DE AGOSTINI I. (a cura di), Il
battistero di San Giovanni di Incino. Amministrazione Comunale di Erba, 2001: pp. 15-41.
GELICHI S., NOBILE DE AGOSTINI I., 1995 – S. Eufemia: storia di una scoperta. Il battistero di S.
Giovanni Battista. Quaderni Erbesi, Vol. XV (1995): pp. 9-16.
LONGONI V., 1995 – Il battistero di S. Giovanni Battista di Incino. Quaderni Erbesi, Vol. XV (1995):
pp. 17-30.
NOBILE DE AGOSTINI I., 2001 – I vetri. In GELICHI S., NOBILE DE AGOSTINI I. (a cura di), Il
battistero di San Giovanni di Incino. Amministrazione Comunale di Erba, 2001: pp. 170-190.
SBARRA F., 2001 – Le attività nel settore ovest dello scavo. In GELICHI S., NOBILE DE AGOSTINI I.
(a cura di), Il battistero di San Giovanni di Incino. Amministrazione Comunale di Erba, 2001: pp. 42-46.
Il Battistero di S. Giovanni di Incino
Nel 1993, in occasione del rifacimento della pavimentazione antistante la chiesa di Sant‘Eufemia,
l‘Amministrazione comunale di Erba chiese alla Direzione dei Musei Civici di Como di effettuare
una indagine archeologica su quello che rimaneva del Battistero di S. Giovanni.
Le prime informazioni sul monumento (ubicazione, planimetria, alzato) sono state estrapolate da
due disegni conservati presso l‘Archivio Arcivescovile di Milano e da una serie di annotazioni nelle
Visite Pastorali.
La campagna archeologica si è svolta dal 18 luglio al 12 agosto 1994, con il sostegno economico
dell‘Amministrazione Comunale di Erba. Questa indagine sarebbe stata il punto di partenza per le
successive, che avrebbero completato lo scavo del battistero ed avrebbero permesso l‘esplorazione
delle zone limitrofe alla chiesa di San‘Eufemia. Il progetto però venne interrotto impedendo lo
studio dei resti del monumento messi in luce dallo scavo.
Nel 1998 l‘Amministrazione prese la decisione di coprire i resti del battistero, ma prima fu
effettuata una breve campagna per completare i rilievi che nel 1994 non erano stati realizzati.
Le indagini condotte hanno permesso di ricostruire la storia dell‘edificio e dell‘intera piazza, storia
che può essere suddivisa in sei periodi:
Periodo VI: prima del V secolo
A questa fase corrisponde il ritrovamento di scarsi frammenti ceramici databili ad epoca romana o
tardo antica.
Periodo V: costruzione del battistero (tra la seconda metà del V e il VII secolo)
A questo periodo corrisponde l‘edificazione del battistero, probabilmente insieme alla chiesa di S.
Eufemia, nel V-VI secolo, su un terreno probabilmente inedificato in precedenza e che comunque
presenta scarse tracce di frequentazione antecedenti. Il battistero era un edificio di forma quadrata,
di circa m 6,40 di lato all‘interno e m 7,60 con lo spessore delle pareti, con ingresso a est, verso la
chiesa (e forse anche a ovest). I muri erano realizzati con blocchetti di calcare sommariamente
sbozzati e qualche ciottolo, legati con malta piuttosto abbondante, mentre il pavimento era in
cocciopesto. Gli accessi al battistero erano posti sul lato est e sul lato ovest.
Il fonte battesimale era di forma poligonale (ottagonale) all‘esterno, probabilmente circolare
all‘interno; era ad immersione ed era munito di canalette per lo scarico delle acque. La vasca era
realizzata in frammenti di laterizi spezzati e pietre ed era ricoperta all‘esterno da intonaco rosso.
Non sono state riconosciute condotte di adduzione idrica (ma non si può escludere che ve ne fossero
nella parte del battistero non scavata) né di scarico, ad eccezione delle canalette.
E‘ possibile che il battistero fosse circondato da un porticato, di cui sono stati rintracciati alcuni
resti: i muri erano realizzati con corsi subregolari di ciottoli e blocchetti di calcare.
Non è emersa alcuna documentazione archeologica della presenza di un insediamento romano o
tardo romano in quest‘area.
Periodo IV: ristrutturazione del battistero (VIII – IX secolo) In questa fase della vita del battistero fu aggiunta un‘abside di forma rettangolare (m 2,50 x 3,20
all‘interno) sul lato est del battistero, in corrispondenza dell‘accesso originario, che in seguito venne
rimosso. La tecnica costruttiva è la stessa che è stata utilizzata per i muri del battistero. La pareti
all‘interno erano ricoperte di intonaco bianco.
Un saggio praticato all‘interno dell‘abside ha fatto supporre che in essa fosse collocato un altare.
Ai lati dell‘abside furono ricavati due ambienti funerari: due cappelle, una con tre tombe a cassa in
lastre di pietra (sepolture di famiglia che vennero più volte aperte) e l‘altra con una sola tomba
(interpretata da S. Gelichi come un piccolo mausoleo, dal momento che conteneva una sola
inumazione e non venne mai riaperta)
La presenza in questa fase di un‘abside, connessa con la realizzazione di ambienti con destinazione
funeraria e con l‘inserimento di un altare, segna un cambiamento di funzione dell‘edificio, dovuta
probabilmente all‘arrivo di reliquie (ipotesi indirettamente confermata dal una notizia del sec. XVI
che ricorda la presenza di un altare con reliquie all‘interno di S. Giovanni – si veda ZASTROW,
1992: 71, 72).
In questo periodo venne ristrutturato il battistero: fu realizzato un nuovo impianto pavimentale, fu
ristrutturato l‘impianto di deflusso delle acque dal fonte e venne murato l‘interno della vasca del
fonte battesimale.
Periodo III: attività di ricostruzione (XIV – XV secolo)
L‘edificio ottenne una definitiva sistemazione. Furono rinnovati il pavimento e il fonte battesimale,
ora di forma circolare e abbellito da un rivestimento esterno in ghiandone, mentre si ridusse il
diametro interno della vasca.
Al di sotto di questo fonte battesimale è stato trovato un numero piuttosto consistente di balsamari
in vetro, che devono essere stati interrati probabilmente integri al momento della messa in opera
della struttura. Questi oggetti vennero deposti al momento del rifacimento del fonte e quest‘ultimo è
a sua volta coevo alla pavimentazione del battistero: ne consegue che la cronologia di questi oggetti
è fondamentale per stabilire la datazione del Periodo III.
Le ampolline dovevano probabilmente venir usate per contenere l‘olio santo del battesimo. Dal
momento che, ad eccezione di una, erano frammentate, è ipotizzabile una loro connessione con la
pratica di seppellire in una fossa scavata all‘interno dell‘edificio religioso le suppellettili sacre e le
statue che avessero subito una rottura.
E‘ incerta l‘attribuzione a questo periodo della realizzazione di una tomba davanti all‘ingresso ovest
del battistero. Sicuramente essa è posteriore alle attività segnalate tra il Periodo IV ed il III. La
realizzazione di un‘unica sepoltura in un‘area precedentemente priva di inumazioni costituisce un
fatto rilevante e la sua posizione ne conferma l‘eccezionalità e l‘importanza. Non sono stati
effettuati studi per stabilire se gli individui inumati al suo interno costituissero un nucleo familiare,
ma l‘ipotesi sembra comunque plausibile, dal momento che i resti appartengono a uomini, donne e
bambini. Non si può quindi escludere che questo gruppo di persone possa aver avuto qualche
relazione con le ristrutturazioni del battistero. E‘ importante notare che l‘area ad ovest del battistero
non venne utilizzata per altre sepolture, se non in epoca molto tarda.
In una seconda fase l‘ambiente sud forse venne prima riempito parzialmente di terreno, all‘interno
del quale si continuò a seppellire, e poi demolito. Quando l‘area fu definitivamente livellata, il
nuovo spazio reso così disponibile servì per nuove sepolture. Nelle nuove tombe scompaiono del
tutto le casse litiche e gli inumati sono deposti in fosse, talora forse in casse di legno (deducibili
dalla presenza di un gran numero di chiodi), senza alcun tipo di delimitazione. Il nuovo cimitero,
che assume l‘aspetto tipico del cimitero tardo-medievale (con tombe che si tagliano
vicendevolmente), sembra essere stato in funzione tra il XIV e il XVII secolo.
Un documento del 1426 - gli atti del verbale di un‘adunanza tenuta dai parrocchiani - cita un
cimitero di S. Giovanni, che evidentemente era il luogo dove, oltre a seppellire i fedeli, si tenevano
questi incontri. E‘ probabile, sulla scorta di una pianta che si data tra il 1575 e il 1584, che questo
cimitero potesse trovarsi a nord o a sud del battistero.
A est del battistero esisteva un‘altra area cimiteriale, tra il battistero stesso e la chiesa di S. Eufemia:
è ricordata nella Visita Pastorale del 1574 come ―cimitero di S. Eufemia‖.
Il cimitero di S. Giovanni è nominato solo nei documenti degli inizi del sec. XV, mentre nei
documenti successivi si ricorda solo il cimitero di S. Eufemia. Si può quindi ipotizzare che nel sec.
XVI non esistesse più una distinzione specifica tra queste due aree cimiteriali e che la zona tra la
chiesa e il battistero fosse diventata un unico spazio a destinazione funeraria chiamato ―cimitero di
S. Eufemia‖.
Periodo II: abbandono e demolizione del battistero (XVI secolo)
Il battistero fu prima abbandonato, lasciato in parte crollare e poi abbattuto: fonti storiche e dati
archeologici concordano nella datazione dell‘evento alla seconda metà del sec. XVI. In una Visita
Pastorale del 1565 si segnala che l‘edificio era privo di tetto e porte, mentre in una del 1569
vengono menzionati degli individui che avrebbero trafugato beni dalla chiesa di S. Giovanni (tra cui
i coppi del tetto). Possono riferirsi a questo periodo anche la demolizione dell‘altare dell‘abside e la
rimozione delle reliquie, come ricordato nella visita pastorale del 1585 (si veda ZASTROW, 1992:
pp. 67, 68). Non si sa a quale santo appartenessero le reliquie. L‘ultima fonte che ricorda l‘edificio
ancora in piedi è la Visita Pastorale del 3 agosto 1609.
La sede della pieve passò così da S. Eufemia (dove già da tempo era stato installato un fonte
battesimale) a S. Maria Nascente, ma l‘area cimiteriale a sud del battistero continuò ad essere
utilizzata.
Nella pianta citata in precedenza compare una struttura che cinge tutta l‘area del complesso
ecclesiastico, chiudendo ad ovest e a sud il battistero e andandosi a raccordare a nord con una serie
di ambienti. Tale struttura è stata interpretata come un muro di recinzione, la cui funzione doveva
essere quella di delimitare lo spazio del complesso ecclesiastico. Questo muro è stato utilizzato
anche in epoca post-medievale.
Periodo I (XVII – XX secolo)
Il battistero non esiste più, ma per un certo tempo continua ad essere usato il piccolo cimitero
antistante la chiesa per povere sepolture in nuda terra. La zona corrispondente al battistero non fu
tuttavia mai interessata da inumazioni, a riprova sia di una delimitazione fisica che doveva, anche
da prima, definire lo spazio del cimitero, sia del fatto che dovette rimanere vivo il ricordo
dell‘esistenza di questo edificio.
Notizie storiche sulla chiesa e il battistero
Dalle cronache e dagli atti sappiamo che nel XV secolo il battistero era gestito, al pari di ogni altra
chiesa, da una comunità di parrocchiani. Il concetto di parrocchia deve essere inteso come il
consorzio delle persone che, avendo contribuito alla formazione del patrimonio, si accollava i
problemi amministrativi della chiesa.
I vicini o parrocchiani si riunivano periodicamente in assemblea ed incaricavano delegazioni e
commissioni a trattare problemi specifici.
Nel 1426 l‘assemblea elesse una commissione che, dotata di ampi poteri, attuasse una rigorosa
amministrazione del patrimonio del battistero. I mezzi per tenerlo in vita, acquisiti attraverso lasciti
e donazioni e attraverso le rendite dei terreni, certamente non mancavano. Il vero problema era
costituito dalle condizioni dell‘edificio, che richiedevano una manutenzione onerosa e forse un
intervento strutturale.
E‘ certo che agli inizi del 1400 si pose riparo alle crepe di S. Eufemia. Verosimilmente però mancò
un‘iniziativa del genere per il battistero, ormai decrepito.
Nel XVI secolo coloro che incameravano le rendite dei terreni del battistero di S. Giovanni
appartenevano alle famiglie più facoltose, ma forse anche le meno disinteressate: nel 1565 uno dei
primi visitatori apostolici denunciava nella sua relazione che del S. Giovanni non restavano che i
muri, il tetto era crollato e la porta era scomparsa. Tale degrado si sarebbe potuto evitare, a suo
parere, se solo si fossero conosciuti i beni patrimoniali ed i loro sfruttatori.
S. Carlo giunse in visita il 17 aprile 1574. Nelle disposizioni impartite dopo la visita sembra
preoccuparsi di ricavare entro S. Eufemia una cappella in cui allestire il nuovo battistero. Non
risulta però che abbia decretato la distruzione di S. Giovanni, anche se ormai fatiscente.
Dalle relazioni delle successive visite apostoliche non si coglie alcun segno di vita del battistero.
Nel corso dello scavo sono stati effettuati anche altri rinvenimenti: nella zona ovest dell‘area
scavata sono state identificate tracce di attività probabilmente artigianali: costituite da una struttura
che doveva avere un diametro di circa 1 metro, al cui interno sono stati trovati cenere, carboni,
frammenti di laterizi e argilla cotta. Questa struttura è forse identificabile con una fornace e può
essere messa in relazione a fasi di cantiere connesse con le ristrutturazioni del battistero (in questo
caso dovrebbe essere datata all‘inizio del Periodo III) oppure ad un utilizzo per scopi artigianali (in
tal caso la sua datazione sarebbe da collocare alla fine del Periodo IV). La datazione verrebbe
quindi a collocarsi tra l‘VIII – IX e il XII – XIII secolo.
Nartece: nelle antiche chiese romaniche o nelle basiliche paleocristiane, il porticato esterno della
facciata o il vestibolo interno riservato ai catecumeni o ai fedeli (dal Dizionario Sabatini Coletti)
Il Battistero in rapporto con
la chiesa di S. Eufemia alla
fase iniziale
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Oratorio di San Bernardino
(fraz. Arcellasco – loc. San Bernardino)
L‘edificio, in stile tardo-gotico, risale al sec. XV e si caratterizza per il campaniletto a vela. L‘interno è
ad una sola navata con due archi ogivali ed un arco a tutto sesto, che precede la parte absidale a pianta
quadrata, voltata a botte, con l‘unico altare. Anticamente la chiesetta era dotata di tre altari: l‘altare
maggiore, a desta l‘altare della Beata Vergine, a sinistra l‘altare dedicato ai Re Magi (come risulta dagli
atti di visita dei delegati della Curia, anteriori alle visite di San Carlo).
Gli ingressi erano due: il principale sulla facciata, sopra il quale era collocata la campana, l‘altro invece
si trovava su uno dei lati. Gli interventi eseguiti nei secoli hanno portato allo spostamento del campanile
sul lato destro, d‘angolo con la facciata, inoltre al corpo del fabbricato è stata aggiunta la sacrestia alla
quale si può accedere attraverso l‘ingresso laterale della chiesa.
Sopra l‘arco e nella volta all‘interno dell‘abside sono stati portati in luce, nel corso dei restauri del 1956-
57 (grazie ai quali è stato rifatto il tetto e l’altare è stato rivestito di marmi), affreschi cinquecenteschi
prima celati sotto l‘intonaco (probabilmente nascosti sotto la calce forse durante la peste del 1680,
quando la chiesetta era stata trasformata in lazzaretto). Altri restauri sono stati effettuati nel 1983
(rifacimento del tetto, scrostamento totale delle facciate per togliere l’intonaco giallo del 1957 che
nascondeva la muratura in pietra a vista, ristrutturazione delle facciate, sistemazione del campanile con la
ricollocazione della campana e deumidificazione dei muri perimetrali).
La decorazione parietale predominante è quattrocentesca, realizzata in fasi successive, con una aggiunta
cinquecentesca e tre settecentesche. L‘ordine cronologico di esecuzione è stato ricavato dalla
ricostruzione, nel corso del restauro, delle ―giornate‖ impiegate per eseguire gli affreschi. Dal momento
che manca la continuità tra gli affreschi dell‘abside e quelli dell‘arco trionfale, la sequenza esecutiva è
stata riferita a due cicli tra loro non correlati.
Gli affreschi dell‘abside sarebbero stati eseguiti in quest‘ordine: Cristo nella mandorla – Crocifissione –
Quattro Santi (l‘ultimo affresco è datato 1459, pertanto gli altri due sono sicuramente antecedenti a
questa data).
Al centro della volta absidale è raffigurato il Cristo benedicente nella mandorla (l‘umidità ne ha reso
illeggibile il volto ed il libro che tiene aperto sulle ginocchia). Ai lati sono posti i simboli dei quattro
Evangelisti, dei quali sono ancora identificabili l‘angelo e il leone, l‘aquila è visibile solo parzialmente, il
bue è scomparso.
Gli affreschi dell‘arco trionfale sarebbero stati eseguiti secondo l‘ordine Adorazione dei Magi –
Annunciazione – Crocifissione (settecentesco). Sebbene non vi siano datazioni di riferimento, si può
comunque collocare l‘Adorazione dei Magi, realizzata in stile gotico internazionale, in un periodo molto
prossimo a quello in cui sono stati realizzati gli affreschi del vano absidale.
Nella pala d‘altare è raffigurata la Crocifissione: ai piedi della croce sono rappresentati la Madonna e S.
Giovanni, sopra vi sono due angeli che raccolgono il sangue che sgorga dalle ferite di Cristo.
A destra della pala d‘altare è raffigurato San Carlo, a sinistra San Bernardino.
Bibliografia:
- BALLABIO E., 1993 – Un santo, una chiesa, un passato…realtà storica di una frazione. Quaderni
Erbesi, Vol. XIV (1992): 29-45.
- CERIANI E., MALETTI L., MAURI L. – Testimonianze di architettura e di iconografia – Edifici
religiosi cinquecenteschi per il culto nella Pieve di Incino. Tesi di Laurea.
- ISACCHI F., 1983 – Le chiese di Erba. Quaderni Erbesi, Vol. V (1982): 123-125.
- RIBONI L., 1993 – Reintegrazione di un monumento del passato e del presente come testimonianza di
un culto passato, presente e futuro. Quaderni Erbesi, Vol. XIV (1992): 19-28.
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Borgo medievale di Villincino
Piccolo borgo di antichissima origine, Villincino fu castello nel senso di paese fortificato.
Sorse probabilmente sul finire del X secolo, al tempo delle invasioni degli Ungari. Dapprima
appartenente alla nobile famiglia Carpani, successivamente fece parte di un vasto feudo dei conti dal
Verme. Nel III secolo la proprietà si trovò contesa nella lotte fra i Visconti e i Torriani ed è in questo
periodo che l‘abitato divenne tranquilla dimora di nobili famiglie.
Nella piazzetta Giuseppina Prina, al n. 5, si trova la dimora già appartenente ai Carpani: sotto il porticato
ad archi ribassati si scorgono soffitti a cassettoni quattrocenteschi, con lacunari in parte affrescati con
ritratti di gentiluomini e dame della casata, che pare siano attribuibili all‘opera di un pittore
contemporaneo al maestro della Pala Sforzesca (1490 circa).
Nella piccola piazza Torre si trova il Forte, del quale oggi resta soltanto un rudere. E‘ in posizione
lievemente sopraelevata e il suo portale a volta chiusa conserva un‘elegante bifora con colonnetta in
marmo di Candoglia.
La passeggiata è poi punteggiata da nobili case recanti tracce architettoniche medievali. Al n. 6. si trova
la casa Guenzati Rivolta, alla quale è appoggiata la torre: in questo edificio un affresco trecentesco a
forma di medaglione, sostenuto da due figure femminili in raffinati costumi medievali, raffigura il
castello, insegna della famiglia Carpani.
Passando attraverso la Torre si accede alla ―contrada di Villincino‖, le cui case sorgono sull‘area in cui si
ergeva la Rocca. La contrada è chiusa poco oltre dalla Pusterla, torre in pietra a vista, con piccole finestre
a sesto acuto e una loggia rustica. Appoggiata al lato della Pusterla è la ―gabella‖, luogo preposto alla
riscossione dei diritti che il borgo richiedeva ai mercanti per l‘introduzione di certe merci entro le mura.
Sottopassata la ―Pusterla‖, si continua per la via detta ―Contrada di Villincino‖, che conserva ancora tratti
del riscioll, caratteristica pavimentazione a sassi levigati, tipica delle strade della Brianza.
Nei periodi funestati dalle epidemie dal Borgo medievale di Villincino partivano le lunghe processioni
che giungevano fino alla chiesa plebana di Sant‘Eufemia.
Bibliografia:
ISACCHI F., 1982 - Castelli e rocche medievali nel Pian d’Erba. Quaderni Erbesi, Vol. IV: pp. 21-27.
Oratorio dei Re Magi
L‘ oratorio dei Re Magi (XVI secolo) è situato nella frazione di Carpesino.
Carpesino, borgo medievale della piana d‘Erba, apparteneva con altri territori alla Pieve di Incino.
Sul piano civile il paese era amministrato dal comune di Brugora di Arcellasco.
Nel 1512 i parrocchiani della chiesa di Santa Maria e dei Magi avviarono la procedura per ottenere la
separazione da San Pietro di Brugora, alla quale si trovarono sottoposti.
Il culto dei magi, tanto sentito dagli abitanti di Carpesino, come del resto in tutta la diocesi di Milano,
rimase nel tempo così vivo che quando, nel 1860 l‘oratorio venne consacrato solo esclusivamente a
Santa Maria delle Rose, la popolazione continuò a chiamarlo oratorio dei Magi.
Esso servì per tre secoli anche da cappella privata all‘adiacente Villa Nava; in esso è stato peraltro
celebrato, nell‘anno 1806, il matrimonio del poeta milanese Carlo Porta con Vincenza Prevosti.
Nel 1888 i Padri Barnabiti costruirono nelle vicinanze la loro nuova chiesa.
Questo significò per l‘oratorio un lento e inarrestabile declino fino ad arrivare ad uno stato di
completo degrado e di totale abbandono.
L‘oratorio dei Re Magi è rinato grazie ad un intervento di restauro conservativo finanziato dal
Comune di Erba, dalla Regione Lombardia e da alcuni privati.
La facciata, a capanna, presenta un bellissimo portale in granito sormontato da una finestra circolare.
L‘interno è costituito da una sola navata con tetto a due falde e struttura a vista sostenuta da un arco
ogivale, un altro arco di minore dimensioni delimita la zona del presbiterio.
Sul lato destro dell‘arco ogivale minore è stato restaurato l‘affresco settecentesco raffigurante San
Rocco protettore degli appestati e dei viandanti.
Purtroppo, alcuni anni or sono, il notevole affresco settecentesco raffigurante ― L‘adorazione dei
Magi‖ che costituiva la pala dell‘altare è stato asportato da ignoti e ne è rimasta a mala pena visibile la
sinopia sotto la quale, a seguito dello strappo, si sono evidenziati strati di intonaco con dipinti a fresco
di epoca precedente.
Si è provveduto allo strappo della traccia dell‘ affresco, sopra citato, e il suo mantenimento in loco
quale testimonianza di una memoria storica degli avvenimenti intercorsi sulle pitture all‘interno della
chiesa.
Recuperando una piccolissima immagine in bianco e nero degli anni settanta, del secolo scorso,
dell‘affresco si è deciso di riproporre su un altro pannello un‘interpretazione dell‘opera all‘originale,
che però non vuole essere falsificante rispetto alla traccia rimasta dell‘originale, ma vuole essere un‘
interpretazione.
Abbattuta la grossa cornice ad intonaco che riquadrava l‘affresco centrale, si è scoperta una pittura
completamente martellinata sicuramente. Procedendo lentamente si è riusciti a recuperare sufficienti
frammenti per poter interpretare la struttura originaria delle pitture murali che coprivano
completamente la parete di fondo dell‘altare, riquadrandola in tre scene dedicate rispettivamente a:
-nella parte alta una scena raffigurante la Crocifissione
-nella fascia sottostante due riquadri raffiguranti l‘ Adorazione dei Magi e l‘altro San Rocco.
Per quanto riguarda l‘altare si è completamente eliminata tutta la ridipintura a tinta piatta stesa nei
precedenti restauri, recuperando tracce di un intervento all‘origine in finto marmo. E‘ stato possibile
inoltre recuperare anche la mensa originaria, nascosta da un intervento novecentesco, che prevedeva
un altare una quadrettatura fiorata e ai lati risvolti di una tovaglia in lino bianco ricamato.
Il pavimento originale in cotto variegato è stato interessato da un restauro conservativo.
L‘oratorio dei Re Magi è stato posto sotto vincolo dalla Soprintendenza dei Beni Architettonici della
Lombardia nel 1974 ed è tuttora consacrato.
Eremo di San Salvatore
Ex convento di Cappuccini, fondato su donazione dei Carpani. Più volte ristrutturato, conserva un
chiostro cinquecentesco originale.
La chiesa, consacrata dal Vescovo mons. Girolamo Ferregatti il 24 ottobre 1562, ha un notevole
affresco della Crocifissione di Nichelino da Besozzo (1490), mutilato nella parte inferiore.
San Carlo Borromeo, in occasione di una sua visita, ordinò alcune modifiche da apportarsi secondo le
norme liturgiche del tempo. Egli stesso poi consacrò il nuovo altare il 26 agosto 1584 e in quella
circostanza rimase alcuni giorni con i frati a vivere la loro vita austera e povera.
Si può vedere ancora oggi un dipinto del Cortesella da Como raffigurante S. Felice da Cantalice,
cappuccino; un altro ad opera di Daniele Crespi (1600) raffigurante la Beata Vergine Maria. Nel
piccolo refettorio si può ammirare la stupenda scena dell‘estasi di S. Francesco, opera di Mazzuchelli
detto il ―Morazzone‖.
In seguito alla soppressione di tutti gli Ordini religiosi con noto decreto di Napoleone, datato 4 ottobre
1810, anche il convento di S. Salvatore veniva chiuso. Fu incaricato della vendita il conte Giuseppe
Luodi, Ministro della Giustizia, che attraverso asta lo assegnava al Sig. Giuseppe Cerini di Crevenna;
in seguito passò nelle mani del prof. Antonio Borselli, poi ai suoi eredi. Dal 1 maggio 1952 fino ai
giorni nostri questo eremo di preghiera continua la sua funzione nei componenti l‘Istituto Secolare
Milites Christi nella diocesi di Milano.
Per la visita al convento si chieda l‘autorizzazione, sul posto, ai responsabili dell‘ Istituto Secolare
Milites Christis.
Foto da www.lombardiacultura.it
Chiesa di Casiglio
La parrocchia della frazione Parravicino è indicata con il nome di Casiglio.
Fu il vescovo Beltramino Parravicino a rivolgere un‘istanza al Papa per potere erigere una parrocchia
speciale per gli abitanti di Casiglio.
La parrocchia di Casiglio, situata all‘estremo ovest del Comune di Erba, si trova al centro di un vasto
territorio comprendente Parravicino, Campolasso, Parzano, con un migliaio di abitanti.
L‘edificio religioso originario, edificato nel 1344 dal vescovo Beltramino e dedicato per suo volere a
Maria Assunta, consisteva in una piccola aula quadrata con travatura, lunga ―13 braccia e larga 10‖.
Fu visitato da San Carlo nel 1574.
La chiesa fu ampliata nel 1777 e intorno agli anni 1842-46 fu totalmente ristrutturata nella forma
attuale con l‘aggiunta dell‘abside.
La chiesa attuale si presenta costituita da due edifici: la chiesa vera e propria e una piccola chiesa
adiacente, ad est, utilizzata per funzioni secondarie.
Il campanile è inserito nella muratura della chiesa, alla quale sono parzialmente addossate la canonica
e la casa del sagrestano.
L‘interno, ad una navata, conserva due cappelle: la prima a destra contiene il sarcofago del vescovo
Beltramino Parravicino, che istituì la parrocchia il 4 ottobre 1344 e fu personaggio eminente della
nobile famiglia per lungo tempo feudataria del luogo.
Uomo attivissimo, Beltramino ricoprì importanti cariche: fu avvocato per molto tempo alla Corte
Romana, nel 1336 vescovo di Chieti, Nunzio Apostolico presso il re d‘ Argona, nel 1339 vescovo di
Como, nel 1340 vescovo di Bologna e quindi Nunzio Governatore e Legato a Latere per il Papa
Benedetto XI. Infine nel 1346 entrò in possesso dei beni del Canonicato di S. Bartolomeo d‘ Incino
( il piccolo oratorio trecentesco con abside rotonda conservato nella villa ex-Belgioioso ).
Recatosi ad Avignone al seguito del Papa, ivi morì nel 1351. Per suo desiderio fu traslato e sepolto
nella chiesa di Casiglio di era fondatore.
L‘ urna marmorea trecentesca, in cui riposano le sue spoglie, sorretta da due colonnine cilindriche e
ornata della figura del vescovo rivestito del pallio, della stola, della mitra, reca scolpiti: Gesù
Crocifisso, La Beata Vergine e San Giovanni Evangelista.
E‘ attribuibile a Guido da Campione.
Una scritta sul sacello ricorda: ―Vir in Cristo Reverendus D. Beltraminus D. Casello Dominus in hoc
tumulo tumulatus 1351 Die 7 Augusti. In Curia Romana suum diem clausit extremum. Indulgentiam
unius anni, et quadraginta dierum huic suae acclesiae impetravit et Bononiensis Ecclesiae, ubi
Episcopus Dominus Zuucconus frater eius fieri hoc opus.‖
Nel 1941 la tomba fu aperta per spostamento, e si vide la salma del vescovo intatta ed il viso
somigliantissimo alla sua riproduzione scultorea.
Bibliografia:
ISACCHI F., 1981 - Castelli e rocche medievali nel Pian d’Erba. Quaderni Erbesi, Vol. IV: pp. 39,
40.
ISACCHI F., 1982 - Le Chiese di Erba. Quaderni Erbesi, Vol. V: pp. 98-101
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Bibliografia:
ISACCHI F., 1981 - Castelli e rocche medioevali nel Pian d’Erba. Quaderni Erbesi, Vol, IV: pp. 18-21.
LONGONI V., 1993 - Il castello di Erba. Quaderni Erbesi, Vol. XIV: pp. 75-110.
Il Castello di Erba
L‘edificio, ben fortificato, riuscì a resistere agli assalti e alle distruzioni apportate durante le scorrerie
di Federico Barbarossa e le guerre di Como coi Rusca, i Torriani, i Visconti e gli Sforza.
Esso era situato in cima ad un poggio a terrazze e si apriva sul grande parco che sovrasta la parte alta
di Erba e la distesa di colline fino a Parravicino e al lago di Alserio. In questo modo era possibile
mantenere il controllo della zona circostante e in caso di attacco riuscire a preparare una
controffensiva.
I primi proprietari, membri della famiglia ghibellina Di Herba, divengono vicari imperiali per decreto
di Federico Barbarossa, poi marchesi del luogo e, sul finire del '600, uniscono il loro cognome a
quello degli Odescalchi in virtù della parentela con il papa Innocenzo XI.
Tra il luglio e l‘agosto del 1160 un cronista del tempo scrisse che i Milanesi attaccarono ed
espugnarono Cesana, Cornero, Erba, Parravicino e altri luoghi. Era scoppiata la battaglia di Carcano
che vide da una parte i Milanesi alleati provvisoriamente con i castellani di Erba e di Orsenigo e
dall‘altra le truppe imperiali del Barbarossa. Inizialmente i Milanesi ebbero la peggio, ma il deciso
intervento dei castellani permise loro di riprendersi e di sbaragliare il nemico.
Per ricordare questo glorioso passato, la città di Erba, in una sezione del suo stemma, conserva la
croce rossa in campo bianco, insegna propria del comune di Milano.
(Inserisci p. 80 vol 14)
Nel 1278 il castello cade nelle mani di Cassone della Torre, il quale l'aveva cinto d'assedio per
vendicarsi dei castellani alleatisi nella battaglia di Desio nel 1277 con il suo avversario, l'arcivescovo
Ottone Visconti.
Nel 1404 Giovanni da Carcano, condottiero dei Visconti , a capo di una banda di mercenari, rinchiude
nel castello Franchino e Ottone Rusca fino alla conclusione della pace tra Milano e Como.
Nei primi decenni del secolo scorso una famiglia milanese, i Valaperta, sceglie questa proprietà per
porvi la propria residenza estiva. Allo scopo di conservare al luogo il nome di castello i Valaperta,
fatti demolire i pochi resti della fortificazione medioevale, vollero erigere due torrioni che ancora oggi
dominano il poggio.
Qui sotto vi proponiamo la lettura di un antico contratto d‘affitto di una vigna posta nel territorio di
Boccogna del castello di Erba.
Giovedì 5 maggio 1418 messer Bernardo de Merono figlio del fu messer Giacomo ed abitante ad Erba
nella pieve d‘Incino del ducato di Milano, e maestro Piero de Colderi figlio del fu maestro Toma ed
abitante a Lezia nella pieve d‘Incino, entrambi in veste di sindaci e procuratori all‘uopo nominati dal
comune e dalla comunità dei castellani della castellanza di Erba, come risulta da pubblico atto di
procura e sindacato redatto da me notaio sottoscritto, in veste di sindaci e procuratori affidarono a
titolo di locazione ed affitto, con l‘impegno a valorizzare il bene e non a deprezzarlo secondo gli usi di
corretta locazione e secondo le consuetudini del comune di Milano, ad Antonio detto Cuccu de
Brianza figlio del fu Gaspare ed abitante ad Erba, il quale era presente e si impegnava, precisamente
tutto il piano del castello chiamato Castello di Erba e i rilievi e la mota* di tale castello che gli usi
collocano a monte ed a mattina, il tutto in un unico lotto e sito nel luogo o territorio di Erba in località
chiamata castello e confinante il tutto da un lato con la ―zocca‖ ovvero proprietà della comunità dei
detti castellani, da altro lato ancora con proprietà collettive e che sono tenute dal figlio del fu messer
Beltramino de Parravicino, da altro lato ancora con beni collettivi tenuti dal figlio di Panessio
dell‘Orto e sull‘ultimo lato con la strada, il tutto per una superficie di circa 4 pertiche. Inoltre gli
affidarono tutti i diritti, ecc.
Con il patto specifico ed espresso tra i detti contraenti e con gli stessi titoli che il citato conduttore sia
impegnato, e tale si ritenga dichiaratamente, a pianare e coltivare tutto il detto piano di vitti e da esse
trarre vino.
Ciò venne fatto nel luogo di Erba in casa de messer Bernardo ed alla presenza di Beltramo Bigiero
figlio del fu Dionigi e di Filippo de Molteno figlio di Giovanni detto Vella entrambi abitanti ad Erba e
notai in veste di pronotai.
Furono testimoni Biagio de Stopani figlio del fu Lanzio ed abitante a Ponteligno, Masolo e Giovanni
de Torigio figlio del fu Zane ed abitante a Villa nella pieve d‘Incino, tutti ben conosciuto.
Mota: ostacolo naturale o artificiale particolarmente scosceso e difficilmente accessibile, è tipico
delle strutture difensive.
Il Castello di Casiglio
Il castello di Casiglio è uno dei monumenti della storica famiglia dei Parravicini, che lasciarono la
loro impronta non solo nell‘abitato fortificato da cui presero il nome, ma anche nei castelli di
Casiglio, Pomerio, Tregolo di Costamasnaga. E‘ probabile che dominassero anche sui castelli di Erba
e di Buccinogo.
Il castello di Casiglio può essere considerato con sicurezza, considerato uno dei capisaldi della
fazione guelfa, la quale, nell‘Erbese e nel Comasco, ebbe tra i suoi alfieri proprio i Parravicini.
La famiglia si dedicò oltre che alla costruzione di fortificazioni, anche alla realizzazione di chiese,
alcune delle quali rimaste come cappelle private, altre invece aperte alle popolazioni. Una di queste è
Santa Maria di Casiglio entro la quale riposa, in un‘urna marmorea trecentesca sorretta da due
colonne cilindriche, il vescovo Beltramino Parravicini. Probabilmente la chiesa di Santa Maria non
sorgeva nell‘area del castello, ma ad una certa distanza.
Il castello di Casiglio è uno dei monumenti della storica famiglia dei Parravicini, che lasciarono la
loro impronta non solo nell‘abitato fortificato da cui presero il nome, ma anche nei castelli di
Casiglio, Pomerio, Tregolo di Costamasnaga. E‘ probabile che dominassero anche sui castelli di Erba
e di Buccinigo.
Il castello di Casiglio può essere considerato con sicurezza uno dei capisaldi della fazione guelfa, la
quale, nell‘Erbese e nel Comasco, ebbe tra i suoi alfieri proprio i Parravicini.
La famiglia si dedicò, oltre che alla costruzione di fortificazioni, anche alla realizzazione di chiese,
alcune delle quali rimaste come cappelle private, altre invece aperte alle popolazioni. Una di queste è
Santa Maria di Casiglio entro la quale riposa, in un‘urna marmorea trecentesca sorretta da due
colonne cilindriche, il vescovo Beltramino Parravicini. Probabilmente la chiesa di Santa Maria non
sorgeva nell‘area del castello, ma ad una certa distanza.
In un antico volume di Genealogie intitolato ―General Stanbaum der Parravicini‖ è scritto che il
fondatore dei castelli di Casiglio e di Pomerio fu il vescovo Beltramino Parravicini. Dal momento
però che il vescovo visse nel sec. XIV, è evidente che costruì i due castelli di Pomerio e Casiglio
sulle rovine di fortificazioni già preesistenti, tanto più che su un documento dell‘archivio parrocchiale
si legge ―Beltramino, nato nel Castello di Casiglio o Castellanza‖. Se ne deduce quindi che i due
castelli non furono edificati da Beltramino, ma da lui restaurati.
Durante i lavoti di restauro sono venuti alla luce, nell‘area del cortile d‘onore, tre frammenti di piatti
medioevali in ceramica dipinta a motivi geometrici verdi su fondo beige, risalenti ai secoli XIV e
XVI, simili a quelli recuperati al Castello di Pomerio.
Il Castello di Pomerio
Il Castello di Pomerio è ricordato nei documenti medioevali come ―el loco de Pomé‖. Secondo V.
Longoni il nome di Pomerio è facilmente riconducibile al ―pometo‖, ossia ad una piantagione di meli.
In queste zone questo frutteto doveva essere anticamente diffuso, perché nel territorio si segnalava
anche la chiesa di San Pietro a Pomerio, ad Arcellasco.
Il castello sorge in posizione sopraelevata e ciò ha fatto pensare che al suo interno ci fosse una
guarnigione. Insieme a Casiglio, Carcano ed altri costituiva la catena difensiva che proteggeva il Pian
d‘Erba. La sua costruzione risale al secolo XI – XII, su preesistenti fortificazioni di cui si ha la
testimonianza. Successivi ampliamenti e modifiche furono effettuati nei secoli XIV e XV.
E‘ certo il passaggio, dopo i Parravicini feudatari per lungo tempo, dei Visconti e dei Carpani, come
attestano gli stemmi conservati su alcune pareti. Nel 1647 fu infeudato dagli Archinto e solo più tardi
insieme a Parravicino la proprietà tornò ai conti Parravicini, dai quali nello scorso secolo i Corti, noti
setaioli della zona, la acquistarono per porvi la sede della loro industria. Attualmente il castello è
adibito ad albergo e ristorante.
Il complesso si sviluppa su pianta quadrangolare con cortile interno cristallizzato nel tempo intorno
ad una primitiva torre di segnalazione e a guardia della strada.
Varcando l‘ingresso, situato nella torre, ci si ritrova nel cortile d‘onore contornato da loggiati e dove
fanno bello spicco due gelsi secolari a ricordo dell‘antica filanda. Esso però non costituisce l‘accesso
originario, il quale si trova sulla provinciale Erba - Como e che rappresenta la parte più antica ovvero
un avanzo di torre in stile lombardo con la porta simile a quella della rocca di Villincino.
Sul lato opposto all‘ingresso vi è uno spazioso porticato, ora chiuso da ampie vetrate, che supporta un
sovrastante loggiato di ugual dimensione che permette l‘accesso ad ampi locali suddivisi tra loro con
muri di pietra a vista.
La corte contiene due pozzi ―da butto‖ in cui sono stati rinvenuti parecchi e interessanti frammenti di
piatti e ciotole medioevali in ceramica.
Le aperture del piano terreno e del primo piano sono quasi tutte riquadrate in cotto, alcune ad arco
acuto, molte altre a pieno centro, molte delle quali in stile gotico.
All‘interno si possono ammirare ampie sale arricchite da maestosi camini ed affreschi come quelli del
salone di rappresentanza al secondo piano, tra i quali uno raffigurante la Madonna con il Bambino e
l‘altro con l‘immagine di San Benedetto, mentre sulle pareti della sala attigua restano alcuni
frammenti di decorazioni recanti gli stemmi dei Parravicini e dei Carpani.
Bibliografia:
ISACCHI F., 1981: Castelli e rocche medioevali nel Pian d‘Erba. Quaderni Erbesi, Vol. IV
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La Torre dei Parravicini
Nel borgo medievale di Parravicino, ora parte del comune di Erba, all‘interno di un grande parco, si
nasconde la residenza dell‘antica casata dei Parravicini. L‘ esistenza di un castello in Parravicino è
provata da vari documenti: tra quelli il Regesto degli atti notarili di C. Cristiani dal 1391 al 1399.
Costruì il castello Fabrizio Parravicini, figlio di Beliamo, vissuto intorno al 1250. Accadde che
quando i milanesi assalirono i nostri castelli prima di demolire quello di Carcano, distrussero il
castello di Erba e quello di Parravicino. All‘ inizio del ‗600 un ramo dei Parravicini fa costruire una
villa sopra i ruderi del castello. Oggi unico avanzo del castello rimane questa torre stranamente
pendente sopra un basamento lasciato dritto. Degno di nota è l‘interno che presenta una volta a
crociera con quattro pennacchi negli angoli. Ai piedi della costruzione è conservato uno di quei
massi-avelli che costituiscono una prerogativa del territorio comasco.
Castello di Casiglio
Castello di Pomerio
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Villa Amalia
È una delle dimore storiche della Brianza che ancor oggi conserva la sua architettura neoclassica e le
tracce di un passato splendido: nel secolo scorso infatti fu la protagonista di importanti momenti della
cultura erbese.
L‘edificio risale all‘inizio del XIX secolo: la sua costruzione si deve all‘avvocato milanese Rocco
Marliani, il quale la edificò sui ruderi di un vecchio convento. L‘architetto che presentò il lavoro fu il
viennese Leopoldo Pollak, al quale si deve anche la progettazione del parco con i suoi arbusti secolari.
Purtroppo il vasto progetto del Pollak non poté però essere realizzato e si dovette ripiegare
sull‘adattamento del convento a residenza estiva. Attraverso il progetto del Pollak il convento perse le
sue linee originarie e assunse uno stile neoclassico.
La costruzione terminò nel 1801: ciò è provato dalla lapide, situata su una parete del chiostro, dedicata
alla moglie del Marliani: Amalia.
Ospiti del Marliani a Villa Amalia furono importanti letterati italiani e stranieri tra i quali Foscolo,
Parini, Monti e Stendhal
L‘edificio, ora di proprietà dell‘Amministrazione Provinciale ha subito tra gli anni ‗70 e ‗80 diversi
incendi (di origine probabilmente dolosa) che hanno danneggiato seriamente l‘interno, parte del
parquet in radica lavorata del salotto detto ―Rosso‖, della ―Sala Impero‖ e in modo particolare quello
della ―Sala del Cavallo‖, che è stata completamente devastata. Oltre ai pavimenti, le fiamme hanno
rovinato gli stucchi del Mazzola (vedi chi è), le carte da parati ed una parte dell‘inimitabile
arredamento stile impero.
Negli anni ‗80 l‘edificio è stato sede del liceo ―Galilei‖, destinazione d‘uso che ha suscitato molte
critiche da parte degli ambienti culturali erbesi e della Soprintendenza milanese, tanto da indurre
l‘Ente provinciale ad un ripensamento. Si è quindi pensato di utilizzare la villa come centro di
attrazione artistica, ma il progetto non è stato attuato. Attualmente nella villa trova sede l‘Istituto
Magistrale ―Carlo Porta‖.
Bibliografia:
BALZARETTI L., 1964 - Villa Amalia. A cura del Consiglio Provinciale, Como, 1964.
BIANCHI M., 1983 - Una parentesi su Villa Amalia. Quaderni Erbesi, Vol VI: pp. 21-23.
Villa San Giuseppe
Secondo alcuni fu progettata dall‘architetto Gianluca Somaglia, secondo altri da Giacomo Moraglia,
che era attivo nella zona (progettista della Villa del Soldo di Alzate e di Villa Majnoni di
Castelnuovo).
La Villa Comunale di Crevenna, in stile tardo-classico, venne edificata su una preesistente casa
medioevale di cui restano, in alcuni locali, le tracce di un portico ribassato, appartenente forse ad una
casa quattrocentesca e di proprietà prima della famiglia Cravenna e poi dal ‗500 al ‗700 di una
famiglia di notai, i Galimberti (nel catasto teresiano figurano come proprietari).
Nel ‗700 i Galimberti vendettero la proprietà ai Ceriani, una famiglia di setaioli (sul confine che dà sul
torrente rimangono tracce della filanda dei Cerini: un cordolo di serizzo e un fronte grigio). Nel 1860
circa la villa venne venduta alla famiglia Bonnefoi.
Successivamente, dal 1870 alla prima metà del 1900, subentrò la famiglia Bressi, alla quale si deve la
costruzione della torre in stile neogotico posta sul lato destro (dando le spalle all‘entrata) della villa.
Anche questa famiglia era dedita alla lavorazione della seta e per questo motivo rilevò la filanda.
L‘ala in cui ora si trova il Museo Civico era la zona di servizio e probabilmente vi venivano allevati i
bachi da seta.
Dal 1920 fino a dopo la II guerra mondiale l‘edificio passò nelle mani della famiglia Fontana e poi fu
venduto alle suore di Vigevano, dalle quali la Villa prese il nome di ―Villa San Giuseppe‖.
Attualmente è proprietà comunale ed è sede del Museo, della Biblioteca e di varie associazioni.
Le sale all‘interno hanno pareti affrescate e soffitti a cassettoni.
Bibliografia:
AA.VV, 1982 - Erba, un ambiente. Meroni Tipo-litografia Editrice, Albese con Cassano (CO): p. 79.
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Il Triangolo
Lariano
L’angolo
dell’archeologo
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La zona che comprende l‘ Alta Brianza e il cosiddetto ―Triangolo Lariano‖, chiuso tra il ramo di
Lecco e il ramo di Como del Lario, continua oggi ad attrarre turisti.
Ai primi dell‘ ottocento i milanesi facoltosi cominciarono ad affacciarsi alla piana d‘ Erba.
Occorreva una giornata, o poco meno, per arrivarci da Milano, ma ne valeva la pena. Tutti gli
intellettuali dell‘epoca accorsero a dirne meraviglie: tra questi il Foscolo e il Monti.
E un omaggio al Parini non poteva mancare. Era nato, infatti, a Bosisio, non lontano da Erba, nel
1729. E nel bel giardino di villa Amalia, costruita dall’architetto Pollack, il signor Marliani gli dedicò
un busto e un organo ad acqua, che entrava in funzione quando un visitatore si avvicinava
passeggiando al monumento. Il busto c‘è ancora, mentre dell‘ingegnoso meccanismo musicale si è
persa traccia.
Recandosi a Erba, si costeggia la sponda settentrionale del Lago di Pusiano, e si passa in vista
dell‘Isola dei Cipressi. La profondità massima del lago è di 24 metri: è il più profondo dei laghi della
Brianza.
Procedendo lungo la Lecco - Como fino ad Albavilla e seguendo di qui le indicazioni per l‘ Alpe del
Viceré troviamo un‘ altra passeggiata classica che è quella che ha per meta la grotta del Buco del
Piombo, famosa caverna lombarda, dove sono stati trovati resti di uomini e animali preistorici.
Noi consigliamo di lasciare l‘automobile al parcheggio dell‘ Alpe e procedere a piedi.
Riprendendo da Albavilla la strada per Erba, suggeriamo una deviazione verso Alserio, per godere la
vista del laghetto omonimo, con le rive invase da canne palustri.
Ritornando a Erba, si può imboccare la strada che porta verso Canzo, costeggiando il lago del Segrino.
E‘ il più piccolo dei laghetti briantei.
E‘ da qui il punto di partenza per l‘ascensione ai famosi Corni che offrono un panorama mozzafiato.
Ma senza spingersi fino alla sommità dei Corni basterà raggiungere la mulattiera che porta all‘eremo
di San Miro che sorge in un recesso ombroso, nel punto che vide le penitenze dell‘ anacoreta vissuto
nel XIV secolo.
Passando per Rezzago e Caglio, e raggiungendo Sormano si raggiunge il rifugio Stoppani, m 1124, da
dove si domina tutta la Valsassina e l‘ alta brianza con lo sfondo delle Grigne.
Dal rifugio Stoppani si può raggiungere il piano del Tivano, ai piedi del monte San Primo.
Dal Piano del Tivano, passando per Zelbio, si scende a Nesso, nel bacino comasco del Lario.
Se invece, da Asso, si tira dritto per la Valassina, si tocca Lasnigo dove nasce il fiume Lambro. Poco
fuori Lasnigo c‘è la chiesa di Sant‘ Alessandro, con campanile romanico del XIII secolo.
Si continua lungo il pendio orientale del San Primo, si passa Barni e Magreglio e ci trova davanti il
Santuario della Madonna del Ghisallo. Ci sono passati ciclisti di tutte le nazioni, le pareti interne sono
rivestite di maglie di tutti i colori e trofei.
Di qui si può ridiscendere per Civenna fino a Bellagio per visitare i bellissimi e incantevoli giardini di
Villa Melzi e il suo museo.
Oppure risalire verso San Primo, attraverso boschi e i massi erratici che il ghiacciaio abduano, in
epoca quartenaria, trascinò fin qua dalle Alpi. Sono in pietra di granito, gneiss e serpentino. Sono stati
utilizzati per millenni per creare avelli, abbeveratoi e materiale da costruzione. Da vedere i massi
erratici del Piano del Rancio.
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Le notizie archeologiche nel territorio lariano risalgono al Paleolitico Medio (120.000 - 35.000 anni
fa). Il Paleolitico è un periodo che avuto una durata assai lunga nell‘evoluzione della civiltà umana e
cronologicamente comprende parte dell‘era quaternaria, coincidendo con il Pleistocene, periodo
segnato da grandi glaciazioni.
L‘uomo si serviva di strumenti in pietra scheggiata, ma non levigata, utilizzati nel corso delle varie
attività della vita umana e della caccia (le armi utilizzate erano quelle da lancio, dal momento che
l‘uso dell‘arco risale al Paleolitico Finale / Mesolitico).
Le prime tracce della presenza umana nelle nostre zone provengono dal Buco del Piombo e da alcune
grotte come il ―Tanun‖ nell‘Alta Valle del Cosia.
Il Buco del Piombo è un‘imponente caverna che si apre all‘inizio della Val Bova, ad una quota di 695
m s.l.m, fa parte del complesso carsico dell‘Alpe Turati e si sviluppa con un ramo principale lungo
oltre 4000 m e altri rami laterali nella cosiddetta ―maiolica lombarda‖, un calcare microcristallino
bianco, ricco di selce, formatosi tra il Giurassico Superiore e il Cretaceo Inferiore (tra 145 e 130
milioni di anni fa), grazie all‘accumulo di organismi marini sedimentati. Alla fine del Cretaceo gli
strati calcarei, trasformati in roccia, sono stati sollevati e ripiegati. Dall‘emersione dei mari in epoca
tardo-terziaria (a partire da circa una ventina di milioni di anni fa), la zona è stata modellata da una
fenomenologia di tipo carsico, che ha prodotto un ambiente ricco di cavità.
L‘origine del nome deriva probabilmente dal colore grigiastro che si forma sugli affioramenti di
maiolica. L‘esplorazione della grotta è terminata negli anni ‗90. Ad essa si accede grazie ad un
imponente ingresso, alto 45 metri e largo 38 metri) e si prosegue poi per un cunicolo orizzontale lungo
185 metri, il quale si biforca, si ricongiunge e di nuovo si divide in cunicoli più piccoli, più bassi e più
pendenti. Nella grotta regna la totale oscurità, che rende ancor più suggestivo lo spettacolo offerto da
stalagmiti, stalattiti e laghetti. Dove c‘è acqua c‘è vita e nella grotta si possono trovare piccoli
organismi appartenenti alla microfauna come diversi tipi di insetti, crostacei e le planarie: queste
ultime sono degli organismi di pochi millimetri che vivono nel fondo sabbioso o fangoso degli stagni,
presentano un corpo appiattito e allungato, nel capo hanno degli ocelli molto semplici e una fossetta
con recettori per le sostanze chimiche. Le planarie hanno una notevole capacità rigenerativa: tagli
trasversali permettono la riformazione di diversi organismi vitali.
A circa 250 metri dall‘ingresso si trova il ―Banco degli Orsi‖, un pacco di sedimenti stratificati della
potenza di 6 metri che contiene anche, soprattutto nella sua parte inferiore, concentrazioni di ferro-
manganese, detriti di calcare e selce e numerosi resti scheletrici di fauna pleistocenica, in particolare
di Ursus spelaeus (comparso nel Quaternario ed estintosi durante l‘ultima glaciazione, circa 18.000-
20.000 anni fa), accumulatisi in seguito a trasporto alluvionale. Nella grotta sono state infatti
evidenziate zone di ―cimitero‖collegate al decesso degli orsi durante il letargo invernale. I resti dei
corpi degli animali devono essere stati trasportati dalle acque sotterranee ed essersi ammassati laddove
la morfologia della parete della caverna o massi di grandi dimensioni hanno creato uno sbarramento.
La cavità non fu frequentata solo da orsi, ma anche dall‘uomo durante il Paleolitico Medio, quando in
Europa viveva l‘Uomo di Neandertal (120.000 - 35/30.000 a.C) e Superiore.
Il passaggio di questi cacciatori nomadi è attestato da manufatti litici (schegge di selce) ritrovati nei
primi 100 metri del corridoio centrale, dove furono accumulati dal torrente che scorre all‘interno della
grotta. Tra queste schegge sono riconoscibili degli strumenti: alcuni raschiatoi semplici convessi, di
cui due sono stati realizzati usando come supporto una lama sottile in apparenza Levallois, alcuni
nuclei ed una punta musteriana, databili al Paleolitico Medio (si tratta quindi di manufatti attribuibili
all‘Uomo di Neandertal), mentre altri elementi, quali due piccole lame-raschiatoio spesse
(confrontabili con le lame aurignaziane o limaces), rimandano alla fase iniziale del Paleolitico
Superiore.
Al di là di queste generiche datazioni, non è possibile fare riferimento ad alcuna industria ben definita.
Sia nel vestibolo che all‘interno della grotta sono inoltre stati trovati materiali più recenti: punte di
freccia genericamente definibili come neo-eneolitiche e frammenti di ceramica, oltre a materiali
d‘epoca romana (IV-VI sec. d.C.) e medievale. Questi ritrovamenti sono giustificati dal fatto che gli
abitanti di Erba e dei paesi limitrofi, durante le guerre medioevali e le pestilenze, cercarono rifugio
proprio qui: la leggenda racconta che nel 1160 gli Erbesi vi si rifugiarono dopo aver vinto la battaglia
di Carcano contro il Barbarossa e che nel 1316 il nobile Guelfo Parravicini vi si ritirò per stendere il
suo testamento. La grotta fu meta di visite di studiosi e villeggianti sin dall'800 ed anche la regina
Margherita di Savoia ne fu assidua frequentatrice.
La grotta del Buco del Piombo e le sue fortificazioni costituiscono un esempio di grande
suggestione dell‘incontro tra l‘attività edificatoria dell‘uomo e l‘opera plurimillenaria della natura. In
questo luogo l‘uomo si è servito della natura per i propri fini difensivi, ma senza forzature che ne
alterassero l‘aspetto originario.
Il bisogno di protezione e rifugio della popolazione del territorio circostante, nei secoli compresi tra
la fine dell‘impero romano e il Rinascimento, ha incontrato qui le alte rocce del grande antro ipogeo e
le ripide pareti dell‘alveo del torrente che rendevano il luogo inaccessibile e contemporaneamente
vivibile. L‘approvvigionamento idrico era garantito e nei periodi piovosi la portata del torrente era in
grado di azionare i meccanismi di macine e frantoi per la lavorazione delle granaglie e dei frutti
spontanei della natura.
Nel caso del Buco del Piombo le opere difensive sfruttavano le ripide variazioni di quota della roccia
dell‘alveo del torrente, sviluppandosi progressivamente verso valle con mura sempre più alte ed
articolate.
Il complesso difensivo si sviluppava da Nord a Sud nella zona più ampia dell‘atrio della grotta e, al
piano della roccia, era diviso in due dall‘alveo del torrente. Un ponte di legno, collocato tra la prima e
la seconda cortina muraria, superava il torrente e permetteva il collegamento tra le due zone della
fortificazione.
La forma in pianta complessiva era quella di un rettangolo con due lati irregolari costituiti dalla
roccia ed una zona centrale che si presentava più bassa in quanto assecondava le profonde variazioni
di quota dovute al percorso delle acque.
L‘ edificazione della fortificazione fu verosimilmente iniziata nel settore più agevole ed importante,
con la creazione della prima cortina muraria principale, in modo da chiudere preliminarmente l‘area
retrostante dell‘insediamento. Successivamente le restanti cortine murarie sono state realizzate
progressivamente procedendo verso valle, raccordandole con le relative strutture trasversali, fino alla
finale costruzione del grande arco al di sopra del torrente in corrispondenza della quarta cortina posta
a difesa della valletta sottostante.
Il complesso difensivo doveva presentarsi nel suo aspetto generale come un vero e proprio castello
―incastrato‖ all‘interno dell‘atrio della grotta.
Le particolari caratteristiche del sito non avevano infatti impedito ai costruttori di realizzare
comunque le torri, il cortile, i magazzini, la chiesa, le aree artigianali e i locali abitativi che si possono
ritrovare in qualsiasi altra fortificazione.
La superficie totale dell‘insediamento si aggirava intorno a mq 2500 mq.
Considerando una superficie media di occupazione di mq 3 per ogni persona, nei vari momenti della
giornata, e tenendo conto dell‘ingombro dei magazzini, delle aree aperte di lavoro o di utilizzo
temporaneo, otteniamo una stima approssimativa del numero di individui che potevano trovarsi
all‘interno dell‘insediamento pari a circa 300-400 unità.
- AA.VV., 2004 - Il Buco del Piombo. Un castello in una grotta. Museo Buco del Piombo, Erba (CO),
Società Archeologica Padana (S.A.P.), Mantova (ivi altra bibiliografia).
- http://www.museobucodelpiombo.it
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Ipotesi ricostruttiva della fortificazione vista
frontalmente da est
Fabio Ombrelli
Ipotesi ricostruttiva della fortificazione
vista da est
Fabio Ombrelli
Foto dal libro ―Un castello in una grotta‖
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Fabio Ombrelli
Fabio Ombrelli
Foto dal libro ―Un castello in una grotta‖
Caverna detta Buco del Piombo
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Glossario:
*Torba: carbon fossile di età relativamente recente: si tratta di materiale ricco di detriti organici che ha
subito un parziale processo di carbonificazione in condizioni di anaerobiosi (assenza di ossigeno).
Rappresenta il primo stadio di carbonizzazione dei resti vegetali.
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Le origini del lago
Il lago di Pusiano, così come gli altri laghi briantei di Alserio e Annone, è di origine glaciale: a partire
da circa 15.000.000 anni fa il ghiacciaio dell‘Adda, che dallo Stelvio aveva invaso la Valtellina e si era
unito ai ghiacciai dello Spluga e della Valchiavenna degradando verso la Brianza e la Pianura Padana,
in seguito alla fine della glaciazione di Würm e al conseguente mutamento delle condizioni climatiche
cominciò a ritirarsi; tra gli effetti del suo avanzamento rimase una conca profonda e ampia, che
divenne il grande lago di Pusiano o Eupili (come veniva chiamato dagli antichi Romani).
Carlo Redaelli nel 1824 ricordava una tradizione popolare che voleva nelle vicinanza del lago di
Pusiano un altro laghetto.
Bosisio, che doveva con molta probabilità essere unito a quello di Pusiano, dove ora scorre la roggia
presso la torbiera della Comarcia. Dove prima c‘era il lago ora sono rimaste le torbiere di Bosisio,
Molteno e Sirone. Il progressivo abbassarsi delle acque ed il continuo accumularsi delle ghiaie portate
dalle alluvioni del Lambro favorirono non solo la divisione dei due laghi, ma causarono anche lo
spostamento del fiume verso ovest. A questo fatto si rimediò nel 1820, con lo scavo di un canale
artificiale detto Lambrone per opera di un Consorzio di proprietari terrieri.
Nel 1801 le abbondanti piogge fecero ancora vedere i due laghi di Alserio e Pusiano riuniti in uno solo.
Il età neolitica il livello delle acque del lago di Pusiano era superiore all‘attuale, come dimostra il
ritrovamento di oggetti in selce nello spessore della torba* in località Comarcia.
IL LAGO DI PUSIANO
Quota 260 m.s.l.m..
Perimetro 10,5 km.
Superficie 5,2 kmq.
Profondità 24m.
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